LA LOTTA SPIETATA CONTRO I RIBELLI PAGANI
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LA STAMPA VA IN GUERRA
NAPOLEONE E L’EGITTOLOGIA DIONISO
IL CULTO PIÙ SELVAGGIO DELL’ANTICA GRECIA
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ÖTZI, LA MUMMIA DELLE ALPI CUBA 1898
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periodicità mensile
IL TRIONFO DI CARLO MAGNO
N. 124 • GIUGNO 2019 • 4,95 E
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GALLA PLACIDIA
IMPERATRICE TRA DUE EPOCHE
Crediamo ancora nelle emozioni
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EDITORIALE
un’opinione pubblica bene informata è la nostra corte suprema. Perché ad essa ci si può sempre appellare contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, l’indifferenza popolare o gli errori del governo; una stampa onesta è lo strumento efficace di un simile appello». Sono parole di Joseph Pulitzer, il giornalista ed editore a cui è intitolato il più celebre premio in ambito giornalistico. Nel 1897 lo stesso Pulitzer possedeva il New York World e fu protagonista, insieme al proprietario del New York Journal William Randolph Hearst, di un’intensa campagna mediatica che spinse gli Stati Uniti a intervenire militarmente a fianco dei ribelli cubani insorti contro il dominio spagnolo dell’isola. I due quotidiani, a cui poco a poco si aggiunsero le altre testate statunitensi, facevano leva sullo spirito patriottico della popolazione, arrivando a pubblicare notizie estremamente amplificate o inventate di sana pianta nel tentativo di convincere il Congresso a dichiarare guerra alla Spagna. L’intervento dei giornali influì a tal punto sull’opinione pubblica che, quando il 25 aprile 1898 gli Stati Uniti scesero in campo, nel titolo di prima pagina del giornale di Hearst venne posta la domanda: «Cosa ve ne pare della guerra del Journal?». Forse non furono i due magnati del giornalismo a inventare la stampa scandalistica, ma sicuramente se ne servirono. Nella loro lotta a colpi di titoli, entrambi sembrarono dimenticare che quando la stampa prende posizione politica la parte lesa è sempre l’opinione pubblica, la stessa che Pulitzer, giustamente, definiva corte suprema.
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8 GRANDI INVENZIONI
La scrivania Wooton Accessorio indispensabile per contabili e segretari, era apprezzato anche da politici e sovrani.
10 PERSONAGGI STRAORDINARI
La principessa Berenice L’amore tra l’imperatore Tito e la principessa giudaica dovette soccombere alla ragion di stato.
16 DATA STORICA
Cosa sono le pasquinate
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Nel XVI secolo divenne comune affiggere testi spesso anonimi che criticavano il governo e la curia.
120 GRANDI ENIGMI
Il re pazzo
La morte di Ludovico II di Baviera, sovrano amante dell’arte e poco incline a governare, è ancora avvolta nel mistero.
124 GRANDI SCOPERTE
Teyuna, la città perduta Nel 1976 gli archeologi scoprirono nell’entroterra colombiano le rovine di un’importante città degli indigeni tairona.
128 LIBRI E MOSTRE
18 VITA QUOTIDIANA
La tortura del corsetto Il capo di vestiario era considerato uno strumento di seduzione ma riduceva la capacità polmonare.
22 OPERA D’ARTE
Il Cancionero cordiforme Un libro a forma di cuore contiene testi di canzoni d’amore medievali. 4 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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44 ÖTZI, L’UOMO DEI GHIACCI NEL 1991 due escursionisti che
percorrevano le Alpi di Ötztal, a pochi metri dalla frontiera austriaca s’imbatterono in dei resti umani congelati. Le indagini successive dimostrarono che si trattava della mummia di un uomo che era morto cinquemila anni prima. I numerosi studi condotti sui resti hanno permesso d’identificare la causa della morte, le malattie di cui soffriva, come viveva e finanche cosa aveva mangiato prima di morire. VISTA DELLE ALPI DI ÖTZTAL NEI PRESSI DELLA FRONTIERA TRA ITALIA E AUSTRIA, DOVE VENNE RINVENUTA LA MUMMIA DI ÖTZI.
24 Nasce l’egittologia: la spedizione di Napoleone Durante la sua campagna per la conquista dell’Egitto il generale portò con sé 165 studiosi che esplorarono il Paese. Le loro scoperte confluirono in un’opera monumentale che segna l’inizio dello studio della civiltà dei faraoni. DI MIGUEL ÁNGEL MOLINERO POLO
60 I miti di Dioniso Dio del vino e dell’estasi, Dioniso fu una delle divinità più popolari e allo stesso tempo più strane del pantheon greco. La sua nascita, gli amori e le avventure ispirarono un gran numero di miti. DI DAVID HERNÁNDEZ DE LA FUENTE
74 Galla Placidia l’intransigente Figlia, nipote, moglie e madre d’imperatori e imperatrice lei stessa, Galla Placidia ebbe una vita travagliata che trascorse all’ombra della scomparsa dell’impero romano d’Occidente. DI GIORGIO PIRAZZINI
86 Carlo Magno contro i sassoni Verso la fine dell’VIII secolo il re carolingio intraprese una spietata lotta per il dominio dei territori pagani. Per sottometterli ci vollero tre decenni e tutto l’impegno di Carlo Magno, che non esitò a ricorrere anche alle esecuzioni di massa per conquistare il territorio sassone. DI ALBERTO RECHE
102 La prima guerra mediatica L’esito della guerra di Cuba del 1898 dipese in gran parte dal sostegno statunitense alla causa cubana contro le truppe spagnole. Ma perché il Congresso degli Stati Uniti decise di combattere a fianco dei ribelli? La risposta si trova nelle pagine dei giornali dell’epoca, che portarono avanti una campagna interventista facendo leva sugli ideali democratici del Paese. IL NEW YORK JOURNAL DEL 25 APRILE 1898 ANNUNCIA LA GUERRA CONTRO LA SPAGNA.
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CUPOLA DELLA CAPPELLA PALATINA. CATTEDRALE DI AQUISGRANA, GERMANIA. G. THERIN-WEISE / GETTY IMAGES
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Pubblicazione periodica mensile - Anno XI - n. 124
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GRANDI INVENZIONI
La scrivania Wooton, un ufficio in casa 1874
Alla fine del XIX secolo lo sviluppo dei lavori amministrativi e di segreteria condusse all’invenzione di un mobile che era al contempo uno scrittoio e un archivio
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illiam S. Wooton (18351907) è uno di quegli inventori che rendono la vita più facile ai suoi contemporanei. Progettista e designer d’eccezione, nel 1869 brevettò un banco scolastico ribaltabile con cui vinse un premio alla fiera statale dell’Indiana. L’anno successivo si trasferì a Indianapolis, dove fondò la Wooton Desk Company, un’azienda dedita alla produzione di mobili per scuole, chiese e uffici. Nel 1874 il progettista ottenne il brevetto del suo mobile più famoso, la scrivania Wooton, che due anni dopo fu uno dei pezzi forti dell’esposizione tenutasi a Filadelfia per celebra-
COURTESY FRANCES E. WILLARD MEMORIAL LIBRARY AND ARCHIVES, EVANSTON
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re il centenario della Dichiarazione d’indipendenza americana. Nel 1884 Wooton cedette la sua attività alla Chiesa anglicana, che ne mantenne per un certo tempo la produzione. Dal canto suo, Wooton si fece predicatore.
Elegante e funzionale La Wooton era un mobile industriale con una funzionalità e un design che ne facevano un elemento indispensabile per l’ufficio. In un’ottica di diversificazione delle vendite fu commercializzata in quattro versioni – normale, standard, extra e superiore – e in tre misure distinte. Le differenze tra i vari modelli dipendevano soprattutto dal tipo di decorazione. Gli esemplari di fascia alta, ad esempio, erano ornati con incisioni fatte a mano. Normalmente i rivestimenti esterni erano realizzati in legno di noce nero dell’Indiana, che conferiva al mobile un aspetto sobrio ed elegante. In tali versioni venivano impiegati anche legnami più chiari. Per gli interni si ricorreva invece a varietà come il pino, l’acero e il legno di seta. A livello strutturale la scrivania si richiamava al bargueño, un mobile spagnolo di origine moresca. Aveva un corpo centrale con numerosi cassetti e scomparti segreti – in alcuni casi addirittura fino a 110 – e un piano PRESSO LA LEGA MONDIALE CONTRO L’ALCOLISMO, ANNA GORDON SIEDE DAVANTI A UNA WOOTON. 1890 CIRCA.
incernierato abbattibile su cui potevano essere appoggiati gli strumenti per scrivere. La differenza principale rispetto all’arredo iberico era che la Wooton era dotata anche di due ante al cui interno si poteva conservare un maggior numero di documenti. Si trattava dunque di un mobile abbastanza voluminoso, a sezione rettangolare, la cui parte frontale si apriva come un trittico. Il corpo centrale poggiava di solito su un supporto con ruote. Richiudendo le due ante poi era possibile nascondere il contenuto della scrivania, mantenendolo al riparo da sguardi indiscreti e mani lunghe.
TARGHETTA METALLICA DEL MOBILE CON LA DATA DEL BREVETTO. INDIANAPOLIS MUSEUM OF ART
WOOTON, IL PROGETTISTA DI MOBILI 1869
COURTESY OF INDIANAPOLIS MUSEUM OF ART AT NEWFIELDS
William S. Wooton brevetta un banco scolastico completamente ribaltabile premiato alla fiera dell’Indiana.
1870 Wooton si trasferisce a Indianapolis dove fonda la Wooton Company, dedicata alla produzione di mobili.
1874 L’inventore brevetta la sua scrivania ottenendo un grande successo e arrivando a produrne fino a 150 unità al mese.
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Dal punto di vista estetico le scrivanie Wooton degli anni settanta dell’ottocento erano realizzate in stile neorinascimentale, uno dei tanti revival della moda di fine XIX secolo, che recuperava il repertorio ornamentale del quattrocento. A seconda della categoria dei mobili, le decorazioni in ottone potevano essere più o meno vistose. Con l’avvicinarsi del suo progettista alla vocazione spirituale, le Wooton del decennio successivo iniziarono a prescindere dagli eccessi ornamentali optando piuttosto per linee più semplici e forme più pulite, pur mantenendo la loro efficienza.
Anche se ebbe una vita relativamente breve, la Wooton fu una scrivania sensazionale capace di affascinare la società della sua epoca: banchieri, avvocati, notai o editori ne possedevano un esemplare. Tra i più celebri ammiratori della scrivania si possono annoverare il segretario dello Smithsonian Institution, Spencer Baird, il giornalista Joseph Pulitzer, l’imprenditore ferroviario Jay Gould, il magnate John D. Rockefeller, il presidente degli Stati Uniti Ulysses S. Grant e la stessa regina Vittoria d’Inghilterra. —Antonio F. Paradas
UNA PUBBLICITÀ DEFINISCE LA WOOTON «LA SCRIVANIA DELLA NOSTRA EPOCA».
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UNA SCRIVANIA Wooton appartenente alla collezione dell’Indianapolis Museum of Art.
William Wooton cede la sua azienda alla Chiesa anglicana e dedica il resto della sua vita alla predicazione.
PERSONAGGI STRAORDINARI
Berenice, la principessa ebrea amata da Tito Allo scoppio della prima rivolta giudaica, nel 66 d.C., il futuro imperatore Tito s’invaghì di una principessa locale in fuga. Ma il suo amore dovette cedere di fronte alla ragion di stato
Una donna all’ombra del potere 28 circa Berenice nasce in Giudea, figlia di Marco Giulio Agrippa I, re di Giudea e Cipro e nipote di Erode il Grande.
66-67 Scoppia la prima rivolta giudaica. Berenice si rifugia nell’accampamento romano, dove conosce Tito, figlio di Vespasiano.
69 Vespasiano emerge come vincitore della Guerra civile romana e diventa imperatore. Berenice segue Tito a Roma.
75 La principessa cerca in tutti i modi di sposare Tito, ma l’opposizione dei consiglieri imperiali la costringe a tornare in Giudea.
79 Tito e Berenice sono di nuovo insieme a Roma, ma sono costretti a separarsi per sempre. PIERRE PHILIBERT / RMN-GRAND PALAIS
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ochi personaggi dell’antichità hanno ispirato tanti pittori, drammaturghi, romanzieri e compositori d’opera come Berenice, principessa di Giudea del I secolo d.C. La sua sventurata relazione con l’imperatore Tito è diventata un archetipo del conflitto tra amore passionale e ragion di stato, sul drammatico sfondo della rivolta giudaica contro il dominio di Roma. La sua figura è stata spesso interpretata in una prospettiva romantica che rende difficile ricostruire il personaggio storico dietro la leggenda. Nata intorno al 28 d.C. in Giudea, Berenice era figlia di Marco Giulio Agrippa I, re di Giudea e Cipro, e nipote di Erode il Grande. All’età di circa 13 anni andò in sposa a un ricco ebreo di Alessandria, che morì senza aver generato discendenti. Poi fu data in moglie a suo zio Erode, re del territorio di Calcide (nel nord del Libano), da cui ebbe due figli. Quando questi morì, Berenice andò a vivere con il fratello Agrippa II, nel frattempo salito al trono di Giudea. Questo fu fonte di dicerie e accuse d’incesto che la perseguitarono anche in se-
guito al suo successivo matrimonio con il re Polemone II di Cilicia, che la donna abbandonò qualche tempo dopo per fare ritorno alla corte del fratello. Come gran parte della sua famiglia, Berenice era filoromana, e allo scoppio della rivolta giudaica del 66 d.C. divenne un bersaglio diretto dell’ira del suo stesso popolo. Dapprima cercò di svolgere un ruolo di mediazione tra ebrei e romani, ma quando gli insorti diedero alle fiamme vari edifici della città, tra cui il suo palazzo, si rifugiò assieme al fratello Agrippa nell’accampamento che i romani avevano allestito alla periferia di Gerusalemme, portandosi dietro le sue ricchezze e la sua guardia del corpo.
Il generale innamorato Nel 67 d.C. il generale Vespasiano, governatore della Siria in nome dell’imperatore Nerone, e suo figlio Tito raggiunsero l’accampamento per assumere il comando delle operazioni contro i ribelli. Fu lì, nella tenda di Vespasiano, che Berenice e Tito si conobbero. Le fonti dell’epoca non menzionano molti dettagli del loro incontro, ma gli storici successivi si sono dilungati sul fascino esercitato sul ventisettenne Tito da Berenice, una quasi quarantenne
Secondo Tacito «il suo spirito giovanile non era insensibile al fascino di Berenice» L’IMPERATORE TITO. BUSTO DI MARMO. MUSÉE DU LOUVRE, PARIGI.
RINUNCE A MALINCUORE SVETONIO RIMPROVERAVA all’im-
peratore Tito un comportamento dissoluto e il non aver saputo manterere la promessa di matrimionio fatta a Berenice. «Titus reginam Berenicem ab Urbe dimisit invitus invitam», scrisse. Letteralmente: «Tito, a malincuore, allontanò da Roma la regina Berenice, che a malincuore partì». L’invitus invitam è stato considerato da molti la chiave dell’epilogo della vicenda che unì le sorti di Tito e Berenice. L’imperatore non volle o non seppe combattere per il suo amore e vi rinunciò, seppur appunto a malincuore. Dal canto suo, Berenice cedette alla volontà di Tito e tornò in Giudea. BERENICE. QUEST’INCISIONE RAPPRESENTA IL PERSONAGGIO CREATO DAL DRAMMATURGO RACINE. 1850. BIBLIOTHEQUE DES ARTS DECORATIFS, PARIGI. DEA / SCALA, FIRENZE
estremamente attraente. La componente del calcolo politico dell’incontro non è da sottovalutare: per un uomo ambizioso come Tito questa relazione rappresentava un modo di allearsi con l’aristocrazia orientale. Nel 69 d.C., mentre in Palestina l’esercito romano stava ancora tentando di soffocare la rivolta, a Roma scoppiava la guerra civile. Le sommosse nelle province e gli intrighi nella capitale si erano conclusi con il suicidio di Nerone, cui era succeduto Galba, già governatore della Spagna romana. Tito partì per l’Urbe per sostenere il nuovo
imperatore e garantire la conferma del padre alla guida delle truppe impegnate nella guerra giudaica. Ma quando seppe che Galba era stato assassinato e sostituito da Otone, decise di rientrare in Giudea. Scrisse Tacito che «alcuni vollero spiegare il suo ritorno con una passione per la regina», perché «il suo spirito giovanile non era insensibile al fascino di Berenice».
Berenice a Roma A Roma la crisi non accennava a placarsi. Otone si suicidò dopo essere stato sconfitto dalle truppe di un al-
tro pretendente al trono, Vitellio, che pochi mesi dopo fu a sua volta ucciso dai sostenitori di Vespasiano. Dopo essersi fatto proclamare imperatore dalle legioni di Egitto, Siria e Giudea, quest’ultimo raggruppò un esercito nelle province orientali. Berenice e Agrippa decisero di sostenere Tito nella distruzione del loro stesso popolo, arrivando ad applaudire l’incendio del tempio di Gerusalemme. Al termine del conflitto Berenice accompagnò Tito a Roma e andò a vivere con lui nella residenza imperiale, probabilmente con l’intenzione di STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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PERSONAGGI STRAORDINARI
BRIDGEMAN / ACI
DISTRUZIONE DI GERUSALEMME nel 70 d.C. Incisione
di Louis Haghe da un’opera di David Roberts. XIX secolo.
sposarlo, anche se alcuni storici contemporanei mettono in discussione questa versione. Quel che è certo è che i romani non vedevano di buon occhio che una regina straniera andasse in moglie al brillante erede dell’impero, una situazione che ricordava troppo da vicino quella verificatasi tra Cleopatra e Giulio Cesare.
Poi c’era Antonia Caenis, una liberta che fu a lungo l’amante riconosciuta di Vespasiano e che considerava Berenice una rivale. I romani tolleravano il concubinato di un imperatore che aveva già avuto eredi maschi, ma non quello di un principe nel fiore degli anni. Ciò precipitò la rottura tra Tito e Berenice e il rientro di quest’ultima in Giudea.
DA TITO A DOMIZIANO TITO MORÌ improvvisamente di febbre dopo ap-
pena due anni trascorsi sul trono di Roma. Secondo Cassio Dione, la morte curiosamente lo sorprese alle terme di Aquae Cutiliae, le stesse dov’era deceduto anche suo padre Vespasiano. S’iniziò ben presto a vociferare che fosse stato avvelenato dal fratello Domiziano. EFFIGIE DI TITO CORONATO DI ALLORO SUL DRITTO DI UN AUREO. AGE FOTOSTOCK
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Alla morte di Antonia attorno al 75 d.C. Berenice decise di tornare a Roma, pensando probabilmente che non ci fossero più ostacoli che potessero frapporsi tra lei e il suo amato. Ben presto però si rese conto che le cose non stavano così. I consiglieri di Vespasiano – Muciano, Marcello e Cecina – continuavano a osteggiare il matrimonio dell’erede con una donna straniera e per giunta troppo anziana per dargli dei figli. Svetonio, nelle Vite dei Cesari, afferma che fu Tito a promettere le nozze a Berenice. Cassio Dione, un secolo e mezzo più tardi, racconta che la coppia viveva nel palazzo imperiale come se fosse già sposata. C’è anche la testimonianza di Quintiliano, oratore e avvocato ispanico all’epoca residente a Roma, che
La più antica Commedia miniata PALATINO 313 Dante Poggiali Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze
Il codice contiene gran parte del Commento AUTOGRAFO di “Jacopo”, figlio di Dante. Quasi ogni chiosa è segnata dalla sigla: “Ja”, Jacopo Alighieri. Noto come “Dante Poggiali” dal nome dell’editore e bibliofilo Gaetano Poggiali che lo acquistò per utilizzarlo nella sua edizione della Commedia del 1807.
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PERSONAGGI STRAORDINARI
LA BERENICE DI RACINE
SCENA della tragedia Berenice,
di Jean Racine. I due amanti si salutano prima di separarsi per sempre. Incisione a colori.
MARY EVANS / SCALA, FIRENZE
NEL 1670 il drammaturgo Jean Racine immaginò un drammatico dialogo fra Tito e Berenice. Davanti all’ipotesi di un suicidio dell’uomo, lei gli rispondeva così: «Voi mi amate ancora, / […] ho visto scorrere le vostre lacrime. / Berenice, Signore, non merita tanti allarmi / né che per il vostro amore lo sventurato universo / […] sia privato della vostra presenza. / […] Addio, Signore, regnate, non vi vedrò più». FRONTESPIZIO DI BERENICE DI RACINE. EDIZIONE DI CLAUDE BARBIN. 1671. LEEMAGE / PRISMA ARCHIVO
dichiarava di aver difeso la «regina» Berenice in un processo: non si sa se questo appellativo si riferisca alla sua appartenenza a una famiglia reale dell’Oriente o al suo status di concubina di Tito. Sia come sia, alla fine Berenice fu nuovamente costretta a rientrare in Giudea.
Un matrimonio fallito Dopo la morte di Vespasiano nel 79 d.C. Berenice tornò a Roma per la terza volta, intenzionata più che mai a sposare finalmente Tito, nel frattempo divenuto imperatore. Gli ex consiglieri di Vespasiano continuavano però a opporsi al progetto. Tito fece giustiziare alcuni di loro, ma allo stesso tempo decise di rinunciare al suo amore, apparentemente a malincuore. In realtà, la vicenda di Tito e Berenice è avvolta nell’incertezza. Tutte le testimonianze in proposito provengono da autori di parte: alcuni criticavano 14 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Tito per la sue presunte dissolutezze, altri invece ne elogiavano la fermezza per aver saputo rinunciare alla donna amata. L’unico punto su cui coincidono tutte è che i romani non apprezzavano per niente Berenice. Il poeta Giovenale, vissuto all’epoca dei fatti, scrisse per esempio di un anello di diamanti appartenuto alla principessa: «Una volta un re barbaro lo regalò a una donna incestuosa. Agrippa lo diede a sua sorella». È significativo che Giovenale non critichi Berenice per la relazione con Tito, ma piuttosto per il suo presunto incesto con il fratello Agrippa. Un incesto che, d’altra parte, viene menzionato quasi di sfuggita. Tacito aveva un’opinione favorevole di Tito, che prediligeva rispetto al despota Domiziano sotto cui si svolse quasi tutta la sua carriera politica. L’autore elogia Tito per aver respinto Berenice, insinuando che questa avesse una cattiva influenza su di lui.
Nelle opere dello storico ebraico Flavio Giuseppe – che fu forse il più grande sostenitore di Tito, probabilmente per i favori ricevuti da lui e da Vespasiano – non ci sono invece giudizi negativi su Berenice, ma sono riportate le voci sul presunto incesto. Svetonio, infine, è profondamente critico verso Tito, di cui elenca gli eccessi e che accusa di non aver mantenuto la promessa di matrimonio fatta alla principessa. In ogni caso, l’ultima notizia giunta fino a noi è che i due amanti si separarono. Da questo momento in poi le tracce di Berenice scompaiono dalla storia, senza che si sappia nemmeno come e quando morì. —Juan Luis Posadas Per saperne di più
TESTI
Teatro Jean Racine. Mondadori, Milano, 2009. Vita dei Cesari, Tito Svetonio. Garzanti, Milano, 2007.
IN ED ICO LA
Speciale Storica. Archeologia
la roma imperiale Ricostruita in 3D
IL COLOSSEO, il Pantheon, i fori imperiali, i mercati
e la colonna di Traiano… Tra il I e il II secolo d.C. Roma visse un periodo di grande espansione edilizia che la portò al livello degno della capitale del principale impero del mondo antico. La posizione strategica di Ostia, situata alla foce del Tevere, a 35 km da Roma, la convertì
invece nella più importante porta d’ingresso delle merci destinate all’Urbe. L’imperatore Claudio infatti vi fece costruire uno splendido porto successivamente ampliato da Traiano. Questa intensa attività commerciale determinò l’aspetto della città imperiale. Disponibile in edicola. Prezzo 9,90¤
DATO S TO R I CO
L’
enciclopedia Treccani definisce le pasquinate «satire per lo più brevi, in versi e in prosa, contro i papi e la curia o contro persone o costumi giudicati degni di biasimo», che venivano attaccate al torso della statua di Pasquino. Ma chi è, in realtà, quel Pasquino da cui ha origine la famosa leggenda? Diverse le ipotesi sulla sua identità: barbiere, calzolaio o sarto proveniente dal rione romano del Parione e dotato di particolari arguzia e irriverenza; o, forse, un maestro di grammatica latina che abitava di fronte all’antica statua poi immortalata con il suo nome, Pasquino. Difatti se oggi ci riferiamo a
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Pasquino parliamo piuttosto del gruppo marmoreo che con il tempo ne ha ereditato la fama, tanto che perfino la piazza originaria in cui si trovava, piazza di Parione, ha assunto il nome di piazza di Pasquino. Proprio su tale statua, risalente all’epoca ellenistica e rappresentante forse Menelao con il corpo di Patroclo, si passò ad affiggere libelli e manifesti dopo che, nel 1501, venne dissotterrata dal luogo in cui si trovava e posta su un piedistallo per volere del cardinale Oliviero Carafa. Per secoli i romani hanno affidato a manoscritti anonimi e a stampe le canzonature e le critiche sia all’operato della curia sia ai vari potenti che
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Nel Rinascimento s’iniziarono ad affiggere alle pareti testi in versi o in prosa, quasi sempre anonimi, con l’obiettivo di criticare l’operato della curia e dei potenti
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Le pasquinate: la critica anonima nel XVI secolo
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PIETRO ARETINO, AUTORE DI ALCUNE PASQUINATE CONTRO LA CURIA ROMANA. PALAZZO PITTI, FIRENZE.
si avvicendarono nel governo fino al XIX secolo. Se la tradizione dei libelli era ben precedente al XVI secolo, fu Pasquino a divenire l’emblema della satira romana che si scagliava con sarcasmo contro figure come il papa Leone X. I testi potevano essere in latino o in volgare, in prosa o in versi, popolareschi o dotti, e figure come il letterato toscano Pietro Aretino diedero il proprio contributo alla causa della “statua parlante” di Pasquino.
Non solo a Roma Il fenomeno delle pasquinate non fu soltanto romano: a Venezia, a Firenze e nel resto d’Europa il malcontento popolare e la diffusione della stampa fecero sì che pamphlet e pasquinate divenissero un efficace strumento di critica, particolarmente vivido nei Paesi divisi tra protestanti e cattolici, come la Germania. Secondo il cronista aragonese José Lupercio Panzano, «l’Europa si riempì di libelli, carte e pasquinate», da lui paragonati alla schiuma che «il mare della collera» lasciava «sulle sponde dei principi bellicosi». Come in Italia, pure in Spagna questi testi, chiamati pasquines, papeles o cedulones, venivano attaccati alle porte e agli angoli delle strade, lanciati nelle piazze, letti, pubblicati e fatti passare di mano in mano. Costituivano strumenti LA VITA DISSOLUTA ALLA CORTE DEL PAPA LEONE X (1513-1521). CARICATURA DELL’EPOCA.
