LE ORIGINI DEL LORO MONDO
EROI DELLA SARDEGNA NURAGICA
aut. mbpa/lo-no/063/a.p./2018 art.
periodicità mensile
KYM
00139
LA CADUTA DI BISANZIO
DA CRISTIANA A MUSULMANA
RAMSES E I TEMPLI DELLA NUBIA
I GIGANTI DI MONT’E PRAMA
9 772035 878008
I GIOIELLI DELLA CORONA VISIGOTA
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CELTI
N. 139 • SETTEMBRE 2020 • 4,95 E
storicang.it
GOYA
I DISASTRI DELLA GUERRA
La più antica Commedia miniata PALATINO 313 Dante Poggiali Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze
Tiratura limitata
E’ decorato da 37 miniature di ispirazione giottesca e da preziose iniziali istoriate, realizzate nella bottega di Pacino di Buonaguida nel XIV secolo. Contiene gran parte del Commento AUTOGRAFO di “Jacopo”, figlio di Dante. Quasi ogni chiosa è segnata dalla sigla: “Ja”, Jacopo Alighieri. Noto come “Dante Poggiali” dal nome dell’editore e bibliofilo Gaetano Poggiali che lo acquistò per utilizzarlo nella sua edizione della Commedia del 1807.
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Per informazioni può contattarci al numero 0541.384859 oppure via email: info@imagosrl.eu
LA BARBARIE DELLA GUERRA. SORPRESA DAI SOLDATI FRANCESI, UNA DONNA CON UN BAMBINO IN BRACCIO CERCA RIFUGIO IN UN ACCAMPAMENTO. OLIO DI FRANCISCO GOYA. 1808-1810. COLLEZIONE DEL MARCHESE DI LA ROMANA.
30 I templi della Nubia Il faraone Ramses II costruì templi nella lontana Nubia per rafforzare il potere egizio nella regione e per mostrarsi come un dio. DI NÚRIA CASTELLANO
46 I celti e le origini del loro mondo Nella civiltà di Hallstatt, sorta circa tremila anni fa, è stato individuato il primo nucleo del mondo celtico, oggi rivalorizzato da nuove e significative scoperte. DI BORJA PELEGERO
68 I gioielli della corona visigota Nel 1858 vennero scoperti per caso in Spagna corone e oggetti preziosi sepolti dai visigoti ai tempi dell’invasione musulmana del 711. DI J. M. ROJAS RODRÍGUEZ-MALO
80 La caduta di Bisanzio La lunga lotta tra gli ottomani e l’impero bizantino si concluse nel 1453, quando Costantinopoli fu conquistata dalle truppe di Maometto II al termine di uno dei più grandi assedi della storia. DI ROGER CROWLEY
98 Goya e i disastri della guerra Nella famosa serie d’incisioni sulla Guerra d’indipendenza spagnola, Goya indagò le radici della violenza umana. DI RAQUEL GALLEGO
6 ATTUALITÀ 8 GRANDI INVENZIONI 12 PERSONAGGI STRAORDINARI Rabban Bar Sauma, il Marco Polo cinese
16 OPERA D’ARTE
Il trittico di san Michele di Juan de Flandes
18 EVENTO STORICO
Nativi contro coloni, la guerra di re Filippo
22 ANIMALI NELLA STORIA 24 VITA QUOTIDIANA Furti ad Atene
28 MAPPA DEL TEMPO 116 IL ROVESCIO DELLA TRAMA 118 GRANDI SCOPERTE I giganti di Mont’e Prama, eroi della Sardegna nuragica
124 LIBRI E MOSTRE
CROCE DI TORREDONJIMENO. MUSEO ARQUEOLÓGICO, CORDOBA. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Licenciataria de NATIONAL GEOGRAPHIC SOCIETY, NATIONAL GEOGRAPHIC TELEVISION
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GOYA
I DISASTRI DELLA GUERRA
I GIOIELLI DELLA CORONA VISIGOTA LA CADUTA DI BISANZIO DA CRISTIANA A MUSULMANA
RAMSES E I TEMPLI DELLA NUBIA I GIGANTI DI MONT’E PRAMA EROI DELLA SARDEGNA NURAGICA
CELTI
LE ORIGINI DEL LORO MONDO
Pubblicazione periodica mensile - Anno XII - n. 139
PRESIDENTE
RICARDO RODRIGO
Editore: RBA ITALIA SRL via Gustavo Fara, 35 20124 Milano tel. 0200696352 e-mail: storica@storicang.it Direttore generale: ANDREA FERDEGHINI
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Errata corrige • Storica 136 (giugno 2020): P. 63: Il secondo capoverso inizia con la frase “Il bronzo è più resistente del rame e del ferro”. In realtà il bronzo è più resistente del rame, ma non del ferro.
4 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
INTERNATIONAL PUBLISHING
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PROYECTO LA BLANCA
AT T UA L I T À
L’ARCHEOLOGA
Cristina Vidal scava il fregio scolpito nel basamento della sottostruttura di La Blanca.
PER ARRIVARE alla sottostruttura
PROYECTO LA BLANCA
del sito archeologico di La Blanca (nell’immagine), si dovette prima scavare e restaurare gli edifici costruiti sopra. Uno di questi, il palazzo d’Oriente, ha il locale con la volta più ampia di tutta l’area maya.
CULTURE PREISPANICHE NEL VICINO
PROYECTO LA BLANCA
sito archeologico di Chilonché venne rinvenuta un’altra dimora sigillata che conteneva magnifiche pitture murali (sotto). Il ritrovamento è di enorme importanza, visto che sono poche le pitture conservatesi per via dell’umido clima tropicale.
6 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
La Blanca, i misteri di una città maya Il progetto La Blanca, iniziato nel 2004, ha consentito notevoli ritrovamenti tra queste rovine della selva guatemalteca
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ei primi anni dell’VIII secolo d.C. i maya che vivevano a La Blanca, nel sud-ovest del Guatemala, sulla costa dell’oceano Pacifico, si affannarono a sigillare un suggestivo edificio, nascondendolo per sempre all’interno di un massiccio basamento. Riempirono di pietra e terra ogni suo locale e murarono con i conci il tutto, fino agli architravi in legno.
Circa tredici secoli dopo, più precisamente negli ultimi giorni di un piovoso novembre del 2013, gli archeologi del progetto La Blanca scoprirono durante gli scavi del basamento un pezzo in pietra lavorata. Si trattava di un oggetto di ottima fattura, sul quale compariva un simbolo a forma di lettera X. Dopo una settimana d’intenso lavoro, l’équipe poté finalmente osservare il magnifico rilievo che decorava la facciata
ovest dell’edificio sepolto. Consisteva in un mosaico di pietra finemente intarsiata, di quasi cinque metri di lunghezza e 1,60 di altezza. Si era conservato integro a eccezione del naso sporgente della divinità scolpita al centro della scena. Nelle stagioni seguenti venne scavato il resto dell’edificio e gli archeologi constatarono che la volta era intatta. Ogni indizio porta a credere che il complesso dovette essere la sede del potere regale.
PROGETTO TEOTIHUACÁN
PARTE delle strutture che
PITTURA MURALE SCOPERTA A TEOTIHUACÁN RAFFIGURANTE UN GIAGUARO.
fiancheggiano la calzada de los Muertos nella città preispanica di Teotihuacán.
PROGETTO TEOTIHUACÁN
È STATA DOCUMENTATA la presenza di laboratori in cui si lavoravano e si rifinivano manufatti litici, così come l’esistenza di pitture murali e ceramiche fini e domestiche in prossimità di una delle strutture, il che costituisce un importante indicatore di rango e di status.
CULTURE PREISPANICHE I RICERCATORI
prevedono di effettuare scavi per confermare le ipotesi formulate. Grazie a diverse tecniche di datazione, come il radiocarbonio e l’archeomagnetismo, sarà possibile comprendere meglio la cronologia delle costruzioni identificate. ANTICO DIO DEL FUOCO. INCENSIERE DI TEOTIHUACÁN.
PROGETTO TEOTIHUACÁN
Nuove scoperte a Teotihuacán La squadra che studia questo sito archeologico ha effettuato importanti scoperte grazie alle tecniche più avanzate
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el 2017 una squadra di ricercatori del dipartimento di storia e archeologia dell’Università di Barcellona e un’altra del laboratorio di prospezione archeologica dell’Istituto di ricerche antropologiche dell’Università nazionale autonoma del Messico hanno iniziato lo studio di un’area situata nel centro di Teotihuacán, grande metropoli preispanica della valle del Messico. L’obiettivo era
identificarne e analizzarne un quartiere. La zona si estende su una superficie di 500mila metri quadrati delimitata a est dalla calzada de los Muertos (Strada dei morti), a nord dalla piramide del Sole e a sud dal fiume San Juan. Quest’area non era ancora stata studiata, quindi riserverà sicuramente importanti scoperte. L’obiettivo dei lavori è approfondire le conoscenze relative all’organizzazione della zona e alla sua evoluzione nel tempo.
Finora sono state identificate le mura sepolte di determinate strutture e alcune piazze. Nella prima fase dello studio è stata applicata una metodologia di prospezione archeologica che include fotogrammetria tramite droni, studi geofisici con georadar, campionamento per l’analisi dei residui chimici e registrazione dei materiali archeologici in superficie. In una seconda fase sono previste operazioni aeree di telerilevamento laser con tecnologia LIDAR. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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GRANDI INVENZIONI
Il water, o l’arte di non lasciare tracce 1775
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e, come di solito si dice, la civiltà corrisponderebbe alla distanza che gli uomini mettono tra sé e i propri escrementi, il water sarebbe un buon indicatore del livello raggiunto da un determinato popolo. I romani si avvicinarono parecchio all’idea dell’attuale tazza grazie al sistema di latrine pubbliche con acqua corrente, che portava subito via le deiezioni verso una serie di cloache sotterranee, cosicché i cattivi odori fossero tollerabili. Tuttavia con il collasso dell’impero questo sistema venne abbandonato e per secoli i vasi con gli escrementi furono svuotati per strada al grido di
«Attenzione all’acqua!». Ciò contribuì a propagare malattie infettive come il tifo. Nel 1594 sir John Harrington, figlioccio della regina Elisabetta I, concepì un water collegato a un deposito d’acqua che permetteva di eliminare le feci. Lo installò nel palazzo reale, ma l’invenzione non si diffuse mai perché la sovrana, per oscuri motivi, gli negò il brevetto. È probabile che pure l’assenza di una rete di fognature o di fosse settiche abbia frenato l’utilizzo su grande scala della tazza di Harrington, ma non è da escludersi che le classi alte avrebbero imitato la regina e l’invenzione si sarebbe diffusa. Dovettero passare quasi due secoli perché un altro
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Il sifone, un tubo a forma di S, fu la soluzione adottata da Alexander Cummings per impedire che l’odore delle deiezioni risalisse lungo il tubo di scarico
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JOSEPH BRAMAH. I SUOI CAMBIAMENTI MIGLIORARONO IL FUNZIONAMENTO DELLA TAZZA DI CUMMINGS.
inglese, Alexander Cummings, riprendesse l’idea ed escogitasse il primo water moderno. Nel 1775 quest’orologiaio scozzese brevettò un gabinetto il cui funzionamento si basava sullo stesso principio di quello di Harrington: una scarica d’acqua pulita allontanava i rifiuti. La sua grande innovazione fu il tubo di scarico rappresentato da un sifone, cioè un tubo a forma di S che consentiva di mantenere il livello di liquido nella tazza, creando una barriera d’acqua limpida che impediva ai cattivi odori di tornare verso il sanitario. La tazza venne così introdotta senza problemi nelle case. Cummings incassò i sanitari in mobili di legno che li nascondevano alla vista e contenevano un dispositivo che permetteva di attivare il meccanismo di scarico ed evacuazione. Tuttavia il sistema non era perfetto. La cisterna gocciolava spesso e la valvola in fondo alla tazza che chiudeva il sifone tendeva a otturarsi.
AGE FOTOSTOCK
Un modello migliorato
DISEGNO DEL GABINETTO DI CUMMINGS, CON LA VALVOLA NELLA TAZZA E IL SIFONE PER LO SCARICO. 8 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Joseph Bramah, un ebanista che aveva installato diversi esemplari del gabinetto di Cummings, rifletté sui difetti e ideò una valvola molto più efficace per chiudere il sifone e che rimaneva pulita grazie al flusso d’acqua. Inoltre Bramah aggiunse una seconda valvola per chiudere la cisterna, evitando così le infiltrazioni. Le valvole funzionavano
GRANGER / AURIMAGES
WATER DI JOHN HARRINGTON IN UN DISEGNO CHE NE SPIEGA IL FUNZIONAMENTO.
ADDIO ALLA SPORCIZIA E ALLA PUZZA 1594 John Harrington inventa il primo gabinetto con un sistema di scarico che consente di eliminare le deiezioni.
1775
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Alexander Cummings disegna la prima tazza moderna: un sifone nello scolo impedisce che risalgano i cattivi odori.
CARICATURA dei gabinetti nel XVIII secolo.
tramite molle e le giunture erano pensate per rimanere sempre secche, in modo tale che non si bloccassero d’inverno con il congelamento dell’acqua. Una leva apriva insieme le due valvole e il getto d’acqua arrivava alla fine della tazza tramite un foro, coperto da una placca di metallo, che scongiurava gli schizzi fuori dal gabinetto. Nel 1778 Bramah brevettò il suo modello e lo mise in commercio con un certo successo, perché era più facile da usare ed efficace rispetto all’invenzione di Cummings. Con il tempo si continuò a migliorare il water. Negli anni settanta del XIX secolo Thomas Twyford fabbricò i primi
1778 Joseph Bramah introduce delle modifiche che evitano le infiltrazioni e migliorano il funzionamento della tazza.
1848
sanitari in ceramica. Nel decennio successivo Thomas Crapper concepì il galleggiante che serviva per chiudere automaticamente il flusso d’acqua nella cisterna. Nel 1898 Albert Giblin, che aveva forse lavorato per Crapper, creò un modello molto simile agli attuali, senza valvola nella tazza. Fondamentale fu la legge del parlamento britannico che nel 1848 ne impose l’installazione nelle nuove case, anche se sarebbero trascorsi decenni prima che il water closet (letteralmente, stanzino dell’acqua) giungesse in tutti gli appartamenti.
Il parlamento britannico promulga una legge che obbliga a installare tazze nelle case costruite a partire da allora.
TAZZA DEL 1880 CON IL MECCANISMO IDEATO DA BRAMAH.
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PERSONAGGI STRAORDINARI
Rabban Bar Sauma, il Marco Polo cinese Un monaco nestoriano cinese decise di attraversare tutta l’Asia per visitare Gerusalemme. Quel viaggio durò quasi vent’anni e lo portò per mezza Europa
Da monaco a diplomatico in Persia 1220 Rabban Bar Sauma nasce a Zhongdu in seno a una ricca famiglia cristiana nestoriana di origine uigura.
1243 All’età di 23 anni Bar Sauma diventa monaco nestoriano, guadagnandosi fama di asceta e maestro.
1275 Inizia un viaggio nei luoghi sacri del cristianesimo che lo condurrà in Europa come ambasciatore del sovrano persiano Arghun.
1294 Muore a Baghdad, dov’era stato accolto dal patriarca nestoriano, il discepolo con cui aveva iniziato il viaggio.
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alla metà del XIII secolo si moltiplicarono le spedizioni diplomatiche e commerciali dirette dalla prospera Europa verso la Cina, l’impero più ricco e potente dell’epoca. Questi viaggi, che si svolgevano lungo la via della Seta (la vasta rete commerciale che univa il Mediterraneo con l’Estremo Oriente) venivano favoriti dalla cosiddetta pax mongolica, la (relativa) stabilità e uniformità politica dell’Asia seguita alla conquista di una sua grossa fetta da parte di Gengis Khan e dei suoi successori. Tra i viaggiatori più famosi in marcia verso la Cina in quegli anni ci furono il mercante Marco Polo e i diplomatici Giovanni da Pian del Carpine e Guglielmo di Rubruck. Ma che ne è stato dei viaggiatori che nel Medioevo hanno percorso la via della Seta in senso opposto, per raggiungere l’Europa partendo dall’Oriente? In realtà, sebbene la Cina non mancasse di esploratori, questi erano perlopiù interessati a scoprire i grandi regni e le vastità dell’Asia. E infatti il primo sino-mongolo che abbia messo piede a Roma e Parigi ci arrivò quasi per caso. Rabban Bar Sauma non era un mercante né un diplomatico, bensì
un monaco nestoriano (appartenente a un’antica dottrina condannata dal cattolicesimo) che aveva vissuto tutta la vita in pace e contemplazione in un monastero tra la Cina e la Mongolia. All’alba dei cinquantacinque anni del monaco, per l’epoca già un traguardo, il suo intraprendente novizio Marcos ebbe l’idea che avrebbe cambiato la vita di entrambi: visitare i luoghi sacri del cristianesimo nel Vicino Oriente, Gerusalemme in testa.
Una missione inattesa Nel 1275, dopo avere donato ai poveri tutti i loro beni, i due viaggiatori s’incamminarono verso ovest. Inizialmente seguirono il fiume Giallo costeggiando il bordo meridionale del deserto del Gobi, un terreno ostile che rese il viaggio molto duro. Per aggirare un tratto della via della Seta infestato dai briganti, decisero di passare dal deserto di Taklamakan, dove dovettero arrampicarsi per dune di venti metri e ripararsi dalle tempeste di sabbia. Finalmente, dopo mesi di cammino, arrivarono all’oasi di Khotan, nella Cina occidentale, un nodo importante della via della Seta, dove si fermarono per sei mesi aspettando che un
Rabban Bar Sauma e il suo discepolo Marcos raggiunsero Baghdad dopo due anni di continue peripezie LOREM IPSUM
LETTERA DI ARGHUN A FILIPPO IV DI FRANCIA IN CUI È MENZIONATO BAR SAUMA. 1289. BRIDGEMAN / ACI
12 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
IL MANOSCRITTO PERDUTO IL VIAGGIO di Bar Sauma è rimasto sconosciuto per secoli fino a quando, alla fine dell’ottocento, venne scoperto un manoscritto in un monastero nel nord della Persia, l’odierno Iran. Era la traduzione in siriaco del resoconto del suo viaggio dalla Cina fino all’Europa. La scoperta permise di mettere assieme altri pezzi della sua storia, tra cui quelli provenienti da un manoscritto di Londra e il carteggio custodito negli archivi vaticani. Il resoconto originale è andato perduto; la traduzione in siriaco fu rimaneggiata dal compilatore, che ne privilegiò i risvolti religiosi tralasciando la descrizione delle città e delle popolazioni. PROCESSIONE DI SACERDOTI NESTORIANI LA DOMENICA DELLE PALME. PITTURA MURALE A GAOCHANG (XINJIANG). VII-VIII SECOLO.
AKG / ALBUM
conflitto locale si risolvesse e potessero rifornirsi di provviste. Attraversarono le montagne gelide dell’Afghanistan, con il costante pericolo delle incursioni dei briganti, e i deserti aridi e assolati dell’Iran, e dopo due anni di viaggio arrivarono a Baghdad, dove sedeva il catholicus, cioè il capo supremo della chiesa nestoriana. Progettavano di fermarsi poche settimane prima di ripartire per Gerusalemme. Invece vi restarono anni. L’impero persiano era stato conquistato tempo addietro da Gengis
Khan e ora era governato dall’ilkhan mongolo Abaqa. Il catholicus Mar Denha I inviò i due viaggiatori presso Abaqa affinché questi confermasse la sua ordinazione a patriarca. I due ubbidirono alla richiesta del loro catholicus che però, dopo due anni, improvvisamente morì. Erano pronti a riprendere il viaggio verso l’agognata Gerusalemme, ma l’elezione del successore gli stava riservando una grande sorpresa: la scelta cadde inaspettatamente sul giovane Marcos, che diventò il nuovo catholicus con
il nome di Mar Yahballaha III. E qui finì il suo viaggio, ma non quello del suo maestro. Nel frattempo Abaqa era morto e suo figlio Arghun cercava un’alleanza contro i mamelucchi dell’Egitto. Dietro consiglio di Marcos, nominò Rabban Bar Sauma capo della delegazione che avrebbe dovuto convincere i reggenti europei a unirsi alla sua campagna militare contro i musulmani. Rabban aveva ormai sessantacinque anni, ma non si tirò comunque indietro di fronte ai disagi di un nuovo STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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PERSONAGGI STRAORDINARI
LA SACRA CULLA,
ALAMY / ACI
la celebre reliquia, che fu contemplata da Bar Sauma, è conservata nella basilica romana di Santa Maria Maggiore.
lungo viaggio, la cui prima tappa era Costantinopoli. Bar Sauma veniva da una piccola comunità cristiana, isolata e con poche risorse, ed era la prima volta che si trovava di fronte a una città interamente cristiana – e che città! Costantinopoli univa lo splendore del passato romano
con la ricchezza dell’impero bizantino. L’uomo rimase folgorato dalla visione di Santa Sofia, costruita sette secoli prima dall’imperatore Giustiniano, e senza parole per descrivere la grandezza e la ricchezza del luogo, le colonne di marmo, la gigantesca cupola e i mosaici degli apostoli. Da qui
s’imbarcò e due mesi dopo, nel giugno del 1287, raggiunse Napoli. Era il primo viaggiatore a mettere piede in Europa dall’Estremo Oriente. La sua prima destinazione fu Roma, dove voleva convincere il papa a dichiarare una nuova crociata per riconquistare la Terra Santa, aiutando così l’impero persiano a sconfiggere i mamelucchi. Ma Onorio IV era appena morto e non era ancora stato scelto il suo successore.
Da Roma a Parigi ARGHUN riceve
BRIDGEMAN / ACI
Geoffrey di Langley, inviato da Edoardo I. Dopo l’ambasciata di Bar Sauma, Persia e Inghilterra stabilirono delle relazioni diplomatiche.
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Bar Sauma approfittò dell’attesa per conoscere la maestosità delle basiliche romane e le incredibili reliquie dei santi che tanto aveva venerato nella sua vita nella lontana Cina: la tomba di san Paolo, le catene di san Pietro, il legno della culla di Gesù. Ma i conflitti interni al collegio dei cardinali ritardavano l’elezione del nuovo papa. Stanco di aspettare, in autunno
I NESTORIANI IN CINA IL NESTORIANESIMO, la dottrina
professata da Rabban Bar Sauma, è attribuita a Nestorio, che fu patriarca di Costantinopoli nel V secolo. Questi affermava che le due nature del Cristo, quella umana e quella divina, erano separate, e che sulla croce era morto solo l’uomo Gesù. Il nestorianesimo non aveva trovato fortuna in Europa e nel mondo bizantino, ma aveva invece prosperato nell’impero persiano, dove risiedeva il suo capo spirituale, il catholicus. Di lì raggiunse la Cina nel 635 d.C.,quando l’imperatore Tai Zong ricevette il monaco persiano Alopen; lo racconta la stele nestoriana di Xi’an, eretta il 7 gennaio 781.
