Storica National Geographic - maggio 2021

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LA MORTE DELLA PULZELLA D’ORLÉANS IL PITTORE DEGLI ASBURGO

DONNE NELL’ANTICA GRECIA

AMENOFI II

LA TOMBA DELLE MUMMIE NASCOSTE

- esce il 17/04/2021 - poste italiane s.p.a spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n° 46) 1 comma 1 - lo/mi. germania 12 € - svizzera c. ticino 10,20 chf - svizzera 10,50 chf - belgio 9,50 €

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VELÁZQUEZ

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10147

periodicità mensile

GIOVANNA D’ARCO

N. 147 • MAGGIO 2021 • 4,95 E

storicang.it

PLINIO IL VECCHIO

IL PRIMO NATURALISTA

SCHIAVITÙ NEGLI USA




IN

A L CO I ED

Gli speciali di Storica National Geographic in edicola questo mese

Speciale Storica Archeologia

LE CITTÀ IBERICHE DELL’IMPERO ROMANO Tarragona, base militare dell’impero romano, e Italica, la prima colonia ispanica, ricostruite in 3d. In edicola dal 20 aprile. Prezzo ¤9,95.

Speciale Storica Mitologia

MINOTAURO

Il mito del leggendario mostro metà uomo e metà toro e del labirinto sull’isola di Creta in cui era rinchiuso. In edicola dal 9 aprile. Prezzo ¤9,95.

Dossier

I MISTERI DELLA STORIA Luoghi leggendari e civiltà perdute, eroi e armi mitiche. Uno speciale imperdibile sui misteri della storia. In edicola dal 29 aprile. Prezzo ¤9,95.


UN’ASTA DI SCHIAVI A RICHMOND, IN VIRGINIA, IL PRINCIPALE MERCATO DI SCHIAVI DEGLI STATI UNITI D’AMERICA.

28 La tomba di Amenofi II Nel 1898 Victor Loret scoprì nella Valle dei Re la mummia intatta di Amenofi II insieme a diverse mummie reali. DI MAITE MASCORT

42 Le donne nella Grecia classica Sottomesse all’autorità del marito o del padre, le donne avevano un ruolo secondario nella società greca. DI MARÍA JOSÉ NOAIN

54 Plinio il Vecchio, il primo naturalista Magistrato e militare romano del I secolo d.C. Plinio il Vecchio raccontò il mondo nella sua Naturalis historia, un’opera imprescindibile fino alla fine del Medioevo. DI IRENE PAJÓN LEYRA

68 Gli ultimi giorni di Giovanna d’Arco Il processo alla Pulzella d’Orléans, bruciata sul rogo come eretica, apostata e idolatra seicento anni fa. DI JOSEP MARIA CASALS

84 Velázquez, il pittore degli Asburgo Per oltre quarant’anni Diego Velázquez ritrasse membri della famiglia reale spagnola, così come personaggi illustri e modesti e buffoni di corte. DI JESÚS FÉLIX PASCUAL MOLINA

104 USA, terra di schiavi Un racconto in prima persona delle condizioni di vita e dei castighi ai quali erano sottomessi gli schiavi delle piantagioni di cotone. DI CARME MANUEL

7 ATTUALITÀ 10 PERSONAGGI STRAORDINARI Sabbatai Zevi Un ebreo di Smirne si autoproclamò messia nel 1666 ma dopo essere stato arrestato si convertì all’islam.

14 EVENTO STORICO Crystal Palace L’edificio che accolse la prima Esposizione universale.

20 VITA QUOTIDIANA Carri romani Nell’Urbe esisteva una gran quantità di veicoli pensati per ogni occasione.

24 DATO STORICO La nascita del circo Numeri di mimo e acrobazie equestri in uno spazio circolare.

122 GRANDI SCOPERTE La domus del Mito Nel 1999, a nord-ovest delle Marche, vide la luce un insieme di meravigliosi mosaici romani.

126 FOTO DEL MESE 128 LIBRI E MOSTRE

ANELLO DI AMENOFI II. MUSEO DEL LOUVRE, PARIGI. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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Licenciataria de NATIONAL GEOGRAPHIC SOCIETY, NATIONAL GEOGRAPHIC TELEVISION

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PLINIO IL VECCHIO IL PRIMO NATURALISTA

SCHIAVITÙ NEGLI USA

Pubblicazione periodica mensile - Anno XIII - n. 147

IL PITTORE DEGLI ASBURGO

DONNE NELL’ANTICA GRECIA AMENOFI II

LA TOMBA DELLE MUMMIE NASCOSTE

GIOVANNA D’ARCO

LA MORTE DELLA PULZELLA D’ORLÉANS

MINIATURA DI GIOVANNA D’ARCO. MANOSCRITTO DELLA SECONDA METÀ DEL XV SECOLO. FOTO: RMN-GRAND PALAIS

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RICARDO RODRIGO

VELÁZQUEZ

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Errata corrige • Storica 145 (marzo 2021): l’immagine a pagina 27, erroneamente attribuita a Pietro Longhi, in realtà è di autore ignoto ma parzialmente attribuibile a Francesco Fontebasso o a Pietro Antonio Novelli.

6 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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RAJESH S.V.

AT T UA L I T À

RAJESH S.V.

NELLE NECROPOLI di Juna Khatiya e Dhaneti sono presenti delle sepolture costituite da una copertura di lunghi blocchi di arenaria al cui interno sono stati rinvenuti corredi XXXXXXXXXXXXX X XXX XX XXXXX funerari di grande valore. Questi XXXXXXXXX XXXXXX XXXXX XXXXX braccialetti di conchiglie XXXXXX XXX provengono XXX XXXXX XXXXXX XXX XXX XXXXX XXXX da una tomba individuale.

GOOGLE WMS

TRA INDIA E PAKISTAN

Le origini della civiltà dell’Indo Un gruppo di ricercatori sta studiando la regione indiana del Kutch per approfondire le origini della cultura dell’Indo

LA MAPPA in alto mostra il distretto del Kutch e indica l’esatta posizione geografica della necropoli di Juna (antica) Khatiya. Dal 2019 in questo sito sono state scoperte 50 fosse sepolcrali. Entro il 2021 il team di ricercatori prevede di riuscire a scavare un’altra area del cimitero e di rinvenire altri reperti.

I

l distretto del Kutch, nello stato indiano del Gujarat fu particolarmente importante per lo sviluppo della civiltà della valle dell’Indo. Tra il 3300 e il 1300 a.C. questa si diffuse su un’area di oltre un milione di chilometri quadrati compresa tra il Pakistan, l’Afghanistan e l’India nord-occidentale. Il Progetto archeologico del Kutch è nato con l’obiettivo di studiare la zona e gettare nuova luce sui fattori sociali ed ecologici

che condussero all’integrazione della regione nell’orbita culturale della civiltà dell’Indo. Vi partecipano l’Università del Kerala, l’Istituto catalano di archeologia classica e l’IMF, un’istituzione spagnola per la ricerca nel campo delle discipline umanistiche. Le prime scoperte riguardo a questa misteriosa e antica civiltà furono realizzate nel 1857 e poi negli anni venti del novecento, quando vennero portate alla luce le rovine di Harappa

e di Mohenjo-daro, due siti archeologici ubicati nel Pakistan nord-orientale.

