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TRA STORIA E MITO
GLI ARCHITETTI DELLE PIRAMIDI DARIO III
IL NEMICO DI ALESSANDRO MAGNO
ISTANBUL OTTOMANA
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L’AFFASCINANTE PORTA D’ORIENTE
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IL MINOTAURO
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periodicità mensile
L’ERA DEI CAVALIERI
N. 127 • SETTEMBRE 2019 • 4,95 E
storicang.it
IL CIRCO ROMANO
IL PIÙ GRANDE SPETTACOLO DELL’ANTICHITÀ
EDITORIALE
IL MINOTAURO proruppe in un urlo [...] un grido di gioia per non
essere più l’unico, il contemporaneamente escluso e rinchiuso, perché c’era un secondo minotauro, non soltanto il suo Io, ma anche un Tu». Come molti autori suoi contemporanei, Friedrich Dürrenmatt si discosta dall’immagine mitica dell’essere metà uomo metà toro frutto del castigo che il dio del mare Poseidone volle infliggere al re di Creta Minosse per punire la sua arroganza. Nella mitologia greca e nel corso dei secoli Asterio – questo il suo vero nome – fu elevato a simbolo del peccato e del male, una creatura mostruosa e crudele. Dürrenmatt lo immagina piuttosto in un labirinto di specchi in cui cerca continuamente il contatto umano che gli è stato negato in quanto “diverso”. Intrappolato in un intrico di riflessi, incontra qualcuno del tutto simile a lui e balla e grida e muggisce esultante, non sapendo che in realtà la creatura è un uomo mascherato, Teseo, l’eroe ateniese venuto a ucciderlo. Asterio non ha paura perché riconosce nell’altro la sua stessa essenza e vuole abbracciarlo come un fratello. Ma a Teseo hanno raccontato che il Minotauro è una belva assetata di sangue che divora i suoi compatrioti e ora come allora Asterio viene identificato come un mostro. La sua crudeltà è reale? La sua barbarie innata o imposta? Il Minotauro riveste il ruolo di essere sanguinario che divora giovani ateniesi perché nel suo mondo non c’è spazio per il “difforme” e la sua peculiarità è considerata una minaccia per gli altri, i “normali”. Gli stessi che da una parte lo hanno rinchiuso nel labirinto per utilizzarlo come monito davanti agli avversari e dall’altra lo hanno ucciso diventando degli eroi.
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8 ATTUALITÀ 10 PERSONAGGI STRAORDINARI Christine de Pizan
La prima scrittrice della storia visse nel XV secolo e sostenne l’uguaglianza tra uomini e donne.
16 EVENTO STORICO
Il dramma della fillossera A metà del XIX secolo un parassita proveniente dagli Stati Uniti si diffuse in tutta Europa e infettò e distrusse le vigne.
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22 VITA QUOTIDIANA Ricevere visite
La borghesia del 1800 adottò le norme del buon costume aristocratico: un rigido protocollo regolava gli incontri mondani.
118 GRANDI ENIGMI I vampiri
I fenomeni naturali che nel XVIII e XIX secolo erano considerati indizi di vampirismo sono oggi perfettamente spiegabili. 4 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
122 GRANDI SCOPERTE
I tumuli congelati della valle di Pazyryk Nella prima metà del novecento la regione russa dell’Altaj fu il teatro di una scoperta eccezionale. Sergei Rudenko rinvenne delle tombe parzialmente conservate risalenti all’Età del ferro.
128 LIBRI E MOSTRE 22
102 VIAGGIO NELLA ISTANBUL OTTOMANA GLI ARTISTI, gli studiosi e i
viaggiatori europei che nel XVIII secolo si recavano a Istanbul, la città dei sultani, rimanevano affascinati dalle sue contraddizioni, dai suoi abitanti e da quell’aura di mistero decadente che aleggiava per le strade. Considerata la porta per l’Oriente, la capitale ottomana era una meta di grande interesse sia per il commercio europeo sia per le relazioni diplomatiche. DI ROSA MARIA DELLI QUADRI
IL QUARTIERE DI GALATA E L’OMONIMA TORRE OSSERVATI DALLA RIVA OPPOSTA DEL CORNO D’ORO. INCISIONE DEL XVIII SECOLO.
28 Gli architetti delle piramidi Millenni dopo essere state costruite le piramidi egizie non hanno perso la loro magnificenza. Eppure, nonostante siano tra le opere più ammirate della storia, sappiamo molto poco degli uomini che le idearono e le costruirono. DI MAITE MASCORT
42 Dario III, l’ultimo re achemenide Nel 336 a.C. Dario III salì al trono dell’impero persiano che dominava incontrastato da più di due secoli. In appena sei anni il re fu sconfitto tre volte da Alessandro Magno e passò alla storia come un vigliacco e un incapace. DI MANEL GARCÍA SÁNCHEZ
56 Il Minotauro tra storia e mito Metà uomo e metà toro, il figliastro del re di Creta Minosse divorava i giovani ateniesi che gli venivano offerti ogni nove anni. La sua morte per mano dell’eroe Teseo divenne un simbolo della lotta tra bene e male. DI AMARANTA SBARDELLA
70 Il circo romano Le corse dei carri nell’antica Roma suscitavano passioni a ogni livello della scala sociale. Gli aurighi erano considerati alla stregua di eroi e venivano acclamati come tali. Con il passare del tempo intorno alle gare si svilupparono diversi giri d’affari. DI DAVID ÁLVAREZ JIMÉNEZ
86 Ascesa e declino dei cavalieri
La cavalleria s’impose in tutta Europa tra l’XI e il XV secolo. Appartenere a questa classe militare decisiva nell’esito di ogni battaglia era un privilegio esclusivo della nobiltà. I cavalieri incarnavano gli ideali di onore, bontà d’animo e coraggio che li resero protagonisti in ambito bellico ma anche in canzoni e ballate. DI JOSÉ LUIS CORRAL
ACQUAMANILE IN BRONZO RAFFIGURANTE SAN GIORGIO E IL DRAGO. 1420.
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IL CIRCO ROMANO
IL PIÙ GRANDE SPETTACOLO DELL’ANTICHITÀ
Pubblicazione periodica mensile - Anno XI - n. 127
GLI ARCHITETTI DELLE PIRAMIDI DARIO III IL NEMICO DI ALESSANDRO MAGNO
ISTANBUL OTTOMANA L’AFFASCINANTE PORTA D’ORIENTE
L’ERA DEI CAVALIERI CAVALIERE TEMPLARE, VETRATA DI SAINT ANDREW’S CHURCH. TEMPLE GRAFTON, INGHILTERRA. ASP RELIGION / ALAMY
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IL MINOTAURO TRA STORIA E MITO
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AT T UA L I T À
GLI STUDIOSI del Museo egizio di
Torino sottopongono uno scrigno di legno ad analisi minuziose.
ANTICO EGITTO
Il Museo egizio di Torino studia le sue mummie La mostra Archeologia invisibile consente di scoprire le nuove tecniche grazie alle quali oggi i reperti archeologici sono analizzati a fondo
I
l Museo egizio di Torino è il secondo più importante al mondo dopo quello di Il Cairo; può contare su immensi archivi e conserva tesori faraonici di grande valore. Dal 13 marzo ospita una mostra dal titolo Archeologia invisibile che permette ai visitatori di scoprire i nuovi metodi scientifici utilizzati nell’analisi dei reperti archeologici millenari. Tra quelli che possono fornire più informazioni agli esperti figurano le mummie, attualmente studiate con tecniche
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non invasive come i raggi X o la tomografia assiale computerizzata (TAC). Quelle della coppia costituita dall’architetto capo Kha e dalla moglie Merit, la cui tomba intatta fu scoperta dall’egittologo Ernesto Schiaparelli nel 1906 a Deir el-Medina, sono state esaminate a Torino.
Umani e animali Kha, un architetto vissuto durante la XVIII dinastia (1425-1353 a.C.), morì quando aveva circa 60 anni. I ricercatori hanno rivelato
che soffriva di artrosi e di calcoli biliari e aveva inoltre un’infiammazione al gomito dovuta al lavoro che svolgeva. Sotto le bende sono nascosti oggetti in oro e un collare con uno scarabeo in pietra. La mummia di Merit – morta prima del marito – indossava una lunga parrucca e un collare in oro. A nessuno dei due vennero estratti gli organi interni come accadeva di solito durante la mummificazione. Anche i resti di mummie di animali rivelano segre-
ti importanti: la TAC di un gatto dimostra come in corrispondenza degli occhi vi sono due oggetti non identificati. Sono anche state scoperte delle frodi ancestrali come quella di una mummia di coccodrillo venduta come offerta al dio Sobek che invece conteneva i resti di una piccola lucertola. La mostra illustra altre tecniche di studio rilevanti per l’archeologia moderna, come la fotogrammetria, che consente di digitalizzare un sito e di conservare la memoria dei diversi strati di terra prima che questi vengano portati via, e l’esame multispettrale che analizza i resti policromatici con frequenze invisibili dello spettro elettromagnetico per individuare il tipo di pigmento usato nella decorazione delle tombe.
SOPRA, la TAC permette di osservare il corpo mummificato di un felino. SOTTO, il sarcofago dello scriba Butehamon. Nella mostra
LA MUMMIA DI KHA. Le analisi sulla mummia dell’architetto
capo vissuto durante la XVIII dinastia hanno dimostrato che sotto le bende sono presenti oggetti d’oro come il magnifico collare con uno scarabeo in pietra sul quale compare un’iscrizione funeraria.
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FOTO: MUSEO EGIZIO TORINO
Archeologia invisibile del Museo egizio di Torino si può ammirare come venne realizzato grazie a una riproduzione in 3D.
PERSONAGGI STRAORDINARI
Christine de Pizan, la prima scrittrice della storia Nata Cristina da Pizzano, visse in Francia alla corte di Carlo V. Riuscì mantenersi con le sue opere e divenne famosa per la rivendicazione del sapere e della dignità femminile
La lotta di un’autrice pioniera 1365 Cristina da Pizzano nasce a Venezia. Quattro anni dopo la sua famiglia si trasferisce in Francia alla corte di Carlo V.
1380 Sposa Étienne du Castel, notaio e segretario del re. Dal loro matrimonio felice nascono tre figli: due maschi e una femmina.
1387 Muore suo padre e tre anni dopo anche il marito, che lascia Christine sola con tre figli piccoli e la madre da mantenere.
1405 Christine scrive Cité des dames, un’opera che mette in discussione le posizioni misogine dell’epoca.
1430 Muore in convento poco tempo dopo aver dedicato un poema a Giovanna d’Arco. STÉPHANE MARÉCHALLE / RMN-GRAND PALAIS
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C
hristine de Pizan fu la prima donna scrittrice di professione riconosciuta in Europa. Nacque a Venezia intorno al 1365. Suo padre era Tommaso da Pizzano, originario di Bologna. Laureato in medicina, era un astrologo molto noto in tutta Europa. Sposò la figlia di un collega, Tommaso Mondini, ed ebbe tre figli: Cristina, Paolo e Aghinolfo. La sua fama di studioso e uomo saggio crebbe durante gli anni che trascorse con la famiglia a Venezia, dove ricopriva il ruolo di consigliere della Serenissima, tanto che due sovrani europei lo invitarono a prestare i suoi servigi presso di loro: uno era Carlo V re di Francia, l’altro Luigi il Grande sovrano d’Ungheria. Fu forse la reputazione d’intellettuale e amante della cultura di re Carlo che convinse Tommaso a recarsi alla sua corte. I da Pizzano vennero accolti con tutti gli onori, il loro cognome venne immediatamente francesizzato in“de Pizan”e il sovrano li prese sotto la sua ala protettrice. Quella di Tommaso fu una scelta saggia: la famiglia godette per anni di una condizione economica eccellente e i figli crebbero nello stimolante ambiente di corte.
Uomo di larghe vedute, Tommaso fu determinante nel futuro della figlia: contrariamente alle opinioni più tradizionali della moglie, decise d’istruire tutti e tre i suoi discendenti, non solo i maschi. Christine apprese dunque a leggere e scrivere ma ricevette anche insegnamenti di storia, filosofia e medicina. Oltre all’aiuto del padre poté godere del libero accesso alla Biblioteca reale del Louvre, fondata proprio da Carlo V e oggi diventata la Bibliothèque nationale de France.
Talento precoce Fu così che Christine godette di un’infanzia felice, stimolante e piena. Da giovanissima dimostrò di essere molto portata per la scrittura, componendo canzoni e ballate che deliziavano i membri della corte. Il padre, sempre più vicino al sovrano Carlo V, si prodigò perché raggiunta l’età da marito la giovane potesse contrarre un matrimonio vantaggioso sotto tutti i punti di vista. Nel 1380, a 15 anni, Christine sposò Étienne du Castel, notaio e segretario del re che Tommaso aveva scelto sia per la sua posizione sia per il suo temperamento. E aveva ragione a caldeggiare l’unione dei due giovani: il loro fu un matrimonio felice da cui
Nata a Venezia come Cristina da Pizzano, in Francia cambiò il nome in Christine de Pizan CALAMAIO DEL XV SECOLO. MUSÉE DU LOUVRE, PARIGI.
LA VESTE BLU DELLA DONNA DI LETTERE DURANTE LA SUA LUNGA carrie-
ra Christine de Pizan portò avanti anche un notevole lavoro di editrice e curatrice di testi. Una volta pronto il manoscritto se ne prendeva cura fino a trasformarlo in una vera e propria opera d’arte rifinita nei minimi dettagli. Grazie alle abili mani dei miniaturisti faceva abbellire i testi con delle immagini. Spesso il soggetto delle illustrazioni era lei stessa, ritratta sempre con una lunga veste blu mentre scrive, istruisce suo figlio o addirittura mentre costruisce la città delle dame accompagnata dalle tre Virtù: Ragione, Rettitudine e Giustizia. CHRISTINE DE PIZAN SCRIVE NELLO STUDIO. MINIATURA DALLA SUA OPERA CENT BALLADES. BRITISH LIBRARY, LONDRA.
BRIDGEMAN / ACI
nacquero tre figli, due maschi e una femmina. Purtroppo, però, in pochi anni la sorte di Christine cambiò. Nel 1380 il re morì e gli successe il figlio undicenne Carlo VI, un bambino che non era in grado di guidare un Paese nel pieno della Guerra dei cent’anni. Il comando venne dunque affidato ai quattro zii del re, che avrebbero dovuto esercitarlo al posto del nipote fino a che questi avesse compiuto 14 anni. Invece lo mantennero fin quando Carlo VI se lo riprese con la forza, all’età di 21 anni. In questo torbido scenario d’intrighi di corte, Christine perse il padre nel
1387 e il marito nel 1390, quest’ultimo a causa di un’epidemia. A 25 anni, con tre figli e una madre da accudire, la donna non poteva contare nemmeno sull’appoggio dei suoi fratelli, nel frattempo tornati in Italia. Rimasta sola dovette far fronte alle ristrettezze economiche che i recenti lutti avevano causato: il padre non era stato capace di amministrare le ricchezze che avrebbe potuto accumulare negli anni in cui aveva goduto del favore di Carlo V; Étienne, dal canto suo, non era riuscito a risollevare le sorti economiche della famiglia dopo la morte del suocero.
L’unica soluzione possibile per Christine sembrava quella di risposarsi. Probabilmente la donna pensava che non sarebbe stata felice con nessun altro che non fosse il primo marito, o forse non voleva accettare di dipendere da altri. Scelse la strada meno battuta, si rimboccò le maniche e si prodigò per provvedere al benessere economico della propria famiglia. «Dovetti diventare un uomo», scrive riferendosi al suo compito di sostenere i figli e la madre. Iniziò dunque a cercare un lavoro e in poco tempo arrivò a dirigere una bottega di scrittura, uno scriptorium dove STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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L’ispirazione
Christine legge un testo che attacca le donne quando si palesano le tre Virtù, che la spronano a costruire una città delle dame.
Le mura
Dama Ragione, la prima Virtù, sollecita Christine a scavare con la pala della sua intelligenza e a erigere un muro che protegga le donne meritevoli.
AKG / ALBUM
supervisionava il lavoro dei maestri calligrafi, rilegatori e miniaturisti. Nel tempo libero continuava a scrivere e a inviare ballate e sonetti ai personaggi più influenti dell’epoca. Apprezzati da tutti, i testi divennero presto la sua unica fonte di sostentamento e la resero famosa in tutta Europa. In soli due anni Christine compose Le Livre
des cent ballades e ricevette incarichi sia dai fratelli di Carlo V, Filippo II di Borgogna e Giovanni di Valois, sia dalla regina consorte Isabella di Baviera. Agli inizi del XV secolo partecipò anche a uno dei dibattiti letterari più feroci e controversi della storia: la Querelle de la Rose. Il Roman de la Rose (Romanzo della Rosa), scritto circa un
LA BIOGRAFA DEL RE CHRISTINE NON avrebbe mai potuto immaginare
che sarebbe divenuta l’autrice della biografia di Carlo V, commissionatale dal fratello del re, il duca di Borgogna Filippo l’Ardito. Per la stesura dell’opera poté contare sulla sua esperienza e sulla consultazione delle fonti nella Biblioteca reale del Louvre. CARLO V. SCULTURA DEL XIV SECOLO. MUSÉE DU LOUVRE, PARIGI. THIERRY OLLIVIER / RMN-GRAND PALAIS
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secolo prima, in alcuni passaggi del testo relegava la donna a mero oggetto di desiderio, utile solamente a compiacere e appagare gli istinti maschili. Christine si fece portavoce della critica a quest’opera sollevando il dibattito a corte e argomentando che l’inferiorità femminile non era di carattere naturale, ma aveva piuttosto origini culturali. Se le donne erano confinate fra quattro mura domestiche e non venivano istruite, come potevano aspirare a ciò che invece raggiungevano gli uomini?
La condizione della donna «Se si usasse mandare le bambine a scuola e insegnare loro le scienze con metodologia come si fa con i bambini, imparerebbero e capirebbero le difficoltà e le sottigliezze di tutte le arti e le scienze così bene come i maschi», scrisse Christine nel libro Cité des dames (1405), forse la sua opera più famosa. Il desiderio di dimo-
PERSONAGGI STRAORDINARI
La città delle dame Queste miniature illustrano la fondazione della città immaginata da Christine de Pizan.
Nuovi edifici
Dama Rettitudine aiuta Christine a costruire dimore per riunire e accogliere le donne di chiara fama dell’antichità.
Inaugurazione
Dama Giustizia e Christine rifiniscono la città e ne aprono le porte alle donne per salvarle dall’inganno degli uomini. FOTO: BNF / RMN-GRAND PALAIS
strare che la mancanza d’istruzione era l’unico limite del genere femminile spinse la scrittrice a creare una città letteraria fittizia abitata da sole donne, dame non di sangue ma di spirito. Ragione, Rettitudine e Giustizia furono le tre figure scelte per vegliare sulla sua edificazione e con cui Christine, nelle pagine del libro, intavola dibattiti sulla condizione femminile. Dentro le mura della città la scrittrice riunì donne che con il loro sapere, i loro atti e la loro fede sarebbero state di grande aiuto alla crescita e allo sviluppo della società. Vi compaiono la poeta Saffo, Didone e Semiramide, fondatrici di Cartagine e Babilonia o ancora Lucrezia, che scelse il suicidio dopo lo stupro. Guerriere, martiri, sante, poete, scienziate o regine: Christine chiamò a raccolta le donne della storia e della mitologia per dimostrare come l’oppressione maschile fosse l’unica causa dell’inferiorità femminile: «Non
tutti gli uomini (e soprattutto i più saggi) condividono l’opinione che sia un male educare le donne. Ma è vero che molti uomini sciocchi lo hanno sostenuto perché non gli piaceva che le donne ne sapessero più di loro».
Gli ultimi anni Christine scrisse spesso intorno al ricordo della perduta gioventù e alla condizione delle vedove, ma anche riguardo al mutare della sorte e affrontò temi di politica e società. Produsse decine di testi e firmò pure una biografia di Carlo V che le fu commissionata dal fratello Filippo di Borgogna. Ma la situazione politica francese non era affatto rosea. Nel 1415 il Paese venne invaso da Enrico V d’Inghilterra e Christine, che per la prima volta non si sentiva sicura in città, decise di lasciare Parigi. Abbandonare la Francia era fuori discussione: benché si definisse una italienne, allontanarsi dal Paese
che l’aveva accolta le sembrava quasi un tradimento. Scelse di rifugiarsi in un convento, forse a Poissy, dove anni prima sua figlia aveva preso i voti e vi rimase per più di un decennio. Profondamente scossa dalla situazione politica, per un lungo periodo abbandonò le lettere interrompendo il silenzio solo per scrivere un testo religioso e un poema su Giovanna d’Arco. Fu l’unica opera in omaggio alla pulzella d’Orleans – la donna che aveva salvato la Francia – redatta mentre questa era ancora in vita, nel 1429. Christine invece morì l’anno seguente. —Annalisa Palumbo Per saperne di più
ROMANZI
La città delle dame Christine de Pizan. Carocci, Roma, 2004. SAGGI
Un’italiana alla corte di Francia Maria Giuseppina Muzzarelli. Il Mulino, Bologna, 2017.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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MEMBRI della commissione
sanitaria ispezionano i vigneti costringendo a estirpare le viti malate. Incisione del 1878.
ROGER VIOLLET / AURIMAGES. COLORE: JOSÉ LUIS RODRÍGUEZ
Fillossera: l’apocalisse del vino in Europa Nel 1863 nei pressi di Avignone una vigna seccò a causa di un parassita proveniente dagli Stati Uniti. Nei decenni successivi la fillossera distrusse quasi tutti i vigneti europei
L
e campagne della Francia erano particolarmente belle negli ultimi anni del secondo impero, fra il 1860 e il 1870. Lo sguardo poteva perdersi fra vallate di vigne puntellate di floride fattorie di viticultori, sia contadini con un piccolo appezzamento sia grandi latifondisti. Si era appena riusciti a sconfiggere un’importante infezione dovuta a un parassita chiamato oidio e la produzione andava a gonfie vele. I nuovi tracciati ferroviari avevano ridotto di quattro quinti il costo dei
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trasporti e l’aumento dei salari nei centri urbani aveva incrementato il potere d’acquisto di milioni di persone. Il vino era diventato molto comune anche sulle tavole delle famiglie che non risiedevano in zone vinicole come la regione parigina e quelle del nord. Era davvero un momento d’oro. L’estensione delle vigne francesi raggiungeva i 2,5 milioni di ettari, i rendimenti si moltiplicavano anche spinti anche dall’impennata dei prezzi e dall’abbattimento dei costi vivi, così come aumentava il valore della terra.
Si assisteva persino a un seppur limitato ritorno alle campagne di operai provenienti dalle fabbriche. In quegli anni la Borgogna e la regione di Bordeaux divennero sinonimi di grandi tenute, gli Châteaux che domineranno il panorama dei vini del mondo. Ne è un buon esempio la tenuta Château Lafite, che nel 1861 fu acquistata dalla famiglia Rothschild per quattro milioni di franchi; nel 1821 ne valeva solo uno. Nel mezzo di tutto questo entusiasmo una vigna che nel 1863 era seccata ed era morta
EVENTO STORICO
L’infezione sbarca in Italia 15 anni più tardi la Calabria, l’isola d’Elba, la Liguria, la Lombardia non si registrarono infezioni. Nel 1875 però si eb- e il Piemonte. Il governo e il mondo agrario reabero i primi sospetti e nel 1879 la fillossera venne girono in maniera confusa e non seppero approavvistata a Lecco. Da lì si estese in tutta la peniso- fittare dell’esperienza della Francia aggredita dal la, colpendo in primo luogo la Sicilia, la Sardegna, parassita 15 anni addietro. BNF
DURANTE I PRIMI anni dell’epidemia nello stivale
a Pujaut, vicino ad Avignone, nella regione dell’Occitania passò del tutto inosservata.
Il parassita americano Il fenomeno delle viti che seccavano misteriosamente continuò, pur restando limitato per diversi anni a piccoli focolai che non sollevarono grandi preoccupazioni. Nel 1868 però il professor Jules Émile Planchon arrivò a una conclusione nefasta: si trattava di un parassita ancora sconosciuto nel vecchio continente, la fillossera, un insettino giallastro nativo del Nord America che si nasconde sottoterra, si annida nelle radici, le attacca e le fa marcire nell’arco di tre, al massimo cinque anni. Il suo arrivo fu la causa della catastrofe che nell’arco di mezzo secolo avrebbe distrutto la quasi totalità delle vigne europee. A metà del XIX secolo, per far fronte all’infezione di oidio che minacciava i raccolti, furono importate
delle vigne statunitensi dismostratesi resistenti al parassita. Assieme alle piante però in Francia sbarcò anche la fillossera, che in Europa trovò terreno fertile perché le sue vigne non avevano alcuna resistenza genetica al flagello. I vigneti francesi furono i primi a essere colpiti e a pagarne le conseguenze. Alcune tenute furono letteralmente spazzate via dal piccolo insetto: nel territorio del famoso Chateauneuf-du-Pape un proprietario che di solito produceva 30mila ettolitri all’anno ne ottenne soltanto tre, riporta l’agronomo Carlo Tonini nel 1871, fiducioso che in Italia il parassita non fosse – ancora – giunto.
Nel 1876 Émile Duclaux segnalava l’avanzamento della malattia in un resoconto per il governo francese: «A ovest dell’Isère la piaga ha raggiunto la sua massima espansione, ormai non ci sono più vigne […] Nel dipartimento dell’Hérault tutta la regione è presa, le vigne sono scomparse». Fu così che in pochi anni il mondo viticolo passò dall’euforia all’inquietudine e poi alla disperazione. In questo panorama desolante i resoconti dell’epoca cercavano invano di raccapezzarsi per seguire l’infestazione e i suoi danni, ma sembravano anna-
L’insetto fu importato dagli Stati Uniti insieme alle vigne resistenti alle infezioni di oidio. FILLOSSERA ALATA. VISTA ADDOMINALE. INCISIONE A COLORI DEL 1910.
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LUX-IN-FINE / BRIDGEMAN / ACI
EVENTO STORICO
VENDITA di viti ottenute con un
innesto di ceppo statunitense resistente alla fillossera nel 1900.
spare e procedere per tentativi. Nel frattempo i piccoli proprietari che avevano approfittato della possibilità di emanciparsi economicamente durante il boom vinicolo videro spazzati via sia i proventi sia il valore della terra che possedevano. Molti di loro furono costretti a vendere o a riconvertire le coltivazioni in ortaggi o cereali per fare fronte ai debiti in
tempi brevi e dovettero smantellare il patrimonio vinicolo che avevano costruito in decenni. Nel dipartimento del Gard, dove era stata individuata per la prima volta la fillossera, nel 1871 si contavano ancora 88mila ettari di vigne, ma nel 1879 ne erano rimasti soltanto 15mila. Nel 1880 un mugnaio del Montignac, Hélie Nogaret, impotente e
RIVOLTE VIOLENTE L’ECCESSO DI PRODUZIONE provocato dalle viti ripiantate portò a un crollo dei prezzi e alle proteste dei viticultori. Nel 1907, dopo l’incendio del municipio di Béziers, la polizia aprì il fuoco uccidendo cinque persone. ILLUSTRAZIONE DELLA RIVOLTA DEI VIGNAIOLI DI BÉZIERS. LEEMAGE / PRISMA ARCHIVO
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sconfortato di fronte all’aggressione devastatrice che aveva distrutto le sue vigne, affermava: «Il primo anno vedevo come una macchia che si allargava, era proprio lei, quella fillossera stracciona! Il secondo anno non facemmo che un quarto del vino che ci aspettavamo, e non era neanche granché perché le vigne malate non riuscivano a fare maturare gli acini. Il terzo anno niente. I filari secchi s’impigliavano nei piedi e cadevano giù».