Bar Sauma continuò la sua missione e partì verso nord, per incontrare il re di Francia Filippo il Bello. Non dubitava che gli eserciti cristiani avrebbero colto l’opportunità di unirsi al sovrano persiano e marciare contro gli infedeli mamelucchi, ma dovette scontrarsi con la frammentazione del potere europeo. Il monarca francese era più preoccupato dagli inglesi che controllavano l’Aquitania che dai musulmani in Terra Santa e gli fece promesse vaghe. Bar Sauma comunque ne approfittò per visitare Parigi, le sue università, le chiese e le reliquie come un pezzo di legno della croce e le spine della corona del Cristo. Fu sorpreso che i re di Francia sepolti a Saint-Denis giacessero in piccole tombe, mentre i sovrani asiatici si facevano costruire palazzi interi per le loro spoglie mortali. Curiosamente, non menzionò Notre-Dame, la cattedrale più grande di Parigi, che sicuramente
AKG / ALBUM
STELE NESTORIANA DI XI’AN (PARTICOLARE). 781. MUSEO DI BEILIN, XI’AN.
dovette averlo impressionato: lo storico Morris Rossabi ipotizza che fosse per imbarazzo, perché i nestoriani non venerano la Madonna. Poi si recò dal re d’Inghilterra Edoardo I, che in quei mesi soggiornava a Bordeaux e gli promise subito aiuto economico e militare. Tuttavia negli anni successivi le sue energie vennero risucchiate dalle guerre europee e non inviò nessun esercito a combattere i mamelucchi. Nel febbraio del 1288 finalmente la fumata bianca arrivò e Bar Sauma tornò a Roma per incontrare il nuovo papa, Niccolò IV, che gli consegnò una lettera per il sovrano persiano. In questa lettera, di cui è custodita una copia negli archivi vaticani, il papa respingeva l’alleanza con Arghun per via della fragilità della situazione interna all’Europa e lo esortava a trovare la luce e convertirsi al cristianesimo. Tuttavia s’incuriosì molto
del diplomatico cinese e gli permise di celebrare una messa secondo l’usanza nestoriana, che non conosceva. Il papa notò con soddisfazione che, a parte la lingua, la messa celebrata dall’«ambasciatore dei mongoli» era identica a quella di Roma. Il lungo cammino di Rabban Bar Sauma era arrivato alla conclusione. Era troppo vecchio per rimettersi in viaggio verso la nativa Cina, ma forse aveva sempre saputo che non vi avrebbe mai fatto ritorno. Morì in Persia nel 1294 fra le braccia del patriarca Mar Yahballaha III, il novizio Marcos che era partito con lui vent’anni prima. GIORGIO PIRAZZINI STORICO
Per saperne di più
Terre ignote strana gente. Storie di viaggiatori medievali Duccio Balestracci. Laterza, Roma-Bari, 2009.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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O P E R A D ’A R T E
juan de fl andes
(15 0 6 -15 0 7)
Il trittico di san Michele a Salamanca Il fiammingo Juan de Flandes, uno dei più importanti pittori del Rinascimento spagnolo, realizzò questa splendida pala d’altare per la cattedrale di Salamanca
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chele ha le sembianze di un cavaliere medievale alato, con una scintillante armatura e un mantello rosso. Il suo scudo riflette come uno specchio la grande battaglia tra i messaggeri divini e gli angeli caduti che si svolge davanti a lui. Il paesaggio desolato e la città in rovina sono riferimenti a Babilonia, identificata nella Bibbia come la città del male la cui caduta preannuncia il giudizio universale. Figure demoniache fluttuano nel cielo mentre le nuvole sembrano riecheggiare il conflitto. Lo scontro tra il bene e il male, narrato nel libro dell’Apocalisse, si risolve con la vittoria di san Michele arcangelo e l’esilio del maligno e delle sue milizie infernali. San Michele, uno dei tre arcangeli citati per nome nella Bibbia, non è solo il capo dell’esercito celeste e il modello angelico delle virtù del guerriero spirituale, ma anche il protettore della Chiesa e del popolo eletto dell’Antico Testamento. È inoltre l’angelo che si occupa di pesare le anime dei defunti sulla sua bilancia durante il giudizio universale e di condurre in cielo quelle meritevoli. La lotta con il maligno Grazie a questa sua natura sfaccettata, Il centro della composizione è il pan- non sorprende che sia un soggetto nello di san Michele. Con la spada ricorrente nella pittura funeraria del divina in pugno, l’arcangelo è in pro- Rinascimento e il protagonista di cinto di sferrare il colpo di grazia al questa pala d’altare. diavolo, rappresentato ai suoi piedi MÓNICA WALKER VADILLO STORICA DELL’ARTE come un animale rabbioso. San Mi-
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ORONOZ / ALBUM
uan de Flandes fu il pittore di corte di Isabella di Castiglia dal 1496 fino alla morte della sovrana, avvenuta otto anni più tardi. In seguito dovette cercarsi un nuovo mecenate per poter continuare a svolgere la sua attività. Si trasferì a Salamanca, dove gli venne commissionata una pala d’altare in stile rinascimentale fiammingo per la nicchia funeraria dei fratelli Rodriguez de San Isidro, nella cattedrale cittadina, che realizzò tra il 1506 e il 1507. Il trittico è composto da sei pannelli. Nella parte superiore si trova la monumentale figura di san Michele arcangelo affiancata da Giacomo il Maggiore e da san Francesco d’Assisi (che riceve le stimmate da un serafino alato), mentre alla base c’è una Pietà con san Pietro (sulla sinistra) e san Paolo (sulla destra). Lo stile del dipinto testimonia le grandi doti tecniche di questo pittore formatosi alla scuola fiamminga, così come la sua sensibilità per la luce e per il paesaggio della Castiglia che accumuna le varie tavole.
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Nativi contro coloni, la guerra di re Filippo Tra il 1675 e il 1676 il leader dei wampanoag guidò le tribù indigene della Nuova Inghilterra in una grande rivolta contro i coloni arrivati dall’Europa cinquant’anni prima
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el 1620 i coloni inglesi conosciuti come “padri pellegrini” e considerati i fondatori degli Stati Uniti raggiunsero le coste dell’America settentrionale a bordo della Mayflower. I viaggiatori denominarono Nuova Inghilterra la regione in cui sbarcarono, e che all’epoca era la terra dei wampanoag. Questi indigeni furono i primi a entrare in contatto con gli europei. Nella primavera del 1621 celebrarono insieme ai nuovi arrivati il primo Ringraziamento (all’origine
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della festività statunitense del Thanksgiving day), dopo un duro inverno in cui l’aiuto dei nativi si era dimostrato provvidenziale per la sopravvivenza dei coloni. Il capo wampanoag, Massasoit, partecipò al banchetto portando in offerta ai pellegrini alcuni cervi. Fu l’inizio di un decennio di convivenza relativamente pacifica durante la quale fiorì il commercio di pelli di castoro. Cinquant’anni più tardi la situazione sarebbe completamente cambiata. La crescita demografica dei coloni – che adesso erano 80mila, otto volte più
dei nativi – aveva costretto questi ultimi ad abbandonare le proprie terre. Il commercio di pelli di castoro era in declino, e i wampanoag che accettavano l’evangelizzazione e cercavano d’integrarsi finivano a fare i servi degli inglesi, diventando così dei cittadini di seconda classe, disprezzati e indebitati dal punto di vista economico. La famiglia del capo wampanoag fu un esempio di questa parabola. Il secondo figlio di Massasoit, Metacomet, nato intorno al 1638, era cresciuto in mezzo al vivace meticciato culturale
EVENTO STORICO
BRIDGEMAN / ACI
Mount Hope base di Metacomet
LA NUOVA INGHILTERRA BRUCIA Questa incisione della Storia della scoperta dell’America (1810) mostra la lotta tra i nativi e i coloni europei.
MPI / GETTY IMAGES
SCONTRO IMPARI
L’EPICENTRO DELLA GUERRA di re Filippo fu nel sud della Nuova Inghilterra, più precisamente nella zona di frontiera tra la colonia di Plymouth – entrata a far parte dello stato del Massachusetts, con capitale Boston, nel 1691 – e Rhode Island, la cui città principale era Providence. I wampanoag occupavano il centro della regione, mentre i narragansett erano insediati più a est.
dai coloni, era un nativo convertito al cristianesimo che aveva fatto da mediatore tra le tribù indigene e gli inglesi. Un giorno Sassamon avvertì il governatore della colonia di Plymouth che re Filippo stava radunando forze per attaccare i villaggi europei meno protetti della regione. Poco più tardi Sassamon fu trovato morto sotto il ghiaccio di un piccolo lago, dove in teoria era andato a pescare. Dell’omicidio furono accusati Inizia la guerra tre indiani, tutti membri del circoLa causa scatenante del conflitto fu la lo di fiducia di Metacomet. Vennero morte di un wampanoag in circostan- condannati a morte da una giuria e ze poco chiare nel gennaio del 1675. impiccati l’8 giugno 1675. La reazione dei guerrieri wampaJohn Sassamon, com’era conosciuto noag non si fece attendere: due settimane dopo saccheggiarono le fattorie La grande rivolta indiana del 1675 di Swansea e attaccarono i coloni che tornavano dalla chiesa, uccidendone fu guidata da Metacomet, che gli nove. Secondo alcuni cronisti dell’eeuropei chiamavano re Filippo poca, fu questo episodio a scatenare il conflitto. Più che una guerra vera e propria, si trattò di una grande rivolta delle RE FILIPPO. INCISIONE. XVII SECOLO. KEAN COLLECTION / GETTY IMAGES
che animava la Nuova Inghilterra di quegli anni. Questo gli aveva permesso di ricevere il meglio di ciascuno dei due mondi. Nella sua tribù era riverito come figlio del capo e nel nuovo ambiente dei coloni godeva di un certo benessere economico che gli permetteva, ad esempio, di andare a comprarsi i vestiti a Boston. Metacomet era conosciuto anche con un nome europeo, Filippo. Dopo essere diventato sachem (capo) del suo popolo (da cui il nome “re Filippo”), Metacomet divenne consapevole della minaccia rappresen-
tata dall’espansione europea. Cercò quindi delle alleanze con le tribù vicine, prima per via matrimoniale e poi tentando di convincere le popolazioni indigene che dovevano far fronte comune contro i coloni. Ma essendo cosciente dell’inferiorità numerica dei nativi, rimandò varie volte lo scontro armato: per controllarne le conseguenze doveva prima assicurarsi il sostegno del maggior numero possibile di tribù.
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EVENTO STORICO
PLIMOTH PLANTATION
TARKER COLLECTION / ACI
ricostruisce l’insediamento originario di Plymouth, la colonia fondata dai padri pellegrini sbarcati dalla Mayflower.
popolazioni indigene contro i nuovi arrivati. Ai wampanoag si unirono ben presto i nipmuck, e poco più tardi anche i poderosi narragansett. Ma altre comunità native come i mohegan, da sempre nemiche di queste tribù, preferirono schierarsi a fianco degli inglesi. Sebbene in inferiorità numerica, gli indigeni disponevano di armi da fuoco – che avevano acquistato e
COPERTINA DELLA CRONACA, RAZZISTA, DI MARY ROWLANDSON, CHE TRASCORSE QUASI UN ANNO PRIGIONIERA DEI NATIVI. MPI / GETTY IMAGES
imparato a usare nei decenni precedenti – e grazie alla loro conoscenza del territorio potevano attuare tattiche di guerriglia. Nel corso del conflitto assaltarono più della metà dei quasi cento insediamenti europei presenti nella regione. Incendiarono abitazioni e fienili causando in varie occasioni pesanti perdite tra i coloni. Nel corso di un attacco a Lancaster nel febbraio del 1676, ad esempio, uccisero o ferirono una cinquantina di inglesi e ne rapirono ventiquattro, tra cui la moglie di un sacerdote, Mary Rowlandson, e i suoi tre figli. Un altro evento bellico di una certa importanza fu l’offensiva dei wampanoag a Northampton. Così la riassunse lo storico Daniel Strock (1851): «L’obiettivo degli indiani era sorprendere il villaggio. Si avvicinarono senza farsi notare, poi si lanciarono all’attacco delle case più isolate. Quattro uomi-
ni e due donne furono uccisi mentre tentavano la fuga dal villaggio. Diverse abitazioni e quattro o cinque fienili furono dati alle fiamme. Gli abitanti si rifugiarono nella guarnigione militare». Ma questo scontro non si concluse positivamente per le forze di Metacomet. «Fiduciosi nella vittoria, gli assaltanti avanzarono con troppa irruenza, ritrovandosi all’interno della palizzata che circondava il forte sotto il tiro dei fucili del contingente militare. Sorpresi dal fuoco dei soldati, gli indiani si ammassarono in una piccola zona riparata, per poi iniziare a fuggire alla rinfusa, cadendo uno sopra l’altro, mentre gli abitanti del villaggio approfittavano della situazione per fare fuoco su di loro. Le perdite tra gli indiani in termini di morti e feriti furono considerevoli». Da Boston e da Plymouth furono inviati dei contingenti militari per penetrare in territorio indigeno e di-
Massacro nella palude NEL DICEMBRE del 1675 si svolse uno degli scontri più sanguinosi della Guerra di re Filippo: la
ALAMY / ACI
battaglia della Grande Palude. L’esercito coloniale attaccò l’insediamento principale della tribù dei narragansett (circondato da alberi caduti, come si vede nell’incisione) e uccise centinaia d’indigeni, tra cui vecchi e bambini.
struggere le basi nemiche. I nativi risposero con sanguinose imboscate, come quella che nel settembre del 1675 i narragansett tesero a una colonna inglese nei pressi di Northampton, in cui morirono più di sessanta soldati. Gli assalti alle tenute e agli insediamenti proseguirono per mesi. Nel marzo del 1676 i narragansett incendiarono Providence. Gli abitanti di Boston non osavano più mettere piede fuori dalla città. La rivolta creò un tale senso d’insicurezza che, per la prima volta, un buon numero di coloni decise di tornare in Europa.
La fine della rivolta Nell’aprile del 1676 la cattura del capo narragansett Canonchet – immediatamente giustiziato dai mohegan, suoi nemici giurati – segnò la svolta del conflitto. I nativi avevano già subito molte perdite e incontravano crescenti difficoltà a rifornirsi di alimenti, pol-
vere da sparo e munizioni. Molti di loro smisero di sostenere re Filippo e cominciarono ad abbandonarlo. Presagivano una fine imminente. Con i guerrieri rimastigli fedeli, Metacomet si asserragliò a Mount Hope, dove si svolsero gli ultimi combattimenti. Il 12 agosto John Alderman, un indiano che apparteneva al contingente militare della colonia di Plymouth, uccise re Filippo con un colpo di pistola. Nei mesi successivi ci furono ancora piccoli scontri, ma ormai la ribellione poteva considerarsi sedata. Si calcola che nel corso della guerra persero la vita circa mille coloni e tremila nativi. Altri mille nativi furono venduti come schiavi e trasportati nelle isole caraibiche appartenenti all’impero britannico. Altri tremila morirono di fame o a causa delle nuove malattie portate dai coloni. Altri duemila dovettero fuggire e si unirono alle tribù che vivevano nei territori a nord e
a ovest delle colonie. Gli indigeni della regione non si sarebbero mai ripresi da questa catastrofe. Ma il conflitto fu un duro colpo anche per gli europei. Per il numero di vittime e le conseguenze economiche, la guerra di re Filippo è stata spesso definita una delle più terribili nella storia degli Stati Uniti. Il corpo di Metacomet fu smembrato e la sua testa fu infilzata su una lancia. Per anni i coloni di Plymouth continuarono a esporla pubblicamente vicino al luogo dove suo padre, Massasoit, aveva celebrato con i pellegrini della Mayflower il primo banchetto del Ringraziamento. FERNANDO MARTÍN PESCADOR STORICO
Per saperne di più
SAGGI
Mondi perduti. Una storia dei nativi nordamericani, 1700-1910 Aram Mattioli. Einaudi, Torino, 2019.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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ANIMALI NELLA STORIA
La zebra, l’animale esotico preferito da Luigi Antonio di Borbone
L’
impatto dell’Illuminismo sulla società europea del XVIII secolo non si limitò alla diffusione dell’enciclopedismo, alle idee di cambiamento sociale o a una nuova fede nella scienza. Con l’espansione geografica le élite del continente svilupparono un interesse crescente per gli oggetti e gli animali provenienti da luoghi lontani. In Spagna l’infante Luigi Antonio di Borbone (1727-1785), fratello del re Carlo III, si dimostrò un entusiasta seguace di questa tendenza e collezionò una grande varietà di animali esotici, che distribuì nelle sue residenze. Tra INFANTE LUIGI ANTONIO DI BORBONE. RITRATTO DI ANTON RAPHAEL MENGS. 1776 CIRCA. ALBUM
tutti i suoi possedimenti spicca un piccolo zoo conosciuto come El gallinero (il pollaio), costruito nel suo palazzo di Boadilla del Monte, vicino Madrid . Il fenomeno dei serragli non era esclusivo della Spagna. In Francia le ménagerie, fra cui quella della reggia di Versailles, è un ottimo esempio di spazi che offrivano ai naturalisti dell’epoca la possibilità di studiare specie altrimenti inaccessibili.
La favorita dell’infante Lo zoo di Luigi Antonio ospitava cavalli, asini e cani, oltre a diversi animali esotici tra cui il vero e proprio gioiello della collezione: una splendida zebra. Le zebre erano molto ambite nelle corti europee di quel periodo. Trattandosi di animali abituati a fuggire dai predatori della savana africana, erano molto veloci e difficili da catturare, e questo ne motivava il prezzo particolarmente elevato. La maggior parte degli esemplari arrivava in Europa su imbarcazioni olandesi e portoghesi provenienti dall’Africa meridionale, in particolare dalla zona del capo di Buona Speranza. Il valore della zebra dell’infante era tale che nel 1774 questi commissionò al pittore di corte Luis Paret y Alcázar un quadro che la immortalasse. Paret raffigurò l’animale con grande realismo, volendo testimoniare che il prezioso esemplare godeva di buona salute nelle mani del suo padrone. A conferma di ciò, alla
firma che accompagna il dipinto l’artista fece seguire la dicitura: «Copia della zebra naturale ed esistente / in possesso del serenissimo Luigi Antonio di Borbone, infante di Spagna». Il quadro di Paret, di 48,5 di altezza per 34,5 cm di larghezza, è a metà strada tra il ritratto e il disegno scientifico che tanto andava di moda nel XVIII secolo. Dal punto di vista anatomico, il dipinto è estremamente realistico. Le strisce sul dorso dell’animale, che scendono fino al ventre, sono rappresentate con grande fedeltà, così come quelle sui quarti posteriori, sfumate nella parte finale. Grazie ai dettagli, raffigurati con tanta precisione da Paret, è possibile identificare l’animale con una zebra di Burchell, una sottospecie della zebra comune tipica dell’Africa meridionale. Nel 1778 Luigi Antonio di Borbone si trasferì al palazzo di La Mosquera ad Arenas de Pedro (Avila). Qui l’infante delimitò i giardini della proprietà con una fagianaia, un pollaio e una voliera, ritornando al suo iniziale interesse per gli uccelli. Quando la zebra morì, Luigi Antonio ordinò che fosse imbalsamata. Ciononostante l’esemplare andò perduto. Oggi di quell’animale non resta che il dipinto realizzato da Paret, conservato presso il Museo del Prado, dove tuttavia non viene esposto. CARLOS MICÓ STORICO E NATURALISTA
MUSEO DEL PRADO
Appassionato di scienze naturali, il fratello minore di Carlo III di Spagna creò uno zoo con animali esotici, tra cui una zebra che fece ritrarre dal pittore Luis Paret
ANIMALI NELLA STORIA
V I TA Q U OT I D I A N A
La passione ateniese per la roba altrui Nella capitale dell’Attica abbondavano ladri, borsaioli e scassinatori, e ai mercati non mancavano le truffe una rissa. Volarono percosse: quello stramazzò, fingendo di aver preso un colpo letale ed essere morto.“Acqua, acqua” qualcuno gridò. E presto, sollevata una brocca, un complice ne gettò un poco proprio su di lui, e il grosso sui pesci. Li avreste detti appena catturati».
I bassifondi Le bancarelle del pesce, soprattutto quelle che vendevano la merce più cara, erano i luoghi di ritrovo per eccellenza di borseggiatori, ladri, scassinatori e malviventi d’ogni genere, desiderosi di spendere in buon cibo i loro illeciti guadagni. Probabilmente nell’agorà c’era anche un mercato nero dov’era possibile smerciare i prodotti rubati. Secondo le opere letterarie del periodo, le strade di Atene pullulavano di borsaioli (ballantiotomoi) e altri ladruncoli (kleptai). Ne è un esempio l’avvertimento dato da una delle pro-
SCALA, FIRENZE
CATTIVE AZIONI NELL’ATENE DELL’ETÀ classica non c’era la distinzione tra crimina e delicta che si può trovare nell’antica Roma, né un termine specifico per indicare i reati. I vocaboli che più si avvicinano sono kakourgemata, traducibile come “cattive azioni” o “delitti”, e kakourgoi (malfattori). ERMES IN RIPOSO. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, NAPOLI.
BPK / SCALA, FIRENZE
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ell’Atene dell’Età classica c’era un’ampia varietà d’individui denominati kakourgoi (letteralmente, malfattori). Il termine riuniva delinquenti di vario tipo: ladruncoli, borsaioli, ladri di vestiti che agivano negli spazi pubblici, svaligiatori di case o razziatori di templi. La città ospitava anche una serie di truffatori e imbroglioni, dai gestori di taverne – che adulteravano il vino per i clienti – ai pescivendoli che cercavano di far passare per fresco il pesce ormai vecchio. Questi ultimi erano spesso oggetto di scherno nelle commedie, dove non mancavano i riferimenti ai trucchi utilizzati per aggirare il divieto di bagnare il pesce in modo da farlo sembrare appena pescato, come nel seguente aneddoto del comico Senarco: «Uno di loro […] come vide avvizzirsi i suoi pesci, provocò
DUE LADRI cercano di sottrarre a un anziano il forziere su cui è disteso, sotto lo sguardo terrorizzato di uno schiavo. Scena comica di un cratere del ceramografo Assteas. IV secolo a.C. Staatliche Museen, Berlino.
tagoniste della commedia Gli Acarnesi di Aristofane a una fanciulla che partecipa a un festa popolare: «Su, fatti avanti, e bada che nessuno t’abbia a rubare, fra la calca, l’oro, senza che te ne accorga». Sembra che fossero abbastanza frequenti anche i furti nelle case. I testi di solito definiscono coloro che li eseguivano toichoruchoi (letteralmente, foratori di muri), perché non entravano quasi mai nelle case forzando porte o finestre, che erano spesso ben sorvegliate e protette mediante formule magiche. Preferivano invece fare un buco nelle pa-
reti di mattoni crudi o approfittare di qualche foro di ventilazione nel tetto. È così che, secondo Erodoto, un ladro s’intrufolò nella camera del tesoro del leggendario re d’Egitto Rampsinito. Il modus operandi di questi rapinatori è descritto anche dall’oratore Demostene. Rispondendo allo svaligiatore Bronzino, che lo deride per la sua abitudine di passare le notti in bianco a scrivere discorsi, Demostene ribatte: «Lo so che ti do fastidio a tenere accesa la lucerna […] e voi, Ateniesi, non stupitevi dei furti che avvengono all’ordine del giorno, visto che abbiamo ladri
Ermes, un ladro tra gli dei dell’Olimpo FAMOSO PER ESSERE IL MESSAGGERO dell’Olimpo, Ermes è an-
che il dio dell’astuzia e dei ladri. Lo dimostra l’episodio del furto di buoi ai danni del fratello Apollo. Secondo il mito, una notte Ermes ancora in fasce scappò dalla culla mentre sua madre, la Pleiade Maia, dormiva. Arrivato in Tessaglia, il giovane dio rubò le mandrie di Apollo e le nascose in una grotta. Per evitare che il fratello potesse rintracciare gli animali seguendone le orme, Ermes li costrinse a camminare all’indietro tirandoli per la coda. Alla fine Apollo riuscì
comunque a risalire all’autore del furto e chiese giustizia a Zeus. Ermes offrì al fratello la sua lira come indennizzo, e questi ne fu così deliziato che decise di cedergli i bovini e il suo vincastro, che poi Ermes avrebbe trasformato nel caduceo, il bastone alato con due serpenti intrecciati.
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ANTON PETRUS / GETTY IMAGES
OLTRE a magnifici siti come l’Acropoli, ad Atene c’erano anche quartieri malfamati dove la criminalità era all’ordine del giorno.
con la faccia di bronzo e muri fatti d’argilla». Anche le divinità potevano essere vittime di piccoli furti, o almeno questo è quanto emerge da un racconto di Aristofane contenuto all’interno della commedia Pluto. Mentre trascorre la notte nel tempio di Asclepio, il servo Carione non riesce a dormire per la fame, così decide di approfittarne per rimpinzarsi con le pietanze offerte al dio: «Mi alzai e andai alla pentola della zuppa […]
Alla fine m’ingozzai e mi fermai solo quando fui ben satollo». I ladri di vestiti (lopodutai) occupano anch’essi un posto di rilievo nella letteratura dell’epoca, che li ritrae sempre intenti a compiere i loro furtarelli per le strade di Atene, ma soprattutto alle terme e nelle palestre, dove la loro attività era facilitata dal continuo via vai di gente e dal fatto che le vesti fossero lasciate spesso incustodite. Se non c’erano spogliatoi (apodyteria) infatti venivano posate direttamente a terra oppure appese a un palo o al ramo di un albero. In ambito mitologico il dio
I ladri di vestiti operavano principalmente alle terme e nelle palestre SCA
ROVESCIO DEL TETRADRAMMA D’ARGENTO ATENIESE.
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Ermes avrebbe rubato le tuniche della madre e delle zie mentre queste facevano il bagno. Nella commedia I cavalieri Aristofane fa confessare a uno dei personaggi, il salsicciaio, di aver imparato a «rubare e spergiurare» in palestra. Aristotele, dal canto suo, allude al furto di mantelli e altri piccoli oggetti come pomate o unguenti, al Liceo, all’Accademia e al Cinosarge (un ginnasio pubblico). Analogamente, lo storico Diogene Laerzio mette in bocca a Diogene il Cinico le seguenti parole, rivolte a un ladro che “lavorava” alle terme: «Sei qui per un po’ di unguento o per un’altra veste?».