Studio degli spazi La ricerca mira ad arricchire le attuali conoscenze sulla cultura dell’Indo con nuovi approcci incentrati sullo studio degli spazi domestici e degli ambienti culturali. Tra il 2021 e il 2023 è previsto anche l’utilizzo d’immagini satellitari ad alta risoluzione per studiare il paesaggio e rilevare nuove aree archeologiche. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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AT T UA L I T À

TOMBA INFANTILE di epoca

romana ritrovata presso l’aeroporto di Clermont-Ferrand. Si possono vedere i resti dello scheletro del bambino, le ossa di maiale e i recipienti che costituivano il corredo funebre.

© DENIS GLIKSMAN, INRAP

8 HISTORIA NATIONAL GEOGRAPHIC


GALLIA ROMANA

Rinvenuta la tomba di un bambino gallo-romano

U

na squadra di archeologi francesi dell’INRAP (Istituto nazionale di ricerca archeologica preventiva) diretta da Laurence Lautier ha realizzato una scoperta sorprendente. Durante i lavori di ampliamento dell’aeroporto di

Clermont-Ferrand, nella cittadina francese di Aulnat, è emersa la tomba di un bambino di un anno risalente al I secolo d.C., all’epoca della dominazione romana della Gallia. Il fanciullo fu sepolto in una bara di legno di 80 centimetri di lunghezza, di cui si conservano ancora i

chiodi usati per la rivettatura. Attorno al piccolo fu disposto un corredo funebre costituito da una ventina di oggetti, tra cui dei vasi di terracotta in miniatura e dei recipienti di vetro, oltre a mezzo maiale, tre prosciutti, altri tagli di carne suina e due galline senza testa. Nella

tomba sono stati trovati anche un anello di ferro e uno spillo di rame. E, cosa più interessante, un cagnolino con un collare composto da ornamenti di bronzo e da una campanella. Tutto ciò indica il rango privilegiato a cui apparteneva la famiglia dello sfortunato fanciullo.


PERSONAGGI STRAORDINARI

Sabbatai Zevi, il messia che si convertì all’islam Dopo essersi proclamato messia, l’ebreo di Smirne suscitò un’ondata di entusiasmo nella comunità giudaica. Imprigionato dal sultano nel 1666, abiurò per salvarsi

La carriera di un illuminato 1626 Sabbatai Zevi, chiamato anche Shabetai Tzvi, nasce a Smirne, una città greca appartenente all’impero ottomano.

1648 Spinto dalle sue fantasticherie cabalistiche, Zevi si presenta a Smirne come il messia ebraico.

1651 In quest’anno (o, secondo altri studiosi, nel 1654), viene espulso da Smirne e vaga per anni tra la Grecia, l’Egitto e la Palestina.

1666 Arrestato a Costantinopoli, è costretto a scegliere tra la conversione all’islam o la morte.

L’

arrivo di un messia è un’idea costante nel giudaismo. In tempi di pericolo gli ebrei si affidavano alla promessa divina di un re “unto” dal Signore (il significato del termine “messia”) che sarebbe venuto per liberare il suo popolo dall’oppressione e ripristinarne l’antica gloria. Tale credenza fu all’origine delle vicende di vari personaggi carismatici che si presentarono come l’atteso redentore. All’inizio del XVI secolo e per tutto il secolo successivo le comunità ebraiche furono pervase da un’attesa messianica. Le guerre tra cattolici e protestanti, il sacco di Roma e soprattutto lo scontro tra Carlo V e l’impero ottomano sembravano un’anticipazione delle battaglie tra Gog e Magog che, secondo il libro dell’Apocalisse, avrebbero preceduto la fine del mondo. I cabalisti, gli studiosi ebrei che cercavano nella Bibbia significati mistici occulti, indicarono diverse date per il possibile arrivo del messia, come per esempio il 1648, l’anno menzionato nello Zohar, la principale opera cabalistica. A completare il

1676

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Il Talmud e la cabala Il giovane Sabbatai frequentò la yeshiva (scuola talmudica) della sua città natale, Smirne, ma invece di concentrarsi sull’apprendimento e sullo studio dei testi della Torah e del Talmud si dedicò piuttosto al misticismo della cabala, all’ascesi e alla mortificazione del corpo come forma per comunicare con Dio. Secondo i cabalisti ciò gli permetteva di leggere il futuro e di compiere miracoli. I saggi ebrei sapevano da tempo che la cabala poteva rendere pazzi gli incauti: «Chi specula sulle seguenti quattro cose è meglio che non sia nato: ciò che è sopra, ciò che è sotto, ciò che era prima del tempo e ciò che sarà dopo.

Zevi concentrò il suo interesse sulla cabala, l’ascetismo e la mortificazione del corpo AURIMAGES

Dopo la conversione adotta il nome di Aziz Mehmed. Muore a Dulcigno, in Montenegro.

quadro mancava solo un elemento, ovvero l’effettiva apparizione di questo messia. Negli anni emersero vari pretendenti al titolo, tra i quali ebbe un ruolo di primo piano Sabbatai Zevi. A Zevi non mancavano i segni della predestinazione: secondo il calendario ebraico, infatti, era nato il nono giorno del mese di ab, data in cui i due templi di Gerusalemme erano stati distrutti, il primo da Nabucodonosor nel 586 a.C. e il secondo da Tito nel 70 d.C.

MANOSCRITTO CABALISTICO. XVII SECOLO. BODLEIAN LIBRARY, OXFORD.


IL MESSIA ENTRA NELLA SUA CITTÀ UNA VOLTA TORNATO a Smirne nel 1648, Sabbatai Zevi «cominciò a presentarsi subito come un sovrano, vestendosi con lussuosi abiti di seta e d’oro. Impugnava una specie di scettro e girava per la città costantemente scortato da un gran numero di ebrei, alcuni dei quali, per onorarlo, stendevano a terra dei tappeti al suo passaggio perché li calpestasse». Ma attorno alla sua figura sorsero anche altre leggende. A Istanbul si disse che poco prima della conversione il suo volto iniziò a emanare una luce accecante e sul suo capo apparve una corona di fuoco. RITRATTO DI SABBATAI ZEVI COME MESSIA, VESTITO CON ABITI REGALI. INCISIONE A COLORI. 1670. AKG / ALBUM

Per chiunque non rispetti la gloria del suo Creatore, sarebbe meglio non essere venuto al mondo» (Mishnah, Hagigah, 2:1). Ma Sabbatai intraprese senza esitazioni questo percorso pericoloso. Oltre a studiare la cabala, faceva il bagno in mare d’inverno, digiunava frequentemente e s’imponeva altre mortificazioni che finirono per comprometterne l’equilibrio mentale. E così, una volta arrivato il 1648, il fervore messianico e le sue stesse fantasticherie cabalistiche lo condussero a presentarsi come l’atteso messia davanti a un piccolo gruppo di segua-

ci di Smirne. Per annunciarsi scelse di pronunciare il nome di Dio, una prerogativa che all’epoca dell’ormai scomparso tempio di Gerusalemme spettava solo al sommo sacerdote nel giorno dello Yom Kippur, la sacra festa dell’espiazione. Da quel momento in poi l’attività di Sabbatai divenne itinerante. Fu a Smirne, a Costantinopoli, a Tessalonica, ad Atene, ad Alessandria e al Cairo, e in questi luoghi riuscì ad affascinare molti ebrei grazie alla sua miscela di ascetismo estremo, devozione esibizionista e innocui riti dal carattere magico.