La piaga che devastò l’Europa In un tempo relativamente breve tutta l’Europa fu infestata dal parassita. La diffusione avvenne a partire da focolai differenti ma sempre connessi all’introduzione di viti statunitensi infettate dalla fillossera. In Italia le prime avvisaglie dell’epidemia vennero segnalate verso la fine del decennio 1870 vicino a Lecco. In pochi anni migliaia di vigne secolari erano morte.
EVENTO STORICO
La resistenza dei contadini
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La politica di distruzione dei vigneti non fu ben accolta dai viticultori soprattutto all’inizio, quando molti pensavano che lo scarso raccolto fosse dovuto alla siccità o che fossero possibili altri rimedi. In Spagna scoppiarono rivolte al grido di «Morte a chi uccide la fillossera e le vigne!».
CARICATURA ITALIANA: «PENA 500 LIRE DI MULTA A CHI OSERÀ PORTAR VIA UNA RADICE CON O SENZA FILOSSERA».
Oltralpe la situazione non era migliore. In Austria si registrò il primo caso nel 1868 e in Germania nel 1874. Nemmeno la penisola iberica era stata risparmiata: in Portogallo i sintomi si attestarono nel 1871 e in Spagna nel 1878, a Malaga. Sospinta dal vento, la propagazione della “peste del vino” si protrasse a lungo. Le regioni che non erano state colpite attendevano tremanti l’arrivo del flagello. Ancora nel 1914 il dottor Grandori annotava le zone italiane dove a breve sarebbe arrivata la pestilenza che «superava vallate e catene di montagne». Erano poche decine in tutta Europa le vigne superstiti, chiamate “piede franco”, vitigni centenari portatori di un patrimonio genetico ormai scomparso che sopravvissero grazie a particolari condizioni, come nel caso dei terreni sabbiosi e vulcanici o in presenza di climi particolarmente freddi in cui la fillossera non sopravviveva. 20 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Si tentarono innumerevoli rimedi, dal solfuro di carbonio iniettato nel terreno alla sommersione dei vigneti per asfissiare gli insetti fino all’insabbiamento delle vigne, ma fu tutto inutile. La guerra contro la fillossera era persa e lo sterminio era pressoché totale. Allora si prese l’unica strada praticabile, la più radicale: ricominciare daccapo.
Un nuovo paesaggio Tutte le vigne attaccate furono ripiantate innestando le viti esistenti sulle radici statunitensi, geneticamente immuni alla fillossera. Prese quindi avvio un lungo, coordinato e costoso studio per selezionare le varietà d’oltreoceano e abbinarle alle piante originarie e ai terreni calcarei. La campagna d’Europa era diventata un cantiere che durò cinquant’anni e ridisegnò in maniera radicale la coltivazione delle vigne e il gusto stesso del vino. Questo
favorì i grandi proprietari che potevano permettersi la consultazione degli agronomi e l’impiego delle tecnologie disponibili, mentre i più piccoli dovettero indebitarsi – perdipiù dopo anni di mancati guadagni – o vendere. Molti contadini e braccianti furono ridotti in miseria in pochi anni e costretti ad abbandonare i campi, risucchiati dalle fabbriche. Alla fine della Prima guerra mondiale una cultura vinicola millenaria basata sulla conoscenza diretta del terreno e sulla selezione dei vitigni era stata completamente cancellata. Nasceva da una catastrofe la moderna viticultura. —Giorgio Pirazzini Per saperne di più
SAGGI
Borderwine. I pionieri del vino in Friuli Venezia Giulia Martina Tommasi. Luglio, Trieste, 2010. Storia del vino Tim Unwin. Donzelli, Roma, 2002.
*La collezione è composta da 40 uscite. Prezzo della prima uscita euro 1,99. Prezzo delle uscite successive euro 9,99 (salvo variazione dell’aliquota fiscale). L’editore si riserva il diritto di variare la sequenza delle uscite dell’opera e/o i prodotti allegati. Qualsiasi variazione sarà comunicata nel rispetto delle norme vigenti previste dal Codice del Consumo (D.lgs 206/2005). © 2019 RBA ITALIA S.r.l.
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anziché € 9,99
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L’arte di far visita e di ricevere a casa Nel XIX secolo dame e gentiluomini si scambiavano le visite con regolarità seguendo un’etichetta ben precisa frequenti i biglietti stampati, che erano abitualmente discreti, senza fronzoli, con il nome del proprietario e spesso il suo indirizzo.
La regola dei biglietti
Poiché le comunicazioni scritte divennero un elemento fondamentale per l’etichetta, il loro utilizzo era regolato da norme che tutti conoscevano. In alcuni casi potevano essere spediti per posta, ma più spesso venivano consegnati a mano. Il visitatore porgeva il proprio biglietto al servitore che apriva la porta oppure lo poggiava sul vassoio che UNA SERATA dell’alta società questi gli presentava. Una piccola immortalata da Jules-Alexandre piega sull’angolo superiore destro Grun nel 1913. MUba EugèneLeroy, Tourcoing. del cartoncino indicava che era stato consegnato personalmente da colui che desiderava essere ricevuto, senza un intermediario. Se l’anfitrione era in casa e poteva accogliere l’ospite capitare all’ospite un altro biglietto, lo si faceva entrare, ma di solito il come segno che veniva accolto con padrone di casa doveva prima far re- piacere. Se invece il cartoncino non veniva restituito o, come avveniva talvolta, arrivava dentro una busta, l’ospite capiva di non essere gradito. I motivi per fare una visita erano molteplici: poteva, per esempio, tratVISTA L’IMPORTANZA dei biglietti da visita, era tarsi di un incontro di cortesia in comsempre meglio portarne alcuni con sé. Gli uopagnia di un parente per adempiere mini li tenevano in un taschino della giacca. agli oneri familiari. Quando qualcuno Le donne ricorrevano a biglietti di maggiori disi trasferiva in una città distribuiva il mensioni che conservavano in astucci speciali, biglietto a chi gli era stato precedentespesso lussuosamente decorati. mente segnalato e lo stesso se doveva ASTUCCIO D’ARGENTO PER BIGLIETTI DA VISITA. 1850. allontanarsene. Spesso si faceva anche per trasmettere gli auguri in caso di un
SEMPRE IN MANO
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urante il XIX e fino agli inizi del XX secolo le relazioni sociali erano regolate da un severo protocollo che estrometteva dalla buona società chi non vi si fosse attenuto. Il rispetto dell’etichetta e delle rigide norme di cortesia proprie degli ambienti borghesi e aristocratici era un segno inequivocabile dell’appartenenza a una determinata classe. Uno dei momenti più importanti nella vita sociale della borghesia era quello delle visite o dei ricevimenti a casa. Anche in occasione d’incontri ricorrenti la cortesia voleva che venissero annunciati diverso tempo prima; s’impose quindi il rituale dei biglietti da visita, una consuetudine che già esisteva nell’antica Cina e che si era diffusa in Europa a partire dal XVII secolo. All’inizio si trattava di semplici cartoncini sui quali il proprietario scriveva a mano il proprio nome. Nel XIX secolo però divennero
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matrimonio, di una nascita o, al contrario, per esprimere le condoglianze in seguito a un evento luttuoso. A volte la finalità della visita era indicata sul biglietto con delle iniziali: per esempio, in quelle di congedo si scriveva p.p.c., abbreviazione del francese pour prendre congé, un’espressione che si usava anche nei Paesi non francofoni. In alcune case si riceveva solo in determinati orari o giorni della settimana e a volte quest’informazione era stampata sui biglietti da visita. Era perciò pratica comune che le famiglie si coordinassero per evitare il sovrapporsi delle visite tra persone
Proust: l’emozione di ricevere un biglietto NELL’OPERA À la recherche du temps perdu Marcel Proust fa spesso allusione all’abitudine di lasciare biglietti da visita. In un determinato passaggio menziona quello che il narratore riceve da Odette Swan, la madre della donna di cui è innamorato.
La dama lo invita a partecipare a una colazione per pochi intimi nella sua casa. All’evento, di cui il narratore verrà informato con un biglietto, sarà presente anche Bergotte, lo scrittore da lui ammirato. S’intuisce dunque il perché della sua emozione: «Madame Swann aveva lasciato
a casa uno di quei carbons, come lei li chiamava. Mai nessuno aveva lasciato per me dei biglietti da visita, e ne fui tanto fiero, emozionato e riconoscente che, raggranellando tutto il denaro che possedevo, ordinai un magnifico cesto di camelie e lo inviai a Madame Swann».
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Il linguaggio dei biglietti da visita SECONDO UN MANUALE di buone maniere del 1817, le persone dal gusto raffinato dovevano usare biglietti
semplici, con il nome «stampato in corsivo su un fondo bianco omogeneo, e con l’indirizzo sotto, in caratteri microscopici». La finalità s’indicava con una piegatura o poche iniziali.
Nome
Angolo che si piegava in caso di una visita personale.
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scritto in corsivo inglese, o stile copperplate.
In basso a sinistra si poteva mettere l’abbreviazione del motivo della visita, come p.f.: pour féliciter.
Indirizzo:
a caratteri più piccoli e senza indicare la città.
BIGLIETTO DA VISITA DEL BARONE LÉON DE VRIÈRE. 1870 CIRCA.
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di una stessa cerchia. In quel caso, nei giorni e orari indicati ci si poteva anche presentare senza preavviso, ma al momento di abbandonare la dimora era usanza diffusa lasciare comunque un biglietto su un vassoio perché l’anfitrione potesse serbare un ricordo dell’incontro.
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Un tipo di evento molto particolare era un pranzo o una cena, il cui invito doveva pervenire per iscritto e la cui risposta non poteva farsi attendere più di ventiquattr’ore. Nell’eventualità in cui non si potesse assistere, bisognava addurre una ragione valida al fine di non offendere nessuno.
finiva e si tornava alla vita mondana, s’inviavano comunicazioni ad amici e conoscenti per renderli partecipi del fatto che la famiglia poteva nuovamente fare o ricevere visite. Il giorno stabilito l’invitato doveva arrivare alcuni minuti prima dell’ora concordata, ma mai con troppo anticipo. Se a casa si ritrovavano più perNon troppo presto sone che tra loro non si conoscevano, In certe circostanze però il ciclo delle l’etichetta imponeva un certo ordine: visite poteva essere interrotto. Secon- la persona di rango inferiore veniva do le norme di cortesia, quando moriva presentata a quella di condizione suun familiare cominciava un periodo di periore, il cavaliere alla dama e i non lutto – la cui durata variava in base al ammogliati ai coniugati. Il contatto fisico era molto ridotto grado di parentela con il defunto – durante il quale erano vietate le visite e le e i baci e gli abbracci erano vietati. Per uscite, tranne che per recarsi in chiesa. salutarsi gli uomini chinavano di poco In quei casi, la persona in lutto utiliz- il capo, mentre davanti alle dame l’ezava biglietti, fogli e buste bianchi con tichetta imponeva di abbassarsi per una striscia nera. Quando il periodo simulare il baciamano. La stretta di mano poi era riservata all’ambito degli affari e divenne comune soltanto agli CARICATURA DI UNA VISITA A PHILADELPHIA. inizi del XX secolo. METÀ DEL XIX SECOLO.
RAMON MANENT / ALBUM
SALA DA PRANZO borghese del XIX secolo preparata per una cena formale. Museo del Romanticismo, Madrid.
Una volta riuniti tutti i commensali nell’anticamera, un piccolo ambiente prima del salone, il padrone di casa accompagnava gli invitati al tavolo. Si formava perciò una piccola e ordinata comitiva: gli uomini porgevano il braccio alle signore e le scortavano fino al loro posto, che doveva essere sempre indicato tramite un biglietto con il nome.
di più alto rango a dare il là al pasto assaggiando uno dei manicaretti della tavola imbandita. Sul padrone di casa cadeva pure la responsabilità di tagliare la carne rossa e i volatili o di delegare l’incombenza al servitore preposto a tale mansione. Doveva anche accertarsi che i brindisi e le conversazioni mantenessero un carattere vago: solo evitando qualsiasi allusione politica, religiosa o ideologica non si sarebbe riEtà e classe sociale schiato di ferire la sensibilità di alcuno Durante la cena l’anfitrione presiede- e il pasto non si sarebbe trasformato va la tavolata e faceva sedere alla sua in una spiacevole discussione. Una volta assaporate tutte le pordestra e alla sua sinistra gli invitati di rango più elevato o più anziani, che tate – le buone maniere imponevano venivano anche serviti per primi. In di congratularsi per l’ottimo pasto genere, sempre che fosse possibile, – l’anfitrione invitava gli uomini in gli uomini si alternavano alle donne. una sala attigua per fumare, prendere L’etichetta voleva, inoltre, che i cava- il caffè o sorseggiare il liquore mentre lieri si occupassero della dama alla si chiacchierava, si giocava a carte o al loro destra. Non si poteva iniziare a biliardo; le donne invece si ritiravano mangiare finché non fossero stati tutti assieme alla padrona di casa in una serviti: erano l’anfitrione o la persona sala a parte.
Se il compito dell’anfitrione non risultava semplice, nemmeno quello dell’invitato lo era. Tanto per cominciare, non poteva mai andarsene dopo il banchetto, bensì doveva intrattenersi almeno un paio d’ore. Il congedo avveniva sempre in base allo status sociale e perciò l’ospite di più alto rango era il primo ad andarsene, così come era stato l’ultimo ad arrivare. La borghesia concepiva sé stessa come la nuova classe dominante e il modo migliore per dimostrarlo era appropriarsi delle norme dell’antica aristocrazia. —María Pilar Queral del Hierro Per saperne di più
SAGGI
Antropologia delle buone maniere Giovanni Sole. Rubbettino, Soveria Mannelli, 2019. Breve storia della borghesia Giuseppe Campolieti. Mondadori, Milano, 2008.
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PARTENZA ESCLUSIVA PER I LETTORI DI STORICA 29 DICEMBRE PREZZO FINITO VOLI INCLUSI € 2.450
Un viaggio in Giordania in esclusiva per i lettori di Storica, un’esperienza in un paese che racchiude bellezze archeologiche, naturalistiche, storiche e religiose. Oltre alla mitica Petra, la città rosa scavata nella roccia, si visitano altri Patrimoni Unesco, come i mosaici di Umm al-Rasas e il deserto del Wadi Rum. Imperdibili le tappe bibliche: la fortezza di Macheronte, dove Erode Antipa fece decapitare Giovanni Battista, e Gadara, dove è avvenuto il miracolo della guarigione dell’indemoniato.
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RICCARDO BESANA
Profondamente attratto, sin da giovanissimo, dall'archeologia del Vicino Oriente, ha svolto attività di ricerca presso importanti siti in Siria e Turchia ed ha conseguito il dottorato in Scienze dell'Antichità. In particolare, si è interessato allo studio delle attività artigianali antiche, rapportandole al Vicino Oriente contemporaneo e moderno. Si è occupato di divulgazione archeologica collaborando alla riedizione della collana “Le Grandi Civiltà”, curando la stesura di guide specializzate.
29 DICEMBRE ITALIA - AMMAN Ritrovo dei partecipanti all’aeroporto di partenza alle 11.30. Partenza con volo di linea e arrivo all'aeroporto di Amman alle 23.05. 30 DICEMBRE JERASH Mattinata dedicata alla visita di Jerash, detta anche la Pompei del Medioriente. Nel pomeriggio tour di Amman, con la Cittadella e il Museo Archeologico. 31 DICEMBRE AJLOUN E GADARA Ad Ajloun sorge la fortezza di Qalaat ar-Rabadh, costruita da Saladino. Si prosegue per Umm Qais, l’antica Gadara, una delle principali città della Lega delle Decapoli. 01 GENNAIO MADABA - SHOBAK - PETRA (Km 270) Madaba, è la “città dei mosaici”, il più noto è senz’altro la mappa-mosaico di Gerusalemme e della terra Santa, risalente al VI secolo. Sosta al Monte Nebo e arrivo al Castello di Shobak, costruito per volere del re crociato Baldovino I nel 1115. Pernottamento a Petra. 2 GENNAIO PETRA Intera giornata dedicata alla visita ad una delle sette meraviglie del mondo moderno: Petra, la città rosa scolpita nella roccia, capitale dei Nabatei tra il IV e il II secolo a.C. Percorrendo una lunga e profonda gola naturale chiamata “Siq”, si raggiungerà il “Tesoro”, la prima delle molteplici meraviglie del sito. Sosta alle tombe nabatee scolpite nella roccia, al teatro, ai resti della città romana e bizantina. Salita facoltativa al Monastero, raggiungibile tramite un sentiero di 1000 gradini scavati dalla roccia, ma anche a dorso di mulo. 3 GENNAIO PICCOLA PETRA - WADI RUM - MAR MORTO Breve sosta a Beida “la piccola Petra” e proseguimento per il Wadi Rum, il suggestivo deserto giordano. Dopo l’escursione in jeep 4x4 si prosegue verso il Mar Morto, il punto più basso dell’intero globo terrestre. 4 GENNAIO MAR MORTO - MACHERONTE - UMM AL-RASAS Tempo a disposizione per un bagno nelle acque del Mar Morto, talmente ricche di sali minerali che è possibile galleggiare senza il minimo sforzo. Sosta a Macheronte, secondo gli archeologi luogo di prigionia di Giovanni Battista. Infine visita ai mosaici del sito di Umm al-Rasas, Patrimonio Unesco. 5 GENNAIO AMMAN - ITALIA Trasferimento in aeroporto e volo per Malpensa.
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▪ volo da Malpensa e tasse aeroportuali
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GADARA JERASH
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PETRA
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LE TRE PIRAMIDI DI GIZA
Nella pianura di Giza, vicino all’attuale città di Il Cairo, si ergono le tre grandi piramidi costruite durante i regni di Cheope, Chefren e Micerino, faraoni della IV dinastia. Nella pagina seguente in basso, squadra con piombino trovata presso la tomba di Sennedjem a Deir el-Medina. SOPRA: SHUTTERSTOCK SOTTO: THE GRANGER COLLECTION NY / AURIMAGES
ARCHITETTI DELLE PIRAMIDI CHI ERANO E COME LAVORAVANO
Innalzate da millenni le piramidi egizie sbalordiscono migliaia di visitatori. I nomi degli architetti che progettarono queste costruzioni monumentali rimangono però ancora avvolti nel mistero
L
a prima eretta in Egitto era destinata all’eterno riposo di Djoser, faraone della III dinastia. Si tratta della famosa piramide a gradoni innalzata 4.600 anni fa nella pianura di Saqqara, che campeggiava su un imponente recinto funerario. In realtà non era una piramide propriamente detta, anche se rispecchiava la simbologia dell’elevazione o dell’ascesa verso il firmamento che avrebbe caratterizzato i successivi
L’inventore della piramide Per molto tempo dopo la morte di Djoser e in particolar modo durante il raffinato periodo del Nuovo regno, mille anni dopo, numerosi scribi giunti da ogni angolo del Paese si profusero in un mistico pellegrinaggio al recinto di Saqqara. I graffiti di apprezzamento che alcuni incisero sulle mura sacre sono ancora visibili. Nella cosiddetta “casa del sud” del complesso funerario di Djoser uno dei viaggiatori annotò: «Lo scriba Ahmes, figlio di Iptah, venne a vedere il tempio di Djoser. Gli parve che in esso vi fosse il cielo, come
se Ra si alzasse in lui. Che possano cadere dal cielo pani, buoi, pollame e tutte le cose buone e pure per il ka [l’essenza vitale] di Djoser». E prosegue: «Che il cielo faccia piovere olibano fresco. Che stilli la resina di terebinto. Dal maestro della scuola Sethemheb e dallo scriba Ahmes». Malgrado cotanta ammirazione per quei magnifici monumenti nell’intero complesso funerario di Djoser nemmeno un’iscrizione conferma che il suo artefice era Imhotep, il “direttore di tutti i lavori del re”, titolo che ricevevano gli architetti reali. L’unica menzione figura sul basamento di una statua del sovrano che si è purtroppo conservata solo in parte. Su quella rimasta possiamo leggere: «Il portatore del sigillo reale, amministratore di palazzo, principe ereditario [si tratta di un titolo protocollare], grande tra i veggenti, direttore di scultori, muratori ed eventualmente di costruttori di vasi in pietra». Tuttavia, nessuno dubita che fosse Imhotep l’autore del progetto e il direttore dei lavori. Se da un lato ben pochi dati attestano Imhotep quale costruttore della piramide a gradoni, potremmo invece credere di saperne abbastanza sugli uomini che, nel secolo successivo, durante la IV dinastia progettarono le piramidi di Giza. Ma in realtà anche su questo non abbiamo molte informazioni.
Negli ultimi tempi dell’Egitto faraonico Imhotep divenne il dio della medicina IL SAGGIO IMHOTEP DIVINIZZATO. STATUETTA DI BRONZO DELL’VIII SECOLO A.C. LOUVRE, PARIGI. DEA / SCALA, FIRENZE
DEA / SCALA, FIRENZE
edifici dalla facciata liscia. Gli studiosi sostengono che il creatore di tale opera fu l’architetto del faraone, Imhotep, il cui nome significa “il ben giunto”. O almeno questo insegnano i libri di storia antica, dove si racconta che divenne talmente famoso – soprattutto negli ultimi anni della civiltà egizia – da trasformarsi in una divinità. Non un dio dell’architettura, ma della medicina egizia identificato persino con l’Asclepio greco e l’Esculapio romano. Ma fu davvero Imhotep a progettare la piramide a gradoni?
L’ARCHITETTO HEMIUNU
Questa statua realistica è l’unica immagine oggi conservata dell’architetto di Cheope, considerato l’artefice della Grande Piramide. Roemer-und Pelizaeus-Museum, Hildesheim.
C R O N O LO G I A
L’ULTIMA DIMORA REALE 2592-2566 a.C. Viene eretta la piramide a gradoni per Djoser, faraone della III dinastia, a opera di Imhotep.
2543-2510 a.C. Snefru, primo faraone della IV dinastia, fa costruire tre piramidi a Meidum e Dahshur.
2509-2483 a.C. Viene innalzata la piramide di Cheope a Giza. L’opera è attribuita all’architetto Hemiunu.
2472-2448 a.C. La piramide di Chefren sorge vicino a quella del padre Cheope. È la seconda per grandezza.
2447-2442 a.C. Anche Micerino, figlio di Chefren, vuole la sua piramide a Giza. È più piccola delle altre due.
SCATOLA DI LEGNO IN CUI VENIVANO CONSERVATE LE SCALE RINVENUTA NELLA TOMBA DI KHA E MERIT, A DEIR EL-MEDINA. DEA / ALBUM
UN GRUPPO DI ARTIGIANI PREPARA DEI BLOCCHI DI PIETRA CALCAREA PER LE MURA DI UNA PIRAMIDE. LITOGRAFIA. HERBERT HERGET. XX SECOLO.
NATIONAL GEOGRAPHIC /BRIDGEMAN / ACI
Forse per questo gli studiosi si sono sforzati di trovare un architetto vicino al faraone a cui attribuirne la paternità. Il candidato favorito sembra essere Hemiunu il quale tra le molte cariche sfoggiò pure quella di “direttore di tutti i lavori del re”. Ma finora nessun testo conferma l’ipotesi che fosse lui l’autore del progetto e che avesse diretto i lavori della Grande Piramide. Pare incredibile che gli egizi non ne abbiano lasciato memoria, anche se forse ciò ha a che vedere con il modo con cui allora si consideravano questioni del genere.
L’autore misterioso Quando contempliamo le meraviglie prodotte dagli artigiani egizi – le statue, gli oggetti di oreficeria, i delicati vasi in alabastro o i rilievi delle tombe – è per noi difficile accettare che non esistessero né la parola “arte” né il concetto di “artista” come lo intendiamo oggi. Poteva al massimo succedere che le opere realizzate da un artigiano facessero fregiare l’autore dell’epiteto di “colui dalle abili dita (o mani)”. In una società così gerarchizzata come quella egizia ogni dettaglio o aspetto della vita quotidiana era legato
IL FARAONE SNEFRU. STATUA PROVENIENTE DA DAHSHUR. MUSEO EGIZIO, IL CAIRO. BRIDGEMAN / ACI
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Sicuramente ci furono architetti che, sulla scia di Imhotep, disegnarono ed eressero piramidi a gradoni la cui funzione era sia quella di preservare la mummia del sovrano da una possibile distruzione – perché ciò avrebbe impedito al faraone di godere della vita eterna nell’aldilà – sia di proteggere dai ladri il ricco corredo funerario depositato al suo interno. Queste costruzioni realizzate agli inizi della IV dinastia durante il regno di Snefru avevano già adottato la forma oggi nota per le sue facciate lisce. Una simile evoluzione architettonica portò alla piramide più alta e famosa d’Egitto, la Grande Piramide del faraone Cheope. È sorprendente che un’opera di tali dimensioni – e che sicuramente anche oggi, come all’epoca, suscita una profonda ammirazione – sia orfana di padre. Ignoriamo chi la costruì, circostanza che risulta incomprensibile per la mentalità contemporanea.
ARCHITETTI DIVINI
RICORDATI DOPO MILLENNI Più di milletrecento anni separano nel tempo due architetti che divennero perfino dei: Imhotep e Amenhotep figlio di Hapu. Anche se il secondo non costruì alcuna piramide, creò il prototipo di tempio egizio per il suo signore, il faraone Amenofi III, sovrano della XVIII dinastia.
Amenhotep non eresse piramidi perché ai suoi tempi le tombe reali venivano scavate nella roccia della Valle dei Re per proteggerle da eventuali saccheggi. Solo gli operai che costruivano questi ipogei nascosti continuarono a collocare delle piccole piramidi di mattoni sopra le cappelle funerarie nella necropoli del villaggio di Deir el-Medina, a memoria del loro passato glorioso.
Imhotep continua a
LA PIRAMIDE A GRADONI
Considerata la prima piramide della storia, questa struttura che si erge nella necropoli di Saqqara è attribuita a Imhotep, architetto reale del faraone Djoser.
essere ricordato migliaia di anni dopo: un’iscrizione nel tempio tolemaico di Edfu afferma che l’edificio venne edificato secondo le sue direttive. Nel tempio di Ptah a Karnak si menziona Imhotep come «figlio di Ptah» e su una delle pareti nel mezzo di una processione divina alla cui testa compare Ptah, figurano Imhotep e Amenhotep.
