Storica National Geographic - ottobre 2019

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DOVE NACQUERO I PRIMI EUROPEI

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VELENI A VERSAILLES LE LINEE DI NAZCA

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periodicità mensile

ATAPUERCA

N. 128 • OTTOBRE 2019 • 4,95 E

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I GEROGLIFICI

UNA SCRITTURA ENIGMATICA

LA BATTAGLIA DI MARATONA DIOCLEZIANO

L’IMPERATORE CHE RINUNCIÒ AL TRONO




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EDITORIALE

DISEGNI TRACCIATI su papiri e pareti migliaia di anni fa raccontano

la storia. La scrittura geroglifica ha incantato per secoli studiosi, curiosi e appassionati. Ormai quasi totalmente decifrati, questi segni fanno luce su un passato maestoso in cui i re venivano chiamati faraoni e i loro corpi venivano mummificati e conservati per l’eternità in tombe più belle e fastose dei palazzi eretti per i vivi. Ma erano un sapere per pochi, una prerogativa delle élite: dovevano custodire ciò che era sacro e tramandare ai posteri le gesta dei sovrani d’Egitto. Erano insomma una scrittura nobile ed esclusiva come l’argomento che trattavano. E i sudditi? Coloro che morivano durante il susseguirsi dei lavori per la costruzione della dimora eterna del faraone? Non c’è spazio per loro nell’intrico di simboli che tramandano le gesta dei governanti impegnati nei giochi di potere e del tutto estranei ai problemi della gente. Se dunque l’essenza di una civiltà è affidata al sapere di pochi, coloro che ne sono esclusi diventano numeri, unità, esecutori materiali del volere di una sovranità aliena. E mentre si descrive la magnificenza delle corti e la benevolenza dei potenti, i sudditi rimangono relegati a mera cornice decorativa, un’aggiunta, un complemento, un qualcosa da cui si può prescindere. Quando JeanFrançois Champollion decifrò i geroglifici, il mondo pensò di poter finalmente gettare luce su uno dei regni più misteriosi e affascinanti dell’umanità. Ma quando si racconta la storia di un Paese solo attraverso le gesta dei reggenti si rischia di perdere la sua vera essenza, di conoscere solo il percorso dei grandi, dimenticandosi del popolo.


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10 PERSONAGGI STRAORDINARI

24 DATO STORICO

Brooke, il rajah bianco del Borneo

La dichiarazione dei redditi

Nel 1841 un avventuriero inglese comprò una piccola goletta con cui viaggiò per il continente asiatico. Grazie all’aiuto prestato a un sultano, fu nominato rajah.

Nel 1799 l’Inghilterra istituì la tassa sul patrimonio per far fronte alle spese generate dalla guerra contro la Francia.

118 GRANDI ENIGMI

16 ANIMALI NELLA STORIA

I khevsur, crociati del Caucaso

Il mistero dell’ornitorinco

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Una tribù della Georgia visse fino al XX secolo secondo i costumi e le tradizioni dei crociati medievali europei.

La scoperta di questo piccolo mammifero causò sconcerto negli europei che arrivarono in Australia nel XVIII secolo.

122 GRANDI SCOPERTE

Le tombe etrusche dei Campanari

20 VITA QUOTIDIANA

Le droghe in Grecia e a Roma Sostanze come l’oppio o la cannabis, ma anche belladonna, mandragora e stramonio, venivano utilizzate come farmaci, a scopo ludico e in cerimonie religiose. 6 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Il ritrovamento di alcuni reperti etruschi da parte della famiglia Campanari nel XIX secolo diffuse in Europa l’interesse per questa antica cultura.

128 LIBRI 122


26 I GEROGLIFICI: LA SCRITTURA MISTERIOSA PER OLTRE tre millenni in Egitto si utilizzò la scrittura geroglifica, composta da migliaia di simboli che uniti formavano i concetti. Era riservata a un gruppo ristretto di scribi capaci di dominare centinaia o anche migliaia di disegni e di interpretarli secondo le circostanze. Come se non bastasse, per esprimere determinate idee gli scribi svilupparono la cosiddetta “scrittura enigmatica”. DI MARINA-ESCOLANO POVEDA

RAPPRESENTAZIONE DEL CICLO LUNARE DI 15 GIORNI, DALLA LUNA NUOVA ALLA LUNA PIENA. TEMPIO DI HATHOR A DENDERA.

44 Atapuerca, la rivoluzione della preistoria Il sito archeologico di Atapuerca, in Spagna, ha cambiato la visione della preistoria in Europa rivelando tra le altre cose l’anello mancante tra neandertaliani e sapiens: l’Homo antecessor, che arrivò in Europa un milione di anni fa. DI ANTONIO ROSAS

74 L’abdicazione di Diocleziano Nel 305, per la prima volta nella storia, un imperatore romano rinunciò al trono di sua spontanea volontà. Dopo vent’anni di regno Diocleziano decise di ritirarsi nel suo sontuoso palazzo a Spalatum, l’odierna Split. DI JUAN PABLO SÁNCHEZ

88 Le linee di Nazca Un alone di mistero circonda i giganteschi animali e le forme geometriche tracciati dai nazca più di mille anni fa sul suolo dell’arida costa sud del Perù. Gli scopi di questi geoglifi sono tuttora sconosciuti. DI ARIADNA BAULENAS

104 Avvelenamenti a Versailles Nel 1679 venne scoperta una rete di traffico di veleni. Tra i clienti figuravano anche esponenti della corte francese come ad esempio madame de Montespan, l’amante di re Luigi XIV. DI ADELA MUÑOZ PÁEZ

62 Maratona, il

trionfo degli opliti

Il drammaturgo ateniese Eschilo fu uno dei diecimila uomini che il 12 settembre del 490 a.C. lottarono contro gli invasori persiani nella pianura di Maratona. La vittoria finale degli opliti di fronte a un esercito decisamente superiore garantì l’indipendenza alla Grecia e fu ragione di orgoglio per tutti coloro che parteciparono alla battaglia. DI JAVIER NEGRETE

KYLIX RAFFIGURANTE LO SCONTRO TRA UN OPLITA (A DESTRA) E UN GUERRIERO PERSIANO. 460 A.C.

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IL RAGAZZO DELLA GRAN DOLINA. RICOSTRUZIONE ARTISTICA DI UN FOSSILE DI HOMO ANTECESSOR TROVATO AD ATAPUERCA, SPAGNA. SPL / AGE FOTOSTOCK

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Pubblicazione periodica mensile - Anno XI - n. 128

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PERSONAGGI STRAORDINARI

James Brooke, il rajah bianco del Borneo Nel 1841 un avventuriero britannico riuscì a ottenere dal sultano del Brunei il controllo del Sarawak, una regione in cui diede vita a un regno indipendente

T

ra il XIX e il XX secolo, nel pieno apogeo dell’epoca vittoriana, l’impero britannico raggiunse la sua massima estensione arrivando a controllare territori che andavano dal Canada alla Nuova Zelanda, dalle Falkland a Hong Kong. Tale dominio planetario fu possibile grazie a soldati, esploratori o semplici avventurieri i cui nomi ancora evocano tempi eroici: James Wolfe, Robert Clive, Cecil Rhodes, Lawrence d’Arabia… Alla lista va aggiunto un semplice tenente che nel Borneo divenne re: James Brooke, il rajah bianco di Sarawak. Brooke, figlio di uno dei giudici britannici al servizio della Compagnia delle Indie orientali – che allora governava l’India – nacque a Bandel nel 1803. A dodici anni fu mandato in Inghilterra per studiare a Norwich, ma era un ragazzo poco diligente e piuttosto desideroso di azione. Scappò dall’istituto e i genitori, ormai ritiratisi a Bath, l’obbligarono a studiare a casa con insegnanti privati. Nel 1819 tornò in India e si arruolò come tenente nell’esercito privato della Compagnia delle Indie orientali.

L’inglese seduto su un trono asiatico 1803 James Brooke nasce in India e nel 1819 si arruola nell’esercito della Compagnia delle Indie orientali.

1830 Dopo che una grave ferita lo allontana dalla carriera militare Brooke si dedica al commercio e naviga per il sud-est asiatico.

1839 Esplora il Borneo e aiuta il sultano del Brunei in modo da guadagnarsi la sua fiducia. È nominato rajah di Sarawak nel 1841.

1867 Il nipote di Brooke prende il suo posto sul trono di Sarawak. L’anno dopo l’avventuriero muore in patria.

MA R CI N ESE ME RI DI O NA LE

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Kuching

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Charles Vyner Brooke cede la sovranità del Sarawak alla corona inglese sotto forma di colonia.

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OCEANO IN DIANO

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Spirito avventuriero Durante la Prima guerra anglo-birmana, nel 1825, Brooke fu gravemente ferito a un polmone e dovette tornare a curarsi in Inghilterra. Alcuni dei suoi primi biografi collocano la ferita sui genitali e identificano con questo episodio il suo scarso interesse per le donne – non si sposò mai e sembra che non ebbe discendenti, anche se gli è stato attribuito un figlio illegittimo. In effetti è logico pensare che in piena età vittoriana la sua presunta omosessualità stridesse con l’immagine di eroe romantico e di audace soldato. La convalescenza durò fino al 1830 e poiché le regole della Compagnia delle Indie orientali stabilivano che i dipendenti non potessero allontanarsi dall’incarico per più di cinque anni, quando Brooke tornò in Asia si vide costretto a rinunciare all’esercito. Allora cercò fortuna nel commercio con la Cina, ma non riuscì ad arricchirsi e fece dunque ritorno a casa a mani vuote. Poco dopo, nel 1835, il

FILIPPINE

THAILANDIA

1946

In quel periodo si dedicò alla caccia, a commettere follie di gioventù e a prendere parte a diverse battaglie che man mano trasformarono l’India in una colonia britannica.

N E S I A

Brooke usò l’eredità paterna per comprare una goletta con cui esplorare il sud-est asiatico


AVVENTURE E PRODEZZE LETTERARIE JAMES BROOKE divenne il mo-

dello di avventuriero britannico che si era fatto da solo e le sue peripezie ispirarono alcuni personaggi romanzeschi. Joseph Conrad per esempio prese spunto da lui per il personaggio di Lord Jim ed Emilio Salgari lo presentò come l’antagonista di Sandokan nel terzo romanzo della serie I pirati della Malesia. Perfino Rudyard Kipling lo menzionò nel racconto The Man Who Would Be King (L’uomo che volle farsi re), il cui protagonista, Dravot, commenta che «il rajah Brooke sarà un poppante in confronto a noi». RITRATTO DI JAMES BROOKE. OLIO DI FRANCIS GRANT DEL 1847. FU DONATO ALLA NATIONAL PORTRAIT GALLERY DI LONDRA NEL 1910. DEA / ALBUM

padre morì lasciandogli una fortuna considerevole. Brooke la usò per comprare una goletta armata di sei cannoni, la Royalist, con cui sperava di «poter librare battaglia come pure volare lontano dal pericolo». E in effetti viaggiò per il Mediterraneo, attraversò l’oceano Indiano e giunse a Singapore. Qui ascoltò per caso il racconto di alcuni marinai britannici che erano naufragati nel Sarawak, una regione nell’isola del Borneo sotto il controllo del sultano del Brunei, e che erano stati aiutati dal rajah Muda Hashim, favorito e zio del sultano

Omar Ali Saifuddin II. Il rajah gli aveva permesso di tornare a Singapore. La storia risvegliò la curiosità di Brooke, nonché la sua ambizione.

shim stava provando a soffocare una ribellione locale. Il governatore aveva infatti obbligato il popolo a lavorare nelle miniere di antimonio appena scoperte e uno dei capi tribali del Signore di Sarawak Sarawak si era sollevato contro di lui. L’inglese salpò allora alla volta del James Brooke si offrì di aiutare il Sarawak con una lettera del gover- rajah e mise al suo servizio la goletnatore britannico di Singapore che ta armata. Con l’esperienza militare ringraziava il sultano per l’aiuto of- dell’inglese la ribellione venne rapidaferto ai marinai. Giunto nel Borneo, mente schiacciata e poco dopo Brooke l’avventuriero esplorò più di cento si guadagnò la fiducia di Muda Hashim chilometri di costa non ancora rilevati. e del sultano combattendo i pirati che Risalì il fiume Sarawak fino a Kuching, mettevano a ferro e fuoco la costa. Codove venne a sapere che Muda Ha- me ringraziamento fu nominato nuovo STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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PERSONAGGI STRAORDINARI

IL RAJAH BENEFATTORE LE POLITICHE paternalistiche di Brooke aiutarono anche la popolazione indigena che si sentiva protetta dal sovrano e lo adorava quasi come un dio. L’inglese tutelava i suoi sudditi dall’avidità delle società occidentali attratte dall’antimonio e dall’oro dell’isola. Il rajah bianco difendeva pure gli interessi delle tribù locali contro i sindacati degli immigrati cinesi che lavoravano nelle miniere del Paese.

JAMES BROOKE

contratta con le autorità del sultanato del Brunei nel 1842.

UIG / ALBUM

STATUETTA IN LEGNO DEL SARAWAK. FINE DEL XIX SECOLO. LUCA TETTONI / BRIDGEMAN / ACI

governatore di Sarawak una volta che il precedente venne deposto. Con il passare del tempo però il sultano si rese conto dell’errore commesso nel consegnare un territorio così grande a uno straniero e cercò di estromettere Brooke, che nel frattempo aveva rinsaldato la propria posizione e controllava la zona grazie al sostegno

britannico. Nel 1841 il sultano si vide obbligato a riconoscere James Brooke quale rajah di Sarawak, ovvero sovrano della regione. Le pressioni imperialistiche della corona inglese spinsero Omar Ali Saifuddin II a dichiarare il Sarawak uno stato indipendente appena un anno più tardi. Nasceva così il regno di Sarawak con la sua dinastia

LA FINE DELLA DINASTIA NEL 1941 il Giappone invase il Borneo. Il rajah

di allora, Charles Vyner Brooke, era rimasto in Australia durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1946, al termine del conflitto, invece di passare la corona al fratello cedette il Sarawak all’Inghilterra: il regno fu integrato all’impero come una colonia.

CHARLES VYNER BROOKE. RITRATTO IN UNA BANCONOTA DEL SARAWAK. DEA / ALBUM

12 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

di rajah bianchi. Come se non bastasse, Brooke divenne pure il primo governatore di Labuan dal 1848 al 1852, dopo che il sultano aveva ceduto alla corona britannica anche il controllo di quest’isola strategica situata davanti alla costa del Borneo. L’atteggiamento di superiorità adottato da Brooke lo portò ad imporre le sue norme: eliminò la pirateria – in modo forse troppo violento, stando a quanto affermano i suoi detrattori – e migliorò il commercio nella zona. Mise pure fine alle lotte tribali e cercò di proibire la tradizionale caccia delle teste – conservare il cranio di una persona dopo averla uccisa. L’inglese e i suoi successori si distinsero per il rispetto degli indigeni e proibirono perfino l’ingresso ai missionari cristiani pur di assicurare la salvaguardia delle usanze del posto. Si diceva che nel giardino dietro il pa-



JERRY REDFERN / GETTY IMAGES

PERSONAGGI STRAORDINARI

KELABIT HIGHLANDS. Questa cordigliera e la fitta giungla che la copre si trovano al nord del Borneo e fanno parte della regione del Sarawak.

lazzo di Astana, a Kuching, coltivasse la stimolante noce di betel per offrirla fresca ai capi daiacchi in visita. Il rajah bianco trasformò tutta l’organizzazione del governo del Sarawak fondando una sorta di corpo di funzionari ispirato al Civil Service britannico, con diversi europei collocati in posti chiave che modernizzarono rapidamente il Paese e le sue istituzioni.

seph Dalton Hooker, il botanico amico di Charles Darwin, diede il nome di Nepenthes rajah alla più grande delle piante carnivore trovate nel Borneo. Malato di cuore, Brooke tornò in Inghilterra nel 1863. Quattro anni prima aveva comprato Burrator House, una piccola magione nei dintorni di Sheepstor ai margini delle lande desolate del Dartmoor, nel sud del Paese. Vi si ritirò a vita tranquilla finché si spense per Cavaliere dell’impero un attacco di cuore nel 1868. Venne Le sue gesta lo fecero divenire una ce- sepolto in una tomba di granito rosso lebrità. Nel 1847, quando tornò per un vicino alla massiccia torre della chiesa breve periodo in Inghilterra, la regina gotica di St. Leonard, a Sheepstor, e Vittoria lo glorificò nominandolo ca- accanto a lui riposano i successori. valiere e console britannico nel Borneo. Senza discendenza legittima, James Ricevette anche un riconoscimento dal Brooke aveva nominato suo erede il mondo scientifico: nel 1855 il natura- nipote Charles che regnò sul Sarawak lista Alfred Russel Wallace, che aveva fino al 1917 modernizzando il Paese con fatto visita a Brooke nei suoi viaggi per edifici e infrastrutture visibili ancora la Malesia, battezzò una grande e bella oggi a Kuching, la capitale. Alla sua farfalla con il nome di Trogonoptera morte, il trono venne occupato dal brookiana e quattro anni più tardi Jo- figlio Charles Vyner Brooke, che pro14 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

mulgò una costituzione con cui pose fine all’assolutismo per concedere più potere al parlamento. L’ultimo dei rajah bianchi del Sarawak cedette i suoi diritti alla Gran Bretagna nel 1946. Alla fine la colonia sarebbe stata integrata nella Federazione della Malesia nel 1963. Per cent’anni i Brooke governarono il Sarawak eliminando la pirateria, difendendo i diritti degli indigeni e trasformando la regione in una delle più avanzate del Borneo. Sarà forse difficile capirlo dalla semplicità delle tombe di Sheepstor, ma nell’isola ancora ricordano con nostalgia i grandi tempi dei rajah bianchi. —Jordi Canal-Soler Per saperne di più

SAGGI

Il rajah bianco Steven Runciman. Rizzoli, Milano, 1977. TESTI

I pirati della Malesia Emilio Salgari. Bur, Milano, 2014.



ANIMALI NELLA STORIA

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uando i primi europei si stabilirono in Australia, alla fine del XVIII secolo, furono sorpresi dalla fauna che popolava il continente. Senza dubbio l’animale che più attirava l’attenzione era il canguro, un grande marsupiale che come i suoi parenti, il koala e il wallby, non somigliava alle altre specie sino ad allora conosciute. Eppure la creatura più sorprendente era quella che chiamiamo oggi ornitorinco: «Si tratta di un anfibio simile al topo, ma molto più grande. I suoi occhi sono piccoli. Ha membrane sulle zampe e una coda grossa e corta. Tuttavia, l’aspetto più straordinario è il fatto

che, al posto della mandibola, presenta un becco d’anatra». La descrizione che ne fece David Collins, amministratore della colonia del Nuovo Galles del Sud, testimonia la meraviglia provata davanti a un animale che sfuggiva alle categorie della zoologia dell’epoca. Conosciuto come boondaburra, mallangong, tambreet o dulaiwarrung nelle diverse tribù locali, è protagonista di una bizzarra leggenda orale aborigena. Disobbedendo agli anziani del clan, una bella anatra di nome Daroo si avventurò fuori dallo stagno e venne rapita da Bigoon, il malvagio topo d’acqua che la obbligò a giacere con lei. Una volta incinta, Daroo riuscì a scappare

BECCO E ARTIGLI DI ORNITORINCO (A SINISTRA) DISEGNATI DA GEORGE SHAW (A DESTRA). SINISTRA: FLORILEGIUS / ALBUM. DESTRA: SPL / AGE FOTOSTOCK

16 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

e tornò allo stagno. Dopo qualche settimana depose delle uova dalle quali nacquero cuccioli con il becco e le zampe palmate come la madre e con il pelo e uno sperone velenoso dietro le zampe posteriori, eredità del padre. Erano i primi ornitorinchi.

Una frode? John Hunter, governatore della colonia e naturalista dilettante, fu il primo europeo che nel 1798 osservò un esemplare vivo di ornitorinco mentre era in compagnia di un cacciatore aborigeno nella laguna di Yarramundi, a nord di Sidney. Sorpreso, elaborò un dettagliato disegno dell’animale e mandò la pelle di un altro esemplare a Londra, dove fu esaminata da George Shaw, curatore del British Museum. Shaw ne rimase talmente sconcertato da credere che fosse una frode. E di certo non sarebbe stata la prima: all’epoca circolavano numerosi corpi mummificati di sirene, nient’altro che mirabili creazioni degli imbalsamatori cinesi i quali univano i torsi di primati alle code di pesce. Shaw pensò quindi che la pelle australiana appartenesse a un topo d’acqua al quale avevano cucito parti di un’anatra. «Di tutti i mammiferi conosciuti», scrisse, «questo è il più straordinario quan-

AGE FO TOSTO C

PELLE DI ORNITORINCO STUDIATA DA SHAW E CONSERVATA NEL NATURAL HISTORY MUSEUM DI LONDRA.

SPL /

Gli europei che nel XVIII secolo giunsero nel continente australiano rimasero senza parole alla vista di un mammifero dal becco d’anatra che deponeva uova: l’ornitorinco

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L’animale più strano del mondo


ORNITORINCO rappresentato

BRIDGEMAN / ACI

dall’illustratore John Lewis nel 1810. State Library of New South Wales, Sidney.

to a morfologia. Presenta un becco d’anatra innestato sulla testa di un quadrupede. A prima vista, fa pensare a qualche ingannevole trucco». Tuttavia, quando lo esaminò a fondo non trovò i segni di cucitura che svelassero l’inganno e alla fine si convinse che era un vero animale.

Una denominazione curiosa Shaw battezzò la creatura con il nome scientifico di Platypus anatinus (anatra dai piedi piatti), ma il termine platypus era già stato utilizzato per descrivere un genere di scarafaggi. Nel 1800 l’anatomista tedesco Johann Friedrich Blumenbach propose la denominazio-

ne di Ornithorhynchus paradoxus (muso di uccello paradossale). Si decise allora di combinare entrambe le nomenclature in Ornithorhynchus anatinus. Nel mondo anglosassone il termine platypus fu adottato come il nome comune della specie, mentre nelle lingue latine si optò per ornitorinco. Questo bizzarro animale venne classificato insieme alle echidne, minuti insettivori simili al riccio, in un nuovo ordine di piccoli e arcaici mammiferi endemici dell’Australia che conservavano le caratteristiche ereditate dagli antenati rettili. Vennero chiamati monotremi – letteralmente dotati di un’unica apertura – in virtù di una peculiarità

piuttosto insolita nei mammiferi: la confluenza del sistema digestivo, escretore e riproduttore nella cloaca dell’animale. Al giorno d’oggi, l’ornitorinco è ancora una delle creature più strane del pianeta. La sua scoperta rivoluzionò le scienze naturali e dimostrò che, a volte, sono i piccoli esemplari a riservare grandi sorprese. —Carlos Micó Per saperne di più

LIBRI PER BAMBINI

L’invenzione dell’ornitorinco Fabio Silei. Artebambini, Bologna, 2011.

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V I TA Q U OT I D I A N A

Il fascino delle droghe in Grecia e a Roma

LA SIESTA. L’ospite di un simposio si addormenta al suono soave di un flauto. Olio di Lawrence AlmaTadema. 1868.

Gli antichi greci e romani consumavano oppio e cannabis per ragioni mediche, in occasioni religiose e a scopo ricreativo

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el V secolo a.C. Diagora di Melo si opponeva in modo deciso a qualsiasi uso terapeutico dell’oppio. Il filosofo ionico metteva in guardia contro l’eccessiva tossicità di questa sostanza sottolineando che poteva arrivare a provocare la morte. Ma i suoi avvertimenti non ebbero molto seguito. Durante tutta l’antichità e in particolare in epoca romana una grande varietà di droghe circolava liberamente per il Mediterraneo. Il loro uso non era sanzionato dalla legge a meno che non venissero somministrate come veleno per nuocere o attentare contro la vita di qualcuno. Va sottolineato che anticamente quelle che oggi sono definite droghe rientravano nella più ampia categoria di farmaci o medicine: una grande varietà di principi naturali che produceva determinati effetti sulle persone. I trattati ippocratici definivano

le droghe «sostanze che agiscono raffreddando, riscaldando, asciugando, umidificando, contraendo e rilassando o addormentando» e che quindi venivano utilizzate come calmanti, medicinali e pozioni.