Dopo il 1648 una seconda data si profilava all’orizzonte, il 1666, presunto momento della redenzione degli ebrei e del loro ritorno a Gerusalemme. All’avvicinarsi di quell’anno Sabbatai Zevi si diresse verso l’antica capitale ebraica. Lì avrebbe trovato terreno fertile per il suo messaggio messianico, soprattutto in Palestina, una regione dell’impero ottomano che non godeva della stessa prosperità di altre. Inoltre la violenza antiebraica che imperversava nell’Europa orientale dell’epoca spinse molti ebrei europei a vendere le rispettive proprietà e a STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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PERSONAGGI STRAORDINARI

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SEGUACI DI SABBATAI ZEVI A TESSALONICA. Questa incisione mostra la reazione degli ebrei di Tessalonica all’arrivo del presunto messia Sabbatai Zevi nel 1666. I rabbini ordinarono penitenze e digiuni, ma l’ansia purificatrice di alcuni andò ben oltre: ci fu chi si gettò nell’acqua gelida, chi si fece fustigare di sua spontanea volontà, chi si seppellì in giardino e anche chi si rovesciò cera liquida sulle spalle.

recarsi a Gerusalemme per condividere la redenzione. Un osservatore inglese commentò così l’eccitazione che prendeva piede nel mondo ebraico: «Era strano vedere come la fantasia metteva radici, e quanto rapidamente le notizie su Sabbatai e la sua dottrina si propagavano in ogni luogo dove vivevano turchi ed ebrei […] Questi

ultimi pensavano solo a sistemare gli affari in sospeso e a prepararsi ad andare a Gerusalemme con la famiglia […] Volevano ristabilirsi nella Terra promessa, per la maggiore grandezza, gloria, sapienza e dottrina del Messia». Il successo di Sabbatai si spiega anche grazie alla diffusione del suo messaggio da parte di alcune voci autore-

L’ALTRO MESSIA DOPO AVER CONOSCIUTO i seguaci di Sabbatai nei Balcani, l’ebreo polacco Jacob Frank si proclamò messia nel 1751 e fondò una setta eretica che cercava la purificazione attraverso il peccato, grazie al quale si arrivava alla salvezza. In seguito al clamore generato da alcuni scandali, Frank cercò la protezione della Chiesa. INCISIONE RAFFIGURANTE JACOB FRANK (1726-1791). BRID

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GE

voli come il teologo Nathan di Gaza, che alimentò la speranza che Sabbatai potesse un giorno occupare il trono del sultano; o il predicatore Abraham Yachini, che secondo alcuni era il vero autore di un falso manoscritto antico che annunciava l’arrivo di Sabbatai. Il testo, noto come La grande sapienza di Salomone, recita: «Io, Abramo, sono stato quarant’anni chiuso in una grotta, stupito che non arrivasse il tempo dei miracoli. Allora udii una voce dal cielo che diceva: “Nell’anno 5386 [1626] nascerà un figlio a Mordecai Tzvi e il suo nome sarà Shabetai. Egli umilierà il grande drago […] Egli, il vero Messia, siederà sul Mio trono”». Ma Sabbatai incontrò anche l’opposizione della maggioranza dei rabbini delle principali sinagoghe d’Oriente, specialmente I AC quelle di Gerusalemme. Da un lato N/ MA


GLI ULTIMI SABBATIANI ALCUNI EBREI di Tessalonica si convertirono all’islam seguendo l’esempio di Sabbatai Zevi, che dopo essere diventato musulmano soggiornò per un periodo in città. I convertiti, chiamati ma’min (credenti), svilupparono una combinazione d’islam ed ebraismo. Andavano alla moschea, facevano il pellegrinaggio alla Mecca e celebravano il Ramadan, ma allo stesso tempo le loro preghiere nascondevano messaggi che alludevano al messia. Per generazioni ricordarono la loro origine ebraica e continuarono a usare tra loro la lingua giudaico-spagnola, facendone la base della propria identità. Nel 1900 erano all’incirca 10mila.

perché le sue manifestazioni pubbliche erano blasfeme agli occhi del giudaismo normativo, che si “stracciava le vesti” al sentire pronunciare il nome proibito di Dio. Dall’altro perché i rabbini fungevano da tramite tra gli ebrei e le autorità turche: contrariamente a quanto si potrebbe pensare, per la comunità giudaica c’erano molti posti peggiori dell’impero ottomano in cui vivere. Alla luce dei precedenti delle espulsioni dalla Spagna e dal Portogallo e dei recenti pogrom in Europa orientale, il sultano era un male minore, e invocarne il rovesciamento non sembrava una buona idea. All’inizio del 1666 Sabbatai si recò di nuovo a Costantinopoli, dove fu arrestato e incarcerato. Stava diventando un elemento pericoloso, e la Sublime Porta – come veniva chiamato il governo ottomano – decise di porre fine alla farsa. Il presunto messia fu portato al cospetto del sultano e qui gli

ALAMY / ACI

NUOVA MOSCHEA DI SALONICCO ERETTA DALLA COMUNITÀ MA’MIN NEL 1902.

fu offerta la possibilità di scegliere tra la conversione all’islam o la condanna a morte. E lui si convertì.

Dimenticato da tutti Alla presenza del sultano, Sabbatai si spogliò dei suoi abiti ebraici e indossò un turbante. Soddisfatto, il sovrano gli concesse una carica ufficiale e un lauto stipendio. Il convertito, da parte sua, prese il nome di Aziz Mehmed Effendi. Pochi giorni dopo scrisse una lettera alla sua città natale, Smirne, in cui affermava: «Dio mi ha fatto diventare ismailita [musulmano]; me lo ha ordinato, e così ho fatto». Probabilmente Sabbatai si salvò dalla morte perché gli ottomani avevano presente la vicenda di Gesù di Nazareth: uccidere chi era creduto un messia ne avrebbe fatto un martire, e la storia aveva già mostrato molte volte come ciò potesse ritorcersi contro il carnefice. Sottoporlo all’umiliazione

della conversione, invece, fece crollare la fama di cui godeva presso la maggior parte degli ebrei. Ciononostante, alcuni dei suoi seguaci interpretarono questa conversione come un passo necessario al compimento della sua opera messianica e, per seguire il suo esempio, si proclamarono anch’essi musulmani, pur mantenendo segretamente la loro fede ebraica. Aziz Mehmed Effendi morì in esilio in Montenegro nel 1676, ma i sabbatiani sopravvissero fino al XVIII secolo e oltre. JAVIER ALONSO BIBLISTA. IE UNIVERSITY (MADRID)

Per saperne di più

SAGGI

Salonicco, città di fantasmi. Cristiani, musulmani ed ebrei tra il 1430 e il 1950 Mark Mazower. Crítica, Barcellona, 2009. ROMANZO

Satana a Goray Isaac Bashevis Singer. Adelphi, Milano, 2018.