PASQUINO E LE STATUE “PARLANTI” fecerunt barbari, fecerunt Barberini» (quello che non fecero i barbari, lo fecero i Barberini). Così recitava una famosa pasquinata del XVII secolo alludendo agli scempi edilizi perpetrati dal papa Urbano VIII (Maffeo Barberini) per decorare i possedimenti del Vaticano. Pasquino però dialogava anche con altre “statue parlanti”, come quella di Marforio e di Madama Lucrezia. Per esempio si racconta che durante la campagna d’Italia di Napoleone Bonaparte, iniziata nel 1796, Marforio chiedeva: «È vero che i francesi sono tutti ladri?». «Tutti no, ma Bona Parte», rispondeva Pasquino. «QUOD NON
LA STATUA DI PASQUINO A METÀ DEL XVI SECOLO SECONDO UN’INCISIONE DELL’EPOCA. METROPOLITAN MUSEUM, NEW YORK. METROPOLITAN MUSEUM / SCALA, FIRENZE
di protesta contro abusi e ingiustizie o contro la pressione fiscale dei re. La prima pasquinata di cui si ha notizia in Spagna è contemporanea a quella romana, e apparve a Saragozza nel 1503, prima di una rivolta popolare. Altre vennero invece affisse contro la politica imperiale di Carlo V, il governo di Filippo II e, in particolare, la sua pressione fiscale. Famoso nella penisola iberica fu il Pasquín del Infierno, che attaccava duramente l’Inquisizione, descritta quale «fabbrica di demoni». Il testo recitava: «Lì [nelle prigioni] si nutrono di sangue umano / degli aragonesi innocenti / gli assetati demoni incarnati / dell’inferno castigliano».
Se re come lo spagnolo Filippo II e papi come Adriano VI, Sisto V e Benedetto XIII cercarono di punire duramente i responsabili di tali libelli, condannandoli alla pena di morte, alla galera o all’esilio, altri sovrani chiusero un occhio nonostante l’aumento esponenziale delle produzioni satiriche. Vittime illustri della repressione dei potenti furono, tra gli altri, il poeta e scrittore Niccolò Franco, impiccato a Roma nel 1570 per aver redatto un libello contro Paolo IV, e don Francisco de Mendoza, marchese di Mondéjar, che intorno al 1608 venne imprigionato perché ritenuto colpevole di aver scritto alcuni pamphlet contro il go-
verno di Filippo III. Manoscritte o stampate, le pasquinate ebbero quindi una particolare importanza per l’espressione del malcontento popolare nell’Europa moderna. Tra fasi di latenza e altre di fioritura, accompagnarono la convulsa storia di Paesi e città: a Roma, la statua parlante di Pasquino cedette poi il posto ai sonetti ironici di Giuseppe Gioachino Belli, salvo ricomparire in tristi occasioni, come nella visita di Hitler a Mussolini. —Antonio Fernández Luzón Per saperne di più
ROMANZO
La mala ora Gabriel García Márquez. Mondadori, Milano, 1998.
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Il corsetto: la tirannia della moda Diffusosi a partire dal Rinascimento, nel XVIII secolo questo indumento divenne un’arma di seduzione femminile Ebbe così inizio l’epoca del corsetto moderno, che si diffuse in Europa durante il Rinascimento. Inizialmente lo indossavano solamente le dame dell’alta società. Il disegno di questo capo cambiò varie volte nel corso del tempo, ma la sua struttura di base restò praticamente sempre la stessa: un corpetto in tessuto con armatura in stecche di balena, che poteva coprire tutto il torace o solo la vita, e si stringeva tramite dei lacci. Anche il modo d’indossarlo rimase immutato: non andava portato a diretto contatto con la pelle ma messo sopra la camicetta, in quanto non era facile da lavare.
Corsetti per tutte I corsetti imponevano una rigidità di movimento incompatibile con il lavoro fisico ed erano pertanto riservati alle occasioni importanti, soprattutto nel caso di modelli più elaborati. Ben presto però si diffusero quelli dalle linee più facilmente conciliabili con
TORSO CONICO IN QUESTO quadro del 1679 opera di José García Hidalgo, Maria Luisa di Orléans indossa un abito di broccato con guarnizione in passamaneria e maniche che si aprono in ampie volute di taffetà. Ma a caratterizzare la silhouette della regina è il corsetto in ferro al di sotto del vestito. ALBUM
LA MODA VIENE prima RMN-GRAND PALAIS
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l corsetto apparve relativamente tardi nella storia dell’abbigliamento occidentale, sebbene qualche tipo di busto fosse probabilmente già in uso nell’antichità, come testimoniano alcune immagini lasciate dalla civiltà minoica risalenti circa al 1500 a.C. A partire dal periodo classico, nel guardaroba femminile dominavano gli abiti di taglio ampio e comodo, come le tuniche. Fu nel XIII e nel XIV secolo che tra la borghesia urbana si diffuse la cosiddetta moda anatomica, che metteva in evidenza il corpo attraverso le vesti e prevedeva una netta separazione tra abbigliamento maschile e femminile. Mentre gli uomini adottarono l’abito corto che lasciava le gambe coperte solo dalle calze, le donne passarono a indumenti più aderenti, cercando di ridurre la vita e sollevare il seno verso l’alto per sottolineare la figura.
della comodità. Incisione pubblicata nel 1777. British Museum, Londra.
la vita quotidiana delle donne delle classi lavoratrici e contadine, dotati di lacci esterni ma privi di stecche. Complessivamente erano meno rigidi e sostenevano il petto e la schiena, evidenziando il profilo femminile senza ostacolare il movimento. L’indumento assunse nomi diversi a seconda dei paesi e dei periodi. Il termine corsetto deriva dal francese corset, che indicava inizialmente un abito di epoca medievale, aderente, chiuso sul davanti con dei lacci e a manica stretta. Alla corte degli Asburgo di Spagna del XVI e XVII secolo si diffuse una versione dal carattere
Stretti al massimo I CORSETTI avevano un sistema
di chiusura sulla schiena che non permetteva alle donne di vestirsi da sole. Per stringerlo al massimo era necessario l’intervento di una domestica che doveva tirare il laccio posteriore. La trafila a cui si sottoponevano le dame che volevano indossare un bustino divenne bersaglio di vignette satiriche come questa, dove si vedono un marito, una cameriera e persino un piccolo domestico nero che cercano di allacciare il corsetto di una signora. La scimmia indica con un dito un libro su cui è scritto: «Vittima della moda». In realtà i corsetti non venivano sempre stretti così tanto: molte donne li lasciavano leggermente allentati in modo da potersi vestire senza richiedere aiuto.
molto austero, chiamata cotilla, una parola che rimandava alla cotta di maglia usata dagli uomini per combattere. Di fatto, se ne sono conservati alcuni esemplari in ferro o acciaio, chiamati anche “corazze”. La cotilla aveva una struttura in stecche di balena, poteva essere regolata tramite dei lacci e aveva lo scopo di nascondere le curve naturali femminili, conferendo al busto la forma di un cono liscio e allungato.
Strumento di seduzione Con la successiva ascesa della monarchia francese all’epoca di Luigi XIV, si diffusero nuove tendenze che esaltava-
no la sensualità delle donne mettendo in risalto il seno, la vita e i fianchi. Il corsetto divenne così un elemento essenziale dell’abbigliamento femminile, e s’iniziò a indossarlo anche nella vita di tutti i giorni, e non solo in occasioni sociali, come feste, balli e teatro. Al momento della toilette mattutina le dame, con l’indispensabile aiuto delle cameriere, si preparavano a farsi corteggiare dagli ammiratori che si sarebbero presentati a casa con l’acquiescenza dei mariti. Indossare il bustino rappresentava la base del meccanismo di seduzione, perché permetteva di mettere in evidenza il seno.
Sopra si indossava una lunga veste, che poteva essere allacciata sotto il mento o lasciata aperta come un cappotto, a seconda di quanto si volesse mostrare. Il corsetto era regolabile tramite un laccio, posto sulla parte anteriore o posteriore (o a volte su entrambe), che permetteva di stringere al massimo la struttura in stecche di balena, comprimendo la vita e spingendo il petto verso l’alto. Proprio questo schiacciamento del tronco fu la causa della sua cattiva reputazione: l’uso continuato di questo capo aveva infatti conseguenze estremamente negative per la salute di chi lo indossava, visto che comportava STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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la riduzione della capacità polmonare e la costrizione degli organi interni. Durante il regno di Luigi XV la moda francese raggiunse il suo massimo splendore, soprattutto per quanto riguarda l’abbigliamento femminile. Il corsetto divenne un capo indispensabile nel guardaroba di tutte le dame non appena si diffuse la moda della
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LA FESTA MUSICALE. Dipinto a olio di Jean-Honoré Fragonard in cui la giovane protagonista indossa un corsetto attillato. 1754-1755. Wallace Collection, Londra.
cosiddetta robe à la française, che riprendeva la veste ampia d’inizio secolo evidenziando però maggiormente la vita e il seno. Questo tipo di vestito era caratterizzato da un bustino decorato con una pièce de estomac, ovvero un inserto di stoffa triangolare che nascondeva i lacci frontali.
Forme prorompenti Lo scopo principale del corsetto era quello di accentuare le forme, riducendo la circonferenza della cintura e allo stesso tempo comprimendo il seno,
Indossare il corsetto riduceva drasticamente la capacità polmonare VENDITRICE DI CORSETTI. CHARLES PHILIPON. INCISIONE. 1830. ROGER VIOLLET / AURIMAGES
che traboccava in modo seducente. Anche se questi abiti potevano essere allacciati fino al collo, di solito venivano lasciati aperti proprio per esibire il décolleté. Le dame più pudiche indossavano un foulard, che a seconda dei casi poteva scendere fino al petto o alla vita. La raffinatezza e la sensualità di questo modo di abbigliarsi ne favorirono la diffusione in tutta Europa, grazie anche alle nascenti riviste di moda. Molte donne iniziarono a indossarlo per imitare lo stile della favorita di Luigi XV, Madame de Pompadour, il cui seno era così famoso che si dice fosse stato utilizzato come modello per disegnare la coppa di champagne. Anche se la popolarità dell’indumento era in crescita, nel corso del XVIII secolo si moltiplicarono però anche le critiche contro il corsetto, accusato di sottoporre il corpo fem-
Tre corsetti del XVIII secolo IN QUESTA PAGINA, un corsetto francese del 1760 1, uno
britannico del 1770-1790, rosso, molto rigido e senza lacci sul davanti, da usare probabilmente in occasioni importanti 2 e un terzo del periodo 1750-1775 3, con imbottiture laterali da usare per indossare il modello di gonna a cupola.
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1 e 3. Metropolitan Museum of Art, New York. 2. Victoria and Albert Museum, Londra.
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DA SINISTRA A DESTRA: AGE FOTOSTOCK; V&A IMAGES / SCALA, FIRENZE; AKG / ALBUM
minile a una scomodità prossima al supplizio. Il religioso spagnolo Benito Jerónimo Feijoo rimproverava al bustino di «imprigionare le braccia delle donne, rendere le mani incapaci di comunicare con la testa, dislocare le spalle e schiacciare la vita come un autentico strumento di tortura». Altri sottolineavano i rischi che il corsetto comportava per la salute, in particolare quella riproduttiva. Ignacio Mariano Martínez de Galinsoga, medico di Maria Luisa di Parma, moglie di Carlo IV di Spagna, scrisse un trattato intitolato Dimostrazione meccanica dei disturbi provocati dall’uso dei bustini (1784), in cui attribuiva a questo indumento i problemi di salute delle donne di classe elevata. Qualche decennio più tardi il sociologo statunitense Thorstein Veblen si spinse ancora più in là, e affermò che si trattava di «uno stru-
mento di deformazione» che mirava a «ridurre la vitalità della persona e a renderla inadatta al lavoro».
Mode mutevoli La cultura illuminista e razionalista criticò duramente gli sprechi della vita aristocratica, dedicando particolare attenzione agli eccessi nel campo della moda. Alla fine del XVIII secolo questo provocò un ritorno a un abbigliamento semplice e una concomitante ascesa della moda inglese. Il corsetto cedette dunque il passo a vesti più comode e ampie che si rifacevano alle tuniche del periodo classico. In quegli anni divenne popolare la chemise à la reine, una delle mise preferite dalla regina Maria Antonietta, da cui prende il nome. Si rifaceva all’abbigliamento infantile e andava indossato con una fascia in vita, ma senza corsetto.
Questa tendenza però non durò a lungo e il XIX secolo rappresentò una nuova epoca d’oro dei bustini, che ancor più di prima dovevano disegnare una figura femminile curvilinea, dominata dal“vitino da vespa”. Come Rossella O’Hara in Via col vento, le donne cercavano di modellare il proprio corpo tramite corsetti che impedivano praticamente di respirare. Per mandare definitivamente in pensione questo scomodo indumento si sarebbe dovuto attendere il XX secolo. —Ana María Velasco Molpeceres Per saperne di più
SAGGI
Busti e reggiseni. L’epopea del seno dall’antichità ai giorni nostri Beatrice Fontanel. Idealibri, Milano, 1997. L’abito femminile. Una storia culturale Georges Vigarello. Einaudi, Torino, 2018.
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O P E R A D ’A R T E
l i b r o m e d i e va l e
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Il canzoniere cordiforme di Jean de Montchenu Nel Medioevo erano molto diffusi tra le classi agiate i canzonieri, meravigliosi libri illustrati che contenevano brani scritti dai migliori musicisti dell’epoca
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BIBLIOTHÈQUE NATIONALE DE FRANCE
i potrebbe pensare che con l’invenzione della macchina da stampa di Gutenberg, avvenuta intorno al 1450, i vecchi libri manoscritti fossero condannati a una rapida scomparsa di fronte alla concorrenza agguerrita dei testi stampati, più economici, riproducibili in maggior numero e più facili da leggere. Ma le cose non andarono esattamente così. La corporazione di chi si dedicava alla copiatura manuale dei libri trovò il modo di sopravvivere ancora a lungo di fronte alle possibilità di produzione seriale offerte dal nuovo mezzo. Una delle strategie utilizzate dagli amanuensi consisteva nel creare prodotti unici e
RILEGATURA ESTERNA IN VELLUTO ROSSO DEL CANZONIERE CORDIFORME. 22 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
molto costosi, garantendo al cliente il possesso di un oggetto esclusivo che gli avrebbe permesso di distinguersi a livello sociale. Erano libri fatti per essere toccati, guardati e, soprattutto, esibiti. Rappresentavano l’emblema del lusso dell’epoca. Un esempio della persistenza dei manoscritti anche dopo l’avvento della stampa è il Chansonnier cordiforme. Nel Medioevo le raccolte di brani musicali IL CANZONIERE CORDIFORME erano oggetti di pregio particolarmente aperto su una delle pagine centrali. apprezzati dai nobili, che facevano a Rothschild MS 2973, ff. 3v.-4r. Bibliothèque nationale, Parigi. gara per ergersi a mecenati e paladini della cultura. Di solito contenevano canzoni o poemi in rima che quasi sempre trattavano argomenti di carattere amoroso. Erano opere peculiari, ma Jean de Montchenu, un sacerdote il canzoniere cordiforme è tra i pochi che può essere considerato una vera e savoiardo noto per la sua dissolutezza e la sua dedizione ai piaceri carnali, propria opera d’arte. che nel 1477 sarebbe diventato arciLa musica del cuore vescovo di Agen, è l’autore del testo. Il Per la realizzazione del prezioso esem- canzoniere cordiforme è composto da plare, che fu composto in Savoia intor- 72 fogli di soli 22 centimetri di altezza no al 1470, i produttori di pergamene per 16 di larghezza, quindi può essere furono chiamati a cimentarsi in un considerato una miniatura. Dal 1933 compito insolito. Le pagine doveva- è conservato presso la Bibliothèque no essere “cordiformi”, cioè avere la nationale de France, a Parigi, in seguito forma di un cuore, che si sdoppiava a una donazione dello scrittore e filannell’immagine di due cuori congiunti tropo Henri de Rothschild, l’ultimo quando il libro veniva aperto. L’eccen- proprietario privato del manoscritto. Questo curioso libro contiene esclutrico profilo del volume richiedeva una particolare perizia nella sagomatura dei sivamente canzoni d’amore con notafogli, che rese l’opera particolarmente zione musicale. Si tratta di polifonie francesi e italiane composte da autolaboriosa e preziosa.
BIB
ri dell’epoca e accompagnate dalle rispettive partiture e da finissime miniature che evocano il contenuto dei testi. Il resto del foglio è arricchito da ricercati marginalia (decorazioni realizzate ai margini della pagina), il cui scopo era testimoniare il potere economico dei clienti che potevano permettersi l’acquisto del prezioso manoscritto. Oltre all’accuratezza della lavorazione della pergamena, al valore dell’opera contribuivano l’eleganza delle miniature e dei marginalia, la precisione con cui gli amanuensi trascrivevano testi e canti, e la raffinatezza dell’opera di legatoria
e dell’incantevole copertina in velluto rosso.
Note del XV secolo I 43 brani che costituiscono il canzoniere sono quasi tutti a tre voci. La musica è firmata dai principali rappresentanti della scuola musicale borgognona e della nascente scuola polifonica franco-fiamminga del XV secolo, come Antoine Busnois, Guillaume Dufay, Gilles Binchois e Johannes Ockeghem, e da autori inglesi residenti in Francia quali Jean Bedyngham e Robert Morton. Nel libro sono presenti anche 13 brani anonimi in italiano, le cui inesattezze a livello
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linguistico fanno pensare che l’autore delle trascrizioni dei testi potesse essere fiammingo o francese. È ancora possibile ascoltare questi brani grazie alle registrazioni disponibili sul mercato, tra le quali si consiglia l’interpretazione dell’Ensemble Leones, diretto da Marc Lewon (2016). Nell’immagine qui sopra è possibile vedere le differenti partiture delle tre voci della canzone Zentil madona, de, non me habandonare, di Bedyngham. I brani del canzoniere, spesso eseguiti dagli stessi nobili che conoscevano la musica, rappresentavano un’occasione di svago per la borghesia europea. —Josemi Lorenzo Arribas STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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LA SCOPERTA DELL’EGITTO
In questa ricostruzione della spedizione napoleonica pubblicata in Description de l’Égypte si vedono soldati e ricercatori lavorare fianco a fianco. Nella pagina seguente, la stele di Rosetta, che fu ritrovata nel corso della missione e permise a Jean-François Champollion di decifrare la scrittura egizia. British Museum, Londra.
La spedizione di Napoleone
L’EGITTO SVELATO
FOTO: BRIDGEMAN / ACI
Gli studiosi che accompagnarono il generale Bonaparte nella campagna di conquista dell’Egitto raccolsero i risultati delle loro ricerche in un’opera monumentale, che mostrò all’Europa il sensazionale retaggio della cultura faraonica
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FRONTESPIZIO DEL PRIMO VOLUME DI DESCRIPTION DE L’ÉGYPTE.
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LA BATTAGLIA DELLE PIRAMIDI
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alla fine del XVIII secolo la Francia cominciò a elaborare dei progetti di conquista dell’Egitto con l’obiettivo di contrastare la crescente influenza della Gran Bretagna in India. Nel marzo del 1798 il Direttorio (l’organismo collegiale di cinque membri che governava la Francia dal 1795) affidò questa missione a un giovane generale che aveva raggiunto la notorietà grazie alle sue campagne in Italia: Napoleone Bonaparte. La spedizione era volta a proteggere l’autorità del sultano ottomano dall’élite militare dei mamelucchi, le cui rivolte scuotevano le regioni del Nilo. Il primo luglio 1798 la flotta francese sbarcò nei pressi di Alessandria, che fu facilmente conquistata. Il 24 luglio le truppe transalpine facevano il loro ingresso a Il Cairo. Nonostante questi iniziali successi, i francesi non ottennero mai il controllo effettivo del Paese. Non avevano né le risorse umane né le armi sufficienti a stabilire dei presidi militari su tutto il territorio, pertanto la loro presenza si ridusse alla capitale e a certe zone del delta. In agosto poi la flotta francese fu affondata dalle navi dell’ammiraglio britannico Nelson. Dopo appena un anno Napoleone decise di rientrare in Francia, lasciando i suoi uomini sotto il comando del generale Jean-Baptiste Kléber. Il successore di quest’ultimo, Jacques-François Menou, dovette fronteggiare una serie d’in-
Lo scontro del 21 luglio 1798 tra l’esercito francese e le truppe mamelucche si svolse a Imbaba, a una distanza dalle piramidi maggiore di quanto non suggerisca quest’olio di François-Louis-Joseph Watteau. XIX secolo. Musée des Beaux-Arts, Valenciennes.
surrezioni a Il Cairo e di attacchi britannici che nel settembre del 1801 lo costrinsero a firmare una capitolazione ad Alessandria, in seguito alla quale le truppe francesi rientrarono in Europa. La spedizione in Egitto rappresentò uno dei più clamorosi insuccessi di Bonaparte, almeno sul piano politico e militare. A livello culturale e scientifico invece lasciò un’eredità eccezionale.
L’Institut d’Égypte
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L’Institut d’Égypte
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Bonaparte si era fatto accompagnare da un corpo di 165 intellettuali e artisti, la cosiddetta Commissione delle scienze e delle arti dell’esercito d’Oriente. Erano tutti volontari di giovane età, a parte il matematico Gaspard Monge e il chimico Claude Louis Berthollet, che svolsero la funzione di coordinatori. Il 22 agosto 1798 fu creato a Il Cairo l’Institut national d’Égypte, che comprendeva i 48 studiosi più prestigiosi della spedizione sotto la presidenza di Monge e la vicepresidenza dello stesso Napoleone Bonaparte. Seguendo il modello dell’Institut de France (fondato a Parigi tre anni prima per raggruppare le precedenti accademie reali), l’Institut d’Égypte era suddiviso in quattro sezioni: matematica, letteratura e belle arti, storia naturale e fisica, ed economia politica, presiedute rispettivamente da Jean-Baptiste Fourier, Dominique Vivant Denon, Déodat de Dolomieu e Geoffroy Saint-Hilaire (copresidenti della sezione di storia naturale e fisica), e Berthollet. L’atto costitutivo dell’Institut stabiliva che il suo obiettivo era quello d’investigare la natura, l’economia e la storia del Paese, ma anche di contribuire al progresso dell’Illuminismo in Egitto. Inizialmente gli studiosi non furono ben accolti dai soldati, che consideravano proprio l’élite intellettuale come la causa della loro presenza in Egitto, ma alla fine i membri della commissione riuscirono a conquistarsi il rispetto delle truppe. Molti di loro rimasero presso la sede centrale dell’Institut a Il Cairo, mentre altri attraversarono il Paese per portare a termine i loro compiti. Sebbene alla commissione partecipassero specialisti di vari ambiti scientifici, fu l’archeologia ad attrarre il maggior interesse. Bonaparte costituì una squadra d’ingegneri idraulici per
L’istituto si stabilì nella residenza di Hasan Kashif, un capo mamelucco fuggito in seguito alla battaglia delle Piramidi. Le varie sale del palazzo accolsero una biblioteca, un laboratorio chimico, un osservatorio e un museo di minerali e antichità. Sui terreni vicini furono creati un giardino botanico e un piccolo zoo. Quest’incisione di Description de l’Égypte mostra un ricevimento offerto dall’Institut in onore di Bonaparte.
La gestazione di un’opera monumentale 1798
L’Institut d’Égypte, dedicato allo studio dei vari aspetti del Paese, viene fondato a Il Cairo.
1802
Napoleone ordina la pubblicazione dei risultati delle ricerche in una grande opera a stampa.
1810-1824
Vengono pubblicati in questo periodo i diversi volumi di Description de l’Égypte.
1825
L’editore Panckoucke lavora a una seconda edizione dell’opera, in 37 volumi e a un prezzo ridotto.
1828
Il volume con le mappe, posticipato perché ritenuto segreto di stato, viene finalmente pubblicato.
studiare il Nilo, i sistemi d’irrigazione e le ragioni della fertilità del territorio egiziano. Partiti da Il Cairo, gli esperti iniziarono l’analisi idrologica di cui erano stati incaricati ma procedendo verso sud rimasero talmente colpiti dalle rovine che trascurarono i loro compiti originari per dedicarsi allo studio dei monumenti. Quando il loro supervisore se ne lamentò con Napoleone, questi rispose di lasciare che continuassero a «occuparsi di geroglifici». Uno dei membri più stravaganti della commissione era Dominique Vivant Denon. Aristocratico e diplomatico, era tornato in Francia dopo gli anni più duri della rivoluzione grazie alla protezione del pittore Jacques-Louis David. Scrittore di romanzi libertini ed esperto d’arte, era frequentatore abituale dei salotti di Giuseppina di Beauharnais, moglie di Bonaparte. Fu proprio il futuro imperatore a convincerlo a unirsi al gruppo, anche se aveva più di 50 anni. Denon partecipò alla spedizione del generale Desaix in Alto Egitto, dove poté disegnare e misurare numerosi monumenti faraonici. Quando Napoleone fece segretamente ritorno a Parigi nel 1800, Denon lo accompagnò e gli indicò i passi da seguire per ottenere la carica di console e successivamente quella d’imperatore.
THIERRY LE MAGE / RMN-GRAND PALAIS
VIVANT DENON AL LAVORO NELLA SALA DIANA DEL LOUVRE.
Dominique Vivant Denon Il Viaggio nel Basso ed Alto Egitto di Denon è un esempio delle difficoltà degli intellettuali cresciuti nella tradizione classica di riconoscere il valore dell’arte egizia. Figlio del neoclassicismo, Denon descriveva dunque i santuari egizi come tristi e monotoni. Invece del tempio di Dendera affermò: «I greci non hanno inventato nulla e non hanno costruito nulla di altrettanto grandioso». Si trattava di una vera e propria sfida alla mentalità dell’epoca. In Description de l’Égypte, Villiers e Jollois giungono a una conclusione più equilibrata: «L’architettura greca e quella egizia hanno ciascuna i propri meriti e non sono paragonabili tra loro».
Il viaggio di Vivant Denon Nel 1802 Denon pubblicò Viaggio nel Basso ed Alto Egitto in due corposi volumi. Lo stile brioso e variegato, quasi al limite del romanzo d’avventura, valsero all’opera un successo eccezionale. Il tema era di grande interesse perché riuniva il resoconto di una campagna militare – che al momento della stesura del testo non era ancora giunta al termine – con la descrizione di un Paese allora quasi sconosciuto, che nascondeva le vestigia di una civiltà per nulla inferiore alla Grecia classica, anche se molto diversa. Denon incluse nel libro la collezione di disegni che portò con sé dall’Egitto, d’importanza equiparabile al testo stesso. Anche se nel XVIII secolo erano già stati pubblicati alcuni volumi accompagnati da tavole sul Paese dei faraoni, il lavoro di Denon non aveva precedenti in quanto a numero, dimensioni e qualità delle stesse. I monumenti oggetto di studio erano inoltre prati30 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
VASO DECORATO CON UNA SCENA DI VIAGGIO NEL BASSO ED ALTO EGITTO, DI VIVANT DENON. PALAZZO PITTI, FIRENZE. BRIDGEMAN / ACI
BRIDGEMAN / ACI
L’OBELISCO DI CLEOPATRA AD ALESSANDRIA D’EGITTO. INCISIONE A COLORI APPARSA NEL VIAGGIO DI VIVANT DENON. IL TESTO SPIEGA CHE, NONOSTANTE IL NOME, FU ERETTO DA THUTMOSE III NEL TEMPIO DI ELIOPOLI.
camente sconosciuti nell’Europa dell’epoca. Denon fu anche in buona misura il creatore del “mito napoleonico”, perché dedicò la sua opera al generale, attribuendogli così il merito degli studi scientifici realizzati. L’opera forniva una prospettiva differente su una campagna che a livello politico e militare si era dimostrata un fallimento. Ma non fu solo in questo modo che Denon contribuì alla valorizzazione della figura di Bonaparte: come direttore del Museo centrale delle arti della repubblica – il futuro Museo del Louvre – fece produrre vari oggetti di lusso con decorazioni realizzate a partire dai disegni provenienti dalla valle del Nilo. Stoviglie, mobili e dipinti su carta adornati con sfingi, obelischi e palme: un immaginario esotico che propagandava la leggenda di Bonaparte.