Un’eredità dell’Oriente

DA VENERE AL VELENO

BRIDGEMAN / ACI

BRIDGEMAN / ACI

Autori come Plinio il Vecchio e Dioscoride catalogarono quasi mille droghe diverse tra cui mandragora, giusquiamo nero, belladonna, stramonio, cicuta, aconito, funghi velenosi, vino, cannabis e oppio. Ne descrissero l’aspetto, la provenienza e i vari metodi di preparazione e assunzione: l’infusione, la macerazione, l’uso come cataplasma o impiastro, l’ingestione, l’applicazione in forma di olio, i bagni terapeutici e l’inalazione. La mandragora per esempio era usata con varie finalità terapeutiche. Se ne consumavano le foglie e le radici dormentare chi le assumeva. Lo straalle quali si attribuivano proprietà monio, una pianta che cresce in zone anestetiche per la capacità di far ad- dal clima temperato, era un potente narcotico in grado di produrre deliri molto intensi ma le sue foglie erano anche estremamente utili per le fumigazioni contro l’asma. La belladonna era comunemente usata nella mediA ROMA la parola venenum, legata a Venecina domestica per indurre il sonno o re e all’amore, designava i preparati che si lenire il mal di denti, ma c’era anche chi usavano a scopo terapeutico ma anche per si versava nelle pupille il succo estratto avvelenare, provocare aborti o suicidarsi. Il dai suoi frutti a scopo ricreativo. produttore di farmaci e veleni era chiamato Nonostante la varietà di erbe e radici veneficus o, in alcuni casi, maleficus. con poteri allucinogeni, le droghe più FARMACIA. RILIEVO DEL II SECOLO. MUSEO DELLA CIVILTÀ ROMANA, ROMA. utilizzate da greci e romani erano l’oppio e la cannabis. Per secoli quest’ulti-


V I TA Q U OT I D I A N A

ma fu considerata misteriosa, sacra e persino demoniaca. L’espansione nel Mediterraneo orientale fece sì che i greci e i romani s’interessassero ben presto agli effetti derivanti dal suo consumo. Ad esempio veniva utilizzata in alcuni riti religiosi come incenso o“profumo”, nel senso della locuzione latina per fumum (attraverso il fumo): i vapori sprigionati dalla combustione della sostanza aromatica se inalati provocavano effetti stimolanti, rilassanti o in qualche caso allucinogeni. Vista la sua relativa scarsità nei mercati mediterranei la cannabis era considerata un prodotto di lusso. Se-

Droghe in vendita: lo stato fissa il prezzo IL COMMERCIO DI OPPIO, cannabis e altre droghe usate in me-

dicina era soggetto al controllo statale. L’editto sui prezzi massimi promulgato da Diocleziano nel 301 d.C. tramanda che la richiesta di questi prodotti era elevata e non era consentita la speculazione. Il prezzo massimo per un modio castrense (17,5 litri) di semi di cannabis era di 80 denari. Quello di papavero costava 150 denari, la stessa cifra di un modio di sementi di erbe medicinali.

Il loro valore non si discostava molto da quello dei beni di prima necessità come il grano, i fagioli o i ceci: 100 denari. La loro presenza sui mercati mediterranei doveva dunque essere comune.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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V I TA Q U OT I D I A N A

Un imperatore dipedente? PER PRESCRIZIONE del medico Galeno, Marco Aurelio

assumeva ogni giorno una porzione di oppio diluita nel vino. Secondo alcuni autori sviluppò una vera e propria dipendenza che sarebbe testimoniata da alcune delle visioni descritte in Colloqui con sé stesso, come quelle relative alla sensazione dello scorrere rapidissimo del tempo. Altri ritengono invece che queste immagini siano caratteristiche della filosofia stoica di cui l’imperatore era un accolito.

BUSTO: DEA / ALBUM. FREGIO: BRIDGEMAN / ACI

MARCO AURELIO, IMPERATORE TRA IL 161 E IL 180 D.C. BUSTO IN MARMO DEL SOVRANO. ARKEOLOJI MUZERLERI, ISTANBUL.

PAPAVERO. PARTICOLARE DI UN RILIEVO DI ELEUSI, IN GRECIA, DOVE AVEVA LUOGO UN RITUALE MISTERICO.

condo il medico Galeno era un dono comune tra le élite romane che avevano adottato dagli ateniesi la pratica di scambiarsi la sostanza come regalo in determinate occasioni sociali, visto che era molto apprezzata nei banchetti per le sue caratteristiche allucinogene. Plinio il Vecchio, naturalista romano, ne elenca le proprietà terapeutiche: secondo le conoscenze dell’epoca il

consumo rilassava la muscolatura in caso di contratture e alleviava il dolore prodotto dalla gotta. Per le ustioni si raccomandava di applicare la pianta direttamente sulla pelle. La cannabis era anche considerata un rimedio contro l’impotenza sessuale.

Il predominio dell’oppio Furono i greci a battezzare opion (oppio) il succo estratto dal papaver somniferum. Anche questa sostanza era una presenza abituale nelle società antiche. Secondo il mito era stato il dio greco della medicina Asclepio a rivelare ai mortali i segreti del pa-

Asclepio rivelò ai mortali i segreti del papavero da oppio, un tempo riservato agli dei IPNO, DIO DEL SONNO, CON UN PAPAVERO NELLA MANO SINISTRA. PRADO, MADRID.

ALBUM

pavero, che fino ad allora era invece consumato solo dagli dei. Altre tradizioni ne attribuivano l’introduzione a Ermes, divinità protettrice dei viandanti e del commercio. C’è anche chi sostiene che il primo a diffondere il consumo di questa droga nel Mediterraneo fu Alessandro Magno, che l’avrebbe conosciuta durante la conquista dell’Asia. Diversi autori ritengono che l’oppio potesse anche essere uno degli ingredienti del misterioso nepente, il farmaco che, secondo il mito, Elena di Troia sciolse di nascosto nel vino per lenire la tristezza dei partecipanti a un banchetto offerto da Menelao. La sostanza faceva sì che chi l’assumeva «non avrebbe versato lacrime, quel giorno, neanche di fronte alla morte della madre o del padre, neppure se avesse visto con i suoi occhi il fratello o il figlio trafitti da una spada», riferisce Omero nell’Odissea.


IL MEDICO e botanico

SPL / AGE FOTOSTOCK

Dioscoride raccoglie alcune piante mentre viaggia con le legioni romane. Incisione.

Erodoto, Ippocrate e Teofrasto descrivono la pianta e le differenti maniere di utilizzarla, soprattutto in ambito medicinale. Altri– come Eraclide di Taranto o Dioscoride – ne sottolineano piuttosto l’uso farmacologico come tranquillante e come sonnifero. Anche secondo Plutarco d’altro canto l’oppio e la mandragora erano le droghe più comunemente usate in questo campo. E proprio al dio del sonno Ipno, talvolta rappresentato con dei papaveri da oppio in mano, la dea Cerere avrebbe chiesto di drogare Annibale per aiutare i romani contro i cartaginesi. Il dio l’avrebbe accontentata, stando almeno a quanto racconta il poeta Silio Italico nella sua opera intitolata Punica: «Il Nume […] recando in un curvo corno incantati papaveri […] giunge nel suo tacito volo alla tenda del giovine […] con il ramo leteo gli tocca la fronte e gli stilla nei gravati occhi il sonno».

Sebbene le varietà orientali di queste piante fossero le più richieste, greci e romani riuscirono a farle adattare al clima delle loro terre. Si narra che l’imperatore Tiberio si trasferì a Capri per poter consumare l’eccellente oppio prodotto sull’isola, importato molti secoli addietro dai primi coloni greci.

La droga perfetta Per evitare d’incappare in qualche partita adulterata della droga, autori come Dioscoride e Plinio descrivono minuziosamente l’aspetto del prodotto ottimale per il consumo. Tra le principali caratteristiche ne sottolineano la malleabilità, l’intensità e la fragranza del succo estratto. Sempre Plinio, nella sua Naturalis Historia, aggiunge anche che l’oppio di buona qualità galleggia in acqua come una nuvola e si scioglie ai raggi del sole. Il naturalista latino afferma anche che il papavero «ha sempre goduto

del favore dei romani», come infatti dimostrano gli imperatori del I e del II secolo. I medici di corte elaborarono diversi composti a base di oppio per i sovrani. Filonio diede il proprio nome a un elettuario di sua invenzione– un preparato con cui si curavano molte malattie – che conteneva tra le altre cose pepe bianco, miele, spigonardo e oppio. Il medico di Nerone, Andromaco il Vecchio, ne creò uno a base di oppio che sarebbe passato alla storia come theriaca andromachi. Si ritiene che tutti questi farmaci fossero in grado di generare vere e proprie dipendenze. —Jordi Pérez González Per saperne di più

SAGGI

Piccola storia delle droghe Antonio Escohotado. Donzelli, Roma, 2008. Il volo magico. Storia generale delle droghe Ugo Leonzio. Einaudi, Torino, 1997.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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DATO S TO R I CO

Nel 1799 il governo britannico introdusse la prima tassazione progressiva sulle entrate per finanziare gli enormi costi della guerra contro la Francia

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ggi l’imposta sul reddito è per molti stati una delle principali fonti di finanziamento. A livello generale se ne riconosce la necessità per un corretto funzionamento dei servizi pubblici, ma questo non significa che non sia oggetto di discussione. La parola imposta veicola già un’idea di obbligo e sottomissione. Non sorprende quindi che i primi tentativi d’introdurre questo tributo suscitassero numerose critiche, come quella dello scrittore e politico Thomas Paine: «Quello che prima era un saccheggio, poi ha assunto l’elegante nome di tassazione».

BATTAGLIA DI TRAFALGAR, 1805. LA GUERRA CONTRO NAPOLEONE EROSE LE RISORSE DEL FISCO INGLESE.

BRIDGEMAN / ACI

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In origine nacque come risposta a una situazione di emergenza. All’inizio del 1798 il Regno Unito era l’unica potenza ancora in guerra contro la Francia rivoluzionaria. Per fare fronte alle enormi spese militari e riuscire a cambiare il corso del conflitto il primo ministro britannico William Pitt, il più giovane ad avere mai ricoperto quella carica, cercò un modo di aumentare le entrate. Nel novembre del 1797 Pitt espresse l’intenzione di triplicare i tributi degli anni precedenti tassando i beni di lusso: proprietà come cavalli, carrozze, orologi o servitori. Pitt era consapevole delle polemiche che

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L’Inghilterra crea l’imposta sul reddito

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GHINEA D’ORO CONIATA NEL 1798 CON L’EFFIGIE DI RE GIORGIO III.

una tale misura avrebbe suscitato: «Il piano dovrebbe essere diffuso il più ampiamente possibile; dovrebbe essere regolato nel modo più giusto ed equo, senza che sia necessario indagare sulle proprietà perché i costumi, i modi e le aspirazioni del popolo troverebbero questa pratica odiosa e vessatoria». Il primo ministro era convinto che la necessità di difendersi dal nemico sarebbe stata una ragione sufficiente a giustificare la tassa, ma trovò una forte opposizione in parlamento. La sua proposta fu considerata addirittura“mostruosa”. Tuttavia l’appello al patriottismo e il rischio di bancarotta dello stato portarono all’approvazione della cosiddetta “tassa tripla” il 12 gennaio 1798.

Verso un’imposta progressiva L’influente vescovo di Llandaff Richard Watson, tra i più ardenti sostenitori della misura, dichiarò: «I palliativi sono inutili e le mezze misure non possono salvarci». Ma le opinioni contrarie erano molto più numerose. Alla fine la tassa non produsse l’effetto sperato e ottenne solo due dei quattro milioni e mezzo di sterline previsti. Sebbene compensato dai contributi volontari alla guerra, quel fallimento spinse il primo ministro ad abbandonare la sua idea iniziale e spianò la strada alla tassazione diretta del reddito.


COME DIAVOLO FARE LA DICHIARAZIONE LE OPINIONI contrarie alla po-

litica fiscale di William Pitt non tardarono a farsi sentire. La tassa tripla venne definita “figlia di Robespierre” e l’approvazione dell’imposta sul reddito fu considerata un’intollerabile intromissione nella vita privata dei cittadini. Gli attacchi al governo di Pitt divennero comuni nelle caricature satiriche dell’epoca che lo rappresentavano intento a sottrarre le ricchezze della nazione. Nella vignetta qui accanto John Bull, incarnazione dell’inglese tipico, cerca di comprendere le intricate clausole della nuova tassa creata dal ministro, rappresentato come un cherubino innocente che chiede denaro. BRIDGEMAN / ACI

Di fronte al malcontento popolare Pitt cercò delle alternative fiscali più in linea con la capacità economica dei contribuenti e decise di tassare tutti i proventi indipendentemente dalla loro fonte. Il risultato fu che il 9 gennaio 1799 il parlamento britannico approvò l’imposta sul reddito. Si trattava di una tassa progressiva che poteva arrivare al dieci per cento sui redditi superiori a 200 sterline e da cui però erano esentati quelli inferiori a 60 sterline. Erano previste anche delle riduzioni per i contribuenti, per esempio in base al numero di bambini minori di sei anni che le famiglie avevano a carico.

L’imposta restò in vigore solo fino alla firma del trattato di Amiens, che nel 1802 pose fine alla guerra con la Francia. Le ostilità però ripresero appena un anno dopo e il successore di Pitt, Henry Addington, vi fece nuovamente ricorso evitando comunque in tutti i modi di chiamarla “imposta sul reddito”. Le condizioni di salute del tesoro britannico migliorarono notevolmente – non senza difficoltà – e poco a poco il sistema fiscale inglese iniziò a essere studiato nel resto d’Europa. Ma alla fine delle guerre napoleoniche riemersero con forza le voci contrarie al tributo che venne abolito nel 1816.

La tassazione sul reddito non tornò a concretizzarsi fino al 1842 con l’Income Tax Act di Robert Peel, che voleva provare a risanare un crescente deficit di bilancio, e da quel momento cominciò a diffondersi. Nel 1862 Lincoln la introdusse negli Stati Uniti per sostenere i costi della guerra civile e nel 1864 arrivò nell’Italia da poco unificata. Dopo diversi dibattiti, in Francia nel 1872 fu approvata l’imposta sui valori immobiliari, ma quella sul reddito venne introdotta solo nel 1914, all’inizio della Prima guerra mondiale. —Vladimir López Alcañiz STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC 25


TEMPIO DI HATHOR A DENDERA

A Dendera, in Alto Egitto, sorge un maestoso tempio dedicato alla dea dalle sembianze di vacca, Hathor. Costruito in epoca tolemaica è decorato con una moltitudine di iscrizioni geroglifiche, come si può vedere nell’immagine. MIKE SHEPHERD / ALAMY / ACI


GEROGLIFICI L A S C R I T T U R A DEG L I E N I G M I Gli antichi egizi li usavano nei templi e nelle tombe per onorare gli dei. In possesso di una conoscenza quasi segreta, gli scribi iniziarono a creare nuovi simboli ed erano gli unici a saperli interpretare


LA SCRITTURA DELLE TOMBE

Questo disegno mostra la costruzione di una tomba nella Valle dei Re. Una volta levigate e imbiancate a calce le pareti erano pronte per essere decorate con disegni e geroglifici. DAVID FIERSTEIN / NGS

L

a scrittura geroglifica è uno degli elementi più caratteristici dell’antica civiltà egizia. Il viaggiatore che si aggiri tra le rovine dei templi e delle tombe sulle sponde del Nilo si ritrova circondato da mura ricoperte da centinaia di piccoli simboli – figure umane, uccelli, piante – che lo avvolgono come se stesse camminando tra le pagine di un libro illustrato. Le prime iscrizioni di questo tipo risalgono attorno al 3100 a.C. e questo sistema di scrittura è rimasto in uso con qualche leggera modifica fino al IV secolo d.C. Per oltre 3.500 anni i geroglifici hanno quindi mantenuto il loro carattere figurativo. Ciò distingue la scrittura egizia da altri sistemi del Vicino e dell’Estremo

Oriente, come il cuneiforme mesopotamico o il cinese, che invece si sono progressivamente allontanati dalle loro origini per evolversi in forme sempre più astratte. In realtà anche in Egitto si svilupparono ben due scritture non figurative: prima lo ieratico, una versione corsiva e semplificata del geroglifico e successivamente il demotico, un sistema derivato dallo ieratico che fu usato a partire dal VII secolo a.C., durante il cosiddetto Periodo tardo. I geroglifici però continuarono a esistere e a essere utilizzati nelle iscrizioni sui grandi monumenti – prevalentemente in tombe e templi – mentre lo ieratico veniva impiegato principalmente nei documenti amministrativi e, a partire dal Medio regno, (2055 a.C. - 1790 a.C.) anche

C R O N O LO G I A

Una scrittura millenaria

3100 a.C.

2321-2306 a.C.

La scrittura geroglifica compare per la prima volta sulle tavolette delle offerte funerarie nella tomba U-j di Abido.

Sulle pareti della camera funeraria della piramide del faraone Unis si trovano i Testi delle piramidi, formule religiose in geroglifico.

SCRIBA SEDUTO. STATUETTA DELLA XVIII DINASTIA. METROPOLITAN MUSEUM, NEW YORK. ALBUM


I TESTI DELLE PIRAMIDI

Questi testi funerari in geroglifico compaiono per la prima volta nella camera funeraria della piramide del faraone Unis della V dinastia a Saqqara. ARALDO DE LUCA

2055-1650 a.C. ca.

722-655 a.C.

332-30 a.C.

V secolo 470 A.C.d.C.

La scrittura geroglifica, composta da 450 segni, si fa sempre più complessa. Ne compare una versione corsiva, lo ieratico.

A partire dalla XXV dinastia si sviluppa una forma abbreviata dello ieratico: il demotico, di uso per lo più quotidiano.

In epoca tolemaica la scrittura geroglifica ha cinquemila segni. Il greco s’impone in Egitto come lingua amministrativa.

Orapollo scrive un’opera Bis. Valicer udaciest facio, intitolata Hieroglyphica confertium qui cri strumin cui centinaia di teminterpreta quod cavo, Pala nonfes geroglifici. pubblicata egervid co Sarà hos fuissil in Europa nel 1505. tandiurnic oportud.


TEMPIO DI DEIR EL-BAHARI

All’interno del tempio funerario di Hatshepsut, a sinistra, compaiono dei dei monogrammi della sovrana in scrittura enigmatica. HORUS E OSIRIDE

UWE SKRZYPCZAK / ALAMY / CORDON PRESS

Scritto in ieratico, questo papiro risalente alla XX dinastia è la cronaca di un processo per saccheggio di tombe che vede coinvolto il sovrintendente di Tebe ovest. British Museum, Londra. BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE

30 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

per la stesura di opere letterarie. In ogni caso solo i membri delle classi superiori avevano la possibilità d’imparare a scrivere. Col passare del tempo gli scribi che si occupavano di questioni amministrative o economiche iniziarono a studiare solo il sistema ieratico perché il geroglifico non aveva alcun uso pratico in questi campi. Il risultato fu che, se la popolazione che sapeva leggere e scrivere in Egitto era già di per sé una minoranza, coloro che comprendevano i geroglifici costituivano un gruppo ancor più ridotto.

Anche se ci sono poche informazioni sui sistemi educativi egizi, l’apprendimento del geroglifico avveniva probabilmente nell’ambito del tempio, nelle cosiddette "case della vita", dove venivano composti, copiati e conservati i testi religiosi. Questa pratica continuò fino all’epoca romana.

Giochi di parole Gli scribi specializzati in geroglifico svilupparono un sapere molto complesso e raffinato. Fu così che alcuni di loro iniziarono a sperimentare creando combinazioni e giochi visivi sempre più intricati e sorprendenti. È il caso di alcuni particolari testi incisi su templi e tombe che non seguono le regole abituali di funzionamento del geroglifico. Non si tratta di errori di ortografia, ma del ricorso a una specifica tipologia di segni che gli scribi componevano giocando con le caratteristiche formali e sonore dei grafemi allo scopo di trasmettere un significato aggiuntivo. Gli egittologi definiscono questi testi "scrittura enigmatica"o anche "crittografia", un termine forse meno appropriato in quanto significa scrittura segreta.

MIKE SHEPHERD / ALAMY / ACI

IL PAPIRO ABBOTT

Il dio falco Horus offre la vita al padre Osiride, dio dell’oltretomba, seduto sul trono. Osireion, tempio di Seti I ad Abido.




SCRIBI NELLA TOMBA DI AKHETHOTEP

Akhethotep era un funzionario della V dinastia. Questo rilievo proveniente dalla sua mastaba di Saqqara, ora conservato nel Museo del Louvre, rappresenta vari scribi intenti a svolgere il loro lavoro. DANIEL LÉBÉE / RMN-GRAND PALAIS


TEMPIO TOLEMAICO DEDICATO AL DIO KHNUM A ESNA, NELL’ALTO EGITTO. LA COLONNA IN PRIMO PIANO È TOTALMENTE COPERTA DA ISCRIZIONI CON CARATTERI GEROGLIFICI.

L'USO DEI SIMBOLI COME CONCETTO

N

ONOSTANTE l’alone di miste-

ro che li circonda, i geroglifici sono un sistema di scrittura come tanti altri, i cui elementi di base rappresentano i suoni dell’antica lingua egizia. Questo tipo di scrittura combina diversi tipi di segni. In primo luogo ci sono quelli fonetici, che corrispondono a uno, due o tre fonemi m, nb, nfr. consonantici come Poi ci sono quelli ideografici, che rappresentano un concetto direttamente associato all’immagine simboleggiata, come seba, stella. Infine, venivano utilizzati dei segni dopo ogni parola per indicare la categoria a cui questa apparteneva, come una pianta per i termini di ambito vegetale , un granello di sabbia per gli elementi minerali , o un rotolo di papi. ro per i concetti astratti

BRIDGEMAN / ACI

Rilievo del pannello esterno sinistro della seconda cappella della camera funeraria di Tutankhamon, che ne conteneva il sarcofago. È un esempio di scrittura enigmatica o crittografica. BRIDGEMAN / ACI

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L’uso enigmatico dei geroglifici appare già nelle prime opere religiose della storia, i Testi delle piramidi. Ma per circa un millennio – durante l’Antico e il Medio regno – quest’uso restò limitato a singole parole. È a partire dal Nuovo regno (1539-1292 a.C.) che è documentato un ricorso più diffuso alla scrittura enigmatica per brani più lunghi e corposi. Esempi di questo tipo si trovano sia nelle iscrizioni monumentali dei templi e delle tombe private sia nei testi incisi sulle pareti dei mausolei della Valle dei Re, che servivano a garantire il successo del viaggio del defunto nell’oltretomba. Ma il maggiore sviluppo di questo sistema si verificò nell’epoca più tarda della storia egizia, soprattutto a partire dal IV secolo a.C., in periodo greco-romano. In seguito all’applicazione delle regole della scrittura enigmatica infatti il geroglifico divenne molto più complesso. Il suo patrimonio grafico

passò da circa ottocento segni a diverse migliaia per le iscrizioni normali. Risalgono a questa fase alcune composizioni visive di straordinaria complessità.

Giocando con i segni La scrittura enigmatica creava nuovi segni o utilizzava quelli tradizionali in modo diverso, producendo un’alterazione nella normale lettura del testo. La procedura più comune consisteva nel sostituire un segno con un altro dello stesso tipo (come un uccello con un altro ), oppure con uno di forma simile – per esempio uno rettangolare con uno quadrato. Si poteva anche usare una parte per indicare il tutto, come ad esempio la pupilla invece dell’intero occhio , oppure creare nuovi segni combinando quelli già esistenti. Era pure possibile modificare il normale valore fonetico di un segno o creare dei suoni completamente nuovi a partire dall’associazione di simboli differenti. Le forme più complesse di scrittura enigmatica riuscivano a combinare al loro interno significati diversi. Una frase poteva essere interpretata tramite una lettura tra-

NICK BRUNDLE PHOTOGRAPHY / GETTY IMAGES

CAPPELLA DI TUTANKHAMON


UN COLORATO SOFFITTO ASTRONOMICO

La sezione qui visibile del soffitto della prima sala ipostila del tempio di Hathor a Dendera rappresenta un ciclo lunare di 15 giorni, dalla luna nuova alla luna piena, sotto forma di scala ascendente.


LA TOMBA DI RAMSES IV

Questo sepolcro della XX dinastia è uno dei meglio conservati della Valle dei Re. All’interno ci sono delle iscrizioni con dei testi funerari mirati a facilitare il viaggio del faraone nell’aldilà, come quelli visibili in questa immagine. ALFREDO GARCIA SAZ / ALAMY / ACI



OSIREION DI ABIDO

A sinistra, il cenotafio o tomba commemorativa del dio Osiride eretto da Seti I contiene le prime testimonianze conservate del Libro di Nut. IL LIBRO DI NUT

LA DEA CELESTE NUT

Questa statuetta di maiolica rappresenta la dea del cielo con sembianze di scrofa intenta ad allattare i suoi piccoli, come descritta nel Libro di Nut. PRINT COLLECTOR / GETTY IMAGES

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dizionale e allo stesso tempo avere un senso ulteriore basato sulle immagini che tali segni veicolavano. Ne è un esempio il Libro di Nut (la dea del cielo). Si tratta di un testo di contenuto teologico e astronomico che compare per la prima volta nel XIII secolo a.C., durante il regno di Seti I, nell’Osireion di Abido (un complesso dedicato al dio Osiride) e che fu in seguito ripetutamente copiato fino all’epoca romana. Al suo interno compare la seguente iw shem seba, «una stella va». frase: I primi due segni corrispondono a una particella utilizzata in lingua egizia che di solito non si traduce, e sono seguiti in questo caso dal verbo shem (andare) e da una stella (seba) rappresentata figurativamente. La particolarità di questa frase è che il verbo shem, che

normalmente si scrive , qui viene composto in modo irregolare a partire da un maiale (shai) e un avvoltoio (mut). Il verbo viene in pratica formato tramite le consonanti dei due termini (la T del secondo non si pronunciava). Questa ortografia apparentemente anomala e bizzarra riassumeva in sé il mito secondo cui la dea del cielo Nut era una scrofa che all’alba divorava i suoi figli, le stelle. Il segno dell’avvoltoio, uno dei modi per indicare il concetto di madre, è affiancato dal maiale da una parte e dalla stella dall’altra. Il mito di Nut nasce dall’osservazione della natura. Le scrofe, infatti, se si trovano in una situazione di pericolo o non riescono a provvedere a tutta la cucciolata, divorano alcuni dei loro piccoli. Ci sono perfino degli amuleti che rappresentano la dea del firmamento raffigurandola come una scrofa blu intenta ad allattare i suoi maialini. Quest’uso allegorico o simbolico della scrittura geroglifica, molto comune nelle iscrizioni parietali dei templi di epoca greco-romana, è forse all’origine dell’idea che i geroglifici non fossero elementi fone-

DEA / SCALA, FIRENZE

ALAMY / ACI

Il soffitto della tomba di Ramses IV, a destra, illustra il momento in cui ogni stella oraria è nella sua prima ora o nella sua nascita.