Socrate, filosofo e ladro Aristofane dipinge come un volgare ladruncolo anche Socrate. In un passaggio della commedia Le nuvole uno dei discepoli del celebre pensatore ateniese racconta che il
IL LADRO E IL CANE
TONY QUERREC / RMN-GRAND PALAIS
IL FAVOLISTA GRECO Esopo parla di furti domestici in due favole: I ladri e il gallo e Il ladro e il cane. Quest’ultima recita: «Un ladro andò di notte a svaligiare una casa. Portò con sé dei pezzi di carne per blandire il cane da guardia e fare sì che non si mettesse ad abbaiare risvegliando il padrone. Quando il ladro gli tirò la carne, il cane disse: “Se pensi di chiudermi la bocca così, ti sbagli di grosso. Questa improvvisa gentilezza da parte tua non farà che rendermi più vigile, per evitare che, grazie ai favori che inaspettatamente mi concedi, tu possa ottenere dei benefici a tuo vantaggio e a detrimento del mio padrone”». FAVOLA DEL LADRO E DEL CANE. ESOPO. INCISIONE ITALIANA. MUSÉE DU LOUVRE, PARIGI.
maestro, non avendo nulla da offrirgli per cena, avrebbe usato uno stratagemma per rubare di nascosto un mantello durante una delle sue lezioni di geometria: «Sparge sulla tavola uno strato sottile di cenere, piega un piccolo spiedo a forma di compasso... e fa sparire il mantello dalla palestra». Questo ritratto poco lusinghiero viene ripreso dal comico Eupoli, che deride il filosofo affermando che, benché fosse povero, non si preoccupava mai di restare senza cibo. Eupoli aggiunge che in un’occasione Socrate avrebbe rubato una brocca di vino a un simposio.
Morte ai malfattori I furti menzionati in precedenza potevano essere accompagnati dal ricorso ad atti violenti. In un passo della commedia di Aristofane Gli uccelli il coro dice: «Chi avesse a che fare di notte con l’eroe Oreste si troverebbe
nudo e pieno di bastonate sul fianco destro». Il drammaturgo si riferisce probabilmente a un noto ladro e non all’eroe tragico. Le leggi ateniesi punivano i malfattori con estrema severità. Il presunto o provato kakourgos veniva arrestato e portato davanti agli Undici, un corpo speciale di magistrati che aveva il compito di giustiziare i criminali che ammettevano la loro colpevolezza oppure nei casi in cui questa risultava evidente. Avevano anche il potere di disporre la custodia preventiva di coloro che dovevano ancora essere giudicati. I processi erano di competenza dei tribunali popolari, un’istituzione relativamente simile a quella delle giurie in alcuni sistemi legali del giorno d'oggi. I giurati, che fungevano anche da giudici, ascoltavano le varie arringhe e quindi emettevano il verdetto. Se l’imputato era rite-
nuto colpevole, veniva condannato a morte. Gli ateniesi riservavano ai kakourgoi una fine lenta e dolorosa, nota come apotumpanismos, che era comminata anche ai traditori. Questo castigo era simile alla crocifissione: la differenza era che il colpevole veniva posto su un’asse di legno che non aveva la forma di una croce, e non veniva inchiodato, bensì legato con delle catene che gli cingevano il collo e le membra. L’agonia poteva durare diversi giorni, ovvero fino a quando il condannato moriva per le ferite provocate dal ferro nella carne, per la fame, per la sete oppure per l’esposizione alle intemperie. AIDA FERNÁNDEZ PRIETO STORICA
Per saperne di più
SAGGI
I supplizi capitali in Grecia e a Roma Eva Cantarella. Feltrinelli, Milano, 2018.
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MAPPA DEL TEMPO
Mito e realtà nella prima mappa dell’Artico Il cosmografo fiammingo Gerardo Mercatore fu l’autore della prima rappresentazione cartografica dell’Artico fantastica viene ripresa da Mercatore in una lettera indirizzata all’astronomo inglese John Dee nel 1577: «In mezzo a quattro isole c’è un gorgo in cui si riversano i quattro mari che dividono il nord. E con gran clamore l’acqua scende nelle profondità della terra come se attraversasse un imbuto».
Il Polo Nord
Al centro del gorgo, a novanta gradi di latitudine nord, c’è una «roccia nera e altissima» 1 da molti ritenuta magnetica. Secondo Mercatore, invece, a essere magnetico è uno scoglio situato Leggende medievali in mezzo al mare, «proprio sotto il poNei testi che accompagnavano il map- lo» 2. Si tratta di un tentativo di spiepamondo del 1569 Mercatore riferi- gare il fatto che gli aghi delle bussole va che una delle sue fonti indirette non indicassero esattamente il nord era l’Inventio Fortunata, il diario di un geografico. Questo fenomeno, conoviaggio compiuto probabilmente da un sciuto come “declinazione magnetimatematico francescano di Oxford nel ca”, era stato notato dagli esploratori 1360: «Questi si recò alle isole [set- Martin Frobisher e John Davis, che tentrionali]; e una volta lasciatole, si cercavano il passaggio a nord-ovest spinse oltre grazie alle arti magiche, e (una rotta che unisse l’Atlantico e il mappò e misurò tutto con il suo astro- Pacifico costeggiando l’America setlabio, creando una figura praticamente tentrionale). I due avevano osservato identica a quella qui rappresentata, anche le correnti che trascinano gli che noi abbiamo appreso da Jacobus iceberg, un fatto che sembrava rafCnoyen». Cnoyen era un navigatore forzare l’ipotesi dell’esistenza di un brabantino autore di un libro, Itine- gigantesco gorgo al polo. Mercatore rarium, in cui venivano citati alcuni inserì in questa mappa le scoperte di passi dell’opera perduta del viaggia- Davis 3, che fece tre viaggi alla ricertore francescano, che aveva a sua volta ca del passaggio tra il 1576 e il 1578, e ripreso la descrizione dell’Artico dalla quelle di Frobisher, che viaggiò due Topografia dell’Irlanda, un testo scritto volte all’Artico tra il 1585 e il 1587 4. intorno al 1188 dallo storico gallese ENRIQUE MESEGUER STORICO Giraldo Cambrense. Questa geografia 28 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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a prima mappa conosciuta dell’Artico apparve nel 1569 come parte di una famosa carta di navigazione disegnata da Mercatore che comprendeva l’intero pianeta. Nel 1595, poco dopo la sua morte, il figlio Rumold la ripubblicò all’interno di un atlante del mondo – l’Atlantis Pars Altera – come mappa indipendente (visibile qui accanto). In essa confluiscono le scoperte geografiche avvenute entro il 1569 e alcune informazioni mitologiche, allora ritenute affidabili, sulle regioni del nord.
frislanda. L’isola fantasma apparve in una mappa del 1558 del veneziano Nicolò Zeno. Questi dichiarò di basarsi sui resoconti di un viaggio effettuato dai suoi antenati.
stretto di anián. Presunto passaggio tra Asia ed Europa il cui nome è originariamente attribuito a Marco Polo. Il mappamondo del 1561 di Giovanni Gastaldi lo situa per la prima volta qui. california. Indicata come territorio spagnolo, è rappresentata più a nord della sua posizione reale.
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IL GRANDE TEMPIO DI ABU SIMBEL
Sulla riva occidentale del lago Nasser, a 230 chilometri da Assuan e nei pressi della prima cateratta del Nilo, sorge il grande tempio che Ramses II dedicò a sé stesso e al dio Ra Harakhti, il sole allo zenit. Quattro statue monumentali del faraone osservano impassibili lo scorrere del tempo. PETER DE CLERCQ / ALAMY / ACI
R AMSES II, IL FAR AONE COSTRUTTORE
I TEMPLI DELLA Ramses II costruì templi in Nubia per rafforzare il potere egizio nella regione
NUBIA e per mostrarsi come un dio
IL RE TRIBUTA UN’OFFERTA
Questo rilievo del tempio di Seti I ad Abido mostra il padre di Ramses II intento a tributare un’offerta agli dei. PILASTRI OSIRIACI
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na delle principali attività a cui il faraone doveva dedicarsi quando saliva al trono era quella di onorare gli dei tramite la realizzazione di nuovi templi o l’ampliamento di uno dei tanti che già sorgevano nel Paese del Nilo. Durante il Nuovo regno, quando l’Egitto era una delle maggiori potenze del Vicino Oriente, alcuni faraoni scelsero la Nubia per portare avanti tali opere, con un duplice obiettivo: lasciare la loro impronta su quelle terre lontane (che attualmente sono ripartite tra l’Egitto meridionale e il nord del Sudan) e iniziare un processo di divinizzazione della loro figura lontano dal clero del dio Amon, che era insediato nella capitale egizia, Tebe.
Sebbene i sacerdoti tebani avessero molto potere, i sovrani erano gli unici ad avere il privilegio di poter essere rappresentati all’interno dei templi, dove comparivano spesso intenti a consacrare offerte agli dei oppure a ricevere da essi l’abbraccio divino o la chiave ankh, simbolo della vita. Ma per quanto possa sembrare che il sovrano fosse quasi in posizione di parità rispetto agli dei, in realtà era raffigurato su una scala significativamente inferiore e in posizione di sottomissione. Tale situazione cambiava però alla morte del regnante, che a quel punto veniva assimilato al dio dell’oltretomba Osiride e si trasformava in una divinità. È per questo che nei templi funerari, che erano dedicati al culto del
1279 a.C. TEMPLI PER GLI DEI
32 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
RAMSES II sale al trono.
Termina la costruzione del primo tempio nubiano, quello di Beit el-Wali, iniziato durante la coreggenza con il padre, Seti I.
1265 a.C. RAMSES inaugura il grande
tempio di Abu Simbel, dedicato a Ra Harakhti e a sé stesso, e il piccolo santuario consacrato a sua moglie Nefertari e alla dea Hathor.
JUERGEN RITTERBECH / ALAMY / ACI
DEA / ALBUM
Otto colossi, che rappresentano Ramses II come Osiride, fiancheggiano il corridoio che porta all’interno del tempio di Abu Simbel.
1240-1235 a.C. IN OCCASIONE del giubileo reale viene ultimato il tempio di Derr. Nel 1235 a.C. s’inaugura quello di Wadi es-Sebu, costruito in parte da prigionieri libici.
1224 a.C. FINISCONO i lavori del
tempio ipogeo di Gerf Hussein, che erano iniziati nel trentottesimo anno di regno del faraone (1241 a.C.).
La parte laterale dei troni è decorata con il simbolo sematauy, l’unione delle piante araldiche dell’Alto e del Basso Egitto – il papiro e il fiore di loto.
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IL CUORE DELLA PIETRA Lo speos (tempio scavato nella roccia) di Ramses II ad Abu Simbel penetrava nel versante della montagna per oltre 60 metri. All’interno, riccamente decorato, spiccano la sala ipostila con otto pilastri osiriaci e il santuario con quattro divinità sedute, tra cui lo stesso Ramses. 1 LE
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Le basi delle statue sono decorate con rilievi che raffigurano corde di prigionieri nubiani (sul lato sud) e asiatici (sul lato nord). I gruppi scultorei sono rivolti all’esterno.
Ai piedi dei colossi sono scolpite varie stele, una delle quali racconta l’unione tra Ramses II e una principessa ittita. L’evento servì a suggellare la pace tra i due popoli.
I quattro colossi sorgevano su una terrazza la cui balaustra era composta da alcune statue osiriformi del faraone, alternate a figure del dio Horus con sembianze di falco.
BASI DELLE STATUE
STELE COMMEMORATIVE
FARAONE E I FALCHI
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4 LA GRANDE SALA IPOSTILA
5 SECONDA SALA E VESTIBOLO
6 IL SANTUARIO
Otto colossali pilastri osiriaci raffiguranti Ramses II sorreggono il soffitto di questa sala ipostila, nella cui variegata decorazione spiccano i magnifici rilievi della battaglia di Qadesh tra egizi e ittiti.
Una seconda sala ipostila, decorata con scene di offerte e con immagini del faraone e delle divinità, conduce a un vestibolo da cui è possibile accedere all’interno del santuario.
L’area più sacra e remota del tempio ospita quattro statue sedute che raffigurano Ra Harakhti, Ramses II divinizzato, Amon e Ptah. Nei rilievi sulle pareti è rappresentata la barca sacra.
ILLUSTRAZIONE 3D: 4D NEWS
La struttura interna del tempio comprendeva varie stanze che fungevano da magazzini.
IL PRIMO TEMPIO NUBIANO DI RAMSES II
faraone defunto, questi appare con la barba intrecciata, le braccia conserte sul petto nella cosiddetta“postura osiriaca”e intento a ricevere offerte insieme agli altri dei. Tuttavia nella remota Nubia, lontano dagli sguardi indagatori dei sacerdoti del clero egizio, i sovrani diedero avvio a un processo di divinizzazione della loro figura già in vita. Ciò si può notare in particolari iconografici come ad esempio le rappresentazioni del faraone sulla stessa scala delle altre divinità, o nell’atto di ricevere doni seduto accanto a esse. Sui pilastri delle prime sale dei templi nubiani il monarca è raffigurato come una persona viva: non ha la barba intrecciata, indossa il classico gonnellino e non è avvolto nel sudario di Osiride. E all’interno del santuario – l’ambiente più sacro, riservato esclusivamente agli dei – il sovrano è rappresentato dentro a una nicchia in compagnia di altre divinità. Questa è una
RAMSES ALLATTATO
In questo rilievo che decora una parete del tempio nubiano di Beit el-Wali Ramses II riceve il seno dalla dea Iside.
ORONOZ / ALBUM AKG / ALBUM
TEMPIO DI GERF HUSSEIN
Le strutture esterne sono state trasferite a Nuova Kalabsha negli anni ’60; la parte scavata nella roccia è stata sommersa.
chiara indicazione del fatto che il tempio era dedicato a lui, come se già avesse assunto un carattere divino. Il faraone che probabilmente eresse più templi fu Ramses II. Durante i suoi sessantasei anni di regno ne fece costruire in ogni angolo del Paese, dal delta del Nilo fino alla Nubia. Proprio nei territori più meridionali del regno, da poco pacificati, diede avvio a un programma architettonico molto ambizioso, che prevedeva la costruzione di cinque templi dedicati a diverse divinità.
Complessi rupestri Ramses decorò i templi con scene delle imprese militari compiute durante il suo regno, che costituivano un elemento di propaganda politica. Le vittorie erano attribuite al favore delle divinità, motivo per cui il re era rappresentato con gli dei al suo fianco. Ma il trionfo sul nemico era anche un riflesso della lotta cosmica tra l’ordine (maat) e il caos (isfet), incarnati rispettivamente dagli egizi e dagli altri popoli. Da questo scontro dipendeva l’equilibrio dell’universo, il cui mantenimento era il compito principale che gli dei avevano affidato a Ramses II. L’originalità dei templi
RAMSES II. STATUA SEDUTA DEL FARAONE CON LA CORONA BLU KHEPRESH SUL CAPO. MUSEO EGIZIO, TORINO.
ALAMY / ACI
DEA / ALBUM
BEIT EL-WALI fu il primo tempio edificato da Ramses II. Salvato dalle acque del lago Nasser dopo la costruzione della diga di Assuan, il monumento si contraddistingue per le piccole dimensioni e la posizione isolata. La sua struttura è quella dei cosiddetti hemispeoi: vi si accedeva tramite un pilone in adobe di cui non restano tracce, per poi arrivare a un cortile decorato con rilievi delle campagne militari di Ramses II. Una stanza disposta trasversalmente (come il braccio di una croce) ospita a ogni estremità un’immagine del sovrano affiancato da due divinità. Nell’asse centrale del santuario c’è una nicchia con tre statue: Ramses è in compagnia di Amon, a cui il tempio era dedicato, e di un altro dio.
DONI PER IL FARAONE
Questa copia di uno dei rilievi dipinti che decoravano il tempio di Ramses II a Beit el-Wali mostra una colorata processione di personaggi che portano in dono al sovrano una grande varietà di oggetti (ventagli, scudi, sedie, oro‌) e di animali (tra cui una giraffa). PETER BARRITT / ALAMY / ACI
COLOSSI DI GERF HUSSEIN
costruiti dal faraone in Nubia risiedeva nella tipologia: erano hemispeoi o speoi, ovvero templi parzialmente o completamente ricavati nel versante di una montagna – un modello che era già stato adottato da sovrani precedenti come Hatshepsut o Horemheb. A questi templi si accedeva generalmente tramite piloni (delle specie di grandi porte monumentali) costruiti in adobe o ricavati direttamente nella roccia. Il pilone d’ingresso era preceduto da un viale di sfingi che a volte proseguiva fino al successivo cortile. Oltre il cortile si apriva una sala ipostila, situata all’interno della montagna. Di lì si arrivava infine al santuario, costituito da una o più cappelle con nicchie scavate nella pietra, in cui erano collocate le statue delle divinità. Un esempio di questo tipo è il tempio di Gerf Hussein, che sorge sulla riva occidentale del Nilo, nei pressi della prima cateratta. Come nel caso
di Abu Simbel, anche questo monumento è stato smantellato dopo la costruzione della diga di Assuan nel 1964 per essere trasferito sull’isola di Nuova Kalabsha. Era dedicato al dio Ptah-Tenen, una divinità originaria di Menfi protettrice degli eserciti del faraone.
Ramses il dio Orientato lungo l’asse est-ovest, questo hemispeos aveva una struttura piuttosto classica: un viale di sfingi conduceva a un cortile delimitato su tre lati da un portico, che era sorretto da colonne con capitelli a forma di fiore di loto e pilastri con statue osiriache del faraone (cioè in cui il sovrano era rappresentato come Osiride). Il quarto lato del cortile, rivolto a ovest, era una specie di pilone attraverso il quale si accedeva alla parte del tempio scavata nella roccia. Nella prima sala, il cui soffitto è sostenuto da sei pilastri osiriaci, quattro nicchie ospitano immagini di Ramses affiancato da due divinità. La sala successiva conduceva a tre cappelle. Quella di mezzo era destinata ad accogliere la barca sacra in cui venivano trasportati ritualmente gli dei. Nella nicchia centrale si trovano le
STATUETTA DI BRONZO DEL DIO PTAH, DIVINITÀ CREATRICE DI MENFI. PERIODO TARDO (664-525 A.C.).
FOTO: SILVAIN GRANDADAM / AGE FOTOSTOCK
HERITAGE / ALBUM
ALAMY / ACI
Questa incisione a colori del 1840 raffigura i colossi osiriaci all’interno del tempio di Gerf Hussein.
RILIEVI DI WADI ES-SEBU
L’interno del tempio di Ramses è decorato con rilievi dipinti che raffigurano il faraone intento a tributare offerte alle divinità. VIALE DELLE SFINGI
Al tempio di Ramses II si accedeva tramite un viale di sfingi. Da qui il nome della località, che significa “valle dei leoni”.
RAMSES II, FARAONE PARI AGLI DEI
I templi meridionali Più a sud di Gerf Hussein il faraone fece erigere un tempio dedicato ad Amon, il dio delle strade. La località prescelta, infatti, era Wadi es-Sebu, punto di arrivo delle carovane provenienti dal deserto occidentale. Anche questo tempio è stato smantellato e trasferito nel 1964, per evitare che fosse sommerso dalle acque del lago Nasser. L’ingresso dell’edificio era costituito da due piloni in adobe (ora scomparsi), decorati con le statue del faraone, e un terzo pilone in pietra situato su una terrazza sopraelevata. Quest’ultimo era alto una ventina di metri e ospitava quattro statue colossali di Ramses, di cui attualmente ne resta una. Dal terzo pilone si accedeva a un cortile fiancheggiato da due portici, ciascuno dei quali era sorretto da cinque pilastri osiriaci. In fondo al cortile c’era una scala con cui si poteva entrare nelle stanze scavate direttamente nella roccia: una sala ipostila con dodici pilastri osiriaci, un secondo ambiente adibito a camera delle offerte e infine il santuario con due cappelle. La nicchia centrale di 42 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Nell’immagine a sinistra, il santuario del grande tempio di Abu Simbel, dove è raffigurato il re con gli dei.
questo spazio sacro, che ospitava un gruppo scultoreo di Amon-Ra, Ramses e Ra Harakhti, fu trasformata in una chiesa in epoca copta. Il tempio più meridionale costruito da Ramses si trova a Derr, nella zona da cui partivano le rotte carovaniere dirette a sud. Di questo edificio dedicato al dio Ra si è conservata solo la parte scavata nella roccia: nella nicchia centrale del santuario, accanto alle cappelle, si trova un gruppo scultoreo con Ptah, AmonRa, Ramses e Ra Harakhti. All’inizio del suo regno Ramses si era recato in Nubia in compagnia della moglie Nefertari per farsi vedere dai sudditi di quelle terre così lontane. Sicuramente i sovrani volevano anche osservare i lavori di costruzione dei templi, che avrebbero lasciato un segno indelebile nella regione. Oggi i turisti possono ancora ammirare gli edifici che Ramses II volle dedicare agli dei, ma prima di tutto a sé stesso. NÚRIA CASTELLANO EGITTOLOGA
Per saperne di più
SAGGI
Ramesse II Edda Bresciani. Giunti, Firenze, 2012. NARRATIVA PER RAGAZZI
Ramses II, il più grande dei faraoni Igor De Amicis, Paola Luciani. EL, Trieste, 2020.
SOPRA: BERTRAND RIEGER / AGE FOTOSTOCK. SOTTO: DEA / AGE FOTOSTOCK
divinità Ptah, Ptah-Tenen, Hathor e lo stesso Ramses II, che appare con l’appellativo Pa-necher, “Ramses il dio”.
RAMSES CON GLI DEI
ORONOZ / ALBUM ALAMY / ACI
DEI TEMPLI fatti erigere da Ramses II in Nubia, il più spettacolare è quello di Abu Simbel. Dedicato a Ra Harakhti e al faraone stesso, fu scavato su un promontorio sacro dove c’era già una grotta dedicata al culto degli dei locali. La facciata con quattro statue colossali del faraone era preceduta da un cortile con stele e statue, circondato da un muro in adobe. Superato il monumentale ingresso il tempio proseguiva nel versante della montagna. L’interno era costituito da due sale ipostile, un vestibolo trasversale e il santuario. Qui, nella nicchia centrale scavata nella roccia, c’erano quattro statue sedute e rivolte verso l’entrata, raffiguranti gli dei Amon, Ra Harakhti, Ptah e lo stesso Ramses. Accanto a questo edificio il faraone fece costruire un tempio più piccolo per la moglie Nefertari.
INTERNO DELLO SPEOS DI DERR
Dedicato al dio Ra Harakhti, l’interno dello speos di Derr è molto elaborato. È decorato con magnifici rilievi dipinti che mostrano il re con gli dei. SCAVATO NELLA ROCCIA
Nel 1964 il tempio di Derr è stato smantellato e ricostruito in una nuova località, visibile nella foto.
LA CASA DEL DIO AMON Ramses II scelse Wadi es-Sebu, la valle dei Leoni, sulla riva occidentale del Nilo, per consacrare al dio Amon un hemispeos, un tempio scavato parzialmente nella roccia. L’edificio era dotato di piloni, cortili e sale ipostile, come i santuari di Tebe.
Un muro circondava il complesso e delimitava il viale delle sfingi. Questo elemento protettivo è indice della sacralità del luogo, che era considerato la dimora terrena della divinità.
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Sui piedistalli delle sfingi erano incise alcune scene con dei prigionieri asiatici, un motivo ricorrente nei templi della zona che esprimeva la volontà del faraone di dominare gli abitanti di quelle regioni.
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PILONI
Il tempio aveva tre piloni. I primi due erano in adobe e ospitavano due statue di Ramses II ciascuno. Invece il terzo, qui raffigurato, era in pietra ed era presieduto da quattro colossi del faraone.
SFINGI
Un viale di sfingi con il volto del sovrano e il corpo di leone indicava la strada per entrare nel terzo pilone, oltre il quale si apriva un cortile colonnato. Da qui si accedeva alle stanze scavate nella roccia.
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I COLOSSI DEL FARAONE
Quattro colossi di Ramses II fiancheggiavano l’ingresso del tempio. Le figure indossavano un gonnellino e una barba posticcia; nella mano sinistra reggevano un portastendardo sormontato dalla testa dell’ariete di Amon.