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Il Crystal Palace stupisce il mondo La prima Esposizione universale si svolse nel 1851 a Londra, all’interno di un edificio che, per le dimensioni e l’uso di ferro e vetro, era una meraviglia dell’ingegneria

N

el 1851, dal primo maggio al 15 ottobre, si celebrò a Londra la Grande esposizione delle opere dell’industria di tutte le nazioni, considerata la prima Esposizione universale. In precedenza, a partire dal 1798, si erano già tenute in Francia undici grandi esposizioni industriali, ma sempre a carattere nazionale. Anche in Inghilterra dopo il 1847 c’erano state tre fiere nazionali di prodotti industriali. A dare l’impulso necessario alla rea-

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lizzazione di una manifestazione di carattere più ampio furono alcuni fattori come la natura liberale dell’economia inglese, che non poneva ostacoli all’importazione di prodotti, e l’interesse del principe Alberto – marito della regina Vittoria – e di sir Henry Cole – uno scrittore, progettista e artista che voleva promuovere il legame tra arte e industria. Per ospitare l’evento le autorità decisero di costruire a Hyde Park un nuovo edificio capace di stupire il mondo e di offrire un’immagine

della modernità e della superiorità industriale inglese. A tale scopo, nel 1850 fu bandito un concorso d’idee. I membri della commissione presero in esame 245 proposte. Tre di queste – quella del francese Hector Horeau e quelle dei britannici Richard e Thomas Turner e J. B. Bunning, l’architetto della Borsa del carbone di Londra – prevedevano l’uso di materiali quali ferro e vetro. Ma il comitato incaricato di proclamare il vincitore concluse che nessuno dei progetti era all’altezza delle aspetta-


EVENTO STORICO IL CRYSTAL PALACE durante

l’Esposizione universale del 1851. In primo piano i partecipanti alla mostra provenienti da diversi Paesi.

tive. Si decise allora di non procedere ad alcuna assegnazione. I commissari valutarono di proporre essi stessi un progetto alternativo per l’edificio.

Da giardiniere ad architetto Fu allora che Joseph Paxton presentò un progetto al principe Alberto e a Robert Stephenson, membro del comitato, e lo pubblicò su The Illustrated London News. I suoi disegni suscitarono un tale interesse che il comitato decise di affidargli la costruzione della sede dell’esposizione. Joseph Paxton non

era un architetto ma un giardiniere. Proprio grazie all’esercizio della sua professione era diventato esperto di costruzioni di grandi strutture in vetro e ferro che fungevano da serre o giardini d’inverno. Tra le sue creazioni spiccava la serra di Chatsworth (1836-1840). Per la progettazione del nuovo edificio poté contare sulla collaborazione di due ingegneri: Charles Heard Wild e Charles Fox. Quest’ultimo era, come Paxton, un uomo legato all’industria. Forse per questo entrambi affrontarono il disegno dell’edificio senza pregiudizi formali, prescindendo dai gusti del momento e lasciandosi guidare solo

Paxton progettò il Crystal Palace basandosi sulla propria esperienza nella costruzione di serre JOSEPH PAXTON (1801-1865), GIARDINIERE, ARCHITETTO E POLITICO. ALBUM

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STRUTTURA DEL CRYSTAL PALACE NELLA SEDE DI SYDENHAM, PARZIALMENTE SMONTATA, ALLA FINE DI UN’ESPOSIZIONE. FOTOGRAFIA DEL 1911.

dalla loro esperienza nella costruzione di serre, dall’ingegneria ferroviaria e dalle possibilità tecnologiche di un’industria fiorente. Il progetto di Paxton era radicale. L’edificio avrebbe avuto delle dimensioni incredibili per l’epoca: 563,25 metri di lunghezza per 124,35 metri di larghezza, che lo avrebbero reso il più grande immobile mai costruito. A rendere possibile una simile impresa fu il ricorso al vetro: dei 93mila metri quadrati di pareti esterne (l’involucro dell’edificio) 84mila sarebbero state costituite da questo materiale. Per la maggior parte della storia delle costruzioni si era ricorsi alla pietra, al legno e ai mattoni. Ma dall’inizio del XIX secolo la rivoluzione industriale aveva reso disponibili grandi quantità di ferro, tanto da poter essere usato come materiale strutturale. Inoltre, nel 1832 la Chance Brothers Company introdusse in Inghilterra nuovi metodi che resero STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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EVENTO STORICO

possibile la produzione di vetrate di grandi dimensioni, più resistenti e più economiche. Non a caso fu proprio quest’azienda a fornire le lastre per la sede dell’esposizione. Nella costruzione del Crystal Palace il ricorso al ferro raggiunse una scala impensabile fino ad allora. Alcune cifre sono rivelatrici: furono usate più di 2.150 travi di ferro e mille pilastri dello stesso materiale, oltre a circa 290mila lastre di vetro.

Oggetti da ogni dove ALL’ESPOSIZIONE UNIVERSALE di Londra furo-

no presentati 100mila oggetti distribuiti in quattro sezioni principali, dedicate rispettivamente alle materie prime, ai macchinari, alle manifatture e alle belle arti. Nella seconda sezione furono esposti, per esempio, un’enorme pressa idraulica, una mietitrice e svariati elettrodomestici da cucina. Nelle altre aree i visitatori poterono ammirare, tra le altre cose, il più grande diamante conosciuto all’epoca, organi musicali, armi da fuoco e reperti archeologici egizi.

Per gestire una tale quantità di componenti era essenziale ridurli a un piccolo numero di elementi standardizzati, organizzati in una serie di moduli uguali tra loro. Paxton e i suoi collaboratori definirono un modulo strutturale di 7,315 x 7,315 metri di base e 7,5 metri di altezza, composto fondamentalmente da quattro pilastri e quattro travi in ghisa. Questo blocco poteva essere assemblato sia orizzontalmente sia verticalmente. L’organizzazione modulare rappresenta la maggiore innovazione del Crystal Palace rispetto alle serre e ai giardini d’inverno in ferro e vetro che erano stati costruiti fino a quel momento, ed è quindi uno dei principali contributi dell’opera alla storia dell’architettura. All’epoca per i lavori di edilizia si utilizzava forza motrice di natura umana o animale. L’elettricità non era ancora impiegata a questo scopo e nemmeno per l’illuminazione, e non esisteva il motore a combustione interna. La gru a vapore, che sarà utilizzata nel 1889 per la costruzione della torre Eiffel, era stata brevettata da sir William Fairbairn solo l’anno precedente, quindi il suo uso non era ancora diffuso. Pertanto, la prefabbricazione doveva tener conto del fatto che nessuna parte poteva pesare più di una tonnellata, per non complicare la fase del montaggio. L’impresa Fox, Henderson & Co. iniziò la costruzione dell’edificio nel 16 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

THE STAPLETON COLLECTION / BRIDGEMAN / ACI

Modulo a modulo


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EVENTO STORICO

INAUGURAZIONE

GRANGER / ALBUM

dell’Esposizione universale del 1851 al Crystal Palace di Londra da parte della regina Vittoria (a sinistra). Litografia dell’epoca.

luglio del 1850. Il tempo totale di assemblaggio non superò i sei mesi, un periodo straordinariamente breve che fu reso possibile solo dalla standardizzazione dei componenti. Eppure, nonostante la meticolosa pianificazione dei lavori, i problemi non mancarono. Il fatto che sia le pareti esterne sia il tetto fossero costituiti interamente di vetro provocava

un riscaldamento facilmente percepibile. Per contrastare l’effetto serra furono inserite nella facciata delle lamelle mobili che dovevano favorire la ventilazione e il ricircolo dell’aria permettendo così di contrastare il calore interno. Ma questo sistema si rivelò insufficiente. Per tale motivo nelle incisioni dell’epoca si vedono i tendoni e i baldacchini ai quali

PRIMA I RICCHI NELLA PRIMA SETTIMANA il biglietto d’ingres-

so costava una sterlina, un prezzo accessibile solo ai visitatori di classe alta. Poi fu ridotto a cinque scellini e infine a uno solo (una sterlina sono 20 scellini), permettendo così l’ingresso anche alle classi popolari. TAGLIANDO D’INGRESSO CON LA FIRMA DEL BENEFICIARIO.