SCRIVERE I MONOGRAMMI DEI FARAONI

A

LCUNE DELLE più sorprendenti ortografie enigmatiche sono quelle dei nomi dei faraoni. Nel tempio di Hatshepsut a Deir el-Bahari c’è una serie di fregi che sembrano rappresentare dei cobra eretti, ma che in realtà contengono il suo no, me d’incoronazione, Maatkare scritto però in forma di monogramma: il cobra , che qui indica la maat, è situato sopra delle braccia – che riproducono il suono – e ha in ka testa il disco solare di Ra .

CARTIGLIO CHE RACCHIUDE IL NOME DELLA REGINA HATSHEPSUT. CAPPELLA ROSSA DI KARNAK.

MARKA / AGE FOTOSTOCK

Secondo Orapollo gli egizi indicavano l’eternità sia con un sole e una luna sia con un serpente che cingeva gli dei con il suo corpo. Incisione tratta da una traduzione francese di Orapollo. 1543. BNF

tici ma celassero alcuni significati occulti. Quest’ipotesi ricevette un nuovo impulso quando l’Europa rinascimentale scoprì un’opera intitolata Hieroglyphica, composta dal sacerdote egizio Orapollo nel V secolo d.C., in cui sono spiegati in forma allegorica quasi duecento segni. Oggi si ritiene che circa la metà di queste interpretazioni sia corretta. Le spiegazioni del sacerdote egizio si basavano sulle credenze di epoca faraonica relative all’origine e al significato dei geroglifici, che si accordavano con i principi dell’ortografia enigmatica. Secondo l’autore, ad esempio, l’idea di eternità era indicata attraverso i due ideogrammi di sole e luna , «per il fatto che questi sono elementi eterni»; oppure per mezzo della figura di un «serpente con la coda nascosta sotto il corpo, che chiamano ureo […] perché è l’unico serpente immortale».

Molte delle idee di Orapollo non erano dunque invenzioni o errori interpretativi come si è creduto per un certo tempo, ma derivavano probabilmente dalla generalizzazione della scrittura enigmatica in epoca greco-romana. La tendenza a decodificare i geroglifici in maniera esclusivamente simbolica fu il principale ostacolo che ne impedì il riconoscimento come elementi fonetici e che di conseguenza ritardò di diversi secoli la decifrazione dell’antica scrittura egizia. Tuttavia, benchè oggi gli studiosi abbiano raggiunto una conoscenza abbastanza precisa del funzionamento della scrittura geroglifica, molte delle sue ortografie enigmatiche e connotazioni speciali restano ancora appannaggio esclusivo degli scribi, proprio come avveniva secoli fa. MARINA ESCOLANO-POVEDA PROFESSORESSA DI EGITTOLOGIA. UNIVERSITÀ DI LIVERPOOL

Per saperne di più

SAGGI

Come leggere i geroglifici egizi Mark Collier, Bill Manley. Giunti, Firenze, 2016. La lingua dell’antico Egitto Emanuele Ciampini. Hoepli, Milano, 2018.

SCALA, FIRENZE

IL SERPENTE E L’ETERNITÀ


RAMSES II PROTETTO DAL DIO FALCO

Questa statuetta del faraone sotto la protezione del dio falco Hurun forma un monogramma di scrittura enigmatica. Per comporre il nome di nascita del faraone è stata usata una combinazione di tre simboli: sulla testa; il disco solare (Ra) il re bambino (mes); la canna che sostiene il faraone (su). Museo egizio, Il Cairo.


IL GATTO CONTRO IL SERPENTE Un’espressione molto comune nella lingua religiosa egizia è «dotato di vita come Ra». Si pronuncia di anj mi ra e di solito si scrive così:

di anj mi ra Tuttavia, con l’avvento dell’ortografia enigmatica l’espressione è resa con il seguente monogramma:

Il monogramma è composto da vari segni che si combinano tra loro per esprimere quel medesimo concetto: • Un disco solare, simbolo del dio Ra, sulla testa del gatto. • Un gatto: in lingua egizia si diceva miu, che aveva una sonorità simile alla congiunzione mi ("come"). • Il simbolo ankh, vita, che il gatto regge con una delle zampe anteriori. • Il verbo "dare", esprimibile anche tramite il segno di un braccio teso che sostiene un pane, è . rappresentato dalla zampa protesa del gatto Oltre al significato originale della frase, l’immagine in questione riassume anche il mito del dio Ra, che in qualità di grande gatto di Eliopoli uccide il malvagio serpente Apopi, eterno nemico del Sole e quindi dell’ordine cosmico.

Il viaggio notturno di Ra nell’oltretomba è il tema centrale di varie composizioni funerarie del Nuovo regno. Il nucleo del mito è costituito dalla lotta e la vittoria del dio solare Ra sul serpente Apopi. Nel capitolo 17 del Libro dei morti Ra appare come un gatto che trancia il corpo di Apopi con un coltello. Accanto a lui è visibile una persea, l’albero sacro di Eliopoli, principale luogo di culto di Ra.

SCALA, FIRENZE

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IL GRANDE GATTO DI ELIOPOLI TAGLIA IL SERPENTE APOPI SOTTO LA PERSEA SACRA. DIPINTO DELLA TOMBA DI INHERKHAU, DELLA XX DINASTIA, A DEIR EL-MEDINA. LE DUE PRIME COLONNE DEL TESTO DI DESTRA RECITANO: «FORMULA PER ESPELLERE IL NEMICO, PER TAGLIARE IL CORPO DI APOPI».

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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SCAVI NELLA GRAN DOLINA

Da questo sito provengono i fossili di Homo antecessor. Nel 1997 la rivista Science ha annunciato che si trattava di una nuova specie di ominide. SPL / AGE FOTOSTOCK


ATAPUERCA I

P R I M I

E U R O P E I

L’impressionante numero di resti fossili trovati ad Atapuerca, in Spagna, è cruciale per comprendere l’evoluzione della razza umana e le origini del popolamento dell’Europa


L

a campagna di scavi 2019 sarà la quarantunesima realizzata nei siti della Sierra de Atapuerca, un modesto rilievo carsico nei pressi di Burgos, nel nord della Spagna. Non è esagerato dire che i ritrovamenti di Atapuerca hanno segnato un prima e un dopo negli studi sulla preistoria. Grazie a essi i ricercatori hanno scoperto che i primi esseri umani arrivarono in Europa più di un milione di anni fa; hanno modificato la linea evolutiva del genere Homo individuando l’ultimo antenato comune tra la nostra specie, l’Homo sapiens, e i neandertaliani; e hanno compreso la profondità delle radici evolutive di questi ultimi. Non sorprende quindi che nel 2000 l’UNESCO abbia dichiarato Atapuerca Patrimonio dell’umanità.

Un viaggio nel passato I siti della Sierra de Atapuerca si suddividono in quattro grandi settori: la Trinchera del Ferrocarril (Trincea della Ferrovia), il sistema Cueva Mayor-Cueva del Silo (Grotta Maggiore-Grotta del Silo), la Cueva del Mirador (Grotta del Belvedere) – situata sul versante meridionale della Sierra – e infine i siti a cielo aperto sparsi in prossimità del rilievo carsico. Atapuerca non è FRANCIA

Atapuerca

PO RTOGALLO

BU RG O S

MADRID

SPAGNA MAR MEDITERRANEO

ILLUSTRAZIONE: JAVIER TRUEBA / MSF / SPL / AGE FOTOSTOCK

1.300.000 Sima del Elefante: tracce dei primi insediamenti europei.

900.000 Gran Dolina: Homo antecessor, antenato comune di neandertaliani e sapiens.

400.000 Sima de los Huesos: Homo heidelbergensis, antenato dei neandertaliani.

60.000 In grotte e siti a cielo aperto, resti del Musteriano, la cultura Neanderthal.

5.000 El Portalón e El Mirador: sepolture dell’Età del rame e del bronzo.

quindi un’area unica, quanto piuttosto un complesso formato da zone differenti che corrispondono per lo più ad antiche cavità piene di sedimenti, alcune delle quali sono attualmente visitabili grazie ai programmi organizzati dalla Fondazione Atapuerca.

Tracce di attività umana Il sito più studiato è senza dubbio quello della Gran Dolina: un’antica grotta attraversata dalla trincea che venne scavata per la posa dei binari di una ferrovia mineraria. Gli strati di questo sito conservano testimonianze della vita nel Pleistocene. Nel corso di quest’era geologica – che corrisponde al Paleolitico, ovvero il periodo più antico della preistoria – il genere umano fece la sua comparsa e popolò il pianeta. Nella Gran Dolina sono stati ritrovati resti di erbivori (rinoceronti, cavalli e bisonti) caduti in questa sorta di trappola naturale un milione di anni fa. Sono state riscontrate anche prove del fatto che la grotta era usata come tana dalle iene così come ci sono alcune testimonianze di diverse attività umane. Ma non è tutto. Negli anni novanta si è aperto un intenso dibattito sull’epoca di arrivo dei primi esseri umani in Europa. Se per alcuni studiosi questo evento risale a meno


SPL / AGE FOTOSTOCK

di mezzo milione di anni fa, alcune prove concrete rinvenute nella Gran Dolina sembravano spostare la datazione a un periodo precedente. Per dirimere la controversia si è deciso di effettuare uno studio approfondito di un’area del sito di sei metri quadrati. I risultati ottenuti non solo hanno definitivamente risolto la questione, ma hanno anche portato a un’eccezionale scoperta. Infatti al livello conosciuto come TD6, che si ritiene abbia più di 780mila anni, nell’estate del 1994 è stato identificato il cosiddetto “strato Aurora”: una zona geologica unica nel suo genere che ospita resti di animali con segni di macellazione – come tagli sulle ossa e fratture per l’estrazione e il consumo del midollo –, utensili litici e

più di 80 fossili umani. Ciò ha permesso di chiarire che i primi uomini arrivarono in Europa molto prima di quanto si credesse fino a quel momento. I reperti ossei appartenevano inoltre a una specie sconosciuta che fu battezzata Homo antecessor, dal termine latino che significa “antenato” o “colui che viene prima”, in riferimento ai primi ominidi arrivati in Europa. L’Homo antecessor, vissuto 900mila anni fa, è stato incluso nel modello generale dell’evoluzione umana come ultimo antenato comune tra l’uomo anatomicamente moderno e i neandertaliani. I resti trovati al livello TD6.2 hanno rivelato anche episodi di cannibalismo tra gli umani che costituiscono la più antica testimonianza di tale pratica.

LA TRINCHERA DEL FERROCARRIL

Lo scavo di questo passaggio per costruire i binari di un treno minerario ha portato allo scoperto l’interno delle grotte. È il caso della Gran Dolina, visibile sopra.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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ARCHEOLOGI AL LAVORO NEL SITO DI SIMA DEL ELEFANTE, NEL COMPLESSO DELLA TRINCHERA DEL FERROCARRIL.

SPL / AGE FOTOSTOCK

CHI ERA, DA DOVE VENIVA?

Trovata nel 2008 nella Sima del Elefante, questa mandibola risale a 1,3 milioni di anni fa e si ritiene appartenga a un Homo erectus asiatico. SPL / AGE FOTOSTOCK

MAURICIO ANTON / SPL / AGE FOTOSTOCK

Nonostante l’età l’Homo antecessor non è il più vecchio europeo conosciuto: gli scavi dei livelli inferiori della Sima del Elefante (Pozzo dell’Elefante) – una grotta all’estremità meridionale della Trinchera – hanno dimostrato che i primi esseri umani giunsero in Europa almeno 1,3 milioni di anni fa. Al livello TE9 sono stati trovati diversi strumenti di pietra e ossa di animali con tracce di macellazione, ma anche un frammento di mandibola, una falange e un resto di omero che testimoniano l’arrivo nella penisola iberica di popolazioni umane ancora più primitive, di cui però non si conosce con certezza l’origine geografica e

la radice evolutiva. La più antica traccia di attività umana rinvenuta ad Atapuerca è una scaglia in selce proveniente dal livello TE8 della Sima del Elefante, risalente a 1,4 milioni di anni fa. Un milione di anni dopo l’arrivo dei primi coloni ad Atapuerca altri esseri umani raggiunsero il sito della Gran Dolina. Al livello TD10.2 infatti numerosi indizi testimoniano che la cavità era usata da un’altra specie, l’Homo heidelbergensis, per la lavorazione della carne ottenuta attraverso la massiccia e specializzata caccia al bisonte.

L’enigma dell’Homo heidelbergensis Prove d’intensa attività umana risalenti a questo stesso periodo sono state trovate anche nel sito di Galería, a soli 50 metri dal-


la Gran Dolina. Da qui proviene l’utensile acheuleano più caratteristico di Atapuerca (l’acheuleana è la seconda più antica tecnica di lavorazione della pietra e sono proprio queste tecniche a definire le fasi culturali della preistoria). Ma a Galería sono stati trovati anche dei resti umani attribuibili all’Homo heidelbergensis, la stessa specie cui appartiene l’eccezionale insieme di ossa provenienti da un altro sito di Atapuerca: la Sima de los Huesos, nel sistema di Cueva Mayor-Cueva del Silo. Lì sono stati rinvenuti i fossili di almeno 28 esseri umani, quasi tutti giovani adulti o adolescenti, il cui studio è iniziato nel 1976 e ha permesso di concludere che l’heidelbergensis è l’antenato diretto dei neandertaliani.

La cosa più sorprendente però è il risultato dell’analisi del DNA o acido desossiribonucleico, la molecola che veicola le informazioni genetiche degli esseri viventi. Ne esistono due tipi: quello nucleare, che viene trasmesso da entrambi i genitori, e quello mitocondriale, che si eredita esclusivamente per via materna. Il DNA nucleare dei resti umani della Sima de los Huesos conferma pienamente il loro rapporto evolutivo con i neandertaliani. Ma il DNA mitocondriale ha una maggiore somiglianza con un altro gruppo umano, i denisovani, così chiamati dal nome dalla grotta siberiana di Denisova, che furono contemporanei dei neandertaliani. Tuttavia il DNA mitocondriale di questi ultimi è più simile

IL PAESAGGIO DELL’ANTECESSOR

Il territorio era punteggiato di fiumi e stagni. Boschi di querce, castagni e lecci ospitavano cinghiali, cervi, rinoceronti e bisonti.

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JAVIER TRUEBA / MSF / SPL / AGE FOTOSTOCK

UN ENORME PUZZLE

Ana Gracia, paleoantropologa, si appresta a ricomporre i frammenti dei crani ritrovati nella Sima de los Huesos.

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a quello degli esseri umani anatomicamente moderni di quanto non lo sia quello dei denisovani. L’interpretazione di quest’apparente anomalia è uno dei principali punti di discussione tra gli studiosi della preistoria. Ad Atapuerca non sono invece state trovate molte informazioni sui neandertaliani, a parte una falange di dito del piede proveniente dalla Galería de las Estatuas (Galleria delle Statue), all’interno della Cueva Mayor. I resti di alcuni utensili rinvenuti in tre siti a cielo aperto – Hundidero (fosso), Hotel California e Fuente Mudarra (fonte Mudarra) – hanno però permesso di confermare che i neandertaliani vissero qui tra gli 80mila e i 60mila anni fa. Anche l’Homo sapiens che li sostituì lasciò tracce del suo passaggio ad

Atapuerca. La sua presenza nell’ultima cultura del Paleolitico, il Magdaleniano, è stata documentata nella Cueva del Mirador. Lì, circa 13.500 anni fa, s’insediarono alcuni gruppi di cacciatori-raccoglitori.

Un mondo nuovo Poco dopo iniziò una nuova epoca geologica: l’Olocene, in cui ci troviamo ancora oggi, che circa 11.500 anni fa pose fine all’ultima fase glaciale e con essa al Paleolitico. Il miglioramento climatico favorì una lenta trasformazione dei gruppi umani grazie alla pratica dell’agricoltura e dell’allevamento e all’uso dei metalli. Questo processo è ben documentato nei siti di El Portalón (Il Portale, all’ingresso di Cueva Mayor) e


Cueva del Mirador, dove troviamo testimonianze delle pratiche funerarie dell’Età del rame: a El Portalón spicca la sepoltura di un bambino morto intorno ai sette anni, mentre a El Mirador è stata trovata una tomba collettiva di almeno 22 persone. Per quanto riguarda la vita quotidiana, l’analisi del DNA degli allevatori dell’Età del bronzo ha dimostrato che 3.800 anni fa non avevano ancora la capacità fisiologica di digerire il lattosio in età adulta. Grazie al patrimonio genetico dei resti degli animali domestici invece si stanno scoprendo le pratiche primitive di addomesticazione, lo stile di vita dell’epoca e persino lo scambio di varianti genetiche tra i bovini locali e quelli provenienti dall’Africa settentrionale.

La storia raccontata dai fossili di Atapuerca va dagli umani sconosciuti di 1,3 milioni di anni fa fino alla nostra specie, passando per altre tre – antecessor, heidelbergensis e neanderthalensis. Ma a essere straordinario è anche qualcosa che non si verifica spesso in campo scientifico: l’enorme interesse suscitato nella società da queste scoperte. ANTONIO ROSAS RICERCATORE DEL CONSIGLIO SUPERIORE SPAGNOLO DI RICERCA SCIENTIFICA (CSIC)

Per saperne di più

SAGGI

La lunga storia di Neandertal Biologia e comportamento Fiorenzo Facchini, Maria Giovanna Belcastro (a cura di). Jaka Book, Milano, 2009. INTERNET

Scheda UNESCO del sito di Atapuerca http://whc.unesco.org/en/list/989

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ATAPUERCA / HOMO ANTECESSOR

1

UN OMINIDE EVOLUTO

L’ HOMO ANTECESSOR

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ello strato Aurora della Gran Dolina, nel 1994 sono stati scoperti i resti dell’Homo antecessor. Gli oltre 1.000 cm3 di capacità encefalica rivelano un ominide evoluto, mentre il modello di sviluppo dentale e soprattutto la forma del viso – con un caratteristico incavo sotto gli zigomi – lo ricollegano all’Homo sapiens. Tuttavia altri tratti dello scheletro e della dentizione lo rendono simile ai neandertaliani. Tale combinazione di caratteristiche ha portato la squadra di ricerca di Atapuerca a ipotizzare che l’Homo antecessor sia l’ultimo antenato comune tra i Neanderthal nati in Europa e gli esseri umani moderni di origine africana. Se così fosse, come giunsero sulla Sierra de Atapuerca i rappresentanti di questo singolare nodo dell’evoluzione umana? Trattandosi degli ipotetici precursori dell’Homo sapiens alcuni ritengono che provenissero dall’Africa e fossero arrivati in Europa passando per il Vicino Oriente. Studi più recenti hanno suggerito che l’antecessor potrebbe essere invece originario del vasto continente asiatico, da cui avrebbe raggiunto l’Europa probabilmente nel corso di ondate migratorie successive.

LA STESSA PERSONA?

Gli archeologi ritengono che questi due fossili, il frontale ATD6-15 e il mascellare ATD6-69 trovati nello strato Aurora della Gran Dolina, siano attribuibili allo stesso essere umano. La dentizione indica che la mascella appartiene a qualcuno che morì tra i 10 e gli 11 anni di età.

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FOTO: SPL / AGE FOTOSTOCK

I FOSSILI DI HOMO ANTECESSOR DELLA GRAN DOLINA APPARTENGONO A VITTIME DI CANNIBALISMO, NON È CHIARO SE RITUALE O ALIMENTARE.

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IL RAGAZZO DELLA GRAN DOLINA

I ricercatori hanno così ribattezzato i due fossili nella foto della pagina accanto. Qui invece è ricostruito il possibile aspetto dell’Homo antecessor, che aveva un’aspettativa di vita di circa 40 anni e un’altezza media di circa 1,70 m.

ANTICO E MODERNO

Come l’illustrazione adiacente, anche la ricostruzione qui sotto si basa sulle fotografie dei fossili. Si può osservare una combinazione di tratti antichi, come la fronte e il mento sfuggenti o il marcato toro sopraorbitario (l’osso sopra le cavità oculari) e moderni, come la mandibola sottile o la faccia piatta.


ATAPUERCA / HOMO ANTECESSOR

RITRATTO DI FAMIGLIA

Mauricio Antón, artista specializzato in paleoarte – la ricostruzione della vita nella preistoria –, è autore di questo “ritratto di famiglia” che rappresenta un gruppo di Homo antecessor. SPL / AGE FOTOSTOCK



2

ATAPUERCA / HOMO HEIDELBERGENSIS

IL PRECURSORE DEI NEANDERTALIANI?

L’ HOMO HEIDELBERGENSIS

G

razie ai fossili della Sima de los Huesos oggi gli studiosi hanno un’idea molto più precisa dell’evoluzione dei neandertaliani. L’Homo neanderthalensis ha radici antiche che affondano nel Pleistocene medio europeo (tra 700mila e 120mila anni fa) e i fossili trovati nella Sima de los Huesos rappresentano i suoi antenati. È oggetto di discussione se tutte le popolazioni umane che vivevano in Europa durante il periodo della Sima de los Huesos – come quelle che hanno lasciato fossili a Mauer (Germania), Arago (Francia) o Petralona (Grecia) – fossero antenate dei Neanderthal o se alcune invece non avessero nessuna parentela diretta con loro. In questo contesto si è aperto un vivace dibattito sul nome specifico da dare a questi esseri umani precursori dei neandertaliani. I ricercatori sono giunti a conclusioni diverse: per alcuni sono dei primitivi Neanderthal, per altri appartengono a una specie distinta ancora senza nome, altri ancora optano per mantenere la più classica denominazione di Homo heidelbergensis. Quest’ultima fu formulata da Otto Schoetensack in seguito alle sue analisi della mandibola ritrovata a Mauer nel 1907.

I L FOS S I L E PI Ù COM PL E TO

Il numero 5 della Sima de los Huesos, rinvenuto nel 1992, è il cranio ominide meglio conservato dagli australopitechi ai neandertaliani.

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U N A FE R ITA A L L A M A N DI B O L A FOTO: SPL / AGE FOTOSTOCK

SPL / AGE FOTOSTOCK

BACINO DI HOMO HEIDELBERGENSIS TROVATO NELLA SIMA DE LOS HUESOS. APPARTENEVA A UN MASCHIO DI CIRCA 1,75 M DI ALTEZZA E 95 KG DI PESO.

Miguelón subì un forte colpo sul lato sinistro del volto. La conseguente rottura di un dente superiore gli provocò un’infezione che probabilmente lo uccise.


MIGUELĂ“N

Ăˆ il nome che i suoi scopritori hanno dato al cranio di un Homo heidelbergensis trovato nella Sima de los Huesos. Questo sarebbe il suo aspetto secondo una ricostruzione fatta a partire dai suoi resti ossei. Visse circa 400mila anni fa.


ATAPUERCA / HOMO HEIDELBERGENSIS

UMANI E ANIMALI

TRENT’ANNI DI RESTI

D

all’inizio dei lavori in questo sito, nel 1984, i ricercatori hanno trovato più di cinquemila reperti umani appartenenti ad almeno 28 individui, oltre a migliaia di altri frammenti ossei di animali carnivori. Tuttavia, nonostante l’enorme quantità di resti conservati, la cosa davvero strana è che non sono state trovate ossa di erbivori. L’interpretazione più plausibile di questo fatto è che gli stessi umani accumulassero intenzionalmente i corpi dei loro simili in un luogo nascosto della grotta, accessibile solo a predatori come orsi e leoni. Insomma, furono uomini e donne di una stessa popolazione biologica precedente ai Neanderthal, che usavano per lo più la mano destra e utilizzavano delle specie di stuzzicadenti per l’igiene orale, a gettare le ossa in fondo alla Sima. L’analisi dell’impressionante gruppo di fossili ha permesso di ricostruire le malattie di cui erano vittime questi umani – come le infezioni orali o la saldatura prematura delle suture del cranio (craniosinostosi) –, così come d’individuare lesioni craniche interpretabili come segni di violenza interpersonale.