RILIEVO DIPINTO PROVENIENTE DALLA TOMBA DI NEFERMAAT A MEIDUM. NY CARLSBERG GLYPTOTEK, COPENHAGEN. AKG / ALBUM
rettore di tutti i lavori del re”, nonché di visir. Va detto pure che nell’Egitto faraonico l’architettura di templi e tombe era l’espressione palpabile della religione e quindi per forza l’architetto di Cheope – chiunque fosse – doveva fregiarsi di qualche carica religiosa.
Nefermaat o Hemiunu? I visir e probabili architetti della Grande Piramide sono tre: Nefermaat, Hemiunu e Miniunu. Tra le varie cariche religiose tutti e tre furono sommi sacerdoti del dio Thot, ma soltanto Nefermaat e il presunto figlio Hemiunu sfoggiarono il titolo di “direttore di tutti i lavori del re”. Quale dei due ebbe il ruolo più rilevante? Possiamo forse trovare la risposta nelle loro tombe. La mastaba di Hemiunu è una delle più grandi di Giza, luogo in cui si trova la Grande Piramide, ma le sue dimensioni si avvicinano solo alla metà di quelle della tomba del presunto padre, nella necropoli di Meidum. E se la facciata della mastaba di Hemiunu è di pietra calcarea, quella di Nefermaat è in mattoni del tipo “facciata di palazzo”, una decorazione già usata nelle tombe dei re durante le prime dinastie. Eppure nella grande ma-
CHEOPE. STATUETTA IN AVORIO DEL FARAONE RINVENUTA AD ABIDO. MUSEO EGIZIO, IL CAIRO. SCALA, FIRENZE
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al faraone, di origine divina. Tutto passava dalle mani del re a quelle degli dei. Perfino le offerte di una persona qualunque, indipendentemente dalla sua condizione sociale, erano precedute dalla sempiterna formula: «Un’offerta del re [al tale dio]». Su cosa si basa allora l’ipotesi diffusa secondo cui Hemiunu progettò e diresse i lavori della Grande Piramide? Dobbiamo prima segnalare che la qualifica di “direttore di tutti i lavori del re” includeva mansioni che avevano poco o nulla a che fare con l’architettura o la costruzione, anche se tali attività dovevano far parte dei suoi compiti. Del resto, l’incombenza di architetto reale non era l’unica a essere svolta. Piuttosto rimaneva camuffata tra molte altre, tra le quali la più importante era quella di visir. E inoltre risulta che alla corte di Cheope Hemiunu non fu il solo a detenere il titolo di “di-
LA PIRAMIDE DI MEIDUM
Questa piramide tronca è una delle tre attribuite al faraone Snefru, padre di Cheope, anche se alcuni studiosi credono che venne iniziata da Huni, ultimo re della III dinastia.
OPERAI CHE FABBRICANO MATTONI CRUDI (SOPRA) E COSTRUISCONO UNA RAMPA (SOTTO). TOMBA DI REKHMIRE. INCISIONE DEL XIX SECOLO. DEA / ALBUM
AMENHOTEP FIGLIO DI HAPU. STATUA DELL’ARCHITETTO REALE DI AMENOFI III. MUSEO EGIZIO, IL CAIRO. BRIDGEMAN / ACI
cui si sarebbero dovute riempire le diverse parti profilate. Poiché malgrado il fissaggio la pasta si staccava dalla base, la tecnica fu ben presto abbandonata, non prima però che venisse impiegata sia nella cappella di Nefermaat sia nelle iscrizioni alla base della statua di Hemiunu conservata al Museo Pelizaeus di Hildesheim. Sappiamo perciò che ai tempi di Cheope ci furono due architetti che poterono concepire ed eseguire la Grande Piramide: Nefermaat e Hemiunu, che forse furono padre e figlio, ma non possiamo affermare altro.
Un lavoro anonimo Questa mancanza di dati riguardo agli architetti e alle loro opere è il risultato della considerazione sociale di simili professionisti. La loro categoria infatti non era superiore a quella di un bravo scultore. Per esempio Amenhotep, l’architetto del faraone Amenofi III e figlio di Hapu, vissuto un migliaio di anni dopo Cheope, mai si vantò di essere stato l’artefice dello spettacolare tempio di Luxor: non troviamo simili affermazioni né nelle sue statue né nelle stele o nel tempio funerario. Rivendicava invece il suo ruolo come direttore della spedizione alla montagna di quarzite di Gebel el-Amar, dalla quale venne-
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staba di Nefermaat nessun dato conferma che fosse il padre di Hemiunu. La parte più interna della cappella, lavorata nella pietra, venne trasportata nel 1892 da Meidum al museo di Il Cairo dall’egittologo britannico Flinders Petrie. E nemmeno lì, nell’unica zona con iscrizioni della tomba, compare alcun accenno a un’eventuale prole. La parte superiore e centrale della cappella, una falsa porta nel cui architrave dovrebbero figurare le informazioni più importanti sul defunto, non si è conservata. Tuttavia c’è un elemento che mette in relazione i due architetti. Per un breve periodo in Egitto si ricorse a una nuova tecnica complementare al bassorilievo: s’intagliava il perimetro di ogni figura e al suo interno si praticavano delle incisioni per fissare la pasta colorata con
DALLA CAVA ALLA CIMA DELLA PIRAMIDE per costruire una piramide il principale problema era il trasporto dei blocchi di pietra dalla cava sino al luogo prescelto. Per la Grande Piramide tale inconveniente non si pose poiché la struttura venne eretta nella cava stessa; l’unica difficoltà consistette nel trasportare dalla lontana Assuan il granito utilizzato per la camera funeraria. Ma è pure vero che il terreno sedimentario di Giza è costituito da strati alterni di calcare di circa un metro di spessore e da marne friabili a strati orizzontali di circa 20 cm di spessore. Basta scavare delle fondamenta quadrate perpendicolari e alzare questi cubi con delle leve per ottenere i blocchi; le tracce di una simile attività sono ancora visibili ai piedi della piramide di Chefren. Per trascinarli vennero costruite delle rampe di pietrisco coperte da limo. Nella tomba del visir Rekhmire, della XVIII dinastia è riprodotta la costruzione di una rampa. I blocchi sono trasportati con slitte di legno su una pista di tronchi di palma e limo. Decine di uomini trainavano la slitta utilizzando corde di canapa e la facevano scivolare sulla pista appena bagnata. RICOSTRUZIONE DEL TRASPORTO DI BLOCCHI DI PIETRA SULLA RAMPA (SOPRA). CAVE DI GEBEL EL-SILSILA, VICINO AD ASSUAN (DESTRA).
J. D. DALLET / AGE FOTOSTOCK
DIVERSI ARTIGIANI LAVORANO L’ORO IN QUESTA BOTTEGA RAPPRESENTATA IN UN RILIEVO DELLA TOMBA DI MERERUKA A SAQQARA.
SCALA, FIRENZE
Un mistero da risolvere Probabilmente non sapremo mai chi progettò la Grande Piramide o le sue “sorelle” e gli altri monumenti egizi. Una delle più autorevoli specialiste in materia, Lise Manniche, afferma nel suo libro L’art égyptien: «L’architetto capo di Cheope si chiamava Hemiunu. È suggestivo immaginare che, poiché sovrintendeva le costruzioni reali, fosse pure il genio della Grande Piramide». Manniche sottolinea anche come, nel momento in cui venne commissionata la magnifica statua oggi conservata a Hildesheim, Hemiunu cercasse probabilmente di spiccare tra gli alti dignitari a corte. O forse aveva capito che la scultura era l’unico modo per lasciare un ricordo imperituro della sua opera e di sé stesso. Perché la monarchia egizia, assolutistica e di carattere divino, condizionava ogni cosa. Gli artisti e gli artigiani, remunerati per i servizi in funzione dei meriti, non godevano della gloria terrena nemmeno quando erano eccellenti professionisti. 38 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Quel che è certo, come dimostrano documenti e pitture, è che i lavori che richiedevano tecnica e abilità – la realizzazione di un pezzo di oreficeria, di una statua o la costruzione di un edificio – quasi mai erano l’opera di un singolo individuo. Esistevano botteghe guidate da un operaio molto esperto e deputate a svolgere simultaneamente più funzioni e forse ve ne fu pure una di architettura che, riunendo le diverse competenze necessarie, progettò le piramidi. Benché poco probabile, non si può scartare tassativamente l’ipotesi. Magari un giorno comparirà una stele con il nome dell’architetto della Grande Piramide. Nel frattempo non ci rimane che aspettare. MAITE MASCORT EGITTOLOGA E VICEPRESIDENTE DELLA SOCIETÀ CATALANA DI EGITTOLOGIA
Per saperne di più
SAGGI
Imhotep Pasquale Barile. Enigma, Firenze, 2017. La leggenda di Imhotep Bernard Simonay. Piemme, Milano, 2003. Nel cantiere della Grande Piramide Marco Virginio Fiorini. Ananke, Torino, 2012. ROMANZI
Il mago del Nilo Christian Jacq. TEA, Milano, 2019. LIBRI PER BAMBINI
Imhotep e il mistero della piramide Nadia Vittori. Lapis, Roma, 2007.
FRUMM JOHN / HEMIS / GTRES
ro estratti i blocchi per le statue colossali del suo signore che ne dominavano il grandioso tempio funerario (e che oggi conosciamo come i colossi di Memnone).
LA PIRAMIDE DI CHEFREN
Eretta come tomba per il figlio di Cheope, è l’unica delle piramidi di Giza a conservare parte del rivestimento esterno in pietra calcarea che possiamo vedere sulla sua cuspide.
LA GRANDE PIRAMIDE DI CHEOPE
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È la più grande delle piramidi costruite in Egitto e l’unica delle sette meraviglie del mondo antico ancora in piedi. Millenni dopo essere stato innalzata a Giza continua a impressionare per la sua perfezione tecnica.
ILLUSTRAZIONE: 4D NEWS
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Tombe di nobili e familiari a forma di mastaba circondavano la piramide di Cheope. Essere sepolti vicino al faraone era un segno di distinzione sociale e indicava l’alto rango del defunto.
1 COLOSSALE
2 PESO E VOLUME
4 IL TEMPIO ALTO
La piramide di Cheope ha una base quadrata di 230 metri circa per lato e un’altezza di 146,6 metri. Secondo alcuni calcoli l’immensa mole è composta da circa 2 milioni e 300mila blocchi di pietra calcarea.
Il suo volume è di circa 2 milioni e 600mila m 3 e il suo peso di 5 milioni e 750mila tonnellate. Erodoto scrisse che 100mila operai presero parte alla sua costruzione, ma la cifra sembra essere di gran lunga inferiore.
Qui si presentavano le offerte per il benessere del re defunto. Era uno spazio rettangolare circondato da un portico, con un tetto sorretto da 34 pilastri di granito e il pavimento decorato con lastre di basalto nero.
3 IL RIVESTIMENTO
5 PIRAMIDI FEMMINILI
Il sottile calcare bianco che rivestiva la piramide – di cui purtroppo non è rimasta traccia – proveniva dalle cave di Tura, mentre il granito usato per gli addobbi delle sale interne era di Assuan.
Sul lato orientale figurano quattro piramidi accessorie. Tre di queste sono attribuite alla sepoltura di donne della corte; la quarta è una piramide satellite vuota la cui funzione poteva essere simbolica. 6 LE IMBARCAZIONI
Alcune barche cerimoniali in legno vennero interrate in fosse sui lati meridionale e orientale. Vennero smontate prima di essere sepolte. Non è ancora chiara la loro funzione simbolica.
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DARIO III I L N EM I C O DI A LE SSA NDRO L’ultimo sovrano della Persia achemenide rimase solamente sei anni sul trono, poi le sue sconfitte contro gli invasori macedoni convinsero i suoi sudditi che non aveva più il favore degli dei. Alla fine fu imprigionato e ucciso dai suoi stessi comandanti
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SINISTRA: BRIDGEMAN / ACI . DESTRA: SCALA, FIRENZE
I DUE AVVERSARI
Nella pagina precedente, Alessandro Magno in un medaglione d’oro romano del III secolo d.C. Qui, la fuga di Dario III in un famoso mosaico rinvenuto a Pompei che ricostruisce la battaglia di Isso. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Efeso
Armenia
Melitene
GAUGAMELA
Cappadocia ISSO Tarso
Aleppo
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Gerusalemme
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Pasargade
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Persia
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CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM
LA CAMPAGNA CONTRO LA PERSIA
Questa mappa dell’impero persiano mostra le tre grandi battaglie tra Alessandro e le truppe di re Dario III, che guidò personalmente il suo esercito a Isso e Gaugamela.
V
ae victis! (Guai ai vinti!) recita una celebre massima latina. Poche sconfitte dell’antichità furono così schaccianti come quella subita da Dario III per opera di Alessandro Magno. Quattro anni di guerra furono sufficienti ad annichilire l’impero persiano e a provocare la morte di Dario per mano dei suoi stessi uomini. L’ultimo grande re (titolo con cui i greci chiamavano i sovrani achemenidi) sarebbe passato alla storia come un sovrano esitante e codardo. Il mondo ellenistico lo disprezzò per la sua vigliaccheria, la mancanza
di carisma e la scarsa combattività. Anche la tradizione iranica tramandò un’immagine poco lusinghiera di Dara (Dario) che muore tra le braccia di Iskandar (Alessandro) dopo avergli ceduto lo scettro del potere. Del suo regno non si è conservato nulla: né i resti del palazzo, né iscrizioni monumentali, né resoconti sul governo o cronache delle battaglie. Ignoto è il suo aspetto fisico, anche se alcuni pensano che sia ritratto su alcune monete. Di Dario resta la tomba incompiuta di Persepoli, capitale cerimoniale dell’impero, e la narrazione poco obiettiva dei vincitori.
336 a.C. C R O N O LO G I A
LA FINE DI UN IMPERO 44 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Dario III sale al trono. Filippo di Macedonia guida una spedizione panellenica per liberare i greci dell’Asia Minore dai persiani, ma viene assassinato. Gli succede il figlio Alessandro.
334 a.C.
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Libia
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Alessandro assume il comando della spedizione in primavera. Attraversa l’Ellesponto e a maggio sconfigge sul fiume Granico un esercito radunato dai satrapi locali. Inizia la campagna di conquista dell’Asia Minore.
DARICO. MONETA D’ARGENTO CON L’EFFIGIE DI DARIO I O SERSE II.
LE ROVINE DI SUSA
Susa era la capitale amministrativa dell’impero persiano e il luogo dove il gran re riceveva gli ambasciatori inviati dai greci.
GEORG GERSTER / AGE FOTOSTOCK
Una tavoletta astronomica babilonese del 333 a.C. rivela che Dario III si chiamava alla nascita Artashata e che ascese al trono in seguito alle congiure di palazzo dell’eunuco Bagoa, il quale aveva assassinato prima Artaserse III e poi il figlio Artaserse IV. Il nuovo monarca, che i greci chiamavano Codomano, era figlio di Arsame e sua sorella Sisigambi, nipoti dell’antico sovrano Artaserse II. Dell’infanzia e della giovinezza di Dario si sa solo che sposò la sorella Statira, che fu nominato satrapo degli armeni e che si distinse per il suo coraggio durante una campagna contro i cadusi nell’Iran nord-oc-
333 a.C. A novembre Dario III si scontra con Alessandro nella stretta pianura costiera di Isso. Anche se l’esito è incerto, il re persiano abbandona il campo di battaglia causando la sconfitta delle sue truppe.
cidentale, un’impresa che spinse Bagoa a preferirlo ad altri membri dell’aristocrazia persiana come erede al trono. Fu incoronato nel 336 a.C., all’età di 44 anni, con il nome di Dario III. Uno dei suoi primi atti dopo l’assunzione del potere fu ordinare l’eliminazione dello stesso Bagoa, che lo aveva aiutato nella sua ascesa ai vertici dell’impero. Era una misura necessaria per proteggersi dagli intrighi di palazzo, costante flagello della corte achemenide, e in particolare da un nuovo possibile tradimento di Bagoa: questi aveva già assassinato due sovrani e in qualsiasi momento
331 a.C. Dario e Alessandro si scontrano di nuovo a Gaugamela. Il gran re fugge in piena battaglia e si ritira nell’Iran orientale. I suoi comandanti ordiscono un complotto e lo imprigionano.
L’ELMO DEI CAVALIERI
I cavalieri macedoni e tessali che parteciparono alla campagna persiana indossavano un elmo beota del tipo mostrato qui sotto.
330 a.C. Alessandro incendia Persepoli e Dario viene ucciso dal satrapo Besso, a sua volta giustiziato dal re macedone, che si presenta come legittimo successore di Dario. BRID
GEMA
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LA MAESTOSA PERSEPOLI
La città fu fondata da Dario I nel 518 a.C. L’immagine mostra le rovine del Tachara, un edificio fatto erigere dal sovrano stesso e che forse aveva una funzione cerimoniale o religiosa.
BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE
AHURA MAZDA, SUPREMA DIVINITÀ PERSIANA, PROTEGGE DARIO I INTENTO A CACCIARE UN LEONE. IMPRONTA DI UN SIGILLO.
ISTOCK / GETTY IMAGES
DARIO, IL FAVORITO DEGLI DEI
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SOVRANI PERSIANI erano considerati intermediari tra gli dei e gli uomini. L’incoronazione del re dei re, Dario III, aveva una portata cosmica e doveva inaugurare una nuova era di giustizia e prosperità per l’impero. In quanto rappresentante del dio Ahura Mazda e protetto del dio Mitra, il monarca era anche la massima autorità religiosa. Perciò Dario si presentò a Isso con la certezza di essere sostenuto dalle sue divinità, come Anahita, una dea dallo spirito guerriero che proteggeva i soldati e concedeva la vittoria. Quinto Curzio Rufo offre un resoconto di grande effetto della marcia solenne del sovrano da Babilonia a Isso. Dario viaggiava sul carro di Ahura Mazda trainato da cavalli bianchi ed era accompagnato da un’immagine del sole racchiusa in un’urna di cristallo (probabilmente un’allegoria di Mitra), dal fuoco sacro simbolo della fortuna regale e da un centinaio di carri con le ricchezze del monarca. Al corteo partecipavano anche dei sacerdoti della religione persiana, i magi, che intonavano canti sacri e 365 giovani in abiti color porpora, un numero legato al carattere sacro del calendario persiano e che richiamava anche quello delle concubine reali.
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avrebbe potuto decidere di sbarazzarsi anche del loro successore, se lo avesse ritenuto troppo autonomo. La propaganda macedone e gli autori antichi presentano Dario come un usurpatore, addirittura un ex schiavo o un messaggero reale, giocando sull’ambiguità dell’epiteto persiano bandaka (schiavo reale). Il termine indicava in realtà che in precedenza era stato un importante e intimo servitore di Artaserse III o Artaserse IV.
Gli errori di Dario Era da tempo che la Grecia dichiarava a gran voce di voler liberare le città elleniche dell’Asia Minore dalla tirannia achemenide e vendicare così la sacrilega offesa subita circa un secolo e mezzo prima, quando Serse e Dario I avevano invaso l’Ellade durante le guerre persiane. A questo scopo, nel 336 a.C. Filippo II aveva già promosso una spedizione panellenica contro i persiani in quanto capo militare della Lega di Corinto, un’alleanza di stati greci. Il re macedone però fu assassinato quello stesso anno e il comando dell’epica
missione passò al figlio Alessandro Magno. Il suo precettore, Aristotele, gli aveva raccomandato di trattare i greci come un padre e i barbari come un padrone. Il principe aveva vent’anni e Dario vide nella sua giovane età un segno che la campagna macedone non sarebbe durata a lungo. Anche altre città greche pensarono ingenuamente che il nuovo monarca non fosse abbastanza maturo per sapersi imporre. Ma Alessandro le smentì subito radendo al suolo Tebe – risparmiò solo la casa del poeta Pindaro – colpevole di essersi schierata con l’impero achemenide nella Seconda guerra persiana e di aver invocato l’aiuto del gran re per liberare la Grecia dal giogo macedone. In quel modo aveva chiarito a tutti le sue intenzioni: era un avvertimento rivolto sia ai greci, della cui lealtà non si era mai fidato, sia a Dario. Dopo aver stabilizzato la sua retroguardia in Europa, nella primavera del 334 a.C. Alessandro partì al comando di circa 30mila fanti e 1.800 cavalieri e attraversò l’Ellesponto.
LE INESAURIBILI RICCHEZZE PERSIANE L’ardore guerriero degli invasori era stimolato anche dalle grandi aspettative in merito al bottino. Nel 336 a.C. i palazzi persiani custodivano circa 235mila talenti (6.110 tonnellate) di oro e di argento. Sotto, rhyton achemenide in oro.
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A maggio raggiunse il fiume Granico e diede prova di quella che sarebbe stata una delle sue principali virtù militari: il fattore sorpresa. Gli eserciti multietnici achemenidi, composti da migliaia di soldati provenienti dai quattro angoli di un impero che andava dall’India al Mediterraneo, avevano bisogno di molto tempo per riunirsi sul campo di battaglia. Alessandro sfruttò la loro lentezza per far sbarcare le sue truppe prima che il fronte nemico potesse organizzarsi. Dario avrebbe pagato a caro prezzo questo scarso dinamismo. Resta un mistero il motivo per cui i persiani non inviarono la flotta per impedire ai macedoni di attraversare l’Ellesponto: forse perché le loro navi erano impegnate a reprimere una sedizione nella satrapia d’Egitto. Un comandante dei mercenari greci al soldo del gran re, Memnone di Rodi, consigliò ai capi persiani di mettere in atto la strategia della terra bruciata per evitare il confronto diretto con i macedoni e ostacolarne gli approvvigionamenti. Alcuni sostengono che Arsite, satrapo della Frigia STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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IN GUERRA CON LA FAMIGLIA
LA FAMIGLIA DI DARIO AI PIEDI DI ALESSANDRO MAGNO DOPO LA VITTORIA DEL RE MACEDONE A ISSO NEL 333 A.C. OLIO DI ELIAS VAN NIJMEGEN (1667-1755).
I
RE ACHEMENIDI si facevano accompagnare da un ampio entourage anche in battaglia, un’usanza che risultava stravagante agli occhi degli autori classici. Si trattava di una reminiscenza del passato nomade dei persiani: la corte, con le sue tende e i suoi tesori, era itinerante e seguiva il sovrano per tutto l’impero. Inoltre le famiglie dell’aristocrazia erano praticamente tenute in ostaggio per prevenire ogni tentazione di usurpare il potere del gran re quando questi non si trovava in una capitale del regno. Dario III si recò a Isso con la madre, Sisigambi, la moglie e sorella Statira, il figlio Ochus e le figlie Statira e Dripetide. Dopo la fuga del re, i familiari furono fatti prigionieri dai nemici, ma si tranquillizzarono quando videro che Alessandro li trattava con rispetto e conservava i loro privilegi. AKG / ALBUM
che comandava l’esercito achemenide in assenza di Dario, si fosse dichiarato contrario a quella tattica, che considerava disonorevole. In ogni caso, l’ordine di scontrarsi con i macedoni venne dallo stesso gran re. L’esito dello scontro designò la sconfitta persiana che, benchè non fosse definitiva, diede luogo a una situazione senza precedenti: un esercito straniero aveva invaso l’impero, conquistato la cittadella di Sardi e ora aveva davanti a sé la strada reale che portava alle capitali achemenidi di Babilonia, Susa, Ecbatana, Persepoli e Pasargade. Arsite preferì suicidarsi piuttosto che affrontare l’ira del gran re e al suo posto come comandante in capo delle regioni costiere e dell’intera flotta fu scelto Memnone. Il rodiese voleva spostare il teatro degli scontri sulle isole dell’Egeo e in Europa per costringere Alessandro a tornare sui propri passi, ma la sua astuta strategia si spense nel 333 a.C. con la sua morte. I piani di Dario si erano nuovamente vanificati e il gran re, che aveva perso il più 48 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
L’IGNOTO DESTINO DEL PRINCIPE Ochus, erede di Dario, aveva solo sei anni quando fu fatto prigioniero a Isso. Non si sa cosa ne fu di lui. Forse venne ucciso alla morte di Alessandro. Testa di principe achemenide. DAGLI ORTI / AURIMAGES
capace dei suoi generali, dovette prendere la situazione in pugno. Purtroppo però ancora una volta commise l’errore di sottovalutare il talento del giovane condottiero avversario.
Una sconfitta umiliante La battaglia di Isso si svolse nel novembre del 333 a.C. in una zona costiera dell’Anatolia meridionale. Fu lo stesso Dario a scegliere quel campo di battaglia ritenendo che l’enorme esercito achemenide avrebbe potuto muoversi senza difficoltà. Il re aveva inoltre bisogno di un nuovo comandante che guidasse le sue truppe in battaglia e decise di nominare il generale ateniese Caridemo, un altro mercenario greco. La sua scelta però suscitò l’invidia dei nobili persiani, che lo accusarono di voler consegnare l’impero ai macedoni. L’ateniese ribatté criticando la loro mancanza di coraggio; Dario andò su tutte le furie e lo fece giustiziare.
LOREMU IVIS ERICH LESSING / ALBUM
Il monarca assunse personalmente il comando delle operazioni per salvare il suo regno, ma si rese conto tardi che la piana di Isso era troppo stretta per dispiegare tutto il suo esercito (circa 90mila uomini, 30mila dei quali erano mercenari greci), in particolare la cavalleria e i carri falcati (ovvero muniti di lame sulle ruote). Sopraffatto dall’esercito macedone, Dario non ebbe altra opzione che la fuga. Lasciò ai suoi soldati e alla sua famiglia le insegne del potere: la tenda reale, il mantello, l’arco, le frecce e il carro. Il suo comportamento sarebbe stato ripreso da artisti e scrittori di ogni epoca come modello di condotta inappropriata e poco coraggiosa. Mentre Alessandro si batteva corpo a corpo al fianco dei suoi uomini, Dario si ritirava scoraggiato, compromettendo così la sua reputazione e minando il morale dei soldati. Agli occhi dei sudditi del regno persiano questa nuova sconfitta appariva probabilmente come un segno del fatto che il gran re aveva perso il favore di Ahura Mazda o di Mitra, gli dei che lo assistevano in quanto signore
della guerra. La situazione era allarmante: il sovrano era l’intermediario tra il popolo e le divinità e l’accaduto era di cattivo auspicio per il futuro dell’impero. Alessandro approfittò dell’effetto galvanizzante di quella nuova vittoria per conquistare la Fenicia e l’Egitto, concedendo a Dario – deciso a rifarsi – il tempo di radunare un nuovo esercito proveniente dagli altopiani iranici e dall’Asia centrale. Nel frattempo il gran re svolse un’intensa attività diplomatica per negoziare un armistizio e convincere Alessandro a liberare la sua famiglia, catturata a Isso. Secondo alcune fonti dell’epoca arrivò a offrire al suo avversario i territori compresi tra l’Eufrate e il Mediterraneo, ingenti ricchezze e la mano di sua figlia Statira per siglare l’accordo. Si trattava probabilmente di propaganda macedone, perché il re persiano non era disposto a rinunciare a una porzione così importante del suo regno e non dava ancora per persa la guerra. Ma Alessandro ormai non si accontentava più di una parte dell’impero: voleva conquistare tutta l’Asia.