BRIDGEMAN / ACI

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si ricorse per proteggere l’edificio dall’azione diretta dei raggi solari. In questo modo, le condizioni di lavoro degli operai migliorarono sensibilmente e permisero di terminare in tempo la costruzione.

L’inaugurazione Alcuni problemi furono causati anche dalle variazioni termiche e dell’insolazione diretta sulla struttura in ferro. Secondo i rapporti dell’epoca le travi si dilatarono a tal punto che i pilastri alle estremità dell’edificio subirono una significativa perdita di verticalità, percepibile a occhio nudo. E questo nonostante il fatto che, in previsione del fenomeno, alcune delle travi di ferro fossero state sostituite da altre di legno. L’Esposizione universale fu inaugurata il pri-


La distruzione di un simbolo

ROGER VIOLLET / AURIMAGES

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LA SERA DEL 30 DE NOVEMBRE 1936 il direttore del consiglio di amministrazione del Crystal Palace Henry Buckland e sua figlia stavano portando a spasso il cane nelle vicinanze dell’edificio. Fu allora che si accorsero che nella struttura era divampato un piccolo incendio. Purtroppo, le fiamme s’intensificarono rapidamente per poi diffondersi a tutto il palazzo. Nonostantel’intervento di 88 autopompe, 438 vigili del fuoco e 749 poliziotti, all’alba l’edificio era ormai devastato. Le dichiarazioni rilasciate da Winston Churchill nell’apprendere la notizia rivelano l’impatto dell’evento: «La distruzione del Crystal Palace segna la fine di un’epoca». I VIGILI DEL FUOCO IN LOTTA CONTRO L’INCENDIO (A SINISTRA) E IL SITO DEVASTATO DALLE FIAMME (A DESTRA).

mo maggio 1851 dalla regina Vittoria e si stima che venne visitata da più di sei milioni di persone. Le cronache del periodo concordano nell’evidenziare le sorprendenti percezioni spaziali che il nuovo edificio suscitava nei visitatori. Le dimensioni eccezionali dell’opera, l’eleganza della struttura in ferro e la trasparenza delle facciate e del tetto in vetro erano qualcosa di difficilmente immaginabile fino a poco tempo prima. Lothar Bucher, un politico democratico tedesco emigrato in Inghilterra, descrisse così l’innovativo edificio: «Vediamo una delicata rete di linee senza alcun punto di riferimento che ci permetta di stimarne le dimensioni reali o a la distanza dai nostri occhi. Le pareti laterali sono troppo lontane per essere abbracciate con un solo sguardo. Invece di spostarsi da una parete esterna all’altra, i nostri occhi seguono quella prospettiva infinita

che sembra svanire all’orizzonte. Non siamo in grado di dire quanto è alto questo edificio, se trenta o trecento metri, perché manca un gioco di ombre che ci permetta d’ipotizzarne le vere dimensioni».

Palazzi di cristallo Il Crystal Palace fece grande scalpore in tutto il mondo. Immediatamente ogni Paese volle avere il suo edificio in vetro. Nel 1853 fu costruito un Crystal Palace a New York per ospitare l’Esposizione dell’industria di tutte le nazioni. L’anno seguente, per l’Esposizione industriale di Monaco, fu creato nella capitale bavarese il Glaspalast. Questi sono solo due degli innumerevoli edifici sorti in Europa e negli Stati Uniti a imitazione del Crystal Palace di Londra. Nel 1852, al termine dell’Esposizione universale, l’edificio fu smontato e trasferito pezzo per pezzo a

Sydenham Hill, dove fu riassemblato, pur con alcune modifiche e aggiunte che ne alterarono la forma e ne aumentarono le dimensioni. A Sydenham l’edificio fu utilizzato per una grande varietà di celebrazioni istituzionali, mostre, festival musicali, spettacoli circensi e altri eventi. Poi, il 30 novembre 1936, quel palazzo che era stato un simbolo architettonico della rivoluzione industriale fu raso al suolo in poche ore dalle fiamme scaturite da un incendio accidentale. ISAAC LÓPEZ CÉSAR UNIVERSITÀ DI LA CORUÑA

Per saperne di più

SAGGI

Expo! Arte ed esposizioni universali Ilde Marino. Giunti, Firenze, 2015. INTERNET

Tour virtuale Esposizione universale del 1851 https://www.seymourlerhn.com/ royalparks/greatexhibition/.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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V I TA Q U OT I D I A N A GIULIO CESARE

attraversa a gran velocità una strada romana su un carro a due ruote guidato da un cocchiere e trainato da quattro cavalli. Olio di Ettore Forti.

Viaggiare su un carro nell’antica Roma I romani usavano diversi tipi di carro sia per il trasporto delle merci sia per ogni sorta di spostamento Invece nei cortei trionfali che si svolgevano per le strade i generali facevano ricorso a un calesse speciale, dotato di un cassone semicircolare con fregi che richiamavano scene di vittoria e una pedana rialzata all’interno. In tal modo il popolo poteva contemplare ammirato il militare vincitore. E affinché questi fosse protetto dal malocchio, era uso comune appendere degli amuleti in grado di proteggerlo all’asse del veicolo. Di solito il carro era trainato da quattro cavalli bianchi ma, stando ad alcune testimonianze, potevano diventare sei o essere sostituti dai pachidermi.

A passeggio

SCALA, FIRENZE

Per gli spostamenti personali i romani usavano altri tipi di veicoli, come per esempio i modelli a due ruote, che i cittadini dell’Urbe preferivano per brevi escursioni fuori dalla città. Il cisium era un carrozzino rapido e leggero trainato da uno o due cavalli; aveva posto per due persone, il carrettiere e un passeggero, e consenti-

CARRO TRIONFALE. RICOSTRUZIONE. MUSEO DELLA CIVILTÀ ROMANA, ROMA. 20 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

ALAMY / ACI

N

ell’antica Roma esisteva un carro per ogni occasione. L’uso di questi veicoli era abbastanza frequente in ogni classe sociale: ne usufruivano il semplice cittadino, l’imperatore ma anche i mercanti, gli aristocratici, i funzionari pubblici, i generali in trionfo e perfino gli dei. Alcuni carri venivano preposti alle cerimonie. Era il caso, per esempio, della tensa, un veicolo a due ruote trainato da cavalli e talvolta da elefanti, finemente decorato con bassorilievi sul cassone rettangolare. Di solito veniva usato per il trasporto di attributi sacri delle divinità durante le processioni inaugurali dei giochi circensi. La tensa aveva finanche una propria rimessa, situata in un tempio ai piedi del Campidoglio.

va il trasporto di un piccolo bagaglio. Coloro che non potevano permettersi di possederne uno avevano la possibilità di noleggiarlo insieme al vetturino in apposite aree, situate vicino alle porte del nucleo urbano. Secondo il poeta Marziale il covinnus, un altro agile calesse, era il migliore perché piccolo e maneggevole per una passeggiata e perché consentiva di chiacchierare con un amico senza essere disturbati dalla presenza indiscreta del cocchiere. Infine c’era l’essedum, simile al cisium, ma più grande e solido. Era dotato di due posti per i passeggeri e un


terzo per il conducente, che sedeva più in basso. Questo veicolo veniva impiegato dagli imperatori romani: secondo le fonti antiche Augusto aveva l’abitudine di mangiare a bordo pane e datteri e Claudio vi aveva fatto collocare un’asse per giocare a dadi. Se il tragitto era più lungo si usava un carro a due ruote trainato da una coppia di mule chiamato carpentum. Provvisto di una copertura in cuoio per proteggere i viaggiatori dalle intemperie e garantirgli una certa intimità, era molto amato dalle matrone e presto iniziò a essere usato anche da dignitari imperiali e dai governanti.