Nell’agosto del 1799 Denon tornò dall’Alto Egitto e fece una descrizione entusiastica di ciò che aveva potuto osservare. Allora Bonaparte ordinò a due gruppi di studiosi di recarsi nella zona per studiarne i reperti. Questi poterono fermarsi diversi mesi in relativa sicurezza, perché disponevano di una scorta militare e del tempo necessario a esaminare ogni monumento, a differenza di Denon che era stato costretto a lavorare frettolosamente. I ricercatori presero molti appunti e raccolsero parecchie antichità. Una volta tornati a Il Cairo speravano d’imbarcarsi immediatamente per la Francia con il frutto del loro lavoro, secondo gli ordini impartiti da Bonaparte prima di lasciare il Paese. Nel frattempo però l’esercito francese era stato intrappolato in Egitto e costretto ad arrendersi alle truppe britanniche, che procedettero alla confisca dell’intera collezione di reperti raccolti dalla Commissione, tra cui un’imponente stele di granodiorite con iscrizioni in geroglifico, demotico e greco antico, rinvenuta dai soldati francesi a Rashid nel giugno del 1799. Fu così che la famosa stele di Rosetta finì in una sala del British Museum di Londra. Ma non accadde lo stesso con la documentazione elaborata dai ricercatori francesi. Quando il naturalista Étienne Geoffroy Saint-Hilaire minacciò di bruciare tutte le carte, paragonando il poten32 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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L’ultimatum britannico
IL TEMPIO DI HATHOR A DENDERA
Fu uno dei monumenti che piĂš colpĂŹ i membri della spedizione, da Vivant Denon a Villiers e Jollois. Nella foto, le colonne con capitello hathorico che decorano la sala ipostila.
DISEGNO DI UN RILIEVO DEL TEMPIO DI MEDINET HABU IN DESCRIPTION DE L’ÉGYPTE. IL FARAONE OSSERVA GLI SCRIBI DELL’ESERCITO CONTARE I PRIGIONIERI.
FRAMMENTO DI UN’INCISIONE DI DESCRIPTION DE L’ÉGYPTE, VOLUME II.
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FINE ART / ALBUM
ARPISTA. RILIEVO DIPINTO DELLA TOMBA DI RAMSES III NELLA VALLE DEI RE (KV11).
DANIEL ARNAUDET / RMN-GRAND PALAIS
Con le sue oltre tremila immagini, Description de l’Égypte rappresentò una sfida per l’industria editoriale degli inizi del XIX secolo. L’impresa fu resa possibile dall’ingegnosa macchina inventata da Nicolas Conté, chimico e meccanico che prese parte alla spedizione e che, al suo ritorno nel 1802, fu nominato direttore del comitato di redazione della Description. Il suo collega Jomard dichiarò che l’apparecchio ideato da Conté poteva fare in due o tre giorni il lavoro che a un artista avrebbe richiesto sei mesi. Ne furono utilizzati due esemplari, su cui lavorarono tra gli 80 e i 100 incisori.
LA DEA MAAT. RIPRODUZIONE DI UN RILIEVO IN UNA TOMBA DELLA VALLE DEI RE.
GÉRARD BLOT / RMN-GRAND PALAIS
La Description, una pietra miliare nell’arte dell’incisione
ziale danno all’incendio della biblioteca di Alessandria, gli inglesi cedettero, consentendogli di conservare le informazioni raccolte. Nel 1802, qualche mese dopo il rientro in Francia dei membri della spedizione, Bonaparte ordinò che i risultati delle ricerche fossero pubblicati in una grande opera a stampa. L’impresa divenne un vero progetto di stato di dimensioni senza precedenti: nel 1809 le persone coinvolte nel processo di stesura del libro a carico del ministero degli Interni furono 36, e diverse centinaia d’incisori parteciparono alla produzione delle tavole. Furono realizzate quasi 900 lastre di rame contenenti più di tremila figure. Nemmeno l’Enciclopedia di Jean d’Alembert e Denis Diderot, che costituiva il modello di riferimento per quest’opera, aveva raggiunto cifre simili.
Un progetto faraonico
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Templi seminterrati
ILLUSTRAZIONI: RMN-GRAND PALAIS
Dopo la morte dei suoi due predecessori, a occuparsi del coordinamento generale del progetto fu il geografo Edme François Jomard, che diresse il comitato editoriale incaricato di distribuire i temi, ricevere gli articoli scritti, rivederli e restituirli agli autori per le correzioni, nonché di sollecitare i ritardatari e mettere insieme testi e incisioni. Il sistema non differiva da quello attualmente in uso nelle riviste accademiche di alto livello. I curatori volevano far uscire l’opera tutta in una volta, ma nel 1809, davanti all’impazienza di un Napoleone ormai imperatore, si preferì iniziarne la pubblicazione per volumi. Proprio questa scelta garantì la continuità dell’impresa: dopo la battaglia di Waterloo e la caduta di Bonaparte, il re Luigi XVIII decise di portare a termine un’opera che, nonostante le sue connotazioni bonapartiste, era diventata fonte di orgoglio nazionale. La Description de l’Égypte, ou Recueil des observations et des recherches qui ont été faites en Égypte pendant l’expédition de l’armée française, publié par les ordres de sa majesté l’Empereur Napoléon le Grand è composta da 19 tomi suddivisi in nove volumi di testo e dieci tavole, oltre ad altri tre volumi di grandi dimensioni, i cosiddetti “mammut”. I primi due contengono le tavole, il terzo invece le mappe. Il processo di pubblicazione si protrasse dal 1810 – il primo volume è datato
Le incisioni realizzate dai disegnatori della spedizione scientifica francese in Egitto evidenziano il contrasto tra la gloria passata degli edifici e la realtà dell’epoca. Per esempio, il disegno del tempio tolemaico di Horus a Edfu, realizzato da André Dutertre e visibile qui sopra, mostra l’edificio perfettamente conservato ma sepolto parzialmente dalle sabbie del deserto. L’artista colloca una tenda nomade nei pressi del monumento per creare una certa atmosfera e dare profondità all’immagine. A destra un’incisione di Jean Baptiste Réville che mostra l’ingresso del tempio di Luxor. In primo piano si osservano i due obelischi (quello di destra sarebbe stato mandato in Francia nel 1831), affiancati da due colossi semisepolti. Dietro, si ergono i piloni del tempio mentre sullo sfondo s’intravede il minareto di una moschea.
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1809 per adempiere agli ordini imperiali – al 1824 mentre i libri cartografici vennero pubblicati solo nel 1828 in quanto considerati segreti di stato. Questo evidenzia le implicazioni geopolitiche dell’opera e del desiderio di controllare con la conoscenza un territorio che non poteva essere dominato militarmente. La prefazione di Joseph Fourier è un esempio della prospettiva sull’Oriente prodotta dalla fusione delle idee illuministiche con gli interessi europei. L’Egitto veniva presentato come la culla della civiltà – un concetto relativamente nuovo per l’epoca, nato alla fine del XVIII secolo –, dove si erano formati i grandi pensatori greci e che aveva dato potere e prestigio ad Alessandro Magno, ai conquistatori romani e allo stesso Bonaparte. Ma a questa visione di uno splendore passato si accompagnava l’idea che il Paese in quel momento stesse sprofondando nella barbarie e che la conquista francese fosse in qualche modo necessaria a restituirgli i benefici di quella civiltà che aveva contribuito a creare.
ZODIACO DEL TEMPIO DI DENDERA. INCISIONE BASATA SUL DISEGNO REALIZZATO IN SITU DA JOLLOIS E VILLIERS. QUI SOTTO, PIANTA DEL TEMPIO.
Il tempio di Dendera
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Durante il suo viaggio pionieristico attraverso l’Alto Egitto Vivant Denon rimase colpito dal tempio di Dendera, che considerava superiore a qualsiasi monumento dell’antica Grecia. Prima di tornare in Europa mostrò i suoi schizzi a Jollois e Villiers, due giovani collaboratori che qualche mese dopo tornarono con una scorta armata. Visitarono quello che allora era ritenuto un tempio di Iside (e che in realtà è dedicato a Hathor), e realizzarono disegni e piante estremamente fedeli del monumento. L’uso delle torce dovuto all’oscurità interna rese il processo di copiatura «lungo e doloroso», come racconta Villiers. Non mancarono i momenti di paura, come quando trovarono in una stanza sotterranea il corpo di qualcuno deceduto anni prima.
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Il contenuto di Description de l’Égypte è suddiviso in tre sezioni – antichità, storia naturale e stato moderno –, ciascuna composta da diversi volumi di testo e d’immagini. Più della metà dell’opera è dedicata alle antichità, il che dimostra la centralità che aveva il passato faraonico nell’immaginario degli studiosi. Va tuttavia notato che questi si trovarono di fronte a un limite fondamentale: non sapevano leggere i geroglifici, e di conseguenza non erano capaci di ricostruire una storia coerente dell’antico Egitto e di analizzarne la società e l’economia. Risultò quindi impossibile organizzare l’opera in ordine cronologico (per tappe storiche). Per questa ragione nei volumi 1 e 2 i monumenti appaiono in ordine geografico, da sud a nord, concretamente dall’isola di File, in Alto Egitto, fino al delta del Nilo. Nei volumi 3 e 4 confluirono articoli su differenti tematiche specifiche. Ai testi sull’astronomia, firmati da Fourier, parteciparono probabilmente anche i fratelli Champollion, sebbene non vengano menzionati. La metodologia utilizzata consisteva nel confrontare le narrazioni degli autori classici con i resti ancora visibili dei monumenti. Dal
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Meriti e carenze dell’opera
TEMPIO DI DENDERA. QUEST’INCISIONE DI L’EGYPT ANCIENNE ET MODERNE, DI JACQUES JOSEPH CHAMPOLLION-FIGEAC, È UNA REPLICA DI QUELLA APPARSA IN DESCRIPTION DE L’ÉGYPTE.
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INTERNO DEL TEMPIO DI HATHOR A DEIR EL MEDINA IN UN’INCISIONE A COLORI DI DESCRIPTION DE L’ÉGYPTE.
punto di vista odierno il valore maggiore dell’opera risiede nelle tavole, le cui qualità estetiche e fedeltà sono messe in risalto dalle grandi dimensioni. Queste immagini rappresentano l’inizio dell’archeologia accademica nella valle del Nilo. Le piante topografiche sono eccezionali: sono mappe, prospetti, sezioni e misure precise dei monumenti che avevano lo scopo di consentirne lo studio anche senza recarsi sul posto. Circa una ventina degli edifici rappresentati sono nel frattempo scomparsi, e tutto ciò che ne resta sono appunto le incisioni e i testi della Description.
Mappa geometrica di Giza Nel capitolo di Description de l’Égypte sulle grandi piramidi, l’ingegnere-geografo Edme Jomard scriveva: «Ciascuna delle grandi piramidi copre o nasconde uno spazio così vasto che era impossibile capirne con precisione la rispettiva posizione. Per questo motivo era indispensabile una pianta topografico-geometrica che consentisse una descrizione esatta e fedele del luogo. A occuparsene è stato il colonnello Jacotin, e io l’ho aiutato misurando i lati e le altezze delle piramidi, così come il monumento orientale e l’immensa strada che conduce alla terza piramide (quella rivestita di granito)», cioè la piramide di Micerino.
Qualche incongruenza Non tutte le incisioni sono però allo stesso livello. L’estetica greco-romana di alcune dimostra infatti che i disegnatori non seppero adattarsi alla staticità e all’assenza di prospettiva che caratterizzava la concezione egizia della figura umana. Il non saper leggere i geroglifici comportò inoltre vari errori nell’identificazione dei segni. In qualche tavola le iscrizioni di un monumento furono usate per riempire la superficie di un altro, anche se in quei casi è presente un avvertimento al lettore. La situazione non cambiò molto dopo che nel 1822 Jean-François Champollion decifrò la scrittura egizia antica, visto che Jomard non accettò mai le sue spiegazioni sui geroglifici. L’effetto che la Description ebbe sullo sviluppo dell’egittologia si rivelò inferiore allo sforzo richiesto. Sebbene nel 1825 se ne pubblicasse una seconda edizione a un prezzo più contenuto – curata da Panckoucke e comprendente 37 volumi –, si trattava pur sempre di un’opera molto costosa e di difficile accesso. Oggi i media digitali permettono di consultarla facilmente. —MIGUEL ÁNGEL MOLINERO POLO UNIVERSITÀ DI LA LAGUNA
TESTO
Description de l’Égypte AA.VV. Taschen Benedikt, Colonia, 2002. SAGGIO
Napoleone Bonaparte in Egitto. Catalogo di una spedizione tra conquista e conoscenza (1698-1701) Museo napoleonico (a cura di). Gangemi, Roma, 2000. INTERNET
Le tavole di Description de l’Égypte http://description-egypte.org/
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Per saperne di più
GUARDARE, DISEGNARE, ESPLORARE Numerose incisioni di Description de l’Égypte raffigurano gli stessi studiosi occupati a disegnare, prendere appunti, dissotterrare frammenti di sculture o entrare in qualche antico monumento. Ciò permise loro di conservare un ricordo personale della grande avventura archeologica che avrebbe gettato le basi dell’egittologia moderna e di testimoniarne la portata. Sull’isola di File
Tomba di Paheri a El-Kab
I ricercatori francesi eseguono degli schizzi davanti al chiosco di Traiano, sull’isola di File. A sinistra, il tempio di Iside.
Uno studioso francese disegna le statue nella nicchia della parete nord della tomba, che apparteneva a un alto funzionario della XVIII dinastia.
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Mano di un colosso di Menfi
Nella piramide di Cheope
L’incisione mostra i francesi intenti a preparare il trasporto di questo pezzo in granito rosa, oggi conservato presso il British Museum.
L’architetto Le Père attende ai piedi della scala che ha fatto costruire per esplorare una cavità della galleria.
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L’UOMO DEI GHIACCI
ÖTZI Nel 1991 una coppia di escursionisti tedeschi scoprì sulle Alpi il corpo mummificato di un uomo vissuto cinquemila anni fa. Da allora lo studio dei suoi resti ha gettato luce sulla vita nell’Europa dell’Età del rame
COM’ERA ÖTZI
Nella pagina precedente, dettaglio del volto di Ötzi. Proviene da una ricostruzione realizzata nel 2011 dagli esperti olandesi Alfons e Adrie Kennis, oggi conservata nel Museo archeologico dell’Alto Adige, a Bolzano. In questa pagina, panorama del ghiacciaio Hauslabjoch, nella valle di Ötztal, dove venne scoperto Ötzi. FONDO: KENNETH GARRETT. RICOSTRUZIONE: ROBERT CLARK / GETTY IMAGES
U
n uomo solo, di circa 45 anni, prova a valicare le Alpi in pieno inverno. Si ferma per riposare e mangiare parte di quanto ha cacciato; si sente al sicuro. Giorni prima è rimasto coinvolto in una rissa e si è ferito alla mano destra, eppure ora è convinto di essersi lasciato alle spalle i nemici; non può certo immaginare che lo hanno inseguito a ben 3.210 metri di altitudine, nel ghiacciaio dove adesso si trova. Infatti non è solo. La neve attutisce i passi
L’ULTIMO VIAGGIO DI ÖTZI
Le mappe sotto queste righe mostrano il luogo in cui fu rinvenuto il corpo di Ötzi e l’itinerario che potrebbe aver seguito, deviando dal percorso tracciato fino al passo dove trovò la morte.
di qualcuno che, alle sue spalle, da circa 30 metri di distanza, scocca una freccia che gli perfora la spalla sinistra e lo ferisce a morte. L’uomo cade sbattendo la testa contro una pietra, o forse gli assestano un colpo e muore dissanguato dopo una lunga agonia. L’omicidio di Ötzi è avvenuto circa 5.300 anni fa, in piena Età del rame, ma ancora oggi è oggetto d’indagini. Il suo assassino non si è preso il disturbo di rubargli i preziosi beni che portava con sé: non era certo il furto l’obiettivo del crimine. Almeno questo è quanto credono i detective e gli scienziati come Frances Pryor e Albert Zink, che millenni dopo hanno analizzato il cadavere di Ötzi, scoperto quando lo scioglimento dei ghiacci nei quali era sepolto lo ha portato alla luce e ha consentito ad alcuni alpinisti
Luogo di scoperta di Ötzi L
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Ipotetico percorso dell’uomo dei ghiacci
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La scala varia in questa prospettiva.
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di trovarlo sul massiccio di Ötztal – da qui il suo nome –, a 90 metri dalla frontiera austro-italiana. Da quel giorno di settembre del 1991 fino a oggi, quello di Ötzi è diventato uno dei corpi più studiati della storia. Ogni suo effetto personale, ogni suo abito e ogni tratto fisico e genetico è stato analizzato minuziosamente grazie all’eccezionale stato di conservazione del corpo e dell’equipaggiamento. «In genere di quel periodo, ovvero dell’Età del bronzo o del Mesolitico, si trovano tombe senza alcun corredo, ma gli oggetti di questa mummia hanno permesso di scoprire molto sulla vita di cinque millenni fa, un periodo di grandi mutamenti», afferma l’archeologa Maria Àngels Petit, dell’Università di Barcellona, che da anni segue le indagini su Ötzi. «Si fa fatica a immaginare che una persona in fuga potesse essere così ben attrezzata, ma si sa pure che a quell’epoca non mancavano gli scontri tra le diverse comunità». Proprio per questo Ötzi potrebbe essere stato costretto a scappare. Nel tempo si sono succedute le analisi, e grazie al progresso della tecnologia si sono fatti passi da gigante sul mistero dell’“uomo dei ghiacci”. Grazie allo studio del suo DNA realizzato nel 2008 sappiamo che Ötzi ha ancora discendenti vivi dal ramo paterno
in Corsica, in Sardegna e in Tirolo; il ramo materno, di origine alpina, è invece estinto. Il suo lignaggio, frutto della grande migrazione neolitica che dal Vicino Oriente si spostò in Europa circa ottomila anni fa, era molto comune all’epoca. Come afferma Carles Lalueza-Fox, esperto di DNA antico, il genoma di Ötzi rivela che gli attuali sardi discendono da una popolazione alquanto diffusa in quelle migrazioni. Il DNA di Ötzi fornisce anche molti indizi sul suo aspetto – aveva gli occhi marroni e i capelli castani – e sulla sua salute: era intollerante al lattosio e predisposto ad alcune malattie cardiache.
Non sappiamo perché l’abbiano ucciso, però conosciamo diversi dettagli sulla sua condizione fisica. Quest’individuo maturo, con il volto solcato dalle rughe e dalla corporatura abbastanza minuta – pesava 50 chili ed era alto 1,60 metri – aveva la malattia di Lyme, che si contrae in seguito al morso di una zecca. La scoperta della patologia si deve alla presenza del batterio Borrelia burgdorferi nel sangue. Era affetto pure da parodontite, l’infiammazione delle gengive, da calcoli biliari e da un’artrite che cercava quasi sicuramente di combattere con tatuaggi terapeutici. Eppure, nonostante tutto, era riuscito a sopravvivere in un ambiente molto ostile.
Il suo equipaggiamento dimostra che era pronto per un lungo viaggio. Gli indumenti erano composti da cinque tipi di pelle: portava un berretto in pelle d’orso, una sopravveste di capra e pecora, gambali fino al ginocchio in cuoio di capra, dei calzoni e una cintura in pelle di vitello. Le scarpe avevano la suola in pelle d’orso e di cervo, una rete di corteccia di albero e un’imbottitura interna in paglia. Tutte le pelli avevano ricevuto un’accurata lavorazione che includeva la raschiatura, l’affumicatura e un trattamento con grasso per renderle impermeabili. Sul corpo portava un parapioggia, o una stuoia, di fibre vegetali intrecciate. Poiché i suoi strumenti e le armi erano logori o incompleti, si crede che fosse fuggito al volo dal suo luogo d’origine, proprio come se stesse scappando da qualcuno.
RIEDMILLER / CARO PHOTO / CORDON PRESS
Cosa racconta la mummia di Ötzi
LA VALLE DI TISEN
Sopra, panorama di una delle valli che formano la regione delle Alpi di Ötztal, o Alpi Venoste, la zona in cui visse Ötzi e dove fu misteriosamente assassinato.
Ötzi è la più antica mummia umana mai trovata in Europa, testimone di un passato in cui un po’ per volta si evolvevano la tecnica e la cultura, ma nel quale la violenza era fin troppo presente. Forse un giorno la scienza riuscirà a comprendere il movente di questo crimine, che rimane ancor oggi un mistero. ROSA M. TRISTÁN GIORNALISTA SCIENTIFICA
Per saperne di più
SAGGI
Ötzi, Tutankhamon, Evita Peron. Cosa ci rivelano le mummie Albert Zink. Il Mulino, Bologna, 2016. La mummia dei ghiacci Brenda Fowler. Piemme, Casale Monferrato, 2000. INTERNET
http://www.iceman.it/ Museo archeologico dell’Alto Adige
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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1 U NA SCOP ERTA CA SUA L E
ÖTZI RIEMERGE DAI GHIACCI
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PIÙ ANTICO DEL PREVISTO
Dopo il ritrovamento di Ötzi nella zona accorsero curiosi e alpinisti come il sudtirolese Reinhold Messner (a destra nell’immagine). A partire dall’osservazione di elementi come l’ascia rustica e l’arco in legno di tasso, Messner capì subito la portata dell’evento. «Non appena lo vidi mi resi conto che si trattava di un’importante scoperta archeologica», disse. 48 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
PAUL HANNY / GAMMA-RAPHO / GETTY IMAGES
ra il 19 settembre 1991. Una coppia tedesca in vacanza sulle Alpi, i Simon, scendeva dalla punta di Finale, una vetta a più di 3.500 metri di altitudine nelle Alpi di Ötzal o Venoste. Durante l’escursione s’imbatterono in un cadavere tra le nevi del ghiacciaio di Hauslabjoch. In un primo momento pensarono che si trattasse dei resti di un escursionista rimasto sepolto sotto la neve, forse per decenni. Il luogo del ritrovamento dista appena 90 metri dalla frontiera tra Italia e Austria, e i Simon decisero di avvisare le autorità austriache. La loro scelta causò un conflitto tra i due Paesi, che reclamarono per sé i resti. La contesa si risolse solamente quando venne stabilito il punto esatto del ritrovamento, in territorio italiano. In ogni caso, il corpo di Ötzi venne in un primo momento esaminato dalle autorità austriache che, come i Simon, propendevano per l’ipotesi del cadavere di un escursionista scomparso e nei giorni seguenti estrassero il corpo dal ghiaccio e lo portarono in elicottero a Innsbruck per sottoporlo all’autopsia. Ma appena iniziarono ad analizzarlo apparve chiaro che quello di Ötzi era un ritrovamento straordinario. La pelle, l’ascia di rame e altri utensili rinvenuti vicino al cadavere indicavano che era molto più antico, e a Ötzi s’interessarono vari archeologi, tra cui Konrad Spindler, allora capo dell’Istituto di Preistoria dell’Università di Innsbruck, che sarebbe diventato uno dei più grandi esperti in materia.
2 CINQUEM I L A A NNI NEI G H I ACC I
UNA FRECCIA CONFICCATA NELLA SPALLA
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LA FINE DI ÖTZI
Questo disegno ricostruisce gli ultimi attimi di vita di Ötzi. L’uomo del ghiaccio giace moribondo nel luogo che sarebbe divenuto la sua tomba, ricoperto dal suo mantello di paglia e con il braccio sinistro piegato sotto il corpo, come venne scoperto cinquemila anni più tardi. 50 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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uando Ötzi fue encontrado por Helmut y Erika Simon se encontraba tumbado boca abajnque boca arriba, en el Museo Arqueológico del Tirol del Sur, en la localidad italiana de Bolzano.
CORPO: WOLGANG NEEB / AGE FOTOSTOCK. ILLUSTRAZIONE: GREGORY HARLIN / NGS
uando il cadavere di Ötzi venne trovato da Helmut ed Erika Simon era in posizione prona, con il braccio sinistro allungato e incrociato davanti al petto. Quello destro invece era steso lungo il fianco. Tale posizione fu spiegata solo dieci anni dopo il suo ritrovamento, nel 2001, quando il radiologo Paul Gostner, dell’ospedale di Bolzano, scoprì che Ötzi era stato assassinato: la mummia aveva una punta di freccia conficcata nella spalla sinistra, una ferita mortale che gli aveva paralizzato il braccio e aveva sezionato l’arteria, causando la morte per dissanguamento. Alcuni scienziati suggerirono poi che la posizione del cadavere potesse essere dovuta al fatto che, dopo la morte, qualcuno avrebbe girato Ötzi per provare a estrarre la freccia. Costui avrebbe strappato l’asta senza però riuscire a rimuovere la punta che rimase conficcata nel cadavere. Due giorni dopo il ritrovamento di Ötzi, quando si cercò d’introdurre il corpo in una cassa di legno per trasportarlo all’Istituto di medicina forense di Innsbruck, gli addetti allo spostamento del corpo gli torsero il braccio disteso, rompendogli accidentalmente l’omero sinistro, che dovette essere ricomposto. Oggi Ötzi è esposto nella stessa posizione in cui venne trovato, anche se supino, all’interno del Museo archeologico dell’Alto Adige, a Bolzano.
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Parti danneggiate La coscia sinistra di Ötzi fu probabilmente mangiata da un animale saprofago, mentre il fianco sinistro fu danneggiato durante il processo di estrazione, quando una perforatrice pneumatica lo tagliò per errore.
R I T O R N O A L F R E DDO
SOUTH TYROL MUSEUM OF ARCHAEOLOGY / AUGUSTIN OCHSENREITER
Dal 1998 il museo di Bolzano conserva Ötzi a sei gradi sotto zero. Dopo millenni tra i ghiacci, i resti vennero scongelati nel 1991 per essere sottoposti ad autopsia, ma quando si capì che la mummia iniziava a deteriorarsi, gli studiosi decisero di mantenerla congelata. Malgrado ciò, Ötzi è stato scongelato altre due volte: nel 2000, per raccogliere campioni di DNA da analizzare con tecniche che non esistevano dieci anni prima, e nel 2009, per scattargli 158mila foto agli infrarossi e raccogliere campioni dal contenuto dello stomaco. Si scoprì così il suo ultimo pasto.