Il terzo pilone del tempio di Wadi es-Sebu era decorato con l’immagine del sovrano che castiga i nemici (ricorrente in molti santuari egizi). Sulla parete sud, Ramses II colpisce un gruppo di prigionieri davanti al dio Amon; a nord, fa lo stesso al cospetto di dio Ra Harakhti.
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Le sfingi con testa umana e corpo di leone, allineate su entrambi i lati del dromos (viale d’accesso), indossavano la doppia corona, simbolo dell’unione di Alto e Basso Egitto. Il corpo di leone rappresentava la ferocia del faraone e la sua capacità di salvaguardare la maat, l’equilibrio e l’ordine cosmico.
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CEL LE ORIGINI DEL
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L’ALBA DEL MONDO CELTICO
Queste guaine di spade in ferro e in bronzo, rinvenute vicino al fiume Sihl, appartengono alla civiltà di La Tène, che continuò quella di Hallstatt. Laténium, Hauterive (Svizzera). BERTHOLD STEINHILBER / LAIF / CORDON PRESS
Circa tremila anni fa sorse la civiltà di Hallstatt. Nella sua società, governata da élite ricche e potenti, è stato individuato il primo nucleo del mondo celtico, oggi rivalorizzato da nuove e significative scoperte
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LORO MONDO STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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BERTHOLD STEINHILBER / LAIF / CORDON PRESS
Il salgemma veniva estratto tramite dei solchi a forma di cuore, come quello che si vede nell’immagine. Il cuore veniva poi diviso a metà per ottenere due lastre di sale.
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el cuore delle Alpi austriache, un paesino di appena ottocento abitanti si affaccia sulle limpide acque del lago Hallstatt, protetto da maestose montagne. In questa tranquilla località turistica, che porta lo stesso nome del lago, vennero scavate nel corso del XIX secolo più di duemila tombe antiche, appartenenti tutte a una comunità molto particolare: quella di chi lavorò nelle miniere di salgemma lì vicine. L’importanza del sito fu tale da dare il nome alla civiltà di Hallstatt, in cui si è intravisto il sostrato del mondo celtico. Circa tremila anni fa, durante l’Età del bronzo, questa cultura si sviluppò in vaste zone dell’Europa centrale e orientale, in un territorio compreso tra la Francia e la Slovenia. Come spesso accadeva nella preistoria, all’inizio le genti della civiltà di Hallstatt vissero in piccole comunità rurali quasi prive di classi sociali e si CORAZZA DI BRONZO RINVENUTA IN UNA TOMBA PRINCIPESCA DI STIČNA, IVANČNA GORICA, SLOVENIA. 600 A.C. CIRCA.
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IRENZE
dedicarono alla coltivazione di cereali, alla pastorizia e all’artigianato. Tuttavia quel semplice modo di vivere sarebbe cambiato attorno al 600 a.C., in seguito ai frequenti contatti commerciali stretti con due civiltà ben più avanzate: la greca e l’etrusca. I due popoli mediterranei cercavano materie prime come metalli, sale, ambra del Baltico e pelli, e in cambio consegnavano vino e vasellame di lusso, da calderoni di bronzo a ceramiche decorate.
Prìncipi dell’Età del ferro Appena i benefici derivati dal commercio si concentrarono nelle mani di pochi comparve una nuova classe sociale che, soprattutto nel nord della Francia e nel sud della Germania, volle esprimere il proprio potere facendosi seppellire in grandi tombe. I loro corredi funerari sono talmente ricchi che gli archeologi denominano tali sepolture “tombe principesche”. La fase legata agli scambi corrisponde proprio alla cultura di Hallstatt. Secondo un’opinione ormai diffusa, la civiltà hallstattiana può essere collegata alle popolazioni
ZOLTAN DURAY / ALAMY / ACI
NELLE CAVE DI HALLSTATT
HALLSTATT, IL CENTRO DEL SALE
Circa 240 milioni di anni fa la regione si trovava in fondo a un oceano. Da quei sedimenti deriva il sale estratto nell’Età del bronzo.
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MAPPA: RALF BITTER, NGM. FONTI: D. ADE, A. WILLMY, DIE KELTEN; H. WENDLING, KELTEN MUSEUM, HALLEIN.
Scozia Jutlandia Glasgow
Mare del Nord
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Inghilterra Iceni
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Trinovanti Catuvellauni Dobunni Bibroci Londra Atrebati Kent Belgi Cantiaci Durotrigi Regnensi Morini Dumnoni
Demezi
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ATLANTICO
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Menapi Ambivareti Nervi Belgi Condrusi Cornovi a c Atrebati i Eburoni Man a l l e d Ambiani Treveri Viromandui Canale Treviri Hunsrück Caleti Bellovaci Unelli Remi Veliocassi Suessioni Lessovi Mediomatrici Meldi Viducassi Parigi Parisi Abrincati Eburovici Leuci Coriosoliti Tricassi Triboci Osismi Diablinti Aulerci Senoni Cenomani Carnuti Bretagna Vix Lingoni Latovici Veneti Mandubi Alesia Redoni Andecavi Raurici Turoni Namneti Borgogna Sequani Biturigi La Tène Ambibari Ambiliati Bibracte Mormont Elvezi Pictoni Edui Losanna ra Blannovi Nantuati Ambarri Seduni Segusiavi Santoni Lemovici Veragri Arverni Lione Ceutroni Gergovia Allobrogi Petrocori Meduli Biturigi Golfo di Gabali Voconzi Cadurci Tricori Vasati Eleuteti Biscaglia Cocosati Elvi Nitiobrogi Ruteni Soziati Caturigi Elusati Gati Volci Tarbelli Salluvi Ausci tettosagi
OCEANO
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Bigerrioni
Galleci Vaccei Celtiberi
Penisola iberica
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nub io Licati Alauni Salisburgo Hallein Vindelici Dürrnberg Hallstatt Cosuaneti Catenati Ambisonti Strettweg Laianci Ambidravi Norici Sevati Ambilini Uberi Taurisci Varciani V e IV SECOLO a.C.
Heuneburg Monaco Boi
Leponzi Taurini
Iapodi
Insubri Po
Sacco di Roma, 390 a.C.
Marsiglia
Corsica
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Boemia
Aresaci
Roma
Mar Mediterraneo Sardegna
Sicilia
Stretto di Gibilterra
Civiltà di Hallstatt, 800-450 a.C. circa Civiltà di La Tène, 450 a.C.-I secolo a.C. circa Area culturale celtica nella penisola iberica Lingue celtiche moderne Boi
Popoli celtici
Alesia Principali siti archeologici Avanzate/migrazioni celtiche
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Volga
L’EUROPA CELTICA nell’europa centrale la prima e la seconda età del ferro vennero segnate dall’avvicendamento delle civiltà di Hallstatt e di La Tène. Quest’ultima, che prende il nome da un villaggio svizzero, fu la “cultura materiale” dei celti (con questo termine si indicano tutti gli aspetti concreti della cultura di un popolo, soprattutto quelli di uso quotidiano). Durante il periodo hallstattiano gli scambi commerciali che univano il nord e il centro del continente al Mediterraneo permisero il fiorire di vari centri. Questi venivano amministrati da potenti élite, poi sepolte in tombe principesche. Durante la cultura di La Tène, invece, il commercio s’indebolì in favore della guerra e i luoghi del potere divennero più sparpagliati e meno monumentali. Cotini Vo
Do n
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Scordisci
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Mar Nero Serdi
Mar Caspi
III SECOLO a.C.
Istambul
Sacco di Delfi, 279 a.C.
Ankara
Anatolia
Delfi
Galati
Atene
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620 a.C.
600 a.C.
583 a.C.
550 a.C.
450 a.C.
Inizia la fase finale della civiltà di Hallstatt. Viene fondato l’insediamento di Heuneburg.
Una muraglia in pietra e fango tipica del Mediterraneo sostituisce le mura originali di Heuneburg.
È costruito il tumulo numero 4 di Bettelbühl, dove viene sepolta una donna con un ricco corredo.
Distruzione violenta di Heuneburg. Viene ricostruita, ma le fattorie fuori dalle mura sono abbandonate.
Abbandono di Heuneburg. Fine della cultura di Hallstatt. Costruzione della tomba di Lavau. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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TRASPORTO DI UNA TOMBA
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FILIGRANA D’ORO
Sulla principessa di Bettelbühl vennero rinvenute cinque sfere d’oro: facevano parte di una collana composta anche da altri pezzi in oro e in ambra.
celtiche. Infatti la cultura da essa derivata, La Tène, era presente nella maggioranza delle zone in cui, in base alle testimonianze degli storici greco-romani, abitarono i celti. Se così fosse, i celti si sarebbero quindi espansi dal nucleo di Hallstatt, nel nord della Francia e nel sud della Germania, sino a occupare buona parte dell’Europa. Tuttavia l’origine di tale popolo è uno dei temi più controversi della preistoria europea, e non tutti gli specialisti accettano questa teoria. Gli ultimi quindici anni hanno visto un’intensa attività nei siti archeologici della cultura di Hallstatt. Le numerose scoperte – avvenute per esempio a Bettelbühl, Heuneburg, Lavau o Glauberg – permettono di aggiungere nuovi tasselli al mosaico di tale civiltà e del mondo celtico.
Il 28 dicembre 2010 venne asportato l’enorme blocco di terra che conteneva la tomba di 20 m2, ancora integra, in cui venne sepolta la principessa di Bettelbühl.
La prima principessa celtica Nel dicembre 2010 sono iniziati gli scavi di un tumulo funerario a Bettelbühl, nel sud della Germania. La zona aveva già richiamato l’attenzione degli archeologi cinque anni prima, quando in un campo coltivato era stata rinvenuta una piccola necropoli costituita da sette tombe erose dall’aratro. Durante gli scavi di una tomba secondaria, nel tumulo numero 4 era stata scoperta una sepoltura infantile. Risale agli inizi del VI secolo a.C., e il suo corredo funerario include due orecchini e due fibule, o spille, in oro. Nel 2010 la minaccia che i lavori agricoli potessero distruggere altri resti ha fatto sì che si tornasse a scavare. La sepoltura aveva un diametro di quaranta metri e un’altezza originale di circa quattro, che nel tempo si era ridotta a trenta centimetri. Gli archeologi hanno individuato un’ampia camera funeraria, e le sonde hanno stabilito che il fondamento si trovava a poco più di un metro AP
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sottoterra. Questa base in legno, di forma rettangolare, si era allagata per via di un ruscello vicino, e in tal modo se ne sono conservate le assi. Con grande sorpresa degli studiosi, all’interno vi erano numerosi pezzi in oro. Diversamente da quanto era avvenuto per la maggior parte delle sepolture locali dell’Età del ferro, già saccheggiate in epoca antica, la tomba era integra. La prosecuzione dell’attività agricola e il rischio di scavi clandestini minacciavano
I gioielli ritrovati nella tomba di Bettelbühl erano d’ispirazione mediterranea FIBULE TROVATE NELLA TOMBA DELLA DAMA DI BETTELBÜHL.
il tumulo, e quindi si è deciso di trasportare la camera sepolcrale all’interno di un laboratorio scientifico. È stato perciò estratto un unico, enorme blocco di terra largo sei metri, lungo sette e alto uno, del peso di ottanta tonnellate. Il dissotterramento è andato avanti per più di un anno e ha consentito di portare alla luce due tombe. La prima è di una donna tra i trenta e i quarant’anni e contiene un ricco corredo funerario con due spille in oro e numerose conterie di collane in oro e in ambra. I gioielli sono d’ispirazione mediterranea, ma di fattura locale. La seconda sepoltura è sicuramente di un’altra donna, però il suo corredo è ben più semplice: un braccialetto di bronzo a ogni braccio. Lo studio delle
I GIOIELLI ETRUSCHI DI BETTELBÜHL le fibule rinvenute nella tomba infantile e in quella della donna presente nel tumulo 4 di Bettelbühl sono molto simili. È quindi probabile che fossero opera della stessa bottega e perfino dello stesso artigiano. Non solo: di recente in un laboratorio di Heuneburg è stato trovato un pezzetto di filo d’oro con la stessa filigrana delle quattro fibule.È possibile che la loro creazione avvenne proprio al suo interno. Le fibule mostrano una chiara influenza etrusca, eppure non ci è dato sapere se le realizzò un orafo etrusco residente a Heuneburg o un artigiano locale, influenzato da altri gioielli di fattura mediterranea. Le similitudini tra le fibule e il fatto che la bambina fu sepolta poco dopo la donna indicano che avevano una relazione stretta. Forse appartenevano alla stessa famiglia.
assi che costituivano la base della camera ha stabilito che il legno venne tagliato nel 583 a.C. e usato poco dopo. La presenza di più tumuli sfarzosi, simili a quello di Bettelbühl, testimonia gli scambi avvenuti nel territorio alla fine della prima Età del ferro e spiega come nel tempo si fosse consolidata un’élite dirigente che si differenziava in modo netto dal resto della società.
COLLANA IN AMBRA RINVENUTA IN UNA TOMBA DI WIERZBNICA, IN POLONIA. MISURA 20 CM DI LUNGHEZZA E RISALE AL VI SECOLO A.C. BPK / SCALA, FIRENZE
La montagna di salgemma La posizione privilegiata di quest’élite era dovuta al commercio nel Mediterraneo, eppure non abbiamo indizi su come si procurasse le materie prime. Fa eccezione il sale, ricavato dai giacimenti di salgemma. Nella località di Hallstatt sono state infatti scoperte le cave preistoriche di salgemma più vaste d’Europa. Il loro uso sistematico ebbe inizio nel XV secolo a.C. e, dopo un periodo di abbandono, venne ripreso nella prima Età del ferro. Oggi sappiamo come vivevano e lavoravano quelle genti: l’inaridimento prodotto dal sale ha fatto sì che si siano conservati oggetti di materia organica come scarpe e copricapi in pelle, tessuti e resti di migliaia di torce. Come già indicato, è stata proprio la necropoli di questa comunità di minatori a dare il nome alla cultura hallstattiana.
La prima città transalpina Le élite di Hallstatt sfoggiavano ricchezza e potere non solo nelle sepolture. In vita esibirono i loro privilegi in molteplici forme, tramite i gioielli indossati, il vino mediterraneo che bevevano in sontuosi banchetti e le residenze maestose. Il caso più
VOCAZIONE COMMERCIALE
In questa ricostruzione della quotidianità di Hallstatt osserviamo un acquirente e un venditore di sale mentre si accordano sul prezzo. Sullo sfondo, gli artigiani lavorano davanti alle loro case. ILLUSTRAZIONE: SAMSON GOETZE
spettacolare è quello di Heuneburg, un sito archeologico posto su una collinetta lungo le sponde del Danubio. Poiché era già stato scavato durante la seconda metà del XX secolo, gli studiosi credevano che non potesse più riservare sorprese. E invece no: i lavori degli ultimi quindici anni hanno rivoluzionato le nostre conoscenze sul luogo. Fino ad allora si credeva che l’insediamento fosse limitato alla collina che gli dà il nome, con una superficie di tre ettari.
Durante i banchetti le élite di Hallstatt, come quelle celtiche, bevevano vino importato dal Mediterraneo ALA
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BROCCA CON ELEMENTI CELTICI ED ETRUSCHI USATA NEI BANCHETTI E RINVENUTA A DÜRRNBERG. V SECOLO A.C. KELTEN MUSEUM, HALLEIN.
Attorno all’anno 620 a.C. venne infatti edificata sulla cima di questo monticello una cittadina che, qualche tempo dopo, sarebbe stata protetta da una spettacolare muraglia in mattoni di fango, poggiati su uno zoccolo di pietra. La tecnica costruttiva, utilizzata solo a Heuneburg, era d’ispirazione mediterranea e radicalmente diversa da quella tipica di Hallstatt, dove le mura venivano innalzate con terrapieni. Grazie agli ultimi scavi si è però scoperto che sulla collina si trovava la cittadella di un insediamento molto più vasto. Ai suoi piedi si estendeva un secondo centro, battezzato dagli specialisti come “città bassa”. Le mura erano del tipo tradizionale di Hallstatt, ovvero con terrapieni, ma nel 2005 è stata
UN’AMPIA RETE COMMERCIALE il sito fortificato di Heuneburg era vincolato ai commerci, che nell’antichità si svolgevano soprattutto lungo le vie fluviali. Heuneburg si trovava lungo l’alto corso del Danubio, dove il fiume si unisce al Neckar, un affluente del Reno. Ciò garantiva i collegamenti tra Heuneburg e l’area del mare del Nord e del mondo baltico. Heuneburg era unito anche alle rotte che, attraverso i passi alpini, raggiungevano l’Italia e il Mediterraneo. Grazie a tali tragitti poteva circolare l’ambra, la preziosa resina fossile che costituiva uno dei prodotti più pregiati della preistoria. Il rapporto con il Mediterraneo potrebbe forse spiegare l’origine meridionale delle mura di Heuneburg, che costituirono una novità assoluta nell’Europa centrale.
UNO SGUARDO ALLE CAVE DI SALGEMMA
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l sale era l’oro bianco del mondo antico, giacché era indispensabile per cucinare, conservare il pesce e la carne e nutrire il bestiame. A Hallstatt e a Dürrnberg, a circa 60 km, veniva estratto da pozzi che si trovavano tra i 200 e i 300 m di profondità. Erano poco illuminati e poco ventilati, e venivano rafforzati con puntelli di legno. È molto probabile che fossero i bambini a portare i blocchi di sale in superficie, visto che la loro bassa statura gli consentiva di muoversi nei tunnel con più facilità.
Strumenti Pala di legno e piccone in bronzo con manico di legno usati dai minatori.
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ILLUSTRAZIONE: SAMSON GOETZE. FOTO: ERICH LESSING / ALBUM
Zaino È in pelle di mucca e in legno. Risale ai secoli X-IX a.C., come gli utensili qui sotto.
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TORQUE DI TRICHTINGEN COLLANA IN ARGENTO CON DIAMETRO DI 29,4 CM. CIVILTÀ DI LA TÈNE. WURTTEMBERGISCHES LANDESMUSEUM, STOCCARDA. AKG / ALBUM
rinvenuta un’immensa porta monumentale di dieci metri per quindici, costruita in pietra e mattoni di fango. Più in là si sviluppava una terza zona, composta da diversi quartieri delimitati da fossati, e divisi a loro volta in più appezzamenti grandi da uno a 1,5 ettari, che ospitavano delle sorte di fattorie. Si è perciò calcolato che Heuneburg coprisse la superficie di un centinaio di ettari e avesse pressappoco cinquemila abitanti. Per fare un paragone, in quel periodo ad Atene vivevano circa diecimila persone. Al suo interno sono state individuate alcune aree residenziali e altre di produzione artigianale: Heuneburg era perciò un vero e proprio centro urbano. Gli studiosi l’identificano come la “prima città” a nord delle Alpi e credono che possa trattarsi della famosa Pyrene, località menzionata da Erodoto nel V secolo a.C.
La scoperta di nuovi siti
BPK / SCALA, FIRENZE
In questi ultimi anni si è deciso di ampliare gli scavi nei dintorni di Heuneburg, e sono emersi ulteriori siti. Il più interessante si trova sulla collina di Alte Burg, nove chilometri a nord-ovest di Heuneburg. La sommità di Alte Burg venne livellata a forma di lingua tramite la costruzione di enormi terrazzamenti sostenuti da mura spesse fino a tredici metri. Al suo interno non sono stati individuati degli edifici, bensì un pozzo profondo cinque metri nel quale sono presenti resti umani. Gli scavi ad Alte Burg proseguono ancora oggi, però gli archeologi sono ormai convinti che non si tratta di un fortezza militare, quanto piuttosto di un luogo di riunione e di culto. Secondo un’audace ipotesi, basata sul fatto che Alte Burg ha una forma simile
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MURA DI GROSSE HEUNEBURG
Questo villaggio doveva far parte di un unico agglomerato urbano assieme a Heuneburg (situata 20 km più a sud) e al complesso di Alte Burg. AP IMAGES / GTRES
agli stadi da corsa greco-romani, gli abitanti di Heuneburg avevano “adottato” le gare di carri tipiche del Mediterraneo. L’insieme delle recenti scoperte – i siti simili ad Alte Burg, che era avvistabile da Heuneburg, le particolari mura in fango di Heuneburg e le numerose necropoli nelle vicinanze, tra le quali spicca Bettelbühl, a poco più di due chilometri dalla città – lascia quindi supporre che i principi di avessero messo a punto un impianto propagandistico
Durante il V secolo a.C. nella civiltà di Hallstatt avvennero dei cambiamenti che ne sancirono la scomparsa SPADA AD ANTENNE RINVENUTA A ZIEGELRODA, GERMANIA. CIVILTÀ DI HALLSTATT. VIII-VII SECOLI A.C.
di prim’ordine proprio per sottolineare il loro potere. Durante la prima metà del V secolo a.C. la civiltà di Hallstatt andò incontro a una serie di trasformazioni che ne decretarono la scomparsa.
La fine di Hallstatt In quell’epoca numerosi insediamenti furono abbandonati – è il caso di Heuneburg, evacuata verso il 450 a.C. – e le ricche sepolture principesche divennero sempre più rare. Negli ultimi tempi è stata scavata in Francia proprio una di tali tombe. Ubicato a Lavau, nei dintorni di Troyes e vicino alla Senna, questo tumulo dal diametro di quasi quaranta metri faceva parte di una necropoli in uso dall’Età del bronzo finale.
DAL MEDITERRANEO ALL’EUROPA CENTRALE é stato calcolato che per poter costruire le mura in mattoni di fango e pietra della cittadella, lunghe 736 metri, furono necessari circa 500mila mattoni in fango essiccato al sole. Il complesso, largo tre metri e alto cinque, era coronato da un parapetto in legno imbiancato a calce, secondo lo stile mediterraneo. Le 17 torri che rinforzano le mura le rendono ancora più speciali. Difatti, sebbene pure le città greche e italiche presentassero questo tipo di fortificazione, all’epoca (600 a.C.) non avevano ancora le torri, innalzate decenni più tardi. Possiamo trovare una probabile fonte d’ispirazione delle torri di Heuneburg nel mondo fenicio e cartaginese e, più concretamente, nelle colonie di Cartagine in Sicilia.
ILLUSTRAZIONE: SAMSON GOETZE
GARE IN VETTA?
L’
illustrazione ricostruisce l’ipotesi secondo cui la cima del promontorio di Alte Burg, a nove km da Heuneburg (e da lì visibile), fu livellata per celebrare delle corse di carri in stile mediterraneo. Tali gare dovevano far parte di celebrazioni rituali che avrebbero riunito gli abitanti della regione. Lo spazio è lungo 340 m e largo 60. Era protetto da mura in pietra disposte a formare delle terrazze. Viste da lontano, sarebbero apparse come un’unica muraglia ancor più massiccia e spettacolare. Il complesso fu costruito in una zona priva di boschi, si poteva scorgere da grandi distanze e sarebbe stato un’imponente dimostrazione di potere.
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IL TUMULO HOHMICHELE
Apparteneva al complesso di Heuneburg. Con i suoi 85 m di diametro e 13 m di altezza conteneva la lussuosa sepoltura di un membro dell’élite di Hallstatt e 12 tombe secondarie. Venne saccheggiato nell’antichità e portato alla luce nel periodo che va dal 1936 al 1938. BERTHOLD STEINHILBER / LAIF / CORDON PRESS
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UN CORREDO ECCEZIONALE
In una tomba del tumulo 1 di Glauberg comparve questa torque, o collare d’oro, molto simile a quello che indossa il guerriero di pietra di Glauberg.
Pregiudizi che portano a errore
AKG / ALBUM
E il defunto? Anche se la scienza è in teoria imparziale, chi l’applica può mostrare dei pregiudizi che ne condizionano il lavoro. È il caso, per esempio, della famosa tomba di Vix, sempre in Francia. Sebbene vi siano stati rinvenuti degli ornamenti personali chiaramente femminili, si è proposta la stravagante teoria secondo la quale la persona sepolta era un sacerdote vestito da donna. Tutto ciò pur di non accettare la conclusione più ovvia, ovvero che nella civiltà di Hallstatt alcune donne detenevano un considerevole potere economico, sociale e probabilmente anche politico. Con ogni probabilità il cambiamento delle rotte commerciali danneggiò gli affari su cui si erano basate le élite di Hallstatt, che furono sostituite da altre cerchie aristocratiche. Gli scambi con il Mediterraneo non GUERRIERO DI GLAUBERG. INTAGLIATA NELL’ARENARIA, LA STATUA È ALTA 1,86 M E PESA 230 KG. KELTENWELT AM GLAUBERG.
scomparvero, ma i nuovi gruppi di potere preferirono dedicarsi quasi esclusivamente alla guerra. Il passaggio verso una nuova cultura, come quella di La Tène, non comportò una trasformazione delle genti, bensì un passo indietro in termini di centralizzazione politica e di urbanizzazione.