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JAVIER TRUEBA / MSF / AGE FOTOSTOCK

STAFFA DEL TIMPANO DI UN BAMBINO. È LA SECONDA RINVENUTA NELLA SIMA; NE ESISTONO SOLO QUATTRO IN TUTTO IL MONDO.

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UN ACCESSO COMPLICATO

Il sito della Sima de los Huesos si trova in una piccola cavità ai piedi di un pozzo naturale di 13 metri di profondità.


ATAPUERCA / HOMO HEIDELBERGENSIS

OFFERTE E CANNIBALISMO

IN FONDO AL POZZO

RITI FU N EB RI

Il fondo della Sima de los Huesos è accessibile solo tramite il pozzo lungo il quale scendono gli archeologi, proprio come si faceva nell’antichità. Questo è uno dei motivi che porta a ritenere che i 28 corpi qui trovati vi furono depositati dai loro congeneri.

T

utti gli esseri umani hanno in comune il bisogno di trascendenza al di là dell’inevitabile realtà della morte. Ma quand’è che abbiamo iniziato a notare quest’inquietudine? Probabilmente nella Sima de los Huesos si trova la più antica manifestazione di un’offerta votiva con cui ottenere il favore delle misteriose forze soprannaturali che abitavano le menti dei precursori dei Neanderthal. Si è discusso molto sul significato di Excalibur, un bifacciale ottenuto dalla lavorazione di un frammento di quarzite rossa. Si tratta di una variante di quarzite molto rara in altri siti della zona ed è l’unico manufatto trovato nella Sima de los Huesos. Secondo molti studiosi, per il particolare contesto in cui è stata rinvenuta, questa straordinaria pietra testimonia un comportamento simbolico di quasi mezzo milione di anni fa. Altre cerimonie mortuarie molto più tardive sono state documentate ad Atapuerca, nei siti di El Portalón e della Cueva del Mirador, con sepolture multiple in luoghi specifici e atti di cannibalismo rituale, forse due manifestazioni di rispetto di fronte all’ineluttabilità della morte.

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RAÚL MARTÍN / MSF / SPL / AGE FOTOSTOCK

EXCALIBUR, IL BIFACCIALE O AMIGDALA, UN UTENSILE IN PIETRA LAVORATO DA ENTRAMBI I LATI TROVATO NELLA SIMA DE LOS HUESOS NEL 1998.

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SPL / AGE FOTOSTOCK

L A PIÙ ANTIC A OFFERTA CONOSCIUTA?

I ricercatori hanno battezzato con il nome di Excalibur un bifacciale dal colore singolare, l’unico manufatto ritrovato nella Sima de los Huesos. Era circondato da cadaveri umani e per questo motivo si ritiene che avesse probabilmente il valore di un’offerta rituale.


CIVILTÀ E BARBARIE

Su questo sarcofago romano conservato a Brescia appare il momento della battaglia in cui i persiani fuggono sulle loro barche; prova del fatto che venissero considerati barbari è il dettaglio del persiano che morde la gamba di un greco. Sotto, un oplita uccide un persiano. Kylix. 460 a.C. circa.

GLI OPLITI CHE SALVARONO LA GRECIA

LA BATTAGLIA DI MARATONA 62 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC


SCALA, FIRENZE

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AC I

Il 12 settembre dell’anno 490 a.C. nella piana di Maratona, sulle sponde dell’Egeo, i 10mila opliti di Atene e i 600 soldati che costituivano il piccolissimo esercito della sua alleata Platea inflissero all’esercito persiano una sconfitta schiacciante B

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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C R O N O LO G I A

La Prima guerra persiana 499 a.C.

I greci dell’Asia Minore (Ionia) si ribellano contro la Persia. Eretria e Atene mandano navi in loro aiuto e il re Dario I giura di vendicarsi.

494 a.C.

Dopo la vittoria nella battaglia navale di Lade i persiani distruggono Mileto, l’ultimo bastione della resistenza contro Dario.

492 a.C.

Mardonio su ordine di Dario guida una spedizione per conquistare la Grecia ma la sua flotta naufraga mentre costeggia il monte Athos.

Estate 490 a.C.

Una seconda spedizione persiana attraversa l’Egeo e sbarca a Maratona. Gli ateniesi decidono di andarle incontro.

BRIDGEMAN / ACI

Settembre 490 a.C.

Giorno 12 gli opliti di Atene e della sua alleata Platea schiacciano i persiani a Maratona. Termina così la Prima guerra persiana.

L’OBIETTIVO DEGLI INVASORI

Lo scopo dell’esercito persiano era quello di punire Eretria e Atene per il loro appoggio ai ribelli ionici. Nell’immagine, l’Acropoli di Atene e in fondo il Pireo, il porto della città.

DARIO I SUL TRONO. BASSORILIEVO DI PERSEPOLI, LA CITTÀ FONDATA DAL SOVRANO. 515 A.C. CIRCA.

CRÓNICA DE CASTILLA, POR DIEGO ENRÍQUEZ DEL 64 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

L

a mattina del 12 settembre (o del 10 agosto secondo alcuni) del 490 a.C. 10mila opliti, per la maggior parte ateniesi, si schierarono a ovest della piana di Maratona, pronti a lottare per la loro libertà e per la loro sopravvivenza. Sull’ala destra era allineato il battaglione della tribù aiantide, dove combatteva il drammaturgo più grande di quei tempi, Eschilo, assieme ai fratelli Cinegiro e Aminia. In quanto aristocratici i tre potevano permettersi il costoso equipaggiamento di un oplita. Nella mano destra Eschilo impugnava una lancia di frassino di due metri e mezzo e indossava corazza, elmo e gambali in bronzo detti anche schinieri. Il metallo ricopriva anche l’arma più importante dell’equipaggiamento oplita, lo scudo in legno imbracciato in modo tale che a sinistra fuoriuscisse per metà. Il compagno posto da quel lato aveva quindi a disposizione lo scudo dell’altro per proteggere il proprio fianco destro, così come Eschilo si riparava tenendosi ben stretto al commilitone


BOSFORO

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Spedizione di Dati (491-490 a.C.) Sparta Impero persiano Estensione massima del dominio persiano verso il 492 a.C. Rotta seguita dalla flotta di Dati Battaglia di Maratona (490 a.C.)

Atene

Karystos Paro

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Samo Nasso

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Mileto

CARIA

I CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM

MAC

CRETA

L’OFFENSIVA PERSIANA LUCA DA ROS / FOTOTECA 9X12

NEL 492 A.C. Dario I diede inizio all’offensiva contro i greci per punire

alla sua destra. I punti di forza della falange erano la coesione e lo spirito di gruppo: finché la parete di scudi fosse rimasta serrata, sarebbe risultata impenetrabile. Davanti agli ateniesi erano schierati tra i 20mila e i 30mila soldati persiani. Le loro lance erano più corte e gli scudi di vimini e cuoio più leggeri. Tuttavia erano le loro frecce ciò che più temevano Eschilo e i suoi compagni, perché i soldati del re Dario I godevano della fama di ottimi arcieri. Malgrado gli opliti fossero forti nell’othismos (lo scontro corpo a corpo), se volevano giungere a quel momento dovevano prima sopravvivere alla pioggia di dardi. Nonostante tale minaccia e l’inferiorità numerica, gli ateniesi erano pronti a caricare contro il nemico. Mentre stringeva i denti sotto l’elmo e scambiava parole d’incoraggiamento con i fratelli Eschilo dovette forse pensare a com’erano arrivati a una situazione tanto impari. Nel 499 a.C., quando lui aveva ventisei anni, Atene aveva fornito venti navi agli ioni dell’Asia Minore durante la loro rivolta

il sostegno che questi avevano prestato ai ribelli ionici. Mardonio, genero del sovrano, ristabilì il dominio persiano su Tracia e Macedonia; nel giugno del 490 a.C. dalla Cilicia salpò una flotta guidata dal generale Dati, che attaccò le isole Cicladi conquistando Nasso e Paro e poi distrusse Eretria per sbarcare infine a Maratona.

contro l’impero persiano. La ribellione venne soffocata ma Dario giurò che si sarebbe vendicato degli ateniesi. Così nell’estate del 490 a.C. un’armata di seicento barche con un esercito di circa 25mila uomini attraversò l’Egeo. Dopo aver distrutto isole e città, la potente flotta persiana sbarcò sull’ampia spiaggia di Maratona i primi di settembre.

IL SOLDATO PIÙ FAMOSO

Qui rappresentato in un busto romano, Eschilo fu il più noto autore tragico della Grecia e combatté a Maratona. BRIDGEMAN / ACI

Atene accetta la sfida Quando la notizia giunse alle orecchie degli ateniesi Eschilo, i fratelli e il resto dei cittadini maschi vennero convocati per un’assemblea urgente. La decisione da prendere si mostrava ardua perché andare incontro a un esercito di gran lunga più imponente comportava un grande rischio. Tuttavia, rimanere ad aspettarlo non sembrava nemmeno una buona opzione dal momento che le mura della città erano ridotte in pessimo stato e non potevano accogliere tutta la popolazione dell’Attica, la STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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AFORISMO

STRADA PER ATENE (VIA MONTANA)

Accampamento greco AGRIELIKI

ALAMY / CORDON PRESS

STRADA PER ATENE (VIA COSTIERA)

3

ELMO PERSIANO, FORSE DI MARATONA, OFFERTO DAGLI ATENIESI AL SANTUARIO DI ZEUS A OLIMPIA. ARCHAIOLOGIKO MOUSEIO OLIMPIAS, OLIMPIA.

PICCOLA PALUDE

CORRERE PER LOTTARE

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LOTTA TRA UN CAVALIERE PERSIANO E UN OPLITA. PELIKE DEL V SECOLO A.C. MUZEUM NARODOWE W WARSZAWIE, VARSAVIA. SING

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66 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

1 La gran parte dell’esercito achemenide sbarca a Maratona. Nella notte tra l’11 e il 12 settembre alcune navi persiane cercano di salpare per Atene portando con sé la maggioranza della cavalleria. 2 Mentre i persiani mettono a punto la loro strategia, gli ateniesi si stabiliscono a ovest di Maratona per controllare le strade verso Atene. CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM

nelle storie Erodoto descrive la sorpresa che suscitò tra i persiani la tattica portata avanti dall’ateniese Milziade, ovvero caricare di corsa per evitare la pioggia di frecce scagliate dagli arcieri nemici. Si è calcolato che 12mila persiani potevano scoccare fino a 25mila frecce al secondo. Davanti agli opliti c’erano 25mila arcieri e Milziade decise, a ragione, che quanto prima avessero iniziato la lotta meno frecce li avrebbero colpiti. Secondo Erodoto i persiani «vedendoli arrivare di corsa si preparavano a riceverli e attribuivano agli Ateniesi follia pura, autodistruttiva, constatando che erano pochi e che quei pochi si erano lanciati di corsa, senza cavalleria, senza arcieri». Come si vide poi, la lotta andò in modo decisamente diverso.

verso Sunion

3  Dopo aver saputo del tentativo di partenza della cavalleria persiana grazie a dei disertori nemici, gli ateniesi tengono un consiglio di guerra e Milziade li convince ad attaccare.


2 4

CARADRO

MARATONA KOTRONI

Attacco della fanteria persiana al centro

STRADA PER RAMNUNTE

Accampamento persiano

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4 Milziade ha debilitato il centro dell’esercito greco per rinforzare le ali, che riescono ad accerchiare e a infliggere una sconfitta schiacciante all’esercito persiano.

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verso Eretria

5 Piegati, i persiani fuggono dal campo di battaglia e parte dei loro soldati salpa verso Atene mentre il resto dell’esercito viene trucidato a Maratona. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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7

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6

L’ARTEFICE DELLA VITTORIA

Copia romana in marmo di un busto greco di Milziade. Musée du Louvre, Parigi. RMN-GRAND PALAIS

regione di Atene. Dopo un lungo dibattito venne accettata la proposta di Milziade, il più carismatico tra i dieci generali che comandavano l’esercito. Convinti da lui, gli ateniesi inviarono un messaggero a chiedere aiuto agli spartani in nome del patto di mutua difesa contro i persiani. Mentre l’emissario viaggiava verso Sparta, oltre novemila opliti si diressero a Maratona. Lì si unirono a loro seicento guerrieri della piccola Platea, fedele alleata di Atene. Con quel contingente l’esercito arrivava a circa 10mila uomini di cui faceva parte anche la fanteria leggera, che in realtà contava ben poco. Erano divisi in undici battaglioni: dieci per ognuna delle tribù o divisioni amministrative di Atene e uno in più per gli alleati di Platea. Per diversi giorni entrambi gli eserciti si studiarono a distanza concedendosi soltanto delle piccole scaramucce. Gli ateniesi avevano remore ad avventurarsi nella pianura, dove la cavalleria nemica avrebbe potuto col-

pirli sulle ali e attaccarli dalla retroguardia mentre gli arcieri li avrebbero investiti di dardi frontalmente. Dal canto loro i persiani non si azzardavano ad assaltare la solida posizione greca sul versante del monte. Ma il loro generale, Dati, era cosciente del fatto che i rinforzi spartani non avrebbero tardato ad arrivare. Il tempo scorreva contro di lui.

Una corsa senza eguali Nella notte tra l’11 e il 12 settembre Dati decise d’imbarcare in gran segreto la sua cavalleria e una parte delle truppe per navigare alla volta di Atene, lasciata praticamente indifesa, mentre il resto dell’esercito avrebbe tenuto inchiodati gli avversari sul posto. Questi però vennero a sapere della manovra grazie ad alcuni disertori. In piena notte fu convocato un affrettato consiglio di guerra. Se alcuni volevano ritornare a difendere Atene lasciandosi così alle spalle migliaia di nemici, Milziade – allora comandante di turno – convinse gli altri nove generali che era meglio avventurarsi a combattere nella

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LO SCONTRO: BRONZO E CUOIO 3

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a fanteria persiana era organizzata secondo un sistema decimale. Ogni dathabam – o unità di dieci uomini – era guidata da un ufficiale, il dathapati, provvisto di una lancia e di un grande scudo rettangolare o spara 1 fatto di vimini e cuoio. Gli ufficiali univano gli scudi per formare un muro dietro il quale i soldati provvisti di una spada ricurva e di un arco scagliavano una pioggia di frecce. Erano dotati di corazze di lino indurito o imbottito 2 e altre in lamine metalliche fissate a una tela di cuoio 3 per proteggere il corpo. Dal canto loro gli opliti, armati di lancia e spada, erano rivestiti di bronzo: dei gambali gli coprivano gli stinchi, portavano l’hoplon 4, lo scudo concavo che gli diede il nome, e un elmo corinzio 5, anche se qui vediamo pure elmi attici 6 e perfino illiri 7.

ILLUSTRAZIONE: RICHARD HOOK / OSPREY PUBLISHING

piana anche se gli spartani non erano ancora arrivati in loro aiuto. Grazie a lui, la mattina del 12 settembre Eschilo e i fratelli erano schierati per la battaglia. Mentre i sacerdoti sacrificavano vittime agli dei e i generali arringavano gli uomini di ogni tribù, il drammaturgo contemplava le file nemiche. Si trovavano a un chilometro e mezzo di distanza e grazie ai rapporti dei ricognitori Eschilo sapeva chi avrebbero dovuto affrontare. Nella prima fila erano schierati gli sparabara, dotati di enormi scudi di vimini e cuoio bollito simili a porte. Dietro quella barriera c’erano molte altre file di soldati di fanteria composte da arcieri e lancieri che portavano faretre cariche di frecce e archi compositi con cui scoccavano proiettili a una tale velocità che, prima che il dardo si fosse conficcato a terra un altro già sibilava in aria. Anni dopo uno spartano avrebbe detto che le loro frecce erano talmente numerose da offuscare il sole. Alla fine, agli ordini dei loro generali Eschilo e gli altri si calarono gli elmi, im-

bracciarono gli scudi e avanzarono decisi. Malgrado quanto avrebbe affermato lo storico Erodoto decenni più tardi, non attraversarono correndo i millecinquecento metri che li separavano dai persiani giacché il peso delle armi li avrebbe spossati. In realtà procedettero a passo normale fino alla distanza alla quale sarebbero giunte le prime frecce. Allora Milziade diede l’ordine di andare alla carica. Mentre intonavano il canto guerriero del peana, gli opliti iniziarono a correre per rimanere il minor tempo possibile sotto la grandine di dardi. Come gli altri, Eschilo di sicuro pregava tra i denti tutti gli dei e alzava lo scudo sopra la testa, mentre le frecce rimbalzavano sulla fine lamina di bronzo che lo copriva emettendo un ticchettio metallico che gareggiava con i battiti accelerati del suo cuore.

IL MOMENTO DEL CONTATTO

L’illustrazione ricostruisce il momento in cui gli opliti, pesantemente armati, si scontrano con i persiani, la cui armatura è decisamente più leggera.

La notte tra l’11 e il 12 settembre i persiani imbarcarono una parte della loro cavalleria per dirigersi ad Atene, lasciata indifesa STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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CAPO SUNIO

Le rovine di un tempio dedicato a Poseidone si ergono sopra Capo Sunio. Situato a più di 65 chilometri a sud-est di Atene, venne doppiato dalla flotta persiana nella sua rotta da Maratona verso la città dell’Attica. TOMAS MAREK / ALAMY / CORDON PRESS


FIDIPPIDE, IL CORRIDORE DI MARATONA

ENSBA / RMN-GRAND PALAIS

M FIDIPPIDE COMUNICA AGLI ATENIESI LA VITTORIA DI MARATONA. OLIO DI LUC-OLIVIER MERSON. 1869.

La carica non dovette durare più di mezzo minuto, ma a Eschilo dovette sembrare eterna. Finalmente i temuti persiani diventavano reali ai suoi occhi. Appena fu più vicino poté leggere sui loro volti le smorfie d’incredulità per la corsa suicida degli ateniesi, ma anche la paura che ne fece vacillare gli animi. E i persiani non avevano torto a essere intimoriti: gli scudi degli sparabara, meno solidi di quelli greci, non resistettero allo scontro. Gli opliti della prima fila spronati dai compagni dietro cominciarono a penetrare tra i nemici come mietitori tra le messi. Eccetto gli ufficiali di più alto rango, i fanti persiani non possedevano un’armatura resistente quanto quella degli ateniesi e poiché le loro lance erano più corte nel corpo a corpo vennero sopraffatti e cominciarono a cadere a decine. Mentre sulle ali dello schieramento Eschilo e i fratelli si aprivano il passo a colpi di lancia, al centro delle linee greche la lotta infuriava. Per allungare il fronte ed evitare manovre avvolgenti Milziade aveva lì snellito la formazione, che sul fondo

entre gli ateniesi si dirigevano a Maratona Fidippide o Filippide, un emerodromo o messaggero professionista, si diresse a Sparta, a poco meno di 250 km di distanza, per chiedere aiuto. Giunse in un giorno e mezzo ma gli spartani dissero che sarebbero potuti partire solo dopo la fine delle Carnee in onore di Apollo perché spargere sangue prima avrebbe costituito un sacrilegio. Fidippide si diresse allora ad Atene con la risposta. Sul cammino incontrò il dio Pan, forse un’allucinazione per lo sforzo compiuto. Secondo una versione, dopo la successiva vittoria ateniese Fidippide corse i 42 km da Maratona ad Atene, esclamò «Abbiamo vinto!» e morì.

poteva contare su soli quattro scudi invece dei soliti otto. In quel settore perciò gli ateniesi non riuscirono a trattenere il nemico e iniziarono a indietreggiare. Per fortuna le truppe sui lati non tardarono a prevalere nei propri settori e accorsero in loro aiuto. Migliaia di persiani si ritrovarono circondati e morirono al centro del campo di battaglia, massacrati senza pietà. Nella zona dove combatteva Eschilo la situazione era diversa. Dopo aver rotto le file i nemici che lottavano contro il suo battaglione si misero a correre verso le barche. Anziché affluire al centro del campo di battaglia, gli uomini della tribù aiantide si lanciarono all’inseguimento dei nemici in fuga perché in genere in quel frangente si poteva dare la morte a più avversari ferendoli alle spalle ed eliminandoli senza incontrare resistenza. Eppure il disordine colpì anche l’esercito greco, giacché gli opliti più en-

VASO DI DARIO CON IL SOVRANO PERSIANO SUL TRONO. IV SECOLO A.C. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, NAPOLI.

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TESORO DEGLI ATENIESI

In questo edificio del santuario di Apollo a Delfi oggi ricostruito era custodito il bottino strappato ai persiani a Maratona e offerto al dio da parte degli ateniesi.

IVAN PENDJAKOV / AGE FOTOSTOCK

tusiasti si spinsero troppo avanti e persero così la protezione dei compagni. Uno di quegli imprudenti fu Cinegiro, il fratello di Eschilo, che si lanciò su una nave nemica, lasciò lo scudo per afferrarsi alla poppa e cercò di arrampicarsi a bordo. Davanti agli occhi inorriditi di Eschilo, che non giunse in tempo ad aiutarlo, un soldato persiano gli tagliò la mano con un colpo d’ascia. La leggenda narra che allora Cinegiro cercò di aggrapparsi con la mano sinistra. Quando anche questa gli venne tranciata tentò persino di usare i denti. In ogni caso cadde tra i flutti e morì dissanguato senza che il fratello potesse fare nulla per lui. Quando Eschilo alzò lo sguardo dal cadavere di Cinegiro la battaglia era già terminata. Dopo il conteggio finale gli atenesi si resero conto di aver perso solo 192 uomini. E fu proprio nel battaglione di Eschilo che morirono più persone perché la lotta ai piedi delle navi era stata caotica e disperata. 72 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

L’ELMO DI MILZIADE

Il Museo archeologico di Olimpia conserva questo cimelio eccezionale: l’elmo corinzio di bronzo che, secondo l’iscrizione nella parte inferiore, Milziade avrebbe offerto al santuario di Zeus. BRIDGEMAN / ACI

Ma lo scontro non era ancora terminato. Sebbene circa seimila nemici giacessero nella polvere, ne rimanevano quasi 20mila che navigavano verso sud con la flotta quasi intatta, in quanto gli ateniesi avevano catturato solo sette navi. Se fossero sbarcati sulla spiaggia di Falero, con pochi sforzi avrebbero attaccato un’Atene quasi inerme.

L’ultima prodezza Mentre i membri delle tribù Antiochide e Leontide rimanevano a Maratona per occuparsi di cadaveri e bottino, gli altri soldati tornarono in tutta fretta ad Atene. Alcuni giorni prima avevano coperto i 42 chilometri a grande velocità e ora lo fecero a marce forzate nonostante lo sfinimento dovuto alla battaglia. Ma ebbero la loro ricompensa. Non appena la flotta persiana arrivò a Falero, Dati non trovò ad attenderlo


SCALA, FIRENZE

LA TOMBA DEI PRODI A MARATONA è tuttora visibile il tumulo funerario in cui furono

sepolte le ceneri dei 192 ateniesi caduti in battaglia; i resti degli undici plateesi morti vennero inumati in un altro tumulo. Quasi 500 anni dopo gli eventi, in Periegesi della Grecia, il geografo Pausania raccontò che di notte lì si sentivano «cavalli che nitriscono e uomini che combattono».

una città indifesa, ma lo stesso esercito che lo aveva sconfitto alcune ore prima. Capì subito che uno sbarco sarebbe stato un autentico suicidio e diede l’ordine di levare le ancore. L’ultima imbarcazione persiana sparì all’orizzonte e Atene fu percorsa da un sospiro di sollievo. Il giorno seguente, quando finalmente giunsero gli spartani, gli ateniesi li accompagnarono al campo di battaglia per mostrargli i cadaveri e gli armamenti dei persiani. Eschilo rese omaggio a Cinegiro, che fu sepolto assieme agli altri soldati in un tumulo di nove metri di altezza conosciuto come Soros e visibile ancora oggi. Maratona fu la prima di una serie di dure prove cui sarebbe stata sottoposta la città di Atene. Nel 480 e 479 a.C. gli abitanti dovettero evacuarla e assistere al suo incendio voluto da Serse, figlio di Dario, anche se per tutta risposta parteciparono con gli altri greci alle vittorie di Salamina e di Platea, respingendo per sempre la minaccia persiana. Eppure, per quanto fosse soltanto il prologo di una guerra di più vaste proporzioni,

Maratona sarebbe divenuta un motivo di eterno orgoglio per gli ateniesi che per la prima volta erano riusciti a umiliare il gigante persiano. Eschilo ne mantenne sempre ben vivo il ricordo e predispose che dopo la sua morte, avvenuta in Sicilia nel 456 a.C., sull’epitaffio comparissero non i tredici premi vinti quale miglior autore tragico nelle Dionisiache di Atene, bensì proprio i fatti di Maratona: «Questa tomba ricopre Eschilo, figlio di Euforione, ateniese, morto a Gela, la ricca di grano. Del suo coraggio potrebbero parlare il bosco di Maratona e il medo dalla folta chioma, che bene lo conobbe».