IL MOSAICO DI ISSO
Trovato nella casa del Fauno di Pompei, ricostruisce il momento in cui Alessandro (a sinistra) si lancia alla carica contro Dario. Ispirato a una pittura ellenistica del IV secolo a.C.
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AKG / ALBUM
ALESSANDRO DAVANTI AL CADAVERE DI DARIO. PITTURA A OLIO DI ISAAK FISCHES IL VECCHIO. 1705 CIRCA. GERMANISCHES NATIONALMUSEUM, NORIMBERGA.
ALAMY / ACI
I RESTI DELL’ULTIMO RE ACHEMENIDE
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ARIO FU UCCISO dai nobili persiani Satibarzane e Bar-
saente, che agirono su istigazione di un membro della famiglia reale, Besso. L’episodio avvenne nel luglio del 330 a.C. nei pressi di Ecatompilo, una città della satrapia della Partia a circa 350 chilometri dall’attuale Teheran. Un soldato macedone, Polistrato, trovò il re morente su un modesto carro e gli offrì dell’acqua. Secondo altre fonti Alessandro riuscì a vedere Dario vivo e questi, con il suo ultimo respiro, gli chiese di vendicare la sua morte. Diventato l’erede del gran re, il conquistatore macedone coprì il cadavere con il proprio mantello e ordinò che fosse trasportato a Persepoli per essere sepolto nella necropoli di Naqsh-e Rostam. Lì, poco più di mezzo chilometro a sud di Persepoli – la capitale dove i re celebravano la festa dell’anno nuovo – c’è una tomba scavata nella roccia, incompiuta e vuota. Ma non tutti concordano con questa versione: secondo Plutarco, Alessandro fece accompagnare il corpo di Dario a Susa dalla madre Sisigambi. Questo potrebbe indicare che il macedone preferiva un funerale privato per evitare che la tomba di Persepoli diventasse un luogo di commemorazione dell’ultimo achemenide.
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Dario si trovava di fronte a un dilemma sconfortante: se si fosse asserragliato a Babilonia e fosse stato sconfitto, con la città sarebbe caduto anche l’impero. Se provava a resistere su un altro fronte, rischiava di lasciare l’esercito macedone libero d’impadronirsi delle ricchezze delle capitali.
Una decisione drammatica Dario scelse di affrontare Alessandro a Gaugamela, nei pressi dell’attuale città irachena di Mosul. Lì concentrò un enorme esercito composto da circa 250mila soldati reclutati nelle satrapie della Persia orientale e nella Battria (odierno nord dell’Afghanistan). Ma la fortuna ancora una volta gli voltò le spalle costringendolo a una nuova e ignominiosa fuga, mentre Alessandro entrava a Babilonia e pochi mesi dopo, nel maggio del 330 a.C., incendiava i palazzi di Persepoli, la città che era il centro del culto di Ahura Mazda e la sede delle tombe reali. Accompagnato dai suoi uomini di fiducia, tra cui circa quattromila mercenari greci, Dario
marciò verso nord-ovest con l’intenzione di reclutare un nuovo esercito. Si trovava però in una posizione politica molto debole: non solo aveva perso una parte dell’impero, ma la vista di Persepoli in fiamme aveva sconvolto i persiani e distrutto ogni loro residua speranza. Gli dei li avevano abbandonati. Le capitali dell’impero caddero una dopo l’altra e le satrapie passarono in mano all’invasore. Ma Alessandro voleva catturare Dario vivo affinché fosse lo stesso re sconfitto a dichiararlo suo erede e si lanciò in un frenetico inseguimento. Fu allora che un uomo di fiducia e parente del gran re, un satrapo della Battria di nome Besso, fece arrestare Dario, inizialmente con l’idea di consegnarlo ad Alessandro; poi invece diede ordine di ucciderlo. Era il luglio del 330 a.C. Besso, che forse poteva vantare gli stessi diritti dinastici di Dario per salire al trono, si fece incoronare con il nome di Artaserse V, ma il suo regno fu effimero. Alessandro lo catturò nel 329 a.C. e lo sottopose al trattamento che i persiani riservavano ai traditori: gli furono
tagliati naso e orecchie e venne giustiziato. Era un messaggio inequivocabile su chi fosse il nuovo gran re. Dario, vinto tre volte, era fuggito in due occasioni per riorganizzare la resistenza, ma finì per abbattere il morale dei suoi sudditi. Sicuramente però le fonti classiche non sono obiettive nei confronti del monarca sconfitto, offrendone un ritratto condito di stereotipi come l’arroganza, la codardia e il cliché della mollezza dei despoti orientali. Gli storici antichi tendevano a presentare i protagonisti della storia come degli esempi di vizi o virtù, trionfo o fallimento, e in questo resoconto moralizzante Dario non poteva che svolgere il ruolo del perdente. Vae victis!
LE TOMBE DEI RE
A circa 12 km da Persepoli, Naqsh-e Rostam ospita le tombe dei sovrani achemenidi scavate nella roccia. Una di queste è incompiuta: probabilmente quella di Dario III.
MANEL GARCÍA SÁNCHEZ UNIVERSITÀ DI BARCELLONA. AUTORE DI EL GRAN REY DE PERSIA
Per saperne di più
SAGGI
La Persia antica Josef Wiesehöfer. Il Mulino, Bologna, 2003. La più grande battaglia di Alessandro Magno Raffaele D’Amato. Newton Compton, Roma, 2012.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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NELLA SALA DEL GRAN RE
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QUANDO ALESSANDRO arrivò a Persepoli entrò
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nell’Apadana, la costruzione più imponente della capitale religiosa persiana. Costituita da un’unica sala dedicata alle udienze, era stata fatta erigere da Dario I, che aveva fondato la città quasi 200 anni prima. Aveva 36 colonne, misurava 3.600 m2 e poteva ospitare fino a 10mila persone. Vi si svolgevano le celebrazioni per l’anno nuovo e i ricevimenti al cospetto del sovrano. 2 L’insieme formato
era probabilmente sostenuto da travi elaborate con diverse varietà di legno – ebano, cipresso, cedro libanese o teak – e rivestite di oro, avorio e altri metalli preziosi.
dalla protome (in questo caso, un toro), dal fusto di volute e dal capitello policromo con sepali o calici di fiori poteva raggiungere gli otto metri di altezza.
3 Il fusto scanalato o
4 Le pareti della sala
striato del diametro di 1,6 metri completava, insieme alla parte superiore e alla base, l’altezza totale delle colonne che raggiungevano i 20 metri circa.
erano probabilmente decorate con una maestosa sfinge alata realizzata con la tecnica del rilievo su piastrelle simile a quella trovata nel palazzo di Susa.
5 Due monumentali
6 Durante le
porte in legno di cedro, alte circa 15 metri e decorate con lamine e fasce d’oro, davano accesso all’interno dell’imponente sala dell’Apadana.
udienze il gran re si accomodava sul trono circondato da tendaggi e arazzi, mentre visitatori e sudditi in processione gli si avvicinavano per rendergli omaggio.
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ILLUSTRAZIONE 3D: RISE STUDIO
1 Il tetto dell’Apadana
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LE DONNE DI ISSO, IL BOTTINO Nel 333 a.C. il re macedone catturò l’intera famiglia di Dario III. La sorte
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SISIGAMBI, MADRE DI DARIO III E DEL SUO VINCITORE
Alessandro trattò sempre Sisigambi con enorme rispetto e la considerò come una seconda madre. Stando ad alcune leggende fu lei stessa a occuparsi del funerale del figlio Dario a Susa. Pregò anche Alessandro di non punire con durezza la ribellione degli uxiani, esercitando così la prerogativa della madre del re che le permetteva di intercedere in favore di un condannato presso il sovrano. Dopo la scomparsa di Alessandro, Sisigambi si vestì a lutto e si lasciò morire di fame.
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LA MISTERIOSA FINE DI STATIRA, MOGLIE DEL GRAN RE
La regina Statira, sorella e moglie di Dario III, era considerata la donna più bella di tutta l’Asia. Le fonti classiche insistono sulla considerazione con cui Alessandro trattò le prigioniere regali di Isso, ma Statira morì a causa di complicazioni post-parto quando Alessandro marciava verso Gaugamela per scontrarsi con Dario. Erano passati quasi due anni da quando era stata catturata a Isso ed è quindi possibile che la donna fosse incinta del re macedone.
ALESSANDRO E LA FAMIGLIA DI DARIO, DI GIOVANNI ANTONIO BAZZI DETTO IL SODOMA. 1511-1518 CIRCA. SALA DELLE NOZZE DI VILLA FARNESINA, ROMA. 54 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
DI GUERRA DI ALESSANDRO della madre, della moglie e delle due figlie del gran re era nelle sue mani
STATIRA E DRIPETIDE, L’INFAUSTO DESTINO DELLE PRINCIPESSE PERSIANE
Dario III aveva due figlie: la maggiore si chiamava Statira (o Barsine), la minore Dripetide. Alessandro le mandò a Susa a imparare il greco, e lì rimasero fino al ritorno del re dalla spedizione in India, nel 324 a.C. Nel febbraio dello stesso anno si sposarono rispettivamente con Alessandro ed Efestione durante i matrimoni di Susa, quando un’ottantina di generali macedoni prese in moglie delle donne dell’aristocrazia persiana. Dripetide rimase vedova quello stesso
autunno, alla morte di Efestione, e Statira poco più tardi, nel giugno del 323 a.C. Entrambe furono assassinate da Rossane, una nobile battriana andata anch’essa in moglie ad Alessandro e incinta di lui, che poté giovarsi della collaborazione del nuovo reggente dell’impero, Perdicca. Plutarco racconta che Rossane, «gelosa di Statira, la ingannò facendola venire a sé con una lettera falsa e la uccise insieme alla sorella: buttò poi i cadaveri in un pozzo, che riempì di terra». AKG / ALBUM
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MINOTAURO I L M OS T RO DEL L A B I R I N TO La lotta tra Teseo e il Minotauro rappresenta l’eterno conflitto tra il bene e il male. Lo scontro tra l’eroe e il terribile mostro, un essere metà uomo e metà toro, ha avuto un tale successo da giungere fino ai nostri giorni
LA SOLITUDINE DEL MOSTRO
In quest’olio di George Frederic Watts il Minotauro diviene il simbolo della rapace lussuria e dell’avidità nella civiltà moderna, come ebbe a dire lo stesso pittore. 1885. Tate Modern, Londra. Nella pagina precedente, moneta con la rappresentazione del labirinto. V secolo a.C. Museo nazionale romano, Roma. PITTURA: ALBUM. MONETA: BRIDGEMAN / ACI
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eseo avanza nei meandri del labirinto. In una mano regge l’arma, nell’altra il filo donatogli da Arianna. Nelle tenebre intravede una sagoma sinistra, una testa di toro sul corpo di un uomo: il Minotauro. Si avventa impavido contro di lui e lo uccide, poi libera gli altri tredici giovani destinati alle fauci del mostro. Tutti insieme corrono verso l’uscita dove li attende Arianna – figlia del re cretese Minosse
La nascita del Minotauro Il mito racconta che tutto ebbe origine da un’offesa arrecata al dio del mare Poseidone da Minosse, sovrano dell’isola di Creta crocevia di culture e popoli nonchè ricca potenza marittima che dominò il Mediterraneo sino all’arrivo dei continentali micenei. Il re cretese aveva origini divine in quanto figlio di Zeus e
della principessa fenicia Europa. Una volta giunta sull’isola sul dorso di Zeus tramutatosi in toro, Europa sposò Asterio (o Asterione), il re locale che adottò Minosse e gli altri figli avuti dal dio. Alla morte del padre, Minosse rivendicò il trono e come prova della legittimità della richiesta domandò a Poseidone d’inviargli dalle acque un toro che avrebbe immolato in suo onore. Il dio mandò allora uno splendido toro candido, ma quando giunse il momento del sacrificio, ammaliato dalla bellezza dell’animale, Minosse lo risparmiò. Secondo alcune versioni del mito, decise di utilizzarlo come toro da monta per le sue mandrie. Tuttavia, non appena scoprì l’inganno Poseidone decise di vendicarsi e fece innamorare del toro la sposa di Minosse, Pasifae che, desiderosa di assecondare le sue passioni, implorò l’aiuto dell’architetto ateniese Dedalo. Questi le costruì una vacca di legno dentro la quale la regina attese la monta dell’animale. «Così ella diede alla luce Asterio, che fu chiamato Minotauro: aveva il muso di toro, mentre per il resto era umano», narra Apollodoro, uno scrittore del II secolo d.C. Orripilato, Minosse rinchiuse il figliastro nell’invenzione che Dedalo aveva costruito per l’occasione, il
Secondo Apollodoro, il Minotauro «aveva il muso di toro, mentre per il resto era umano» RHYTON IN STEATITE A FORMA DI TESTA TAURINA, USATO PER BERE OPPURE OFFRIRE LIBAGIONI. ARCHAIOLOGIKO MOUSEIO I RAKLION, CRETA. AKG / ALBUM
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nonché sorellastra del Minotauro. Una volta liberi distruggono la flotta nemica e issano le vele alla volta di Atene. Ha così fine una delle più straordinarie avventure dell’ateniese Teseo, eroe fondatore della città e protagonista di una numerosa serie di miti e leggende. La lotta con il Minotauro ne costituisce uno dei nuclei più arcaici e celebri, immortalato da poeti, romanzieri, pittori e scultori di ogni epoca. In molti cederanno al fascino della creatura metà uomo e metà toro e all’incanto della complessa costruzione di Dedalo, il labirinto. Ma chi è davvero il Minotauro? E cosa si nasconde dietro lo scontro tra il mostro cretese e l’eroe greco?
UN PIANO ASTUTO
L’affresco rinvenuto nella casa dei Vettii, a Pompei, raffigura Dedalo mentre mostra alla regina Pasifae la vacca in legno grazie alla quale potrà unirsi al bel toro di Poseidone, oggetto del suo desiderio.
volontario per partire. Dopo aver consegnato per anni i figli e le figlie degli ateniesi a Minosse, Egeo non poteva certo rifiutarsi di assecondare la volontà del suo erede, che si diresse a Creta insieme alle altre vittime. Ma, appena sbarcato, Teseo s’invaghì di Arianna, che ricambiava il suo sentimento e che, assieme a Dedalo, escogitò un modo per salvarlo. Lei sarebbe rimasta fuori dal labirinto reggendo un’estremità del filo di un gomitolo, mentre l’eroe sarebbe entrato svolgendo la matassa man mano che avanzava. Dopo aver ucciso il Minotauro, Teseo salvò gli altri ateniesi e, grazie allo stratagemma della principessa riuscì a tornare fuori dal dedalo. In compagnia di Arianna l’eroe poté finalmente issare le vele alla volta di Atene. Eppure, durante il viaggio, abbandonò la principessa sull’isola di Nasso: forse era soprappensiero, oppure fu costretto dai venti avversi o magari era innamorato della sorella di lei, Fedra, che ad Atene lo avrebbe tradito con il figliastro Ippolito.
ARIANNA CONSEGNA ALL’AMATO TESEO IL GOMITOLO CHE GLI CONSENTIRÀ DI TROVARE L’USCITA DEL LABIRINTO. PELAGIO PALAGI. XIX SECOLO. MUSEO D’ARTE MODERNA DI BOLOGNA.
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labirinto. Ma sebbene non sopportasse la vista del mostro, il re non esitò a ricorrere a lui per sottomettere il villaggio di Atene, governato da Egeo. Gli ateniesi si erano infatti macchiati di una terribile colpa: aver ucciso uno dei figli di Minosse, Androgeo. Il sovrano cretese impose a Egeo il pagamento di un tributo: ogni nove anni sette fanciulle e sette giovani sarebbero stati sacrificati al sanguinario mostro. I giovani ateniesi vivevano nel terrore. Ma allo scadere dei nove anni Teseo, figlio di Egeo – o secondo una variante del mito figlio dello stesso Poseidone – si offrì IL MINOTAURO. COPIA ROMANA DI UNA SCULTURA DELL’ACROPOLI ATTRIBUITA A MIRONE. ETHNIKO ARCHAIOLOGIKO MOUSEIO, ATENE.
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Ogni autore racconta una versione diversa dell’incontro tra Teseo, Arianna e il Minotauro ma, si sa, il mito greco è solo una sorta di canovaccio, una trama che cambia in base alle letture degli artisti o alle rielaborazioni dei popoli. Alla struttura iniziale si sovrappongono varianti e ramificazioni e con il passare dei secoli si trasforma fino al punto che è difficile ricostruirne il nucleo originario. Quel che è certo è che sin dai tempi antichi si tramandano testimonianze della lotta tra il Minotauro e Teseo: su un’anfora proveniente da Tinos, nelle Cicladi, risalente al 670-660 a.C., figura la prova più antica dello scontro tra il mostro e l’eroe, anche se qui il Minotauro è un essere dal corpo taurino e la testa umana. E un frammento di Saffo, ricorda il classicista Giorgio Ieranò, attesta la conoscenza del tributo di sangue richiesto agli ateniesi da Minosse. Da questi e da altri dati gli studiosi hanno dedotto che il mito era già popolare nel VII secolo a.C., ma alcuni suoi personaggi come Arianna e il Minotauro risalgono a epoche ben più remote. Sembra che in antichissime raffigurazioni la creatura compaia in un labirinto con il ginocchio piegato e una
MEINRAD RIEDO / AGE FOTOSTOCK
Un mito dalle molte varianti
TORI A CNOSSO
All’ingresso settentrionale del palazzo di Cnosso è visibile un affresco restaurato che rappresenta un toro rosso dalle grandi corna colto nel momento in cui si lancia alla carica.
MOSAICO DEL LABIRINTO
Rinvenuto nella villa romana di Loigersfelder, vicino a Salisburgo (Austria), mette in scena il mito di Teseo e la sua lotta con il Minotauro nel labirinto. Kunsthistorisches Museum, Vienna. ALBUM
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I cretesi e il salto sul toro
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LI SCAVI dell’inglese sir Arthur Evans a Creta permisero di portare alla luce molti tesori del palazzo di Cnosso. Tra questi vi erano gioielli, vasi e affreschi che forniscono preziose informazioni su quella civiltà raffinata e sfarzosa amante del mare, del vino, dei giochi e delle attività sportive. Non solo: al pari di altri popoli i cretesi attribuivano un particolare valore al toro. Tutti questi elementi si fondono nella taurocatapsia, un esercizio acrobatico che culminava in un salto mortale sulla groppa dell’animale. Ne è prova un mirabile affresco della sala del trono a Cnosso.
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stella. La posizione e l’astro, da cui il nome Asterio, ne suggerirebbero la natura divina, legata a Helios – il Sole –, padre di Pasifae. E anche Arianna sarebbe in origine una dea. Il Minotauro e la sorellastra quindi provenivano dalla millenaria cultura cretese. Con il tempo però entrarono invece a far parte del mito greco che esaltava piuttosto la figura di Teseo. La vittoria sul Minotauro diventò una delle molte imprese con cui veniva celebrato l’eroe ateniese, e assieme a lui il piccolo villaggio dell’Attica le cui genti aveva unificato, come narra Plutarco in una biografia del fondatore di Atene contenuta nelle Vite parallele. LABRYS IN ORO. ALCUNI IDENTIFICANO CON IL TERMINE L’ORIGINE DELLA PAROLA LABIRINTO. ARCHAIOLOGIKO MOUSEIO I RAKLION. ERICH LESSING / ALBUM
Dalla metà del VI secolo a.C. la figura del figlio di Egeo acquistò sempre più rilevanza e la sua leggenda si arricchì di altre incredibili avventure. Eppure la lotta contro il Minotauro – la vittoria sul «bieco mostro» come lo apostrofò il poeta Catullo –, continuò a essere l’episodio fondamentale nella vita dell’eroe, perché simboleggiava anche la sconfitta di Creta e l’irruzione di Atene nel controllo sul Mediterraneo.
Viaggio nella morte Del labirinto cretese non sono state rinvenute tracce. Si pensò che potesse trovarsi nella reggia di Cnosso o che indicasse il palazzo stesso e le sue numerose stanze. Non è quindi strano che lo scopritore della dimora di Minosse – l’archeologo britannico Arthur Evans – desse il nome di “minoica” alla cultura che l’aveva eretto. Del labirinto in realtà è importante il ruolo simbolico: con i suoi meandri rappresenta le viscere della terra e la morte stessa. Al pari di ogni eroe Teseo deve affrontarla in un viaggio iniziatico in cui si scontrerà anche con un nemico possente e aggressivo quanto un toro, il Minotauro. Affreschi e statuette rinvenuti a Cnosso e databili al periodo neopalaziale – tra il 1700 e il 1400 a.C. – raffigurano degli acrobati che saltano sui tori: è il gioco della taurocatapsia (letteralmente salto del toro) che veniva forse praticata in occasione di cerimonie e sacrifici. Simbolo di fertilità in molte religioni, il toro era l’animale sacro dei minoici e veniva ucciso ritualmente con l’ascia bipenne, o labrys, che è all’origine di una delle etimologie del labirinto, ovvero “palazzo dell’ascia bipenne”. Il mostro non poteva perciò avere sembianze diverse. Del resto anche Zeus si tramutò in un toro per rapire Europa. Teseo emerse dal labirinto da eroe e salpò alla volta di Atene. Prima della sua partenza aveva stabilito una sorta di codice assieme al padre Egeo: se la nave che tornava in patria avesse issato vele bianche, significava che a bordo si trovava l’eroe vittorioso; se fossero rimaste nere come lo erano al momento della partenza, ne avrebbero invece indicato la morte. Ma il giovane dimenticò di cambiarle e quando Egeo scorse un punto nero all’orizzonte si gettò nel mare che ne avrebbe preso il nome. Così il principe divenne re.
LA SCONFITTA DEL MOSTRO
Quest’anfora attica del VI secolo a.C. ritrae gli ultimi istanti della lotta tra Teseo e il Minotauro. La bestia soccombe sotto gli occhi dei giovani liberati dall’eroe. British Museum, Londra. BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE
Il triste destino di Arianna
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a Minosse e, ricorda Plutarco, il militare Cimone si mise persino alla ricerca delle ossa del paladino ateniese.
OME LA MEDEA di Giasone, Arianna rappresenta la
principessa che tradisce il proprio popolo e la propria famiglia perché innamorata dell’eroe straniero. Le sue origini sono misteriose: sembra che possa essere riconosciuta in una dea della vegetazione o nella “signora del labirinto” citata su una tavoletta in lineare B rinvenuta a Cnosso. Eppure è la sorte umana di Arianna ad affascinare. Con il filo guida fuori dal labirinto Teseo che, ingrato, l’abbandona a Nasso nel viaggio di ritorno. A seconda delle varianti, la sconsolata principessa va incontro alla morte o si unisce al dio Dioniso. LA PRINCIPESSA CRETESE ARIANNA ABBANDONATA SULL’ISOLA DI NASSO. OLIO DI EVELYN DE MORGAN, 1877. DE MORGAN COLLECTION.
BRIDGEMAN / ACI
IL RITORNO A CASA
Esultanti e festosi, i giovani ateniesi liberati da Teseo sbarcano a Delo. Scena del vaso François. VI secolo a.C. Museo archeologico nazionale, Firenze. SCALA, FIRENZE
Il suo mito legittimava la storia: uccidendo il Minotauro e annientando Minosse, l’eroe poneva fine alla civiltà minoica che aveva dominato i mari. Durante l’età classica i vari politici che resero Atene una potenza non mancarono di omaggiare il vincitore del Minotauro. Così fecero il tiranno Pisistrato e i suoi figli; e anche quando Atene tornò alla democrazia non rinunciò al suo mito. Per esempio Pericle, il promotore degli imponenti edifici sull’Acropoli tra cui il Partenone, portò avanti un’aggressiva politica dei mari che lo contrapponeva idealmente
Le lezioni del mito Teseo è descritto come un sovrano assennato e democratico anche a teatro, nelle opere di Sofocle ed Euripide, dove non manca neppure il Minotauro: sembra che nelle Cretesi, tragedia di cui si conservano solo frammenti, Euripide avesse messo in scena la «folle malattia» di Pasifae per il toro. Gli ideali democratici ateniesi che sarebbero rimasti impressi nella storia occidentale s’incarnarono in quel re che aveva sconfitto l’ingiusta barbarie di Creta, tanto che nelle Supplici di Euripide è Teseo stesso ad affermare: «Compiendo tante belle gesta ho mostrato ai Greci / che è mia consuetudine castigare i malvagi». E quale creatura appariva più malvagia di un mostro taurino assetato di sangue? Il mito cretese è sempre rimasto vivo nell’immaginario occidentale, anche se ogni epoca si è identificata con un protagonista diverso. Se dunque l’Atene classica prediligeva Teseo, la Roma di Ovidio e Catullo cantava piuttosto il dolore di Arianna abbandonata. Nel Medioevo cristiano il labirinto diventò il simbolo del peccato e dell’errare dell’anima o dell’inferno stesso, mentre il Minotauro assunse i contorni del diavolo. Nel Rinascimento Lorenzo de’ Medici celebrò il trionfo di Arianna e Bacco (Dioniso), innamoratosi della giovane a Nasso e pittori del calibro di Tiziano scelsero di trattare tale tema. Bisognerà attendere il XIX secolo perché il Minotauro venga finalmente compreso e riabilitato, per divenire ora l’emblema dei piaceri terreni, ora un mostro sofferente e ingenuo, ora il capro espiatorio dei due ambiziosi e spietati monarchi, Minosse e Teseo. Ma questo è un altro mito. AMARANTA SBARDELLA SCRITTRICE E TRADUTTRICE
Per saperne di più
SAGGI
Nel labirinto Károly Kerényi. Bollati Boringhieri, Torino, 2016. Il mostro e la fanciulla Amaranta Sbardella. Quodlibet, Macerata, 2017. Arianna Giorgio Ieranò. Carocci, Roma, 2010.
GRATITUDINE PER L’EROE
In quest’affresco pompeiano uno dei giovani ateniesi liberati mostra la propria gratitudine a Teseo, al centro dell’immagine. Il Minotauro giace morto in un angolo. Museo archeologico nazionale, Napoli. WHITE IMAGES / SCALA, FIRENZE
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IL MINOTAURO, UN’EPOPEA MEDIEVALE Durante il Medioevo il labirinto si prestò a un’interpretazione cristiana e diventò il complesso percorso che l’uomo deve affrontare pur di salvarsi. Compare in diverse cattedrali, tra cui quelle di Chartres o Amiens. Il Minotauro viene invece associato al male e la sua lotta con Teseo ritorna in numerose opere come ad esempio un cassone decorato dal Maestro dei Cassoni Campana. TESEO E IL MINOTAURO. MAESTRO DEI CASSONI CAMPANA. INIZI DEL XVI SECOLO. MUSÉE DU PETIT PALAIS, AVIGNONE.