Il guerriero di Glauberg Uno dei posti dove meglio si possono apprezzare tali trasformazioni è Glauberg, vicino Francoforte, dove si trovava un centro fortificato che le genti continuarono ad abitare anche dopo la sua distruzione, avvenuta nello stesso periodo in cui veniva abbandonata Heuneburg, cioè verso il 450 a.C. La struttura di Glauberg cambiò in seguito alla costruzione di una strada lunga 350 metri e larga dieci, una via processionale che conduceva a una sepoltura. La tomba era probabilmente divenuta un santuario in onore di un antenato elevato al rango di eroe, ed è possibile che la famosa statua apparsa ai piedi del tumulo rappresenti tale avo. Sono proprio le sue sembianze a esemplificare il cambiamento delle élite celtiche da mercantili a guerriere, visto che la statua ha spada, scudo e corazza. Pochi decenni dopo la transizione dalla civiltà di Hallstatt a quella di La Tène ebbero inizio forti migrazioni. Alcune spinsero i celti a espandersi in buona parte dell’Europa, mentre altre somigliarono più a spedizioni di saccheggio, guidate dalle nuove aristocrazie guerriere. Mezzo secolo dopo la fine della civiltà di Hallstatt, Roma veniva razziata da un gruppo di guerrieri celti (i galli senoni guidati da Brenno) e un secolo più tardi avrebbe subito la stessa sorte il celebre santuario greco di Delfi. BORJA PELEGERO STORICO
Per saperne di più
SAGGI
I Celti Olivier Buchsenschutz. Lindau, Torino, 2017. La grande storia dei Celti Venceslas Kruta. Newton Compton, Roma, 2009. I Celti Angela Cerinotti (a cura di). Giunti, Firenze, 2005.
DENIS GLIKSMAN / RMN-GRAND PALAIS
G/ AK
AL
Nella camera sepolcrale sono stati rinvenuti il cadavere di un uomo e un corredo molto sontuoso. Il defunto indossa un girocollo tipico, la torque, e due braccialetti in oro, oltre a una fibula in ferro e oro, una collana d’ambra e una cintura in pelle adornata con fili d’argento. Risalente al 450 a.C. circa, la tomba corrisponde a un periodo di transizione tra le civiltà di Hallstatt e di La Tène, come emerge anche dalle caratteristiche del carro su cui è deposto il corpo. Non si tratta infatti di un mezzo di trasporto a quattro ruote, tipico delle tombe principesche presenti a Vix o a Hochdorf, bensì di un veicolo a due ruote, con ogni probabilità uno dei nuovi carri da guerra caratteristici della seconda Età del ferro. Il ritrovamento più spettacolare è stato un grande calderone in bronzo, decorato sul bordo con otto teste di felino e quattro teste del dio fluviale greco Acheloo, che doveva essere impiegato nei banchetti.
IL PRINCIPE DI LAVAU
Ăˆ noto con questo nome il defunto presente in una ricca tomba scoperta nel 2015 a Lavau, in Francia. L’immagine lo ritrae con i gioielli in oro e argento. Ai piedi compare un enorme calderone in bronzo che doveva contenere del vino.
UN LUSSUOSO CORREDO FUNERARIO Nel 1953 venne scoperta la tomba della Dama di Vix, una principessa celtica il cui corredo funerario era molto simile a quello del principe di Lavau, rinvenuto cinquant’anni più tardi. La Dama era stata sepolta verso il 480 a.C.
TORQUE IN ORO
KYLIX
Presenta la decorazione di due piccoli Pegaso cesellati. Venne realizzata unendo 20 segmenti.
Questa coppa attica a figure nere è decorata con scene di opliti in lotta. Venne usata per bere il vino.
CARRO FUNERARIO
Ricostruzione del carro funerario a quattro ruote su cui venne deposto il corpo della Dama di Vix.
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Il collo di quest’enorme giara è abbellito con una serie di opliti, un tipo di guerrieri greci.
I manici sono decorati con due effigi della mitica Gorgone, affiancata da serpenti.
Tutti i gioielli del corredo di Vix si trovano al Museo di Châtillonsur-Seine.
CRATERE
Ricavato da un unico pezzo di bronzo, misura 1,64 m di altezza e 1,27 di larghezza. Pesa 208,6 kg e ha una capacità di 1.100 litri.
FOTO: AGE FOTOSTOCK, TRANNE KYLIX: ERICH LESSING / ALBUM
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I GIOIELLI DELLA CORONA VISIGOTA
IL TESORO DI GUARRAZAR Nel 1858 venne scoperto per caso nei dintorni di Toledo un completo di corone e oggetti preziosi sepolto dai visigoti ai tempi dell’invasione musulmana del 711
CORONA DI RECESVINDO
A destra, corona votiva del re Recesvindo, appartenente al tesoro di Guarrazar. Sopra, braccio di una croce astile dello stesso insieme.
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FOTOS: PRISMA / ALBUM STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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ARCHEOLOGI A GUARRAZAR
Sopra queste righe, pianta della basilica di Guarrazar inclusa nello studio di Pedro de Madrazo sul sito, poi pubblicato nel 1879 in Monumentos arquitectónicos de España (Monumenti architettonici della Spagna). BIBLIOTECA NACIONAL DE ESPAÑA
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n una calda sera di fine d’agosto 1858 madre, padre e figlia tornavano da Toledo al proprio villaggio, Guadamur. Durante il percorso la famiglia fece una breve sosta all’altezza di una fonte che si trovava poco più di due chilometri a est del loro paesino, Guarrazar. Dopo aver bevuto, la madre e la figlia cercarono un posto discreto dove fare i bisogni. Giunte a un muretto in pietra che separava il sentiero
1858 C R O N O LO G I A
PERIPEZIE DI UN TESORO
Una famiglia scopre a Guarrazar (Guadamur, Toledo) un’urna colma di oggetti preziosi visigoti e decide di venderli a orefici della zona.
RE VISIGOTI. CHRONICON ALBELDENSE O CODEX VIGILIANUS. 974-976. ORONOZ / ALBUM
da un campo vicino, videro una lastra che era affiorata dopo la forte tempesta del giorno prima. Non appena si accorsero che era una roccia quadrata, diversa dalle altre, decisero di smuoverla per vedere se sotto si nascondesse qualcosa. Scoprirono così un’urna lavorata, piena di oggetti in oro e pietre preziose, il tutto sporco di fango. Una volta valutato che il lavoro di estrazione sarebbe stato difficile e avrebbe
1859 La maggior parte del tesoro di Guarrazar è venduto allo stato francese, che lo custodisce nel Museo del Louvre. Due anni più tardi un privato consegna alla regina spagnola alcuni gioielli del tesoro.
Viene realizzato il primo studio esaustivo del tesoro di Guarrazar sotto la direzione di Alicia Perea Caveda, del CSIC, che apporta valide informazioni sulle tecniche d’oreficeria visigote.
2013 Iniziano nuovi scavi e vengono scoperti i resti di edifici imponenti. Ciò suggerisce che si trattasse di un luogo di culto.
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Il governo franchista dispone uno scambio di opere artistiche con la Francia. Vengono così recuperate sei corone del tesoro di Guarrazar, oggi al Museo archeologico nazionale.
1997-1999
I. HERRERO / EFE / ALBUM
AS
1941
In una zona del sito vennero trovati i resti di un edificio d’epoca visigota (nell’immagine), che sicuramente faceva parte di un monastero collegato a una basilica.
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Possiamo immaginare l’eccitazione e il turbamento di Francisco Morales e María Pérez, i due fortunati scopritori, quando prima dell’alba rientrarono a casa con l’asino carico di almeno dodici corone, una croce e
SCAVI A GUARRAZAR
AL
Interessi condivisi
altri gioielli votivi, tutti in oro e con gemme e perle incastonate. Con ogni probabilità, nella notte si chiesero cosa fare per mantenere nascosto il tesoro e dove venderlo. Non sapevano che a pochi passi dall’urna ce n’era un’altra, colma di gioielli simili, che sarebbero finiti nelle mani di un loro compaesano, Domingo de la Cruz. Questi li aveva spiati da lontano e, alle prime luci del mattino successivo, si avvicinò al luogo del ritrovamento. In mezzo alla terra smossa dalla coppia trovò ciondoli, perle o gemme, che si erano staccati
F/
richiesto tempo, la famiglia decise di occultare nuovamente l’urna. I due sposi tornarono la stessa notte e, alla fioca luce di alcune lanterne, riuscirono a tirare fuori dall’urna il contenuto e lo lavarono nelle pozze della sorgente.
MONETA CONIATA DA RECESVINDO AD AUGUSTA EMERITA (MÉRIDA).
TRA MADRID E PARIGI
UN TESORO DISPERSO
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l Museo archeologico nazionale di Madrid conserva il maggior numero di pezzi del tesoro di Guarrazar. Assieme alla corona di Recesvindo, che è forse l’elemento più importante, sono esposte altre cinque corone votive e due bracci di una croce astile. Nel Museo di Cluny a Parigi, specializzato in arte medievale, sono invece in mostra tre corone: quella di Sonnica, con la croce pendente, un’altra decorata con archetti e una terza composta da una rete d’oro. A Parigi sono conservate pure due croci, vari pezzi di catene e ciondoli sciolti, la R della corona del sovrano Recesvindo (che rappresenta appunto l’iniziale del suo nome), due altri pendenti e quattro elementi di sospensione. Dal canto suo
nel Palacio Real di Madrid sono custodite solo una piccola corona di lastre sbalzate e una croce, appartenenti al secondo lotto scoperto, perché la corona del re Suintila e un’altra mezza corona furono rubate nel 1921 nella Real Armería, che si trova al pianterreno del Palacio Real di Madrid, e non sono mai più ricomparse.
CORONE E CROCI DEL TESORO DI GUARRAZAR IN UN’ILLUSTRAZIONE DI MONUMENTOS ARQUITECTÓNICOS DE ESPAÑA. 1879.
AKG / ALBUM
IL FREGIO DI UNA BASILICA?
Nel sito di Guarrazar sono comparsi i resti di un edificio basilicale visigoto, provvisto di fregi in marmo decorati con motivi geometrici, come quello mostrato sotto queste righe. PATRICIA ELENA SUÁREZ / MAN
durante la fase di scavo e pulitura. Secondo le dichiarazioni da lui rilasciate due anni e mezzo dopo, la seconda parure conteneva circa dodici corone in oro con incastonature di perle e gemme, più una sorta di cintura d’oro, diversi calici e una colomba, anch’essa in oro, che sarebbe poi andata perduta. Fu in queste circostanze che venne alla luce quello che è noto oggi come il tesoro di Guarrazar, un impressionante gruppo di gioielli dell’epoca visigota spagnola (507711), composto da una serie di corone e altri
pezzi d’oreficeria. Tale scoperta è considerata come il più importante tesoro della tarda antichità europea, ovvero il periodo che, secondo alcuni storici, è compreso tra il IV e l’VIII secolo d.C. I gioielli vennero celati dopo l’invasione musulmana della penisola iberica, avvenuta nel 711, e non furono toccati per quasi 1150 anni. Ciononostante, dopo il rinvenimento il tesoro avrebbe patito una lunga serie di peripezie che ha fornito materiale per numerosi saggi, articoli scientifici e di divulgazione e perfino romanzi.
Demolizione e vendita La famiglia Morales iniziò a sbarazzarsi dei gioielli pochi giorni dopo la scoperta. Smembrò i pezzi e li vendette agli orafi di Toledo. Poiché sperava di ottenere una remunerazione più alta, si mise in contatto anche con un ufficiale che insegnava nel Colegio de Infantería di Toledo, Adolfo Hérouart. Il militare, d’ origine francese e appassionato d’antichità, comprò i gioielli
OLGACOV / AGE FOTOSTOCK
e li rivendette a un prestigioso orefice di Madrid, José Navarro. Hérouart comprò pure il campo in cui era stato trovato il tesoro, così da poter giustificare la sua presenza e proseguire le ricerche. Sebbene il traffico non fosse proprio legale, l’intervento di Hérouart si rivelò propizio, perché evitò che il tesoro venisse ulteriormente smembrato e venduto al dettaglio. Hérouart non fu l’unico a salvaguardarlo, visto che anche José Navarro decise di comprare ai Morales il resto del tesoro e girò per tutta Toledo pur di riacquistare i gioielli che non erano stati ancora fusi per fabbricarne di nuovi. Navarro riuscì a ricomporre otto corone, che vendette al governo francese. Nel gennaio 1859 l’affare venne annunciato sui giornali d’oltralpe e l’acquisto fu presentato come un tesoro donato dal re visigoto Recesvindo (653-672). Appena la notizia giunse in Spagna, montò lo scandalo, sia perché non si era fatto nulla per impedire che un simile tesoro uscisse dal Paese sia perché i gioielli
erano legati a uno dei più famosi re visigoti, Recesvindo, promulgatore del celebre codice Liber iudiciorum, nel quale per la prima volta le leggi valevano indistintamente per la popolazione gota e per quella ispano-romana. Sebbene Navarro avesse già affidato i gioielli al Museo del Louvre, la vendita divenne effettiva solo diversi mesi dopo e, nel frattempo, le autorità spagnole cercarono di far pressione sul governo dell’imperatore francese Napoleone III. Ma tutti gli sforzi per recuperare i gioielli furono vani.
TOLEDO, LA CAPITALE VISIGOTA
Si è sempre pensato che gli elementi del tesoro provenissero da una chiesa di Toledo e fossero stati nascosti a Guarrazar nel 711. Al giorno d’oggi gli archeologi credono invece che i gioielli si trovassero in una basilica del luogo.
Il secondo lotto Dal canto suo, il contadino Domingo de la Cruz aveva nascosto il secondo lotto a casa propria e dopo un po’di tempo aveva iniziato a venderlo in pezzi, che smontava a mano a mano dalle corone. Per più di due anni si recò in tutte le oreficerie di Toledo e si disfece di quanto aveva trovato vicino alla fonte di Guarrazar. Il grande scompiglio causato dalla vicenda del Louvre lo spinse, nella primavera STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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PROPAGANDA FRANCHISTA
IL RITORNO DI UN SIMBOLO DI FEDE
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el 1940 il governo del generale Franco inviò in Francia una missione allo scopo di recuperare opere del patrimonio artistico spagnolo che in passato erano state “depredate”. La delegazione si concentrò subito su alcuni pezzi di particolare valore, come la Dama de Elche, la famosa tela Inmaculada di Bartolomé E. Murillo e le corone di Guarrazar, conservate nel Museo di Cluny. La Spagna non poteva addurre che la Dama de Elche e le corone visigote fossero giunte illegalmente in Francia (l’Inmaculada, invece, venne confiscata durante la guerra d’Indipendenza), e quindi i messi ne sottolinearono piuttosto il carattere simbolico per la storia nazionale del Paese. Nel caso delle corone, erano considerate «una delle
IL MNISTRO DELL’EDUCAZIONE, JOSÉ IBÁÑEZ MARTÍN, OSSERVA IL TESORO DI GUARRAZAR NEL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI MADRID NEL 1943.
prime e più preziose manifestazioni della fede cattolica in Spagna». I francesi risposero che se era per questo i visigoti avevano regnato anche su una parte della Francia. Il bottino visigoto giunse comunque a Madrid il 10 febbraio 1941, anche se con una piccola sorpresa. Nell’aprire la cassa si scoprì che mancava una delle lettere che pendevano dalla corona: la R di Recesvindo.
ORONOZ
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VIDAL / EFE
del 1861, a donare alla regina Isabella II quel che rimaneva del tesoro: due corone votive quasi complete, di cui una appartenuta al re Suintila, e vari elementi di altre corone. Il governo lo ricompensò con 40mila reali e una pensione vitalizia annuale di quattromila reali. I gioielli furono conservati nella Real Armería, nel Palacio Real di Madrid. Per quanto riguarda il tesoro del Louvre, nessuna delle richieste di restituzione emesse durante il XIX secolo diede frutti. Il dossier venne riaperto solo nel 1941, in piena Seconda guerra mondiale. Approfittando della debolezza della Francia dopo la sconfitta contro la Germania nazista, il dittatore Francisco Franco negoziò con il maresciallo PhilipCROCE DI TORREDONJIMENO. APPARTIENE AL TESORO OMONIMO SCOPERTO NEL 1926. MUSEO ARQUEOLÓGICO, CORDOBA.
pe Pétain uno scambio di opere d’arte che consentì il ritorno in Spagna sia della Dama de Elche sia delle sei corone del tesoro di Guarrazar. Oggi sono esposte nel Museo archeologico nazionale di Madrid.
Perché venne nascosto? Gli storici dell’arte sono sempre stati particolarmente attratti dal tesoro di Guarrazar perché è di fondamentale importanza per conoscere l’arte visigota. Malgrado ciò, il primo studio esaustivo è stato realizzato solo tra il 1997 e il 1999 grazie alla collaborazione tra più centri di ricerca spagnoli e francesi sotto la direzione di Alicia Perea Caveda, ricercatrice del Consiglio superiore d’indagini scientifiche. L’analisi dettagliata dei gioielli ha permesso di comprendere particolari molto interessanti, quali le tecniche d’oreficeria dell’epoca, le caratteristiche dell’oro utilizzato e la provenienza delle gemme. Si è così capito che gli smeraldi e gli zaffiri sono originari rispettivamente
dell’Austria e dello Sri Lanka. Storici e archeologi concordano nel sostenere che l’occultamento dei preziosi di Guarrazar dipese dall’arrivo degli arabi nella penisola. Accadde lo stesso per un altro famoso tesoro visigoto, quello di Torredonjimeno, in Andalusia. Nel 1926 lì, nel sud del Paese, furono scoperti dei gioielli visigoti simili a quelli di Guarrazar e sepolti proprio a causa dell’invasione islamica. Si sa pure che l’insieme di Guarrazar, come quello di Torredonjimeno, proveniva da un edificio religioso. Da qui la presenza di calici, croci astili e corone, perché i re visigoti avevano acquisito dall’impero bizantino l’abitudine di dare alle chiese, a mo’ d’offerta, corone e croci, che erano poi appese ed esposte nell’abside, sopra l’altare maggiore. Da quale chiesa venivano i pezzi del tesoro di Guarrazar? Le ipotesi sono molte. Quasi tutti gli storici del XX secolo pensano che giungessero da alcune chiese di Toledo, la urbs regia dei visigoti. Una delle
spiegazioni più accreditate fu fornita da Emilio Camps, che nel 1940, nella Historia de España di Menéndez Pidal, affermò che era «quasi indubbio» che il tesoro fosse stato regalato «a una grande basilica di Toledo». Solo in questo modo si riusciva a spiegare «l’evidente sproporzione tra la ricchezza immensa del tesoro e la modestia del luogo in cui fu rinvenuto».
CORONE SULL’ALTARE
Una semplice basilica
ORONOZ / ALBUM
In questo particolare di una miniatura inclusa nel Beato de Girona o Beato de Tábara si vede un altare su cui pendono corone e altri elementi votivi.
Gli archeologi che hanno lavorato a Guarrazar hanno preso in considerazione un’altra possibilità, ovvero che i gioielli appartenessero a un edificio ubicato nella stessa zona. Nel 1859 i membri della Commissione provinciale dei monumenti di Toledo che ispezionarono l’area capirono che lì si trovava una necropoli con tre file di tombe. Appena qualche mese più tardi, l’erudito José Amador de los Ríos si recò a Guarrazar a capo di una commissione della Real Academia de Historia. Su una collinetta artificiale STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Luogo del ritrovamento del tesoro
Antico cammino da Guadamur a Toledo Edificio della fonte Sacra
Cappella funeraria di Crispinus
Necropoli
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all’estremità orientale del cimitero, a poco più di trenta metri dalle urne, individuò i resti di un piccolo edificio che sembrava aver posseduto una pianta a croce. Al suo interno fu scoperta la tomba intatta di un sacerdote, un certo Crispinus, la cui lapide indica che fu sepolto nel 639. Amador de los Ríos pensò che quell’edificio potesse essere stato una basilica e che il tesoro vi fosse collegato. Tuttavia lo studioso lasciò aperta l’eventualità che il patrimonio provenisse invece da alcune importanti basiliche allora presenti a Toledo. Il primo progetto d’indagine archeologica con metodologia scientifica è iniziato a Guarrazar nel 2002 su iniziativa di JOSÉ AMADOR DE LOS RÍOS. QUADRO DI FEDERICO DE MADRAZO. 1876. REAL ACADEMIA DE BELLAS ARTES DE SAN FERNANDO.
Christoph Eger, che aveva ottenuto il sostegno economico dell’Istituto archeologico tedesco di Madrid. Lo studio ha fornito conoscenze fondamentali su Guarrazar e sul suo tesoro. Grazie ai georadar e ad analisi basate sul geomagnetismo si è intuito che nella zona sono presenti i resti di basamenti e di mura di più costruzioni dalle estese dimensioni, distribuiti lungo i tre ettari del sito archeologico.
Un santuario regale Il momento di svolta nelle indagini su Guarrazar, e quindi sulla storia della Spagna visigota, si è avuto nel 2013, quando il comune di Guadamur ha disposto un progetto d’investigazione e divulgazione. Da allora affiorano di continuo i ruderi di alcuni edifici. Come aveva già sottolineato lo storico dell’arte Pedro de Madrazo nel XIX secolo, dalle parti di Guarrazar esisteva un importante santuario. Sembrano confermarlo le imponenti basi in marmo e le fondazioni
Palazzo-monastero
Basilica
Ospizio dei pellegrini
INFOGRAFIA: AMADOR CUARTERO. DOCUMENTAZIONE: J.M. ROJAS RODRÍGUEZ MALO
su conci di granito che configurano la pianta di una basilica grande più di 450 metri quadrati, o ancora le mura di un’altra ampia costruzione che, in base alle caratteristiche evidenziate, poteva essere un asilo o ospizio per pellegrini (in greco xenodochio). Entrambe le strutture, nonché un presunto palazzo-monastero costituito da una pianta di più di 1.800 metri quadrati, furono innalzate sulla collina circa 170 metri a nord della famosa fonte vicino alla quale venne rinvenuto il tesoro. Le ricerche hanno permesso di scoprire che la fonte zampilla di continuo tra i resti di un edificio rettangolare, il cui interno è pieno di coppie di fosse anch’esse rettangolari e scavate nella roccia. La loro forma a mo’ di sarcofago ricorda da vicino il rituale del lavacro che veniva praticato nel santuario mariano di Lourdes, dove i pellegrini s’immergevano supini per alcuni secondi, riemergendo poi con la sensazione di essere rinati spiritualmente.
Tutti i ritrovamenti suggeriscono che in quelle zone sarebbe esistito un santuario di notevole interesse, collegato ai sovrani visigoti. Ed è quindi sempre più probabile che il tesoro appartenesse a una basilica al giorno d’oggi ancora da portare alla luce nella sua interezza. Stando a quanto riporta l’iscrizione di una delle croci del tesoro, questa sarebbe stata dedicata a Maria. A quei tempi, inoltre, il luogo era chiamato Sorbaces, anche se successivamente, nel Basso Medioevo, avrebbe assunto il nome di Guarrazar.
IL SANTUARIO DI GUARRAZAR
Questa ricostruzione virtuale, frutto delle ricerche archeologiche condotte dall’autore dell’articolo, mostra l’aspetto del santuario visigoto di Santa María de Sorbaces nel VII secolo.
JUAN MANUEL ROJAS RODRÍGUEZ-MALO ARCHEOLOGO. DIRETTORE DEL SITO DI GUARRAZAR
Per saperne di più
SAGGI
La Spagna visigota Fabrizio Sanna. Arkadia, Cagliari, 2015. Introduzione alla storia medievale Giuseppe Albertoni, Simone M. Collavini, Tiziana Lazzari (a cura di). Il Mulino, Bologna, 2020. INTERNET
Guarrazar, tierra de reyes guarrazar.com
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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CORREDO DI CROCI E CORONE Il tesoro rinvenuto nel 1858 a Guarrazar era composto da 13 corone, dieci croci e altri oggetti, molti dei quali sono andati perduti. I pezzi qui mostrati sono custoditi nel Museo archeologico nazionale di Madrid, tranne la R iniziale di Recesvindo e la croce sospesa, che si trovano nel Museo di Cluny, a Parigi. LETTERA R CHE PENDEVA DALLA CORONA VOTIVA DI RECESVINDO.
CORONA VOTIVA
La corona votiva di Guarrazar è composta da un diadema in oro sbalzato da cui pendono smeraldi.