IN RICORDO DEI CADUTI

Pausania racconta nella sua opera che sulla tomba degli ateniesi c’erano «stele con i nomi di coloro che sono morti, ciascuno secondo la sua tribù».

JAVIER NEGRETE SCRITTORE

Per saperne di più

SAGGI

Le grandi battaglie dell’antica Grecia Andrea Frediani. Newton Compton, Roma, 2017. Guerre persiane Pietro Vannicelli. Corriere della Sera, Milano, 2016. TESTI

La battaglia di Maratona Erodoto. Mondadori, Milano, 2014.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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L’ I M P E R ATO R E C H E A B D I CÒ

DIOCLEZIANO Nel 305 d.C., malato e sfinito dalla carica d’imperatore, Diocleziano annunciò la sua scelta di abbandonare il potere per ritirarsi in uno splendido palazzo che si era fatto costruire a Spalatum, l’attuale città croata di Spalato


UN PALAZZO-FORTEZZA

A differenza di precedenti residenze imperiali come quella di Adriano a Tivoli, il palazzo di Diocleziano a Spalatum è piuttosto una magnifica fortezza. Nell’immagine, il peristilio con le sue eleganti colonne corinzie. STEFANO POLITI MARKOVINA / ALAMY / ACI


Territori governati da: Diocleziano Massimiano Galerio Costanzo Capitali: Della tetrarchia Delle diocesi Conquiste di Galerio e Diocleziano Protettorato romano CARTOGRAFIA: BLAUSET

L’IMPERO DEI TETRARCHI

Sopra queste righe, cartina dell’impero romano durante il governo della tetrarchia. Sono evidenti i territori divisi tra i due cesari e i due augusti.

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ra il 1° maggio del 305. A Nicomedia, nel nord-ovest dell’attuale Turchia, si verificò un episodio senza precedenti nella storia dell’impero romano: l’imperatore Diocleziano abdicò e subito dopo riferì la sua intenzione di trasferirsi nel palazzo-fortezza che si era fatto costruire a Spalatum, l’attuale Spalato, sulla costa dalmata che lo aveva visto nascere. Prima di allora nessun imperatore aveva lasciato il potere di sua spontanea volontà né aveva preferito l’oblio di una vita dimessa ai lussi della capitale. Ma l’idea di ritirarsi aveva iniziato a pren-

dere forma nella mente di Diocleziano il 20 novembre del 303, mentre la città di Roma si preparava a una serie di celebrazioni.

L’addio dell’imperatore A quel tempo erano ormai circa vent’anni che Diocleziano aveva assunto il potere con il titolo di augusto per poi condividerlo con Massimiano e ne erano trascorsi dieci da quando aveva nominato due cesari subalterni per meglio difendere le frontiere: Costanzo a Occidente e Galerio a Oriente. La sua decisione aveva dato inizio alla tetrarchia, la divisione dell’im-

C R O N O LO G I A

UN IMPERO DIVISO 76 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

A Salona, nell’attuale Croazia, in seno a un’umile famiglia dell’Illiria nasce Gaio Aurelio Valerio Diocleziano. Con il tempo diventerà comandante della guardia imperiale e console.

284 d.C.

SCALA, FIRENZE

245 d.C.

Dopo l’assassinio dell’imperatore Numeriano, Diocleziano uccide il colpevole Arrio Apro e il suo esercito lo proclama imperatore in Anatolia. Il senato lo riconosce un anno più tardi. DIOCLEZIANO. MUSEO ARCHEOLOGICO DI ISTANBUL


BAMSPHOTO / SCALA, FIRENZE

305 d.C. Malato e stanco, Diocleziano si ritira dalla vita pubblica nel suo maestoso palazzo di Spalatum (Spalato). Intorno al 313 muore nel suo lussuoso ritiro. MONETA DELLA TETRARCHIA. III-IV SECOLO.

E

L’imperatore rende obbligatorio il culto a Giove quale fattore aggregante dell’impero a danno del cristianesimo, sempre più popolare. Inizia una cruenta persecuzione contro i cristiani.

Nel 298 Massimiano commissionò un complesso balneare che fu costruito a Roma e competeva con le terme di Caracalla. Fu dedicato a Diocleziano.

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Diocleziano decide di nominare cesari Costanzo Cloro in Occidente e Galerio in Oriente. Si aggiungono a Massimiano, già proclamato augusto di Occidente sette anni prima, nel 286.

303 d.C.

TERME DI DIOCLEZIANO

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293 d.C.

to tempo al potere. Il suo regno, prossimo a festeggiare i vent’anni, aveva finalmente garantito un periodo di pace dopo un secolo di crisi economica, d’incertezza politica e di caos militare alle frontiere. Nemmeno l’ultima grande persecuzione dei cristiani iniziata il 23 febbraio dello stesso anno avrebbe incrinato la gloria dell’imperatore. E così, durante i fastosi festeggiamenti, il popolo esultò per le abituali corse di carri e gli spettacoli dei gladiatori e poté assistere a una straordinaria parata trionfale in cui, davanti al carro dell’imperatore, sfilarono le mogli, le sorelle e i figli dello sconfitto Narseo.

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pero in quattro zone governate da un augusto o da un cesare. Era poi passato un lustro da quando le milizie romane avevano sconfitto il re persiano Narseo (o Narsete) vendicando la cattura dell’imperatore Valeriano avvenuta quarant’anni prima per mano di Sapore I, un altro monarca persiano sasanide. Roma scintillava dunque in tutto il suo splendore e Diocleziano poté contemplare soddisfatto i fori imperiali, i grandiosi templi pagani e perfino le terme appena concluse che avrebbero consegnato il suo nome all’eternità. Dai tempi di Marco Aurelio nessun altro imperatore era rimasto per così tan-

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ALAMY / CORDON PRESS

IL MARTIRIO DI SANT’AGNESE NEL FORO ROMANO EBBE LUOGO NEL 303, DURANTE IL GOVERNO DI DIOCLEZIANO. OLIO DI JOSEPH-DÉSIRÉ COURT. 1864.

LA PERSECUZIONE DEI CRISTIANI

I

L 23 FEBBRAIO 303 venne pubblicato un primo editto generale

contro il cristianesimo. Con questa misura veniva ordinata la chiusura dei luoghi di culto, l’arresto del clero, la requisizione di calici e libri sacri e l’espulsione dei funzionari imperiali che si fossero dichiarati cristiani. Tuttavia, nei mesi successivi furono promulgati altri tre editti in cui si concedeva il perdono ai cristiani se avessero compiuto sacrifici per onorare gli dei pagani. In caso contrario sarebbero stati condannati ai lavori forzati nelle miniere. La persecuzione messa in atto dall’imperatore Diocleziano fu la più lunga e sistematica contro i cristiani, anche se forse non la più sanguinosa. Poco dopo aver emesso questa serie di decreti repressivi il sovrano abdicò per ritirarsi nel suo palazzo di Spalatum. Nutriva la ferma speranza che l’abolizione del cristianesimo e il suo sradicamento dalla società romana avrebbero permesso di restituire all’impero l’antica gloria perduta. Le sue aspettative però vennero clamorosamente disattese. Nel 311, quando Diocleziano era ancora in vita, venne emesso un nuovo decreto che consentiva il culto cristiano e in cui si chiedeva ai fedeli di pregare per le anime degli imperatori.

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Tuttavia, il potere imperiale era ormai un pesante fardello anche per un uomo navigato come Diocleziano, che secondo alcune fonti aveva intrapreso la propria carriera militare in Gallia. Si diceva perfino che fosse figlio di schiavi o di un liberto che aveva lavorato come scriba per un senatore.

La scalata al trono Nessuno sapeva come quell’uomo, che non era romano e che rispondeva al nome di Gaio Aurelio Valerio Diocle, fosse finito a quarant’anni a comandare la guardia a cavallo dell’imperatore Marco Aurelio Caro durante la campagna di quest’ultimo contro l’impero persiano. Ma quel periodo oscuro doveva essere molto difficile e incerto, segnato da sanguinosi tradimenti, da una vertiginosa successione di governi effimeri e da grandi ribellioni che sorgevano ovunque. Alla morte di Caro nel 283 nessuno dei figli era riuscito a imporsi: nel 284, dopo pochi mesi di governo, il minore, Numeriano era stato rinvenuto senza vita nella sua portantina e


ARCO DI GALERIO

L’arco venne eretto a Tessalonica nel 303 per commemorare le vittorie dell’imperatore Galerio, uno dei tetrarchi, sui persiani sasanidi.

MASSIMO RIPANI / FOTOTECA 9X12

Diocle aveva trafitto con la spada il presunto assassino, il prefetto del pretorio Arrio Apro; il maggiore, Carino, aveva trovato la morte l’anno seguente nella battaglia del fiume Margus (Morava) mentre reclamava il trono che gli aveva usurpato Diocle. Per quell’anno il veemente ufficiale conosciuto ora con il suo nome latinizzato, Diocletianus, era divenuto il vero padrone o dominus di Roma, riceveva gli onori divini in quanto appartenente alla stirpe di Giove ed era venerato come un padre benevolo perché aveva restituito la pace ai suoi sudditi. Tuttavia era pure considerato una figura lontana, quasi invisibile dietro la cerchia di cortigiani e guardie del corpo e viveva recluso nei suoi molti palazzi; Diocleziano non amava partecipare a eventi pubblici, ma quando sporadicamente lo faceva il rigido protocollo gli impediva di goderne. Il trono imperiale aveva trasformato quel rude soldato delle campagne danubiane in un meticoloso amministratore che alcuni consideravano un semplice burocrate.

UNA LUCE SULLE TERME Questa lanterna in bronzo a sospensione fu trovata nelle terme di Diocleziano a Roma. British Museum.

BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE

Ma in realtà sotto i numerosi strati di ermellino e i lussuosi tessuti di seta si dibatteva il fragile e caduco corpo di un uomo di sessant’anni. Per questo una volta terminate le celebrazioni trionfali, il 20 dicembre del 303 Diocleziano abbandonò improvvisamente la città di Roma. Secondo alcuni se ne andò contrariato per l’atteggiamento poco rispettoso della plebe che lo vessava continuamente con la sua sfrontatezza, ma era forse anche tormentato dalla malattia che l’avrebbe accompagnato per il resto della sua vita e nella quale altri intravedevano una punizione del Dio dei cristiani. Sia come sia, il 1° gennaio del 304 Diocleziano assunse formalmente a Ravenna il suo ultimo consolato onorifico. Non sarebbe mai più tornato a Roma: forse riteneva di aver già lavorato abbastanza e di aver provveduto ad adottare le misure necessarie per l’incolumità dello stato, forse non aveva più l’energia per affrontare eventuali circostanze straordinarie che avrebbero messo in pericolo l’impero. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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IL CINGHIALE CHE VALSE UN IMPERO

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ENTRE SI TROVAVA CON GALERIO sulla frontiera settentrionale dell’impero, Diocleziano vedeva spesso sfilare le truppe che andavano a combattere contro le tribù dei carpi, sull’altra sponda del Danubio. Si ricordava allora di quando era soldato ai gradi inferiori dell’esercito e, invece dei magnifici palazzi di Roma, doveva dormire nelle sudicie locande della Gallia, nella regione dei tungri. Secondo una leggenda, in una di queste bettole aveva dovuto affrontare una donna che aveva la fama di essere una strega e che gli aveva detto: «Diocleziano, sei troppo avaro». Lui aveva ribattuto con scherno: «Sarò generoso da imperatore». La donna era rientrata nella locanda mormorando tra i denti: «Diocleziano, Diocleziano, non ridere di me, che sarai imperatore quando ucciderai un cinghiale». Da allora Diocleziano non aveva perso occasione di uccidere questi animali con le sue stesse mani, ma non aveva inteso il vero senso delle parole della donna fin quando, anni dopo, uccise il prefetto del pretorio per salire al potere. Con questo gesto compì la profezia della megera: la vittima infatti si chiamava Apro, Aper, che in latino significava proprio “cinghiale”.

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Eppure rimaneva ancora del lavoro da fare e per quasi tutto l’anno successivo Diocleziano dovette fermarsi con Galerio presso le guarnigioni della frontiera settentrionale. Dopo aver fornito le ultime istruzioni alle truppe danubiane trasferì la corte al palazzo di Nicomedia per trascorrervi la stagione fredda. Il silenzio dei mesi invernali veniva interrotto soltanto dalle voci che lo davano per morto e così il cesare orientale Galerio si recò presso la dimora imperiale per reclamare la successione. Il 1° marzo del 305 una fugace apparizione di Diocleziano si limitò a confermare quanto fosse emaciato l’uomo che veniva di solito paragonato al dio supremo Giove. Le sfarzose sale imperiali si riempirono allora di eunuchi – gli unici occhi e orecchi di cui allora disponeva Diocleziano –, i quali si affannarono ad allestire l’ultima e solenne cerimonia. Il 1° maggio del 305 l’imperatore riunì le truppe alla presenza di Galerio, vicino alla stessa montagna in prossimità di Nico-


ENSBA / RMN-GRAND PALAIS

media dov’era stato proclamato imperatore più di vent’anni prima. Con le lacrime agli occhi, Diocleziano confessò ai suoi uomini che si sentiva debole, che aveva bisogno di riposo e che aveva preso la decisione di abdicare. Alcuni sostengono che Galerio avesse fatto pressioni in tal senso. I sospetti sembrano essere giustificati dal fatto che, proprio quello stesso giorno, a Milano Massimiano rinunciò formalmente al potere e si ritirò nei suoi possedimenti in Campania, mentre Galerio e Costanzo, dal canto loro, venivano proclamati augusti.

Verso Spalatum All’indomani della sua dichiarazione Diocleziano si tolse l’abito da imperatore e montò su un semplice carro che lo condusse per le strade di Nicomedia. Erano trascorsi diciotto mesi dai festeggiamenti per il ventennale del suo governo e quando partì per la Dalmazia Diocleziano non aveva più forze. Tempo prima aveva ordinato di costruire un maestoso palazzo su una baia nella

penisola di Spalatum, vicino Salona, la sua città natale che aveva acquisito lo statuto di colonia grazie ad Augusto, il primo imperatore. Con il nome di Martia Julia Salonæ, l’odierna Spalato era divenuta una cittadina di più di 60mila abitanti, parte dei quali al servizio di Diocleziano. I geografi greci dell’antichità avevano chiamato tale luogo Aspalathos in virtù dell’omonimo arbusto oggi comunemente conosciuto come ginestra spinosa, che cresceva in abbondanza sulle coste dell’Adriatico. Si usava per produrre una grande varietà di profumi e oli essenziali. Probabilmente tale dettaglio botanico non sfuggì a Diocleziano, che una volta fuori dai giochi si dedicò con passione al giardinaggio in uno dei cortili del palazzo. Chi fosse giunto via mare alla baia avrebbe notato una spettacolare galleria porticata con una loggia centrale riservata all’imperatore. Eppure, visto dal continente il palazzo di Diocleziano mostrava l’impenetrabilità di una fortezza protetta da torri e mura imponenti. Era a tutti gli effetti la dimora di

UN ALLOGGIO SUL MARE

La facciata del palazzo di Diocleziano che dava sul mare a Spalatum in un acquerello di Ernest-Michel Hébrard. 1909. École nationale supérieure des Beaux-Arts, Parigi.

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INTEGRATO NELLA CITTÀ

Durante il Medioevo il palazzo di Diocleziano fu occupato dalla popolazione locale e al suo interno vennero costruite delle case. Al giorno d’oggi l’insieme romano è completamente assimilato nel centro di Spalato. LUCIE DEBELKOVA / FOTOTECA 9X12


DA MAUSOLEO ROMANO A CATTEDRALE

SEZIONE DEL MAUSOLEO DI DIOCLEZIANO NEL SUO PALAZZO DI SPALATUM. ACQUERELLO DI ERNEST-MICHEL HÉBRARD. 1909. ÉCOLE NATIONALE SUPÉRIEURE DES BEAUX-ARTS, PARIGI.

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U UN PODIO all’interno del palazzo

di Spalatum s’innalza un edificio a pianta ottagonale. È il mausoleo di Diocleziano, la cui scalinata d’ingresso all’inizio era custodita da sfingi portate dall’Egitto e coperte di geroglifici che celebravano le vittoriose campagne di Ramses II e di Amenhotep III. Nella sezione cilindrica del mausoleo risalta l’enorme cupola sotto la quale era custodito il sarcofago di Diocleziano. Per un’ironia della sorte la tomba dell’ultimo grande persecutore dei cristiani è ora la cattedrale della città, destinazione che gli aveva dato l’arcivescovo di Ravenna Giovanni agli inizi del Medioevo. Proprio per questo, sebbene spogliato di quanto possa ricordare la tradizione pagana, il mausoleo è senza dubbio l’edificio meglio conservato dell’antico palazzo.

ENSBA / RMN-GRAND PALAIS

un imperatore-soldato: assomigliava a un castrum – un accampamento romano – e la sua organizzazione con un asse verticale e uno orizzontale che s’intersecavano al centro permetteva ai servitori di spostarsi in modo rapido ed efficiente, quasi fossero stati i membri di una guarnigione. La struttura era isolata dall’esterno grazie alle spesse mura e alle torri di guardia disposte sui tre lati che davano sulla terraferma.

COSTANZO CLORO Costanzo I fu uno dei tetrarchi. Nel 296, quando era cesare, sconfisse l’usurpatore Alletto in Britannia. Moneta commemorativa. British Museum.

Clausura imperiale

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Nonostante le ingenti misure di protezione il palazzo di Spalatum ostentava l’eleganza di una grande villa imperiale. Gli interni erano decorati con lussuosi mosaici e colonne di marmo, mentre per adornare i portici e i peristili erano stati portati dei marmi greci dal Proconneso e da Caristo. Non solo: intere colonne erano state sradicate dai templi egizi ed elementi in porfido e granito erano arrivati da Assuan. Gli appartamenti privati di Diocleziano si affac-

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ciavano sul mare e quindi chi si fosse avventurato su una barca avrebbe potuto osservare l’imperatore mentre era dedito ai suoi passatempi quotidiani. A suo modo Diocleziano voleva coltivare un’immagine di normalità e semplicità pur limitando l’accesso alla sua persona per ragioni di sicurezza. Egli si allontanò dal palazzo di Spalatum in una sola occasione, quando Galerio lo convocò all’incontro di Carnuntum, nell’attuale Austria, l’11 novembre del 308. Lì in molti gli chiesero di tornare al potere perché l’impero era troppo difficile da amministrare, ma lui rispose: «Se aveste visto l’orto che coltivo con le mie mani, non mi avreste mai fatto una simile proposta». Nonostante il rifiuto la spirale di discordia in cui era precipitato l’impero dopo l’abdicazione amareggiò comunque i suoi ultimi anni: Galerio, ormai influente augusto d’Oriente, infranse la promessa di nominare come cesari Costantino e


ISTOCK / GETTY IMAGES

Massenzio, figli del cesare Costanzo Cloro e dell’augusto Massimiano. Quest’ultimo, che era stato costretto a ritirarsi, tornò dalla Campania e si autoproclamò nuovamente augusto. Il sistema di governo pensato da Diocleziano fallì miseramente lasciando il posto a una cruenta guerra civile.

Un amaro finale Alla morte dell’augusto Galerio nel 311 la figlia e la moglie di Diocleziano subirono la confisca delle loro proprietà, furono condannate all’esilio e mesi dopo morirono decapitate a Tessalonica per ordine di un nuovo augusto, Licinio. Le statue di Diocleziano vennero abbattute e s’iniziò a rinnegare l’imperatore e la sua eredità. Ciononostante, tutti riconoscevano che Diocleziano era stato un grande statista capace di guidare l’impero romano in uno dei momenti più critici della sua storia. Probabilmente il suo errore fu quello di volersi proporre come modello di umiltà rinunciando quindi alla società proprio quando si trovava al culmine del potere.

La morte di Diocleziano non è chiara in diversi suoi aspetti. Per cominciare c’è l’incognita della data: di sicuro morì un 3 dicembre, ma non c’è certezza sull’anno, anche se oggi si tende a credere che fosse il 313. Un altro dubbio riguarda la causa della morte. Lattanzio, autore cristiano e quindi ostile a Diocleziano, assicura che non fu più in grado di nutrirsi a causa della malattia e che, «sfinito dall’angoscia mentale, spirò». Secondo un compendio di biografie degli imperatori risalente alla fine del IV secolo Diocleziano, ormai vecchio, umiliato e solo nel suo magnifico palazzo si diede la morte.

LA CATTEDRALE DI SPALATUM

Agli inizi del VII secolo i cristiani trasformarono il mausoleo di Diocleziano in una cattedrale. Nel XIII secolo vi si aggiunse un alto campanile.

JUAN PABLO SÁNCHEZ CLASSICISTA

Per saperne di più

SAGGI

Diocleziano Filippo Carlà-Uhink. Il Mulino, Bologna, 2019. Armi e guerrieri di Roma antica Yann Le Bohec. Carocci, Roma, 2018. Il palazzo di Diocleziano a Spalato Angelo Lorenzi. Aion, Firenze, 2012. Il destino di Roma Kyle Harper. Einaudi, Torino, 2019.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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Porta Aurea

Porta ovest

IL PALAZZO DI SPALATUM Questo grandioso complesso venne costruito alla fine del III secolo d.C. come residenza di lusso e fortezza per l’imperatore Diocleziano. Molti edifici sono in pietra calcarea estratta dalle vicine cave di Brac. È un materiale ancora molto famoso per l’incredibile candore del suo bianco.

Tempio di Giove


Porta est

Mausoleo

Peristilio Vestibolo Sala delle udienze

TRA PALAZZO E CITTÀ

La residenza di Diocleziano formava un quadrilatero di 215 per 180 metri di lato. Le sue mura raggiungevano i 20 metri di altezza e i 2 di spessore alla base e mettevano in comunicazione quattro grandi torri difensive. Era strutturato come un accampamento militare con due assi perpendicolari tra loro, il cardo e il decumano, alle cui estremità si ergevano quattro porte monumentali. La parte settentrionale era destinata all’alloggio di soldati e servitori così come a magazzini e negozi. Nella sezione meridionale, nel porticato parallelo alla costa, si trovavano gli appartamenti imperiali. Per gli atti ufficiali c’erano una grande sala delle udienze o salutatorium, un vestibolo e una cenatio o sala da pranzo. Oggi si conservano i resti del tempio di Giove e del mausoleo di Diocleziano, cristianizzato nella cattedrale di San Doimo.

ACQUERELLO DI JEAN-CLAUDE GOLVIN. MUSÉE DÉPARTEMENTAL ARLES ANTIQUE © JEAN-CLAUDE GOLVIN/ ÉDITIONS ERRANCE

Stanze private


L’ASTRONAUTA

La maggior parte dei geoglifi di Nazca fu realizzata su superfici piane. Altri invece, come questa curiosa figura antropomorfa popolarmente conosciuta come “astronauta” o “uomo-gufo”, furono tracciati sulle pendici di piccole colline. ROBERT CLARK / NGS


I M I S T E R I OS I G EOG L I FI PE R U V I A N I

LE LINEE DI NAZCA Gli antichi abitanti della costa meridionale del PerĂš tracciarono gigantesche figure geometriche e zoomorfe nel deserto in cui vivevano. Mille anni piĂš tardi quei disegni sono ancora avvolti nel mistero


MARTIN BERNETTI / GETTY IMAGES

IL GEOGLIFO RITRATTO NELLA FOTO RAPPRESENTA UN’ORCA, UN ANIMALE MOLTO FREQUENTE NELL’UNIVERSO RELIGIOSO LOCALE.

IL DESERTO DI NAZCA È ADORNATO DA MIGLIAIA DI GEOGLIFI. QUI SONO RIPRODOTTI TRE DISEGNI FIGURATIVI: IL FIORE, IL FENICOTTERO E LE MANI. 90 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

posta da due termini greci che significano rispettivamente “terra” e “intaglio”) e possono essere suddivisi in quattro categorie a seconda del disegno. Il primo gruppo, il più numeroso, è formato da solchi retti, larghi tra i quaranta centimetri e i due metri e mezzo e lunghi anche svariati chilometri, al punto che in qualche caso fuoriescono dai confini della valle. Il secondo è costituito da elementi rettangolari o triangolari tradizionalmente considerati dei punti di ritrovo. Del terzo insieme fanno parte le forme geometriche come zig-zag e spirali, mentre al quarto appartengono i disegni figurativi. Anche se questi ultimi superano appena la trentina di esemplari, sono quelli che hanno

ILLUSTRAZIONE: JEROME COOKSON / NGS. FOTO: ROBERT CLARK / NGS

L

ungo la costa meridionale del Perù, nelle piane di Nazca e Palpa, si trova uno dei più sorprendenti reperti dell’archeologia andina: le famose linee di Nazca. Queste immense configurazioni tracciate sul suolo, le cui dimensioni possono raggiungere i 275 metri di lunghezza, infondono vita a uno dei paesaggi più aridi al mondo. Non si tratta di un caso unico nelle Ande: solo sulla costa peruviana ci sono altri quaranta siti con elementi simili. Ma da nessun’altra parte è possibile trovarne un tale numero: a Nazca si estendono su una superficie di oltre 500 chilometri quadrati. Tecnicamente queste figure si chiamano geoglifi (una parola com-


Nella piana di Nazca ci sono centinaia di linee e forme geometriche oltre a una serie di raffigurazioni zoomorfe. Alcune di queste ultime rappresentano degli animali che non vivono nell’habitat desertico della regione, come il colibrì, il pappagallo o la scimmia. Per spiegare questo fatto sono state formulate diverse teorie. Secondo alcuni studiosi quei solchi provano che in passato il clima della regione era più umido e benevolo. Ma la tesi più accreditata è ºche siano una testimonianza degli intensi scambi commerciali con le regioni circostanti. LA PIANA DI NAZCA IN PROSSIMITÀ DELLA NECROPOLI DI CHAUCHILLA (SULLA DESTRA).