Carri per arrivare in tempo all’appuntamento A POMPEI è stata studiata l’erosione delle ruote dei carri su

marciapiedi, strade e angoli al fine di determinare come fosse organizzato il traffico interno. La conclusione degli studi è che alcune strade erano a senso unico, e altre a doppio. A quanto pare la segnaletica stradale non esisteva e i conducenti si basavano su norme dettate dall’esperienza. È probabile quindi che i forestieri venissero insultati da qualche altro collega locale. I vetturini dovevano sempre essere pronti per viaggi urgenti, come ricorda una poe-

sia anonima scarabocchiata su una parete: «Se sentissi le fiamme d’amore, mulattiere, ti sbrigheresti ancor di più per vedere Venere. Amo un bel giovane. Ti prego, da’ di sprone, andiamo. Hai bevuto: andiamo, prendi le briglie e scuotile, portami a Pompei dov’è il dolce amore».

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V I TA Q U OT I D I A N A

Una legge di Roma proibiva la circolazione di veicoli a ruote durante il giorno Esisteva pure un equivalente della ben più moderna diligenza, utilizzato per viaggi in gruppo: la raeda. Era un veicolo a quattro ruote trainato da due o quattro cavalli, che venivano raddoppiati in caso di necessità, e su cui erano montate delle file di banchi per i passeggeri. Il conducente era invece seduto in basso. Secondo Giovenale, era talmente grande che vi poteva essere caricata un’intera casa. Molto simile alla raeda era la carruca, sempre a quattro ruote. Ne esistevano diverse tipologie: una di queste veniva adoperata dai funzionari pubblici e presentava un cassone ornato ai lati con rilievi in metalli preziosi. Il cocchiere si trovava più in basso, mentre i magistrati sedevano su un banco sopraelevato che gli permetteva di essere visti da tutti e sentirsi così superiori alla plebe.

Dalla città alla campagna La carruca destinata a tragitti lunghi era più pratica e aveva un comodo sedile per due persone, provvisto di soffici cuscini. Esisteva finanche la carruca dormitoria per i viaggi notturni: in questo secondo veicolo il PLAUSTRUM PER LA VENDEMMIA. MOSAICO DEL MAUSOLEO DI SANTA COSTANZA, ROMA. IV SECOLO D.C.

SCALA, FI

RENZE

Raeda e carruca: modelli I romani sceglievano il tipo di veicolo in base all’esigenza,

Raeda Carro per viaggi in comitiva. Aveva quattro ruote a dieci raggi ed era trainato da due o quattro cavalli. Il cassone era dotato di banchi per accogliere i passeggeri.

DA SINISTRA A DESTRA: SCALA, FIRENZE; SCALA, FIRENZE; BRIDGEMAN / ACI

carrozzone era chiuso ma con delle aperture e coperto da un resistente tendone in pelle per proteggere dalla pioggia e dal freddo. Al suo interno si poteva così dormire comodamente. Anche per il trasporto di merci o di prodotti agricoli i romani si servivano di veicoli differenti. Il plaustrum era un carro pesante, a due ruote di legno massiccio o a raggi, e tirato da

buoi. Non diverso era il sarracum, che aveva ruote massicce e più piccole di quelle del plaustrum. Risultava perciò ideale per il trasporto di tronchi e di materiali da costruzione. Il carrus era invece un veicolo a quattro ruote che serviva anch’esso per le mercanzie ed era molto usato dall’esercito per l’equipaggiamento e perfino per le macchine da guerra, come appare raffigurato nella colonna Traiana. In questi veicoli il carico era assicurato con reti o corde e coperto con teloni. Per i liquidi quali vino o acqua venivano collocati sul carro grandi tini od otri in pelle di grandi dimensioni. Per regolare il limite massimo di merci e di passeggeri a seconda del veicolo impiegato per il loro trasporto, nel Tardo impero si sviluppò un’estesa legislazione, poi riunita nel Codex Theodosianus.


V I TA Q U OT I D I A N A

di carro per ogni occasione se volevano mettersi in mostra, viaggiare in gruppo o approfittare del tragitto per dormire

Carruca per funzionari Veicolo a quattro ruote decorato con rilievi e con un podio elevato rettangolare. Il funzionario sedeva sopra un banco sulla pedana affinché tutti lo notassero.

Per esempio, la raeda e il carpentum erano autorizzati a portare fino a 330 chili, e nel secondo potevano viaggiare al massimo due o tre persone. Si stabiliva inoltre che la raeda fosse trainata da otto mule in estate e da dieci in inverno. È probabile che in realtà alcune di queste norme non venissero tenute in particolare considerazione. Nelle città popolose i carretti pubblici e privati congestionavano il traffico. Per venirne a capo Roma promulgò nel 45 a.C. la Lex Iulia municipalis, attribuita da alcuni studiosi a Giulio Cesare, che proibiva la circolazione di veicoli dall’alba all’ora decima (tra le tre e le quattro di pomeriggio). Ne erano esentati i barrocci che trasportavano i materiali necessari alla costruzione di templi o di opere pubbliche, o quelli che dovevano smaltirne i prodotti. I veicoli entrati nel centro abitato di notte e ormai privi di passeggeri potevano continuare a

Carruca dormitoria Questo lungo carro a quattro ruote era provvisto di un rivestimento in pelle in cui si apriva una finestra. Serviva per lunghi spostamenti e si poteva dormire al suo interno.

muoversi, così come pure quelli impiegati per raccogliere l’immondizia. In certi giorni, durante le cerimonie pubbliche, era ammessa la circolazione dei calessi di vestali e sacerdoti quali il rex sacrorum e i flamini e in altri era consentito l’uso di carri per parate trionfali e gare, così come per la processione inaugurale dei giochi circensi.