CROCE
Dal braccio della croce pende la lettera greca alpha, simbolo dell’Apocalisse.
Queste due lamine in oro, lunghe ognuna 22 cm, coprivano i bracci di una croce patente (i cui bracci si allargano verso l’esterno) in legno. Il resto si è perso dopo il ritrovamento del tesoro.
La parte superiore della corona è formata da un capitello di cristallo di rocca.
Gli anelli della catena in oro hanno la forma di foglie di pero, traforate e sbalzate.
CORONA DI RECESVINDO
È il pezzo più importante del tesoro. Si tratta della corona offerta dal re visigoto Recesvindo. Misura 80 cm di altezza, e il diadema ha un diametro di 20 cm.
La parte centrale del diadema presenta incastonature di zaffiri e perle.
CROCE SOSPESA
In oro, con perle e ametiste incastonate. Scendeva sicuramente da una corona votiva.
Dalla parte inferiore del diadema pendono le lettere che compongono la dedica reale e un ciondolo a croce.
FOTO: ALBUM; TRANNE, CROCE E LETTERA R: MICHEL URTADO / RMN-GRAND PALAIS
Il diadema è costituito da una lastra doppia d’oro con la forma di due semicerchi.
L’ASSALTO FINALE
Ricostruzione dell’assedio e della presa di Costantinopoli da parte delle truppe del sultano Maometto II. Panorama. 1453 Tarih Müzesi, Istanbul. MARTIN SIEPMAN / AGE FOTOSTOCK
L’ASSEDIO DEL 1453
LA CADUTA DI BISANZIO La lunga lotta tra gli ottomani e l’impero bizantino si concluse nel 1453, quando Costantinopoli fu conquistata dalle truppe di Maometto II al termine di uno dei più grandi assedi della storia
IL CORNO D’ORO
ALAMY / ACI
Nel 1452 iniziò i preparativi per l’assedio di Costantinopoli. La presa della città gli valse l’appellativo di Fatih (il conquistatore).
N
ella primavera del 1453 un enorme esercito ottomano convergeva presso le mura della città cristiana di Costantinopoli per sferrare il colpo di grazia al morente impero bizantino. Per oltre un secolo gli ottomani, un popolo turco originario dell’Asia centrale, erano progressivamente avanzati sottraendo territori, manodopera e risorse ai bizantini. Tutto ciò che rimaneva dell’impero romano d’Oriente era ormai solo Costantinopoli, la capitale, che ora il sultano Maometto II intendeva conquistare per l’islam. Dietro le mura difensive lo attendeva Costantino XI, che aveva passato la vita a resistere agli ottomani ed era determinato a combattere fino alla fine.
L’imperatore bizantino si trovava di fronte a un esercito di almeno 100mila uomini. Al confronto, le forze cristiane erano ridotte: si trattava di un contingente misto di ottomila soldati tra greci, veneziani e genovesi, più alcuni aragonesi e castigliani. Senza dimenticare che la difesa organizzata dal sovrano era minata dalle storiche dispute religiose tra la popolazione greco-ortodossa e i cattolici fedeli al papa.
Mura inespugnabili La principale risorsa difensiva di cui disponeva Costantino era la città stessa. Con la sua approssimativa forma triangolare e un perimetro di diciannove chilometri, la capitale era circondata dall’acqua su due lati, mentre
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1453, IL
GRANDE ASSEDIO
26 gennaio
2 aprile
Arriva a Costantinopoli l’esperto di assedi genovese Giovanni Giustiniani, chiamato da Costantino XI.
L’esercito ottomano, composto da 100mila uomini, dà avvio all’assedio e al bombardamento della città.
GRANGER / AURIMAGES
IL SULTANO MAOMETTO II
Nel 1453 i bizantini chiusero con una grande catena l’estuario noto come Corno d’Oro, dalla cui sponda settentrionale si può vedere Santa Sofia (a sinistra).
UNA CITTÀ PROTETTA
Questa mappa di Costantinopoli del 1420, la più antica giunta fino ai nostri giorni, mostra le mura che difendevano il perimetro cittadino.
12 aprile
20 aprile
21 maggio
29 maggio
Una flotta turca costruita appositamente per l’occasione inizia il blocco navale di Costantinopoli.
Una flottiglia genovese aggira il blocco navale e riesce a penetrare nel Corno d’Oro, portando appoggio ai cristiani.
Dopo settimane di assedio, Maometto II offre all’imperatore Costantino XI un accordo di resa, che questi rifiuta.
Prima dell’alba gli ottomani iniziano l’assalto finale. In tarda mattinata hanno ormai conquistato Costantinopoli. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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delle operazioni difensive. Dall’alto delle mura gli assediati potevano vedere davanti a loro l’accampamento ottomano che si estendeva lungo tutta la costa; una distesa infinita di uomini, tende, animali e provviste. La cosa più allarmante era che il nemico aveva puntato contro la città un numero di cannoni senza precedenti. Maometto II ne aveva fatti portare una settantina, tra cui uno di dimensioni enormi, il basilisco, che veniva da Edirne, una città a 225 chilometri di distanza, e che era stato progettato non solo per bombardare le mura ma anche per terrorizzare la popolazione. Il 2 aprile si sentirono risuonare i primi spari. La guerra era iniziata.
SALVATOR BARKI / GETTY IMAGES
ALAMY / ACI
CANNONI CONTRO LE MURA Per abbattere le mura teodosiane di Costantinopoli (sopra, una sezione ancora intatta) fu costruita una grande bombarda simile al cosiddetto cannone dei Dardanelli, fuso in bronzo nel 1464 (qui sotto).
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il terzo, lungo sei chilometri, era protetto dalle più formidabili fortificazioni mai conosciute dal mondo medievale. Costruite nel V secolo d.C., le mura teodosiane erano composte da cinque strati difensivi: una doppia cinta con 192 torri, un fossato e due zone esposte che il nemico era costretto ad attraversare costantemente sotto tiro. Nei suoi 1.100 anni di storia la capitale aveva vissuto numerosi assedi, e nessun aggressore era riuscito a superare quella serie di barriere; nel 1204 i crociati avevano conquistato Costantinopoli prendendo d’assalto le fortificazioni marittime ma non le mura teodosiane. Costantino poteva contare poi su uno specialista di assedi genovese, Giovanni Giustiniani Longo, giunto espressamente per occuparsi
L’effetto dei bombardamenti fu micidiale. Le mura, che pure avevano resistito a secoli di attacchi, cominciarono a sgretolarsi. Per gli assediati gli effetti psicologici furono altrettanto gravi dei danni materiali. Il rumore e le vibrazioni delle batterie di cannoni, le nuvole di fumo e l’impatto devastante dei proiettili gettavano nello sgomento anche i combattenti più esperti. La popolazione civile considerava quegli eventi drammatici un segno dell’apocalisse e si rifugiava a pregare nelle chiese. La cinta muraria che aveva protetto la città per mille anni sembrava diventata improvvisamente obsoleta. Il bombardamento andò avanti per giorni. Ma dopo lo shock iniziale i difensori ripresero coraggio e Giustiniani improvvisò una soluzione ingegnosa di fronte alla potenza distruttiva dei cannoni. Con l’aiuto della popolazione costruì delle barriere fatte di pietre, arbusti e grandi quantità di terra, sormontate da barili che fungevano da merlatura. I terrapieni così ottenuti riuscivano ad ammortizzare con sorprendente efficacia l’impatto dei proiettili di pietra, che sembravano dei sassi lanciati nel fango. Piccoli manipoli d’assalto uscivano di notte per rimuovere le macerie e impedire così ai nemici di servirsene per costruire ponti. Se gli ottomani lanciavano un attacco a sorpresa, venivano accolti a colpi di archi, balestre e armi manuali. Maometto II doveva agire rapidamente. Non poteva mantenere all’infinito il suo grande esercito sotto le mura. Le sue truppe non erano giunte lì solo per combattere la guerra santa,
FOTO: AGE FOTOSTOCK. ILLUSTRAZIONE: 4D NEWS
Sotto i colpi dell’artiglieria
INTERNO DELLE MURA DI TEODOSIO. SI PUÒ VEDERE IL CAMMINAMENTO MERLATO E UNA DELLE TORRI.
LA MIGLIORE FORTIFICAZIONE DEL MEDIOEVO per penetrare a Costantinopoli gli assedianti dovevano superare una serie di barriere di grande spessore ed efficacia. Innanzitutto trovavano un fossato 1 di 20 metri di larghezza e fino a 10 metri di profondità. Dietro una prima muraglia di 1,5 m di altezza 2 si estendeva una terrazza, il parateichion 3. Dopo c’era la cinta esterna 4, di 2 m di spessore e 8,5-9 m di altezza, con torri quadrate
o a mezzaluna alte 12-14 m e larghe 4 m. Un’altra area terrazzata, il peribolos 5, delimitava l’ultima e più solida barriera difensiva: la cinta interna 6, di 4,56 m di spessore e 12 m circa di altezza, costruita con blocchi di pietra intagliata intervallati da strati di mattoni che servivano a rinforzare la struttura, e con un riempimento di malta di calce e mattoni triturati.
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Questa muraglia era dotata di 96 robuste torri alte 15-20 m e larghe 10-12 m, coronate da un camminamento merlato.
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toria, mentre nell’accampamento ottomano il morale calò. Tuttavia i cannoni continuavano a sparare, gli assediati dovevano lavorare senza sosta per riparare le mura e per respingere gli attacchi notturni dei nemici, e le perdite umane e la stanchezza cominciavano a farsi sentire. Maometto II, ancora piccato per la sconfitta navale, era determinato ad annientare la flotta cristiana alla fonda nel Corno d’Oro. Le navi turche effettuarono varie incursioni nel tentativo di rompere la catena e penetrare nel porto, ma senza successo. Malgrado ciò, il sultano poteva ancora fare affidamento sulla superiorità numerica delle sue truppe, per cui decise di risolvere il problema con un piano audace. Fece allestire in gran segreto una lunga passerella di tronchi di legno unti di grasso tra il porto ottomano e la parte alta del Corno d’Oro, sulla quale fece trasportare a forza di braccia settantadue imbarcazioni nel cuore della notte. La mattina del 22 aprile i difensori di Costantinopoli scoprirono inorriditi che le galee ottomane erano nel porto, pronte a dare battaglia alle navi cristiane.
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RESISTERE FINO ALLA MORTE Sopra, Costantino XI arringa gli abitanti e i difensori di Costantinopoli. Incisione di Gustave Doré. Sotto, elmo veneziano del XV secolo. Cleveland Museum of Art.
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ma anche con l’intenzione di saccheggiare una città considerata immensamente ricca. Le speranze di Costantino XI ruotavano attorno all’arrivo di un contingente navale dalla penisola italica. Ma il 12 aprile a presentarsi nelle acque davanti alla città fu invece un’imponente flotta ottomana, di recente costruzione, inviata per bloccare le rotte di rifornimento marittimo della capitale bizantina. Una settimana più tardi tre grandi velieri genovesi raggiunsero la bocca del Bosforo carichi di provviste e di uomini. Era chiaro che non sarebbero passati facilmente. La flotta ottomana, composta da galee basse e veloci, si precipitò immediatamente a intercettarli, ma dai ponti e dagli alberi degli alti velieri si abbatté sulle imbarcazioni turche una formidabile pioggia di frecce che impedì l’abbordaggio. Maometto II osservava con un misto di rabbia e impotenza come le sue navi venivano umiliate dai genovesi, che riuscirono a entrare nel porto bizantino del Corno d’Oro. L’accesso fu subito richiuso con una gigantesca catena. Nella guerra psicologica i cristiani interpretarono questi eventi come un segno divino della loro imminente vit-
Le due flotte si affrontarono da un lato all’altro del Corno d’Oro. Costantino capì che doveva contrattaccare e pianificò una sortita notturna per distruggere le imbarcazioni nemiche. Con il favore delle tenebre alcune navi veneziane e genovesi attraversarono il porto per lanciare l’assalto. Ma quando ormai erano vicine all’obiettivo, vennero accolte a colpi di cannone: il loro piano era stato scoperto. L’attacco si concluse con un disastro, varie unità della flottiglia vennero affondate, molti marinai cercarono di salvarsi raggiungendo a nuoto la riva, ma lì furono fatti prigionieri dagli ottomani. Il giorno successivo Maometto II fece impalare ventinove di loro davanti alle mura della città. Costantino rispose esponendo sui bastioni i cadaveri di vari prigionieri ottomani. Questo susseguirsi di attacchi e contromosse proseguì senza sosta nei giorni seguenti. Maometto ordinò ai suoi uomini di scavare delle gallerie sotto la cinta muraria. Ma Costantino aveva al suo servizio, oltre a Giustiniani, un ingegnere minerario scozzese di nome Johannes Grant, che venne incaricato di rispondere a questa manovra. I cavatori cristiani riuscirono a penetrare nei tunnel ne-
SPL / SCALA, FIRENZE
Una guerra interminabile
BOMBE CONTRO LE NAVI TURCHE
Questa colorata incisione di Léon Lhermitte mostra i difensori bizantini intenti a gettare fuoco greco e barili infiammabili contro la flotta ottomana.
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DEA / ALBUM
COSTANTINOPOLI ASSEDIATA
Uno degli affreschi che decorano l’esterno del monastero di Moldovita (Romania), dipinti nel 1537, ricostruisce l’assedio di Costantinopoli da parte degli avari nel 626. La presenza di cannoni tra gli assedianti così come tra i difensori dimostra che l’autore aveva in mente l’assedio ottomano del 1453. DEA / ALBUM
di vincere o di morire. Il sovrano ringraziò i marinai per il loro valoroso gesto e cominciò a piangere amaramente per la disperazione. Ma all’inizio di maggio il morale era basso anche nell’accampamento ottomano. I comandanti erano in disaccordo su come procedere e le truppe stavano diventando impazienti. Il sultano decise di lanciare un’offerta di pace: i bizantini potevano pagare un ingente tributo oppure andarsene dove meglio credevano. Costantino sentiva sulle sue spalle tutto il peso della storia cristiana della città. Probabilmente pensava che tanto sangue versato rendesse ormai impossibile una conclusione pacifica e che non ci si potesse fidare di Maometto II. La risposta dell’imperatore fu categorica: «Darti la città non dipende né da me né da alcuno dei suoi abitanti. Abbiamo deciso di nostra spontanea volontà di combattere piuttosto che farci risparmiare la vita».
ANNA SERRANO / FOTOTECA 9X12
FORTEZZA DI RUMELI HISARI
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Fu costruita da Maometto II nel 1452 a nord di Costantinopoli, sulla sponda europea del Bosforo.
mici e a distruggerli dopo una feroce battaglia sotterranea. Molti soldati ottomani morirono sepolti nel crollo. Così, dopo due settimane di frenetica attività, il sultano decise di rinunciare all’operazione. Tuttavia la situazione di Costantinopoli era sempre più disperata. L’imperatore inviò un manipolo di marinai veneziani a esplorare le coste della Grecia con una rapida imbarcazione, alla ricerca di qualche altra flotta di supporto. Ma fu tutto vano. I marinai discussero se fare ritorno alla città sotto assedio o mettersi in salvo proseguendo la navigazione. Scelsero con coraggio la prima opzione: superarono il blocco nemico e annunciarono all’imperatore che non sarebbe arrivato nessun sostegno esterno. Per i difensori di Costantinopoli si trattava ormai
Gli uomini del sultano bramavano di saccheggiare una città ritenuta ricchissima RECIPIENTE CERIMONIALE OTTOMANO IN ORO MASSICCIO. XVI SECOLO
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Era ormai chiaro che i contendenti si sarebbero battuti fino alla morte e che l’assedio si stava avvicinando a un punto critico. L’atmosfera da entrambe le parti era febbrile. Secondo un’antica profezia, Costantinopoli non avrebbe mai potuto essere espugnata con la luna crescente. La notte del 24 maggio, quando la luna entrò in fase calante, molta gente cominciò ad allarmarsi. Chi aveva gli occhi puntati al cielo rimase di sasso: solo una parte del satellite era visibile. Si trattava semplicemente di un’eclissi parziale, ma la circostanza fu interpretata come un terribile presagio, compromettendo gli sforzi di Costantino di mantenere alto il morale degli assediati. Il giorno dopo, per risollevare gli spiriti, l’imperatore ordinò che fosse portata in processione una delle immagini più importanti della Madonna presenti in città. Ciononostante le cose non fecero che peggiorare. Una violenta tempesta si abbatté sui partecipanti al rito, l’icona scivolò dalle spalle dei portatori e cadde nel fango. La mattina dopo si videro strani giochi di luce intorno alla cupola centrale di Santa Sofia. Gli abitanti terrorizzati credevano che Dio avesse abbandonato definitivamente Costantinopoli al suo destino. Una delegazione si recò presso l’imperatore per supplicarlo di fuggire e organizzare la riconquista dalla Grecia.
GRANGER / ACI
L’assalto finale
LA CITTÀ ASSEDIATA
Miniatura francese del XV sec. Mostra l’assedio ottomano di Costantinopoli dall’accampamento di Maometto II, situato a ovest della città, davanti alle mura teodosiane.
L’ULTIMO RIFUGIO
L’interno di Santa Sofia, dove si rifugiarono molti abitanti della città di fronte all’avanzata finale degli ottomani. Dopo la conquista il complesso fu trasformato in una moschea. Oggi ospita un museo, ma presto potrebbe tornare a essere un luogo sacro dell’islam. MANUEL COHEN / AURIMAGES
cadendo come mosche ai piedi delle mura. I difensori mantennero le loro posizioni per ore, ma il fattore numerico cominciava a far sentire il suo peso.
Un finale tragico
LOREM LORME LOOREM
BRIDGEMAN / ACI
MAOMETTO II ENTRA IN CITTÀ L’olio di JeanJoseph BenjaminConstant ricostruisce il trionfo finale del sultano. Qui sotto, la decorazione di una fontana del palazzo di Topkapı, eretto da Maometto II a Costantinopoli.
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Costantino rifiutò di nuovo. Il 27 maggio Maometto decise che era il momento di passare all’assalto finale e iniziò a preparare psicologicamente i suoi uomini alla durezza dello scontro che li attendeva. Per tre notti di fila fece accendere dei falò lungo la linea del fronte. Dalle mura i difensori potevano vedere un anello di fuoco davanti all’accampamento nemico, da cui sentivano alzarsi dei canti ritmati. I cristiani portarono le loro immagini sacre sui bastioni delle mura per farsi coraggio e invocare la protezione divina. La sera del 28 maggio si riunirono per l’ultima volta a Santa Sofia, in una dimostrazione di unità che finalmente riconciliava ortodossi e cattolici. Tutti si abbracciarono e poi tornarono ai loro posti. Costantino e Giustiniani schierarono le truppe tra le mura interne ed esterne e chiusero le porte della città. La gran parte della popolazione civile si radunò nella chiesa di Santa Sofia per pregare. Poco prima dell’alba del 29 maggio, in mezzo al fragore di tamburi, corni e campane, gli ottomani cominciarono ad attaccare a ondate,
ROGER CROWLEY STORICO
Per saperne di più
SAGGI
1453. La caduta di Costantinopoli Roger Crowley. Bruno Mondadori, Milano, 2008. Storia dell’impero bizantino Georg Ostrogorsky. Einaudi, Torino, 2014.
SHUTTERSTOCK
SCALA, FIRENZE
Alla fine fu la sfortuna a piegare le difese cristiane. Dopo giorni di combattimenti, Giustiniani fu gravemente ferito. Comprendendo che non era più in grado di combattere, chiese a Costantino il permesso di ritirarsi. L’imperatore accettò con riluttanza. Quando i soldati videro il loro comandante lasciare la battaglia, sprofondarono nello scoramento e iniziarono a correre verso le porte della città. Gli ottomani riuscirono a passare oltre le mura e presero d’assalto le strade cittadine, uccidendo e saccheggiando senza sosta. Le porte di Santa Sofia furono aperte con la forza e tutti coloro che si trovavano all’interno furono ridotti in schiavitù. Maometto II fece il suo ingresso trionfale in città. Costantino cadde probabilmente in battaglia e il suo corpo non fu mai trovato. Secondo alcuni storici, l’assedio e la presa di Costantinopoli segnarono la fine del Medioevo. Rappresentarono l’entrata definitiva degli ottomani nell’arena europea e dimostrarono il progresso della tecnologia della polvere da sparo. La cristianità sprofondò nel cordoglio. Costantinopoli era stata una delle culle del cristianesimo, e in molti credevano che la sua gloria sarebbe stata imperitura. Le cronache dell’epoca rivelano che molte persone ricordavano chiaramente dove si trovavano quando avevano saputo della tragedia. «Ma che dire della notizia terribile or ora giunta su Costantinopoli?» scrisse l’umanista e futuro papa Enea Silvio Piccolomini. «La mia mano, mentre scrive, trema, l’animo mio inorridisce». Si potrebbe dire che la caduta della città causò all’epoca un impatto paragonabile a quello che gli eventi dell’11 settembre 2001 hanno avuto per il nostro tempo.
DA CRISTIANO A MUSULMANO
Veduta aerea del quartiere di Sultanahmet con la chiesa di Santa Irene in primo piano, Santa Sofia nel mezzo e la Moschea Blu sullo sfondo.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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L’ASSALTO FINALE OTTOMANO l’assalto decisivo a Costantinopoli si svolse il 29 maggio. Il sultano Maometto II aveva iniziato i preparativi due giorni prima, e dalla sera precedente aveva fatto schierare il suo esercito davanti alle mura. Le truppe cristiane erano asserragliate all’interno della città, pronte a difenderla. L’attacco iniziò prima dell’alba, e in tarda mattinata Costantinopoli era già nelle mani del sultano.
1 b
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2
mura teodosiane
studion
ILLUSTRAZIONE: CHRISTA HOOK / OSPREY PUBLISHING
porto di teodosio
primo assalto ottomano, 1 Ilall’alba del 29 maggio
del palazzo 3 Ladellepresa Blacherne da parte
del 1453, si concentra sulla porta di San Romano.
degli ottomani scatena il panico tra i difensori cristiani.
terzo, definitivo assalto 2 Ilriesce a spezzare la
ottomano Hamza 4 L’ammiraglio Bey riesce a spezzare la catena
resistenza bizantina nella zona di Kerkoporta.
del Corno d’Oro e prende possesso delle restanti navi cristiane.
96 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
ottomana parte 5 Lada flotta Diplokionion e si
superano le 6 Glimuraottomani marittime della città
distribuisce davanti alle mura cittadine fino al porto di Teodosio.
lanciando un’offensiva attraverso la porta Platea.
3 rumeli hisari
5 corno d’oro
galata (pera)
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diplokionion
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anadolu hisari
porto di kontoskalion bosforo
a
LEGENDA ottomani greci
a Palazzo imperiale B Accampamento di Maometto II
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Nella famosa serie d’incisioni sulla Guerra d’indipendenza Goya indagò le radici della violenza umana e la sua capacità di distruggere vite e culture
GOYA
I DISASTRI DELLA GUERRA
LA BARBARIE DELLA GUERRA
Una donna, sorpresa da soldati francesi che sparano senza pietà e con un bambino in braccio, cerca rifugio in un accampamento. Olio di Francisco Goya. 1808-1810. Collezione del marchese di La Romana. ORONOZ / ALBUM
VENTAGLIO CON SCENA DELLA RIVOLTA DI ARANJUEZ CHE, NEL MARZO 1808, ACCELERÒ L’OCCUPAZIONE DELLA SPAGNA DA PARTE DEI FRANCESI. MUSEO DEL ROMANTICISMO, MADRID. ORONOZ / ALBUM
N
el 1808 Francisco Goya y Lucientes era il primo pittore regio di Carlo IV e viveva a Madrid assieme alla moglie Josefa Bayeu. A 62 anni soffriva ormai una grave forma di sordità, conseguenza di una malattia contratta intorno al 1792, e ciò aveva accresciuto il suo carattere introspettivo. Tuttavia non s’isolò dal mondo e dal suo Paese, che stava affrontando la terribile prova della guerra contro la Francia di Napoleone. Prima del conflitto Goya e molti suoi amici, come lo scrittore Gaspar Melchor de Jovellanos e il drammaturgo Leandro Fernández de Moratín, avevano provato una grande ammirazione per la Francia: ai loro occhi questa incarnava il trionfo del pensiero illuminista, che aveva nutrito le speranze nel progresso per tutto il XVIII secolo. Ma l’invasione della Spagna da parte delle truppe napoleoniche e la cruenta guerra che devastò il Paese negli anni successivi cancellarono ben presto ogni illusione. Goya si comportò sempre in modo discreto e durante il conflitto non espresse le sue idee. Eppure affidò all’arte un’intensa testimonianza del trauma da lui vissuto. L’artista ricostruì gli scontri in vari quadri, tra i quali spiccano due delle sue tele più importanti: El dos de mayo de 1808 en Madrid (2 maggio 1808 a Madrid), sulla prima ribellione dei madrileni, e El tres 100 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
1808
Francisco Goya compie un viaggio a Saragozza in un intervallo tra il primo e il secondo assedio francese alla città.