ILLUSTRAZIONE: SOL 90 / ALBUM. FOTO: ALAMY / CORDON PRESS

El desierto de Nazca UN DESERTO PIENO DI SEGNI

I NGE NIO

SPIRALE 80 M.

AVVOLTOIO 60 M.

RAGNO 46 M.

IGUANA

COLIBRÌ 97 M.

L PELLICANO 137 M.

CONDOR 136 M.

ALBERO 70 M.

FIORE 76 M.

CANE 51 M. SCIMMIA 110 M.

Per facilitare la visione d’insieme le rette e i disegni non sono stati riprodotti in scala.

GRAN DESERTO DI NAZCA

Diversità Una delle caratteristiche principali dei geoglifi è la varietà. Figure animali e vegetali coesistono con forme rettangolari e triangolari. Le linee sono straordinariamente rette nonostante in alcuni casi misurino diversi chilometri e superino ostacoli come colline e avvallamenti.

FIGURE GEOMETRICHE

N O E S

Cahuachi NAZ CA


C R O N O LO G I A

LO STUDIO DELLE LINEE 1927 L’archeologo Toribio Mejía Xesspe intraprende le prime ricerche sul campo a Nazca.

1939 Paul Kosok osserva le linee da un velivolo e ipotizza che si tratti di un calendario astronomico.

1946 Maria Reiche inizia a studiare i disegni. Continuerà fino alla sua morte, avvenuta nel 1998.

1997 Il progetto NascaPalpa sostiene la tesi di Johan Reinhard del 1987 che collega i solchi al culto della fertilità. TESSUTO IN LANA DI CAMELIDE. PERIODO COMPRESO TRA IL 500 E IL 900 D.C. ART INSTITUTE OF CHICAGO.

IL COLIBRÌ

ALBUM

La rappresentazione di questo piccolo uccello è una delle più famose della piana. Si tratta di un disegno di notevoli dimensioni: tra le estremità delle due ali ci sono 66 metri di distanza.


RETRATO DE GIULIANO DE MÉDICIS. HACIA 1475-1478. ACADEMIA DE CARRARA, BÉRGAMO.

ORCA 32 M. FENICOTTERO 300 M. UCCELLO

C O LO MBIA EC U AD O R

CONCHIGLIA

LUCERTOLA LUCERTOLA 200 M.

PAPPAGALLO 200 M.

PERÙ

BRASILE

Lima OCEANO PACIFICO

MANI 45 M.

Cuzco

Nazca Arequipa

BOLIVIA

Posizione Le figure si trovano tra le province di Palpa e Nazca, anche se la maggior parte è situata nelle pianure di Jumana. Migliaia di linee si stagliano in un’area di quasi 50 km di lunghezza caratterizzata da un terreno che va dal nero al rossiccio.

Palpa

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VALLE INGENIO

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PIANA DI JUMANA

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PIANA DI MAJUETOS

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UOMO-GUFO 32 M.

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VALLE DI PALPA

Cahuachi

NAZCA

PIANA DI ATARCO

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BALENA 63 M.

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Nazca

Nazca

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TR AN CA S PIANA DI CHAUCHILLA

N 0

Km

12

Chauchilla


QUESTO PAPPAGALLO SI TROVA NELLE VICINANZE DI UN’ALTRA CELEBRE FIGURA: IL PELLICANO.

ROBERT CLARK / NGS

sentato un mondo soprannaturale abitato da personaggi mitologici che mescolano tratti umani e animali. Alcuni di essi, come la cosiddetta “orca assassina” – un grande cetaceo che regge un coltello e una testa mozzata –, compaiono anche nei monumentali disegni.

Agricoltura nel deserto La cosa più sorprendente di questa cultura è che s’insediò in uno dei deserti più aridi del pianeta e riuscì a coltivarlo facendone la fonte di sostentamento della propria popolazione. L’elevato incremento demografico favorito dallo sviluppo agricolo ebbe dei risvolti negativi: secondo le ultime teorie a mettere fine a questa civiltà contribuì il sovrasfruttamento della prosopis pallida, un albero che cresceva nella zona e forniva la legna per le attività quotidiane. Com’è possibile questo aumento incontrollato della popolazione in un territorio dove le precipitazioni sono scarse e i fiumi spesso asciutti? La sussistenza della civiltà nazca fu favorita da un complesso sistema idraulico che permetteva di sfruttare l’acqua del sotto-

TESTA-TROFEO ADORNATA CON UN COPRICAPO DI PIUME. MUSEO DEL ORO, LIMA.

DAGLI ORTI / AURIMAGES

ROBERT CLARK / NGS

reso famoso il sito in tutto il mondo. Tra questi spiccano quelli a carattere naturalistico come il colibrì, il cane o il ragno, ma anche forme che non trovano riferimenti nel mondo reale e che probabilmente rimandano all’universo sacro dei nazca. Gli autori di questa singolare manifestazione artistica sono oggi ben noti. Abitarono la regione tra il 300 a.C. e l’800 d.C. e la loro capitale era Cahuachi, un centro cerimoniale punteggiato di centinaia di strutture piramidali. Seppellivano i loro morti in degli involti funerari che poi venivano depositati all’interno di camere collettive. L’aridità del deserto mummificava naturalmente i corpi intorno ai quali si sviluppò un culto che implicava la visita ripetuta delle tombe degli antenati. Oltre ai geoglifi, l’arte del luogo era specializzata nella ceramica in cui viene rappre-


CAHUACHI

La pietra in primo piano è stata ritrovata nel sito cerimoniale di Cahuachi, capitale della cultura nazca. Anticamente veniva usata per macinare i pigmenti con cui fu dipinta la grande piramide sullo sfondo.


POZZI E ACQUEDOTTI 1. Terracotta a forma di millepiedi. Museo Regional de Ica (Perù).

I NAZCA costruirono dei canali sotterranei a cui si accedeva tramite dei pozzi come

quelli qui visibili sopra, situati a pochi metri l’uno dall’altro e volti a facilitare i lavori di manutenzione. L’ingresso era a forma di spirale e si restringeva in profondità. Ciò permetteva di raggiungerne facilmente la base tramite delle scale e impediva ai materiali trasportati dal vento di depositarsi nell’acqua. Le opere di manutenzione degli acquedotti erano suddivise tra le varie comunità. Cantalloc, nella foto, è uno dei migliori esempi di questo sistema idraulico.

suolo. I locali costruirono una serie di acquedotti e canali sotterranei in uso ancor oggi: grazie a quest’opera d’ingegneria e all’enorme sforzo dedicato alla sua manutenzione riuscirono a coltivare il deserto e a nutrire una popolazione in crescita. I geoglifi invece richiesero meno dedizione: nonostante il loro aspetto grandioso infatti, realizzarli fu relativamente semplice. La composizione geologica della piana in cui si trovano ben si presta a questo tipo di opere artistiche: il terreno è costituito da una base di sabbia chiara e compatta ricoperta da uno strato di ciottoli scuri. Per realizzarli si asportava il livello superficiale lasciando affiorare il sottostante suolo arenoso. Così fa ce n d o s i generava un forte contrasto con l’area circostante. Il

pietrisco rimosso veniva ammonticchiato ai bordi della zona appena ripulita per creare un gioco di ombre che permetteva di mettere in maggior rilievo i contorni delle figure e accentuare la contrapposizione tra la superficie chiara e quella scura.

Cos’erano i misteriosi disegni? Per tracciare le figure si partiva da un modello di dimensioni ridotte forse abbozzato su tela che poi veniva riprodotto su scala maggiore. Qualcuno è convinto che siano fatti per essere visti dall’alto, ma la loro disposizione dimostra che non è così. I solchi spesso s’intersecano gli uni con gli altri e non sembrano essere stati tracciati in modo pianificato né secondo una visione d’insieme: tutto indica che ogni tratto fu eseguito in modo autonomo rispetto agli altri. Questo è forse dovuto al fatto che le linee furono realizzate in fasi successive o da gruppi diversi. In ogni caso, nulla suggerisce che ai locali importasse la visione dall’alto, probabilmente perché non avrebbero mai immaginato che un giorno sarebbe stato possibile osservare quelle forme dal cielo.

MASCHERA FUNERARIA NAZCA IN FOGLIA D’ORO. MUSÉE DU QUAI BRANLY, PARIGI. 96 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

JACQUES CHIRAC / RMN-GRAND PALAIS

1. DEA / ALBUM. 2. BRIDGEMAN / ACI. 3. DAGLI ORTI / AURIMAGES. 4. ORONOZ / ALBUM. 5. ALBUM

ROBERT CLARK / NGS


CERAMICHE VARIOPINTE Realizzati in argilla fine, accuratamente lucidati e dipinti in colori vivaci, questi oggetti di uso quotidiano e decorativo sono adornati con una grande varietà di temi per lo più legati alla natura.

4. Caratteristica ceramica nazca con un fregio di volti umani alla base. British Museum, Londra.

2. Il motivo decorativo di questo piatto è l’orca. Museum of Fine Arts, Boston.

5. Recipiente raffigurante una donna accovacciata con il volto dipinto di bianco. Metropolitan Museum, New York.

3. Stoviglia a forma di scala con figure umane geometriche. Museo Amano, Lima.


Gli archeologi si sono chiesti per decenni come vennero realizzate le linee della piana di Nazca. Oggi i ricercatori credono di aver trovato una spiegazione. L’illustrazione ricostruisce come sarebbero state tracciate le linee rette e le spirali che compongono uno degli enigmi che suscita più curiosità nel mondo dell’archeologia. DISEGNO A FORMA DI SPIRALE DI 80 M DI DIAMETRO SITUATO TRA IL RAGNO E L’AVVOLTOIO (SULLA DESTRA).

DISEGNARE OPERE D’ARTE NEL DESERTO Per creare i solchi i nazca utilizzavano materiali rudimentali: ceste, paletti di legno e corde. Piantando due paletti a una certa distanza e unendoli con una corda ben tesa riuscivano a disegnare delle linee perfettamente dritte. Per fare una spirale invece ne era sufficiente uno solo al quale era collegata una corda parzialmente arrotolata a un bastone mobile: si girava intorno al paletto svolgendo a poco a poco la corda.

1. Tracce Dopo aver contrassegnato il disegno con dei massi si rimuove lo strato superficiale per definirne il contorno.

I ciottoli superficiali erano resi più scuri dall’aridità del terreno.

98 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

2. Cumuli I ciottoli asportati dall’interno dell’area vengono disposti in cumuli.

ILLUSTRAZIONE: FERNANDO G. BAPTISTA / NGS. FOTO: ALAMY / ACI

COME FURONO TRACCIATI I MISTERIOSI GEOGLIFI


3. Bordo Il pietrisco rimosso viene ammonticchiato lungo il contorno del disegno per formare un bordo rialzato.

4. Paletto centrale Una corda fissata a un paletto piantato a terra si avvolge attorno a un bastone mobile e si srotola girando intorno al paletto per tracciare una spirale.

5. Seconda spirale Si traccia una seconda spirale all’interno della prima, quindi si rimuovono i ciottoli tra le due per rivelare il terreno sottostante, piÚ chiaro.

Strato piĂš chiaro di sabbia e ghiaia.

Le ombre proiettate dai bordi rialzati accentuano i contorni del disegno.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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QUESTO IMPONENTE RAGNO È UNO DEI PIÙ NOTI GEOGLIFI ZOOMORFI DI NAZCA.

IN MONGOLFIERA SECONDO ALCUNE teorie fantasiose i nazca sorvolavano il deserto per dirigere dall’alto

la realizzazione dei disegni. L’esploratore statunitense Jim Woodman ha ipotizzato che usassero delle mongolfiere di cui ha trovato presunte testimonianze nell’arte nazca e ha sostenuto che i loro tessuti fossero abbastanza resistenti da essere utilizzabili per i palloni. Woodman ha interpretato inoltre alcuni cerchi più scuri presenti nella piana come tracce delle fosse di combustione usate per scaldare l’aria. Nel 1975 l’esploratore è riuscito a far volare brevemente una mongolfiera costruita con i materiali disponibili in epoca nazca.

Che funzione avevano allora queste figure? Nel corso dei decenni sono state formulate numerose ipotesi sul loro significato, ma quattro teorie si sono imposte sulle altre. Una prima interpretazione suppone che si tratterebbe di una specie di sentieri. Quest’idea fu proposta per la prima volta a livello scientifico dall’archeologo peruviano Toribio Mejía Xesspe, secondo cui i geoglifi erano percorsi cerimoniali legati a determinate celebrazioni religiose di tipo processionale. È una delle tesi più accreditate visto che alcuni studi recenti hanno permesso d’individuare dei solchi che portano direttamente all’ingresso di Cahuachi e che sarebbero stati utilizzati come strade per accedere alla capitale in modo rituale – per esempio tramite processioni. Un secondo gruppo d’ipotesi parte dall’idea che siano legati a

eventi stagionali o astronomici. La principale promotrice è stata Maria Reiche, una matematica tedesca che ha dedicato la sua vita allo studio di queste opere al punto da trasferirsi a vivere in prossimità del sito archeologico. La sua proposta è sintetizzata nella frase dell’amico Paul Kosok, studioso degli antichi sistemi idraulici andini che ha definito le linee di Nazca «il più grande libro di astronomia del mondo». La loro funzione astronomica delle è ancora in fase di studio, sebbene le congetture di Reiche siano state confutate da alcune ricerche più recenti. Gli sforzi della matematica hanno comunque permesso di ottenere il riconoscimento e la protezione del sito e la sua inclusione nella lista del Patrimonio mondiale dell’umanità. Il terzo approccio interpretativo riunisce le teorie che mettono in collegamento i geoglifi con la risorsa più preziosa di Nazca: diversi autori hanno suggerito che la loro funzione rituale potrebbe essere connessa al culto dell’acqua e delle montagne da cui proviene. Negli ultimi anni quest’ipotesi ha guadagnato importanza e un numero sempre maggiore di ricercatori ha tentato d’indivi-

MARIA REICHE, LA MATEMATICA TEDESCA CHE HA DEDICATO LA VITA ALLO STUDIO DELLE LINEE. 100 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

BETTMANN / GETTY IMAGES

ILUSTRAZIONE: JON FOSTER / NGS. FOTO: DAGLI ORTI / AURIMAGES

ROBERT CLARK / NGS

FLAUTO DI ARGILLA, FORSE USATO IN CERIMONIE RELIGIOSE. THE NATIONAL MUSEUMS OF WORLD CULTURE, GÖTEBORG.


RICOSTRUZIONE DI UN RITUALE VOLTO A PROPIZIARE LA PIOGGIA E I BUONI RACCOLTI.

PREGHIERE E OFFERTE AGLI DEI LE LINEE ERANO probabilmente il teatro di solenni

rituali volti a propiziare un buon raccolto. Si ritiene che i partecipanti lasciassero delle offerte sulle piattaforme di pietra situate all’estremità di un’area trapezoidale e quindi procedessero verso un’altra piattaforma situata all’estremità opposta. Mentre i musicisti suonavano flauti di argilla, uno dei partecipanti invocava gli dei rompendo un recipiente di ceramica nei pressi della zona. Le offerte alle divinità erano probabilmente costituite da fagioli, frutta e altri doni come le conchiglie del pregiato mollusco spondylus, che nel disegno è portato da uno degli officianti.


SEPOLTURA CON DUE FASCI FUNERARI NELLA NECROPOLI DI CHAUCHILLA. NELLE TOMBE SONO STATI TROVATI RESTI DI TESSUTI BEN CONSERVATI E NUMEROSE CERAMICHE.

ALAMY / ACI

L’enigma continua Alcune teorie esulano da questi quattro gruppi che pure sintetizzano la maggior parte degli studi. Ci sono approcci che privilegiano l’aspetto iconografico interpretando i disegni come una specie di grande atlante o di enorme tessuto. Altri, invece, lasciano in secondo piano le caratteristiche formali per concentrarsi sulla questione della funzionalità. William H. Isbell sostiene per esempio che la creazione dei geoglifi era un modo di utilizzare la manodopera in periodi in cui scarseggiava il lavoro nei campi. 102 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Nonostante i vari sforzi degli studiosi per svelarne il mistero, le linee di Nazca restano per molti versi enigmatiche. Attorno alla loro origine si sono sviluppate un certo numero di teorie fantasiose che rimandano a una paternità non umana delle figure. Ne sono un esempio le congetture di Erich von Däniken. Lo scrittore svizzero nel 1968 ha immaginato che fossero delle piste di atterraggio per delle navicelle extraterrestri in visita sul nostro pianeta. Di certo la scienza non è in grado di rispondere a tutte le questioni sollevate dai geoglifi, ma ciò non implica affatto che le risposte vadano cercate nello spazio cosmico. Molte si celano piuttosto nell’universo sacro e religioso dei nazca, un luogo ancora inaccessibile ma che grazie alla ricerca forse un giorno sarà possibile esplorare e conoscere. ARIADNA BAULENAS DIRETTRICE DELL’ISTITUTO DELLE CULTURE AMERICANE ARCAICHE (BARCELLONA)

Per saperne di più

SAGGI

Nasca. Archeologia per una ricostruzione storica Giuseppe Orefici. Jaca Book, Roma, 1992. INTERNET

AirPano: osservare le linee Nazca www.airpano.com/360photo/ Palpa-Lines-Peru/

ROBERT CLARK / NGS

duare una possibile relazione diretta tra geoglifi e sorgenti del sottosuolo. L’americano David Johnson afferma che i solchi sono una mappa del sistema idrico sotterraneo. Alcune prove puntano in questa direzione ma mancano ancora studi conclusivi. Infine, c’è chi sostiene che le rappresentazioni figurative potrebbero riferirsi a un pantheon divino o costituire la prova di rituali sciamanici indotti dal consumo di sostanze psicotrope. Anche se è evidente che le figure sono legate alla visione del mondo dei nazca e rientrano nella loro ritualità, è difficile approfondire questa linea di ricerca.


LA SCIMMIA

Con i suoi 135 metri di diametro è uno dei geoglifi piÚ grandi, oltre a essere uno dei piÚ noti. Rappresenta una scimmia con una lunga coda a spirale e solo quattro dita nella mano destra.


L ’A F FA R E DEI VE L E N I U N I N T R I G O AL L A C O R T E DE L R E S O L E


STÉPHANE LEMAIRE / GTRES

LA REGGIA DI VERSAILLES

Nel 1679 la polizia scoprì a Parigi una rete criminale che sembrava trafficare con ogni tipo di pozioni e veleni. I suoi clienti erano i membri dell’aristocrazia francese. Tra di loro si trovava anche l’amante ufficiale di Luigi XIV, madame de Montespan

La Corte di marmo era la parte più antica del palazzo che Luigi XIV trasformò nella sua dimora permanente nel 1682, proprio quando decise di mettere a tacere l’affare dei veleni. A sinistra, contenitore per l’orvietano, un antidoto. XVIII secolo. Ordre national des pharmaciens, Parigi. BRIDGEM

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C R O N O LO G I A

Crimini presunti e reali 1676 La marchesa di Brinvilliers è messa a morte dopo l’accusa di aver avvelenato il padre e i fratelli per aggiudicarsi l’eredità familiare.

1679 Scoppia lo scandalo dei veleni. Vengono accusate e arrestate diverse donne, in seguito torturate e condannate a morire sul rogo.

1680 La figlia di La Voisin, una delle condannate, dichiara che nell’affare dei veleni sono implicati influenti personaggi della corte.

1682 Luigi XIV decide d’insabbiare l’indagine sui veleni. Nel 1709 ordina di bruciare tutta la documentazione.

IL RE SOLE ATTRAVERSA IL PONT NEUF

La tela sopra queste righe mostra la carrozza di Luigi XIV mentre attraversa Pont Neuf a Parigi, davanti alla statua di Enrico IV. Adam Frans van der Meulen. 1666. Musée de Grenoble.

LUIGI XIV, RE DI FRANCIA. BUSTO DI FRANÇOIS GIRARDON. 1690. MUSÉE DES BEAUX-ARTS ET D’ARCHÉOLOGIE, TROYES.

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AKG / ALBU

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n monarca assoluto, un’amante ambiziosa, un’implacabile lotta per il potere assicurato unicamente dalla vicinanza al re. E anche facoltosi genitori che non morivano, eredità che non giungevano, figli di amori adulteri che bisognava eliminare a tutti i costi... Nell’ultimo terzo del XVII secolo i francesi idolatravano sì un Re Sole al culmine del suo potere, ma anche il re delle tenebre, il diavolo. L’affaire des poisons, l’affare dei veleni, rivelò che l’elegante mondo della corte di Versailles aveva il suo rovescio della medaglia, ovvero ambienti sordidi nei quali si praticavano i più abietti esorcismi contro nemici personali e quando questi non davano i risultati agognati si ricorreva al ben più rapido metodo dell’avvelenamento. Questa fu senza dubbio una delle vicende più oscure della storia di Francia. Il caso scoppiò nel 1679: durante una cena in casa di una certa madame Vigoureux un avvocato parigino sentì che madame Bosse, un’invitata a cui il vino aveva sciolto la lingua,


CHRISTOPHEL FINE ART / ALBUM

Indagini poliziesche Il corpo di polizia di Parigi era diretto da Gabriel-Nicolas de La Reynie, che da anni si occupava di diversi episodi di avvelenamento che avevano creato una vera e propria psicosi nella capitale. Nel 1673 per esempio i confessori del carcere di Grand Châtelet, nei pressi di Nôtre-Dame avevano allertato la polizia sul fatto che, prima della loro esecuzione per altri crimini, molti imputati dichiaravano di aver preso parte ad avvelenamenti. Ancor più grave fu poi la messa a morte della marchesa di Brinvilliers, nel 1676, punita per aver assassinato con il veleno il padre e due fratelli e per aver tentato di uccidere il marito in modo da avere accesso all’eredità familiare e sposare l’amante. La Reynie si affrettò quindi a mandare la moglie di uno dei suoi agenti a

LA FIGLIA ASSASSINA La marchesa di Brinvilliers avvelenò il padre per accedere all’eredità e poi fece finta di prendersene cura mentre moriva. Incisione del XIX secolo.

LEEMAGE / PRISMA ARCHIVO

esclamava: «Che bel lavoro! Che bella clientela! Marchese, duchesse, signori e principesse! Altri tre avvelenamenti e posso pure ritirarmi». L’avvocato prese la questione sul serio e denunciò immediatamente la donna.

casa di madame Bosse, alla quale la donna raccontò che il marito le rendeva la vita impossibile e che le sarebbe piaciuto disfarsene. In cambio di una sostanziosa somma di denaro, madame Bosse le consegnò allora una boccetta di veleno. Così, nel bel mezzo della notte, La Reynie fece arrestare madame Bosse e madame Vigoureux per rinchiuderle nel castello di Vincennes. Durante gli interrogatori entrambe dichiararono di essere veggenti. Ammisero che a Parigi c’erano più di quattrocento persone che praticavano la stregoneria e l’avvelenamento all’oscuro della corte e che avevano accesso perfino alle stanze del re. Affermarono inoltre che la maestra nell’arte dei veleni era una certa Catherine Deshayes, vedova Monvoisin, più conosciuta come La Voisin. Durante i primi colloqui emerse pure il nome di madame de Poulaillon, una dama appartenente all’illustre lignaggio dell’alta magistratura di Bordeaux, sposata STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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LA PIAZZA REALE

L’antica place Royale, oggi chiamata place des Vosges, fu costruita dietro ordine di Enrico IV tra il 1605 e il 1612. In uno dei suoi palazzi era nata la marchesa di Sévigné, aristocratica che nella sua vastissima corrispondenza ci ha lasciato una vivida cronaca di più episodi dell’affare dei veleni.