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1 Il Minotauro, qui rappresentato come un essere con testa umana e corpo taurino, attacca e uccide i cretesi.
4 L’eroe incontra la
principessa Arianna che s’innamora di lui e la sorella minore Fedra.
7 Arianna regge un’estremità del filo e, insieme alla sorella Fedra, attende mentre Teseo uccide il Minotauro.
2 Un gruppo di uomini armati riesce a catturare il mostro con l’aiuto di Poseidone e lo rinchiude nel labirinto.
5 Arianna consegna a Teseo un gomitolo di filo perché possa uscire dal labirinto dopo aver ucciso il mostro.
8 Un Teseo trionfante muove verso il porto per imbarcarsi alla volta di Atene assieme alle due principesse cretesi.
3 Teseo sbarca a Creta per salvare i suoi conterranei. La nave trasporta sette scudi che rappresentano i Medici.
6 L’ateniese, che indossa un’armatura medievale, si dirige verso il labirinto per lottare contro il Minotauro.
9 Il vascello prende il largo per tornare in patria ma l’eroe lascia per sbaglio la vela nera, che annuncia la sua morte.
IL PIÙ GRANDE SPETTACOLO DELL’ANTICHITÀ
IL CIRCO Nell’impero romano le avvincenti corse dei carri appassionavano 70 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
LA CORSA DEI CARRI
Così Alexander von Wagner intitolò questa dinamica ricostruzione di una gara di quadrighe nel Circo Massimo. Olio su tela. 1882 circa. Manchester Art Gallery. BRIDGEMAN / ACI
ROMANO il pubblico ancor più delle lotte tra i gladiatori
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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C R O N O LO G I A
Mille anni di Circo Massimo 616-579 a.C.
Sotto Tarquinio Prisco si costruisce il recinto iniziale del Circo Massimo e hanno luogo i primi ludi romani, che includono le corse di carri.
194 a.C.
Per la prima volta il pubblico inizia a disporsi sugli spalti in base al rango sociale. Il circo è già diventato uno spettacolo di massa.
52 a.C.
Cicerone, in qualità di console in carica, condanna la pratica fraudolenta di strumentalizzare gli spettacoli per fini politici.
31 a.C.
Augusto restaura il Circo Massimo danneggiato da un incendio e sfrutta come nessun altro i giochi per trarne vantaggi politici.
60 d.C.
Dopo aver partecipato ai giochi olimpici in Grecia Nerone diventa il primo e unico imperatore a gareggiare nel Circo Massimo.
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L’ANTICO IPPODROMO
A Istanbul, prima Costantinopoli, l’odierna piazza Sultanahmet si estende sul luogo dove sorgeva l’ippodromo romano. BRIDGEMAN / ACI
Un crollo delle tribune avvenuto ai tempi dell’imperatore Diocleziano provoca all’incirca 13mila morti.
455 d.C.
Nonostante il recente saccheggio di Roma da parte dei vandali il popolo chiede più corse, con grande sgomento di papa Leone I.
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LOREM IPSUM
300 d.C.
TEODOSIO II E VALENTINIANO III REGGONO IL FAZZOLETTO CHE DÀ IL VIA ALLE CORSE.
ll’inizio del V secolo Giovanni Crisostomo prese la parola dall’altare della basilica di Santa Sofia, a Costantinopoli. Aveva un’aria cupa e un tono di voce collerico. Nelle settimane precedenti il tempo era stato pessimo e il patriarca di Costantinopoli aveva deciso di chiedere aiuto a Dio insieme ai suoi fedeli. Le preghiere si erano innalzate dal tempio per tre giorni, poi finalmente il cielo si era schiarito e la frizzante vita della capitale era tornata alla normalità. Allora Giovanni si era reso mestamente conto che molti dei fedeli approfittavano del bel tempo per andare all’ippodromo. La solitudine della sua abitazione contrastava con il clamore proveniente dalle strade dove migliaia di appassionati, i tifosi dell’epoca, cantavano e gridavano per sostenere i loro aurighi preferiti. Per suo maggior scorno, quel giorno era venerdì santo. Adirato, Crisostomo usò tutta la sua proverbiale eloquenza per rivolgere ai pre-
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IL RATTO DELLE SABINE DI PIETRO DA CORTONA. OLIO SU TELA. 1630 CIRCA. MUSEI CAPITOLINI, ROMA.
MORITZ WOLF / AGE FOTOSTOCK
L’INGANNO DI ROMOLO
senti una severa omelia che si concluse con una minaccia terribile: non avrebbe esitato a scomunicare tutti coloro che avessero frequentato ancora quel genere di spettacoli, che definì «lebbra dell’anima». Come prevedibile, il suo ultimatum non sortì alcun effetto: i suoi fedeli, come la maggior parte dei romani dell’epoca, non sapevano resistere al richiamo del circo.
Uno spettacolo di massa Le gare non erano lunghe: trascorrevano appena tra i dieci e i quindici minuti dal momento in cui veniva lasciata cadere la mappa, il panno bianco che dava il via alla corsa, fino alla consegna della palma all’auriga vincitore. Eppure suscitavano emozioni intense, creando una sorta di dipendenza. È per questo che neppure il cristianesimo poté proibirle, nonostante le connotazioni pagane. Il circo fu il più grande spettacolo dell’antichità e il primo di natura universale. Le corse dei carri erano nate in Grecia, dove avevano un carattere originariamente ari-
SICCOME NESSUNO dei popoli limitrofi voleva dare le proprie figlie in spose ai romani, Romolo, primo re di Roma, organizzò le Consualia, feste in onore di Nettuno equestre che prevedevano anche delle corse di carri. Le popolazioni vicine, tra cui intere famiglie di sabini, accorsero in massa. A quel punto i romani rapirono le giovani sabine per procurarsi delle mogli.
stocratico: solo le élite, infatti, potevano permettersi un veicolo e un cavallo. Ma ben presto persero questa connotazione classista, diventando uno spettacolo di massa così rilevante da costituire persino lo sfondo dell’antichissimo mito romano del ratto delle sabine. Il successo che riscuotevano presso il grande pubblico era controbilanciato dalle critiche feroci di alcuni intellettuali. Nel I secolo a.C. per esempio Cicerone affermava che gli uomini onesti dovevano tenersi lontani da un divertimento che era proprio di «bambini, donnacce, servitori e persone libere simili a schiavi». Trecento anni più tardi Ammiano Marcellino accusava il circo di essere un male che affliggeva tutte le classi sociali. Ma lo storico si scagliava in particolare contro la plebe, che sprecava le sue giornate tra i vizi e
L’AURIGA TRIONFANTE
Il vincitore di una corsa ha in mano un ramo di palma, simbolo della vittoria. Bronzo di 12 cm circa. Musée du Louvre, Parigi. E. LESSING / ALBUM
gli spettacoli: «Per i romani il Circo Massimo è insieme tempio e casa, luogo di riunione e realizzazione dei desideri». Sebbene questi autori considerassero le corse un’attività dannosa e capace di generare un’autentica dipendenza, per molti dei loro contemporanei le condizioni fisiche degli aurighi erano un tema più importante del futuro dello stato e una sconfitta del proprio beniamino era un evento assai più grave del peggiore scandalo di corruzione. Questo atteggiamento è ben riassunto dal panem et circenses del poeta Giovenale, morto intorno al 127 a.C., che in una delle sue celebri satire afferma: «[Il popolo] ha perso ogni interesse […] spasima solo per due cose: pane e giochi». E il potere si premurava di garantirgli entrambi.
Le ragioni di una passione Il successo delle corse si spiega per la sua particolarità: le lotte dei gladiatori (munera gladiatoria) o la caccia alle fiere (venationes) che si svolgevano 74 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
UNA VERA OSSESSIONE
L’irrefrenabile passione dei romani per le corse è evidenziata da questo gabinetto in marmo a forma di carro da corsa proveniente dalle terme di Caracalla. III secolo d.C. British Museum, Londra. BRITISH MUSEM / SCALA, FIRENZE
nell’anfiteatro suscitavano ammirazione per l’abilità e la forza dei contendenti, ma erano intrattenimenti fini a sé stessi. Non avevano un seguito. Altri giochi, come quelli con la palla – che si praticavano con una vescica di maiale gonfiata e avevano regole simili al calcio e al rugby attuali – destavano un certo interesse, ma la loro importanza restava limitata. Il potere di coinvolgimento del circo non aveva uguali perché coniugava l’adrenalina delle competizioni con l’attaccamento del pubblico verso i partecipanti. Da quando le corse si erano professionalizzate a disputarsi la vittoria erano quattro fazioni: la verde, l’azzurra, la rossa e la bianca (in latino, factiones prasina, veneta, russata e alba), cui si aggiunsero per un periodo brevissimo all’epoca dell’imperatore Domiziano la porpora e la dorata. I tifosi erano molto attaccati ai colori della propria squadra ed è questo che gli rimproverava maggiormente Plinio il Giovane, un autore che odiava il circo con tutte le sue forze. Per quan-
DEA / SCALA, FIRENZE
UNA GARA NEL CIRCO MASSIMO
Rilievo datato tra il III e il IV secolo d.C. Sulla tribuna di sinistra sono visibili i magistrati che presiedono i giochi. Palazzo Trinci, Foligno.
TRA GLI AURIGHI
GRANGER / AURIMAGES
IL NOBILE GIUNIO ANNIO BASSO fu console dell’impero nel 331
to potesse accettare che si ammirassero l’abilità degli aurighi o le doti dei cavalli, non capiva la cieca devozione del pubblico nei confronti delle fazioni. Il fervore dai toni quasi religiosi portava spesso gli appassionati a rischiare la vita: come riferisce Filone di Alessandria, alcuni non sapevano resistere all’emozione e scendevano in pista per incoraggiare i loro aurighi preferiti, con il pericolo di finire investiti. Per dirla con le parole di Plinio: «È un colore che applaudono, è un colore che amano». Ma le formazioni in gara non erano tutte dello stesso livello: due erano nettamente più numerose delle altre. Per quanto i rossi e i bianchi avessero il loro pubblico, impallidivano rispetto ai verdi e agli azzurri per dimensioni e importanza sociale. Secondo le fonti dell’epoca, le squadre erano caratterizzate da alcuni elementi identitari. Pare che i tifosi dei verdi fossero i più numerosi: si consideravano i più fedeli alla propria fazione ed erano legati alle classi popolari. Gli azzurri, invece, erano i preferiti
d.C. Per commemorare questo fatto fece costruire una basilica civile sull’Esquilino. Qui si trova un mosaico che lo rappresenta in veste di organizzatore dei giochi durante la processione che apre le gare. È su una biga (un carro trainato da due cavalli), circondato dagli aurighi delle quattro fazioni: rossa, azzurra, verde e bianca.
dagli aristocratici. Si tratta però di considerazioni di carattere molto generale, perché in realtà ogni fazione aveva i suoi sostenitori di ogni classe sociale e gli stessi imperatori amavano spesso schierarsi a favore dell’una o dell’altra. Queste divisioni generavano delle rivalità sfrenate. I verdi e gli azzurri esultavano quasi più per le sconfitte degli avversari che per le proprie vittorie. L’esaltazione per le corse dominava le discussioni negli spazi pubblici, nelle riunioni sociali e persino a scuola: lo storico Tacito denunciava amaramente che il circo era ormai il principale argomento di conversazione tra insegnanti e allievi.
PANNELLO DI GIUNIO BASSO
È realizzato con la tecnica dell’opus sectile, un tipo di mosaico fatto con grandi lastre di marmo. IV secolo d.C. Museo nazionale romano, palazzo Massimo alle terme, Roma.
Il circo coniugava l’adrenalina delle corse con il tifo per le squadre partecipanti
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LA SPIANATA DEL CIRCO MASSIMO
Il Circo Massimo ha lasciato questa profonda impronta sulla superficie di Roma. A destra il Palatino, a sinistra l’Aventino. Al centro vediamo la lunga spina che divideva la pista. BAMS PHOTO / SCALA, FIRENZE
PRIMA GARA PROCESSIONE MUSICISTI EQUILIBRISTI SULLE CORDE SECONDA GARA MUSICISTI EQUILIBRISTI SULLE CORDE TERZA GARA C ACCIA DI GAZZELLE CON SEGUGIO QUARTA GARA PANTOMIMI QUINTA GARA SPETTACOLI ATLETICI SESTA GARA
Anche se le tensioni tra i tifosi erano un indice dell’autenticità dello spettacolo, c’era sempre chi superava i limiti. Qualcuno era attaccato ai colori della propria squadra come se la sua intera esistenza dipendesse dalle corse. Da ciò nasceva un’ostilità nei confronti degli avversari che poteva sfociare in autentiche aggressioni verbali e fisiche. Spesso le discussioni e le liti erano causate da qualche episodio della gara stessa. Sebbene ci fossero degli arbitri non è chiaro che funzioni avessero, a parte quella di evitare le false partenze. In una certa misura il gioco sporco era tollerato e non era raro assistere a incidenti con feriti o morti. Non mancavano neppure i casi di doping, sia fisico sia spirituale. Gli aurighi e gli spettatori ricorrevano spesso alla magia nera, come testimoniano varie defixiones, le lamine di piombo su cui venivano incise delle maledizioni dirette ai rivali. Gli stessi aurighi avevano fama di cospiratori e avvelenatori. Il furore che circondava le gare generò un fenomeno particolare: i sostenitori più fana-
EGITTO: UN GIORNO ALLE CORSE
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n ricco programma di corse, il più completo giunto fino a noi, è riassunto in un papiro rinvenuto nell’antica città di Ossirinco (P. Ox. XXXIV 2707) situata circa 160 chilometri a sud-ovest dell’attuale capitale egiziana, Il Cairo. Le attività ludiche annunciate nel documento dimostrano le dimensioni ridotte dell’evento, in linea con l’importanza secondaria che questa località aveva in epoca romana. Il programma è infatti decisamente modesto, come si addice a un centro urbano con le caratteristiche di Ossirinco: le sei corse di carri sono poche rispetto alle 24 che si tenevano di solito nei grandi circhi dell’impero. Le diverse sessioni di gara si alternavano come sempre ad altri spettacoli e manifestazioni.
tici delle fazioni verde e azzurra – quelli che animavano le gradinate – si organizzarono per affermare la loro supremazia dando vita a gruppi che non esitavano a ricorrere alla violenza per imporsi sugli avversari. Già in epoca imperiale queste bande avevano una struttura gerarchica e svolgevano attività criminali al di là dell’ambito del circo, di cui approfittavano per dedicarsi a traffici illegali di vario tipo. Era raro che questi raggruppamenti di tifosi fossero puniti: il più delle volte erano tollerati per il ruolo di spicco che svolgevano all’interno di quel mondo.
I protagonisti Alla luce di quanto detto non sorprende che tutti i personaggi coinvolti nel circo avessero una grande rilevanza sociale. In primo luogo c’erano i patrocinatori, ovvero i magistrati o l’imperatore stesso. Per il sovrano finanziare le corse rappresentava
UN SOUVENIR DI COLCHESTER
L’unico circo conosciuto della Britannia si trovava a Camulodunum (Colchester). Da qui provengono vasi di vetro e ceramica come questo, forse venduti come souvenir. I secolo d.C. British Museum, Londra. BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE
I dodici carceres dove aurighi e cavalli attendevano l’inizio della gara erano disposti su entrambi i lati della porta principale.
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IL CIRCO MASSIMO Questo grande complesso fu ricostruito verso la fine del IV secolo d.C. La pianta, che misura 600x140 m, è rimasta praticamente invariata nel corso dei secoli. Le tribune potevano ospitare un quarto della popolazione di Roma.
2 La cavea o gradinata La capacità del Circo Massimo è oggetto di discussione tra gli specialisti. Per Plinio il Vecchio poteva ospitare 250mila spettatori; secondo Dionigi di Alicarnasso, invece, 150mila.
3 La tribuna (pulvinar) Era riservata alla famiglia imperiale e ai suoi ospiti. Questa complessa struttura collegava il circo con il Palatino, dove si trovava la residenza ufficiale degli imperatori. ILLUSTRAZIONE 3D: PROGETTO KATATEXILUX
1 La spina Questo elemento divideva longitudinalmente il percorso che i corridori dovevano affrontare ed era decorato con fontane, tempietti, colonne, obelischi, statue e altari.
4 Le mete (metae) Erano costituite da tre cippi conici a ogni estremità della spina. Accanto a esse c’erano 7 uova e 7 delfini di pietra che venivano abbattuti per indicare i giri che mancavano alla fine della gara.
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Non c’erano zone separate per uomini e donne. Per questo autori come Ovidio consideravano la cavea il luogo perfetto per gli incontri amorosi.
Per sopportare le lunghe ore seduti sui gradini di pietra o legno, gli spettatori portavano o affittavano cuscini imbottiti di paglia o lana.
5 L’obelisco Nel 357 Costanzo II fece installare al centro della spina il più grande obelisco mai portato a Roma, proveniente dal tempio del dio egizio Amon a Karnak.
L’arena, che secondo alcuni studi aveva una superficie di 45mila m2, era il teatro della gara. Partecipavano alle corse fino a 12 carri alla volta, che percorrevano un massimo di 7 giri.
Nella parte centrale della curva si apriva la porta triumphalis, da cui usciva l’auriga vincitore.
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GLI EROI DEL POPOLO
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Gli aurighi si prendevano la gloria ma, come nelle odierne gare di Formula 1, potevano contare su un’intera squadra al proprio servizio. C’era per esempio l’hortator (o iubilator) che seguiva l’auriga in pista e lo incoraggiava e lo sparsor, che s’incaricava di bagnare i cavalli per rinfrescarli. 1 Eros, vincitore in Africa Un mosaico di Thugga (l’attuale Dougga) celebra la vittoria dell’auriga e dei suoi cavalli. Vi sono riportati i nomi di due destrieri. IV secolo d.C. Museo nazionale del Bardo, Tunisi. 2 Il trionfo degli azzurri L’auriga ha in mano la palma della vittoria; al suo fianco si trova l’hortator e davanti ai cavalli lo sparsor con un’anfora colma d’acqua. III secolo d.C. MAN, Madrid.
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una manifestazione del proprio potere; per i magistrati significava un maggior prestigio sociale. Questo spiega perché facessero a gara per offrire gli spettacoli più elaborati e grandiosi, arrivando in alcuni casi a rovinarsi economicamente. Dai ceti sociali più elevati provenivano quelli che si potrebbero definire i presidenti delle squadre – i proprietari delle fazioni – che si occupavano di organizzare i giochi. Il circo costituiva un’ottima occasione per concludere affari visto che, come sottolinea Giovenale, non era raro che l’allestimento di eventi di questo tipo permettesse di firmare accordi per futuri contratti. Al di sotto dei patrocinatori e dei proprietari c’erano i domini factionum, che erano i responsabili del corretto funzionamento della squadra e dei suoi vari componenti tra cui spiccavano naturalmente i veri protagonisti dello spettacolo: gli aurighi e i cavalli. Questi ultimi non era80 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
UNA LAMPADA SOUVENIR
Al centro, uno dei cavalli vincitori è preceduto da un cartello con il suo nome e il numero di vittorie. Lo seguono i suoi sostenitori. British Museum. BRITISH MUSEM / SCALA, FIRENZE
no considerati delle semplici macchine, ma erano amati e apprezzati. I tifosi conoscevano a menadito il pedigree e i risultati dei loro quadrupedi preferiti ed erano preparatissimi anche in ogni altro ambito della competizione, dato che lo studio delle statistiche sportive andava già di moda. I cavalli più famosi venivano spesso ritirati in anticipo tra mille onori affinché potessero trascorrere gli ultimi anni in tranquillità dedicandosi a procreare. Ad alcuni furono persino dedicati dei monumenti funebri.
I beniamini del pubblico Gli aurighi erano naturalmente le stelle del circo. Suscitavano passioni difficili da immaginare: se uno di loro moriva in pista, il pubblico ne era sconvolto più che se fosse mancata qualche illustre personalità dell’epoca. Un caso estremo si verificò alla morte di un certo Felix, auriga della squadra rossa: non potendo sopportarne la scomparsa, uno dei suoi
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sostenitori si gettò accanto a lui sulla pira funebre. Sebbene molti dei corridori fossero di origine servile e venissero allenati alle gare fin da piccoli, grazie al circo potevano arricchirsi notevolmente. Così, mentre il poeta Marziale paragonava i magri frutti dei suoi epigrammi con i «quindici sacchi d’oro fiammante» che incassava Scorpo per ogni vittoria, Giovenale sottolineava che il vincitore di una corsa intascava in un giorno ciò che un maestro guadagnava in un anno. Ma non era solo una questione di soldi: gli aurighi erano leader carismatici che godevano di grande considerazione tra i loro concittadini. Plinio il Vecchio racconta che venivano attorniati per strada dai tifosi e Ammiano Marcellino riferisce con un certo imbarazzo che erano ritenuti dei modelli sociali di comportamento. Da altre testimonianze sappiamo che venivano considerati alla stregua di veri e propri sex symbol. Non sorprende dunque che si comportassero spesso in modo capriccioso e stravagante, sentendosi protetti dalla propria fama.
Valentiniano I mandò al rogo il suo auriga preferito, Atanasio, accusandolo formalmente di stregoneria. In realtà, secondo Ammiano Marcellino, fu fatto giustiziare perché disonorava l’imperatore con il suo comportamento «frivolo e volgare». Fu un auriga anche il responsabile ultimo del massacro avvenuto a Tessalonica nel 390. Questo personaggio di cui non ci è giunto il nome fu incarcerato dal governatore di origine gota Buterico con l’accusa di pederastia, per aver tentato di sedurre uno dei suoi servitori. La popolazione ne pretese però la liberazione in vista di una gara importante e di fronte al rifiuto delle autorità scoppiò una rivolta che si concluse con l’uccisione del governa-
UN MESTIERE PERICOLOSO
Nel mosaico qui sopra, sulla sinistra è visibile un auriga protetto da un casco e un corsaletto in pelle. Come di consueto porta le redini intorno alla vita per evitare che gli sfuggano di mano.
Giovenale racconta che l’auriga vincitore guadagnava in un giorno lo stipendio annuo di un maestro
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IN MEMORIA DEL VINCITORE
Porfirio fu il più grande campione dell’ippodromo di Costantinopoli. A lui sono dedicate cinque statue di bronzo e due d’oro che si trovano sulla spina dell’edificio. Questa era la base di una di esse. V-VI secolo d.C. BRIDGEMAN / ACI
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PANTOMIMI, LE ALTRE STELLE
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no dei fenomeni più curiosi del circo antico era il ruolo degli histriones o pantomimi, che incoraggiavano i sostenitori di una fazione durante le corse e li intrattenevano negli intervalli. Eseguivano danze accompagnate da musiche che rappresentavano scene storiche e mitologiche. La loro perfezione e dedizione erano tali da suscitare emozioni indescrivibili, al punto che secondo alcuni autori provocavano una frenesia estatica e persino sessuale. Come gli aurighi, erano per lo più schiavi di origine; in qualche caso potevano ottenere la libertà ma il loro status giuridico rimaneva sempre marchiato dall’infamia. Alcuni di loro accumularono enormi ricchezze e divennero figure carismatiche alla guida di movimenti di protesta.
tore stesso. L’imperatore Teodosio vendicò l’affronto facendo giustiziare settemila sostenitori dell’auriga. Ma gli spettacoli circensi erano anche l’occasione perfetta per far sfoggio della propia posizione sociale. Il pubblico che assisteva alle corse indossava gli abiti migliori per l’occasione, anche se naturalmente c’erano ampie differenze: tra i più facoltosi, che sedevano in tribune separate, regnava lo sfarzo poiché al circo si andava per vedere ma anche per essere visti. Il resto della popolazione vestiva più modestamente, spesso con i colori della propria fazione o indossando dei costumi come quelli degli aurighi. Le tribune erano suddivise in blocchi formati dai sostenitori delle quattro squadre. L’animazione cominciava immediatamente al termine della cerimonia che decretava l’apertura dei giochi. I tifosi intonavano canti per sostenere la propria fazione o insultare i rivali sventolando striscioni e bandiere e quando iniziava la gara la passione diventava irrefrenabile. Migliaia di romani balzavano
in piedi e imitavano i gesti degli aurighi. L’esistenza di un mondo sotterraneo di scommesse cui prendevano parte tanto le classi umili quanto quelle più facoltose rendeva il tutto ancora più pericoloso. Lo stesso imperatore Vitellio, un infervorato fan degli azzurri, non esitava a mescolarsi con i suoi sudditi in nome del vizio del gioco. L’enorme flusso di denaro favorì la nascita di reti fraudolente che truccavano le corse con la complicità di aurighi venduti. Anche le osterie e i commercianti nelle vicinanze del circo incassavano lauti guadagni vendendo oggetti legati allo spettacolo che era capace di paralizzare la vita delle città del mondo antico. Non ricorda qualcosa dei nostri giorni?
UN PANTOMIMO IN AZIONE
In questo mosaico ritrovato a Barcellona ha con sé i panni dei quattro colori e sventola quello della fazione verde, che si è aggiudicata la vittora. Museu d’Arqueologia de Catalunya, Barcellona.
DAVID ÁLVAREZ JIMÉNEZ STORICO
Per saperne di più
SAGGI
Panem et circenses Giorgio Franchetti. Edizioni Efesto, Roma, 2018. ROMANZO
Ben Hur Lew Wallace. Garzanti, Milano, 2016.
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LA CRONACA CRONACADI DIUNA UNAGARA GARA Nel 1806 1806 fu furinvenuto rinvenutoun unmosaico mosaicodel del II secolo II secolo d.C., d.C. di di 4,97 4,97 x 3,02 x 3,02 m, m che che
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1 I carceres Quelli qui visibili sono in legno, quindi la struttura del circo non era ancora in pietra. Sopra di essi c’è un operatore che aveva il compito di attivare il meccanismo di apertura. 84 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
2 Il pulvinar Nella tribuna da cui i magistrati presiedono i giochi c’è l’organizzatore degli stessi, l’editor, che lascia cadere la mappa dando formalmente il via alla competizione.
3 Un naufragium Così venivano chiamati gli incidenti tra carri che avvenivano spesso durante le gare. Le vittime in questo caso sono un auriga della fazione verde e uno dei due corridori rossi.
NEL NELCIRCO CIRCODI DILIONE LIONE
ricostruisce ricostruisceuna unacorsa corsa nella nella città città gallo-romana gallo-romana di Lugdunum di Lugdunum (Lione) (Lione)
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4 La spina Oltre alle uova e ai delfini che venivano abbattuti a ogni giro completato, sono presenti due personaggi con i premi da assegnare al vincitore: la palma della vittoria e la corona di alloro.
5 I carri Di straordinaria leggerezza, erano costituiti da una struttura di legno su cui erano applicate delle strisce di cuoio. Quando i cavalli erano al galoppo, i carri sembravano volare.