1810
Goya mantiene una posizione ambigua rispetto al nuovo monarca, Giuseppe Bonaparte: gli fa un ritratto, ma smette di essere pittore di corte.
1812
In quest'anno viene promulgata la Costituzione di Cadice. Poco dopo Goya ne realizza un’allegoria.
1814
A guerra finita l'artista dipinge 2 maggio 1808 e 3 maggio 1808 per commemorare la rivolta di Madrid.
de mayo de 1808, noto anche come Los fusilamientos de la montaña del Príncipe Pío (3 maggio 1808: fucilazione alla montagna del Principe Pio). Tuttavia la rappresentazione più completa che Goya fornì della tragedia compare in un’opera di natura diversa. Non si tratta di oli, bensì di una serie d’incisioni che all’inizio intitolò Fatales consecuencias de la sangrienta guerra contra Bonaparte (Conseguenze fatali della sanguinosa guerra contro Bonaparte) e che, pubblicata nel 1863, assunse poi il nome con cui è oggi nota: Los desastres de la guerra (I disastri della guerra).
Stampe di un Paese devastato Goya iniziò a lavorare a questa serie nel 1810 – data che appare in alcune delle incisioni (le numero venti, ventidue e ventisette) – e la portò avanti durante la guerra. Una prima parte, fino all’incisione quarantasette, costituisce un’ampia descrizione del conflitto. Segue una seconda sezione, fino al numero sessantaquattro, in cui sono analizzate le conseguenze dello scontro, soprattutto la fame e i decessi che turbarono la popolazione. Alcuni anni più tardi, tra il 1820 e il 1823, Goya avrebbe ripreso la serie con altre diciotto incisioni, intitolate Caprichos enfáticos (Capricci enfatici). Queste si concentrano sulla situazione politica della Spagna dopo le ostilità con i francesi. I disastri di Goya può essere considerata una testimonianza della guerra, in qualsiasi Paese e periodo storico avvenga. Non a caso
IL 2 MAGGIO 1808
Nel rappresentare la fuga dei soldati francesi, attaccati di sorpresa dagli spagnoli, Goya sottolineò l’efferatezza della lotta. Museo del Prado, Madrid. ALBUM
MISERIE DELLA GUERRA
Le incisioni di Callot non mostrano solo gli abusi dei soldati durante la Guerra dei trent’anni, ma anche la sorte degli stessi militi, che vengono puniti con impiccagioni di massa. AKG / ALBUM
vi sono raffigurate scene che continuano a essere attuali: le morti in battaglia, le esecuzioni sommarie, gli esuli che fuggono atterriti, i civili affamati, le donne stuprate e, in generale, la regressione a uno stato animale in cui gli uomini commettono crimini spaventosi contro i loro simili. Per quel suo sguardo così lucido Goya s’ispirò a dei precedenti. Una fonte è la serie d’incisioni dal titolo Les Misères et les Malheurs de la Guerre (Le miserie e le disgrazie della guerra) di Jacques Callot, pubblicata a Parigi nel 1633. Sebbene Callot volesse solo illustrare la dura vita dei soldati durante la Guerra dei trent’anni (1618-1648), il risultato è una sfilza di crude immagini che demitizzano il conflitto stesso. Eppure c’è una differenza sostanziale tra la produzione di Callot e quella di Goya: la quantità di figure. Nelle opere del primo sono presenti molti personaggi, scrutati da una certa distanza, mentre le incisioni di Goya hanno come protagoniste poche figure. Non solo: sembra quasi che Goya offra allo spettatore una lente e lo costringa a osservare. Chi guarda le incisioni non può scegliere, non può sottrarsi alla contemplazione di ogni dettaglio, per quanto sgradito o esagerato possa essere.
Yo lo vi Le stampe di I disastri della guerra portano a chiedersi se Goya vide in prima persona quanto disegnò e quale rapporto ebbe con quei fatti. Già in 2 e 3 maggio si è voluto in102 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
travedere il riflesso di un’esperienza vissuta, o dal pittore o da alcuni testimoni. Difatti per 2 maggio 1808 Goya poté forse ascoltare il racconto di un giovane discepolo, León Ortega y Villa, ferito nella ribellione dei madrileni, o del figlio Javier, che viveva vicino alla Puerta del Sol. In I disastri l’aspetto testimoniale è ancora più accentuato. Parecchie scene sembrano rispondere a un’esperienza personale di Goya, e lui stesso lo dichiara in due delle incisioni, la numero quarantaquattro, Yo lo vi (Io l’ho visto), e la numero quarantacinque, Y esto también (E questo pure). In altri casi l’aragonese si sarebbe basato su testimonianze dirette o sulle sue visite ai luoghi delle lotte una volta cessato il pericolo: poté così osservare i cadaveri mutilati o accatastati. O trovò informazioni sulla stampa dell’epoca. Si ha l’impressione che Goya non voglia narrare fedelmente i fatti, bensì partire dall’evento storico per giungere a un’astrazione che renda I disastri un’opera universale. Tanto che ancora oggi chiama in causa i nostri contemporanei. RAQUEL GALLEGO STORICA DELL’ARTE
Per saperne di più
SAGGI
Goya. Follia e ragione all’alba della modernità Patrizia Foglia, Diego Galizzi (a cura di). Faenza, Faenza, 2017. Goya. I disastri della guerra Francisco Martini (a cura di). Abscondita, Milano, 2011.
FRANCISCO GOYA NEL 1815
In quest’autoritratto, firmato, del 1815 un Goya ormai vecchio guarda lo spettatore con sincerità , quasi volesse interpellarlo direttamente. Museo del Prado, Madrid. ALBUM
tristi presentimenti, incisione nº 1.
con o senza la ragione, incisione nº 2.
FOTO: ORONOZ / ALBUM
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LOTTE CRUDELI
Guerra senza tregua ebbene gli scenari delle incisioni siano vaghi, Goya ricostruisce con precisione le molteplici forme della guerra del 1808-1814: gli attacchi alle città, le battaglie, le disordinate azioni di guerriglia urbana contro i plotoni francesi e le terribili rappresaglie degli invasori. Il pittore non giustifica mai la violenza. Nella stampa Con razón o sin ella (Con o senza la ragione), diversi soldati francesi puntano la baionetta contro due spagnoli muniti solo di un coltellino. Nell’incisione che segue, Lo mismo (Lo stesso), Goya evoca nuovamente una situazione di abusi, anche se invertita rispetto alla precedente. Uno spagnolo con il viso deformato dall’odio impugna un’ascia per decapitare un francese che giace incosciente a terra. O ancora in ¡Qué valor! (Che coraggio!) una donna – da alcuni ritenuta
che coraggio!, incisione nº 7.
Agustina de Aragón, eroina della resistenza di Saragozza durante l’assedio francese del 1808-1809 – carica un cannone appoggiato su un ammasso di cadaveri, che non sembrano suscitare la sua compassione. La tragica fatalità della guerra è riassunta nell’immagine che apre la serie, Tristes presentimientos (Tristi presentimenti), un'allusione all’imminenza del conflitto. La figura lì presente ricorda Cristo mentre prega nell’orto degli Ulivi.
lo stesso, incisione nº 3.
FOTO: ALBUM
per questo siete nati, incisione nº 12.
curarli e poi avanti, incisione nº 20.
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F E R I T I E C A D AV E R I
Destinati a morire oya mostra come in qualsiasi conflitto gli uomini siano “carne da macello”. Per gli spagnoli, inferiori per numero e armamenti, era fondamentale curare i feriti il prima possibile. L’incisione Curarlos, y a otra (Curarli e poi avanti) lascia intendere che in guerra la vita umana è subordinata all’utilità sul campo di battaglia. La stampa è in stretta relazione con un’altra intitolata Aún podrán servir (Potranno servire ancora), nella quale vengono portati via diversi feriti, uno di loro su una barella improvvisata. In Para eso habéis nacido (Per questo siete nati), una delle opere più impressionanti, Goya si potranno servire ancora, incisione nº 24.
chiede quale sia il senso della guerra, che conduce solo alla morte. Su una massa informe e quasi anonima di cadaveri, un uomo ferito vomita sangue prima di accasciarsi. La fossa comune era il destino di tanti uomini, dell’una o dell’altra fazione: spesso vi venivano gettati nudi, dopo essere stati spogliati dei pochi beni in loro possesso. Come riferiscono alcune cronache dell’epoca, a volte erano ancora vivi. Scene simili dovevano essere molto frequenti, e Goya potrebbe avervi assistito in più occasioni. Le evoca così in un’incisione ironica, Caridad (Carità), in cui ritrae anche sé stesso con un’espressione grave (è la figura più in alto). carità incisione nº 27.
neanche così incisione nº 11.
FOTO: ALBUM
3 V I T T I M E D I S P E R AT E
Donne nel baratro e gli uomini sono impegnati in battaglia, le donne ricoprono un duplice ruolo: in certi casi sono vittime inermi, e in altri personaggi attivi che si difendono e lottano al pari degli uomini. In alcune stampe le donne subiscono i soprusi e la brutalità dei soldati napoleonici, come in Ni por esas (Neanche e sono feroci incisione nº 5.
così) in cui una donna viene trascinata da un milite mentre rivolge lo sguardo al figlio caduto a terra, simbolo dell’innocenza e dell’incertezza. A volte si battono con coraggio: in Y son fieras (E sono feroci), una donna con un figlio in braccio trafigge un soldato. In No quieren (Non vogliono) una giovane graffia il volto di un milite francese deciso a stuprarla mentre, dietro di loro, un’anziana si appresta a pugnalarlo. In queste tre incisioni i corpi delle donne sono lasciati quasi in bianco, tratteggiati con qualche semplice linea d’acquaforte, e contrastano con i colori scuri degli aggressori e dello sfondo. È probabilmente un espediente a cui Goya ricorre per sottolineare l’innocenza e la purezza di queste donne, in lotta contro un nemico crudele.
non vogliono incisione nº 9.
FOTO: ALBUM
perché?, incisione nº 32.
barbari! incisione nº 38.
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CRIMINI DI GUERRA
Esecuzioni sommarie n I disastri torna spesso il tema delle esecuzioni di prigionieri, in genere spagnoli. A volte i guerriglieri vengono fucilati mentre sono bendati o legati agli alberi, come in ¡Bárbaros! (Barbari!). In altre occasioni sono già mor-
neanche qui incisione nº 36.
ti o moriranno impiccati – per esempio in Tampoco (Neanche qui) –, o ancora vengono uccisi con la garrota, come in Por una navaja (Per un coltello). Il titolo allude al fatto che il malcapitato sia stato messo a morte perché in possesso di un banale coltellino. Goya non risparmia nessun particolare nel ritrarre i volti inanimati dei cadaveri e degli uomini torturati e sofferenti, ed è piuttosto esplicito quando rappresenta la sofferenza dell'uomo impiccato. Accade in ¿Por qué? (Perché?). In un’altra eloquente incisione, Y no hay remedio (E non c’è rimedio), un soldato spagnolo vestito di bianco, molto simile alla figura centrale di El tres de mayo de 1808, sta per essere fucilato da un plotone, di cui scorgiamo solo le armi. La tematica può essere collegata all’importante saggio della filosofia illuminista Dei delitti e delle pene (1764), un'opera che aveva avuto gran popolarità in Europa e che pertanto sicuramente Goya conosceva. Nel saggio breve l'autore, Cesare Beccaria, chiedeva che venisse abolita la tortura e si mostrava polemico nei confronti dell'applicazione della pena di morte. per un coltello incisione nº 34.
e non c’è rimedio incisione nº 15.
popolino incisione nº 28.
questo è peggio incisione nº 37.
FOTO: ALBUM
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V I O L E N Z A G R AT U I TA
Corpi lacerati ella serie compaiono scene non solo di morti, ma anche di accanimento brutale contro corpi agonizzanti o senza vita. Certe volte sono gli spagnoli a macchiarsi di tale violenza, come in Populacho (Popolino), dove un uomo e una donna infieriscono gratuitamen-
che altro si può fare? incisione nº 33.
te su un francese nudo. Più spesso gli aguzzini sono però i soldati francesi, come in ¿Qué hay que hacer más? (Che altro si può fare?). Qui due militi torturano un uomo spogliato e a testa in giù. In quest’incisione e nella seguente, Esto es peor (Questo è peggio), sorprende come, malgrado l’inaudita violenza, i corpi conservino la bellezza e quindi la dignità. Si avverte il fascino che esercitava sul pittore la scultura greco-romana, da lui studiata durante il soggiorno in Italia tra il 1769 e il 1771. A quel periodo risale un Cuaderno italiano (Quaderno italiano, oggi esposto al Museo del Prado) in cui aveva ritratto da diverse prospettive il Torso del Belvedere dell'ateniese Apollonios (I secolo a.C.), lo stesso marmo che gli servì d’ispirazione per il cadavere mutilato e impalato di Questo è peggio. Probabilmente Goya aveva intenzione di denunciare il sovvertimento dei valori e la distruzione di qualsiasi forma di civiltà.
io l’ho visto incisione nº 44.
sui carri al cimitero incisione nº 64.
FOTO: ALBUM
6 C ATA S T R O F E U M A N I TA R I A
Fame e sradicamento l pari di ogni guerra, quella del 1808-1814 comportò per i civili effetti devastanti. In Yo lo vi (Io l’ho visto) Goya dipinse una pratica relativamente comune tra gli spagnoli, quella di abbandonare i propri villaggi quando si avvicinavano le truppe napoleoniche, lasciando così campo libero ai saccheggiatori. Si verificarono pure carestie a causa della scarsità di alimenti, soprattutto di grano: al suo posto venivano consumati prodotti a base di cicerchia. Tuttavia, se ingerito in quantità elevate, questo legume può portare a paralisi degli arti inferiori, spasmi e deformità. Goya lo descrisse in modo molto realistico in alcune i letti della morte incisione nº 62
incisioni. Lui stesso fu testimone diretto della fame che prostrò Madrid alla fine del 1811 e agli inizi del 1812. I carri delle parrocchie si aggiravano nelle strade per raccogliere i morti ed evitare la diffusione di epidemie: lo si può vedere in Carredatas al cementerio (Sui carri al cimitero). I cadaveri venivano ammucchiati senza sepoltura e si putrefacevano provocando un fetore insopportabile, come illustra Las camas de la muerte (I letti della morte), una delle scene più semplici, eppure più desolanti, di tutta la serie. Qui una donna si tappa il naso per non sentire il tanfo dei cadaveri a terra, probabilmente all’interno di un ospedale in cui le risorse sono insufficienti.
IL ROVESCIO DELLA TRAMA
Lunghe mura e grandi cannoni
L
a primavera del 1453 fu un momento di dura prova per le mura di Costantinopoli. Fin dai tempi dell’imperatore Teodosio II, nel lontano V secolo, queste avevano difeso la città dai vari attacchi subiti nel corso della sua storia millenaria. Erano di una lunghezza complessiva di venti chilometri e circondavano la capitale da ogni parte. Il lato meridionale si affacciava sul mar di Marmara e quello settentrionale sul Corno d’Oro, dove le navi erano protette da un’enorme catena che bloccava l’accesso al porto. A occidente c’erano le mura terrestri, delle massicce fortificazioni che avevano conservato il disegno originale: un fossato che poteva facilmente essere allagato, una prima barriera difensiva e poi due successive cinte murarie di altezza molto maggiore separate da
uno spazio. Questa grande opera difensiva era costituita da pietre legate con malta di calce. Tra i blocchi si potevano scorgere anche frammenti di vecchie colonne o di lapidi funerarie. Non appena si era sparsa la voce dell’imminente arrivo del sultano Maometto II, intenzionato a puntare i suoi cannoni contro la città, le mura erano state rinforzate con ogni materiale disponibile. La solidità delle fortificazioni era la chiave per la salvezza dell’impero e, con esso, di una civiltà che ai suoi albori aveva combattuto sotto altre celebri mura: quelle di Troia.
Sonni tranquilli Una volta completati i lavori di rafforzamento della cinta muraria, l’imperatore Costantino XI Paleologo abbandonò la sua consueta prudenza annunciando che la città era in grado di
Molti greci preferirono vivere all’ombra del sultano piuttosto che sotto il manto protettivo delle repubbliche marinare italiane 116 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
difendersi dall’attacco ottomano e che i suoi abitanti potevano dormire sonni tranquilli. Ma questo senso di sicurezza non gli impedì d’invocare l’aiuto di grandi personaggi della cristianità latina con importanti interessi a Costantinopoli. Per questo fece chiamare l’uomo che sarebbe diventato celebre durante l’assedio: il genovese Giovanni Giustiniani Longo, che arrivò dall’isola di Chio portando con sé tutto ciò che riteneva necessario alla difesa. Non appena entrate nel mar di Marmara, le sue galee sconfissero la flotta turca che era venuta a intercettarle. Un buon auspicio. Ma Giustiniani non aveva pensato a delle strategie per fronteggiare le innovative macchine d’assedio che, in quel preciso momento, venivano fabbricate nella vicina Adrianopoli da un fonditore di origine ungherese di nome Urban: dei cannoni capaci di sparare giganteschi massi contro le mura. Erano le temibili bombarde di bronzo che l’arcivescovo Leonardo intravide dall’alto della cinta occidentale.
ALAMY / ACI
Non tutti gli abitanti di Costantinopoli pensavano che resistere al poderoso esercito del sultano ottomano fosse l’opzione migliore
Il sultano osservava il fuoco dell’artiglieria ottomana dalla sua tenda d’oro. Uno dei colpi fece crollare la porta difesa da Giustiani. Il comandante genovese fu gravemente ferito e venne trasferito su una galea per essere trasportato a Chio, ma morì durante il viaggio.
IL ROVESCIO DELLA TRAMA
COSTANTINOPOLI
Incisione tratta da Civitates orbis terrarum, opera di Georg Braun e Frans Hogenberg pubblicata nel 1572 a Colonia.
I giochi ormai erano fatti. Iniziò allora quella parte della storia che raramente si racconta. Si formarono alleanze difensive dell’ultimo minuto, con obblighi vaghi e lealtà volubili. Nei suoi giorni finali la capitale bizantina visse intensi scontri politici in merito a
quale fosse la migliore via d’uscita dall’inevitabile disastro. Non era questione di eroismo, ma di pura sopravvivenza. Il veneziano Nicolò Barbaro, che seguiva da vicino gli eventi, annotò nel suo diario dell’assedio che in quei giorni molti abitanti di Costantinopoli avevano
fatto proprio il motto di un dignitario della corte imperiale, Luca Notara: «È meglio che la città sia governata dal turbante musulmano che dalla mitra papale». Uomini come Barbaro aiutano i lettori occidentali ad abituarsi a pensare all’impero ottomano come alla forza
emergente dell’Età moderna, evidenziando il fatto che molti greci preferirono vivere all’ombra del sultano piuttosto che sotto il manto protettivo delle repubbliche marinare italiane. Una bella lezione di storia. JOSÉ ENRIQUE RUIZ-DOMÈNEC HISTORIA NATIONAL GEOGRAPHIC
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GRANDI SCOPERTE
I giganti di Mont’e Prama, eroi della Sardegna nuragica Nel 1974 in una collina della Sardegna centrale iniziò a emergere dalla terra un esercito in pietra di arcieri, pugilatori e guerrieri
CRONOLOGIA
SCULTURE E TOMBE
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MAR ADRIATICO
I TALIA
Mont’e Prama
SARDEGNA MAR MEDITERRANEO
CAG L I A R I
risultato di quattro anni di progetti, schede, disegni, fotografie, rilievi, studio, osservazioni, pulizia, tentativi di ricomposizione e montaggio (che hanno coinvolto decine di professionisti) è arrivato nel 2011: ventiquattro figure tra guerrieri, pugilatori e arcieri erano finalmente in piedi, imponenti e meravigliose. Insieme a loro, quindici modellini di nuraghe e alcuni betili (pietre considerate sacre). Venivano ricostruite così, a quarant’anni dalla scoperta, le uniche statue a tutto tondo
e di grandi dimensioni della civiltà nuragica (diffusa tra il XVIII e l’VIII secolo a.C.) le più antiche del Mediterraneo occidentale. Un tesoro oggi esposto a Cabras nel Museo civico “Giovanni Marongiu” e a Cagliari nel Museo archeologico nazionale, accompagnato da postazioni multimediali con le ricostruzioni in 3D ad altissima risoluzione create dal centro di ricerca Crs4. A queste ventiquattro statue se ne sono aggiunte altre tre ritrovate durante le campagne più recenti (2014-2016).
TONI SPAGONE / AGE FOTOSTOCK
G
ambe, braccia, teste, mani, piedi, torsi, archi e scudi: una distesa di frammenti talmente vasta e insolita da provocare stupore, ansia, meraviglia. E anche pessimismo: non dev’essere stato facile, per i quindici specialisti restauratori, capire da dove iniziare per ricomporre quei cinquemila pezzi di pietra adagiati per 140 metri quadri nel centro di restauro di Li Punti, vicino Sassari. Una mole enorme di calcare e arenaria, ben dieci tonnellate, emerse dalla terra alla fine degli anni settanta del secolo scorso in una collinetta di Cabras, nella costa occidentale della Sardegna, e radunata dal 2007 al 2011 per il progetto di conservazione e restauro Mont’e Prama, Prenda ‘e Zenia. Il
Un lavoro in corso Lo scavo archeologico, invece, non è ancora aperto al pubblico. Lo studio infatti non è concluso: tutto fa pensare che il sottosuolo nasconda ancora informazioni preziose per ricostruire la storia e arricchire le
nostre conoscenze sulla civiltà nuragica. Sappiamo per certo che Mont’e Prama, dove svettavano le sculture, forse ben più numerose di quelle che sono arrivate a noi, ospitava an-
1974
1975-1979
2007-2011
2014-2016
Lavori agricoli a Mont’e Prama riportano alla luce un frammento di scultura.
Le campagne di scavo documentano oltre 5mila frammenti in pietra e una necropoli.
Il restauro permette la ricostruzione di 24 statue e 14 modelli di nuraghe, poi esposti tra Cagliari e Cabras.
Nuovi scavi fanno emergere altre sculture, tombe e strutture in pietra.
DAL 2014 un piano intero del Museo archeologico di Cagliari è dedicato alle sculture di Mont’e Prama: in mostra 18 statue, 8 modelli di nuraghe e 7 betili.
LA NECROPOLI CON OLTRE cento sepolture questa necropoli è
agricoltori urtò contro un primo frammento di scultura. “Eccezionale ritrovamento archeologico nella penisola del Sinis, un aratro scopre un tempio punico”, titolava il quotidiano locale La Nuova Sardegna il 31 marzo 1974. Non si trattava di un tempio punico, lì sotto c’era qualcosa di diverso. Tra il 1975 e il 1979 gli archeologi Alessandro Bedini, Giovanni Lilliu, Enrico Atzeni, Maria Luisa Ferrarese Ceruti e Carlo Tronchetti
ART COLLECTION / AGE FOTOSTOCK
che una necropoli che, con oltre cento tombe, è la più vasta finora conosciuta dell’Età nuragica. Quello che non si sa con certezza è chi erano le persone che abitavano e frequentavano quei luoghi e perché, circa tremila anni fa, quelle genti popolarono il sito di combattenti in pietra. A queste e altre domande gli studiosi cercano una risposta da anni. Dal 1974 per l’esattezza, quando si racconta che l’aratro di due
la più grande finora conosciuta della Sardegna nuragica. Le tombe, usate dal X all’VIII secolo a.C., sono venute alla luce insieme alle statue, e da subito si è pensato che queste fossero state erette come monumento dell’area funeraria. Sono state ritrovate diverse tombe intatte con i resti di giovani, quasi tutti maschi.
GLI SCAVI FURONO REALIZZATI DA DIVERSI ARCHEOLOGI TRA LA METÀ E LA FINE DEGLI ANNI ’70 DEL NOVECENTO.