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3 OGGETTI QUOTI DI A NI
IL KIT DI UN UOMO DEL NEOLITICO
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L’
attrezzatura che Ötzi portava con sé sorprese gli scienziati. Indicava che era pronto per un lungo viaggio, perché vicino al suo cadavere c’era un vero e proprio kit di sopravvivenza. Legato alla cintura portava un marsupio di pelle che conteneva un set di piccoli strumenti: un raschiatoio, un perforatore, una lamella di selce affilata e pezzi di fungo d’esca (utile “miccia” per accendere il fuoco). C’era pure un ritoccatore fatto di corna di selvaggina e legno, che dovette utilizzare per affilare gli utensili in selce. Ötzi possedeva anche un pugnale corto fatto di una pietra chiamata chert, con una guaina in fibre vegetali, due punte di freccia sparse e, nella faretra, 12 frecce senza punta in legno di viburno. Viaggiava armato di un’ascia di rame e un grande arco non finito di legno, che si ruppe durante l’estrazione dal ghiaccio, e portava con sé pure due recipienti in corteccia di betulla. Uno conteneva foglie di acero riccio appena raccolte e frammenti di carbone di legna: usava forse il recipiente per mantenere accese le braci. In tutto possedeva oggetti di 18 legni diversi, il che dà un’idea della conoscenza che si aveva all’epoca circa le specie vegetali. Accanto al corpo furono ritrovate corde e una rete che doveva forse servire per cacciare uccelli o trasportare oggetti. I suoi indumenti, assemblati con cinque pelli diverse, erano completi e adatti al freddo, e includevano un’efficiente calzatura impermeabile.
Pezzi: 1. Resti di calzoni. 2. Utensili e corda. 3. Recipiente in corteccia di betulla. 4. Berretto in pelle. 5. Rete in corteccia di albero per contenere la paglia che riempiva la scarpa. O forse era parte di una racchetta da neve. 6. Faretra di pelle e frecce senza punta. 7. Ascia di rame. 8. Punta di selce. 1. 2. E 3: W. NEEB / BRIDGEMAN / ACI. 4 E 5: ROBERT CLARK / GETTY IMAGES. 6: KENNETH GARRETT / GETTY IMAGES. 7 E 8: ROBERT CLARK / GETTY IMAGES
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IMBOSCATA NELLA NEVE Il disegno ricostruisce il momento in cui Ötzi fu colto alle spalle da una freccia. Non sapremo mai cosa accadde, ma gli scienziati hanno suggerito un’ipotesi: Ötzi era stato ferito in uno scontro con uno o più uomini ed era fuggito precipitosamente cercando di depistare i nemici. Una volta sulle Alpi, credendosi in salvo aveva ingerito il suo ultimo pasto e provato a curare le sue ferite. Ma alla fine venne stanato e aggredito. Dopo esser stato colpito dalla freccia che gli recise un’arteria, cadde a terra e batté la testa contro una roccia – o forse lo colpirono –, perse conoscenza e morì dissanguato.
IN VESTI G A ZI ONE FO R ENSE
COSÌ FURONO GLI ULTIMI ISTANTI DI ÖTZI
SPL / AGE FOTOSTOCK
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a fine di Ötzi rimase avvolta nel mistero per anni. All’inizio si pensò che fosse morto in un incidente mentre cercava di attraversare le Alpi, ma le indagini sulle sue vesti condotte dallo scienziato Tom Loy rivelarono tracce di sangue appartenenti a quattro individui. Fu allora che prese piede l’ipotesi della morte dovuta alle azioni di altre persone. Oggi sappiamo che Ötzi si ferì alla mano destra con un oggetto appuntito diversi giorni prima della sua morte: il taglio si stava infatti cicatrizzando. Dalle indagini l’ipotesi più verosimile sembra quella dell’omicidio a tradimento: Ötzi riposava quando l’assassino, che voleva evitare lo scontro aperto, gli si avvicinò alle spalle e gli scagliò contro una freccia da una trentina di metri. Il caso di Ötzi fu studiato nel 2014 dalla Sezione di indagini criminali di Monaco con gli ultimi metodi forensi. Poiché tutti gli oggetti di valore di Ötzi, tra cui la sua preziosa ascia di rame, erano rimasti sul luogo del misfatto, si è scartata l’ipotesi del furto. Si crede oggi che il movente dell’omicidio fosse un qualche conflitto personale, forse legato al precedente scontro che causò la ferita alla mano. Quel che è certo è che gli ultimi istanti di vita di Ötzi furono una lenta agonia. Qualche minuto prima di morire, l’uomo stava riposando dopo un sontuoso banchetto a base di carne e felci.
Nel 2018 i campioni dello stomaco di Ötzi rivelarono che aveva mangiato stambecco e cervo, carni molto grasse e dalla difficile digestione. Aveva ingerito anche cereali e, cosa curiosa, alcune felci tossiche, forse per provare a lenire un dolore di stomaco.
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L’ULTIMO PASTO
RESTI DEL CONTENUTO DELLO STOMACO DI ÖTZI PRONTI PER ESSERE ANALIZZATI. 54 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Della freccia che uccise Ötzi si conserva solo la punta. Era ancora conficcata nella spalla sinistra, e non venne scoperta fino al 2001. L’arma omicida, con punta in selce, è di qualità peggiore rispetto a quelle di Ötzi, e spiega perché si ruppe quando provarono a estrarla. Ötzi, invece, aveva estratto e recuperato le sue frecce in diverse occasioni, come suggerito dalla presenza del sangue di due persone diverse su una delle punte delle frecce ritrovate accanto al suo cadavere. Le analisi hanno rivelato inoltre che la selce delle punte proviene da una regione a circa 50 chilometri a sud dal punto in cui sarebbe successivamente stata scoperta la mummia congelata. IL BUSTO DI ÖTZI AI RAGGI X. IL CERCHIO INDICA IL PUNTO IN CUI ERA CONFICCATA LA FRECCIA.
RIEDMILLER / CARO PHOTO / CORDON PRESS
L A FR ECCIA CHE FINÌ ÖTZI
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LE CURE NEL L’ETÀ DEL R A M E
MEDICINE E TATUAGGI TERAPEUTICI
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L’
uso di piante medicinali era già comune tra i neanderthaliani, quindi non è strano che in due tasche della cintura di Ötzi vi fossero due pezzi di Piptoporus betulinus, un fungo di betulla noto per le sue proprietà antibatteriche. Per curare la ferita procuratosi nei giorni precedenti Ötzi aveva applicato sulla mano un muschio con proprietà curative. Ma il dettaglio più straordinario è la presenza di numerosi tatuaggi sul corpo dell’uomo, che potrebbero aver avuto fini terapeutici perché posti in corrispondenza delle articolazioni. Del resto, Ötzi soffriva di artrite. La mummia ha 61 tatuaggi suddivisi in vari gruppi, alcuni posti in strati profondi dell’epidermide. Tutti presentano forme geometriche riunite in due gruppi: per lo più si tratta di linee parallele, ma in alcuni casi ci sono anche delle croci. I tratti che compongono i disegni misurano tra gli 0,7 e i 4 centimentri. I due tatuaggi che compaiono sul petto coincidono con il punto in cui sappiamo che Ötzi patì forti dolori perché predisposto a problemi cardiaci (aterosclerosi). Per realizzare i tatuaggi s’incideva la pelle e si strofinavano le ferite con polvere di carbone. Non sappiamo se avessero fini estetici o terapeutici, ma non si può scartare l’ipotesi di un qualche misterioso significato religioso o simbolico. PIÙ TATUAGGI DEL PREVISTO
Per anni si credette che Ötzi avesse 30 tatuaggi, ma nel 2015, dopo che il corpo venne fotografato con l’aiuto di tecniche di fotografia multispettrale, il numero raddoppiò. Qui si indica la collocazione di alcuni tatuaggi sul corpo di Ötzi. SOUTH TYROL MUSEUM OF ARCHAEOLOGY / EURAC / SAMADELLI
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Le medicine di Ötzi. A destra, un frammento di fungo di betulla tenuto con una corda, conosciuto per le sue proprietà antibatteriche. Fu ritrovato tra gli oggetti di Ötzi.
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I tatuaggi dell’uomo dei ghiacci. Nell’immagine a destra, un tatuaggio a forma di croce vicino al ginocchio di Ötzi. Sotto, tatuaggi a forma di linee parallele nella parte bassa della schiena.
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6 LA PISTA DEL DNA
LE ORIGINI DELL’UOMO DEI GHIACCI
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LE RADICI DI ÖTZI
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l ritrovamento del cadavere di Ötzi ha permesso d’imparare molte cose sugli usi e costumi dei nostri antenati vissuti cinquemila anni fa, ma le origini geografiche di quest’uomo sono ancora incerte. Secondo alcuni, Ötzi proverrebbe forse dalla zona dell’attuale Toscana e non dall’est o dal nord del Tirolo, come creduto in un primo momento. Nel 2016, un quarto di secolo dopo la sua scoperta, uno studio esaustivo dell’ascia di rame rinvenuta vicino al cadavere ha rivelato che la proporzione di isotopi del piombo coincide con quella dei filoni di rame presenti in alcune zone del territorio toscano. Bisogna tenere presente che Ötzi visse nell’Età del rame, un periodo tra il Neolitico e l’Età del bronzo in cui gli uomini divennero sempre più sedentari, organizzandosi in comunità complesse che vivevano di allevamento, agricoltura e commercio. È stato suggerito che Ötzi non debba essere necessariamente vissuto in Toscana, ma che piuttosto l’ascia di rame potrebbe essere giunta nelle sue mani in seguito ad alcuni baratti.
ASCIA DI RAME DI ÖTZI. L’OGGETTO INDICA CHE L’UOMO DEI GHIACCI AVEVA UN CERTO STATUS NELLA SUA COMUNITÀ.
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KENNETH GARRETT
ARTE DEL RAME
L’Età del rame fu un momento di espansione del megalitismo e dell’arte schematica, nel quale si diffusero decorazioni geometriche incise su stele simili a quella qui a sinistra.
Il DNA dimostra che la stirpe paterna di Ötzi ebbe origine nel Vicino Oriente e migrò in Europa circa ottomila anni fa. Il batterio Helicobacter pylori che Ötzi aveva nello stomaco evoca antenati asiatici, perché questa “versione” del batterio esiste ancora oggi in Asia centrale ed è diversa dall’H. pylori europeo, che è una ricombinazione dei ceppi asiatico e africano.
È conosciuto con questo nome il periodo compreso tra gli ottomila e i 4.500 anni fa. A quei tempi gli uomini perfezionarono le tecniche di elaborazione della ceramica e i primi agricoltori sedentari iniziarono a usare con successo il rame. Aumentò anche la produttività agricola, che vide l’introduzione dell’aratura, e comparvero società più complesse. Alcuni secoli prima della nascita di Ötzi già esistevano in Europa grandi nuclei urbani fortificati. In Italia ebbero origine diverse culture, tra cui quella di Remedello, nella Pianura padana e di Rinaldone, in Toscana.
PERLA DISCOIDALE IN MARMO DOLOMITICO APPARTENUTA A ÖTZI. AVEVA FORSE UN SIGNIFICATO SIMBOLICO.
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L ’E T À D EL R A ME O CALCOLITI CO
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IL DIO DEL PIACERE
Dioniso era il dio del vino ed era associato al teatro. Intorno al 1496 Michelangelo scolpì questa statua che rappresenta Bacco, nome latino di Dioniso, coperto da grappoli d’uva e intento a brindare con una coppa. Museo nazionale del Bargello, Firenze. Sullo fondo, maschera tragica su un mosaico. Museo gregoriano, Roma. MOSAICO: SCALA, FIRENZE SCULTURA: AKG / ALBUM
I L D I O S E LV A G G I O D E L L’A N T I C A G R E C I A
DIONISO
Dio del vino e dell’estasi, Dioniso fu il protagonista di numerosi miti, a partire da quello sulla sua prodigiosa nascita dalla coscia di Zeus fino al suo trionfo assieme alla principessa Arianna
IL CORTEO DEL DIO
In questo cratere attico a figure rosse è rappresentato Dioniso in groppa a una pantera mentre presiede una processione formata da menadi e satiri. 370 a.C. Musée du Louvre, Parigi.
H. LEWANDOWSKI / RMN-GRAND PALAIS
D
ioniso era uno degli dei più noti del pantheon greco e al contempo uno dei più strani e complessi. Era nato da una mortale – la principessa tebana Semele, amata da Zeus – e, con i suoi riti selvaggi, avvicinava gli umani alle divinità. Da tutti conosciuto come “il dio del vino”, rappresenta in realtà molto altro: è la forza della natura ciclica, il dio della vegetazione e della linfa vitale. Grazie al vino aveva il potere di far estraniare gli uomini e di spingerli verso il loro lato animale, irrazionale e ambiguo. In virtù delle sue molteplici sfaccettature, Dioniso incarnava il grande mistero della vita e si offriva
agli uomini quale compagno vicino e piacevole, ma anche pericoloso. Il mito lo descriveva spesso alla testa di un corteo folle ed esuberante, conosciuto come tiaso e composto da ogni sorta di creature: le menadi e le baccanti – donne in preda alla frenesia e invasate –, Pan, il dio villoso dei pastori, e pure satiri e sileni, geni della natura con il torso di uomo e gli arti inferiori rispettivamente caprini ed equini. A questi si aggiungevano animali selvatici legati al dio, quali la pantera, la tigre, la lince o il serpente. Attorno a Dioniso si celebrava la cosiddetta festa bacchica, o baccanale, come veniva chiamata a Roma. Si trattava di un culto sfrenato e selvatico, perché veniva celebrato
C R O N O LO G I A
TRA VINO E TEATRO
XIII secolo a.C.
VIII secolo a.C.
Il nome di Dioniso compare sulle tavolette di Pilo, nel sistema di scrittura miceneo lineare B.
Omero definisce Dioniso «delizia per i mortali» e nel VI canto dell’Iliade riporta lo scontro del dio con il re Licurgo.
IL FAUNO DI NOME SILENO TIENE IN BRACCIO DIONISO NEONATO. SCULTURA IN MARMO. I-III SECOLO D.C. MUSÉE DU LOUVRE, PARIGI. DEA / SCALA, FIRENZE
BACCO ADOLESCENTE
In quest’olio dipinto tra il 1596 e il 1597 circa Caravaggio rappresentò Bacco – questo il nome latino di Dioniso – come un giovane con la testa cinta da foglie di vite e una coppa di vino in mano. Gallerie degli Uffizi, Firenze. SCALA, FIRENZE
V secolo a.C.
286 a.C.
100 d.C.
691 d.C.
Epoca di massimo splendore della tragedia ateniese, genere che nasce dal canto del capro (tragos), vincolato a Dioniso.
La repubblica romana regola il culto al dio Dioniso (Bacco per i romani) tramite un decreto del senato: De Bacchanalibus.
Per alcuni la frase di Cristo «Sono io la vera vite», dal Vangelo secondo Giovanni, rende merito di un possibile culto dionisiaco in Palestina.
Il Concilio trullano condanna alla scomunica coloro che invocano «il nome esecrabile di Dioniso».
STIBADIO DIONISIACO: DIONISO AL CENTRO CON APOLLO, DIO DELLA BELLEZZA E DELLE ARTI, E AFRODITE, DEA DELL’AMORE. AFFRESCO ROMANO DI POMPEI. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, NAPOLI.
niso fosse un dio strano e che le menadi esistessero solo nel mito e nella letteratura. Tuttavia, queste teorie sono cambiate nel corso del XX secolo. Grazie alla decifrazione della scrittura lineare B, avvenuta nel 1953, si è scoperto che Dioniso veniva menzionato nelle antiche tavolette micenee rinvenute all’interno del palazzo di Pilo, e risalenti al XIII secolo a.C. Era ormai evidente che non si trattava di un dio giunto in epoca arcaica da terre straniere come potrebbe suggerire la sua leggenda, bensì di una divinità greca a tutti gli effetti. Oltre a ciò, sono state trovate alcune iscrizioni elleniche, appartenenti a epoche diverse, nelle quali le leggi sacre contenevano riferimenti al culto delle menadi. Gli studiosi hanno quindi dimostrato pure l’esistenza di tali figure, ovvero di quelle donne in grado di toccare l’estasi e la frenesia per mano del dio, un’estasi che le spingeva al gesto estremo di squartare animali e mangiarne la carne cruda.
Selvaggio e civilizzato DAGLI ORTI / AURIMAGES
SILENO, L’AMICO DI DIONISO
Il cantaro per bere il vino nell’immagine sotto è decorato sui due lati con il volto di Sileno, amico leale e fedele servitore di Dioniso, nonché membro di ogni suo corteo. 540 a.C. Musée du Louvre, Parigi. H. LEWANDOWSKI / RMN-GRAND PALAIS
su un monte, di notte, con i riti e le danze delle baccanti che inseguivano e squartavano a mani nude un animale per divorarne le carni, in un’estasi delirante di balli e corse (oreibasia). Lì, in mezzo alla natura selvaggia, le menadi obbedivano a un sacerdote in trance, personificazione dello stesso dio, che guidava i riti deliranti, la corsa, la caccia, lo squartamento della preda (sparagmos) e il banchetto finale a base di carne cruda. Tali cerimoniali sfrenati parrebbero contraddire l’immagine armonica e serena che in genere abbiamo della religione greca. Per questo molti studiosi, soprattutto tedeschi, hanno a lungo creduto che quel dio non potesse essere autenticamente ellenico. Ipotizzavano piuttosto che si trattasse di un dio barbaro, tracio o frigio, e che quindi il suo mito di morte e resurrezione non fosse greco: potevano così salvaguardare la pacata razionalità che gli eruditi positivisti del XIX secolo attribuivano agli ellenici. Si diceva che Dio-
Dioniso era quindi un dio pienamente greco, anche se diverso dagli altri. Nella cultura ellenica era una figura ambivalente. Da un lato era il patrono dei misteri, riti segreti cui erano ammessi solo gli iniziati, simili a quelli compiuti in onore di Demetra, Iside e Mitra. Eppure era anche un dio pubblico, urbano e teatrale. Il dio del vino incarnava l’ebbrezza e l’estasi che colpivano gli esseri umani facendogli perdere la consapevolezza della propria condizione e delle circostanze in cui si trovavano, spingendoli quindi al di là della realtà e dell’esperienza umana; ma era pure simbolo delle riconciliazioni cittadine e della coesione collettiva. La religione dionisiaca consentiva all’uomo di sentirsi parte dell’essenza divina mediante un delirio che, però, non era necessariamente correlato all’ingestione di alcool o di altre sostanze perché poteva avere profonde cause psichiche. Dioniso era un dio che giungeva sempre in città da lontano, dal mare o dalla montagna, per spezzare la routine e sconvolgere ogni cosa. Provocava perciò una parentesi utopica di trasgressione e di liberazione. I suoi regali agli uomini erano infatti di carattere liberatorio: il vino, che attenuava le pene (lysios), e la danza estatica, che allontanava da sé i ballerini, ispirati
IL TRIONFO DI BACCO
Dioniso giunge in Grecia dopo aver conquistato l’India. Il dio viene rappresentato come un bambino che regge dei grappoli d’uva. Attorno a lui le menadi, i satiri e un ebbro Sileno accompagnano e venerano il dio che regalò all’umanità la preziosa bevanda. Olio di Pietro da Cortona. 1624 circa. Pinacoteca capitolina, Roma. SCALA, FIRENZE
DAVANTI ALL’INSISTENZA DELL’AMANTE SEMELE, IL DIO ZEUS LE SI PALESA IN TUTTO IL SUO SPLENDORE. OLIO DI LUCA FERRARI. XVII SECOLO. MUSEO DI CASTELVECCHIO, VERONA.
SCALA, FIRENZE
MENADE IN ESTASI
Le menadi accompagnavano il seguito di Dioniso mentre danzavano freneticamente sotto l’influenza del vino. Copia romana di un originale greco. I secolo. ERICH LESSING / ALBUM
dalla mania, la follia divina. I suoi doni, che rappresentavano un’iniziazione ai misteri della natura occulta e della vita ciclica, erano perciò un omaggio curativo e salvifico per l’umanità, ma potevano rivelarsi rischiosi come ogni esperienza iniziatica che comporti la dissoluzione della propria identità. Dioniso era il dio dell’“altro” e dell’alienazione. Da lì il suo rapporto anche con il teatro e con la maschera. Del resto, la tradizione narra che la tragedia fosse nata proprio dalla festa del capro (tragos) presieduta da Dioniso.
Nato da una coscia Sono molti i miti che coinvolgono Dioniso, a cominciare da quello sulla sua bizzarra nascita. Secondo il mito, Zeus s’innamorò della principessa tebana Semele e la mise incinta. La giovane, però, non credeva che il suo amante fosse un vero dio. Ne approfittò la gelosa moglie di Zeus, Era, che, scoperta l’unione, decise di provocare la fine di Semele. Mascherata da mortale, Era incitò la principessa a pre-
tendere dall’amante prove della sua natura divina, e Semele invitò Zeus a svelarsi. Zeus provò a farle cambiare idea, perché sapeva che la ragazza sarebbe morta, ma Semele insistette. Poiché Zeus le aveva promesso di soddisfarla in ogni sua richiesta, il nume le si palesò come fulmine, e la giovane rimase incenerita. Il mito racconta che Zeus riuscì a salvare il feto di sei mesi e lo cucì nella propria coscia. Trascorso il periodo di gestazione, Dioniso nacque dalla coscia di Zeus, in un parto forse meno complicato di quello di Atena, che venne invece alla luce dalla sua testa. Per questo è chiamato il dio “nato due volte” – anche se il mito orfico di Dioniso Zagreo testimonia pure una nascita precedente del dio bambino, che venne ucciso e smembrato dai titani: Zeus avrebbe cucinato il suo cuore, ne avrebbe fatto una bevanda e avrebbe chiesto a Semele di berla così da generarlo di nuovo. Dopo la sua straordinaria nascita, Dioniso venne affidato al dio Hermes e accolto dalle ninfe, che gli fecero da nutrici. Divenuto un dio, Dioniso liberò la madre dall’Ade, l’aldilà greco, e la rese immortale con il nome di
IL TEATRO DI DIONISO
Particolare delle gradinate nel teatro di Dioniso ai piedi dell’Acropoli di Atene. Con una capacità di circa 15mila spettatori, venne costruito tra il VI e il V secolo a.C. Fu dedicato al dio del vino, al quale si attribuiva l’invenzione della tragedia. MEL MANSER / FOTOTECA 9X12
IL DELIRIO DELLE BACCANTI
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ntorno al 406 a.C. il poeta tragico ateniese Euripide scrisse la tragedia Baccanti, che racconta la vendetta di Dioniso contro i nemici del suo culto. Nell’opera, l’evocazione dei misteri dionisiaci è affidata al coro: «Oh felice, chi / [...] il suo viver santifica / inebriando l’anima nel tiaso [il corteo], / pei monti, in estro bacchico» e «ed alto in aria / il tirso [il bastone del dio] squassa, e servo di Dioniso / si fa, cinto il crine d’edera!». Euripide coglie anche l’occasione per descrivere il delirio e la frenesia che s’impossessano dei partecipanti quando il dio, in mezzo al corteo «suol cadere / correndo in traccia / del capro, e ucciderlo, fumante beverne / il sangue»; poi «si avventa in corsa, con la danza eccita, / con la grida eccita gli erranti, e all’etere / scaglia i suoi riccioli molli; ed insieme coi lieti cantici grida così: “Correte, o Menadi, correte!”».
DUE MASCHERE TEATRALI, UNA TRAGICA E L’ALTRA COMICA, IN UN RILIEVO ROMANO IN MARMO. II SECOLO D.C. BRITISH MUSEUM, LONDRA.
BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE
LA METAMORFOSI DEI PIRATI
Kylix del ceramista Exekias per bere il vino. Rappresenta la leggenda dei pirati che Dioniso trasformò in delfini. 530 a.C. ca. Staatliche Antikensammlungen, Monaco. SCALA, FIRENZE
Tione. Volle regalare all’umanità il suo grande dono: il vino, ma Era non aveva ancora dimenticato il tradimento di Zeus e lo fece impazzire. Dioniso viaggiò allora in Egitto e in Siria, per poi giungere in Frigia presso la dea Cibele, dalla quale apprese l’arte della danza sfrenata. Si spostò quindi in Tracia, dove il re Licurgo gli si dimostrò ostile. Secondo una versione, Dioniso si vendicò dell’affronto subito dal sovrano obnubilando la sua mente. Licurgo, in preda alla confusione, uccise il figlio dopo averlo scambiato per un tralcio di vite, la pianta sacra al dio. Un oracolo predisse inoltre che la terra non sarebbe tornata fertile se il monarca non fosse stato punito, e lo stesso popolo trascinò Licurgo sul monte Pangeo, dove lo fece smembrare dai cavalli. È celebre pure la spedizione di Dioniso in India, territorio che conquistò grazie al vino e alla danza. Dopo il suo soggiorno in Asia il dio tornò in Grecia, nella cit-
tà che l’aveva visto nascere, Tebe. Dioniso voleva esservi riconosciuto quale dio ma il cugino, il re Penteo, si oppose all’introduzione del suo culto. Il sovrano subì un destino simile a quello di Licurgo: morì squartato dalle folli baccanti della città – tra di loro, figurava pure la sua stessa madre, Agave – che lo avevano scambiato per una fiera mentre il re spiava di nascosto i loro riti. Oltre al vino, nel culto di Dioniso compaiono pure il teatro e le feste celebrate in suo onore, come le Antesterie di Atene. Qui il dio insegnò la coltivazione della vite all’anziano Icario ma alcuni pastori, cui il vecchio aveva offerto del vino, si ubriacarono e lo uccisero perché non conoscevano la sostanza e i suoi effetti, e credettero di essere stati stregati o avvelenati. Dopo aver scoperto il cadavere del padre, la figlia Erigone, distrutta dal dolore, s’impiccò. Per vendicarsi il dio tolse il senno alle donne delle famiglie dei pastori che, con l’obiettivo di placare l’ira del dio, dedicarono una festività a Erigone. Un’altra avventura famosa di Dioniso è quella dei pirati tirreni, i quali lo sequestrarono per venderlo. Quando Dioniso liberò
IL SUPPLIZIO DI PENTEO
Questa pittura della casa dei Vettii, a Pompei, illustra il mito della morte del re Penteo di Tebe, che fu assassinato e smembrato da un gruppo di menadi, tra cui la stessa madre, sotto l’influenza di una frenesia dionisiaca. Lo racconta Euripide nella tragedia Baccanti. SCALA, FIRENZE
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DIONISO E ARIANNA: LA Un sarcofago romano del III secolo d.C. mostra su uno dei lati il
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uesta magnifica composizione scultorea rappresenta uno degli episodi più conosciuti della mitologia classica. Dopo aver aiutato il principe Teseo a uccidere il Minotauro, Arianna, figlia del re Minosse di Creta, fugge con l’eroe. La coppia giunge a Nasso dove Teseo abbandona la principessa durante il sonno. 1 Mentre dorme, Arianna è scoperta dal dio Dioniso 2, che è giunto nell’isola con il suo seguito di menadi e satiri. Il dio del vino s’innamora immediatamente della giovane, che sposerà e porterà al firmamento. La decorazione del sarcofago è una variopinta successione di satiri che suonano strumenti 3 e di menadi che
FOTO: H. LEWANDOWSKI / RMN-GRAND PALAIS
ballano sfrenate 4. Compaiono anche alcuni centauri 5 , uno dei quali è una donna che regge in braccio il figlioletto 6 . La presenza di quest’episodio in un sarcofago di tale epoca, ovvero del III secolo d.C., si può spiegare per il parallelismo tra la speranza nella salvezza dopo la morte da parte del defunto e l’immortalità che Dioniso concede ad Arianna dopo averla svegliata ed essersi sposato con lei. Il busto maschile sopra la scena 7 doveva rappresentare il defunto, anche se il volto è incompleto, come quello di Arianna. Infine lo spazio in bianco della parte centrale 8, probabilmente destinato a un’iscrizione, purtroppo è incompleto.