6 Gente in pista Si può apprezzare la presenza di due iubilatores a cavallo e due sparsores, uno con delle anfore e l’altro con una specie di catino. Entrambi vestono i colori della propria fazione. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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A SCESA E DECLINO
L’ERA DEI Tra l’XI e il XV secolo determinarono gli esiti delle battaglie e
ASSALTO AL CASTELLO DELL’AMORE
Lo spirito cavalleresco permeava l’immaginario dell’aristocrazia medievale, come dimostrano le scene scolpite su questo scrigno d’avorio. 1300 circa. Musée de Cluny, Parigi. 86 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
CAVALIERI
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costituirono una classe unitaria con una visione e dei rituali propri
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CAVALIERI IN SCOZIA
Nel XIII secolo Alessandro II di Scozia dovette affrontare le incursioni vichinghe. Per difendersi eresse il castello di Eilean Donan, oggi ricostruito.
cozia, 24 giugno 1314. Le forze del re inglese Edoardo II sono state schiacciate da quelle del suo avversario Robert Bruce, sovrano scozzese, nei pressi delle mura di Stirling. Circondato dai suoi fedelissimi, Edoardo abbandona il campo di battaglia. Allora uno degli uomini che lo accompagnano dichiara: «Sire, mi è stata affidata la vostra incolumità; questo è il vostro castello, dove sarete al sicuro. Io non sono abituato a fuggire e non ho intenzione di farlo ora. Vi raccomando a Dio». Detto
V111-X SECOLO C R O N O LO G I A
L’ETÀ D’ORO DEI CAVALIERI
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Inizia l’auge della cavalleria. Il cavaliere svolge un ruolo centrale negli scontri militari, ha una posizione privilegiata nella scala sociale e in letteratura è protagonista dei romanzi arturiani.
All’epoca dell’impero carolingio i soldati a cavallo diventano la principale forza bellica, determinante per l’esito delle battaglie. “Cavaliere” è ormai sinonimo di “nobile”. DH
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questo si volta, dà un colpo di speroni al suo destriero e si lancia al galoppo contro gli scozzesi. Lo attende una morte inevitabile, violenta e gloriosa. L’uomo incaricato di vigilare la sicurezza del re in battaglia era sir Giles de Argentine. Il suo nome oggi è praticamente sconosciuto, ma fu uno dei cavalieri più amati dai suoi contemporanei. Quando cadde nelle mani dei bizantini mentre cercava di raggiungere la Terra Santa, Edoardo II d’Inghilterra intervenne personalmente per farlo liberare e poter così contare su di lui nella battaglia contro gli scozzesi.
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BACINETTO A “MUSO DI CANE”. 1390. AN / A
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In quell’ultimo assalto sir Giles diede al suo signore dimostrazione di coraggio e di fedeltà, che erano la ragion d’essere dell’ordine a cui apparteneva la cavalleria.
La nascita dei cavalieri Le origini di questo gruppo sociale risalgono al VI secolo a.C., quando i cavallerizzi dell’Asia centrale scoprirono che l’uso di supporti per i piedi sui fianchi del cavallo aumentava la stabilità e la capacità di manovra, permettendo di liberare le mani che fino ad allora erano impegnate ad aggrapparsi all’animale. Le staffe furono efficace-
X1V-XV SECOLO
Tra le battaglie di Crécy (1346) e di Cerignola (1503) l’egemonia militare della cavalleria tramonta di fronte ai progressi degli archi e delle balestre e all’introduzione delle armi da fuoco.
mente utilizzate anche dai guerrieri della steppa come gli unni e gli avari e da alcuni popoli germanici che raggiunsero così una netta superiorità nei confronti dei romani. Infatti le legioni imperiali, che nel V secolo d.C. consideravano ancora la cavalleria una semplice truppa ausiliaria della fanteria, non seppero adattarsi alle nuove tattiche e furono sopraffatte. All’inizio del Medioevo, nell’VIII secolo, la cavalleria militare è ormai stabilmente dotata di staffe e sella e inizia ad assumere un ruolo preponderante in combattimento. Sempre più
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Le vicende cavalleresche sopravvivono nei romanzi che raccontano le gesta di cavalieri erranti come Amadigi di Gaula (1508). Questo tipo di opere sarà irriso da Cervantes nel Don Chisciotte (1615).
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SIR GEOFFREY LUTTRELL
Questa miniatura che enfatizza le dimensioni del destriero mostra un cavaliere inglese davanti alla moglie e alla nuora. Salterio di Luttrell. 1325-1340.
IL MODELLO DELLA CAVALLERIA
IL MONDO IDEALE DI RE ARTÙ ’universo arturiano è nei fatti uno specchio letterario che riflette le aspirazioni della classe sociale dei cavalieri. Le fonti antiche tramandano le gesta di Artù, un antico condottiero (forse romano o celtico romanizzato) che tra il V e il VI secolo avrebbe combattuto contro gli invasori angli e sassoni dell’Inghilterra. Re Artù e i suoi valorosi cavalieri della Tavola Rotonda nacquero come personaggi letterari nel XII secolo, quando quelle remote figure entrarono a far parte della storia dei re d’Inghilterra diventando protagoniste di un famoso ciclo romanzesco inaugurato da Chrétien de Troyes. Le avventure dei cavalieri di Artù, tra cui spiccano Lancillotto e Parsifal, suscitarono grande interesse nel pubblico aristocratico
perché dimostravano ciò che si poteva ottenere con il coraggio: ricchezza, regni, amore. Il tutto era condito con un pizzico di magia: i maghi Merlino e Morgana giocano un ruolo fondamentale nella letteratura arturiana. Quel mondo meraviglioso era costruito a immagine e somiglianza dei cavalieri e delle loro dame: infatti non vi comparivano mai né villani né borghesi.
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LA CORTE DEI SOGNI
La scena qui sopra rappresenta il mito di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda. Miniatura della Quète du Saint Graal. XV secolo. Bibliothèque nationale, Parigi.
grandi e possenti, i cavalli sono in grado di sostenere il peso di un cavaliere equipaggiato con diverse armi – spada, lancia, ascia, mazza, scudo – cui si aggiungono le protezioni metalliche della stessa sella. Con i piedi ben saldi nelle staffe e coperti da una protezione di cuoio e ferro, i cavalieri sono ora l’incubo della fanteria, delle vere e proprie orde corazzate capaci di far pendere a loro favore l’esito di ogni battaglia. Diventata la più efficace arma da guerra del Medioevo, la cavalleria acquista un prestigio e uno status sociale e militare straordinari, al punto che i concetti di “cavaliere” e “nobile” vengono ormai considerati intercambiabili.
I sovrani europei crearono i propri ordini cavallereschi cui potevano accedere solo i più privilegiati
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L’ordine è anche sinonimo di ricchezza se si considera che durante il regno di Carlo Magno, intorno all’800, per potersi permettere un destriero e l’attrezzatura di cui ha bisogno, un cavaliere necessita di una rendita di circa 12 mansi, un’unità agricola corrispondente a circa 36 ettari di campi. Di conseguenza solo gli appartenenti ai ceti più abbienti possono concedersi il lusso di combattere a cavallo.
L’ascesa della cavalleria Nell’XI secolo il cavaliere raggiunge una posizione dominante nella gerarchia sociale e ricopre un ruolo decisamente privilegiato in battaglia. Le armi che imbraccia sono sempre più sofisticate e le tecniche di combattimento migliorano al punto di elevare le milizie a cavallo a un rango superiore rispetto ai soldati di fanteria. A partire dall’inizio del XII secolo, nella Terra Santa occupata dai crociati, nascono ordini militari destinati ad assistere i pellegrini e combattere i musulmani. Tra questi si distinguono i templari, che fin da subito assegnano ai loro cavalieri
SCENA DI UNA BATTAGLIA E DELLA CATTURA DI CAVALIERI. MINIATURA DELLA CHRONICA MAJORA DI MATTEO PARIS. XIII SECOLO. CORPUS CHRISTIAN COLLEGE, CAMBRIDGE UNIVERSITY.
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principale consiste nel trovare il Santo Graal che, secondo la maggior parte dei testi, è il calice perduto che Cristo aveva utilizzato nell’ultima cena.
Prestigio sociale I progressi tecnologici nell’equipaggiamento del destriero, i miglioramenti delle armi offensive e difensive, il ricorso ad alcuni tipi di cavalli da combattimento e l’equiparazione progressiva tra nobili e cavalieri fanno della cavalleria un’istituzione di prestigio. I sovrani cominciano a creare i propri ordini cavallereschi, ma non si tratta più di reparti destinati a combattere in Terra Santa come nel modello templare, bensì di ristretti gruppi di eccellenza cui possono accedere solo i ceti maggiormente privilegiati. Così, nel 1348 il re Edoardo III d’Inghilterra fonda l’Ordine della giarrettiera per tributare onore ai nobili più importanti. Il duca Filippo III di Borgogna fa lo stesso nel 1429 con
SAN GIORGIO E IL DRAGO
San Giorgio, un modello da seguire per i cavalieri medievali, colpisce il drago. Acquamanile di bronzo. 1420. Bargello, Firenze.
AKG / ALBUM
un ruolo centrale in ogni scontro. Grazie ai suoi soldati a cavallo schierati in formazione serrata con uno sfolgorante corredo di stemmi ed emblemi, la cavalleria del Tempio diventa un modello di efficienza bellica e allo stesso tempo un simbolo di prestigio per la cristianità. I templari sono i difensori della vera fede per antonomasia e i garanti del trionfo della Chiesa sull’islam; in definitiva, sono i cavalieri di Cristo. Anche la letteratura contribuisce in maniera decisiva al diffondersi della fama di questi nuovi eroi che con il passare del tempo divengono i protagonisti indiscussi di ballate e canzoni. Nella seconda metà del XII secolo Chrétien de Troyes scrive una serie di romanzi in cui tratteggia gli ideali della cavalleria: nobiltà, virtù, coraggio, onore, protezione degli indifesi e amore per le donne. Per dare più forza letteraria alle sue storie lo scrittore francese sceglie di ambientarle presso la mitica corte di re Artù. Qui dunque s’intrecciano le vicende di un gruppo di valorosi cavalieri la cui missione
LA CERIMONIA: PREGHIERA, GOTATA E BACIO a notte prima di essere
COME SI DIVENTA CAVALIERE ’accesso allo status di cavaliere avveniva tramite una cerimonia che si modificò nel tempo. La gotata, un leggero schiaffo sulla guancia dell’aspirante, non apparve fino all’XI secolo; poi fu sostituita da un colpo sulla schiena e quindi dalla collata, il tocco di spada sulla spalla del nuovo adepto. Il rituale aveva un simbolismo profondo: il bagno significava che il futuro cavaliere era senza macchia nel corpo e nell’anima; la tunica bianca era un sinonimo di purezza. Il manto rosso rappresentava la disponibilità a versare il proprio sangue per Cristo e la cotta nera la morte che i cavalieri non temevano.
GÉRARD BLOT / RMN-GRAND PALAIS
SOTTO, DEI CAVALIERI SI PREPARANO AD ASSALTARE UNA CITTÀ. MINIATURA DEL XIV SECOLO. SOPRA, SIGILLO DEL CONTE LUIGI II DI BLOIS-CHATILLON. XIV SECOLO.
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faceva un bagno purificatore e indossava una tunica bianca, un manto rosso e una cotta nera. Poi si ritirava in raccoglimento in una chiesa dove pregava in ginocchio per tutta la notte invocando l’aiuto divino per compiere i suoi doveri. Al mattino, dopo aver riposato un po’ a letto, assisteva alla messa e si presentava al cospetto di colui che lo avrebbe armato cavaliere. Questi gli domandava se era pronto, gli metteva gli speroni e gli consegnava la spada. L’aspirante la sguainava e tenendola in pugno marciava verso il luogo della cerimonia dove giurava di essere disposto a morire per la fede, per il suo signore e per la sua terra. Quindi riceveva la gotata per non dimenticare quanto promesso e infine il bacio rituale. OFFA DI MERCIA È ORDINATO CAVALIERE. MINIATURA DI VITE DI OFFA DI MERCIA, DI MATTEO PARIS. 1250-1254. BRITISH LIBRARY, LONDRA.
SUL CAMPO DI BATTAGLIA: UN SEMPLICE GIURAMENTO on di rado i cavalieri venivano
N ordinati alla vigilia di una
battaglia o dell’assalto a una città per spingere i nuovi adepti a dimostrare subito il loro valore in combattimento. Così, il re del Portogallo Giovanni I ordinò cavalieri 60 scudieri prima della battaglia di Aljubarrota, combattuta contro le truppe dei castigliani (1385). Per l’occasione il sovrano pronunciò queste parole: «La ragione per cui vi ho messo in prima linea oggi è perché possiate dimostrare il vostro valore; in caso contrario, i vostri talloni non saranno degni degli speroni che hanno ricevuto». Se all’alba seguente era prevista una battaglia o una qualche azione militare, la cerimonia era generalmente ridotta all’osso: il novello cavaliere effettuava il giuramento e riceveva la gotata. UN SOLDATO DIVENTA CAVALIERE POCO PRIMA DI UNA BATTAGLIA. MINIATURA DEL LANCELOT DU LAC. SCUOLA FRANCESE. XIII SECOLO. BIBLIOTHEQUE NATIONALE, PARIGI.
FOTO: BRIDGEMAN / ACI
BRIDGEMAN / ACI
L nominato cavaliere l’aspirante
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NOBILI AVVERSARI el 1390, durante una tregua della Guerra dei cent’anni tra Francia e Inghilterra, tre cavalieri francesi – il maresciallo Boucicaut, Reginald de Roye e Jean de Sempy – invitarono chiunque volesse sfidarli a raggiungerli il 21 maggio a Saint-Inglevert, nei pressi di Calais. Lì montarono tre tende rosse, ognuna ornata con due scudi che dovevano essere toccati da chi voleva battersi con loro. Si presentarono 39 cavalieri inglesi e si svolsero in tutto 37 combattimenti per la gioia dei nobili che assistettero all’evento. Le sfide avvennero in un clima di raffinata cortesia, a dimostrazione del fatto che lo spirito cavalleresco non conosceva confini.
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TORNEO DI SAINT-INGLEVERT. MINIATURA DELLE CRONACHE DI JEAN FROISSART. 1470-1475. BRITISH LIBRARY, LONDRA.
BRITISH LIBRARY / BRIDGEMAN / ACI
ARMAMENTO OFFENSIVO
Tra le armi usate dai cavalieri c’era il mazzafrusto, che consisteva in una o più sfere chiodate collegate a un bastone tramite una catena. SERGIO BARRIOS / ALAMY /ACI
l’Ordine del toson d’oro. I cavalieri diventano una classe militare, un’élite di guerrieri il cui compito consiste nella difesa di quei valori che ritengono d’incarnare. Tra l’XI e il XV secolo gli ordini vivono un’autentica epoca d’oro incentrata attorno a ideali come l’onore, la fama e la nobiltà d’animo. I cavalieri sono esaltati in cronache, romanzi e poemi epici; le loro imprese sono magnificate da scrittori e cantori, immortalate in affreschi e quadri e scolpite in statue e rilievi di chiese e cattedrali. Un grande signore non può essere un grande guerriero se non combatte a cavallo, come fa per esempio il Cid con il suo Babieca, o come Riccardo Cuor di Leone, sempre descritto o rappresentato in sella al suo destriero. Eppure il prestigio sociale e la fama letteraria non avrebbero avuto ragion d’esistere senza l’efficacia della cavalleria nelle guerre medievali. Negli scontri tra bizantini e arabi sono i cavalieri greci come Digenis Akritas, protagonista dell’omoni-
mo poema epico del XII secolo (che secondo recenti studi risalirebbe invece al X secolo) a difendere i confini e i valori della cristianità. Nella battaglia di Las Navas de Tolosa, nel 1212, i cavalieri cristiani piegano i guerrieri almohadi con un’offensiva devastante. Nel giugno del 1314, a Bannockburn, l’avanzata dei cavalieri inglesi viene bloccata dai lancieri scozzesi. Il giorno dopo è la Scozia a lanciare all’attacco la propria cavalleria, ottenendo in un colpo solo la vittoria sugli inglesi e l’indipendenza del proprio Paese. In questi cinque secoli le battaglie in campo aperto sono quasi sempre decise da una carica di uomini in sella. Quando sferrano un attacco in formazione serrata i cavalieri pesanti sono inarrestabili e travolgono tutto ciò che incontrano sul loro cammino. A volte la semplice vista di un reparto di cavalleria con i suoi soldati corazzati e armati di lance, spade, mazze e asce svolge un ruolo psicologico fondamentale nello scontro, essendo sufficiente a far sprofondare nel terrore gli avversari.
1 EMBLEMI L’emblema dei cavalieri è esposto sull’elmo: qui si vedono un copricapo (forse della propria dama) e un unicorno. Allo sfidante spetta decidere quanti scontri fare con l’avversario. Gli scudieri reggono delle lance di riserva per sostituire quelle rotte, cosa che avviene piuttosto di frequente.
2 ARMI DA GIOSTRA Per evitare che i partecipanti si ferissero gravemente, nei tornei si usavano delle armi apposite. Ne sono un esempio le lance con la punta coperta o l’elmo a “bocca di rana” come quello dell’illustrazione, che garantiva al cavaliere una migliore protezione ma offriva una visuale limitata risultando inutile sul campo di battaglia.
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3 CAVALLI E CAVALIERI Benché spesso s’immagini uomo e destriero come una sola unità, questi ultimi non sempre eseguivano gli ordini impartiti dal cavaliere tramite redini e speroni: a volte si allontanavano o rifiutavano di procedere in avanti, impedendo lo svolgersi del duello. A Saint-Inglevert questo avvenne in 18 occasioni.
Come se non bastasse va considerato che il soldato di fanteria è spesso privo di un’adeguata preparazione militare e fisica per affrontare la battaglia. Dal canto suo, i cavalieri sono dei veri professionisti della guerra: ricevono fin da bambini un addestramento bellico, imparano ad andare a cavallo e a maneggiare le armi offensive e difensive e partecipano a tornei e giostre in cui possono praticare movimenti simili a quelli richiesti sul campo. Tutto ciò li mette in una posizione di grande vantaggio rispetto a un semplice soldato. Le giostre medievali sono frequenti e costituiscono il palcoscenico su cui principi e aristocratici possono ostentare la loro ricchezza e rinverdire il loro prestigio sociale. I sovrani di ogni angolo della cristianità organizzano tornei e duelli tra cavalieri. Nella seconda metà del XII secolo Guglielmo il Maresciallo è il campione induscusso di queste prestigiose cerimonie. Non è insolito vedervi partecipare anche sovrani come Riccardo Cuor di Leone o Ferdinando il Cattolico. Ci
sono persino cavalieri che per dimostrare il proprio coraggio e la propria bravura sfidano membri della loro stessa classe. È il caso del nobile ispanico Suero de Quiñones, che nel 1434 si apposta per diverse settimane all’estremità di un ponte sul fiume Órbigo, nel regno di León, per duellare con tutti i cavalieri intenzionati a transitare da una riva all’altra.
La fine di un’epoca
DARDI CONTRO LA NOBILTÀ
Grazie alla sua potenza e alla sua portata, la balestra contribuì al tramonto della cavalleria. Sotto, balestra da caccia. Fitzwilliam Museum, University of Cambridge.
Nel XV secolo, ormai sul finire del Medioevo, l’età d’oro della cavalleria si avvia verso il tramonto in un lento ma irreversibile declino. L’inizio della nuova era è caratterizzato dalla comparsa della polvere da sparo
BRIDG
EMAN
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L’APOTEOSI DI UN CAVALIERE
Nella splendida tomba di Philippe Pot, grande siniscalco di Borgogna e membro dell’Ordine del toson d’oro, il defunto è raffigurato a grandezza naturale. 1477-1483. Musée du Louvre, Parigi. BRIDGEMAN / ACI
CONTADINI CONTRO CAVALIERI
UNA FEROCE GUERRA DI CLASSE a vita dei cavalieri si basava sulla sottomissione dei contadini, il cui lavoro era il fondamento del mondo feudale. Quest’ordinamento sociale oppressivo provocò frequenti rivolte nelle campagne, come la jacquerie francese del 1358 in cui le atrocità commesse da entrambe le parti evidenziavano l’odio reciproco. Secondo la testimonianza del nobile cronista Jean Frois-
UCCISIONE DI UN CAVALIERE NEI PRESSI DI PARIGI. MINIATURA DELLE ANCIENNES CHRONIQUES D’ANGLETERRE, DI JEAN DE WAVRIN. XV SECOLO.
sart, i contadini «uccisero un cavaliere e lo fecero arrostire davanti alla moglie e ai figli. Quindi una dozzina di loro violentarono la donna e poi costrinsero [la famiglia] a mangiare il corpo prima di ucciderli brutalmente». Questo tipo di crudeltà generò una risposta non meno feroce da parte dei cavalieri contro quei «cani rabbiosi», per usare un’espressione dello stesso Froissart. A
Meaux, per liberare un gruppo di dame circondate dai rivoltosi, i cavalieri che accorsero per soccorrerle uccisero settemila ribelli: «Li abbattevano come bestie», scrive Froissart. Non c’è da stupirsi, visto che erano «piccoli e mal armati». I cavalieri, armati fino ai denti e con indosso le corazze d’acciaio, massacrarono quella che era solo una moltitudine esasperata.
RUE DES ARCHIVES / ALBUM
UN’IMMAGINE ONNIPRESENTE
AKG / ALBUM
Sotto, parte inferiore di uno stampo per fabbricare figure in stagno rappresentanti un cavaliere. XIII secolo. Kunstmuseum des Landes SachsenAnhalt, Magdeburgo.
e delle armi da fuoco. Grazie all’artiglieria gli uomini a cavallo possono essere abbattuti da lunghe distanze: di fronte a cannoni e moschetti una carica di cavalleria perde la sua efficacia militare. Al processo di perfezionamento delle nuove armi si somma il miglioramento della potenza di tiro di archi e balestre. Un cavaliere ha bisogno di spazio per potersi lanciare all’attacco e arrivare allo scontro corpo a corpo con la sua lancia e la sua spada, ma un archibugiere può colpirlo da duecento metri di distanza. L’epopea della guerra a cavallo inizia a cedere il passo. La vecchia aristocrazia cavalleresca non riesce a evolversi di contemporaneamente alle nuove tecniche e tattiche. I cavalieri si limitano ancora a lanciare cariche in formazione serrata nella speranza di provocare il panico tra i nemici. Nel giro di un secolo e mezzo questo reparto un tempo decisivo perde tutta la sua centralità ed è destinato alla sconfitta.
È quanto avviene nella battaglia di Crécy, durante la Guerra dei cent’anni, quando la cavalleria feudale francese si lancia all’attacco dell’esercito inglese, costituito interamente da fanti. Siamo nell’agosto del 1346. I campi della Francia settentrionale sono stati arati da poco e il terreno è molle e cedevole. La raffica di frecce degli arcieri britannici ferma l’assalto dei francesi che vengono sconfitti. Qualcosa di simile avviene nel 1415 nella battaglia di Azincourt, quando i cavalli francesi restano bloccati nel suolo fangoso dove sono affondati fino al garretto. Gli orgogliosi aristocratici transalpini, che si erano presentati sul campo agghindati come se si trattasse di una sfilata di moda, sono facili prede della fanteria inglese e finiscono massacrati. È l’inizio della fine. Ciononostante la cavalleria militare medievale continua a resistere in un mondo che cambia. Nel XV secolo i nobili abbandonano i loro castelli di campagna per trasferirsi nei palazzi cittadini; il denaro prende il sopravvento su altre forme di tassazione
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feudale, come i tributi in natura o le corvée; e la nuova aristocrazia non s’immedesima più nell’ideale della battaglia corpo a corpo, bensì della guerra come esercizio di dominio politico e territoriale. Eppure i cavalieri continuano a essere delle figure di riferimento fino all’inizio del XVI secolo, momento della loro definitiva sconfitta storica.
Personaggi romanzeschi Succede in Italia, dove Gonzalo Fernandez de Córdoba, detto il gran capitano, conquista il regno di Napoli per conto di Ferdinando il Cattolico. Ha successo grazie a una strategia bellica incentrata sulla fanteria che viene organizzata in tercios, delle unità militari costituite da picchieri e archibugieri. Nel 1503 l’esercito del gran capitano annienta la cavalleria pesante francese nella battaglia di Cerignola. Qualche anno più tardi, nel 1525, la battaglia di Pavia vede la fanteria spagnola imporsi nuovamente sulla cavalleria francese grazie anche a un’artiglieria che registra notevoli miglioramenti tecnici.
Il momento della fine è ormai giunto. Ma c’è ancora spazio per un secolo di malinconiche fantasticherie in cui i cavalieri rimangono le figure centrali delle feste di corte. Carlo V, ad esempio, partecipa a diversi tornei e in almeno due occasioni sfida a singolar tenzone il suo grande avversario, il re Francesco I di Francia. Terminata la loro epoca di protagonismo in battaglia, i cavalieri sopravvivono nei libri. Nel 1508 viene pubblicato in Spagna il romanzo Amadigi di Gaula, vero e proprio canto del cigno letterario della cavalleria. Questo processo culminerà all’inizio del XVII secolo con l’uscita del Don Chisciotte, opera in cui l’ultimo cavaliere errante vede i suoi sogni svanire nella follia.
IL CASTELLO DI BODIAM
Fu costruito nel 1385 dal cavaliere Edward Dalyngrigge nel sud dell’Inghilterra; più che una vera e propria fortezza era una residenza di lusso, una dimostrazione di potere e ricchezza.
JOSÉ LUIS CORRAL PROFESSORE DI STORIA MEDIEVALE PRESSO L’UNIVERSITÀ DI SARAGOZZA
Per saperne di più
SAGGI
La cavalleria medievale Jean Flori. Il Mulino, Bologna, 2016. Lo specchio del feudalesimo Georges Duby. Laterza, Roma-Bari, 1998. Alle radici della cavalleria medievale Franco Cardini. Il Mulino, Bologna, 2014.
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UTILIZ ZO L’armatura da parata veniva indossata in occasione di atti solenni e aveva uno scopo decorativo; né il disegno né il materiale di cui era fatta si prestavano all’uso in battaglia.
DECOR A ZIONE Ispirata ai motivi ornamentali italiani del tardo Rinascimento e del Manierismo, la decorazione è costituita da elementi vegetali che racchiudono figure umane e creature fantastiche. Al centro, un soldato romano riceve l’omaggio di due donne inginocchiate; sulla parte frontale degli spallacci, Apollo insegue la ninfa Dafne.
MATERIALE È fatta in acciaio con intarsi d’argento, finimenti di cuoio e complementi di velluto rosso. Misura 190 centimetri di altezza e pesa 24,20 chili.
Quando le armi da fuoco misero fine al protagonismo militare della cavalleria l’armatura divenne uno sfarzoso elemento decorativo. Evocava un ideale duro a morire, considerato un compendio di virtù come la fede, il coraggio e la nobiltà d’animo. Questa elaborata corazza apparteneva a Enrico II di Francia, morto nel 1559 proprio a causa delle ferite riportate a un occhio durante un torneo.