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GRANDI SCOPERTE
Pugilatori, guerrieri e arcieri pronti a combattere le 27 sculture rappresentano pugilatori, guerrieri e arcieri. Per differenziarle i restauratori gli hanno dato dei nomi propri: Efis, Isbentiau, Gherreri, Sirboniscu, Sisinnio, Langiu, Bustianu... I pugilatori, coperti da un gonnellino e a torso nudo, reggono uno scudo sopra la testa. Gli arcieri indossano tunica e schinieri e sono ritratti con il braccio destro sollevato nel gesto del saluto, mentre il sinistro regge un arco appoggiato alla spalla. I guerrieri sono protetti da una tunica corazzata e reggono uno scudo rotondo; di nessuno di loro si è conservata la testa, ma per analogia con i bronzetti possiamo immaginare elmi con cresta e lunghe corna e una spada poggiata sulla spalla. Infatti, dimensioni a parte (i bronzetti sono grandi poche decine di centimetri), a guardarle affiancate le figure sono praticamente identiche: l’abbigliamento, gli accessori da combattimento tra spade, scudi, arco e faretra, i dettagli anatomici, i capelli. Inoltre entrambe le sculture erano legate a luoghi sacri: i bronzetti sono stati ritrovati, in particolare, vicino a templi e santuari, mentre le sculture sono connesse a necropoli e strutture cultuali. Le similitudini suggeriscono anche la contemporaneità delle produzioni. Uno dei maggiori misteri delle statue è l’assenza di un supporto, visto il peso del corpo rapportato anche alle dimensioni delle caviglie. Questo dimostra una sorprendente esperienza nelle tecniche scultoree.
STATUETTE DEL SANTUARIO NURAGICO DI SANTA VITTORIA DI SERRI. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI CAGLIARI.
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MARCO ANSALONI
Donne e uomini Anche se la grande somiglianza tra le piccole statue in bronzo e le grandi sculture di Mont’e Prama fa pensare che entrambe le produzioni siano state create nello stesso periodo, esiste una differenza importante tre le due. Mentre tra i bronzetti sono presenti tante donne, madri, sacerdotesse e offerenti, le statue ritrovate nella zona di Cabras raffigurano unicamente uomini.
Fastigiadu. È il nome che i res tauratori hanno dato a questo pugilatore composto da 49 frammenti ricostruiti.
Scudo di guerriero ricostruito da 23 frammenti. La superficie era decorata con incisioni a scalpello.
La testa di Fastigiadu: gli occhi sono due cerchi concentrici perfetti.
FOTO: PAUL WILLIAMS / ALAMY / ACI
Prexiau. L’arciere mostra, ben conservati, i capelli raccolti in trecce e l’impugnatura dello scudo.
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ALINARI / RMN-GRAND PALAIS
GRANDI SCOPERTE
NURAGHE DI PALMAVERA.
La capanna delle riunioni di questo villaggio presenta al centro la scultura di un nuraghe in miniatura simile a quelli trovati a Mont’e Prama.
riportarono alla luce architetture, tombe e sculture, confermando la natura cultuale e insieme funeraria del sito. Fu Giovanni Lilliu, considerato il padre dell’archeologia sarda, a sottolineare che le figure che venivano fuori dalla terra erano molto simili ai bronzetti nuragici, diffusi soprattutto nella prima Età del ferro, ovvero tra il 950
e il 700 a.C. Le statue, ritrovate a pezzi e sparse sul sito in uno spazio lungo cento metri, vennero recuperate e portate nei magazzini della Soprintendenza archeologica. Vi rimasero fino al 2005, quando il progetto di restauro trovò finanziamenti e spazi adeguati; alcuni frammenti vennero invece esposti al Museo archeologico di Ca-
Le statue potrebbero essere rappresentazioni di antichi eroi chiamati a protezione delle genti MODELLO DI TORRE CENTRALE DI UN NURAGHE. SITO ARCHEOLOGICO DI MONT’E PRAMA. PAUL WILLIAMS / ALAMY / ACI
gliari. Grazie alle ultime campagne di scavo sono stati recuperati altri cinquemila frammenti in pietra, ceramiche, oggetti in metallo e due nuove statue di pugilatori.
Un sito poco comune Le grandi sculture ritrovate a Mont’e Prama suggeriscono che quello fosse un luogo speciale: vi si celebravano infatti rituali che radunavano una comunità intera, vissuta nel ricordo di un passato mitico di cui il nuraghe era il simbolo più monumentale, celebrato dalle piccole riproduzioni in pietra. Le
UN PUZZLE ARCHEOLOGICO
LA RICOSTRUZIONE. L’ARCHEOLOGA ALBA SCANU IN UN MOMENTO DEL RESTAURO DELLE STATUE PRESSO LA LOCALITÀ DI LI PUNTI (SASSARI).
QUATTRO ANNI di disegni, foto-
statue, imponenti e maestose, potrebbero essere rappresentazione di antichi eroi, chiamati a protezione dei defunti e delle genti che abitavano intorno. Erano forse antenati di una storia mitizzata, invocati come protettori, simboli di una comunità che trovava forza e coesione nelle memorie del passato. Il loro sguardo impenetrabile, l’espressione fissa resa con poche incisioni, la ripetitività dei gesti e la fermezza delle posture non fa pensare alla riproduzione di personaggi reali ma richiama, piuttosto, alla sfera del sacro. Mont’e Prama,
inoltre, è la prova che gli artigiani nuragici, oltre che lavorare sulla statuaria in bronzo di piccole dimensioni, erano capaci di creare figure grandi in pietra con tecniche raffinate. Alte fino a due metri, tanto da essere chiamate dai primi scopritori “giganti”, le statue erano ricavate da un unico blocco di calcare o di arenaria, e scolpite a tutto tondo e senza sostegno. Le figure erano rese con dettagli precisi e schematici: viso triangolare, sopracciglia e naso a forma di “T”, occhi realizzati con due cerchielli concentrici, bocca con un’incisione drit-
MARCO ANSALONI
grafie, documentazione, pulizia e consolidamento, e infine la ricostruzione: Mont’e Prama, Prenda ‘e Zenia. Il progetto di restauro diretto da Antonietta Boninu (Soprintendenza archeologica di Sassari e Nuoro) e Roberto Nardi (Centro di conservazione archeologica di Roma) ed eseguito tra il 2007 e il 2011 al centro di Li Punti (Sassari), ha dato nuova vita ai 5mila frammenti di pietra. Il restauro, a cui si sono aggiunti i recenti ritrovamenti di altre sculture, ha permesso la ricostruzione di 16 pugilatori, cinque arcieri, tre guerrieri e 15 modellini di nuraghe oggi esposti al pubblico nei musei di Cagliari e Cabras. Il progetto ha conquistato il Premio Europeo per il Patrimonio culturale / Europa Nostra Awards nel 2015 e il Best in Heritage Conference nel 2016.
ta, capelli raccolti in trecce, e poi abbigliamento e accessori resi con pochi tratti. Grazie al lavoro di conservazione e restauro oggi possiamo ammirare le sculture in tutta la loro bellezza: un patrimonio culturale che appassiona archeologi, storici, studiosi e cittadini.
Misteri da risolvere Mai prima d’allora una scoperta archeologica aveva suscitato, in Sardegna, tanto interesse e tanta curiosità, mai le cronache di uno scavo erano state seguite con così grande passione. Il volto degli eroi di Mont’e Pra-
ma è divenuto simbolo della civiltà nuragica, talmente potente da soppiantare nell’immaginario collettivo il nuraghe stesso. Eppure molte sono le domande che ancora aspettano una risposta: chi erano e cosa rappresentavano con certezza le sculture? Forse le risposte arriveranno da nuovi scavi archeologici, o forse non arriveranno mai. Resta il fascino di un mistero unico lungo tremila anni. FRANCESCA MULAS ARCHEOLOGA E GIORNALISTA
Per saperne di più Sito web www.museocabras.it
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L I B R I A CURA DI MATTEO DALENA STORIA CONTEMPORANEA
Gori, il poeta dell’anarchia nemica degli stati
E Massimo Bucciantini
ADDIO LUGANO BELLA Einaudi 2020; 310 pp.; ¤ 30
rano considerati acerrimi nemici degli stati e definiti “malfattori” nel linguaggio del potere. Nell’ultimo scorcio del XIX secolo gli anarchici diedero del filo da torcere ai governi che si succedettero alla guida della nazione italiana. Erano giovani, intransigenti, predicavano «la pace fra gli oppressi, la guerra agli oppressori». Così recita un verso della ballata Addio Lugano bella (conosciuta anche come Il canto degli anarchici espul-
si) composta dall’anarchico, dirigente politico e poeta Pietro Gori all’interno delle carceri ticinesi, dove fu detenuto nel 1895 perché considerato un pericoloso agitatore. La canzone è incentrata sulla vicenda dell’espulsione dalla Svizzera di un gruppo di giovani sovversivi definiti «cavalieri erranti» e avvolti nei loro pesanti mantelli scuri. In tanti al pari di Pietro Gori finirono sotto la lente d’ingrandimento di magistrati, prefetti, que-
STORIA SOCIALE
Quando a Lampedusa si pescavano le spugne
N Giuseppe Surico
LAMPEDUSA: DALL’AGRICOLTURA, ALLA PESCA, AL TURISMO Firenze University Press 2020; 280 pp.; ¤ 29.90
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egli ultimi anni l’isola di Lampedusa è assurta alle cronache per gli sbarchi di persone migranti, in prevalenza nord-africane, in fuga da guerre e carestie. Allo stesso modo l’isola dell’arcipelago delle Pelagie è divenuta meta privilegiata di un turismo a detta di molti sempre più invasivo. Ma per secoli l’isolamento e la lentezza hanno dominato su questo lembo di terra a metà strada tra l’Europa e l’Africa. Ferdinando II di Borbone
credette di dare a Lampedusa una vocazione agricola attraverso l’insediamento di coloni-contadini, che arrivarono nel 1843. Ma per via delle avverse caratteristiche climatico-ambientali i coloni si resero conto che avrebbero raggiunto a malapena la sussistenza. Così in molti lasciarono l’isola. Fu all’indomani dell’Unità d’Italia che si cominciò a guardare al mare come fonte di sostentamento, non solo grazie al pesce, ma soprattutto attraverso la pesca
stori e antropologi criminali perché minacciavano di turbare la pacifica convivenza civile. Quello anarchico era considerato un vero e proprio “morbo” che colpiva «i refrattari ai valori attorno a cui la società borghese stava prendendo forma e che trovavano nelle idee di una rivoluzione sociale il loro nutrimento e la loro ragione di esistere». Con queste parole lo storico Massimo Bucciantini introduce il saggio in cui, proprio a partire dalla canzone di Gori, si propone di far luce su «un periodo segnato da una grave crisi economica e da forti conflitti sociali, da scioperi e scontri di piazza, da attentati terroristici e leggi liberticide».
delle spugne marine. Il primo ad avventurarsi nella raccolta delle spuonze (in dialetto locale), che venivano strappate dai fondali grazie a un sistema di corde collegate a una lunga asta di ferro, fu il pescatore trapanese Leonardo Augugliaro nel 1887. Fino agli anni sessanta del XX secolo la pesca delle spugne si rivelò un’attività redditizia che portò lavoro e benessere ma impoverì il territorio rendendolo dipendente dalla Sicilia per l’approvvigionamento di prodotti agricoli. Giuseppe Surico dedica un saggio alle tre principali vocazioni e fonti di sostentamento dell’isola – agricoltura, pesca e turismo – avvicendatesi nell’arco di due secoli.
LETTERATURA E STORIA
La disastrata vita di Edgar Allan Poe
V Teresa Campi
LA VERA STORIA DI EDGAR ALLAN POE Odoya, 2020; 368 pp.; ¤ 24
isse solo quarant’anni in uno stillicidio di malattia, vizio e morte. Nonostante la breve parabola di vita, Edgar Allan Poe riuscì ad affermare il proprio genio creativo, infondendo nei suoi scritti orrore e mal di vivere. Lo scrittore statunitense si dibatteva in un vortice di alcolismo, depressione e manie di persecuzione. Le stesse cause della sua morte, avvenuta in ospedale a Baltimora nel 1849 dopo essere stato trovato in stra-
da in stato delirante, non sono state mai chiarite. «E poi a chi interessano le sorti di un povero diavolo?» si chiede la scrittrice Teresa Campi, che con una prosa romanzesca e dalle tinte noir si approccia alla complessa figura di Edgar Allan Poe. Visse da emarginato e sembra che in tutta la sua vita guadagnò solo qualche centinaio di dollari ma, spiega l’autrice, «questo non gli impedì di scrivere capolavori che hanno fondato un genere; fu povero, ma mai asservito
LETTERATURA E STORIA
Wilde a Napoli per amore e per cultura
N Renato Miracco
OSCAR WILDE. IL SOGNO ITALIANO Colonnese, 2020; 170 pp.; ¤ 35
ell’inverno del 1897 il rigido clima del nord Europa stava mettendo a dura prova il fragile equilibrio psicofisico di Oscar Wilde. Lo scrittore e poeta era reduce da due anni di prigione a seguito di diversi scandali e di una condanna per aver commesso «atti di grave indecenza», per via dell’abitudine di sfogare i propri istinti nella prostituzione maschile. Fu allora che Wilde annunciò in una lettera al vecchio amico Carlos
Blacker l’intenzione di trasferirsi nel sud d’Italia per allontanare la depressione che l’aveva portato sull’orlo del suicidio. Tuttavia l’amico era scettico: pensava infatti che Wilde si sarebbe recato in Italia solo per assecondare i propri appetiti sessuali e dedicarsi ad «azioni vomitose». Wilde rispondeva indignato: «Dal tuo punto di vista hai davvero torto sul perché voglio andarci […] Non è la perversità ma l’infelicità che mi fa andare verso il Sud». Rena-
alle leggi del mercato, e questo gli permise di essere un intellettuale libero e di gettare le basi della critica letteraria contemporanea». Campi ne segue l’evoluzione letteraria, dalla poesia alla prosa, concentrandosi sull’importanza di The murders of the rue Morgue (I delitti della rue Morgue, 1841), racconti che secondo l’autrice segnano la svolta di Edgar Allan Poe verso il nuovo genere della detective story. Campi chiude la biografia con una lunga lettera inedita inviata pochi mesi prima di morire alla zia Maria Clemm, detta “Muddy”, amata come una madre: «Adesso, madre adorata, sta su, perché grazie a Dio stanno arrivando per noi dei giorni migliori».
to Miracco esplora le motivazioni che spinsero il poeta e scrittore irlandese fino a Napoli. Il pensiero di Blacker era ovviamente riduttivo. Wilde trovò sicuramente un luogo dove poter vivere liberamente la propria sessualità e apprezzare i cosiddetti “femminielli”, figure maschili “che vivono e sentono come donne”, considerate a Napoli un genere quasi “sacro”. Allo stesso tempo lo scrittore ebbe modo di confrontarsi con la mitologia e la cultura ellenistica, la storia e la cultura partenopea e trovare linfa e ispirazione per concludere La ballata del carcere di Reading, opera incentrata sulla violenza carceraria e la pena di morte, che sarebbe stata pubblicata nel 1898. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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L I B R I A CURA DI MATTEO DALENA STORIA CONTEMPORANEA
La penna della marchesa contro ogni convenzione
D Maria Teresa Cometto
LA MARCHESA COLOMBI Solferino, 2020; 192 pp.; ¤ 16
al 1875 cominciò a firmare i propri articoli su Il giornale delle donne con lo pseudonimo di marchesa Colombi, anche se nelle sue vene non scorreva il cosiddetto “sangue blu”. Maria Antonietta Torriani si “rifugiava” dietro un titolo nobiliare inventato che, in un mondo a misura di maschio, l’avrebbe protetta dagli attacchi dei benpensanti. Maria Antonietta non ne faceva mistero, anzi dichiarò pubblicamente di aver preso lo
pseudonimo a prestito dalla commedia La satira e Parini di Paolo Ferrari. Ma cosa c’era di così controcorrente nei suoi scritti? Tutta la verve polemica della scrittrice femminista entrata presto in contrasto con un’altra collaboratrice dello stesso giornale, che si celava dietro il nome d’arte di “Neera”, secondo cui il posto della donna era «accanto al focolare» e qualora malauguratamente il marito le avesse trovato un impiego si sarebbe trovato «una moglie che
MICROSTORIA
Donne e ricerca nella Roma papalina
Q Federica Favino
DONNE E SCIENZA NELLA ROMA DELL’OTTOCENTO Viella, 2020; 288 pp.; ¤ 29
126 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
ui si dimostra che la donna non deve darsi allo studio delle scienze». Così sta scritto nell’articolo anonimo “L’educazione degli uomini e delle donne” pubblicato nel 1854 su La Civiltà Cattolica, periodico intransigente che era espressione delle direttive del papato. Qui viene riassunta in maniera efficace la posizione prevalente all’epoca sul sapere femminile. Il modello della cosiddetta femme savante, capace non solo di “consumare”
sapere ma anche di “produrlo” era fortemente osteggiato. La ricerca per le donne era lecita solo all’interno del chiostro, dove avrebbero messo la loro cultura al servizio dell’insegnamento e del governo dell’istituzione che le ospitava. Al contempo la religione le avrebbe “protette” dal rischio d’idee eterodosse. Questo schema viene messo in discussione dalle vicende professionali dell’astronoma Caterina Scarpellini (1808-1873) e della botanica Elisabetta
torna dall’ufficio zotica, imbronciata, nervosa e sporca d’inchiostro». Nella Milano della seconda metà del XIX secolo Torriani sosteneva l’esatto contrario, esortando più volte la collega: «Non cerchiamo di scoraggiare la donna povera dal lavoro». La giornalista Maria Teresa Cometto dedica un appassionante saggio a una donna di umili origini, prima giornalista donna del Corriere della Sera, separata e madre mancata, scandalosa e aspirante suicida. Secondo l’autrice, quella di Colombi era una penna pungente, le cui «idee sulla donna, il matrimonio e le convenzioni sociali, e la sua vita originale suonano troppo fuori dal coro nell’Italia del 1920 e per parecchi altri decenni».
Fiorini (1799-1879), cui la storica Federica Favino dedica un saggio incentrato sul rapporto tra donne e scienza nella Roma ottocentesca. Secondo la storica, le due donne seguono percorsi professionali diversi ma efficaci: «Mentre quella di Scarpellini è una strategia giocata tutta in opposizione al mondo accademico maschile, che minaccia a lungo il suo spazio, un posto informale di aiuto custode presso l’Osservatorio Capitolino […] Fiorini invece, assecondando le convenzioni sociali che la volevano esclusa dagli esercizi pubblici e mettendo a frutto la sua influente rete di relazioni sociali, finirà per venire ascritta […] all’Accademia Pontificia dei Nuovi Lincei».
*La collezione è composta da 60 uscite. Prezzo della prima uscita € 2,99. Prezzo della seconda uscita € 9,99. Prezzo delle uscite successive € 9,99 (salvo variazione dell’aliquota fiscale). L’Editore si riserva il diritto di variare la sequenza delle uscite dell’opera e /o i prodotti allegati. Qualsiasi variazione sarà comunicata nel rispetto delle norme vigenti previste dal Codice del Consumo (D.lgs 206/2005). © 2020 RBA ITALIA S.r.l.
STORIE SENZA TEMPO Audacemente classiche Le opere che hanno rivoluzionato l’universo femminile e che ancora oggi ci fanno sognare
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M O S T R E A CURA DI MATTEO DALENA ARTE ANTICA
Gli etruschi in Campania
L
o storico greco Polibio affermava che chi vuol conoscere la potenza degli etruschi non deve riferirsi al territorio che possiedono, ma alle pianure. Erano i dominatori delle fertili valli fluviali, ne sfruttavano le risorse naturali e si muovevano con destrezza tra i guadi che caratterizzavano il paesaggio. Il lascito della cultura etrusca in Campania (X-VIII secolo a.C.) è ingente. Le necropoli di Carinaro, Gricignano di Aversa, Capua, Sala Consilina e Pontecagnano, appartenenti alle culture “protovillanoviana” e “villanoviana”, praticavano l’incinerazione dei defunti e hanno permesso lo studio dell’aldilà etrusco. Il calesse con figura antropomorfa, appartenente al corredo della tomba LXII
LASTRA DI RIVESTIMENTO. Terracotta, lavorazione a matrice, VI sec. a.C. Velletri,
Tempio delle Stimmate, Museo archeologico nazionale, Napoli © MIBACT.
di Gricignano, è trainato da una coppia di cavalli e guidato da una figura maschile. Modellini di carri e calessi erano rappresentativi dell’alta estrazione sociale del defunto, ma alludevano anche al transito nell’aldilà. Dal rogo funebre di un aristocratico di Cuma proviene una sorta di fermaglio a piccole spranghe in oro e
argento parte del corredo della tomba Artiaco 104. Le quattro sfingi ivi rappresentate testimoniano il cosiddetto “orientalizzante antico”, cioè l’adozione di modelli che si richiamavano alle mode delle aristocrazie orientali e ai prototipi eroici dell’epica omerica. Attraverso seicento reperti la mostra curata da Paolo
Giulierini e Valentino Nizzo si propone di cogliere la presenza etrusca nella Campania centrale, luogo di contatto tra etruschi, italici e greci. GLI ETRUSCHI E IL MANN Museo Archeologico Nazionale, Napoli, fino al 31 maggio 2021 museoarcheologiconapoli.it
ARTE CONTEMPORANEA
I piemontesi in Sardegna
L CIA MANNA, Maternità
sarda. Anni trenta del XX sec. Terraglia forte formata a colaggio con interventi all’aerografo, h 25 cm. Cagliari, collezione privata.
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a Sardegna incontrata nel 1720, data in cui l’isola divenne sabauda, era un territorio ignoto, arcaico, dalla fisionomia imprecisata. Nelle sue grandi tele il pittore Giovanni M. Graneri rappresentò Cagliari mischiando l’iconografia di Costantinopoli, Genova e Napoli, aumentando così l’aura di mistero. Quando nel 1798 la corte sabauda si trasferì in Sardegna, perché a Torino era stata proclamata la Repubblica, subentrò
l’esigenza di cartografare il territorio. A questo scopo servirono le tavole incluse nel volume Voyage en Sardaigne (1826) di Alberto Ferrero della Marmora. Da allora sia le relazioni tra i due territori sia la narrazione del loro controverso rapporto furono incentrare sul dualismo tra “dominatori” e “dominati”. Attraverso una prospettiva postcoloniale il MAN di Nuoro fa un’indagine storiografica e culturale delle relazioni dal 1720 agli
anni sessanta del XIX secolo. La prospettiva è quella dell’acculturazione e dell’influenza reciproca che, secondo i curatori della mostra, giocarono un ruolo fondamentale nella costituzione del Regno d’Italia. IL REGNO SEGRETO. SARDEGNA-PIEMONTE: UNA VISIONE POSTCOLONIALE MAN, Museo d’arte Provincia di Nuoro. Fino al 15 novembre 2020 museoman.it
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Prossimo numero LA LEGGENDA DI ANGKOR SITUATA nell’odierna
GETTY IMAGES
Cambogia, la capitale dell’impero khmer fu per secoli una città cosmopolita che accolse visitatori e mercanti. Fortemente influenzato dalla cultura indiana, l’impero si estendeva su gran parte del sud-est asiatico continentale e raggiunse il suo apice nel XII secolo. Dopo un lungo periodo di oblio, a partire da metà ottocento la sua capitale è tornata alla ribalta grazie ai viaggiatori europei.
LE VENERI DELL’ARTE PALEOLITICA QUESTE PICCOLE figure femminili
create più di 20mila anni fa sono considerate una delle più antiche manifestazioni artistiche della storia dell’umanità. Gli studiosi ritengono che tali statuette, dai corpi nudi e dalle caratteristiche sessuali sovradimensionate, ritrovate in siti paleolitici di tutta Europa, incarnassero delle divinità primordiali associate alla fertilità. ERICH LESSING / ALBUM
Tebe, la grande capitale egizia Durante il Nuovo regno la città accolse la corte dei faraoni e la potente casta sacerdotale di Amon.
La peste di Atene Nel 430 a.C. la capitale attica fu devastata da un’epidemia che sterminò un terzo della popolazione.
Nerone, il benamato Cercò sempre di ottenere il favore del popolo offrendo spettacoli di cui spesso era il protagonista.
El Cid Rodrigo Díaz conosceva alla perfezione tutte le strategie di guerra della sua epoca, l’XI secolo.
I pirati dell’isola di Tortuga Nel seicento un’isola davanti alle coste dell’attuale Haiti diventò un covo di pirati, che depredavano navi e città.
A B B O N AT I A L L A R I V I S TA
S T O R I C A N AT I O N A L G E O G R A P H I C D I G I TA L
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VAllEttA, malta
Malta, Gozo e Comino
Un arcipelago che abbraccia le diverse culture del Mediterraneo a poco più di un’ora di volo dall’Italia. 7000 anni di storia e 3 siti Patrimonio dell’Umanità UNESCO tra i quali la capitale Valletta.