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PR INCIPESSA SI SVEGLI A momento in cui Dioniso trova Arianna addormentata a Nasso
MOSAICO PROCEDENTE DE LA CASA DE DIONISO Y ULISES, EN DOUGGA, LA ANTIGUA THUGGA (TÚNEZ). SIGLO III D.C. MUSEO NACIONAL DEL BARDO, TÚNEZ.
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UN GIOIELLO DEL LOUVRE
Questo sarcofago, scoperto nel 1805 a SaintMédard-d’Eyrans, nei pressi di Bordeaux, era vicino a un altro simile, decorato con il mito di Endimione e di Selene. Entrambi i pezzi risalgono al 220-240 d.C. ed erano destinati a una coppia, le cui ossa sono state trovate all’interno. Oggi sono conservate al Museo del Louvre di Parigi. A destra e a sinistra del testo compaiono i due lati del sarcofago di Dioniso e Arianna con le immagini di Pan e di un satiro.
AL TEMPIO DI BACCO. DETTAGLIO DI UN OLIO DI GIOVANNI MUZZIOLI CHE MOSTRA UNA BACCANTE NELL’ATTO DI DANZARE DAVANTI A UN UOMO UBRIACO. XIX SECOLO. GALLERIA NAZIONALE D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA, ROMA.
la sposò e la divinizzò. La coppia divenne il simbolo dell’amore coniugale e fu ampliamente rappresentata in ceramiche, sculture e pitture. All’incontro dedicarono altrettante opere liriche Benedetto Marcello, nel XVIII secolo, e Richard Strauss, nel XX. Sin dall’antichità, il risveglio di Arianna e la sua unione con Dioniso rappresentano l’unione mistica dell’anima con la divinità e la salvezza grazie all’amore. Con l’affermazione del cristianesimo venne sottolineata la somiglianza tra Cristo e Dioniso, giacché i culti di entrambi coinvolgevano il sangue e il vino, similitudine che fu notata con apprensione dai primi padri della Chiesa.
Caratteristiche comuni
LA DEA CIBELE SUL CARRO
Cibele accolse Dioniso mentre errava per il mondo in seguito a una punizione di Era. Cibele lo iniziò ai suoi riti misterici. Metropolitan Museum, New York. METROPOLITAN MUSEUM / SCALA, FIRENZE
Dioniso è probabilmente il dio greco più affascinante, nonché una delle divinità preferite dai fedeli di epoche diverse: nell’antichità micenea o nel periodo arcaico, quando era un dio che integrava l’elemento rurale e quello urbano; in epoca romana, quando il senato si vide perfino costretto a proibire i frequenti baccanali; o alla fine del DEA / ALBUM paganesimo, quando il suo culto entrò in competizione con il cristianesimo. In alil suo potere e riempì la nave di vegetazione cune zone dell’impero bizantino il dio era i pirati impazzirono e si gettarono in mare, ancora onorato nel VII secolo d.C. Dioniso condivideva molte caratteristitrasformandosi in delfini. Di Dioniso si conoscono molte relazioni che con altre divinità misteriche dell’ancon ninfe e giovani cacciatrici, anche se ebbe tichità, e nei riti orfici compariva sotto il un unico grande amore: Arianna. Figlia del nome di Zagreo. Forse però il dettaglio che re Minosse di Creta, la principessa aveva più colpisce del dionisismo è la sua similiaiutato l’eroe ateniese Teseo a uccidere il tudine con il cristianesimo, giacché la liturmostruoso Minotauro. Malgrado ciò, l’a- gia misterica cristiana – soprattutto quella mato l’aveva successivamente abbandona- eucaristica – ricorda l’esperienza mistica ta a Nasso mentre dormiva. Secondo una di Dioniso. Gli antichi scrittori cristiani già variante del mito di Arianna, ben presto temettero quest’analogia, che antropologi e sopraggiunse Dioniso su un carro trainato mitologi moderni come James Frazer o Joseda animali e in compagnia del suo corteo ph Campbell hanno in seguito studiato intrionfale. Il dio s’invaghì della principessa, dicando il carattere parallelo delle peripezie di queste e altre figure, che muoiono e poi risorgono per salvare l’umanità. Non si può negare la profonda impronta di Dioniso. —David Hernández de la Fuente Per saperne di più
TESTI
Dioniso. Mito e culto Walter F. Otto. Il melangolo, Genova, 2006. Dioniso e la pantera profumata Marcel Detienne. Laterza, Roma-Bari, 2007. Baccanti Euripide. Feltrinelli, Milano, 2014.
TEMPIO DI DIONISO A PERGAMO
Questa città in Asia Minore ospitava uno dei teatri più grandi dell’epoca, con una capacità di 10mila spettatori. Nell’immagine si possono notare le gradinate laterali, costruite lungo i fianchi della collina e, in primo piano, il tempio dedicato a Dioniso in quanto divinità protettrice del teatro. J. LANGE / GETTY IMAGES
Imperatrice tra due epoche
GALLA PLACIDIA L A NOBILISSIMA Donna determinata e potente alla guida di Roma, Galla Placidia vide con i suoi occhi il tramonto del piĂš grande impero europeo
SAN GIOVANNI APPARE A GALLA PLACIDIA
Nel dipinto di Nicolò Rondinelli della fine del XV secolo, Placidia ringrazia san Giovanni per averla salvata da un naufragio. Pinacoteca di Brera, Milano. FOTO: SCALA, FIRENZE
C R O N O LO G I A
Da nobilissima ad augusta 388 - 392 d.C.
La quarta figlia di Teodosio I, imperatore romano d’Oriente, nasce a Costantinopoli. Ha solo pochi anni quando riceve il titolo di nobilissima.
410 d.C.
I goti di Alarico saccheggiano Roma, inviolata da quasi 800 anni, e prendono con sé una prigioniera illustre: Placidia, sorella dell’imperatore Onorio.
414 d.C.
Placidia sposa Ataulfo, re dei goti. Nascerà il primo erede imperiale di sangue barbarico, chiamato Teodosio come il nonno; morirà infante.
417 d.C.
Rimasta vedova, torna a Ravenna e sposa Costanzo, che affiancherà Onorio alla reggenza dell’impero. Assume il titolo di augusta.
PALAZZO DI TEODORICO
Riproduzione del XIX secolo di un mosaico della basilica di Sant’Apollinare Nuovo, a Ravenna. Mary Evans Picture Library, London.
Alla morte di Costanzo Placidia cade in disgrazia alla corte del fratello ed è costretta a scappare a Costantinopoli con i figli.
BRIDGEMAN / ACI
423 d.C.
Succede a Onorio alla guida dell’impero romano d’Occidente. Regnerà per 12 anni fino all’ascesa del figlio Valentiniano.
450 d.C.
Dopo avere trascorso gli ultimi anni della sua vita in preghiera e meditazione, Placidia muore e viene sepolta a San Pietro.
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LOREM IPSUM
425 d.C.
MONETA D’ORO DEL IV SECOLO CON L’EFFIGIE DI TEODOSIO I. COLLEZIONE PRIVATA.
L
a vita di Galla Placidia è stata un’avventura con sullo sfondo l’agonia dell’impero romano. Per usare le parole della storica Lidia Storoni Mazzolani, era nata nel mondo antico, morì nel medioevo. Venne alla luce intorno al 390 d.C. a Costantinopoli e seguì presto il padre, l’imperatore Teodosio I, in Italia. Ma due tragedie erano alle porte: nel giro di pochi mesi la madre Galla morì di parto nella lontana Costantinopoli e il padre si ammalò d’idropisia e si spense a Milano. La prima apparizione pubblica di Placidia fu dunque un evento tragico: una bambina di circa quattro anni, già orfana di madre, che assisteva al funerale del padre e all’appassionata orazione funebre del vescovo di Milano, Ambrogio. L’orfana Placidia rimase in Italia, sola in terra straniera, e fu affidata alle cure di una cugina paterna, Serena, sposata con Stilicone, l’uomo a cui Teodosio aveva lasciato il comando dell’esercito e che, di fatto, dalla sua morte esercitava la reggenza della
SCALA, FIRENZE
IL COLOSSO DI BARLETTA. PER ALCUNI RITRAE VALENTINIANO III, PER ALTRI TEODOSIO II. V SECOLO.
parte occidentale dell’impero romano. Si trasferì a Roma nel palazzo dei Cesari sul Palatino, in una casa piena d’intrighi. Capì presto di essere una pedina all’interno del mercato matrimoniale per arrivare al trono. Serena e Stilicone avevano dato in spose entrambe le loro figlie all’imperatore Onorio, il suo fratellastro, ma furono matrimoni senza figli. Allora, per avere nella loro famiglia un erede al trono, fecero fidanzare Placidia con il loro figlio maschio, Eucherio. La giovane crebbe dunque accanto al suo promesso sposo, anche se poi il matrimonio non si celebrò. Rimase a Roma anche durante i terribili anni 408 e 409, quando la città era stretta d’assedio dai goti. Alarico, il loro re, era stato più volte deluso dalle promesse tradite dell’imperatore Onorio e aveva deciso di agire con la forza bloccando la città e i suoi rifornimenti. Non temeva certo di essere attaccato alle spalle: Onorio se ne stava nascosto nel palazzo di Ravenna, città imprendibile per via della sua conformazione lagunare, mentre l’esercito imperiale era ormai allo sbando.
GALLA PLACIDIA ricevette da piccola il titolo di nobilissima, riservato agli aventi diritto di successione al trono. Nobilissima lo era davvero: il padre era l’imperatore Teodosio e il nonno Valentiniano I. Fu sorella di due imperatori, Onorio in Occidente e Arcadio in Oriente, madre di Valentiniano III, regina dei goti, augusta con il marito Costanzo e imperatrice reggente per dodici anni.
Nel 408 Placidia fece il suo ingresso nelle cronache con la sua prima decisione ufficiale, per lei di grande portata emotiva. La cugina Serena, che l’aveva allevata, era stata accusata di avere chiamato i goti ad assediare Roma in rappresaglia per la sorte del marito Stilicone, giustiziato in una congiura di palazzo pochi mesi prima. Il senato la condannò a morte. Tuttavia, dato che da donna era imparentata con l’imperatore, non si poteva eseguire la sentenza senza l’approvazione di un membro della famiglia imperiale. Roma era cinta d’assedio e Onorio era lontano. Quindi il senato si rivolse a Placidia, il rango più elevato in città, e lei diede il suo assenso. Non spiegò mai il motivo e sono state fatte le ipotesi più disparate: fu plagiata dai senatori? Covava rancori verso la cugina? Fu costretta? Non si sa, ma nella decisione di quella diciottenne si intuisce uno dei tratti della sua personalità autoritaria al limite dell’implacabilità. Intanto l’assedio di Roma continuava e anche se Placidia non soffrì la fame e le privazioni,
ONORIO
Placidia si sarebbe opposta alle presunte pretese incestuose del fratellastro. Musei capitolini, Roma.
ALAMY / ACI
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LA NOBILISSIMA FAMIGLIA
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la sua adolescenza fu marcata dalla prigionia fra le mura di una Roma in rapida decadenza, già mezza spopolata e trascurata dall’imperatore, davanti alla minaccia dei barbari armati alle sue porte. La città cadde nell’agosto del 410: i goti vi entrarono e la saccheggiarono. Era inviolata da quasi 800 anni e la notizia fece rapidamente il giro del mondo romano, traumatizzandolo. Roma era stata profanata.
Prigioniera di Alarico
ALARICO IL VENDICATORE
Ritratto del re dei goti Alarico, che nel 410 mise a ferro e fuoco la città di Roma e fuggì con un ostaggio di prim’ordine: la sorella dell’imperatore Onorio, Galla Placidia. Incisione del 1782.
I goti uscirono dalle mura tre giorni dopo con una prigioniera illustre: Placidia, la sorella dell’imperatore, e fecero rotta verso sud. Volevano raggiungere l’Africa, il territorio più ricco dell’impero, il suo granaio. Cosa dovette vedere la giovanissima Placidia dalle tendine della sua lettiga durante quel viaggio? Il monaco Rufino d’Aquileia, fuggito da Roma, riportò la violenza barbarica, il pericolo delle frecce, l’incendio della fortezza di Reggio, le devastazioni di campagne e città. San 78 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
ALA
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Girolamo invece trascrisse i racconti degli scampati coperti di ferite che si aggiravano fra i ricoveri dei monasteri, o il dramma di quelli che, non potendo pagare un riscatto, venivano trascinati via come schiavi. L’impossibilità di reperire navi per la traversata verso l’Africa obbligò i goti ad arrestarsi in Calabria, dove il loro re Alarico si ammalò e morì. Secondo lo storico Giordane sarebbe stato sepolto sotto il letto del fiume Busento, a Cosenza, con i suoi tesori; tutti gli schiavi che avevano lavorato per deviare temporaneamente il corso del fiume sarebbero stati uccisi perché non rivelassero l’ubicazione della tomba. Ad Alarico succedette il cognato Ataulfo, che decise di tornare indietro e riattraversare la penisola verso nord per arrivare in Gallia. Sempre con Placidia chiusa in una lettiga a domandarsi cosa ne sarebbe stato di lei, ripartirono. Non si trattava della cavalcata di un gruppo di guerrieri, ma della migrazione di un / AC
I
ALBUM
ATAULFO IN UNA MINIATURA DEL MANOSCRITTO SEMBLANZAS DE REYES. BIBLIOTECA NACIONAL, MADRID.
L’UNIONE CON IL RE BARBARO GLI STORICI del tempo non hanno lasciato intendere che Placidia
intero popolo: anziani, donne e bambini che vivevano sui carri con tutto quello che possedevano. Da Rutilio Namaziano sappiamo che i goti si lasciarono dietro strade impraticabili, ponti distrutti, locande e campi bruciati. Placidia doveva essere terrorizzata: cresciuta nel lusso del palazzo dei Cesari, era finita nelle mani di barbari vestiti di pelli e con i capelli lunghi. Probabilmente era comunque trattata con il prestigio dovuto al suo rango: dopotutto era lei il bottino più prezioso. La sua era sicuramente una sorte migliore rispetto a quella delle patrizie che, per sfuggire alle violenze dell’assedio e del sacco, si erano rifugiate in Africa ed erano state catturate dal comandante romano ribelle Eracliano, che le vendette nei postriboli siriani, oppure delle ragazze strappate alle famiglie a Roma per seguire in catene i guerrieri goti. Placidia rimase a lungo prigioniera, dato che i goti aspettavano l’occasione giusta per scambiarla. Alla fine decisero di alzare la posta: un matrimonio reale con Ataulfo. Lei acconsentì e nel 414, quattro anni dopo il rapimento, i due si
fosse stata costretta a sposare il barbaro Ataulfo, come invece hanno scritto del suo secondo marito. Giordane li descrive bellissimi entrambi. Olimpiodoro dipinge lo sfarzo della cerimonia “alla maniera romana” e dichiara: «Il matrimonio si compì nella gioia festosa di barbari e romani insieme».
sposarono a Narbona con immensi doni provenienti dal saccheggio delle ville romane e che diventeranno il tesoro dei goti in Spagna. Si è molto speculato su questo matrimonio tra coercizione, fascino e manipolazione, ma è probabile che, dopo una prigionia così lunga ci fossero stati dei cambiamenti nell’animo di Placidia. Sicuramente lei aveva influenzato immensamente Ataulfo, un barbaro originario della Pannonia che fino a pochi anni prima non aveva mai visto la magnificenza dell’impero romano e conosceva solo regolamenti militari e campi a perdita d’occhio da attraversare sui carri. L’uomo che sposò a Narbona era totalmente trasformato: ave-
La sua adolescenza fu marcata dalla prigionia fra le mura di una Roma decadente BULLA DELL’IMPERATRICE MARIA, MOGLIE DI ONORIO. RITROVATA A S. PIETRO NEL 1544 (398-407 D.C.).
RMN-GRAND PALAIS
La città di Ravenna con il porto di Classe. Arte bizantina, VI secolo. Basilica di Sant’Apollinare Nuovo, Ravenna.
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LA CITTÀ IMPRENDIBILE
LA BASILICA DI SAN VITALE
Fondata a Ravenna da Giuliano Argentario su ordine del vescovo Ecclesio, risale al V secolo. GABRIELE CROPPI / FOTOTECA 9X12
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UN BARBARO ALLA GUIDA DELL’IMPERO
WHITE IMAGES / SCALA, FIRENZE
S DITTICO DI STILICONE CON LA MOGLIE SERENA E IL FIGLIO EUCHERIO. XILOGRAFIA TRATTA DA LE CENTO CITTÀ D’ITALIA. 1891, TESORO DEL DUOMO DI MONZA.
va smesso la giacca di rozza pelliccia ed era riccamente vestito, e la sua romanizzazione si deve interamente all’influsso di Placidia.
Regina dei goti Il primo matrimonio di un’erede imperiale con un barbaro fu un evento epocale. Da prigioniera, Placidia aveva aggiunto un titolo nobiliare ai già tanti che possedeva: era ora anche regina dei goti. Dopo le nozze, la coppia si trasferì a Barcellona, dove Placidia poté riposare in una casa vera, finalmente al sicuro in una città romana. Pochi mesi dopo nacque un bimbo, che la coppia decise di battezzare con il nome del nonno: Teodosio. Era chiaro l’intento di dare al piccolo i titoli per essere un pretendente al trono, il primo di sangue misto. Purtroppo però il bambino morì pochi mesi dopo. Fu una perdita che Placidia non dimenticò mai e che sarebbe riaffiorata fino all’ultimo istante della sua vita. Nel 415 Ataulfo fu assassinato da uno stalliere e con lui se ne andò la possibilità che nascesse un nuovo erede al trono di sangue
tilicone, il padre putativo di Placidia e l’uomo a cui Teodosio I aveva affidato le sorti dell’impero alla sua morte, era un barbaro - suo padre era un ufficiale vandalo sposato a una romana. Anni dopo la congiura che lo travolse e che gli costò la vita, toccava a un altro generale con marcate ascendenze barbare difendere l’impero romano: Ezio. Da giovanissimo fu dato in ostaggio prima ai goti e poi agli unni, con i quali sviluppò un profondo legame imparandone la cultura, la lingua e il modo di combattere. Tornato nelle legioni romane si servì a lungo di mercenari unni nelle sue campagne ed è un’amara ironia che sia ricordato proprio per la vittoria dei Campi Catalaunici, dove l’esercito romano che comandava inflisse una pesante sconfitta agli unni. Fu ucciso da Valentiano III durante una lite.
misto. Gli succedette Sigerico, ostile da subito a Placidia, che umiliò costringendola a marciare davanti al suo cavallo per dodici chilometri. Appena una settimana dopo fu assassinato anche lui. Il successore, Vallia, era un regnante più accorto. Intanto, a Ravenna, Onorio aveva nominato il patrizio Costanzo suo reggente e questi concordò il riscatto con Vallia. Placidia fece dunque rotta verso Ravenna; dopo anni di nomadismo e notti sotto le stelle, tornava in una città torbida, silenziosa, della quale Sidonio Apollinare diceva: «Zanzare e rane, a Ravenna non si trova altro». L’accompagnava un drappello di guerrieri goti come guardia del corpo, che tenne vicino per molti anni a venire. Costanzo mirava al trono e all’inizio del 417 la sposò con l’assenso di Onorio. Se del matrimonio con Ataulfo si è data una visione romantica, del secondo marito sappiamo, almeno da Olimpiodoro, che Placidia lo detestò. Costanzo era un
COPPIA REALE
Galla Placidia e Ataulfo si trasferirono a Barcellona, dove vissero fino alla morte di lui. Incisione del 1920. ALAMY / ACI
IL SACCO DI ROMA
I goti saccheggiarono la capitale dell’impero romano d’Occidente nel 410. Roma era inviolata da 800 anni. Incisione del XIX secolo.
uomo brutto, pragmatico ai limiti della rozzezza, calcolatore, ma capace di organizzare efficientemente le poche risorse dell’impero romano d’Occidente al tracollo e difendere i suoi fragili confini. Dall’unione nacquero due figli: Giusta Grata Onoria e Valentiniano.
Placidia imperatrice Costanzo salì al trono come co-imperatore nel 421 e lei divenne augusta dell’impero, imperatrice. Fu un periodo breve e relativamente tranquillo per Placidia, che preferì dedicarsi a sviluppare la sua profonda religiosità lasciando le decisioni amministrative al marito che, però, morì improvvisamente pochi anni dopo. Vedova per la seconda volta, si ritrovò in una situazione scabrosa. Sempre secondo Olimpiodoro, il fratellastro Onorio mostrò una predilezione incestuosa per Placidia, che però non cedette. La sua posizione a corte scricchiolò fino a farsi insostenibile. 82 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
SOLIDO DI PLACIDIA
Rovescio della moneta d’oro conosciuta come “solido di Galla Placidia”. Coniata a Ravenna nel 425450 d.C. Museo nazionale romano, Roma. BRIDGEMAN / ACI
Cacciata da Ravenna si rifugiò a Roma per poi imbarcarsi frettolosamente con i figli su una nave diretta a Costantinopoli, la città dove era nata e che aveva lasciato da bambina. Qui però l’accoglienza fu tiepida: in molti non le perdonavano quel matrimonio barbaro che aveva rischiato d’inquinare il sangue romano. Lei si ritirò nella casa che la madre le aveva regalato quando era nata, la Domus Placidiana. Ma la sua personalità forte e determinata la fece tornare presto nelle grazie della corte imperiale fino al momento in cui fu raggiunta dalla notizia della morte di Onorio, che non aveva lasciato eredi. Si doveva dunque trovare in fretta un successore e, tra i pretendenti, Placidia era quella che incarnava al meglio la dignità imperiale (era umile ma fiera) e avrebbe saputo difendere la dinastia. L’imperatore di Costantinopoli Teodosio II fece coniare le prime monete con la sua effigie e la rispedì in Italia con i figli e
SCALA, FIRENZE
SAN GIOVANNI EVANGELISTA SALVA GALLA E I SUOI FIGLI. BIBLIOTECA CLASSENSE, RAVENNA.
GALLA L’INTRANSIGENTE PLACIDIA dette numerose prove della sua fede cattolica intransigente. Mise a morte un mago a cui suo marito Costanzo voleva rivolgersi per scacciare i barbari insediatisi nelle province romane. All’usurpatore Giovanni, colpevole di leggi troppo tolleranti dei culti pagani, fece mozzare una mano, lo mise in sella a un asino per esporlo al ludibrio della folla e lo fece decapitare. GRANGER / ALBUM. COLOR: SANTI PÉREZ
lontana dai continui fuochi e ribellioni che si accendevano un po’ ovunque ma non riuscivano a raggiungere lei, chiusa nel palazzo imperiale. Negli anni in cui fu imperatrice perse l’Africa del nord, che fu conquistata dai vandali quando lei cadde vittima di un inganno perpetrato da Ezio, uno dei tre uomini che aveva messo a capo delle forze armate e che passarono molto tempo a guerreggiare fra di loro mentre l’impero cadeva a pezzi.
Il ritiro religioso Nel 437 Placidia abdicò in favore del figlio Valentiniano III. Il misticismo era sempre stato un tratto fondante del suo carattere e da quel
Negli anni in cui i barbari depredavano Roma, Placidia detenne il potere assoluto COSÌ VESTIVA GALLA PLACIDIA SECONDO UNA STAMPA DEL XIX SECOLO.
ALAMY / ACI
un esercito per sopraffare l’usurpatore che nel frattempo si era insediato, Giovanni. Placidia tornava in Italia, e lo faceva da imperatrice. Non più sorella, figlia o moglie di imperatori: stavolta era lei a detenere il potere assoluto, e lo esercitò dal 425 al 437. S’installò dunque ad Aquileia e qui aspettò che le truppe di Bisanzio, con un inganno, saccheggiassero Ravenna e le portassero Giovanni in catene. Purtroppo, erano anni terribili: i barbari sciamavano per i territori dell’impero romano d’Occidente azzannandone pezzi e mutilandolo con pretese di legittimazione che assomigliavano a ricatti. Le campagne d’Italia erano diventate un campo di battaglia e i tranquilli borghi d’un tratto vennero investiti dalle razzie degli unni e dei goti: frecce e fiamme, saccheggi e stupri. La violenza irruppe nella vita di tutti, dalle classi più agiate fino alla plebe. Era in questo mondo che Placidia prese il potere e, come gli altri reggenti, non fu capace di fermare la valanga che stava disgregando l’integrità dell’impero. Non lasciò quasi mai Ravenna,
IL MAUSOLEO DI GALLA PLACIDIA A RAVENNA Il nome di Galla Placidia è famoso soprattutto per il suo mausoleo a Ravenna. Protetto dall’UNESCO, è uno scrigno di mosaici romano-bizantini di grande pregio e perfettamente conservati. Esteriormente non ha niente d’impressionante. Tuttavia, entrando si ha la sensazione di penetrare in uno scenario ultraterreno: la luce filtra dalle finestre di alabastro e rimbalza sulle pareti di marmo e sulla volta, decorata da mosaici a tema iconografico e disseminata di stelle. Probabilmente in origine era una cappella o un oratorio della chiesa di Santa Croce, finanziata da Placidia; oggi è un edificio SCALA, FIRENZE
separato dopo il crollo del portico che li collegava. Il primo a parlarne come mausoleo di Placidia fu Andrea Agnello, che quattrocento anni dopo la sua morte fece uno studio per risalire alle origini della topografia di Ravenna. All’interno della costruzione ci sono tre sarcofaghi di marmo di epoca romana e per lungo tempo si è creduto che Placidia riposasse in uno di questi. In realtà fu sepolta quasi sicuramente a San Pietro nella cappella imperiale del fratello Onorio. Purtroppo la cappella fu demolita nel XVI secolo durante i lavori di costruzione della nuova San Pietro.
I TRE VOLTI DELLA CROCE DI DESIDERIO
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n uno dei medaglioni incastonati nella Croce di Desiderio sono ritratti una donna e due ragazzi: la tradizione vuole che la donna sia Placidia e i giovani i suoi figli Valentiniano e Giusta Grata Onoria. I due giovani hanno ereditato la bellezza materna e anche la sua personalità, impetuosa e determinata. Valentiano III è stato infatti un imperatore irruente, come dimostrò quando, al culmine di una lite, uccise il generale al comando delle armate romane, Ezio, che aveva messo un freno alle scorrerie dei barbari in Italia. Dal canto suo Giusta Grata Onoria, insofferente per la prigionia da principessa, fornì ad Attila il pretesto per invadere la penisola nel 451 d.C. Entrambi non fecero che accelerare la fine dell’impero romano d’Occidente, definitivamente distrutto appena vent’anni dopo la morte di Valentiniano.
momento si occupò sempre più di questioni religiose. Non era riuscita e tenere insieme l’impero romano d’Occidente, e s’impegnò quindi a difendere l’ortodossia cattolica contro le eresie ariane e nestoriane. Erano gli anni in cui si facevano intense, a volte persino sanguinose, le dispute teologiche e Placidia era una donna credente e inflessibile che di notte si ritirava dentro la chiesa di San Vitale a Ravenna, al lume delle candele, a pregare. Furono poche le apparizioni in pubblico: per onorare le personalità ecclesiastiche, come l’investitura del vescovo Pietro Crisologo, oppure per il suo instancabile lavoro di mecenate di chiese e mosaici. La sua vita stava volgendo al termine, ma il passato ritornava. Il padre aveva incoraggiato un’assimilazione dei barbari nel sangue romano, lei stessa aveva generato il primo pretendente al trono barbaro e ora la figlia Onoria aveva ereditato la sua tempra. Obbligata a fidanzarsi con un senatore anziano, Onoria mandò un anello ad Attila in persona chiedendo di venire a liberarla.