LA SECONDA PELLE DEL CAVALIERE
Vambrace
Cubitiera
Bracciale
Spallaccio
Pettorale
Gorgiera
Elmo
FOTO: METROPOLITAN MUSEUM / SCALA, FIRENZE
UN’OPER A D’ARTE Le corazze da cerimonia erano opera di artisti prestigiosi. Questa fu realizzata intorno al 1555 sulla base di vari disegni, uno del pittore Jean Cousin il Vecchio e gli altri dell’orafo e incisore Étienne Delaune – che lavorava per la zecca reale – e del pittore Baptiste Pellerin, autore di numerosi disegni di armature. È conservata presso il Metropolitan Museum di New York.
Scarpa
Schiniere
Ginocchiello
Cosciale
Manopole
LA PORTA PER La Istanbul
Nel XVIII secolo gli artisti, i diplomatici e i viaggiatori che giungevano nella capitale
IL CORNO D’ORO
Con tale nome è ancor oggi conosciuto l’estuario che divideva a metà la Istanbul europea. In questa incisione del XVIII secolo è ritratto un panorama del quartiere di Galata con l’omonima torre osservato dalla sponda opposta, sulla quale si affacciava il palazzo reale.
L’ORIENTE ottomana
turca scoprivano un mondo che non aveva paragoni con l’Europa
BPK / SCALA, FIRENZE
Galata
Santa Sofia
Corno d’Oro
Serraglio
Bosforo
ISTANBUL NEL XVIII SECOLO
In questa cartina del 1730 è rappresentata la capitale ottomana. Il profondo estuario del Corno d’Oro si apre a destra sul quartiere di Galata, o Pera, dove da tempo si erano stabiliti gli europei.
BRIDGEMAN / ACI
Asia
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a traversata in goletta degna di una fiaba, uno splendido golfo sempre punteggiato di vele – con l’anfiteatro e i minareti disposti a corona – le impressionanti mura del serraglio, la vastità dei cimiteri, le migliaia di tombe che circondano la città e che fanno «da cornice a quel magnifico quadro appena dipinto». Erano queste le impressioni del conte polacco Jan Potocki mentre osservava Istanbul dalla barca che nel 1784 l’avrebbe condotto alla meta. Anche dal porto lo spettacolo rimaneva indescrivibile: i racconti di coloro che avevano visto la capitale dell’impero ottomano non avrebbero mai superato la realtà. Il conte aveva previsto un
soggiorno di un mese per godersi appieno Instabul e, infatti, trascorse giornate intere a percorrerne le strade, perdendosi nei quartieri e contemplando una città di cui sembrava impossibile farsi un’idea precisa.
Una capitale affascinante La Istanbul del XVIII secolo era il luogo ideale perché gli aristocratici europei potessero ristorarsi, studiare e intraprendere la carriera diplomatica o commerciale. Nonostante i terremoti, gli incendi, il degrado e la sporcizia descritti da molti viaggiatori, la città manteneva un fascino intatto e indelebile, ancor più intenso per chi vi arrivava via mare, lasciandosi alle spalle l’Egeo attraverso
C R O N O LO G I A
SECOLI DI CAMBI TUGHRA, O FIRMA DEL SULTANO, IN UNA MONETA D’ORO OTTOMANA. 1757. ALBUM
1718
1729
Durante l’impero ottomano ha inizio il cosiddetto Periodo dei tulipani, nome che deriva dal fiore preferito del sultano Ah.med III.
Il geografo, · astronomo e filosofo Ibrahim Müteferrika fonda la prima stamperia turca. Usa tipi mobili con grafia araba.
IL PALAZZO DI TOPKAPI
1730
1739
1774
1795
Termina il florido Periodo dei tulipani. Il sultano Ah.med III è spodestato dai giannizzeri dopo alcune sconfitte militari.
Firma del trattato di Belgrado tra l’impero ottomano e gli Asburgo. La frontiera è fissata tra i fiumi Sava e Danubio.
Dopo aver perso la Guerra russo-turca, gli ottomani cedono la provincia di Yedisan. La Russia ottiene l’accesso al mar Nero.
Viene pubblicato il primo giornale dell’impero ottomano, redatto in francese: il Bulletin de Nouvelles.
ALAMY / ACI
Affacciato sul Bosforo, era la sede del sultano e la sua residenza dal 1459. Nell’immagine l’harem del palazzo, luogo dove vivevano le spose e le concubine del sultano e al quale solo lui aveva accesso.
PASSIONE PER I TULIPANI
Una piastrella di · Iznik con un motivo di tulipani, il fiore più in voga nell’impero ottomano. Adornava tutti i giardini ed era un motivo decorativo abituale nelle ceramiche come quella sopra. XVIII secolo. Louvre. R. CHIPAULT / RMN-GRAND PALAIS
il sorprendente stretto dei Dardanelli, che si apriva sul mar di Marmara. Fu quello il caso dell’avventuriero veneziano Giacomo Casanova, che superò lo stretto a bordo di un’imbarcazione turca nel luglio 1745 per contemplare «a una lega di distanza [...] un panorama stupendo» e «uno spettacolo talmente bello» che nessun altro posto al mondo avrebbe potuto offrire. Anni dopo, il 19 ottobre 1788, l’abate italiano Giambattista Casti giunse a Istanbul in compagnia del nuovo bailo – o ambasciatore – veneziano Nicolò Filippo Foscarini. Dopo due giorni di navigazione a vela nei Dardanelli, gli apparve come per magia la parte meridionale della città che sulla destra, nel lato europeo, si sviluppava dal castello delle Sette Torri fino alla punta del serraglio – così gli europei chiamavano il palazzo reale di Topkapı –, e sulla sinistra si estendeva lungo quello che era stato l’antico borgo di Scutari. Poco alla volta l’ampio orizzonte, capace di smuovere pure gli spiriti più apatici, cominciò a svelarsi allo sguardo degli sbigottiti forestieri che intravidero davanti a loro l’enorme metropoli a forma d’immenso anfiteatro, difficile da abbracciare in tutta la sua grandezza. Come scrisse un viaggiatore dell'epoca, «era impossibile trovare un porto più bello, più comodo, più sicuro e uno spettacolo simile in tutto l’universo».
Impressioni d’Istanbul Il panorama della città ammaliò anche il disegnatore francese Antoine-Laurent Castellan, che nel 1797 giunse a Istanbul in compagnia di un ingegnere militare e visse per diversi mesi nel quartiere di Pera, o Galata. Dal porto di Santo Stefano, a mezzanotte, poté ammirare le luci che si riflettevano sulle sponde dell’Europa e dell’Asia facendo brillare gli alti mi-
RICEVUTO DAL VISIR
Nel XVIII secolo non era facile ottenere un’udienza con il sultano: in genere era il gran visir ad accogliere i visitatori illustri. In questa pittura di Francesco Casanova il conte di Saint-Priest è ricevuto da Aimali Carac, la mano destra del sultano. 1779. Versailles. ERICH LESING / ALBUM
nareti delle moschee imperiali, «mentre la superficie del mare pareva incendiarsi e le numerose golette che percorrevano il porto e il canale in tutte le direzioni sembravano navigare in un mare di fuoco». Queste erano le impressioni e le attese dei viaggiatori che giungevano qui, nella città dei sultani nonché il cuore dell’impero ottomano. Agli inizi del XVIII secolo Istanbul contava 800mila abitanti tra turchi, armeni, greci ed ebrei; molti degli europei che la
La maggioranza degli europei di Istanbul erano mercanti e ambasciatori DECORAZIONE DI UN TURBANTE CON RUBINI E SMERALDI. TOPKAPI PALACE MUSEUM, ISTANBUL. D. ORTI / AURIMAGES 106 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
visitavano o vi si stabilivano erano commercianti e ambasciatori. Tuttavia non era uno dei posti migliori in cui vivere, sia per questioni d’igiene e sicurezza sia per i pericoli sempre in agguato. E non è un caso che un detto affermasse: «A Pera ci sono tre mali: peste, fuoco, dragomanni». Assieme alle epidemie e agli incendi – come quello del 1731 che distrusse tre quarti di Galata, a cui seguì un terremoto quattro anni dopo –, gli europei dovevano guardarsi le spalle dai raggiri dei dragomanni, interpreti famosi per la loro corruzione. Malgrado tutto, l’inglese lady Mary Wortley Montagu credeva che il porto, la città, il serraglio e le lontane colline dell’Asia, che nel 1716 poteva ammirare dalle finestre
UDIENZE E CENE IN UN’UNICA SEDUTA NEL 1838 IL TEOLOGO INGLESE Richard Pococke descrisse il di-
vano come «la cerimonia di udienza del gran visir, celebrata davanti a un pubblico tra cui figurava anche l’ambasciatore, così come il sultano, nascosto dietro una finestra sopra la sedia del visir». Quest’ultimo amministrava i divani quotidiani, cioè i tribunali di giustizia. Quattro volte alla settimana si tenevano nel serraglio, mentre tre avevano luogo nella sua residenza. Al termine delle attività, che consistevano soprattutto nella lettura di richieste di povera gente in presenza del gran visir, «gli sgabelli venivano sistemati davanti a lui e per le sette di sera vi si serviva la cena, in piccoli piatti collocati tra piatti più grandi, in modo tale che non dovevano muoversi dal posto in cui erano amministrate le questione pubbliche».
LA MOSCHEA NURUOSMANIYE
Questa spettacolare moschea considerata il capolavoro del barocco ottomano fu commissionata dal sultano Mahmu–d I nel 1748 e inaugurata · 1755. L’interno rifulge per la da ’Osma–n III nel profusa illuminazione che fa onore al suo nome: Nuruosmaniye significa “la luce di ’Osma–n”. MARTIN SIEPMANN / ALAMY / ACI
La corte vista da Van Mour NEL 1669 IL PITTORE FIAMMINGO naturalizzato francese Jean-Baptiste Van Mour fu invitato a visitare Istanbul
dal marchese Charles de Ferriol, appena nominato ambasciatore di Francia presso la corte dei sultani. De Ferriol commissionò all’artista cento ritratti di personaggi della città con il proposito di raccoglierli in un libro. Al suo ritorno in Francia, nel 1714-1715, pubblicò il volume con le cento stampe intitolato Recueil de cent estampes représentant les diverses nations du Levant, che ebbe uno straordinario successo. Van Mour invece rimase a vivere a Istanbul, dove lavorò per diversi committenti dipingendo la città e la corte di Ah.med III. La sua specialità, in effetti, erano proprio le scene in cui ricreava le udienze del sultano. L’ambasciatore olandese Cornelis Calkoen chiese a Van Mour d’immortalare la sua udienza con Ah.med III e fu perciò permesso al pittore di entrare a palazzo durante la cerimonia. L’olandese commissionò anche diversi quadri del suo soggiorno che poi portò con sé in patria. La maggior parte di queste opere appartiene al fondo del Rijksmuseum di Amsterdam.
LA BATTUTA DI CACCIA DEL SULTANO AH. MED III. COLLEZIONE PRIVATA. INIZI DEL XVIII SECOLO. ENTRAMBI I DIPINTI DI QUESTA PAGINA SONO OPERA DI JEAN-BAPTISTE VAN MOUR.
SOPRA: AKG / ALBUM. SOTTO: BRIDGEMAN / ACI
UNA DAMA DELLA CORTE CHE HA APPENA PARTORITO RICEVE LE VISITE NELL’HAREM. INIZI DEL XVIII SECOLO. RIJKSMUSEUM, AMSTERDAM.
DECORAZIONE DI DIAMANTI
I gioielli e le pietre preziose rappresentavano la ricchezza e il potere dei sultani. Sopra, replica di un chelengk, – un’insegna militare di diamanti – che il sultano Selim III consegnò all’ammiraglio russo Ušakov. Central’nyj voenno-morskoj muzej, San Pietroburgo. FINE ART / ALBUM
della sua dimora a Pera – sede delle ambasciate straniere – fossero «il paesaggio più bello del mondo». Lady Montagu accompagnava il marito, il diplomatico lord Edward Wortley Montagu, e riteneva che a maggio il clima fosse delizioso e non ci fosse nulla di più affascinante del canale del Bosforo, lungo il quale, sulle due sponde, erano costruiti centinaia di magnifici palazzi da cui si potevano osservare i panorami più belli dell’Europa e dell’Asia.
Palazzi e capanne Lady Montagu poté visitare e descrivere molti luoghi particolari tra cui la sede invernale dell’harem, nel serraglio. Il luogo «inviolabile», riservato alle donne, era «intarsiato di legno d’ulivo con lavori di madreperla e avorio a svariati colori [...] le stanze destinate per l’estate hanno le muraglie incrostate di porcellana del Giappone, il soffitto dorato e il pavimento ricoperto di bellissimi tappeti della Persia». Lady Montagu rimase molto colpita da alcuni aspetti della legge turca, che considerava superiore a quella inglese. I turchi non le sembravano maleducati, come invece risultavano ad altri europei, ma li credeva piuttosto dotati «di una magnificenza distinta e migliore» della sua. Avevano una «giusta concezione della vita e si dedicavano ad ascoltare musica, passeggiare per i giardini, bere vino e consumare manicaretti delicati», mentre gli europei non facevano altro che «tormentarsi la mente con progetti politici o studiare scienze inafferrabili». Secondo lei questo popolo prendeva le cose con filosofia. Così aveva-
ANNA SERRANO / FOTOTECA 9X12
no fatto i proprietari delle cinquecento case abbattute da un incendio che lei stessa aveva visto raccogliere, imperturbabili, i propri beni mentre le proprietà andavano in fumo. A Istanbul tuttavia non mancavano i contrasti, come sottolineò l’ambasciatore francese Choiseul-Gouffier nel 1784 quando scrisse di «palazzi di un’eleganza ammirevole, fonti incantevoli, strade sudicie e strette, capanne terribili e rigogliosi alberi». Choiseul visitò il gran bazar, le moschee più
In qualità di moglie di un ambasciatore, lady Montagu poté visitare il luogo più segreto del serraglio: l’harem LADY MARY MONTAGU VISITA LA SULTANA HAFITEN. INCISIONE DI JOHN HALL. 1765 CIRCA. V&A MUSEUM / PHOTOAISA
L’INGRESSO NEL SERRAGLIO
Nella grande piazza davanti alla porta d’ingresso del palazzo reale e alla chiesa di Santa Sofia, il sultano Ah. med III nel 1728 fece costruire una fonte in stile rococò che è considerata la più bella di Istanbul.
celebri e i monumenti più misteriosi, ma nelle sue passeggiate era sempre inseguito dai cani, mentre la gente attorno a lui «ballava e moriva». Le persone, gli usi e i costumi offrivano ai suoi occhi «lo spettacolo più variegato e pittoresco» e ogni notte, nella residenza dell’ambasciata, s’immergeva nella frivolezza di concerti e ricevimenti. E nonostante tutto, definiva Istanbul «il gran mercato d’Oriente», una città che non aveva nulla da invidiare a Tiro o a Baghdad. Per Giambattista Casti, la capitale turca era ben diversa da quanto potesse sembrare dal mare. Le stradine erano anguste, «pavimentate molto male, disuguali, scomode, sporche e spesso a strapiombo»; le case di legno non avevano gusto e simmetria; l’edi-
UNA VISITA ALLA SULTANA «HAFITEN» NEL 1718 LADY MONTAGU fece visita a Afife Kadın (o Hafiten, come la chiamò la dama inglese), la vedova del sultano Mustafà II, e ne rimase affascinata. Dopo la morte del marito suo malgrado aveva dovuto abbandonare il serraglio per sposarsi di nuovo. Aveva 33 anni, «non la proteggeva nessun eunuco nero e mostrava i resti di un bel viso, segnato più dal dolore che dal tempo». Il ricchissimo abito che indossava, chiamato dualma, le arrivava sino ai piedi ed era di tela porpora con grandi perle e diamanti dalle dimensioni di bottoni. Portava tre collane di perle e smeraldi così lunghe che le toccavano le ginocchia; gli orecchini erano due diamanti grandi quanto nocciole; sui capelli aveva spille di pietre preziose e sulle dita cinque anelli. Secondo lady Montagu, «nessuna regina europea possiede nemmeno la metà [dei suoi gioielli]».
L’ambasciatore francese e sua moglie NEL 1766 IL CONTE DI VERGENNES, ambasciatore francese a Istanbul, fece ritrarre sé stesso e poi la moglie
da un pittore compatriota, Antoine de Favray, giunto quattro anni prima alla corte ottomana. Entrambi i coniugi posano vestiti alla turca e seduti su cuscini, come dettava la moda del luogo. L’ambasciatore è ritratto con indosso un ricco broccato giallo con rami ricamati, un caftano rosso foderato di ermellino e un alto turbante; sfoggia inoltre diversi elementi ottomani: nella mano sinistra tiene un tesbih, o rosario, nella destra un particolare tipo di pipa, il cibuk, e alla cintura porta un pugnale con un manico intarsiato di pietre preziose. Madame Vergennes invece indossa un vestito orientale, un caftano scollato e aderente, assieme ai suoi gioielli più preziosi. Entrambi i quadri sono oggi esposti al Pera Museum, a Istanbul.
FOTO: ARCHIVES CHARMET / BRIDGEMAN / ACI
Il sultano provò a introdurre nella corte ottomana i costumi europei, ma fu detronizzato dal cugino, Mustafà IV, che lo rinchiuse e lo fece strangolare un anno dopo. Ritratto di Selim di Konstantin Kapıdağlı. Topkapı Palace Museum, Istanbul. BRIDGEMAN / ACI
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Nella casa del sultano: il serraglio Se Istanbul era il nucleo dell’impero, il serraglio era la sede amministrativa del sultano, che promulgava le leggi e guidava l’esercito. L’uomo più potente dopo di lui era il gran visir, «principale canale di comunicazione tra il mondo chiuso del Serraglio e l’esterno», come lo definì Samuel Medley nel 1730. Poche persone erano benvenute e alcuni diplomatici furono maltrattati, minacciati e incarcerati. Il 5 gennaio 1700, per esempio, l’ambasciatore francese Charles de Ferriol si presentò a corte con la spada e si rifiutò di consegnarla. Il dragomanno gli spiegò che nessuno, nemmeno il gran visir, poteva comparire armato al cospetto del sultano, ma quando provarono a disarmarlo de Ferriol reagì con pugni e grida, comportamento inammissibile nelle aree sacre del palazzo. Alla fine, il capo degli eunuchi bianchi, il supremo maestro delle cerimonie di corte, gli ordinò di togliersi il caftano di seta che aveva dovuto indossare e di andarsene. E così fece. Fu invece più fortunato l’incontro tra l’am-
basciatore inglese lord Kinnoull e il sultano −d I, il 9 giugno 1734, il giorno in cui Mahmu · venivano pagati i quattromila giannizzeri, il corpo di fanteria dell’impero. Dopo il divano, o udienza con il visir, e una breve cena con molti piatti e alcuni regali per il diplomatico, questi indossò il caftano e venne introdotto nella sala delle udienze del sultano assieme al dragomanno, al suo segretario e ad altre −d, «dalla pelle scura, la sei persone. Mahmu · statura media e la costituzione forte», era seduto «sui gradini di una specie di trono, con un baldacchino nella parte superiore e cinque principesse ai suoi piedi. Il gran visir era seduto davanti a lui e più lontani presenziavano altri cinque visir del divano», il consiglio imperiale. Kinnoull fece il suo discorso e «consegnò la lettera del sovrano inglese al primo visir, al suo fianco, che la passò a un altro, il quale a sua volta la lasciò sulla scrivania vicino al gran signore». Il dragomanno tradusse il discorso in turco e poi l’ambasciatore tornò indietro attraverso la sala del divano; passò davanti ai giannizzeri, −d e a tutti i ministri ai 50 cavalli di Mahmu · della Sublime Porta, salutò e uscì. Il sultano non disse nemmeno una parola e non replicò al discorso, lasciando che, in sua vece, lo facesse il gran visir. Nonostante le meraviglie di Istanbul, alla fine del XVIII secolo l’amministrazione pubblica inefficiente e corrotta, l’esercito riottoso e il corpo sempre più indisciplinato dei giannizzeri causarono una crisi politica che scoppiò in tutta la sua violenza durante il regno dell’illuminato Selı̄m III (17891807); pur cosciente del bisogno di effettuare determinate riforme e della necessità di un’“europeizzazione” dell’impero, il sultano non riuscì a sanare un Paese destinato a divenire «il grande malato d’Europa». ROSA MARIA DELLI QUADRI UNIVERSITÀ DI NAPOLI L'ORIENTALE
Per saperne di più
SAGGI
I segreti di Istanbul Corrado Augias. Einaudi, Torino, 2016. Istanbul Franco Cardini. Il Mulino, Bologna, 2014. Storia di Istanbul Klaus Kreier. Il Mulino, Bologna, 2012.
CLEARVIEW / AGE FOTOSTOCK
IL SULTANO SELIM III
ficio più bello e rispettabile era Santa Sofia, divenuta moschea dopo la conquista ottomana. Secondo il religioso, i turchi trascuravano «gli studi, l’industria, l’agricoltura, il commercio e le altre utili occupazioni. Lasciano che vada tutto in rovina senza mostrare alcun tipo di rammarico». Per l’antropologo inglese Richard Pococke inoltre il popolo era ignorante e silenzioso, e non gli piacevano i pubblici oratori, per cui il governo aveva proibito le riunioni nei caffè. Eppure nella città c’erano diverse stamperie, come quella creata nel 1726 che aveva pubblicato il primo libro in lingua turca, e altre due armene menzionate da Pococke nella sua cronaca di viaggio nel 1738.
IL SALONE IMPERIALE
All’interno dell’harem del palazzo di Topkapı si trova questa lussuosa sala a volta della fine del XVI secolo, che fu luogo di ricevimenti e di svago. L’attuale decorazione risale a ’Osma–n IV, che fece rinnovare lo spazio dopo un incendio avvenuto nel 1665.
GRANDI ENIGMI
Vampiri, uno scherzo della natura? La leggenda dei morti che tornano in vita è stata forse generata da alcuni processi fisici che possono verificarsi nei cadaveri te dell’esistenza dei vampiri e testimoniavano perfino di averne visti? L’interesse per i “non morti” doveva molto al monaco benedettino Agostino Calmet, autore di un’opera dal titolo Dissertazioni sopra le apparizioni de’spiriti e sopra i vampiri (1746) in cui il religioso raccoglieva numerosi casi di vampirismo. Calmet descriveva questi esseri come persone morte che tornano per «inquietare i villaggi, offendere gli uomini […] succhiare il sangue dei propinqui, portare ad essi malattie, e farli morire, di maniera che non si può liberare dalle vite moleste, e dalle inquietudini di costoro, se non col disotterrarli, im-
pallarli, tagliar loro la testa, strappar loro il cuore, ovvero abbruciarli». La mancata decomposizione del cadavere era uno dei primi indizi della trasformazione di un defunto in vampiro: «Si considera il corpo disotterrato per vedere, se vi si trovano i segni ordinari […] come la mobilità e la flessibilità delle membra, la fluidezza del sangue», scrive Calmet.
Morti viventi Il fatto che un corpo non si decomponga può essere il risultato di due fenomeni oggi ben noti: la mummificazione, che avviene in ambienti caldi e asciutti, e la saponificazione, che invece si verifica quando il
STORIE DEL TERRORE NEL SUO TRATTATO, Agostino Calmet racconta un episodo
avvenuto a Kisilova (attuale Kisiljevo, Serbia) intorno al 1738. La gente diceva di aver visto girare per la città un uomo morto settimane prima che avrebbe morso sul collo varie persone per succhiarne il sangue. Con il permesso del governatore riesumarono il defunto che non era decomposto, gli piantarono un paletto nel cuore e lo bruciarono. BNF
WHITE IMAGES / SCALA, FIRENZE
N
el XVIII e nel XIX secolo parve diffondersi in tutta Europa un’epidemia di vampirismo. Lo diceva già Rousseau nel 1762: «Se mai c’è stata al mondo una storia certa e provata, è quella dei vampiri. Non manca nulla: rapporti ufficiali, testimonianze di persone attendibili, di chirurghi, preti, magistrati». Naturalmente ci sono sempre stati degli scettici come lo stesso Rousseau o lo scrittore Charles Nodier, che nel 1822 dichiarava: «Tra tutti gli errori popolari, la credenza nel vampirismo è certamente la più assurda». Ma perché tante persone erano fermamente convin-
cadavere è esposto a condizioni di freddo e umidità, un caso comune nell’Europa centrale e orientale. Con il processo di saponificazione gli acidi grassi si trasformano in un composto ceroso simile al sapone che ricopre il cadavere evitandone la putrefazione. Un corpo che subisce un’alterazione simile non ha l’elasticità di un vivente, ma presenta comunque una relativa flessibilità. È quindi probabile che chi si prese la briga di osser-
GRANDI ENIGMI IN TRANSILVANIA un uomo spara a un cadavere riesumato cui in precedenza era stato piantato un paletto nel cuore. Incisione del XIX secolo.
PAURE ANCESTRALI
cadavere nel sepolcro nuota nel proprio sangue». Secondo un’altra testimonianza raccolta dal monaco, «i cadaveri a guisa di sanguisughe si riempiono tanto di sangue, che si vede manifestamente uscire per i condotti, e per i pori ancora». Questo fenomeno ha una spiegazione logica: il tempo durante il quale il sangue di un defunto resta fluido dipende soprattutto dalle caratteristiche dell’ambiente in cui viene conservato. A
NURPHOTO / GETTY IMAGES
vare i cadaveri descritti nei trattati sui vampiri stesse in realtà esaminando dei corpi saponificati. Un altro segno che secondo la credenza del tempo identificava i “non morti” erano le macchie di sangue che presentavano alcuni cadaveri riesumati. Calmet lo racconta così: «Vengono a succhiare il sangue […] in tanta abbondanza, che talvolta gli esce dalla bocca, dal naso e particolarmente dalle orecchie, sicché non di rado il
CALMET RITENEVA che i vampiri fossero originari dell’Europa orientale. Si diceva che il nome significasse “sanguisuga” in slavo. La credenza nei “non morti” è antica; lo dimostrano gli scheletri medievali con picchetti di ferro piantati nella zona del cuore, come quello qui sotto.
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GRANDI ENIGMI
ZOLFO E FUOCHI FATUI IL MITO dei vampiri fu
MARY EVANS / SCALA, FIRENZE
alimentato da alcuni fenomeni naturali come ad esempio l’odore di zolfo che sprigionavano dei cadaveri in decomposizione oppure l’avvistamento di fuochi fatui, delle fiammelle di colore blu che a volte apparivano sulla tomba di un defunto. Questo fenomeno in realtà è dovuto alle emanazioni d’idrogeno e fosforo del cadavere che, entrando in contatto con l’ossigeno dell’aria, s’infiammano spontaneamente. LA FINE DI UN VAMPIRO. INCISIONE DI LES TRIBUNAUX SECRETS, 1864.
basse temperature può rimanere liquido per più di tre o quattro giorni. Nei casi di sospetto vampirismo, se i corpi venivano riesumati entro questo margine di tempo era dunque possibile trovarli ancora con «le vene […] piene di sangue fluido».