Il riposo dei vicini La Lex Iulia venne sicuramente osservata dai primi imperatori. Claudio l’estese a tutte le città italiche, obbligando la gente a muoversi a piedi, su portantine o su lettighe. Adriano vietò a Roma sia la circolazione di veicoli pesanti sia lo spostamento a cavallo entro le mura della città. S’ignora quanto tali leggi venissero rispettate: erano talmente ribadite che forse non vi si faceva poi grande caso. Tra tutti i carri finora esaminati soltanto quelli adibiti al trasporto di

materiali da costruzione potevano comportare rischi per i viandanti. Nelle Satire Giovenale ironizza sul pericolo di quei veicoli che avanzano sotto il peso di abeti, pini e granito, immaginando un’eventuale caduta del carico: «Che rimane dei corpi? Chi ne ritrova piú una traccia, ossa, membra?». Non solo: di notte il rumore delle ruote e le urla dei cocchieri, che discutevano tra di loro o incitavano le bestie, non dovevano certo conciliare il riposo per gli abitanti delle insulae romane. FERNANDO LILLO REDONET FILOLOGO CLASSICO

Per saperne di più

SAGGI

Gladiatori, carri e navi Patrizia Arena. Carocci, Roma, 2020. La vita quotidiana a Roma nel tardo impero Bertrand Lançon. BUR, Milano, 2018. Una giornata nell’antica Roma Alberto Angela. Mondadori, Milano, 2016.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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DATO S TO R I CO

G

li spettacoli circensi hanno la loro origine in esibizioni popolari che probabilmente affondano le radici nella preistoria, quando miravano a ricreare i primi miti sorti intorno al fuoco. Durante il Medioevo e fino alla fine dell’Età moderna saltimbanchi, giullari e comici movimentavano con i loro spettacoli le strade e le piazze nei giorni di mercato e intrattenevano sovrani e uomini di corte. In questo contesto emersero figure come i danzatori su corda, antenati dei funamboli, i forzuti, gli acrobati, i giocolieri, i manipolatori di oggetti, i fachiri, i maghi e i domatori. Tutti

ENZ FIR

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Nel 1770 un militare in pensione di nome Philip Astley creò uno spettacolo che metteva insieme acrobazie equestri e numeri di mimo in uno spazio circolare

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Un inglese inventa il circo moderno PHILIP ASTLEY. RITRATTO DELL’INIZIO DEL XIX SECOLO. AUTORE ANONIMO.

Una curiosa circostanza permise ad Astley di ampliare il repertorio delle attrazioni offerte nella sua arena. Con l’apogeo del teatro commerciale, allo scopo di attirare la maggiore quantità di pubblico possibile, i promotori teatrali interponevano dei numeri circensi negli intervalli tra un atto e l’altro di una rappresentazione. Ma il drammaturgo David Garrick, figura di spicco del teatro inglese del XVIII secolo, era contrario al fatto che i palcoscenici fossero occupati da saltimbanchi. Approfittando di Cavallerizzi e pagliacci questa situazione, durante la stagione Dopo essersi congedato dalle forze del 1770 Astley invitò gli acrobaarmate nel 1766, Astley andò a la- ti esclusi dai teatri a unirsi a lui. In vorare in una scuola d’equitazione a questo modo le pantomime – opere Lambeth, la sua città natale. Due anni sceniche mute con personaggi ispirati dopo comprò un modesto maneggio alla commedia dell’arte – entrarono a senza tetto nella zona meridionale di far parte dei suoi spettacoli, e da esse Londra, dove insegnava equitazione al sarebbe emerso uno degli elementi mattino e organizzava mostre eque- classici del circo: il pagliaccio. Visto il successo di pubblico della stri nei pomeriggi estivi. Rendendosi conto che le esposizioni erano più Astley’s Riding House, una volta finita redditizie del suo lavoro d’istruttore, la stagione estiva a Londra l’ex militare nel 1769 decise di aprire una nuova iniziò a viaggiare per il Paese con i suoi sede con una maggiore capacità. La cavalli e i suoi artisti: nacque così il Astley’s Riding House era una strut- circo come esibizione itinerante. Nel tura in legno con una pista circolare 1773 Astley presentò il suo spettacolo che facilitava al pubblico l’osserva- alla corte reale francese e nel 1782 aprì zione dello spettacolo e ai cavalieri un circo a Parigi. Si esibì anche in Irl’esecuzione delle acrobazie, sempre landa, in Belgio e a Belgrado. Durante accompagnate da una banda musicale. la sua carriera fece inoltre costruire diciannove circhi permanenti in tutta ANNUNCIO DI UN’ESIBIZIONE DI ESERCIZI EQUESTRI Europa. Poi, nell’inverno del 1778, NEL CIRCO DI PHILIP ASTLEY. FINE DEL XVIII SECOLO. questi personaggi sarebbero confluiti nello spettacolo del circo come lo conosciamo oggi. L’invenzione del circo moderno si deve a Philip Astley (1742-1814), un militare inglese che seppe trasformare in uno show le sue doti di cavallerizzo. Nella seconda metà del XVIII secolo le esibizioni equestri erano molto popolari tra la nobiltà europea, e alcuni cavalieri provenienti dall’esercito si guadagnavano da vivere come istruttori di equitazione.

BRITISH LIBRARY / AURIMAGES


DATO S TO R I CO ESERCIZIO DI VOLTEGGIO NEL CIRCO DI PHILIP ASTLEY. INCISIONE DI THOMAS ROWLANDSON.

IL DIAMETRO PERFETTO

BRITISH LIBRARY / AURIMAGES

dotò il suo anfiteatro di una copertura integrale che gli permise di estendere la durata della stagione e di offrire spettacoli notturni. Ben presto emersero dei concorrenti. Nel 1772 un ex cavallerizzo di Astley di nome Charles Hughes mise in piedi la Hughes’ Riding School, a imitazione del centro creato dal suo maestro, diventandone così il grande rivale. Dopo un tour di otto anni nel continente, Hughes tornò a Londra e costruì una struttura fissa in mattoni e dotata di un teatro per valorizzare le pantomime. Il Royal Circus, così fu chiamato, fu il primo a incorporare il termine“circo”nel nome. L’evoluzio-

ne dello spettacolo circense sarebbe continuata per tutto il XIX secolo. All’inizio dell’ottocento furono introdotti gli animali esotici, prima gli elefanti e poi le tigri, i leoni e altre fiere. Nel 1825 venne creato negli Stati Uniti il primo circo con la caratteristica forma di un tendone. Sorsero lì le tipiche compagnie che si spostavano in carovane con gli animali al seguito e si esibivano nelle periferie delle città. L’esempio più conosciuto fu il circo Barnum, fondato nel 1871 e definito dal suo creatore «il più grande spettacolo del mondo». ENRIC H. MARCH STORICO

DURANTE I SUOI ANNI nell’eser-

cito Astley imparò il volteggio, un esercizio di equitazione in cui il cavaliere esegue acrobazie su un cavallo che si muove in cerchio, guidato tramite una corda da una persona posizionata al centro dell’arena. La sua esperienza lo portò a concludere che il diametro ideale del circolo, sia dal punto di vista della sicurezza degli acrobati che della visibilità degli spettatori, era di 42 piedi (13 metri), una misura che da allora è rimasta invariata.

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IL SARCOFAGO DEL FARAONE

Il sarcofago di Amenofi II si trova nella parte sottostante della camera sepolcrale. Le pareti attorno sono dipinte di nero nella sezione inferiore: il colore simboleggia il limo vivificante apportato dalle inondazioni del Nilo, dal quale il corpo del sovrano “risorgerà” per iniziare il proprio viaggio verso l’aldilà. A destra, effigie del faraone. Ny Carlsberg Glyptotek, Copenaghen. ARALDO DE LUCA


UN NASCONDIGLIO DI MUMMIE REALI

LA TOMBA DI AMENOFI II Nel 1898 l’archeologo francese Victor Loret scoprì nella Valle dei Re una tomba faraonica che era in realtà il secondo nascondiglio di mummie reali più importante d’Egitto

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LA VALLE DEI RE

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Nella fotografia della necropoli reale tebana si può notare l’ingresso alle tombe dei diversi faraoni, tra cui quella di Amenofi II, la KV35.