Era il gesto folle di una giovane, ma il re degli unni lo interpretò come una promessa di matrimonio e scese pochi anni dopo in Italia a reclamare la sua sposa – e il titolo d’imperatore romano che ne conseguiva. Scoperto l’intrigo, il fratello Valentiniano decise di metterla a morte e solo l’intervento di Placidia poté salvare la ragazza e commutare la pena in esilio. Ormai Placidia aveva esaurito le forze per lottare: nel 450, forse sentendo la fine vicina, chiese che le fosse portata da Barcellona la salma del piccolo Teodosio, il figlio avuto trentacinque anni prima dal goto Ataulfo e morto infante. Solo quando ebbe il corpo del piccolo accanto a sé, morì. Fu quasi sicuramente sepolta insieme a lui.
PLACIDIA O ANSA?
Il medaglione di origine lombarda raffigura Galla (a destra) con i figli. Secondo altri rappresenterebbe invece la regina Ansa, moglie dell’ultimo re lombardo Desiderio e i loro figli. Il crocifisso fu aggiunto nel XVI secolo.
GIORGIO PIRAZZINI STORICO
Per saperne di più
SAGGI
Galla Placidia Lidia Storoni Mazzolani. Castelvecchi editore, Roma, 2018. Galla Placidia Giorgio Ravegnani. Il Mulino, Bologna, 2017.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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CARLO MAGNO E I SASSONI U N A G U E R R A S P I E TATA Per ben tre decenni il fondatore dell’impero carolingio combatté contro i sassoni, perché questi rifiutavano di abbandonare il loro credo e di sottomettersi alla Chiesa cattolica. Pur di soggiogarli ricorse a metodi cruenti come le esecuzioni di massa
LA VITTORIA DEL RE FRANCO
Nel 785 Vitichindo, l’anima della resistenza sassone, si arrese a Carlo Magno a Paderborn. Ary Scheffer ricostruì l’episodio in questa tela del 1840. Galeries des Batailles, Versailles. AKG / ALBUM
LA CAVALLERIA FRANCA
GUERRA SENZA FINE
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avevano sortito effetto. A differenza di altri popoli germanici come gli stessi franchi, i sassoni avevano mantenuto le proprie usanze e il proprio credo, e avevano sempre ricacciato indietro missionari ed evangelizzatori cristiani. Sfortunatamente per loro, ai tempi di Carlo Magno la situazione cambiò. Verso la fine dell’VIII secolo, alla corte del sovrano franco si pianificò un riassetto dell’Europa in chiave imperiale e cristiana, nel quale non c’era spazio per i popoli considerati pagani. Va tenuto conto delle intenzioni del re per comprendere la serie di campagne che, anno dopo anno, Carlo Magno portò avanti contro diversi popoli sassoni: i vestfali, che abitavano il territorio a ovest del fiume Weser; gli
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el 772 un manipolo di guerrieri sassoni occupò per alcune settimane la Renania carolingia. L’episodio non costituiva certo una novità. Le frontiere tra il regno franco e i territori sassoni erano molto porose e con troppa frequenza i soldati sassoni si abbattevano come rapaci su villaggi, borghi, abbazie e monasteri, razziando con disinvoltura le zone ai confini del regno. Davanti a tale furia, i civili e i monaci non potevano far altro che fuggire o pregare un Dio diverso da quello degli aggressori. Si era giunti a un simile risultato perché i tentativi di cristianizzazione dei sassoni portati avanti nei secoli precedenti non
CARTOGRAFIA: MB CREATIVITAT
SCIENCE SOURCE / ALBUM
Cavalieri con un armamentario franco, anche se di epoca di poco successiva rispetto a Carlo Magno, nel Salterio aureo del monastero di San Gallo, in Svizzera.
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772
777
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I SASSONI depredano la Rena-
NELLA DIETA di Paderborn, i capi
LE SANGUINOSE campagne di
nia. Carlo Magno invade il loro territorio e abbatte un irminsul, un albero o pilastro sacro. Da lì seguiranno le campagne e i tentativi di conversione al cattolicesimo.
sassoni accettano l’autorità di Carlo Magno. Vi si oppone invece Vitichindo, che diventa l’anima della resistenza e nel 782 vince la battaglia di Süntel.
Carlo Magno spingono Vitichindo a convertirsi, ma la resistenza continua, soprattutto nel nord della Sassonia dove il controllo carolingio è più fragile.
DANIMARCA
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Confini dell’impero di Carlo Magno nell’814 Campagne militari (768-814)
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Marca (distretto di frontiera) Patrimonio di San Pietro (domini della Chiesa)
ULTIMA RIBELLIONE sassone
di cui si ha testimonianza. Porterà a deportazioni massicce di popoli e alla consegna di parte del territorio sassone agli obodriti, un popolo slavo.
SASSONI
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LA CONQUISTA DELL’EUROPA
Il lungo periodo che Carlo Magno impiegò a soggiogare i sassoni si spiega sia con la loro ostinata resistenza basata su guerriglie e ribellioni, sia con il fatto che le armate franche furono dispiegate su diversi fronti: contro i longobardi, contro i musulmani della Spagna, contro i bretoni, contro gli avari e altri popoli.
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NEMICI PER GENERAZIONI L’IMMAGINE DEL POTERE
FRANCHI E SASSONI si erano fronteggiati nei
ostfali, che ne occupavano la parte orientale; gli angrivari, situati tra i due popoli precedenti, e i nordalbingi, stabilitisi nell’istmo della penisola dello Jutland. La loro conversione era considerata necessaria per le crescenti tensioni tra i sassoni stessi da un lato e il potere carolingio e i missionari cattolici dall’altro. Inoltre il re franco aveva un particolare interesse nel tenere sempre attivo il proprio apparato bellico, e difatti una delle ragioni del successo di Carlo Magno e dei suoi predecessori era stato proprio l’allestimento di annuali campagne militari che, con l’arrivo del bel tempo, radunavano i nobili per coinvolgerli in spedizioni che gli avrebbero procurato bottini e terre. E così, quando i sassoni attaccarono la Renania nel 772, Carlo Magno decise che era giunto il momento d’intervenire sul territorio nemico e mettere fi-
A sinistra, nobile franco in un affresco di San Benedetto di Malles (Alto Adige). Secondo alcuni storici si tratterebbe di Carlo Magno. LA FINE DI UN MONDO
SCALA, FIRENZE
Alfred Rethel immaginò così la distruzione di un irminsul di Carlo Magno nel 772. Olio. 1848. Museum Kunstpalast, Düsseldorf.
ne a quella che riteneva fosse una roccaforte pagana e al contempo una minaccia alla frontiera orientale dei suoi domini.
La prima guerra sassone L’operazione bellica venne fissata per l’estate dello stesso anno. Con l’appoggio dei suoi uomini, nobili e soldati, il re franco si diresse verso il fiume Weser, nel cuore del territorio sassone. Poiché il fine ultimo della spedizione era di natura religiosa, nella retroguardia dell’esercito viaggiava pure la sua punta di diamante spirituale, ovvero un nutrito gruppo di vescovi, sacerdoti e monaci. Le prime battute della guerra furono molto incoraggianti per i carolingi. Dal Reno le truppe giunsero con facilità al Weser e, vittoria dopo vittoria, distrussero diversi baluardi sassoni. Obbligarono perfino gli angrivari ad abbattere un irminsul, una sorta di pilastro sacro in legno, a dimostrazione della propria finalità religiosa e come monito per qualsiasi forma di paganesimo. Ma proprio quando l’avanzata dei franchi sembrava inarrestabile, i sassoni poterono tirare un sospiro di sollievo: Carlo Magno inter-
GUERRIERO FRANCO, PEDONE DI UNA SCACCHIERA CAROLINGIA. 800 CA. BIBLIOTHÈQUE NATIONAL DE FRANCE, PARIGI. IBERFOTO / PHOTOAISA
AKG / ALBUM
due secoli precedenti a Carlo Magno. I re merovingi avevano già combattuto contro di loro e, verso il 629, Clotario II intraprese una campagna devastante nelle loro terre. Tuttavia, verso il 630 i sassoni appoggiarono il nuovo re franco Dagoberto I contro i vendi, e in cambio il sovrano rinunciò al tributo annuale di 500 vacche. Ma la calma durò poco: nel 715 i sassoni saccheggiarono la Renania, e Carlo Martello li sconfisse, li obbligò a consegnare gli ostaggi e gli impose di nuovo un tributo annuale, ora di 300 cavalli. Anni dopo, Carlo vinse i musulmani nella decisiva battaglia di Poitiers, un’azione che portò al potere i suoi discendenti, i carolingi. Suo nipote Carlo Magno avrebbe sottomesso i sassoni dopo oltre tre decenni di sanguinose campagne militari.
IL DIFENSORE DELLA FEDE
Carlo Magno dedica alla Vergine la cattedrale di Aquisgrana, capitale del suo impero. A sinistra, Arca reliquiario dell’imperatore, realizzata intorno al 1215 per accogliere i suoi resti. CATTEDRALE DI PADERBORN
Il sovrano franco fondò la città nel punto in cui, nel 777, ebbe luogo la prima dieta franca celebrata nel territorio sassone.
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CAVALIERE LONGOBARDO. FIBBIA IN BRONZO DORATO DELLA LOCALITÀ DI STABIO (SVIZZERA). DEA / GETTY IMAGES
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Mentre Carlo Magno aggiungeva ai suoi titoli la corona longobarda, la sua assenza dal fronte sassone tra il 773 e il 774 permise ai nemici di recuperare parte del territorio perso in precedenza, come le fortezze di Eresburg e Seeburg e di depredare la frontiera carolingia in diversi punti.
Troppi fronti aperti La scelta di sospendere le campagne sassoni per occuparsi di altri obiettivi prioritari si ripeté negli anni seguenti e rese enormemente difficile il consolidamento della presenza carolingia in territorio nemico. Nel 777, per esempio, durante la dieta - o assemblea - celebrata a Paderborn in suolo sassone, Carlo Magno ricevette la visita di Sulayman ibn Yaqzan al-Kalbi, governatore musulmano di Barcellona, che gli chiese aiuto per sbarazzarsi dell’emiro di Cordova e gli promise di far entrare Barcellona e altre città come Saragozza nell’orbita carolingia. Questa prima spedizione nella penisola iberica fu disastrosa – durante la ritirata ebbe luogo la famosa battaglia di Roncisvalle – e inoltre mantenne di nuovo Carlo Magno impegnato, impedendogli di continuare la sua crociata contro i sassoni.
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ruppe la vittoriosa avanzata e si dedicò ad altro. Quello stesso anno infatti era asceso al soglio pontificio Adriano I, che aveva chiesto l’aiuto del re franco per combattere i longobardi, un popolo germanico stabilitosi nell’Italia settentrionale. Carlo Magno non esitò ad abbandonare la campagna sassone per attraversare le Alpi nel 773 per prestare soccorso al pontefice. Dopo diversi mesi di assedio a Pavia, la capitale longobarda, riuscì a impadronirsi della città, esiliò il re e ne assunse la carica.
PREDICARE IL VANGELO CON LA SPADA DOPO LA SCONFITTA di Süntel, nel 785 Carlo Magno promulgò la Capitulatio de partibus saxoniae, un codice giuridico che pretendeva di estirpare alla radice la fede pagana su cui si basava la resistenza sassone. Nel testo, per esempio, si condanna a morte chi «avrà trascurato il santo digiuno quaresimale per disprezzo della cristianità e avrà mangiato della carne», chi «avrà fatto consumare dalle fiamme il corpo di un uomo defunto secondo l’uso dei pagani e avrà ridotto in cenere le sue ossa», chi «avrà voluto nascondersi tra i suoi e avrà rifiutato di venire a ricevere il battesimo e avrà voluto rimanere pagano». Nel 797, quando il capo dei ribelli Vitichindo si era già convertito al cattolicesimo, venne promulgata una versione più morbida del codice al fine di favorire l’integrazione dei sassoni.
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A parte lo sforzo che comportava lottare su vari fronti, i carolingi dovettero affrontare tre seri problemi per sottomettere i popoli sassoni. Il primo era di tipo logistico. La regione della Sassonia infatti era costituita perlopiù da zone boscose e, poiché non aveva fatto parte dell’impero romano, non era dotata d’infrastrutture come ponti, strade o una rete di città che facilitassero l’avanzata e l’insediamento dei carolingi. D’altro canto, quel terreno impediva spesso battaglie a cielo aperto e trasformava ogni gola, sentiero e guado in un luogo potenzialmente perfetto per eventuali imboscate, obbligando l’esercito carolingio a mantenere uno stato di costante allerta. Il secondo fattore era la posizione dei soldati di Carlo Magno come difensori a oltranza della cristianità. La guerra contro i sassoni è ricordata come uno dei conflitti più sanguinari e crudeli della
A Lippspringe, in Sassonia (qui a sinistra), Carlo Magno convocò le truppe che poi mandò contro gli slavi e che furono sconfitte a Süntel.
storia, in buona parte a causa della politica che portò avanti il sovrano per porre fine al problema: massacri indiscriminati, sterminii e persecuzioni religiose, che senza dubbio resero i sassoni ancora più combattivi. Il terzo grande problema di Carlo Magno aveva un nome: Vitichindo, ovvero Widukind. Fu uno dei capi sassoni che scelse di non presentarsi al cospetto di Carlo Magno a Paderborn nel 777. In seguito avrebbe guidato la rivolta sassone scoppiata durante l’assenza del re franco.
Il capo ribelle Sconfitto più volte, Vitichindo riusciva sempre a scappare e a tornare con rinnovate forze. Si spinse perfino in Danimarca a chiedere aiuto contro i carolingi. Con il passare del tempo, l’impossibilità di vincere le truppe franche in scontri aperti apparve certa e Vitichindo optò per una strategia fatta di guerriglie e ribellioni. Era chiaro che non sarebbe mai riuscito nell’intento di sgominare l’esercito carolingio, ma ritardò per anni il controllo definitivo del territorio sassone da parte delle truppe franche.
POSSIBILE RAPPRESENTAZIONE DI VITICHINDO SUL COPERCHIO DEL SUO PRESUNTO SEPOLCRO. STIFTSKIRCHE, ENGER. AKG / ALBUM
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DIETA DI LIPPSPRINGE
I SASSONI COMBATTEVANO A PIEDI, SECONDO L’ANTICA USANZA GERMANICA, E BRANDIVANO LANCE E ARCHI.
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Nequassi re vend aec eatios esaddw evenda quidit etus qui quidunt faces ea volorem oluptiu ntiunti dicimin explaborrum, ut volorem oluptiu ntiunti dicimin explaborrum, ut quo torem.
LA GRANDE VITTORIA SASSONE DI SÜNTEL
I
l massiccio montagnoso di Süntel, sulle sponde del Weser, fu testimone della più imponente vittoria dei sassoni, avvenuta nell’estate del 782. Il ciambellano Adalgiso, il conestabile Gerlone e il conte palatino Wolvado comandavano un esercito carolingio composto principalmente da cavalieri che avanzavano in territorio sassone per annientare una banda di predoni slavi giunti da est. In quel mo-
mento si seppe della ribellione di Vitichindo e le truppe ricevettero l’ordine di tornare indietro e attaccare i sassoni, che si stavano raggruppando a Süntel. A loro si unì un esercito raccolto in tutta fretta nella zona del Reno e guidato da un parente di Carlo Magno, il conte Teodorico, che si sarebbe schierato davanti all’accampamento sassone, sull’altra sponda del fiume, mentre gli altri tre comandanti avrebbero gua-
dato il Weser per circondarli. Eppure Adalgiso, Gerlone e Wolvado non attesero Teodorico e attaccarono da soli. Forse sottovalutarono il numero di nemici, o forse volevano per sé la gloria. In ogni caso, i sassoni circondarono e abbatterono la maggior parte dei loro soldati. Adalgiso, Gerlone e altri quattro conti morirono. La loro fine è ricostruita in quest’illustrazione, in cui appaiono circondati dai sassoni.
LA PRESA DI WITTEKINDSBERG
N
el 783 ebbero luogo due battaglie campali tra carolingi e sassoni. In primavera Carlo Magno li affrontò a Osning, dove lottò contro lo stesso Vitichindo, il capo della resistenza sassone, che riuscì a mettersi in salvo. In estate invece il re franco segnò una notevole vittoria sui sassoni presso il fiume Hase, anche se Vitichindo fuggì di nuovo. Dopo la battaglia Carlo Magno assediò la fortezza del capo nemico, ubicata nella collina che oggi si chiama Wittekindsberg. Secondo alcuni storici questo scontro è solo una leggenda successiva. A ogni modo, s’ignora se Vitichindo fosse presente. Dopo undici anni di guerra, i carolingi pianificarono con grande attenzione le loro
campagne annuali nelle terre sassoni, ed è perciò probabile che un attacco contro Wittekindsberg comportasse l’uso di strumenti di assedio, come la catapulta e l’ariete, qui illustrati. I testi dell’epoca non menzionano l’impiego di tali macchine da parte dei carolingi, ma riferiscono che i sassoni, provvisti di attrezzature più rudimentali, ricorsero a catapulte, come forse fecero pure i carolingi. Le fortificazioni sassoni in terra e legno avevano scarse possibilità di resistere a simili strumenti. Questa illustrazione della battaglia colloca il nucleo dell’azione nella porta principale, a nord della cittadella, rinvenuta grazie ad alcuni scavi di archeologi tedeschi e di cui sono state suggerite possibili ricostruzioni.
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VERDEN, TRA LA BIBBIA E IL TERZO REICH DOPO LA SCONFITTA delle sue truppe a Süntel, nel 782, Carlo Magno or-
dinò che a Verden fossero decapitati 4.500 sassoni che si erano arresi. Questo atto atroce avrebbe trovato la giustificazione nell’Antico Testamento, dove si racconta lo sterminio degli amaleciti e degli abitanti di Gerico da parte del popolo d’Israele, o l’esecuzione di due prigionieri moabiti su tre ordinata da David, il re biblico con cui s’identificava Carlo Magno. Durante il Terzo Reich, che considerava Carlo Magno un re francese fanatico e sanguinario, fu affidata all’architetto paesaggista Wilhelm Hübotter la costruzione del Sachsenhain, una specie di memoriale dei sassoni caduti che, come Vitichindo, erano considerati l’incarnazione dello spirito di resistenza germanico. BRIDGEMAN / ACI
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Sotto la spinta di Himmler, a Verden fu creato un recinto con 4.500 lastre di pietra che rievocavano il massacro dei sassoni. LA STIRPE DI VITICHINDO
L’imperatore Ottone II, figlio del discendente di Vitichindo per linea materna, la moglie Teofano e l’infante Ottone III rendono omaggio a Cristo in trono.
rappacificati. Rimanevano solo le zone settentrionali, il cui controllo effettivo tardò un decennio. Ma con la sconfitta di Vitichindo, simbolo della resistenza, la prima pietra della vittoria era stata posta con fermezza. L’ultimo chiodo sulla bara sassone venne dalla promulgazione della Lex Saxonum, che relegò il popolo sassone a uno dei tanti sotto il controllo carolingio. Il processo fu una delle sfide più difficili che dovette affrontare Carlo Magno nei suoi 46 anni di regno, e lo vide protagonista di alcune delle sue azioni più efferate. Come re, o - dall’800 - come imperatore, il monarca vide nei sassoni i suoi acerrimi nemici e, benchè distratto dalle spedizioni in Italia e nella penisola iberica, non ebbe pace fino alla conquista dei loro ombrosi boschi. ALBERTO RECHE ISTITUTO DI STUDI MEDIEVALI. UNIVERSITÀ AUTONOMA DI BARCELLONA
Per saperne di più
SAGGI
Carlo Magno Jean Guilaine. Jaca Book, Milano, 2010. Carlo Magno Stefan Weinfurter. Il Mulino, Bologna, 2017. TESTI
Vita di Carlo Magno Eginardo Eginard. Salerno Editrice, Roma, 2006.
DEA / ALBUM
Nonostante l’inferiorità delle truppe sassoni, nei trent’anni in cui durò la guerra ci furono pure alcune battaglie campali, come quella di Süntel nel 782. Forse lo scontro più celebre avvenne l’anno seguente sulle montagne di Osning, con ogni probabilità lo stesso luogo in cui, quasi otto secoli prima, aveva avuto luogo battaglia di Teutoburgo, che vide i germani sconfiggere le legioni romane di Varo. A quanto pare, a Osning Carlo Magno e Vitichindo si affrontarono di persona, anche se il secondo riuscì a fuggire. Lo scontro tra due condottieri carismatici e con enorme esperienza militare ha il sapore della leggenda: davanti alla viva immagine dell’indomito guerriero barbaro, rude e con l’ascia, si erge un nobile re cristiano che, spada alla mano, guida in prima fila i suoi uomini alla battaglia. La scena venne reinventata in epoche successive, perché i cronisti carolingi enfatizzarono l’idea del corpo a corpo come legittimazione del vincitore, Carlo Magno. In realtà Vitichindo abbracciò poi il cristianesimo nel 785, forse provato dalla durezza delle ultime campagne, e fu battezzato nella cappella reale di Attigny in presenza dello stesso re franco. Dopo quel gesto, i territori sassoni meridionali vennero subito
STORIA E POLITICA
DA PAGANO A NOBILE CRISTIANO Il giorno di Natale del 785, alla presenza di Carlo Magno, il condottiero sassone Vitichindo e Abbio, il suo genero, ricevettero il battesimo nella cappella del palazzo reale di Attigny, nel nord-est dell’attuale Francia.
uesta illustrazione rievoca il momento in cui Vitichindo e Abbio ricevono il sacramento del battesimo. L’edificio, di cui non sono rimaste tracce, è stato ricostruito sulla base di altre strutture dell’epoca. L’importanza dell’evento è sottolineata dal fatto che lo stesso Carlo Magno 1 fa da padrino al capo sassone 2, dietro il quale compare Abbio. Si è ipotizzato che Vitichindo non fosse soltanto la guida militare e politica dei ribelli, bensì esercitasse pure una qualche forma d’influenza spirituale, ragion per cui
la sua conversione avrebbe avuto un rilievo ancor maggiore. Per uno scherzo del destino, i discendenti di Vitichindo sarebbero divenuti i più strenui difensori della cristianità occidentale, con una posizione simile a quella di Carlo Magno. Nel 936 fu incoronato imperatore il primo sovrano del Sacro impero romano-germanico: Ottone I, che era figlio di Enrico, duca di Sassonia e re della Francia orientale, e di Matilde di Ringelheim, figlia del conte sassone Teodorico, la cui famiglia, gli Immedinger, discendeva direttamente dal tenace Vitichindo.
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CUBA 1898 LA STAMPA VA IN GUER R A
L’affondamento della corazzata Maine di fronte al porto di L’Avana fu utilizzato dai mass media statunitensi come pretesto per lanciare una virulenta campagna contro il dominio spagnolo a Cuba, fatta d’insulti, esagerazioni e notizie false
UNA SCONFITTA SCHIACCIANTE
Il 3 luglio 1898 le navi statunitensi distrussero la flotta spagnola dell’ammiraglio Cervera a Santiago de Cuba. James Tyler immortalò l’episodio in questo dipinto. GRANGER / AURIMAGES
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PRIMA PAGINA DEL NEW YORK JOURNAL DEL 25 APRILE 1898, CHE ANNUNCIA LA DICHIARAZIONE DI GUERRA CONTRO LA SPAGNA APPROVATA DAL CONGRESSO DEGLI STATI UNITI QUELLO STESSO GIORNO.
È
probabilmente l’aneddoto più famoso della storia del giornalismo statunitense. All’inizio del 1897 l’artista Frederic Remington si trovava a Cuba come corrispondente del New York Journal. Celebre pittore di rodei e di altre scene del selvaggio West, Remington era andato sull’isola caraibica per conto del proprietario del giornale, William Randolph Hearst, in previsione dello scoppio delle ostilità contro la Spagna. «Qui non succede niente», riferì un annoiato Remington in un telegramma. «Non ci sarà nessuna guerra. Voglio tornare a casa». Hearst però gli rispose pregandolo di restare: «Tu mandaci le foto che alla guerra ci penso io». Questa storia venne ripresa svariate volte a testimonianza del fatto che fu la stampa scandalistica, e Hearst in particolare, a trascinare gli Stati Uniti in guerra contro la Spagna nel 1898. Peccato che è falsa. I due telegrammi non sono mai stati trovati e Hearst non confermò di aver risposto in quel moC R O N O LO G I A do. Gli storici ritengono che l’aneddoto sia stato inventato da uno dei corrispondenti di punta di Hearst, James Creelman. Questi inserì l’episodio tra le sue memorie, dove abbondano i ricordi “cre-
LE GUERRE DI CUBA
104 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
1868-1878
1895
Al termine della Prima guerra d’indipendenza di Cuba non si raggiunge né l’emancipazione coloniale né l’abolizione della schiavitù.
Ottenuto il sostegno degli Stati Uniti, i rivoluzionari cubani si ribellano nuovamente al dominio spagnolo.
15-II-1898
25-IV-1898
1-VII-1898
17-VII-1898
Affondamento della Maine a L’Avana. Il giornale di Hearst incolpa la Spagna e spinge il governo a scendere in guerra.
Il congresso degli Stati Uniti dichiara guerra alla Spagna. La stampa sensazionalista americana pubblica la notizia a tutta pagina.
La stampa incorona Theodore Roosevelt eroe nazionale per la presa della collina di San Juan, di fronte a Santiago de Cuba.
L’esercito americano occupa Santiago e assume il pieno controllo di Cuba dopo poco più di due mesi di conflitto.
DOCUMENTA / ALBUM
MAPPA DI CUBA DEL 1896 CON ILLUSTRAZIONI DEI COMANDANTI MILITARI SPAGNOLI (SOPRA) E DEGLI INSORTI.
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PULITZER (A SINISTRA) E HEARST (A DESTRA) RAFFIGURATI COME DUE “YELLOW KIDS ” CHE SI APPROFITTANO DELLA GUERRA. NELLE VIGNETTE DI THE YELLOW KID (IL PRIMO FUMETTO DELLA STORIA) LE PAROLE ERANO SCRITTE SULL’ABITO DEL PROTAGONISTA.
ativi”e le lodi sperticate a Hearst. Ma nel caso specifico, la realtà andava ben oltre quanto suggerito dal racconto di Creelman. Non fu solo la stampa scandalistica a precipitare l’inizio del conflitto. I giornali “seri”, le riviste di economia, le case editrici e persino la nascente industria cinematografica parteciparono attivamente a quella folle campagna che suscitò un esasperante sentimento bellicista nella popolazione. Diversi corrispondenti si resero responsabili di palesi fake news che non hanno nulla da invidiare a quelle di oggi, impegnati un un’assurda competizione per guadagnare lettori e potere che cambiò l’immagine del giornalismo.