In ogni caso, un rallentamento del processo di coagulazione può essere determinato da vari fattori. Quando si legge di cadaveri con macchie di sangue attorno alla bocca o che nuotano nel proprio sangue (sicuramente un’esagerazione), potrebbe trattarsi semplicemente di un’emorragia post mortem prodottasi proprio in questa fase di fluidità ematica.
Un colpo subìto durante il trasporto al cimitero o mentre la bara viene calata nella tomba può provocare un trauma e la conseguente fuoriuscita più o meno abbondante di sangue dal naso o dalla cavità orale. Inoltre la concentrazione di enzimi anticoagulanti nel plasma di un morto può variare a seconda delle cause del decesso. Ci sono quindi varie
Il sangue in bocca o i capelli lunghi erano un indizio della trasformazione di un morto in vampiro NOSFERATU. VERSIONE CINEMATOGRAFICA DI DRACULA, IL VAMPIRO PIÙ FAMOSO DELLA STORIA. ALBUM
spiegazioni naturali per le perdite ematiche dagli orifizi del volto di un cadavere senza che sia necessario ricorrere al vampirismo come invece vorrebbe la credenza popolare.
Grida dall’oltretomba Le leggende tramandano che per porre fine alle apparizioni di un vampiro era necessario dissotterrarlo e piantargli un paletto nel cuore. Appena pugnalato, il cadavere avrebbe emesso un grido. Nelle sue Dissertazioni Calmet riporta uno di questi casi: un governatore locale «fece ficcare, secondo il solito, un palo acuto nel
Come uccidere un vampiro
ROYAL ARMOURIES MUSEUM / ALAMY / ACI
LA PAURA DEI VAMPIRI spinse la gente a cercare rimedi contro eventuali attacchi. Per respingerli, i contadini dell’Europa orientale indossavano collane d’aglio e sfregavano i bambini e il bestiame con i bulbi della pianta. Ma il metodo più efficace consisteva nel piantare un paletto nel cuore del cadavere, tagliarne la testa e bruciarne i resti.
ATTREZZATURA ANTIVAMPIRO COMPOSTA DA STRUMENTI DEL XIX E XX SECOLO, IN PARTE ISPIRATI AI ROMANZI E AL CINEMA. ROYAL ARMORY MUSEUM, LEEDS.
cuore del morto […], e trafiggerlo da una parte all’altra, tal che colui gettò un orribile grido, come se fosse vivo». L’urlo era dunque considerato un’altra prova del fatto che i vampiri fossero ancora in vita e solo la procedura del paletto poteva ucciderli davvero. Ma ovviamente anche episodi di questo tipo hanno una spiegazione scientifica. La violenza del colpo inferto con la stecca causa la rapida fuoriuscita dell’aria presente all’interno della cassa toracica del cadavere, che transitando per la gola può produrre una specie di suono. Chi assisteva alla
riesumazione e piantava il piolo nel cuore del defunto interpretava il rumore simile a un ruggito come un grido di dolore.
Le unghie e i capelli Un altro sicuro indice di vampirismo era quello dei morti «cui cresce la barba, i capegli, le unghie». Naturalmente quando una persona muore le cellule non ricevono più nutrimento e i capelli e le unghie smettono di crescere, sebbene alcune illusioni ottiche possano dare l’impressione opposta. Nel caso dei capelli, i processi post mortem di essiccazione, disidratazione
e ritrazione della pelle del cranio può lasciare scoperte delle parti prima nascoste sotto il cuoio capelluto. La chioma dei defunti inoltre tende a ricadere all’indietro dando la sensazione di essere cresciuta. Lo stesso accade con le unghie che, quando l’epidermide delle dita si ritrae appaiono più lunghe di quanto non siano realmente. Una rilettura degli antichi casi di vampirismo dimostra quindi che le credenze popolari erano alimentate da un’osservazione accurata dei cadaveri e di molti fenomeni allora apparentemente soprannaturali.
Le spiegazioni però erano tutt’altro che scientifiche. In una certa misura, dunque, la credenza nei vampiri non era altro che il prodotto dell’ignoranza in merito ai processi di decomposizione e alle cause di alcuni fenomeni naturali oggi perfettamente spiegabili. —Óscar Urbiola Per saperne di più SAGGI
Dissertazioni sopra le apparizioni de’spiriti e sopra i vampiri Agostino Calmet. Arktos, Carmagnola, 1986. Il libro dei vampiri. Dal mito di Dracula alla presenza quotidiana Fabio Giovannini. Dedalo, Bari, 1997.
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GRANDI SCOPERTE
I kurgan congelati della cultura di Pazyryk Nella prima metà del novecento Sergei Rudenko fece interessanti scoperte nei tumuli della regione montuosa dell’Altaj basse può conservarsi per periodi lunghissimi. Ciò permise a Radloff di ritrovare non solo i classici manufatti metallici, ma anche frammenti di legno, pelle e feltro.
RUSS IA
Monti Altaj PA Z Y RY K
KAZAKISTAN
MONG OLIA
CINA MAR GIALLO
che trasudava un misto d’invidia e disprezzo. Nel XIX secolo, pur proseguendo le spoliazioni, i kurgan cominciarono a destare l’interesse degli archeologi. Nel 1865 Vasilij Radloff, lo storico russo di origine tedesca padre dell’archeologia siberiana, effettuò gli scavi di due grandi tumuli a Berel e Katanda, nei monti Altaj, scoprendo che internamente erano congelati. Se in condizioni normali la materia organica inizia a decomporsi poco dopo la sepoltura, a temperature estremamente
1865
Effettuando degli scavi nell’Altaj, Vasilij Radloff scopre due grandi tumuli funerari congelati.
1924
Prime campagne Nei decenni successivi i kurgan congelati non furono più oggetto di scavi, finché nel 1924 l’Istituto di archeologia sovietica diede avvio a un ambizioso progetto archeologico e antropologico nell’Altaj con l’obiettivo di ampliare la conoscenza delle popolazioni indigene della regione e del loro passato. Fu nominato direttore l’antropologo Sergej Rudenko – che aveva trascorso la sua adolescenza in Siberia ed era fortemente interessato alla cultura e alla storia di questa regione. Durante l’estate dello stesso anno lo studioso
Sergej Rudenko è nominato direttore di un progetto archeologico nella valle di Pazyryk.
1929
GEORG GERSTER / AGE FOTOSTOCK
A
partire dall’età del bronzo gli abitanti delle steppe europee iniziarono a seppellire i loro morti e i rispettivi averi in dei tumuli funerari chiamati in russo “kurgan”. Nel caso di tombe di nobili e di re il corredo funerario era costituito in genere da manufatti d’oro e d’argento che esposero i kurgan a frequenti saccheggi. Episodi di questo tipo erano così comuni in Russia che i predoni di sepolcri venivano chiamati schastlivichiki (uomini fortunati), un termine
condusse una missione della durata di 47 giorni nella valle di Pazyryk, situata a milleseicento metri di altitudine sull’altopiano di Ukok. Con la collaborazione del suo discepolo Mikhail Griaznov,
Rudenko e il suo discepolo Griaznov effettuano lo scavo di un grande kurgan congelato a Pazyryk.
1947
Dopo 18 anni Rudenko ritorna a Pazyryk e realizza lo scavo dei tumuli restanti.
COPERTA DA SELLA DECORATA CON UN GRIFONE CHE ATTACCA UNA CAPRA DI MONTAGNA. V SECOLO A.C. FINE ART / AGE FOTOSTOCK 122 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
SCAVO di un kurgan nella valle di Pazyryk, nella regione dell’Altaj. Il nome della valle deriva da una civiltà nomade che abitava la zona.
UN EVENTO POLITICO L’OBIETTIVO delle sontuose inumazioni di
Nel 1929 prese il via una nuova campagna di scavi in cui Rudenko e Griaznov si concentrarono proprio sul kurgan 1. Non appena i due archeologi si misero al lavoro si resero conto che il tumulo, di 45 metri di diametro per quattro di altezza, era già stato saccheggiato nell’antichità. Seguendo il pozzo scavato dai ladri per introdurvisi, Rudenko e Griaznov scoprirono una camera sepolcrale fatta di travi di legno e colma di ghiaccio. Il problema
RICOSTRUZIONE DEL FUNERALE DI UN CAPO PAZYRYK.
SPUTNIK / ALBUM
Rudenko individuò 40 strutture suddivise in circoli di pietre, aree lastricate ovali e circolari, pietre conficcate verticalmente nel terreno e 14 tumuli sepolcrali, otto dei quali vennero documentati. Se lo scavo dei circoli di pietre non diede particolari risultati, l’esplorazione di uno dei kurgan più grandi, il “kurgan 1” si rivelò alquanto promettente: l’interno era infatti congelato, come quelli studiati da Radloff quasi sessant’anni prima.
Pazyryk era esibire il potere e la ricchezza dei defunti e manifestare l’intenzione dei loro discendenti di ereditare quello status privilegiato. Ciò rendeva il funerale un evento politico oltre che religioso.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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GGRRAANNDDI I SSCCOOPPEERRTTEE
Due donne sontuosamente vestite pregano davanti a un incensiere. Particolare di un tessuto, forse di origine persiana.
1.
I tesori del kurgan numero 5 ANCHE SE TUTTI I TUMULI furono
saccheggiati pochi anni dopo la loro costruzione, in due di essi si conservò una parte significativa del corredo funebre. Nel kurgan 2 gli oggetti che formavano il corredo erano rimasti congelati nello strato di ghiaccio. Nel kurgan 5 invece erano stati collocati all’esterno della camera funeraria accanto ai cavalli sacrificati, e non furono toccati dai predoni.
Mummia del proprietario della tomba, un uomo di circa 55 anni, alto 1,75 m.
2.
Carro funebre probabilmente utilizzato per trasportare la bara con il corpo fino al tumulo.
3.
Come si congelarono
1. CM DIXON / AGE FOTOSTOCK. 2. PRISMA / ALBUM. 3. SOVFOTO / AGE FOTOSTOCK
GRANGER / AURIMAGES
SEZIONE DEL KURGAN 5 E PARTICOLARE DELLA FOSSA SEPOLCRALE.
principale era rappresentato dalla durezza del terreno congelato. Gli strati di ghiaia, in particolare, avevano una consistenza simile a quella del cemento. Quando si era trovato di fronte allo stesso ostacolo, Radloff l’aveva superato sbrigativamente accendendo dei falò sul terreno per scongelarlo. Rudenko e Griaznov invece furono più cauti e optarono per un sistema meno aggressivo, che consisteva nel versare acqua bollente sul ghiaccio. Mentre la camera sepolcrale si sgelava e poco a poco tornava alla luce, le travi utilizzate nella costruzione del kurgan iniziavano a emanare
un intenso odore di resina: il legno sembrava aver conservato lo stesso profumo di secoli e secoli addietro. I due archeologi scoprirono che i ladri avevano razziato quasi tutto il contenuto del kurgan a eccezione del feretro, che consisteva in un enorme tronco scavato. In una delle zone laterali della camera li attendeva poi una grande sorpresa: i corpi di dieci cavalli custoditi nel ghiaccio. Erano nella stessa posizione in cui dovevano essere caduti all’incirca duemila anni prima, dopo essere stati sacrificati sull’orlo della fossa. I loro lussuosi finimenti, decorati con pezzi
non sono abbastanza a nord perché il terreno geli tutto l’anno, ma la particolare struttura dei kurgan ne facilitò il congelamento. Il primo livello, costruito con la terra scavata dalla tomba sepolcrale, fu ricoperto con un strato di pietre e ghiaia. Questo permise la filtrazione dell’acqua piovana – che ghiacciò nel corso del primo inverno – e isolò l’interno del tumulo dal caldo estivo, impedendone lo scongelamento. Il risultato sono delle cappe di permafrost, ovvero strati di terreno gelato, che si sono conservate per oltre duemila anni. I MONTI ALTAJ
Cappe di permafrost
di legno e cuoio, e in alcuni casi ricoperti di foglia d’oro, permettevano d’intuire la ricchezza del corredo funerario che era stato trafugato.
Deportato in un gulag Visto il successo della campagna, i due studiosi speravano in scoperte ancora più spettacolari. Purtroppo però l’anno successivo il progetto fu bruscamente interrotto dall’arresto di Rudenko, accusato di far parte di un gruppo monarchico controrivoluzionario guidato dall’archeologo Sergej Platonov. In realtà questo gruppo non era mai esistito e Rudenko fu vittima di una
delle tipiche ondate repressive del periodo stalinista. Nonostante fosse innocente, fu condannato a dieci anni di lavori forzati in un gulag. Gli assegnarono incarichi inerenti alle opere di costruzione del canale del mar Bianco, che si svolgevano in condizioni estremamente dure e senza l’ausilio di macchinari pesanti. Inizialmente destinato al taglio del legno, Rudenko avrebbe potuto essere uno dei 12mila prigionieri che morirono nel corso dei lavori. Ma ben presto le sue straordinarie capacità furono riconosciute e venne trasferito alla direzione tecnica del progetto. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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GGRRAANNDDI I SSCCOOPPEERRTTEE
Maschera per cavalli a forma di cervo e finimenti provenienti dal kurgan 1.
Decorazione lignea per redini che rappresenta una capra di montagna.
1.
Vestigia dell’Età del ferro L’“EFFETTO PERMAFROST” preservò gli oggetti
fabbricati in materiali organici, come il legno, la pelle e il feltro. È così che sono arrivati fino a noi vari manufatti di uso quotidiano dei nomadi dell’Altaj, come abiti, utensili e persino strumenti musicali. 2.
1.
Decorazione in corno per redini con un motivo di loti proveniente dal kurgan 2.
4.
Suola di una calzatura appartenente alla donna sepolta nel kurgan 2. 3.
DUE CAVALLI pascolano in una valle
1. FINE ART / AGE FOTOSTOCK. 2. PRISMA / ALBUM. 3. CM DIXON / AGE FOTOSTOCK. 4. BOLTIN PICTURE / BRIDGEMAN / ACI
DPK-PHOTO / ALAMY / ACI
dell’Altaj. I pascoli di montagna permisero ai nomadi dell’Età del ferro di colonizzare la regione.
Neppure Griaznov poté proseguire gli scavi, perché nel 1933 fu accusato di appartenere a una presunta organizzazione di nazionalisti russi e ucraini e condannato a tre anni di esilio a Kirov. Dopo aver scontato meno di un terzo della pena, Rudenko venne rilasciato, ma fu costretto ad assumere la direzione di uno dei gruppi d’idrologia dell’NKVD (l’organizzazione da cui sarebbe nato il KGB). Ciò gli impedì di riprendere il suo lavoro di antropologo e archeologo. L’invasione nazista del 1941 paralizzò definitivamente la ricerca in questi campi. Rudenko partecipò alla difesa di Leningrado e questo gli per-
mise, alla fine del conflitto, di essere esentato dai suoi obblighi verso l’NKVD e di riprendere la sua precedente carriera professionale.
Nuovi scavi Accompagnato dalla moglie e da un gruppo di collaboratori tra i quali però non figurava Griaznov, Rudenko tornò nella valle di Pazyryk nel 1947. Gli scavi dei restanti tumuli si protrassero per tre estati, con risultati simili a quelli ottenuti con il kurgan 1. Tutte le tombe avevano una struttura simile, erano state saccheggiate poco dopo le cerimonie di sepoltura e presentavano resti di sacrifici di cavalli
accanto alla camera sepolcrale. Due dei kurgan grandi (il 3 e il 4) e i tre piccoli (il 6, il 7 e l’8) avevano subito razzie quasi pari a quelle sofferte dal primo tumulo studiato nel 1929, mentre nei kurgan 2 e 5 furono trovati diversi pezzi rari, come un tappeto di alta qualità, probabilmente realizzato in Persia, e un grande arazzo di feltro e seta proveniente forse dalla Cina meridionale. Furono rinvenuti anche alcuni resti di cadaveri. A seguito di una pur grossolana mummificazione (erano stati asportati gli organi interni ma senza l’applicazione di sostanze essiccanti) e del successivo congelamento
erano ancora visibili i tatuaggi dei defunti. Nel kurgan 5 fu trovato anche un carro funebre di legno ancora intatto che era stato smontato prima della sepoltura. Negli anni novanta gli archeologi russi hanno ripreso gli scavi nell’Altaj ma non si sono più verificate scoperte spettacolari come i kurgan congelati di Pazyryk. —Borja Pelegero Per saperne di più SAGGI
Kurgan. Le origini della cultura europea Marija Gimbutas. Medusa Edizioni, Milano, 2010. Gli Sciti. L’oro della Siberia e del Mar Nero Veronique Schiltz. Electa Gallimard, Milano, 1995.
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L I B R I E M O S T R E A CURA DI MATTEO DALENA STORIA DELLA SCIENZA
quello di alcuni chirurghi maschi sempre più scientificamente interessati al corpo delle donne. Madame Boivin (Marie-Anne Victoire Gillain, 1773-1841), la prima sage-femme o levatrice a diventare medico pericoloso e fragile equili- insieme a Stéphane Tarnier brio: sembrava bastasse un (1828-1897), “l’architetto attimo perché il giorno più della perinatologia” (ovvero bello potesse trasformarsi lo studio globale dei pronel più funesto, perché si blemi concernenti la salute perdesse la vita donandola». materna e fetale nel periodo A scriverlo è Paola Cosma- perinatale) rappresentavano cini, storica della medicina avanguardie parigine di “arche dedica un’accurata in- ti” che ambivano allo status dagine al progresso della di scienze. Dotati di un sascienza ostetrica e gineco- pere istituzionalizzato e di logica e al “legame sottile” uno strumentario adeguato, che, nel corso dell’ottocento dalla metà dell’ottocento francese, congiungeva due i chirurghi «tenderanno mondi: quello delle leva- lentamente ma inesoratrici in possesso di un’arte bilmente a occupare tutto arcaica tutta femminile e il campo».
Venire al mondo nella Francia dell’ottocento
C Paola Cosmacini
UN LEGAME SOTTILE Baldini+Castoldi, 2019; 215 pp.; 17 ¤
ure e attenzioni che donne gravide e partorienti ricevono oggi sia dal punto di vista medico-sanitario sia da quello sociale rappresentano conquiste necessarie in termini di civiltà. Nel corso di due secoli il parto e le sue adiacenze, compresa l’arte dell’assistenza al neonato, sono notevolmente cambiati, per cui ciò che ora può dirsi sicuro prima era considerato un “affare” complesso: «Nel parto, vita e morte sono state in
STORIA SOCIALE
«Nessuna bestia beveva per forza ed era atto sgradevole costringere un convitato a farlo senza voglia». Così, riprendendo Marcell Mauss, l’antropologo Giovanni Sole passa in rassegna una delle tante usanze del passato allo prosperità e salute, spesso scopo di spiegare come le accompagnando l’atto con proibizioni a tavola «posbrevi componimenti poe- sono essere analizzate in tici che, ideati da raffinati prospettive molteplici ma rimatori, stimolavano l’alle- è del tutto inutile trovare gria dei commensali oltre ad origini o spiegazioni poiché avere contenuti educativi. contengono in sé motivaTuttavia il “bere alla salute” zioni addirittura opposte». era avversato da varie nor- Il risultato è un saggio sulle me fissate nella trattatistica buone o cattive maniere alla d’età moderna: un’usanza base dei galatei dal XVI al considerata assurda o ad- XIX secolo, ma anche un vadirittura riprovevole, degna lido esercizio metodologico del basso popolo che per via che, situato sul confine tra di esternazioni rese audaci storia e antropologia, mette dall’alcol dava vita a offese, ordine nel complesso monlitigi e zuffe. Ma c’è di più: do di regole e tabù secolari.
Brindare oppure no? Ce lo dicono i galatei
T Giovanni Sole
ANTROPOLOGIA DELLE BUONE MANIERE Rubbettino, 2019; 116 pp.; 13 ¤
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ra licenziosità e proibizioni, usi inveterati e tabù, buona o cattiva creanza, le norme dello stare a tavola sono (ed erano) un fatto di pura opinione e di difficile interpretazione. La diffusa usanza del brindisi augurale, con il fastidioso o, al contrario, il piacevole tintinnar di calici a far da sfondo a certi banchetti o ricorrenze, era soggetta a pareri contrastanti. Brindavano i patrizi greci alzando i calici al fine di celebrare amicizia,
ANTIQUARIATO
ARTE ORIENTALE
Pace e bellezza nell’antica Cina
E STATUINA IN CERAMICA DI UN COMICO.
Periodo Han orientale (25-220 d.C.). Larghezza 40 cm, altezza 60 cm. Museo di Chengdu. MORTALI IMMORTALI, TESORI DEL SICHUAN Roma, Museo dei fori imperiali Fino al 18 ottobre 2019 www.mercatiditraiano.it
ra un’esistenza ricca, pacifica, condotta all’insegna dell’ottimismo e dell’atteggiamento romantico quella degli shu, industrioso popolo che durante il periodo che va dal 1600 a.C. (epoca Shang) al II secolo d.C. (epoca Han) abitava la “terra dell’abbondanza”. Così era detta la pianura di Chengdu situata nel bacino del Sichuan, nel sud-ovest della Cina, dove lungo le sponde dello Yangtze (il fiume azzurro) il popolo degli Shu aveva sviluppato una civiltà dotata di una particolare predisposizione all’eleganza e alla
bellezza. A testimoniarlo 130 reperti in bronzo, oro, giada e terracotta rinvenuti a partire dagli anni ottanta del novecento nei siti di Sanxingdui e Jinsha e oggi al centro della mostra curata dall’archeologa Wang Fang. Preziosi in oro, enigmatiche maschere e statue in bronzo, ornamenti raffinati in giada, oggetti in legno con colori e motivi vivaci, figure in ceramica, statuette di animali e ritratti su mattoni raffiguranti scene di vita quotidiana restituiscono, a detta della curatrice, «un mondo spirituale ottimista, inclusivo e innovativo».
ARTE ORIENTALE
DIPINTI SACRI RACCONTANO IL BUDDISMO VAJRAYANA NELLA GALLERIA della regio-
ne himalayana del MAO sono visibili per la prima volta 25 thang-ka, tessuti dipinti arrotolabili e databili tra il XVII e il XIX secolo. Considerati sacri nella tradizione religiosa tibetana, venivano eseguiti a tempera su un supporto di cotone trattato con gesso e caolino (roccia sedimentaria costituita da caolinite). Tra i soggetti iconografici del buddismo tantrico o vajrayana (in sanscrito, “veicolo adamantino” o
STORIE DI MANDHATAR, CANDRAPRABHA, SUPRIYA. Tibet
orientale (Khams), XVIII secolo. Tempera su cotone. 79x53 cm.
“della folgore”) spiccano cinque grandi Buddha cosmici, emanazioni di un Buddha primordiale personificazione dell’illuminazione innata.
CAPEZZALE in rame dorato, corallo e smalti con al centro la figura della Vergine circondata da angeli. Trapani, prima metà XVII secolo. 39,5 x 35 cm.
LA BIENNALE DI FIRENZE COMPIE 60 ANNI di palazzo Corsini si terrà la trentunesima edizione della manifestazione antiquaria inaugurata nel 1959 da Mario e Giuseppe Bellini. Dipinti, sculture, disegni, mobili, oggetti d’arte, libri antichi: le migliori opere realizzate da maestri italiani o stranieri che hanno lavorato in Italia saranno esposte grazie a 77 gallerie specializzate nelle più diverse discipline artistiche. Il proposito del segretario generale Fabrizio Moretti è far sì «che la BIAF possa portare alla luce tutte quelle opere che sono importanti documenti della storia dell’arte». NELLE SALE BAROCCHE
SULLA VIA DELLA FOLGORE DI DIAMANTE
BIENNALE INTERNAZIONALE DELL’ANTIQUARIATO DI FIRENZE
Torino, MAO (Museo d’arte orientale). Fino al 5 aprile 2020. www.maotorino.it
Palazzo Corsini. Dal 21 al 29 settembre 2019. www.biaf.it
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Prossimo numero L’ORIGINE DELLE LINEE DI NAZCA
BERTRAND GARDEL / GTRES
NELL’INOSPITALE costa del sud del Perù si trova una delle manifestazioni artistiche più sorprendenti dell’umanità: le linee di Nazca, geoglifi di centinaia di metri di diametro tracciati nel deserto dalle popolazioni che abitarono la zona tra il III secolo a.C. e il IX secolo d.C. Il simbolismo delle immagini, spettacolari viste dall’alto anche se non furono pensate per essere osservate da questa prospettiva, è stato messo in relazione con l’acqua, l’astronomia e la religione.
ATAPUERCA, ALLA RICERCA DEL PRIMO EUROPEO I GIACIMENTI preistorici più importanti
dell’Europa occidentale si trovano ad Atapuerca. I resti, che risalgono a più di un milione di anni fa, hanno indotto gli archeologi a riconsiderare quale fu il primo ominide che arrivò nel vecchio continente e in quale epoca. La loro scoperta ha permesso anche di conoscere meglio i costumi dell’Homo antecessor, come ad esempio la pratica del cannibalismo. SCIENCE PHOTO LIBRARY / AGE FOTOSTOCK
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Geroglifici, la scrittura in Egitto Per tre millenni gli antichi egizi utilizzarono un sistema di scrittura affascinante e misterioso in cui le parole si rappresentavano con immagini invece che con lettere.
Maratona, il trionfo degli opliti Nel 490 a.C. diecimila ateniesi riuscirono a imporsi sull’esercito persiano nella battaglia di Maratona, dimostrando la loro superiorità contro un intero impero.
Il palazzo di Diocleziano Nel IV secolo d.C. l’imperatore Diocleziano abdicò e si ritirò sulle coste della Dalmazia dove fece costruire un magnifico palazzo che diede origine alla città di Spalatum.
L’affare dei veleni a Versailles Un’indagine del 1679 portò alla luce un intreccio di avvelenamenti e atti di stregoneria che vide implicata anche la cerchia ristretta della corte di re Luigi XIV.
Al di là delle (prime) Colonne d’Ercole (al Canale di Sicilia) c’era un’Isola…
La Sardegna di Atlante. Il Primo Centro del Mondo L’Isola Sacra racconta i suoi Segreti
km 11.359
Appuntamenti con il Museo Domenica 8 settembre, ore 18.00. Al Teatro Murgia: “Operazione Obelix”, Incontro internazionale sul megalitismo del Centro Sardegna.
40°
km 11.350
I 200 MENHIR DI BIRU ‘E CONCAS A SORGONO (Centro Sardegna)
Domenica 29 settembre, ore 18.30 Al Teatro Murgia: “Sardegna, le radici della Storia” di e con Mario Tozzi ed Enzo Favata. Partecipa Sergio Frau.
Appuntamenti con il Museo Sabato 5 e domenica 6 ottobre, ore 18.00. 2° Festival del Passato Remoto. Rassegna di Maestri Artigiani che presentano i loro Lavori all’Antica.
Domenica 6 ottobre, ore 11.00 2° Festival del Passato Remoto. Al Teatro Murgia: “40° Parallelo Nord: il Primo Equatore?” Incontro internazionale sulla Geografia degli Antichi.
www.museodisorgono.it
INFORMAZIONI: Pro Loco 3400680386 - Museo 3203468292 (aperto sabato e domenica)
Curatore Sergio Frau