LA MARCHESA DI BRINVILLIERS

PRIMO SCANDALO el 1670 un militare di nome Sainte-Croix, amante dell’alchimia, morì lasciando un’infinità di debiti. Quando i creditori aprirono una misteriosa cassetta metallica presente a casa sua vi trovarono una serie di lettere dell’amante, Marie-Madeleine-Marguerite d’Aubray, marchesa di Brinvilliers, in cui questa raccontava nei dettagli l’assassinio di suo padre, che aveva avvelenato per mesi, e quello dei suoi fratelli uccisi per rubargli l’eredità. Vi spiegava pure i tentativi di far fuori il marito allo scopo di sposare l’amante. Il luogotenente della polizia di Parigi, Gabriel-Nicolas de La Reynie, ne ordinò l’arresto ma la marchesa era già fuggita in Inghilterra. Inseguita in tutta Europa fu finalmente intercettata a Liegi nel 1676. Durante il viaggio di ritorno nella capitale francese cercò invano di corrompere i suoi guardiani e

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perfino di suicidarsi. A Parigi la sottoposero alla tortura dell’acqua, ma nemmeno allora ammise i suoi crimini. Lo fece solo dopo aver ricevuto la condanna a morte ed essersi confessata con l’abate Pirot. La marchesa di Sévigné raccontò che venne decapitata e bruciata e che le sue ceneri furono sparse al vento. Prima di morire, madame de Brinvilliers disse che più della metà della «gente importante di Parigi» faceva come lei, ma non tradì nessuno.

con un vecchio e ricco possidente. La donna si era follemente invaghita di un gigolò che l’aveva mandata in rovina e, quando il marito aveva smesso di concederle il denaro, lei aveva provato a ucciderlo ricorrendo all’aiuto di Marie Bosse. Madame de Poulaillon fu la prima dama di alto lignaggio di una lunga lista di clienti che frequentavano le avvelenatrici parigine.

Interrogatori e torture Vista la gravità del caso, La Reynie avvisò il suo superiore, il ministro della guerra marchese di Louvois il quale a sua volta informò il re. Con una sentenza senza precedenti, Louvois decise che non fosse opportuno portare il caso in parlamento, dove i membri svolgevano anche il ruolo di alto tribunale di giustizia, e che bisognasse piuttosto creare una corte speciale senza fare troppa pubblicità alla vicenda. Louvois temeva infatti che i parlamentari non avrebbero agito con il rigore necessario se gli accusati fossero stati dei nobili. Così, nella primavera del


LEEMAGE / PRISMA ARCHIVO

DURANTE IL SUO INTERROGATORIO LA MARCHESA DI BRINVILLIERS FU SOTTOPOSTA ALLA TORTURA DELL’ACQUA. INCISIONE.

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LA «SEÑORA DE LOS LIBROS».SESHAT, COMPAÑERA DE THOT, INSCRIBE EN UNA RAMA DE INDICABAN LOS AÑOS DE

1679, a Parigi venne istruito un tribunale con sede all’Arsenal, il deposito di armi vicino alla fortezza della Bastiglia. Era conosciuto anche come “camera ardente” in ricordo di un’altra camera giudiziaria creata durante il regno di Enrico II per giudicare gli eretici: gli imputati erano costretti a mostrarsi alla luce di torce ardenti in locali a volta tappezzati di tele nere. Le deliberazioni della seconda camera ardente sarebbero rimaste segrete e i suoi verdetti inappellabili. Dopo essere state arrestate, le persone sospette – che fossero streghe e avvelenatrici dei sobborghi di Parigi o nobili e principi – venivano sottoposte a un interrogatorio individuale e poi a un confronto con altri accusati. In seguito il tribunale decretava la libertà del presunto reo o si procedeva a un nuovo interrogatorio che includeva una o più sessioni di tortura. Le più terribili erano quelle dell’acqua, nelle quali si obbligava

LOREM IPSUM

Incisione che rappresenta Catherine Deshayes, nota con il nome di La Voisin, come una strega circondata da demoni ed esseri malefici.

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LA REGINA DEL VELENO

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gli imputati a ingerirne enormi quantitativi tramite un imbuto ficcato in gola, e quelle dei brodequins, durante le quali si fissavano delle assi alle gambe e poi si esercitava una pressione tale da spezzare le ossa. Risulta facile immaginare che, in seguito a tali tormenti, la maggior parte degli imputati confessava qualunque cosa gli venisse chiesta. Se il sospettato veniva dichiarato colpevole, i giudici emanavano una sentenza definitiva e inappellabile. Le esecuzioni non erano di certo più compassionevoli: i condannati venivano bruciati vivi o legati alla ruota, mentre i nobili avevano il privilegio di essere decapitati. A casa di madame Bosse si trovarono arsenico, frammenti di unghie, polvere di granchio, cantaridi, sangue mestruale e altri oggetti presumibilmente afrodisiaci. Ma fu La Voisin a imporsi nel corso delle indagini poliziesche, perché il suo profilo corrispondeva a quello di una vera STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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MESSE NERE E VELENO

STREGHE A PARIGI ella Parigi del Re Sole non mancavano le veggenti che curavano le pene – amorose o di altro tipo – di dame e cavalieri dell’alta società. Nella maggioranza dei casi si limitavano a indovinare il futuro leggendo le carte o le linee della mano ed elaborando oroscopi. Ma se il cliente manifestava un’avversione per una determinata persona, l’indovina si offriva di realizzare degli atti di stregoneria come passare delle polveri d’amore sotto un bicchiere, dire scongiuri durante la consacrazione dell’ostia o modellare bambole di cera delle persone odiate per trafiggerle con spilloni oppure lanciarle nel fuoco. Se poi il desiderio della dama o del cavaliere era molto intenso e la sua borsa era piena, gli veniva procurato del veleno che alcune indovine si procacciavano dagli alchimisti. Le sostanze più abituali erano

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derivati dell’arsenico chiamati in modo eufemistico “polvere di successione” perché facilitavano l’ottenimento dell’eredità. Avevano il vantaggio di essere relativamente accessibili – venivano usati per eliminare i topi – ed erano incolori, insipidi e molto solubili. Potevano dunque essere dosati per uccidere in un solo colpo o dopo mesi. Più raramente si usavano il vetriolo (acido solforico), il sublimato corrosivo (cloruro di mercurio) e piante come la cicuta.

e propria criminale. Quando le due donne vennero messe a confronto, madame Bosse accusò La Voisin di aver avvelenato e ucciso il proprio marito e di aver fornito del veleno alle nobildonne Dreux e Leféron per eliminare i rispettivi coniugi, che erano membri del parlamento. L’affascinante madame de Dreux avrebbe commesso una simile follia perché perdutamente innamorata del duca di Richelieu. Entrambe le dame, assieme a madame de Poulaillon, furono arrestate e rinchiuse nel castello di Vincennes tra le proteste dell’alta società parigina, tra cui anche il duca di Richelieu.

Soffiate e accuse Durante gli interrogatori La Voisin confessò di aver praticato duemila aborti, di aver ucciso molti neonati indesiderati e di aver preso parte a riti nei quali venivano sacrificati al diavolo alcuni bambini vivi rapiti nelle zone più povere di Parigi. Tali atti avrebbero forse potuto spiegare le molte denunce di scomparsa di minori presentate alla


LEEMAGE / PRISMA ARCHIVO

LA VOISIN FU BRUCIATA VIVA IN PLACE DE GRÈVE, A PARIGI. DISPERATA, CERCÒ DI TOGLIERE IL FIENO CHE ALIMENTAVA LA PIRA. INCISIONE. 1880.

INTERROGATA E TORTURATA

LA «SEÑORA DE LOS LIBROS».SESHAT, COMPAÑERA DE THOT, INSCRIBE EN UNA RAMA DE INDICABAN LOS AÑOS DE

LEEMAGE / PRISMA ARCHIVO

«Nello stato in cui mi trovo, non aspettando altro che la morte, dichiaro di non aver portato veleno a SaintGermain», affermò La Voisin davanti alla camera ardente. Incisione del XIX secolo.

polizia. Alla fine dell’interrogatorio di La Voisin, La Reynie confessò di aver perso la fiducia nell’essere umano: «Le vite sono in vendita e mercanteggiate ogni giorno, come una qualsiasi merce; si pensa all’assassinio come unico rimedio quando una famiglia attraversa delle difficoltà; dappertutto si compiono delitti abominevoli: a Parigi, nei sobborghi e nelle province». Nell’ottobre 1679 fu fermato Lesage, un vecchio amante di La Voisin già condannato alle galere per altri crimini e che aveva ottenuto l’indulto grazie all’intercessione di un potente protettore a corte. Lesage si faceva passare per veggente e aveva inventato un sagace metodo per ingannare gli sprovveduti: faceva scrivere ai clienti delle richieste su un foglio che poi trattava con della cera e bruciava su una fiamma. Abile illusionista, in realtà all’ultimo momento scam-

EDITTO REALE In questo editto promulgato a Versailles nel giugno 1682 Luigi XIV annunciava misure drastiche contro «veggenti, stregoni, avvelenatori e il commercio di veleni». C. FOUIN / RMN-GRAND PALAIS

biava il foglietto per poi ripresentare ai clienti l’originale con la risposta di Satana. Per colpa delle sue dichiarazioni, venne arrestato il duca di Lussemburgo, maresciallo di Francia nonché uno dei più brillanti generali al servizio di sua maestà. Questi aveva plausibilmente espresso a Lesage il desiderio che sua moglie morisse per poter avere l’amore della cognata, che il figlio sposasse la figlia di Louvois e che ottenesse molte vittorie militari uscendo indenne dalle battaglie. Dal canto suo, La Voisin rilasciò dichiarazioni ancora più scandalose: raccontò per esempio che la contessa di Roure e la viscontessa di Polignac avevano richiesto i suoi servigi per provocare la morte di Louise de La Vallière negli anni in cui questa era la favorita del sovrano. Tra le dame accusate figuravano pure Olimpia Mancini contessa di Soissons e la sorella Maria-Anna, duchessa di BouilSTORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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UNA DUCHESSA AL BANCO DEGLI IMPUTATI

INCONTRI CON SATANA aria-Anna Mancini, duchessa di Bouillon, comparve davanti all’alto tribunale che l’avrebbe giudicata vestita di tutto punto, ottimista e sorridente, con sottobraccio il marito e l’amante e cugino del re, il duca di Vendôme. Per quest’ultimo aveva provato ad assassinare il consorte, che però non le serbò rancore. I fratelli del duca di Bouillon gli avevano chiesto di farla arrestare per gli scandali che destava con i suoi molti amanti, ma il duca faceva orecchie da mercante e rispondeva che, finché non gli avesse mancato di rispetto, la moglie avrebbe potuto fare ciò che voleva. Interrogata dai giudici la duchessa ammise di essersi recata più volte da La Voisin con il duca di Vendôme «per vedere le sibille». Quando uno dei giudici le domandò se avesse provato ad avvelenare il marito, lei rispose con scherno: «Chiedetelo a lui!».

112 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Quando La Reynie le domandò se avesse visto il diavolo e, in caso affermativo, come fosse, lei rispose sfacciata: «Piccolo, nero e brutto, proprio come voi!», il che provocò le risa tra i presenti. Per tutto il processo la donna continuò a fare sfoggio della sua arguzia e a esasperare i giudici, mentre il pubblico la omaggiava con applausi infervorati. Fu dichiarata innocente a differenza della sorella Olimpia, costretta all’esilio nel 1679 a causa del suo legame con l’avvelenatrice La Voisin.

lon: si diceva che la prima avesse avvelenato suo marito e che la seconda avesse provato a fare lo stesso con il proprio, oltre a liberarsi di un lacchè a conoscenza dei suoi adulteri.

L’accusa a Madame de Montespan La giustizia fu implacabile con le presunte avvelenatrici. Prima vennero sottoposte a sessioni di tortura e poi La Voisin, Vigoreux, Bosse e Filastre furono condannate a morte e arse vive mentre le nobildonne Dreux, Leféron e Poulaillon, per quanto responsabili di più avvelenamenti, furono condannate a morire in convento. La contessa di Soissons fuggì prima di essere arrestata; la duchessa di Bouillon, il duca di Lussemburgo e altri nobili accusati dichiararono di essere stati clienti di La Voisin ma, poiché non si riuscì a provare che avevano preso parte ai delitti, furono assolti. Trascurando il principio di una giustizia cieca ed equanime, il presidente della camera ardente emanò sentenze per parenti e amici molto diverse da quelle applicate alle veggenti e alle ruffiane dei bassifondi.


JOSSE / SCALA, FIRENZE

MADAME DE MONTESPAN CIRCONDATA DA QUATTRO DEI FIGLI CHE EBBE DAL RE. XVII SECOLO. MUSEO DI CHÂTEAU A VERSAILLES.

Luigi XIV fece costruire a Versailles un padiglione, il Trianon di porcellana, nel quale si trasferì l’amante, madame de Montespan. Nel 1687 ordinò di distruggerlo per costruirvi il palazzo odierno, opera di Hardouin-Mansart.

DAGLI ORTI / AURIMAGES

IL GRAND TRIANON

Nell’estate del 1680, quando La Reynie provò a chiudere il processo, la figlia di La Voisin, Marguerite, decise di confessare tutta la verità davanti ai giudici. Secondo lei, la trama di avvelenamenti spingeva i suoi tentacoli persino alla corte di Luigi XIV attraverso la marchesa di Montespan, che per quasi vent’anni era stata l’amante ufficiale del sovrano. In realtà tra le prime accusate già comparivano diverse dame vicine alla marchesa ma lei, la regina senza corona di Versailles, era sempre rimasta ai margini. Ora Marguerite Monvoisin assicurava che la marchesa era stata una cliente assidua della madre sin dall’inizio della relazione con il re e che il suo interesse per le pozioni aumentava ogni volta che a corte l’attenzione e i favori del monarca si spostavano verso un’altra nobildonna. A quanto pareva, l’aiuto dei filtri era stato decisivo perché il sovrano designasse Montespan maîtresse en tître (favorita ufficiale) detroniz-

INDAGINI FRUSTRATE

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LOREM IPSUM

La Reynie, primo luogotenente generale di polizia di Parigi, fu l’unico a opporsi alla decisione del re di dimenticare l’affare dei veleni. Incisione a colori. XIX secolo.

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zando definitivamente Louise de La Vallière, e tornando così al suo letto dopo aver avuto una figlia con un’altra dama di corte, mademoiselle des Oeillets.

Problemi di gelosia Nel 1679 era però apparsa a corte una nuova rivale, mademoiselle de Fontanges, una ragazza «bella come un angelo dalla testa ai piedi», come diceva un contemporaneo, della quale il re si era subito invaghito. Sentendosi minacciata, madame de Montespan avrebbe fatto nuovamente ricorso ai servigi di La Voisin, la quale si sarebbe recata al palazzo di Saint-Germain-enLaye per avvelenare mademoiselle de Fontanges e perfino il sovrano, al quale doveva consegnare un memoriale impregnato di veleno. Si mormorava pure che la marchesa avesse partecipato a messe nere nelle quali il calice veniva consacrato sul suo ventre nudo e che alSTORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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CASTELLO DI VINCENNES

Questa fortezza ubicata a meno di dieci chilometri da Parigi venne eretta nel XVI secolo e rimodellata nei secoli seguenti. Il suo mastio servì da prigione di stato e dentro vi furono recluse diverse persone implicate nell’affare dei veleni.

DUE FAZIONI OPPOSTE

LOTTA PER IL POTERE lcuni storici credono che dietro lo scandalo dei veleni si celasse una lotta tra due fazioni politiche che si contendevano i favori di Luigi XIV. Una era capeggiata dal marchese di Louvois, che a 29 anni divenne ministro della guerra e che di conseguenza era responsabile dell’organizzazione di campagne militari e delle relazioni internazionali. La sua era senza dubbio una carica cruciale in un’epoca di espansione del regno. La seconda invece era guidata da Jean-Baptiste Colbert che, sebbene fosse stato introdotto a corte proprio dal padre di Louvois, divenne presto il favorito del cardinale Mazzarino ottenendo dopo la sua morte il posto di controllore generale delle finanze e, poco dopo, quello di segretario di stato della casa del re e della marina. Ma nel caso dei veleni

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la figura che ricoprì un ruolo chiave fu senza dubbio il luogotenente Gabriel-Nicolas de La Reynie. Anche se entrò a corte dietro richiesta di Colbert subì l’influenza di Louvois che gli commissionò il controllo del processo. Tutto ciò spiega come i nobili arrestati fossero seguaci di Colbert, mentre nessun membro del clan Louvois venne nemmeno sospettato. Il processo per l’affaire des poisons fu l’inizio del declino del potente Colbert.

cuni neonati fossero stati sacrificati al diavolo perché la donna mantenesse i favori del re. Simili accuse contro la marchesa di Montespan scatenarono una crisi di stato. Da un lato è vero che a quei tempi la passione di Luigi XIV per la marchesa era molto diminuita, vuoi per l’età avanzata del monarca, vuoi perché la marchesa era ingrassata dopo il settimo parto. Il sovrano d’altro canto aveva già una relazione con madame de Maintenon, l’istitutrice che si prendeva cura dei figli avuti con la Montespan e che sarebbe divenuta la sua compagna per il resto del regno. Dall’altro lato però Luigi XIV manteneva un rapporto cordiale con l’antica amante e non poteva tollerare le accuse rivolte contro di lei. Per questo, nel 1682, decise di sospendere il processo e condannare all’oblio tutti i registri delle indagini. Fino a quel momento gli incriminati erano 442 – diversi di loro erano morti durante gli interrogatori –, con 319 ordini di arresto e 104 sentenze, di cui 36 condanne a morte e 34 all’esilio. Ai prigionieri ancora in attesa


AGENCE BULLOZ / RMN-GRAND PALAIS JESÚS NOGUERA / AGE FOTOSTOCK

di giudizio fu mandata una lettera sigillata in cui si comunicava che le loro accuse rimanevano in sospeso e che non sarebbero stati condannati o torturati, ma nemmeno liberati. Così rimasero in prigione fino alla morte, dispersi in diversi castelli francesi, molti dei quali completamente isolati. Trent’anni dopo alcuni di loro erano ancora in vita.

Tentativi di occultamento Il re ordinò di archiviare tutta la documentazione e nel 1709, alla morte di La Reynie, ingiunse di bruciarla e di consegnare alle fiamme anche le carte private del luogotenente. Ma aveva sottovalutato la tenacia di La Reynie, che aveva già fatto diverse copie dei suoi documenti. Una di queste sfuggì al fuoco ed è oggi conservata alla Bibliothèque Nationale de France. Grazie a questo testo è stato possibile ricostruire il processo. Luigi XIV non diede credito alle accuse di Marguerite Monvoisin e Lesage sulla partecipazione di madame de Montespan alle messe nere e al traffico di afrodisiaci e veleni per

continuare a godere dei suoi favori e ancor meno a quelle che parlavano di un complotto per assassinarlo. La maggior parte degli storici credono oggi che quelle dichiarazioni fossero spinte dal desiderio di sopravvivenza dei torturati: se avessero promesso che il giorno dopo avrebbero rilasciato nuove e più spettacolari dichiarazioni, magari sui nobili, avrebbero avuta salva la vita ancora per poco. Di sicuro non ci sono dubbi sul fatto che, chiudendo improvvisamente il caso, Luigi XIV volle salvare ciò che più gli stava a cuore: la sua autorità sulla vita, sulle proprietà e perfino sui più intimi desideri dei suoi sudditi.

LA COMMEDIA DELL’INDOVINA

Nel 1680 si rappresentò La devineresse, un’opera teatrale basata sull’affare dei veleni. Sopra, scena che rappresenta una pizia mentre fa parlare una testa affinché riveli i sentimenti dell’amante nei suoi confronti. Bibliothèque Nationale de France, Parigi.

ADELA MUÑOZ PÁEZ UNIVERSITÀ DI SIVIGLIA. AUTRICE DI HISTORIA DEL VENENO

Per saperne di più

SAGGI

Madame de Montespan Michel de Decker. Fabbri, Milano, 2003. Il Re Sole Peter Burke. Il Saggiatore, Milano, 2017. Intrigo alla corte del Re Sole Anne Pieri. Feltrinelli, Milano, 2009.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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Durante il regno di Luigi XIV la corte francese fu lo scenario di diversi decessi: donne giovani che morivano improvvisamente per ragioni che non sempre erano chiare. L’atmosfera viziata di una corte piena di intrighi e maldicenze alimentò quindi le dicerie e aumentavano i sospetti di morti per avvelenamento. Tuttavia, gli storici odierni credono piuttosto che i lutti fossero dovuti a cause naturali e a malattie che non sempre la medicina dell’epoca era in grado di riconoscere. MADAME DE MONTESPAN DISTESA. PARTICOLARE DI UN OLIO REALIZZATO DA HENRI GASCARD. XVII SECOLO. BRIDGEMAN / ACI

C. FOUIN / RMN-GRAND PALAIS

MORTI IMPROVVISE A VERSAILLES

HENRIETTE-ANNE D’INGHILTERRA (1670)

Moglie del fratello minore di Luigi XIV, Henriette-Anne morì a 26 anni. Una sera iniziò a sentire un forte dolore al fianco e in poche ore il suo stato si aggravò. Morì alle prime luci dell’alba. Poco dopo sorsero le voci. Durante l’agonia lei stessa urlò che l’avevano avvelenata e venne fatto notare come prima di sentire il dolore avesse bevuto un bicchiere di infuso di cicoria. Oggi si crede che fu vittima di un’appendicite degenerata in peritonite.


GÉRARD BLOT / RMN-GRAND PALAIS GÉRARD BLOT / RMN-GRAND PALAIS

SOTHEBY’S / AKG / ALBUM

DUCHESSA DI FONTANGES (1681)

I DUCHI DI BORGOGNA (1712)

Pure la morte a 21 anni di Marie Angélique de Scorailles, vecchia amante di Luigi XIV, sollevò molte dicerie. Si disse che madame de Montespan, ingelosita, le avesse somministrato una bevanda avvelenata che la uccise. In realtà la duchessa di Fontanges morì dopo essersi ritirata nel monastero di Port-Royal a Parigi. Soffriva di salute precaria da quando, quasi due anni prima, aveva dato alla luce un bambino vissuto per appena un mese.

Nel febbraio del 1712, ad appena sei giorni di differenza l’una dall’altro, morirono la duchessa e il duca di Borgogna, quest’ultimo nipote ed erede di Luigi XIV. Avevano rispettivamente 27 e 30 anni. In entrambi i casi è chiara la causa del decesso: la scarlattina, flagello dell’epoca. Eppure il cronista Saint-Simon assicurava che in molti avevano parlato di avvelenamento. Lo stesso si disse alla morte di Luigi XIV, avvenuta nel 1715.

IL RE LUIGI XIV PASSEGGIA PER I GIARDINI DI VERSAILLES NEL 1688. OLIO DI ETIENNE ALLEGRAIN. REGGIA DI VERSAILLES.


GRANDI ENIGMI DUE KHEVSUR

posano con cotta di maglia, scudo e spada dall’aspetto medievale in questa fotografia scattata negli anni trenta.

Gli ultimi crociati del Caucaso Le tradizioni del popolo khevsur, in Georgia, portano a credere che discendano dai cavalieri crociati dell’XI secolo tando le tradizioni dei suoi indomiti abitanti. In questo periodo raccolse nozioni preziose su un mondo che di lì a poco sarebbe mutato per sempre. Ecco perché il suo libro Venticinque anni nel Caucaso (1842-1867), pubblicato in russo, è una vera miniera di informazioni. Uno dei capitoli più affascinanti riguarda il Khevsureti, una serie di valli intermontane localizzate nell’estremo lembo nord-orientale della Georgia. Un luogo ai confini del mondo che per quasi otto mesi all’anno rimane isolato a causa delle copiose nevicate che ne rendono impraticabili i passi. Zisserman rimase nella regione un intero inverno

e si dedicò a trascrivere le abitudini della popolazione locale che da secoli vantava di essere costituita da abili guerrieri dallo spirito ribelle.

Tradizione immutata Analizzando con attenzione certi aspetti del loro folclore come la cultura materiale, gli aspetti sociali e le pratiche religiose, lo studioso russo arrivò alla sorprendente conclusione che i khevsur altro non fossero che gli ultimi discendenti di crociati giunti in quei luoghi molti secoli prima. Di fatto rappresentavano un fronte di difesa della cristianità, minacciata dall’aumento della fede islamica tra le temute tribù cecene.

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SEBBENE SI TROVI a non più di 150 km in linea retta dalla capitale Tbilisi, la regione di Khevsureti rimane isolata dal resto della Georgia tra i mesi di ottobre e maggio a causa di fortissime nevicate che bloccano le vie di comunicazione. Ciò ha fatto sì che le sue genti conservassero delle tradizioni le cui origini si perdono nelle brume della storia.

GAMMA-KEYSTONE / GETTY IMAGES

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el lontano 1842 il giovane etnografo ucraino Arnold Zisserman giunse per la prima volta a Tbilisi, sede del governatorato georgiano, come ufficiale di un reparto dell’esercito zarista impegnato nel sanguinoso conflitto che opponeva la Russia alle bellicose tribù delle montagne caucasiche del nord. Non sappiamo se avesse scelto volontariamente quella destinazione, ma quel che è certo è che ne rimase immediatamente folgorato. Lo studioso avrebbe trascorso nella zona quasi un quarto di secolo viaggiando instancabilmente e anno-

Ma com’erano arrivati nel Khevsureti? Secondo una tradizione locale, durante la Prima crociata (1096-1099) un gruppo di cavalieri provenienti dalla Lorena sotto il comando di Goffredo di Buglione naufragò sulle coste della Turchia mentre tentava di raggiungere la Terra Santa. Tagliati fuori dal grosso dell’esercito nemico, questi uomini non ebbero altra scelta che ritirarsi verso l’interno e alla fine approdarono nel Caucaso.