Una nuova era La guerra segnò l’ingresso della giovane repubblica statunitense tra le potenze mondiali e al contempo sancì l’uscita di scena della Spagna, che perse anche gli ultimi domini del suo impero un tempo sconfinato. Ma rappresentò anche l’inizio di una nuova era del giornalismo: per quanto irresponsabili fossero a volte le cronache del conflitto, era la prima volta che negli Stati Uniti veniva data ampia copertura alle notizie straniere. Cuba aveva iniziato la lotta per l’indipendenza dalla Spagna a metà del XIX secolo con un’insurrezione generale tra il 1868 e il 1878. A questa era seguita una se106 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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L’ALBERO DELLA MAINE SPUNTA DALLE ACQUE DEL PORTO DI L’AVANA NEL 1900. L’AFFONDAMENTO DELLA CORAZZATA DUE ANNI PRIMA AVEVA DATO IL VIA ALLA GUERRA ISPANO-AMERICANA.
WILLIAM RANDOLPH HEARST, EDITORE DEL NEW YORK JOURNAL, IN UNA FOTOGRAFIA DEL 1903. ULLSTEIN BILD / GETTY IMAGES
DUE COLOSSI DELLA STAMPA
HEARST E PULITZER negli anni novanta dell’ottocento Joseph Pulitzer e Randolph Hearst si scontrarono in un epico duello per l’egemonia del settore della stampa. Pulitzer era un emigrante di origine ungherese che fece fortuna a Saint Louis con i giornali di lingua tedesca. Nel 1883 si trasferì a New York, dove acquistò il New York World, un quotidiano del mattino che vendeva appena 15mila copie. Grazie alle notizie scandalistiche, alle novità sportive e all’informazione rivolta
GRANGER / ALBUM
IL JOURNAL DEL 29 MARZO 1898 INVOCA UN «IMMEDIATO INTERVENTO ARMATO» DI FRONTE ALLA PASSIVITÀ DEL PRESIDENTE.
La nascita della stampa scandalistica
JOSEPH PULITZER ERA PROPRIETARIO DEL NEW YORK WORLD, CHE AVEVA ACQUISITO NEL 1883 DAL MAGNATE JAY GOULD. ALAMY / ACI
al pubblico femminile, in appena tre anni il giornale raggiunse i 250mila esemplari, per poi passare agli 800mila nel 1896, diventando così il più grande del Paese. Hearst, figlio di un imprenditore del settore minerario e senatore, entrò nell’industria della carta stampata nel 1887 assumendo la guida di un giornale del padre a San Francisco. Il rapido successo di questa impresa lo portò ad acquisire il New York Journal nel 1895. Usando le stesse tattiche di Pulitzer, Hearst fece del Journal il secondo quotidiano più letto degli Stati Uniti, con una tiratura che nel 1896 raggiunse le 700mila copie. Allo scoppio della guerra, i due giornali esercitarono un dominio senza precedenti sull’opinione pubblica; il New York Times, per fare un confronto, vendeva solo 25mila copie.
Hearst e Pulitzer costruirono i loro imperi editoriali sul sensazionalismo, un genere che forse non avevano inventato ma che senza dubbio avevano saputo perfezionare. L’espressione inglese per indicare la stampa scandalistica, yellow press, viene dal fumetto The Yellow Kid, pubblicato sul World di Pulitzer nel 1895. L’anno dopo Hearst ne ingaggiò l’autore per portarlo sul Journal e Pulitzer per tutta risposta incaricò un altro disegnatore di proseguire la striscia sul suo giornale. Il fumetto apparve dunque contemporaneamente su entrambe le testate. Lo stile aggressivo e la scarsa etica giornalistica dei due quotidiani furono associati al protagonista della striscia. Il direttore del New York Press Ervin Wardman definì sdegnosamente i suoi avversari «yellow press», e il termine fece fortuna.
gnolo ai cubani toccò profondamente il cuore degli statunitensi. Aiutare la popolazione caraibica nella sua lotta per l’indipendenza era visto come un modo per riaffermare le virtù della loro stessa rivoluzione. La ribellione mise in pericolo i legami commerciali e gli investimenti statunitensi a Cuba, ma a motivare l’entrata in guerra furono ragioni più importanti. Alla fine del XIX secolo gli USA avevano ultimato la loro espansione interna verso la frontiera occidentale. Una dimostrazione di forza sulla scena internazionale avrebbe aperto i mercati esteri ai prodotti statunitensi, consolidando il ciclo espansivo dell’economia e rivitalizzando l’idea che il Paese fosse destinato a dominare a livello globale. Non fu la stampa a generare questi impulsi, ma i giornali seppero giocare con essi e ampliarli. L’aneddoto di Creelman da un lato riflette l’atteggiamento bellicista dei mass media e dall’altro rivela, per il fatto di essere falso, la facilità con cui gli inviati dei giornali adattavano la realtà ai propri interessi.
MOLESTIE INVENTATE IL 12 FEBBRAIO 1897 il Journal denunciava che una donna cubana era stata fatta spogliare e palpeggiata dagli agenti della dogana spagnola mentre si recava a New York a bordo dell’Olivette. Il testo era accompagnato da un disegno abbastanza esplicito. Anche se fu dimostrato che la storia era inventata, il giornale non rettificò mai la notizia. LIBRARY OF CONGRESS
conda rivolta nel 1879. La fase finale del conflitto prese avvio nel 1895, ma i primi tentativi dei ribelli furono brutalmente repressi.
Il generale Valeriano Weyler (la più alta autorità militare e politica dell’isola) confinò gli insorti e i loro presunti simpatizzanti in condizioni terribili, al punto che alcune fonti gli riconoscono il triste merito di essere il creatore dei campi di concentramento per civili. Il duro trattamento riservato dal governo spa-
PRIMA DELLA GUERRA I CORRISPONDENTI DA CUBA ERANO SETTANTACINQUE; DOPO LO SCOPPIO DEL CONFLITTO, SI STABILIRONO SULL’ISOLA CIRCA DUECENTO GIORNALISTI 108 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
I corrispondenti di guerra Verso la fine del XIX secolo il giornalismo era ancora agli albori. Non c’erano scuole dove s’insegnasse, né codici deontologici, né associazioni di categoria che imponessero (o almeno suggerissero) requisiti minimi. I giornali delle grandi città fecero massicci investimenti in rotative sempre più moderne per riuscire ad aumentare il loro bacino di lettori. Alcuni quotidiani cercavano di attrarre un pubblico più colto, dedicando maggiore attenzione alla verifica delle informazioni, ma anche il New York Times e altre testate con aspirazioni elevate cedettero facilmente alla tentazione del sensazionalismo e della superficialità quando cominciò la vicenda cubana.
Fino ad allora nessun avvenimento estero era stato seguito con tanto interesse dagli statunitensi. Nei tre anni precedenti il conflitto con la Spagna l’insurrezione cubana fu coperta da circa 75 corrispondenti e nel 1898 si recarono sull’isola non meno di 200 inviati. I giornali non badavano a spese quando si trattava di raccontare le drammatiche notizie provenienti dalla vicina isola caraibica.
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James Creelman, il bel Richard Harding Davis, il romanziere e giornalista Stephen Crane o il pioniere della fotografia di guerra Jimmy Hare, per citarne solo alcuni, rappresentavano all’epoca l’élite dei corrispondenti di guerra. Per quanto avessero un atteggiamento fazioso e spavaldo, svolgevano il loro lavoro con coraggio e determinazione. La copertura delle informazioni poteva infatti essere pericolosa: un corrispondente morì in azione, mentre altri risultarono feriti o furono vittime di malattie tropicali come la malaria. Il generale Weyler odiava la stampa americana: «Avvelena tutto con le sue falsità!», disse a Creelman. «Dovrebbe essere proibita!». Una minaccia che finì per mettere in pratica quando iniziò a prendere misure drastiche
contro i corrispondenti: ne fece rinchiudere diversi in carceri malsane e ne espulse altri dal Paese, oltre a censurare attivamente i telegrammi che questi inviavano in patria.
La stampa scandalistica I giornali spendevano migliaia di dollari per avere notizie aggiornate. L’Associated Press poteva contare su 23 giornalisti e cinque barche, mentre Hearst ne aveva il doppio. Le imbarcazioni permettevano di far arrivare in Florida cronache senza censura e fornivano ai giornalisti un punto di vista privilegiato sulle azioni militari marittime. Quando la corazzata americana Maine affondò nel porto di L’Avana in circostanze misteriose (oggi si sa che si trattò molto probabilmente di un inci-
NAVI A L’AVANA
A partire dal XVI secolo il porto di L’Avana divenne uno dei più attivi di tutto il continente americano. Sopra, il Muelle de luz in una foto a colori del 1904.
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UN’ANTICA FORTEZZA
Il porto di L’Avana si trova in una baia naturale accessibile solo tramite uno stretto passaggio. Il castello del Morro (sullo sfondo) era una delle quattro fortezze che lo proteggevano. FREDERIC SOREAU / AGE FOTOSTOCK
Ma Hearst non era il solo fomentatore della guerra: Sylvester Scovel, corrispondente del New York World di Joseph Pulitzer, aveva un rapporto così stretto con il generale insorto Máximo Gómez che gli spagnoli lo consideravano un agente dei ribelli. E non avevano tutti i torti: Scovel recapitava i messaggi di Gómez e trasmetteva informazioni agli Stati Uniti. I giornali spesso si attaccavano tra loro biasimando la qualità della copertura dei rivali, ma queste critiche non avevano lo scopo di giustificare gli spagnoli né di mettere in discussione le affermazioni degli insorti: si trattava di un semplice tentativo di sottrarre lettori ai concorrenti. In questa corsa ad attrarre l’attenzione del pubblico, le dimensioni dei titoli giocarono un ruolo chiave: quelli del Journal aumentarono del 400 percento nei mesi antecedenti la guerra. L’editore della testata, Arthur Brisbane, non nascondeva il suo sollievo per il fatto che la parola inglese war avesse solo tre lettere. «Con il termine francese guerre o quello tedesco krieg, saremmo finiti sempre oltre i margini della pagina».
Guerra multimediale
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UN IMPERO IN DECADENZA
Questa vignetta pubblicata poco dopo la fine della guerra mostra lo Zio Sam intento ad abbattere le ultime vestigia dell’impero coloniale spagnolo: Cuba, Porto Rico e le Filippine.
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dente dovuto a degli esplosivi immagazzinati in malo modo), tre quotidiani inviarono le proprie squadre di sommozzatori per cercare di scoprire cosa fosse successo.
Gli editori come Hearst difendevano un giornalismo interventista. Il magnate inviò armi e medicine per un valore di duemila dollari al capo dei ribelli cubani e organizzò una visita dei membri del congresso a Cuba. Ordinò inoltre a Creelman di acquistare una vetusta imbarcazione a vapore e di affondarla nel canale di Suez per impedire alla marina spagnola di raggiungere Manila, che era stata occupata dagli americani nell’agosto 1898. Si trattava ovviamente di un piano ridicolo che non fu mai messo in pratica.
Per la propaganda di guerra furono utilizzati tutti i mezzi disponibili, dai fumetti (The Yellow Kid) alle pubblicità. Un periodico come Chicago Dry Goods Reporter, rivolto ai commercianti, consigliava di utilizzare la tragedia della Maine per decorare le vetrine dei negozi. I progressi della fotografia resero le sofferenze dei cubani ancora più vivide. Il successo della rivista Collier’s fu attribuito alla popolarità dei suoi ampi reportage fotografici sul conflitto. Due pionieri del cinema, Albert E. Smith e J. Stuart Blackton, produssero i primi cinegiornali con le ricostruzioni dell’affondamento della Maine e della carica di Theodore Roosevelt (futuro presidente degli Stati Uniti) nella battaglia della collina di San Juan, alle porte di Santiago. «La febbre nazionalista era al culmine», disse uno degli inviati, «e noi fotografavamo quello che la gente voleva vedere».
La Junta, l’organizzazione degli indipendentisti cubani che svolgeva attività di lobby negli Stati Uniti, pubblicava i suoi giornali,
GLI UOMINI DI GÓMEZ
Guerriglieri dell’esercito agli ordini di Máximo Gómez, uno dei principali leader dell’insurrezione contro la lunga dominazione spagnola a Cuba. GRANGER / AURIMAGES
aveva i propri reporter nelle redazioni del Times-Picayune e del Washington Star, e ogni giorno alle quattro convocava una conferenza stampa a New York. Nota come Peanut Club (il Club dell’Arachide), l’organizzazione cercava di minimizzare l’importanza delle violenze compiute dai ribelli per enfatizzare piuttosto il malgoverno spagnolo. Uno dei dirigenti dichiarò: «Non conosco nessuno che non simpatizzi con la lotta cubana».
La pressione della stampa I corrispondenti facevano arrivare il loro messaggio filocubano direttamente al Campidoglio, creando un circolo vizioso perfetto. I giornali “testimoniavano” le violenze compiute dagli spagnoli e i membri del
REALTÀ, FINZIONE E INVENZIONI DURANTE LA GUERRA per l’egemonia della
stampa, in maggiore o minore misura tutti i giornali statunitensi mandavano da Cuba notizie manipolate. Il teoricamente rispettabile New York Times aveva nel suo staff William Francis Mannix, uno dei più grandi mistificatori letterari dell’epoca, che poneva la testata allo stesso livello degli scandalistici Journal e World. I giornalisti del Times non esitavano a falsificare lettere e interviste con i leader cubani. In un’occasione, ad esempio, misero in bocca a un generale insorto queste parole: «Dite loro, signore, che tutti i patrioti cubani aspettano il nemico con il petto scoperto». Ma, in realtà, questa frase era copiata alla lettera da una famosa operetta statunitense.
L’esercito degli Stati Uniti assunse il controllo dell’isola dopo la presa di Santiago. Sopra, l’annuncio del 20 luglio con le disposizioni delle nuove autorità.
In questo clima montato ad arte dalla stampa non sorprende che negli Stati Uniti gli animi cominciassero a scaldarsi. Nelle scuole divenne abituale praticare quotidianamente il giuramento di fedeltà. Varie città videro manifestazioni antispagnole in cui si dava fuoco a immagini del generale Weyler e alcuni cittadini dichiaravano finanche di usare carta igienica con i colori della bandiera spagnola. Alla fine anche i pochi giornalisti contrari a una politica interventista cedettero. Whitelaw Reid, proprietario del New York Tribune, disse al suo caporedattore: «Sarebbe controproducente se fossimo gli ultimi a sostenere [la guerra] o se dessimo l’impressione di esserci fatti trascinare controvoglia». Lo stesso valeva per il presidente William McKinley.
Governare a colpi di titoli McKinley in realtà era riluttante a entrare nel conflitto a causa della sua drammatica esperienza come comandante dell’esercito unionista durante la guerra civile. D’altro canto era anche molto sensibile all’opinione pubblica e consapevole dell’ondata di patriottismo che attraversava la nazione. Secondo il suo segretario personale, dedicava due ore ogni mattina alla lettura dei giornali, prestando particolare
SECONDO UN CORRISPONDENTE DEL JOURNAL NON C’ERA MOTIVO PER VERIFICARE LE INFORMAZIONI TRASMESSE DAGLI INSORTI PERCHÉ ERANO UOMINI «IRREPRENSIBILI» 114 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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LA CADUTA DELL’ISOLA
congresso le ripetevano una volta tornati nei rispettivi stati. Uno degli inviati più “creativi”, Frederick Lawrence del Journal, confessò di non avere problemi a riportare senza verifiche le informazioni ricevute dagli insorti, perché questi erano «uomini irreprensibili». I parlamentari mostravano la stessa ingenuità di fronte alla propaganda antispagnola dei ribelli cubani.
attenzione a una selezione di notizie preparate appositamente per lui, che gli permetteva di captare «gli umori del pubblico».
Il presidente dapprima cercò di convincere la Spagna a concedere l’indipendenza a Cuba. Quando però i negoziati fallirono, decise di non schierarsi apertamente a favore del conflitto ma lasciò che fossero i parlamentari più interventisti a dichiarare guerra. La sua presa di posizione era molto astuta: se il conflitto fosse andato male, ne avrebbe condiviso la colpa con i congressisti e se invece fosse andato bene, si sarebbe preso buona parte dei meriti. Nell’aprile 1898 il parlamento statunitense emise finalmente la dichiarazione ufficiale di guerra ed Hearst non esitò ad attribuirsene la paternità con un titolo in prima
pagina che millantava: «Cosa ve ne pare della guerra del Journal?». Il conflitto si concluse tre mesi più tardi. Nel frattempo McKinley era diventato un eroe. La vittoria permise agli Stati Uniti di strappare alla Spagna le sue ultime colonie: Cuba, Filippine, Guam e Porto Rico. Quel breve scontro aveva trasformato la giovane repubblica in una potenza mondiale, estromettendo allo stesso tempo la Spagna dalla scena internazionale. Un osservatore dell’epoca scriveva di quella febbre espansionista: «Gli ultimi mesi hanno visto uno dei cambiamenti più impressionanti mai registrati nell’opinione pubblica di un Paese». E analizzava la posizione degli Stati Uniti: «Un anno fa non volevamo colonie, né alleanze, né esercito, né marina… Ora abbiamo
ridefinito completamente i nostri principi». La stampa era stata decisiva in questa trasformazione, e pazienza se per farlo aveva oltrepassato tutti i limiti dell’etica giornalistica. Come scrisse James Creelman elogiando il ruolo dei reporter nel conflitto, la guerra aveva «giustificato a posteriori gli stessi strumenti utilizzati per farla scoppiare». JOHN MAXWELL HAMILTON PROFESSORE DI GIORNALISMO. UNIVERSITÀ STATALE DELLA LOUISIANA
Per saperne di più
UNA NUOVA POTENZA
In questa caricatura del 1895 Udo Keppler metteva in guardia dai sogni di conquista dello Zio Sam, alimentati dalla lettura della stampa ultranazionalista.
SAGGI
False flag. Sotto falsa bandiera Enrica Perucchietti. Arianna Editrice, Bologna, 2016. INTERNET
La guerra ispano-americana del 1898 Giovanni Quintiliano http://www.storico.org/belle_epoque/ ispanoamericana.html
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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L A G U E R R A V I S TA DA L L A S PAG N A
LA STAMPA SCANDALISTICA DEL FRONTE SPAGNOLO Durante la guerra del 1898 i giornali iberici furono contagiati dalla stessa febbre patriottica che infuriava oltreoceano sulla stampa statunitense e ricorsero agli stessi metodi discutibili, incluso il sistematico discredito morale dell’avversario
L
a guerra di Cuba rappresentò anche per i giornali spagnoli un’occasione unica per dimostrare la propria influenza. Nel 1898 le testate di Madrid polarizzarono il dibattito nazionale. L’opinione pubblica, ovvero quel settore della popolazione
CARICATURA DELLE NERE PROSPETTIVE SPAGNOLE A CUBA. LA CAMPANA DE GRÀCIA. 1898.
SFGP / ALBUM
che seguiva l’attualità politica, si riduceva alla sfera della borghesia. Ma la chiamata alle armi di uomini da mandare in guerra ampliò l’interesse per un conflitto di cui la stampa divenne la principale fonte d’informazione. I giornali moltiplicarono le vendite: El
Imparcial superò le 120mila copie; El Heraldo de Madrid pubblicava tre edizioni quotidiane. Era iniziata una dura lotta per accaparrarsi i lettori. Ogni testata inviò i suoi corrispondenti a Cuba e nacquero sezioni dedicate all’isola e agli Stati Uniti. L’urgenza di pubblicare favorì la diffusione d’informazioni sensibili e notizie non verificate spingendo il governo a controllare il telegrafo e la stampa.
Maledetti yankis Editoriali, cronache e notizie veicolavano sistematicamente un’idea di superiorità nazionale e denigravano gli statunitensi. Divennero di moda appellativi come yankis o jingos (dall’inglese jingoism, termine che designa un atteggiamento patriottico e aggressivo), e centinaia di articoli ritraevano gli avversari come furfanti, infami, maleducati, arroganti o speculatori. In poche settimane si passò da elogiare il presidente degli Stati Uniti McKinley per il suo carattere sobrio
LE TRUPPE SPAGNOLE IN PARTENZA PER CUBA SALUTATE DALLA POPOLAZIONE.
a bollarlo come un ipocrita e un bugiardo. La stampa ritraeva gli statunitensi come «gentaglia insolente, senza onore né patria», una nazione disunita e addirittura un «accampamento di nomadi su terre rubate» (in riferimento all’occupazione del territorio indiano). Per El Liberal, «nel Paese governato da McKinley con i suoi sindacati, i suoi senatori e i
LEEMAGE / PRISMA ARCHIVO
suoi deputati idrofobi e la dilagante corruzione politica, George Washington stenterebbe a riconoscere il suo popolo». Di fronte al «coraggioso e patriottico» esercito spagnolo, le truppe statunitensi venivano presentate come un’accozzaglia indisciplinata di stranieri, criminali e avventurieri incapaci di dimostrare la mini-
ma dedizione nei confronti della madrepatria. Senza negare la superiorità della flotta nemica, i giornali ne evidenziavano le carenze in termini di meriti professionali. Solo El País espresse ammirazione per il fatto che gli statunitensi arruolavano anche giovani provenienti dalle famiglie più in vista. Le allusioni al materialismo yanki erano praticamente
una costante. Si diceva che l’esercito nemico lottava «per gli affari» ed era pronto a morire «per il dollaro», che il denaro era «l’anima del popolo nordamericano» e che l’unico interesse della gente per questo conflitto era di tipo finanziario. El Heraldo de Madrid sottolineava che la borsa di New York non aveva subito contraccolpi di nessun
tipo a causa dell’entrata in guerra. Secondo le testate spagnole l’umanitarismo era una mera copertura per il tornaconto economico statunitense. Al termine del conflitto, la stampa entrò in crisi. Il sensazionalismo con cui erano state seguite le vicende belliche minò la credibilità e le vendite dei giornali, costringendoli in molti casi a chiudere.
C o ntinua all a pa g ina s eg u e nte
LA GUERRA DI EL PAÍS Uno degli effetti più visibili del conflitto del 1898 sulla stampa spagnola fu il ricorso a titoli di grandi dimensioni, una risorsa che fino a quel momento non era stata utilizzata. Anche in precedenza il formato e i caratteri tipografici rivestivano una certa importanza, ma i titoli non superavano mai le due colonne. Invece, dopo l’affondamento della Maine, le testate madrilene cominciarono a usare con sempre maggior frequenza i titoli a tutta pagina. È il caso di El País, un quotidiano “repubblica-
no-rivoluzionario” (organo del Partito repubblicano progressista) che fu pubblicato tra il 1887 e il 1921. Nel tentativo di guadagnare lettori e influenza, a partire dall’aprile del 1898 aprì tutte le edizioni con titoli sensazionalisti e bellicosi, come quelli mostrati alla pagina seguente. Di fatto El País condusse un’intensa campagna contro gli Stati Uniti, alternando frequenti allusioni alla necessità della guerra (per difendere l’onore della patria dall’arroganza yanki) a critiche feroci all’inazione del governo, rappresentato dal presidente Práxedes Mateo Sagasta, leader
di quel Partito liberale che all’epoca si alternava al potere con i conservatori.
Contro le «canaglie» Per sostenere il suo appello all’entrata in guerra, El País pubblicò grandi quantità d’informazioni negative sugli Stati Uniti, dando spazio alle voci non verificate anche in prima pagina. Per fare un esempio, nella prima cronaca sull’affondamento della Maine, il 17 febbraio, si menzionavano le dicerie relative a un coinvolgimento spagnolo nell’esplosione per aizzare l’opinione pubblica contro le famigerate «canaglie» nordamericane. La campagna antistatuni-
tense di El País si estendeva anche ad altre pubblicazioni, come il bollettino dal titolo emblematico Infamias yankis (stampato proprio durante la guerra). Nella crociata del giornale contro i nemici e il governo, le immagini costituivano un’arma eccezionale. Tanto che ben presto s’iniziarono a pubblicare vignette satiriche in cui gli statunitensi erano rappresentati come mandrie di maiali circondati da dollari o effigi dello Zio Sam. Niente era troppo per scatenare un conflitto che si stava preparando ormai da anni. TERESA PIÑEIRO OTERO UNIVERSITÀ DI LA CORUÑA
IMMAGINI: BIBLIOTECA NACIONAL DE ESPAÑA
IL 20 APRILE IL GIORNALE SPINGEVA IL GOVERNO A ENTRARE IN GUERRA DI FRONTE ALL’ULTIMATUM DEGLI USA ALLA SPAGNA.
SELEZIONE DI TITOLI DI PRIMA PAGINA DI EL PAÍS TRA APRILE E LUGLIO 1898. BIBLIOTECA NACIONAL, MADRID.
GRANDI ENIGMI
Ludovico II di Baviera, la strana morte del “re pazzo” Prigioniero del suo mondo personale e disinteressato alle questioni di governo, Ludovico II venne deposto dai suoi ministri e tre giorni dopo fu trovato morto in un lago
N
el giugno del 1886 la popolazione bavarese assistette sgomenta ai funerali del suo sovrano, Ludovico II di Wittelsbach. In meno di una settimana il re era stato spogliato della corona, arrestato per incapacità mentale e infine trovato morto nelle acque del lago di Starnberg senza che nessuno sapesse esattamente come aveva potuto verificarsi un simile incidente. Questa vertiginosa successione di eventi era stata generata dalla delicata situazione
politica dell’epoca e si era conclusa con l’evidente declino di un uomo per il quale la corona era diventata un peso insostenibile. Ludovico II nacque il 25 agosto 1845 a Monaco di Baviera. Da bambino aveva un carattere sognatore e ribelle, che lo faceva vivere in un costante conflitto tra la realtà e le sue fantasie. Divenne re di Baviera il 10 marzo 1864, alla morte del padre Massimiliano II. Aveva solo 18 anni. Non passò molto tempo prima che dimostrasse il suo totale disinteresse per il governo del regno. Indifferente alla politica, dilapidò una fortuna per costruirsi un mondo tutto suo nei suggestivi castelli di Neuschwan-
stein, Herrenchiemsee e Linderhof, e per dedicarsi a un generoso mecenatismo. Il suo sostegno a Richard Wagner si concluse bruscamente nel dicembre del 1865, quando il compositore fu costretto a lasciare Monaco mentre il governo minacciava di dimettersi in blocco se il re non avesse cambiato atteggiamento.