GRANDI ENIGMI

CULTURA ANCESTRALE AGLI INIZI del XX secolo i khevsur con-

CAVALIERE KHEVSUR. INCISIONE DA ZUR GESCHICHTE DER KOSTÜME. 1875.

/ ACI

pesanti cotte di maglia che li ricoprivano dalla testa ai piedi, lunghe spade a doppio filo con impugnatura a croce e scudi rotondi su cui campeggiavano le iniziali A.M.D. del motto crociato Ave Mater Dei. Insomma, sembravano essere rimasti a circa otto secoli prima, al momento dell’ipotetico arrivo dei cavalieri nella regione. Anche l’esploratore americano Richard Halliburton, che visitò la zona nel 1935, rimase affascinato da come

ALAMY

Impossibilitati a tornare sui loro passi decisero allora di rapire alcune donne dei villaggi vicini e insediarsi in quelle impervie valli. Questa scelta non fu mai rinnegata dai loro discendenti. Leggende a parte, uno degli elementi che colpì maggiormente Zisserman quando incontrò il popolo khevsur era l’equipaggiamento del tutto inusuale. Sebbene a quel tempo fossero diffuse le armi da fuoco, questi uomini continuavano a indossare

servavano ancora antiche credenze animiste e veneravano le divinità che presiedevano i cicli della natura. Tutt’oggi è possibile trovare luoghi sacri come piccoli templi di pietra con un foro centrale ai quali i khevsur continuano a portare offerte. Tuttavia la loro fede fece di questo popolo peculiare un fero e proprio baluardo della cristianità davanti alla crescente espansione dell’islam, che si affermò invece tra le vicine popolazioni daghestane e cecene.


GRANDI ENIGMI

SIRIO CARNEVALINO / ALAMY / ACI

SHATILI, l’antica capitale dei khevsur, è composta da circa 150 case. Le finestre e i balconi si aprono solo ai piani superiori come misura difensiva.

a differenza delle tribù vicine i khevsur avessero un rapporto speciale con la propria panoplia, ovvero l’insieme di armi che costituivano il loro abbigliamento.

Armature crociate Un retaggio che risaliva a molti secoli prima e non aveva altre ragioni d’essere.

Halliburton ricorda che la cotta di maglia, che i khevsur indossano ancora abitualmente, «è costituita da circa ventimila piccoli anelli di ferro e s’indossa come una specie di camicia da notte. Le maniche sono corte, ma i guanti a rete coprono gli avambracci. A questo armamentario si abbina un elmo a maglia metallica con un

foro per il viso». Chi ebbe modo di studiarle con attenzione, ricorda l’autore, non esitò ad affermare che fossero di fattura francese e le datò nel XII secolo. Un altro curioso elemento associato a una possibile tradizione europea di questo popolo è il complesso sistema dei duelli. Come avvenissero lo spiega lo scrittore

I khevsur praticavano un complesso sistema di duelli che ricordava la lotta tra cavalieri medievali DONNA KHEVSUR. PANNELLO IN RAME DI G. GABASHVILI. RIPRODUZIONE. 1922. SPUTNIK / ALBUM

Gordon Cooper a metà del XX secolo: «Con addosso le armature, i duellanti si schieravano uno di fronte all’altro. Al segnale convenuto, si lanciavano uno contro l’altro, menando fendenti e cercando di colpirsi, parando i colpi e girando in tondo come una coppia di galli da combattimento. Le lame delle spade cozzavano una contro l’altra, scivolavano sulle armature e cozzavano contro gli scudi di pelle, che erano usati più per deviare i colpi che assorbirli». Ai duelli non erano ammesse le donne ma sorprende sapere che l’unica persona


Leali ma con giurisdizione propria I KHEVSUR erano potenti guerrieri che facevano sfoggio del proprio coraggio, della lealtà e soprattutto del

ALAMY / ACI

desiderio di libertà. Fedeli ai re della Georgia, erano liberi di scegliere i propri capi chiamati khevisberi. Un consiglio speciale degli anziani, anch’esso eletto, prendeva decisioni sui beni comuni e aveva l’ultima parola circa le dichiarazioni di guerra e di pace, le ambasciate presso i nemici e l’amministrazione della giustizia.

UN GRUPPO DI UOMINI KHEVSUR FUMA E BEVE DURANTE LA CELEBRAZIONE DI UNA FESTA. OLIO DI GIBO GABASHVILI. SAKARTVELOS P’ARLAMENT’IS EROVNULI BIBLIOTEK’A, TBILISI.

che poteva porvi fine era una fanciulla, alla quale spettava il compito di gettare un fazzoletto all’interno dell’area di combattimento.

Oltre la leggenda Ma davvero queste bellicose genti discendono dai crociati? Secondo gli storici moderni l’ipotesi è certo affascinante, ma priva di fondamento. Le origini dei khevsur sarebbero molto più antiche visto che la loro presenza è riportata da greci e romani. Inoltre, le valli conosciute con i nomi di Pkhovi e Pshavi vengono citate in un manoscritto del

VII secolo riguardo ai primi tentativi di evangelizzazione operati trecento anni prima, quando la conversione del re Mirian III portò la Georgia ad abbracciare la fede cristiana. Queste constatazioni d’altro canto non sono ancora riuscite a spiegare le tante anomalie che differenziavano i khevsur dalle popolazioni vicine: all’armamento atipico va aggiunto che nel loro linguaggio compaiono almeno otto parole riconducibili all’antico tedesco. Pertanto secondo alcuni ricercatori intorno al XII secolo, in maniera volontaria o per espressa richiesta dei so-

vrani georgiani, dei soldati di origine occidentale decisero di stabilirsi nella zona, dando vita ad avamposti militari in aiuto alle preesistenti popolazioni georgiane già cristianizzate. Ben presto finirono con il perdere parte dei loro tratti peculiari e acquisire abitudini e pratiche locali, ma seppero anche difendere alcune tradizioni, magari rendendone partecipi gli indigeni: regole militari, armamento, alcune parole dei loro dialetti di provenienza e certe abitudini religiose. A sostegno di questa tesi va notato come in alcuni documenti medio-

evali vengano citati in varie occasioni gruppi o contingenti di soldati “occidentali” nelle file dell’esercito georgiano: nella battaglia di Didgori nel 1121, ad esempio, in cui l’esercito di re Davide IV ebbe la meglio sui selgiuchidi, compaiono tra le sue file dai cento ai duecento cavalieri franchi. —Nicola Bernardini Per saperne di più SAGGI

Storia della Cecenia Aldo Castellano. Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008. Pianeta Caucaso Wojciech Górecki. Mondadori, Milano, 2007.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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GRANDI SCOPERTE LA MORTE DI ADONE

Scoperto dai Campanari a Tuscania nel 1834, il Monumento funerario di Adone morente, in terracotta, mostra il giovane eroe ferito e agonizzante. L’opera fu acquistata dal Vaticano ed è ora esposta al Museo gregoriano etrusco.

I Campanari e la rivelazione del mondo etrusco

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a prima metà del XIX secolo fu un periodo decisivo per la scoperta della civiltà etrusca. Tra il 1810 e il 1860 vennero realizzati degli scavi di grande rilevanza nei centri etruschi della Toscana meridionale come per esempio nella zona di Pian di Voce. Quì, nel 1778, erano stati individuati i resti dell’antica Vulci. Nel 1828 due pionieri dell’archeologia iniziarono a scavare praticamente in contemporanea: Luciano Bonaparte, fratello minore di Napoleone, nel paese di Canino e Vincenzo Campanari a Montalto di Castro. Campanari era un ricco proprietario terriero che per anni aveva ricoperto incarichi di responsabilità nel comune di Toscanella (og-

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ITALIA MAR MEDITERRANEO

gi Tuscania), appartenente come il resto della regione allo stato pontificio. Era anche un erudito con un grande interesse per il lontano passato della sua terra e in particolare per le vestigia etrusche: una passione che trasmise ai figli Carlo, Secondiano e Domenico. Negli anni venti del XIX secolo, superati i 50 anni, Vincenzo propose di creare una collezione etrusca che avrebbe ospitato tutti i pezzi trovati nello stato pontificio e in particolare nella zona corrispondente all’antica Etruria.

1825

Il ricco possidente Vincenzo Campanari inizia gli scavi nella necropoli etrusca di Pian di Voce.

1834

Così propose di «tentare le scavazioni nei ruderi delle distrutte città antiche che tanta parte ingombrano del nostro territorio». Nel 1825 si mise all’opera iniziando a esplorare una necropoli etrusca a Camposcala, una tenuta nel comune di Montalto di Castro. In un discorso letto nel 1829 all’Accademia romana di archeologia, dichiarò: «Recatomi la prima volta nel 1825 a quella classica terra […] a me pareva di sentirmi muovere sotto de’ piedi i nascosti monumenti e le ossa e le urne dei sepolti: quasi che questi si accorgessero del mio talento di turbare il loro riposo».

Cercatori di tombe Ci vollero tre anni perché la camera apostolica autorizzasse gli scavi, pertanto l’esumazione di Vulci non ini-

Il governo pontificio firma un accordo di collaborazione agli scavi di Vulci con Vincenzo e i suoi figli.

1837

SCALA, FIRENZE

Vincenzo Campanari e i suoi figli rinvennero diverse tombe dell’antica Vulci e resero noto il patrimonio etrusco in tutta Europa

ziò prima dell’agosto 1828. Per finanziare i costi dell’operazione Vincenzo ricorse a una formula innovativa: la creazione di una società archeologica i cui membri si sarebbero equamente spar-

A Londra i Campanari organizzano una mostra etrusca. Viene inaugurato il Museo gregoriano etrusco.

MEDAGLIONE CON DUE PERSONAGGI SU UNA QUADRIGA. TOMBA DEGLI ORI, VULCI. DEA / SCALA, FIRENZE

1839

In una tomba a Tuscania Carlo Campanari trova 27 sarcofagi e li espone nel giardino di casa.


GRANDI SCOPERTE

LA TOMBA PERDUTA

gnalano la tomba Campanari, il tumulo Poggio dei Guerrieri e soprattutto la tomba degli Ori, così chiamata per lo straordinario corredo funebre di oggetti in oro ritrovato al suo interno. Mentre Vincenzo proseguiva gli scavi a Vulci, il suo primogenito Carlo intraprese varie campagne esplorative nelle necropoli di Val Vidone e Carcarello, a Toscanella, che permisero ai Campanari di entrare in possesso di una vasta col-

SCALA, FIRENZE

titi i tesori ritrovati. Dopo lo scioglimento della prima società fondata da Campanari, nel 1834 lo stesso governo pontificio firmò un accordo con l’archeologo e partecipò agli scavi che proseguirono fino al 1837. Nel cantiere lavoravano 80 operai divisi in due squadre: la prima era guidata da Domenico, il figlio minore di Vincenzo e la seconda da un soprintendente nominato dal pontefice. Tra i reperti emersi in quegli anni si se-

NEL 1833 I FRATELLI CAMPANARI scoprirono una tomba nella necropoli dell’Osteria, nei pressi di Vulci. La battezzarono “tomba Campanari”. In questo ipogeo risalente al III secolo a.C. fu rinvenuto un capitello decorato con delle teste femminili ed elementi vegetali oggi conservato a Firenze. La sepoltura fu esposta alla mostra organizzata a Londra da Domenico Campanari come esempio di tomba dipinta. In seguito però andò purtroppo perduta. VINCENZO CAMPANARI. RITRATTO DEL 1840. INCISIONE. BIBLIOTECA AMBROSIANA, MILANO.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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GRANDI INVENZIONI

La tomba degli ori NELL’APRILE DEL 1837, durante gli scavi di Vulci, fu rinvenuta una tomba con uno straordinario corredo

funerario in cui spiccavano una corona di foglie di alloro, un’altra di foglie di quercia e tre medaglioni d’oro decorati con figure in rilievo. Il Diario di Roma pubblicò una descrizione dettagliata del ritrovamento.

Corona composta da numerose foglie di quercia incastonate su un cerchio d’oro convesso con un cardine al centro. Orecchini d’oro a grappolo decorati con una sorta di anfora.

«Nella [tomba] giaceva uno scheletro di personaggio distinto […] Aveva due corone di oro bellissime ed intatte […] Sul petto stavangli tre medaglioni di piastra d’oro lavorati con vaghissimi rilievi di guerrieri e quadrighe».

FOTO: DEA / SCALA, FIRENZE

Collana con undici pendenti d’oro ornati con sfingi alate e teste di Medusa.


SCALA, FIRENZE

INTERNO della sala del Museo gregoriano etrusco dedicata alle antichità etrusche. Incisione del 1838. Biblioteca Ambrosiana, Milano.

lezione di sarcofagi in terracotta e pietra, alcuni dei quali contraddistinti da un disegno unico. Gli accordi tra i Campanari e il governo pontificio stabilivano che al termine dei lavori le due parti si sarebbero ripartite gli oggetti scoperti – monili, statue o sarcofagi completi. Il Vaticano era interessato ad ampliare la collezione etrusca che i papi già possedevano e che era conservata nell’appartamento Zelada. L’obiettivo finale della Santa Sede era quello di creare il nuovo Museo gregoriano etrusco che sarebbe stato inaugurato nel 1837.

Dal canto loro i Campanari potevano gestire in totale libertà i reperti che gli spettavano in virtù dell’accordo di spartizione. Nel gennaio del 1835 ad esempio fu rinvenuta nel complesso delle antiche terme di Vulci una magnifica statua in bronzo a grandezza naturale di una donna identificata con Minerva filatrice o Minerva Ergane. Contro ogni previsione, quando fu il momento di dividersi il materiale archeologico, il Vaticano scelse il lotto che non conteneva la statua. In seguito offrì ai Campanari 3.200 scudi per averla, ma Vincenzo respinse la proposta e dopo aver

pubblicato diversi disegni dell’opera la mise all’asta. Martin von Wagner, agente del re di Baviera, l’acquistò per 4.400 scudi. Attualmente è esposta a Monaco.

Etruschi a Pall Mall Della vendita dei reperti si occupava inizialmente Secondiano Campanari, ma ben presto iniziò a collaborare all’attività anche il fratello Domenico. Non era difficile trovare acquirenti per i vasi di ceramica attica, i piccoli oggetti in bronzo e le raffinate opere di oreficeria etrusca, ma non c’era mercato per i grandi sarcofagi che abbondavano nelle

necropoli dell’Etruria meridionale. Per questo motivo, alla fine del 1836, Domenico Campanari si stabilì a Londra, dove ancora non era nata la passione per il collezionismo etrusco. In soli due mesi al civico 121 di Pall Mall, nelle immediate vicinanze della sede della famosa casa d’aste Christie’s, il minore dei Campanari organizzò una mostra senza pari. Vi riunì tutte le meraviglie dell’arte funeraria dell’Etruria meridionale non solo di Vulci ma anche degli altri grandi centri etruschi allora conosciuti: Tarquinia, Tuscania e Bomarzo. Il giorno dopo l’iSTORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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GRANDI SCOPERTE

BPK / SCALA, FIRENZE

COPIA di alcune delle scene che decorano la tomba del Triclinio a Tarquinia. Fu realizzata dall’artista Carlo Ruspi per la mostra dei Campanari a Londra.

naugurazione, il 26 gennaio 1837, The Times commentava: «Bisognerebbe scrivere un trattato classico di antichità per esporre tutto il contenuto della mostra». Grazie a ingegnose risorse scenografiche l’esposizione riusciva a far vivere

al pubblico il brivido del ritrovamento di una tomba intatta. Come ha raccontato Elizabeth Hamilton Gray nel suo Tour to the Sepulchres of Etruria, la visita avveniva alla luce di torce per ricostruire l’atmosfera di una vera e propria discesa all’interno

dei monumenti originali. Le diverse tipologie di tombe (rupestri, a colombario, dipinte o scavate nella roccia) erano ricostruite fin nei minimi dettagli. Gli oggetti del corredo funebre erano sparsi a terra accanto ai sarcofagi con il coperchio semiaperto. Al loro interno gli scheletri erano abbigliati con tutta la panoplia difensiva in bronzo e le armi in ferro, oppure agghindati con corone d’oro e ornamenti vari. I reperti erano accompagnati dalle copie di alcune pitture delle tombe etrusche scoperte a Tarquinia (la tomba delle

ALAMY / ACI

SARCOFAGI ETRUSCHI NEL GIARDINO DEI CAMPANARI A TOSCANELLA. INCISIONE. 126 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Iscrizioni, quella del Triclinio e quella delle Bighe), realizzate dall’artista Carlo Ruspi nel suo studio a partire da calchi su carta velina e appunti presi direttamente negli ipogei.

Da Londra al Vaticano La mostra dei Campanari fu un successo incredibile. Una volta conclusa il British Museum acquistò tutti i sarcofagi esposti e le copie delle pitture, i calchi degli elementi architettonici ricostruiti e i corredi funerari rimasti invenduti. Il tutto andò a costituire il nucleo originario della collezione etrusca del museo.


SULLA PARTE frontale del sarcofago della tomba dei Vipinana esposto

AKG / ABLUM

al Museo gregoriano è rappresentata una scena della morte dei figli di Niobe. Il coperchio su cui è raffigurato il defunto disteso è una copia dell’originale che si trova nel Museo archeologico di Firenze.

Visto l’esito dell’esperimento di Domenico, il governo pontificio dovette anticipare precipitosamente l’inaugurazione del Museo gregoriano etrusco per soddisfare la nuova passione per l’Etruria dei giovani aristocratici che compivano il grand tour, il viaggio di formazione attraverso i luoghi dell’arte, della scienza e della storia. Ma le critiche dei primi visitatori, delusi dalla monotona sequenza di oggetti rigidamente allineati lungo le pareti delle sale, spinsero i responsabili del museo a ricorrere ai consigli di Secondiano. Questi progettò la ricostruzione a

grandezza naturale di una tomba etrusca come già fatto a Londra. Al nucleo originario del museo si aggiunse dunque la sala della Tomba che fu ospitata nella cappella di San Filippo dell’appartamento Zelada fino alla riforma del 1920. Tornati in Italia i Campanari dimostrarono ancora una volta il loro talento per la scenografia antiquaria. Una volta ripresi gli scavi a Tuscania nel gennaio del 1839, Carlo scoprì uno splendido ipogeo etrusco che conteneva 27 sarcofagi in pietra. Sui coperchi erano raffigurati i defunti sdraiati su un fianco e appoggiati a un cuscino co-

me se stessero partecipando a un banchetto funebre in loro onore. Un’iscrizione permise di ricostruire che si trattava della tomba di una famiglia di nome Vipinana. I Campanari decisero di ripetere la mossa a effetto della mostra londinese. Trasferirono i sarcofagi nel giardino della loro casa di Toscanella collocandoli nella stessa posizione che avevano nell’ipogeo. Come a Pall Mall, lo spazio espositivo era illuminato dalle torce. Dopo la morte di Vincenzo, avvenuta nel 1840, i figli continuarono a dedicarsi separatamente al commercio di antichità etrusche. Carlo

morì probabilmente nel naufragio di una nave che trasportava reperti archeologici da Trieste all’Inghilterra intorno al 1871. Domenico si stabilì a Londra dopo la grande mostra e Secondiano scomparve all’età di circa 50 anni. Fu suo figlio, Vincenzo junior, che in seguito ad alcune avversità finanziare finì per provocare la dispersione e la vendita giudiziaria del patrimonio familiare. —Elena Castillo Per saperne di più SAGGI

Luoghi etruschi David Herbert Lawrence. Passigli, Firenze, 1985.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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L I B R I A CURA DI MATTEO DALENA STORIA MODERNA

erano collocati sul gradino più basso della scala sociale. Poi venivano i pardos (1/8 di sangue africano), i tercerones (1/16) e i cuarterones (1/32), che si trovavano un po’ più in alto in una «ripartizione delle etnie somigliante cioè gli schiavi impiegati a una classificazione zoonelle cosiddette “economie logica», utile a creare una di piantagione”, ad amare «popolazione schiavile de«la feconda terra che irri- dita alla coltivazione delgano con il loro sudore». la terra, ignorante e non Presupposto di entrambi specializzata». Lo storico era l’assoluta ineguaglianza del colonialismo Giuseppe tra neri e bianchi. L’esten- Patisso illustra i passaggi sore del Código Negro, Igna- significativi dell’evoluzione cio Emparán y Orbe, arri- storica di tutte quelle norvò addirittura a disegnare me speciali che, tra XVI e una “società degli schiavi” XVIII secolo, tendevano a strutturata sulla base della regolamentare la nascita, purezza del sangue: neri, li- l’esistenza e la morte degli beri e mulatti, aventi rispet- schiavi nei possedimenti tivamente il 100, 50, e 25 per spagnoli, francesi e portocento di sangue africano, ghesi del Nuovo Mondo.

Le leggi disumane delle potenze schiaviste

S Giuseppe Patisso

CODICI NERI Carocci, 2019; 206 pp.; 22 ¤

ono esistiti sistemi legislativi nei quali l’umanità ha rivelato il proprio volto peggiore. Il Código Negro Carolino (1784) e la Instrucción (1789) furono insiemi di norme brutali. Il primo fu creato durante il regno di Carlo III di Borbone per la colonia di Santo Domingo mentre il secondo, sotto il regno di Carlo IV, ambiva a diventare un modello da applicare in tutte le colonie spagnole. Si tratta di sistemi di leggi che dovevano indurre i sottomessi,

ATTRAENTI E PERICOLOSE: LE ALPI IN EPOCA ROMANA

STORIA SOCIALE

BELLE DA VEDERE ma da lontano, le Alpi generavano

negli autori classici sensazioni di repulsione, desolazione e timore per i pericoli incombenti. Il geografo Strabone scriveva che in quei luoghi «non si è in grado di contrastare la natura, a causa di rocce e crepacci di inusitata grandezza», mentre lo storico Livio sottolineava che «l’aspetto squallido di ogni cosa […] rinnovò nei soldati il terrore». Le cosiddette “terre alte” non piacevano ai romani: fredde, inaccessibili, lontane dall’Urbe e dal mare. Eppure, come afferma la storica Silvia Giorcelli Bersani, «la creazione di una provincia alpina fu il risultato finale di decenni di guerre, talvolta molto dure, tese ad assicurare all’egemonia di Roma i principali passi alpini». Silvia Giorcelli Bersani

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Linda Reali

STORIE DEL TÈ Donzelli, 2019; 289 pp.; 25 ¤ NON FU L’UOMO a scoprire il

tè ma il tè a scoprire l’uomo. In particolare l’imperatore cinese Shen Nong, che nel 2737 a.C. ne fu l’involontario artefice. Secondo una leggenda, una brezza improvvisa fece cadere da un arbusto

due foglie che finirono in un recipiente dove bolliva dell’acqua: «Shen Nong si avvicinò al calderone e con meraviglia vide l’acqua color giada, brillante e profumata». A sostenerlo la sociologa Linda Reali che, tra storia e mito, riporta a galla le vicende di monaci, mercanti, regine e avventurieri cui si deve la diffusione della popolare bevanda. Dall’indagine emerge lo straordinario potere di coesione sociale del tè per vite «che a volte s’incontravano davanti a una tazza fumante, trovando in essa conforto per il corpo e lo spirito». Dalle montagne cinesi ai salotti europei del XVII secolo, «il tè perde la sua essenzialità e spiritualità per vestirsi dello sfarzo» dell’aristocrazia.


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Prossimo numero SIR FRANCIS DRAKE: IL PIRATA DELLA REGINA NEL XVI SECOLO

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I NURAGHI, SIMBOLO DI UN’ANTICA CIVILTÀ OLTRE SETTEMILA edifici in pietra punteggiano il panorama della Sardegna. Sono i nuraghi, costruiti tra l’Età del rame e l’Età del bronzo. Innalzati in punti strategici dell’isola, avevano una funzione abitativa e difensiva. La loro complessità strutturale fa luce su un popolo dotato di precise abilità architettoniche e organizzato in una società articolata che riusciva a sfruttare al meglio le risorse del territorio. DEA / ALBUM

Le strade romane Nel II secolo d.C. Roma poteva contare su 400mila chilomentri di vie che attraversavano l’impero in tutte le direzioni e che furono uno strumento essenziale per la coesione di un territorio così esteso. I romani dedicarono sforzi considerevoli alla loro costruzione.

Il trionfo dell’arte romanica A partire dall’XI secolo nell’Europa occidentale ci fu un aumento esponenziale nella costruzione delle chiese. Tutte appartenevano allo stesso stile architettonico, il Romanico, caratterizzato dall’utilizzo dell’arco a tutto sesto e della volta a botte.

Viaggio sulla luna nel XVII secolo Da quando nel 1610 Galileo descrisse la luna grazie al telescopio, diversi scienziati e scrittori fantasticarono per anni riguardo alla possibilità di riuscire a viaggiare fino al satellite e di poterne finalmente incontrare gli ipotetici abitanti: i seleniti.


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