Il monarca assente Sotto le ripetute pressioni dei suoi ministri, all’inizio del 1867 Ludovico annunciò il suo fidanzamento con la cugina Sofia Carlotta di Baviera. Il matrimonio fu fissato per il 25 agosto, ma poi la cerimonia venne rinviata varie volte per esse-
UN AMANTE DELLA BELLEZZA NEL CORSO della sua vita Ludovico II di Baviera ricercò in-
stancabilmente la bellezza fin nei minimi dettagli. Amante dell’arte, ossessionato dall’armonia estetica dell’ambiente in cui viveva e dai miti germanici, arrivò a disegnare una carrozza d’oro per le sue nozze con Sofia e a decorare le pareti del castello di Linderhof con le armi del cavaliere Lohengrin. OROLOGIO DA TASCHINO DI LUDOVICO II DI BAVIERA. BRIDGEMAN / ACI
re infine annullata. Questa rottura coincise con l’arrivo nella vita del re di Richard Hornig, un prestante stalliere che non rappresentava l’unica presenza maschile al fianco di Ludovico. Educato nella più rigida tradizione cattolica, il sovrano visse la sua omosessualità come una tormentata discesa agli inferi. La sua tragedia personale ebbe anche conseguenze politiche. Il monarca era così immerso nelle sue stesse contraddizioni che rimase al margine del momento storico e politico attraversato dalla Germania. Spettatore passivo della crescita del potere prussiano, non riuscì a opporsi al riconoscimento di Guglielmo I come imperatore della nuova Germania federata, nata nel 1871. Quando finalmente si rese conto che il suo regno era stato ridotto a un semplice stemma araldico, praticamente privo di risorse naturali e finanziarie e con poteri legislativi molto limitati, Ludovico, sopraffatto dalle nuove circostanze, abbandonò la corte e si rifugiò nel castello di Neuschwanstein.
IL RE Ludovico II di Baviera
rappresentato come gran maestro del reale ordine di San Giorgio. König Ludwig II Museum, Monaco di Baviera.
IL MEDICO DEL RE FINE ART / ALBUM
ufficialmente la sua incapacità di governare il regno. Data l’evidente disabilità del fratello minore di Ludovico, il potere fu assunto dallo zio, il principe Leopoldo, in qualità di reggente.
Detenzione e morte Il sovrano fu immediatamente trasferito al castello di Berg e posto sotto stretta sorveglianza. Il 13 giugno chiese di poter fare una passeggiata nei giardini che costeggiano il lago di Starn-
AKG / ALBUM
La situazione divenne insostenibile. Gli alti organi ministeriali cominciarono a mobilitarsi e nei primi giorni di giugno 1886 fu reso pubblico un rapporto medico che raccoglieva varie testimonianze sullo stato mentale del re, ma che oggi è considerato scarsamente attendibile visto che il monarca non fu mai sottoposto a una perizia vera e propria. Il 10 dello stesso mese una commissione governativa mise il re in stato di fermo e dichiarò
A SEGUITO DELLE SUE SCOPERTE nel campo della neuropsichiatria, Bernhard Von Gudden fu nominato medico personale di Ludovico II. Questa incisione ricostruisce il momento in cui il suo corpo e quello del monarca furono ritrovati senza vita nelle acque del lago di Starnberg, la notte del 13 giugno 1886.
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GRANDI ENIGMI
IL CORTEO funebre di
berg. Vedendolo tranquillo, le guardie lo autorizzarono a condizione che si facesse accompagnare dal suo medico, lo psichiatra Bernhard von Gudden. Passate alcune ore scattò l’allarme: nessuno
AKG / ALBUM
Ludovico II si dirige verso la chiesa di San Michele a Monaco di Baviera, il 19 giugno 1886. Incisione.
dei due aveva fatto ancora ritorno al castello. Fu rapidamente organizzata una squadra di ricerca, che non produsse alcun risultato fino a tarda notte, quando i corpi di medico e paziente furono ritrovati nel lago.
Una morte sospetta La versione ufficiale affermava che Ludovico II era stato vittima di un attacco di
follia e si era suicidato, dopo aver ucciso lo stesso von Gudden che cercava d’impedirgli di gettarsi nel lago. Tre anni più tardi la corte di Vienna avrebbe fornito una spiegazione simile per il suicidio del principe ereditario austriaco Rodolfo d’Asburgo, morto con la sua amante. In entrambi i casi i disturbi mentali furono un pretesto per poter procedere al-
L’autopsia del monarca non rivelò tracce d’acqua nei polmoni, un fatto incompatibile con l’annegamento IN QUESTA INCISIONE D’EPOCA VON GUDDEN CERCA D’IMPEDIRE A LUDOVICO II DI TOGLIERSI LA VITA. SZ PHOTO / PHOTOAISA
la sepoltura in un cimitero consacrato, operazione che la Chiesa proibiva espressamente in caso di suicidio. Ma l’autopsia del sovrano Ludovico II smentì la teoria dell’annegamento: non vennero trovate tracce d’acqua nei suoi polmoni. Inoltre, nonostante i suoi deliri, il re non aveva mai manifestato tendenze suicide. I sospetti si aggravarono quando un pescatore e altre persone che si trovavano in zona quel pomeriggio dichiararono di aver sentito degli spari. Cominciarono così a diffondersi le voci di un regicidio pianificato dalla famiglia reale. Si parlò molto anche di
IMAGEBROKER / ACI
NEUSCHWANSTEIN.
Nel 1869 Ludovico II fece costruire questo castello in cui trascorse lunghi periodi lontano dalle vicende politiche del regno.
Richard Hornig, insignito di un titolo nobiliare poco dopo i tragici eventi, e s’ipotizzò una congiura orchestrata dalla Germania per controllare una Baviera che rifiutava di perdere l’indipendenza. La controversia si riaccese nel 2007, quando il banchiere monacense Detlev Utermöhle dichiarò sotto giuramento che da piccolo aveva visto la contessa bavarese Josephine Wrbna-Kaunitz mostrare ai suoi genitori alcuni beni dei Wittelsbach, tra cui il soprabito che Ludovico II indossava il giorno della sua morte e sul cui retro erano visibili due fori di proiettile. Purtroppo nel
1973 un incendio distrusse le proprietà della contessa, facendo scomparire anche l’unica testimonianza che avrebbe potuto cambiare la versione ufficiale sulla morte del re Ludovico II. La tesi di Utermöhle coincide con quella dello storico dell’arte Siegfried Wichmann, in possesso di una fotografia che riproduce un disegno del cadavere del re con delle macchie di sangue intorno alla bocca, caratteristiche di chi è stato ucciso da un colpo di arma da fuoco ai polmoni. La controversia è stata esacerbata dal rifiuto degli attuali membri della famiglia Wittelsbach di ef-
fettuare una nuova autopsia sul corpo del sovrano, come proposto dallo storico berlinese Peter Glowasz.
Un caso aperto? È anche possibile che la morte di Ludovico II non fosse stata organizzata e che si sia trattato semplicemente di un tentativo di fuga finito male. Il re era infatti un ottimo nuotatore e, una volta allontanatosi dal castello, avrebbe potuto tentare di raggiungere la sponda opposta del lago. Se si accetta questa versione sorge un’altra domanda: Ludovico uccise in precedenza il medico che lo ac-
compagnava o questi era un suo complice finito anch’egli vittima degli aggressori del re? In ogni caso il rifiuto dei Wittelsbach di approfondire la questione ha bloccato ogni ulteriore indagine. La vera causa della morte di colui che, a torto o a ragione, fu ribattezzato il “re pazzo”, resta ancora un mistero. —M. Pilar Queralt del Hierro Per saperne di più LIBRI
Finestra con le sbarre. Gli ultimi giorni di Ludwig di Baviera Klaus Mann. Il Saggiatore, Milano, 2015. FILM
Ludwig Regia di Luchino Visconti, 1972.
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GRANDI SCOPERTE
Teyuna, la città perduta degli indigeni tairona
Nel 1976 un gruppo di archeologi riuscì a raggiungere le rovine di un’antica città nascosta nel mezzo della foresta colombiana
MAR DEI CARAIBI
Teyuna VENEZUELA B O G OT Á OCEANO PACIFICO
COLOMBIA
ECUAD OR
Buritaca. Ad un certo punto Julio César si rese conto che uno degli uccelli che aveva abbattuto era caduto su una scala di pietra che s’inerpicava su una collina. Padre e figlio compresero di aver localizzato un sito inesplorato e cominciarono a saccheggiarlo e a rivenderne i tesori. La cosa però si venne presto a sapere e altri predoni raggiunsero la località per disputarne il controllo ai Sepúlveda. Negli scontri che seguirono Julio César fu ucciso a colpi di arma da fuoco. Questo fatto contribuì ad
1975
Florentino Sepúlveda scopre e saccheggia Ciudad Perdida, nella Sierra Nevada di Santa Marta.
1976
accrescere l’aspettativa sulle immense ricchezze che dovevano trovarsi in quella che era ritenuta essere la città perduta dei tairona. A quel punto Jaime Barón, uno di coloro che avevano commissionato i furti, propose ai responsabili del Museo dell’oro di Bogotá di condurre degli scavi nel sito in forma congiunta. Le autorità furono immediatamente allertate e incaricarono l’Instituto Colombiano de Antropología e Historia (ICANH) di organizzare una spedizione.
Nascosta nella foresta Gli archeologi dell’ICANH esploravano l’Alto Buritaca dal 1973 e avevano individuato quasi duecento villaggi tairona in un’area di circa 1.800 chilometri quadrati, ma non erano ancora riusciti a localizzare la città recen-
Gli archeologi dell’ICANH arrivano a Ciudad Perdida e cominciano a studiare la località.
1986
principale di Ciudad Perdida, il punto più alto del sito. Forse qui sorgevano gli edifici con una funzione cerimoniale.
temente venuta alla luce. La nuova spedizione fu diretta dagli archeologi Luisa Fernanda Herrera e Gilberto Cadavid, e vi presero parte anche l’architetto Bernardo Valderrama e l’archeologa
Lo studio di Ciudad Perdida prosegue fino a questa data ed è condotto nel rispetto dell’ecosistema.
LA STELE RAPPRESENTA LE VARIE STRADE CHE ATTRAVERSANO IL SITO DI CIUDAD PERDIDA. SYGMA / GETTY IMAGES
VISTA DELLA TERRAZZA
ALAMY / ACI
I
l popolo precolombiano dei tairona è noto sia per la resistenza che oppose ai conquistatori spagnoli sia per le raffinate opere di oreficeria oggi esposte al Museo dell’oro di Bogotá. Una delle loro zone di origine era la Sierra Nevada di Santa Marta, nel nord della Colombia, una zona che fu a lungo vittima di saccheggiatori in cerca di tesori nascosti. Si stima che negli anni settanta fossero all’opera nell’area circa cinquemila predoni al soldo di vari committenti. Florentino Sepúlveda era uno di loro. Un giorno del 1975, mentre era a caccia con suo figlio Julio César, questi si addentrò nella giungla lungo le sponde del fiume
2006
Riprendono i lavori, interrotti per qualche anno a causa dei problemi con il narcotraffico.
CASE CIRCOLARI
Lucía de Perdomo. Vennero ingaggiati come guide anche due noti saccheggiatori: Franky Rey Cervantes e “Nero” Rodríguez. L’intenzione del gruppo era quella di raggiungere la località direttamente in elicottero da Santa Marta, ma il velivolo poté trasportarli solo fino a una vicina base militare, La Tagua. Il giorno dopo i membri della spedizione sorvolarono il sito archeologico senza successo, perché la fitta vegetazione
impediva qualsiasi tentativo di atterraggio. Alla fine decisero di procedere via terra. Dopo essersi fatti strada nella giungla a colpi di machete e aver superato scoscesi pendii, arrivarono alle acque del Buritaca. Al termine di cinque giorni di cammino, stremati e coperti di fango, raggiunsero la meta. Per attraversare l’“inferno verde”, come lo chiamavano i locali, i membri della spedizione avevano dovuto aggrapparsi a liane e radici e inerpicarsi
legno dei tairona hanno una forma conica e i tetti di paglia. Sorgono su dei terrazzamenti artificiali formati da uno o due anelli di pietra a cui si accede tramite delle scalinate, anch’esse in pietra. Queste case offrivano un riparo dalle abbondanti piogge della zona.
MARTÍN GONZÁLEZ CAMAR / AGE FOTOSTOCK
LE ABITAZIONI di
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GRANDI SCOPERTE
STRADA DI PIETRA nel sito
ALAMY / ACI
di Ciudad Perdida. Una rete di strade e scalinate univa i diversi settori della città.
lungo scalinate sepolte dalla boscaglia. La prima cosa che notarono al loro arrivo furono gli effetti delle razzie: decine di fosse e una moltitudine di pezzi di ceramica sparsi tutt’intorno. Ma quando iniziarono a rimuovere la vegetazione trovarono
scale, terrazze e resti di edifici ancora in perfetto stato. Rimasero sul sito tre giorni, sotto una pioggia costante: «Fummo costretti ad anticipare il rientro perché i roditori s’erano approfittati delle nostre scorte alimentari, ma quello che avevamo visto era sufficiente a convincerci dell’importanza della scoperta», dichiarò Luisa Fernanda Herrera. Era giunto
il momento comunicare la notizia al mondo. Álvaro Soto, direttore dell’ICANH, comprese subito il valore del ritrovamento e affermò che avrebbe costituito un punto di riferimento per l’archeologia colombiana e un collegamento tra l’identità moderna del paese e il suo passato preispanico. Evidenziò anche un’altra peculiarità del sito: la pre-
Fu l’architetto Bernardo Valderrama a proporre di dare al sito il suggestivo nome di Ciudad Perdida OCARINA ANTROPOMORFA. CERAMICA TAIRONA. METROPOLITAN MUSEUM, NEW YORK. ALBUM
senza nelle vicinanze di una comunità indigena, i kogui, che erano considerati diretti discendenti dei tairona e potevano quindi rivelarsi delle guide preziose per comprendere il significato del luogo.
Ritorno alla vita Fortunatamente fu possibile reperire i fondi necessari al restauro dell’insediamento. Tra il 1976 e il 1986 l’ICANH portò a termine un importante progetto di ricerca e riabilitazione degli edifici, prestando attenzione a non incidere negativamente sull’ecosistema circostante. L’85 per cento degli edifici ritrovati erano in buone
WERNER FORMAN / GTRES
STATUETTA DOPPIA che probabilmente rappresenta due guerrieri nobili bardati con maschere, orecchini e collane. È fatta in tumbaga, una particolare lega di oro e rame molto utilizzata dai tairona.
condizioni. Furono portati alla luce oltre 200 chilometri di strade interne, si procedette a ripulire da arbusti ed erbacce i terrazzamenti e gli anelli delle case, venne riparata la parte superiore dei muri di sostegno e furono recuperati alcuni canali di drenaggio abbandonati che ancora oggi proteggono la zona dalle precipitazioni. Il nuovo parco archeologico fu aperto al pubblico nel 1981 dopo un breve dibattito interno in merito al nome. Luisa Fernanda Herrera e Gilberto Cadavid lo battezzarono inizialmente Buritaca 200, perché era il duecentesimo sito che scoprivano
e si trovava nella valle del Buritaca. Ma l’architetto che li accompagnava nella spedizione, Bernardo Valderrama, propose il più suggestivo Ciudad Perdida.
Ultimi ritrovamenti Alla fine degli anni ottanta gli scavi furono interrotti a causa della violenza connessa al narcotraffico, per riprendere nel 2006 sotto la direzione dell’archeologo colombiano Santiago Giraldo. A oggi sono state rinvenute oltre 200 strutture, tra cui varie case, 18 tra strade e scale di pietra, circa 170 terrazze, diverse piazze, recinti cerimoniali e canali.
Si pensa che Ciudad Perdida abbia ospitato un massimo di tremila abitanti, che potrebbero diventare ottomila contando le comunità delle valli adiacenti. Fu costruita nel IX secolo (anche se alcune case risalgono al 650 d.C.) e abitata fino alla fine del XVI secolo. Dal punto di vista architettonico va sottolineato l’uso di terrazze aperte, senza mura divisorie, e la predominanza di strutture circolari. Santiago Giraldo ha cercato di mettere in relazione l’impianto urbanistico di Ciudad Perdida con la società molto gerarchizzata che l’abitava. Il centro amministrativo e
politico di Teyuna era concentrato sul crinale che porta alla sommità della collina, mentre i quartieri residenziali si estendevano lungo le pendici. Gli spazi erano collegati da una complessa rete viaria. Questo microcosmo resistette alla conquista spagnola e probabilmente fu piegato solo dagli effetti devastanti delle epidemie. —Francesc Bailón Per saperne di più INTERNET
Sito ufficiale ICANH http://www.icanh.gov.co/ LIBRI
Colombia Guido Piccoli. De Agostini, Novara, 1997.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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L I B R I E M O S T R E A CURA DI MATTEO DALENA STORIA DEL COSTUME
L’abito femminile dal verdugale al décolleté
O Georges Vigarello
L’ABITO FEMMINILE. UNA STORIA CULTURALE Einaudi, 2018, 298 pp.; 32 ¤
gni epoca veste i propri abiti: comodi o scomodi, licenziosi oppure morigerati, comunque pregni di significati. Tutto ciò che valorizza le forme e le linee del corpo femminile o che, al contrario, le nasconde o le pone in secondo piano ha una propria storia. Per dirla con le parole dello storico Georges Vigarello: «La donna esiste, e in modo esauriente, in ciò che la avvolge e la costringe». Il risultato è una storia dell’abito, delle
sue forme e delle sue “rivoluzioni” nei secoli, alla ricerca di quegli esempi in cui gli indumenti sono rappresentativi di una determinata visione del mondo. Ad esempio la dama dei secoli XVI e XVII che indossa il verdugale – una serie di cerchi rigidi, di solito composti di vimini finissimi (vertugo in spagnolo), inseriti nella stoffa per arrotondarla e allargarla – è come posta su di un piedistallo in una posa che sembra esaltare una bellezza solenne, fiera, severa
e quasi sacrale, espressione di un modello di società che ne limita fortemente i rapporti con l’esterno, le relazioni, le pratiche lavorative. Al contrario, afferma Vigarello, agli inizi del XX secolo quando «il vestito cade senza sostegno o costrizione “artificiale”» in un trionfo di movimento, autonomia, riappropriazione degli spazi pubblici, anche lo status femminile si è profondamente trasformato. Nelle nuove professioni femminili si assiste a un progressivo rigetto di tutti i capi di vestiario provvisti di stecche di rinforzo, con linee imposte e fianchi strozzati, considerati limitazioni e «causa di uno sfinimento che impedisce di disporre di sé».
STORIA CULTURALE
UN’AVVENTUROSA VITA BAROCCA NELLA BIBLIOTECA civica di Bassano del Grappa (Vi-
cenza) sono custoditi alcuni fogli risalenti alla prima metà del XIII secolo in cui l’abate Francesco Chiupani ripercorre la vita del prozio Gasparo (1655-1730). Il ritrovamento all’interno di una vecchia cassa colma di cianfrusaglie di queste poche carte ha consentito allo scrittore Beppi Chiuppani di delineare le tappe della vita avventurosa del proprio avo, prosatore e poeta tra Padova, Mantova e Venezia. Allo stesso tempo ha permesso di restituire il vivido affresco di un’epoca – «quella del trapasso dal Barocco al Rococò» - fatta di battaglie e voluttuoso vivere, senso esasperato dell’onore e desiderio d’evasione. Beppi Chiuppani
GASPARO. IL ROMANZO DI UNA VITA BAROCCA Il Sirente, 2019, 657 pp.; 20 ¤
128 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Maria Pia Donato
L’ARCHIVIO DEL MONDO. QUANDO NAPOLEONE CONFISCÒ LA STORIA Laterza, 2019, 170 pp.; 19 ¤ QUANDO nella primavera del
1809 Vienna capitolò dinanzi all’avanzata napoleonica, venne compiuta una requisizione particolare. Non solo mosaici, medaglie, bronzi provenienti dai palazzi di Belvedere, di Schönbrunn
e di Laxenburg, ma anche centinaia di casse contenenti i documenti dell’ormai dissolto Sacro romano impero. All’inizio del 1810, in una Roma ormai occupata e senza papa, da Parigi arrivò l’ordine di requisire tutte le carte delle congregazioni e dei tribunali ecclesiastici compresi quelli custoditi nell’Archivio segreto della Santa Sede: un totale di 470 casse. Ammassate per anni nel Palazzo degli Archivi a Parigi, con la Restaurazione i documenti tornarono al loro posto. La storica Maria Pia Donato ricostruisce le convulse fasi della conquista napoleonica del sapere universale: una “guerra della memoria” combattuta a colpi di requisizioni.
ARTE ISLAMICA
L’Islam e l’acqua: convivialità e preghiera
N
ell’acqua che Allah fa scendere dal cielo, vivificando con essa la terra morta e disseminandovi animali di ogni tipo […] vi sono invero segni per la gente che ragiona». Nel versetto 164 della sura coranica al-Baqarah, l’acqua viene citata come uno degli elementi del perfetto e straordinario ordine dell’universo e considerata segno dell’esistenza e dell’unicità divina. Nel Corano il termine ma-’ (acqua) ricorre più di 60 volte con riferimenti alla pioggia, alla rugiada o a sorgenti, mari e fiumi. Tuttavia la centralità dell’acqua non è legata solo all’aspetto religioso ma coinvolge quello civile del sostentamento, dell’approvvigionamento dell’agricoltura, dell’interazione sociale e della convivialità. Un luogo cardine della cultura islamica, fondato sull’acqua
MINIATURA. India, 1680 ca. Acquerello opaco e oro su carta. 30x21cm. Courtesy of the L.A. Mayer Museum for Islamic Art, Jerusalem, Israel.
calda che sprigionata dalle viscere della terra purifica e cura, è l’hammam, che a partire dal IX-X secolo di-
venta uno spazio cruciale della vita urbana, luogo di purificazione e insieme socialità. Allo stesso modo nei
giardini monumentali dei palazzi del potere, luoghi di paradisiaca bellezza, ci si ricreava bevendo, si tenevano convivi o più semplicemente si amoreggiava, mentre le acque zampillavano dalle fontane. Il rapporto tra acqua e Islam è indagato da una mostra che attraverso centinaia di reperti, tra cui bocche di fontane siriane, coppe in vetro iraniane, spargiprofumo provenienti dall’India oltre a numerosi manoscritti e miniature, si propone di riflettere sullo sviluppo storico dei tanti ruoli e significati ricoperti dal prezioso fluido tra tecnologia, vita quotidiana e arte. ACQUA, ISLAM E ARTE Mostra a cura di Alessandro Vanoli. Fino all’1 settembre 2019. MAO, Museo d’arte orientale, Torino. www.maotorino.it
ARTE AFRICANA
L’Africa senza etnocentrismo
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S
D MASCHERA DI OKUYI.
Punu-Lumbu, Gabon, XIX secolo. Legno, caolino, h 29 cm. Collezione privata. Raccolta in situ prima del 1923.
a sempre considerate come prodotti di una civiltà ritenuta marginale o inferiore, le espressioni artistiche africane hanno tardato ad affermarsi come opere d’arte tout court per via dell’etnocentrismo europeo. Solo dopo la Seconda guerra mondiale le creazioni artistiche provenienti dall’Africa subsahariana o “Africa nera” sono
assurte al rango di opere d’arte vere e proprie, liberandosi dell’etichetta di meri reperti etnografici o manufatti di artigianato. Divisa in 9 sezioni, con centinaia di opere di piccole e grandi dimensioni provenienti dall’antico regno del Benin, dal Mali e dalla Sierra Leone, maschere, figure rituali e di potere in terracotta, pietra, bronzo, avorio e legno, la
mostra si propone di esplorare anche «i diversi sguardi con i quali l’Occidente si è posto dinnanzi alle espressioni plastiche dell’Africa». EX AFRICA. STORIE E IDENTITÀ DI UN’ARTE UNIVERSALE Mostra a cura di Ezio Bassani e Gigi Pezzoli. Museo civico archeologico, Bologna. Fino all’8 settembre 2019. www.mostrafrica.it
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Prossimo numero IL COGNOME SCOMODO DI LUCREZIA LA VITA di Lucrezia Borgia
BPK / SCALA, FIRENZE
è sempre stata oggetto di critiche. Intelligente e amante dell’arte, fu l’unica donna a ricoprire il ruolo di reggente dello Stato della Chiesa in assenza del pontefice e fu, fra le altre cose, duchessa di Ferrara. Ma i suoi tre matrimoni, tutti contratti per assecondare gli interessi politici della famiglia, e l’essere figlia di papa Alessandro VI, le valsero la reputazione di donna di facili costumi, incestuosa, opportunista, corrotta e sanguinaria.
La fine del primo impero egizio L’ISOLA DI PASQUA, IL COLLASSO DI UNA CIVILTÀ QUALE FU il fattore che determinò la scomparsa dei rapa nui, gli abitanti dell’Isola di Pasqua? Fino agli inizi del XVI secolo la popolazione prosperava vivendo di agricoltura, pesca e caccia di uccelli. Ma qualcosa andò storto: si è creduto che il collasso fosse dovuto a un eccessivo sfruttamento delle risorse naturali dell’isola, ma studi recenti sostengono che le cause medioambientali sembrano aver giocato un ruolo fondamentale, insieme allo sbarco degli europei. BRIDGEMAN / ACI
Alla morte di Pepi II, uno dei faraoni più longevi della storia d’Egitto, il Paese attraversò un lento declino che si concluse con la divisione in diversi regni.
I sumeri e l’architettura del fango Le città sumere erano costruite con mattoni di fango, un materiale facilmente reperibile grazie ai sedimenti del Tigri e dell’Eufrate.
La biblioteca di Alessandria Molto più di un semplice deposito di papiri, fu la sede di una fervente attività intellettuale intorno a cui gravitavano scienziati ed eruditi di tutto il mondo greco.
La guerra lampo di Giulio Cesare Nel 47 a.C. il generale romano sconfisse Farnace II, re del Ponto, in una battaglia fulminea. In quell’occasione Cesare pronunciò la celebre frase: «Veni, vidi, vici».
Al di là delle (prime) Colonne d’Ercole (al Canale di Sicilia) c’era un’Isola… Così la Geografia svela la Storia.
La Sardegna di Atlante. Il Primo Centro del Mondo L’Isola Sacra racconta i suoi Segreti
km 11.359
«Con le Colonne d’Ercole spostate a Gibilterra Eratostene spinse nell’Oceano Atlantico tutte le storie del Mediterraneo Occidentale. Fu allora che l’Isola di Atlante divenne l’Atlantide dei Mille Misteri». Sergio Frau in Le Colonne d’Ercole, un’inchiesta
40°
km 11.350
Così il Paradiso divenne Inferno. «Omero, Esiodo, Pindaro, Eschilo, Socrate, Platone, Aristotele & C.…Non sono il primo a mettere Atlante al Centro del Mondo. Sono il primo a crederci e a misurare sul 40° parallelo Nord. E…». Sergio Frau in Omphalos
I 200 MENHIR DI BIRU ‘E CONCAS A SORGONO (Centro Sardegna)
Platone
Timeo, sull’Isola di Atlante: «…Allora infatti quel mare era navigabile, e davanti a quella bocca che, come dite, voi chiamate Colonne d’Ercole, (le prime Colonne, al Canale di Sicilia, ndr) aveva un’isola…»
INFORMAZIONI: Pro Loco 3400680386 - Museo 3203468292
Eschilo
Prometeo Incatenato: «… Mi dà già troppa angoscia ciò che è accaduto a mio fratello Atlante che, nelle plaghe d’Occidente, regge un peso smisurato sulle spalle, il pilastro del cielo e della terra…»
Curatore Sergio Frau
ARTE VERCELLI
Vercelli 23 marzo 9 giugno 2019
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