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ppena venne nominato direttore del Servizio delle antichità egizie, nel 1897, l’archeologo francese Victor Loret rivolse la sua attenzione alla Valle dei Re, la grande necropoli situata vicino all’antica Tebe. È lì che in pratica furono sepolti tutti i faraoni dalla XVIII alla XX dinastia, gli uomini che ressero il destino dell’Egitto nella sua fase più gloriosa. Il 12 febbraio 1898 Loret vi scoprì la tomba di Thutmose III. Il sepolcro era stato saccheggiato in tempi antichi, ma l’archeologo riuscì a recuperare lo stesso una parte del corredo funerario appartenuto al faraone guerriero. Meno di un mese dopo, il 9 mar-

zo, i suoi operai avvistarono l’ingresso di un’altra sepoltura ai piedi delle falesie che circondano la Valle dei Re. Nessuno però, nemmeno Loret, poteva lontanamente immaginare l’enorme sorpresa che li attendeva. Il giorno seguente, alla luce di una semplice candela, Loret penetrò nel sepolcro in compagnia del rais, il caposquadra. In mezzo alle macerie emerse subito una statuetta, un ushabti con inciso il nome del re Amenofi II, figlio di Thutmose III. Tuttavia l’archeologo non era ancora certo circa l’identità del proprietario della tomba. Sia all’ingresso sia lungo i corridoi, che scendevano giù nella montagna sino a un pozzo, si ammucchiavano i resti di un magnifico corredo funerario.

un C R O N O LO G I A

MUMMIE REALI SEPOLTE

1400 a.C.

1076-944 a.C.

1882

Amenofi II, figlio di Thutmose III, muore. Viene sepolto in una tomba nella Valle dei Re, la KV35.

Durante la XXI dinastia diverse mummie reali sono trasportate nella sepoltura KV35, di Amenofi II.

Gaston Maspero ed Émile Brugsch scoprono il nascondiglio colmo di mummie reali a Deir el-Bahari.

VICTOR LORET. RITRATTO DELL’EGITTOLOGO. FOTOGRAFIA SCATTATA VERSO IL 1920.

ARALDO DE LUCA

FERNANDO ESTRADA

Ingresso della tomba KV35


LA SALA DEI DUE PILASTRI

La camera rettangolare all’interno della KV35 è sorretta da due pilastri, si trova dietro il pozzo funerario e non presenta decorazioni.

1898

1931

2007-2009

Victor Loret scopre la tomba di Amenofi II, con una notevole presenza di mummie reali.

Il cadavere di Amenofi II viene prelevato dalla tomba e portato al Museo egizio del Cairo.

Lo studio del DNA conferma che la mummia della Elder Lady è quella della regina Tiy.


1 ENTRATA

L’ingresso è costituito da una sala che funge da vestibolo 1, dotato di una porta d’entrata, un pianerottolo, una porta d’uscita e una rampa discendente.

2

Amuleti. Nella tomba del faraone furono trovati diversi amuleti come questi: il simbolo ankh, il pilastro ged e lo scettro uas.

CORRIDOI

Tre lunghi corridoi 2 si susseguono dopo l’ingresso fino a raggiungere il pozzo funerario.

6 UN POZZO MISTICO

Il pozzo della KV35 3 ha un locale annesso 4 destinato a raccogliere l’acqua delle inondazioni. Il locale ha la stessa superficie della prima sala di pilastri, ma è più alto. I sacerdoti diedero al pozzo un valore mistico, immaginando che fosse il luogo della trasformazione del faraone in Osiride. Era quindi anche la tomba del dio. Dall’ingresso sino al pozzo Amenofi figura infatti come “Re dell’Alto e del Basso Egitto”, e dal pozzo sino alla fine della tomba come “Amenofi II Osiride”. L’ingresso di una minima quantità di acqua avrebbe potenziato il mito, visto che Osiride morì affogato nel Nilo.

3

4

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LA TOMBA DEL FARAONE AMENOFI II La KV35 ha la tipica struttura a “L” delle sepolture reali della XVIII dinastia. Misura 92 m di lunghezza ed è una delle più profonde della Valle dei Re.

SALA COLONNATA

CAMERA SEPOLCRALE

Sul lato sinistro del pozzo si apre una sala 5 sorretta da due grossi pilastri senza decorazioni. Una scala 6 conduce alla camera sepolcrale.

È sostenuta da sei pilastri dalla base quadrata suddivisi in due file 7. Ha quattro sale laterali in cui sono state rinvenute tre mummie 8 e un nascondiglio con altre spoglie 9. Delle scale portano alla cripta con il sarcofago reale . Serpente alato. Una dea con il corpo di serpente apre le sue ali in un gesto di protezione per l’anima del faraone defunto.

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Pantera. La scultura, scoperta nella KV35, doveva forse portare sul dorso un’effigie di Amenofi II.

FOTO: KENNETH GARRETT. ILLUSTRAZIONE: THEBAN PROJECT


Da com’erano accatastati i reperti, Loret capì che il sito era stato profanato e temette di non trovarvi altro. Si sbagliava. Dopo aver superato il pozzo, l’archeologo finì in una sala rettangolare sorretta da due pilastri. Di colpo alla debole luce della fiamma ebbe il primo dei numerosi sobbalzi che avrebbero contraddistinto quella giornata. Il corpo imbalsamato di un giovane uomo nudo giaceva sul modello di una barca. Non sembrava a una mummia, eppure lo era. I ladri l’avevano privata del sudario dopo averle rubato i gioielli che molto probabilmente indossava.

La sala del sarcofago

ALAMY / ACI

USHABTI DI AMENOFI

La statuetta funeraria reca i nomi di Amenofi II. Tiene in mano due simboli ankh e indossa il copricapo reale nemes con l’ureo, o cobra.

In fondo al locale l’archeologo e il rais imboccarono una scala che li condusse a un breve corridoio e poi a una sorta di vestibolo che, a sua volta, si affacciava su un altro corridoio. Giunsero infine in una grande sala con sei pilastri allineati su due file. Sulle pareti disegni a malapena colorati mostravano il faraone in compagnia di diverse divinità. Dagli affreschi si evinceva che il proprietario della tomba era Amenofi II. Ma allora il giovane nudo il cui corpo giaceva sul modellino della barca poteva essere il principe Ubensenu in persona, uno dei figli del faraone e responsabile delle scuderie reali! Ancora increduli davanti alla sensazionale scoperta, dopo aver calpestato frammenti di ceramica, legno e alabastro, i due scopritori percorsero una breve scalinata all’interno della stessa sala. Al centro scorsero un voluminoso sarcofago in pietra simile, anche se più grande, a quello che avevano trovato nella sepoltura di Thutmose III. Lì li attendeva la seconda sorpresa: nel sepolcro, privato del suo coperchio, giaceva una bara chiusa con ai piedi una corona di foglie secche e con dei fiori all’altezza della testa. Loret non credette ai propri occhi. I saccheggiatori avevano infatti lasciato la tomba in uno stato talmente disastroso che l’egitto-

Nella prima camera sulla destra Loret trovò tre corpi che giacevano semicoperti dai resti dei sudari 34 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

CAMERA FUNERARIA

La parte superiore della camera funeraria di Amenofi II è composta da grandi pilastri decorati con immagini del faraone in compagnia degli dei. La scala, qui in primo piano, conduce alla sala con il sarcofago. ARALDO DE LUCA

logo aveva ormai perso qualsiasi speranza d’imbattersi nella mummia intatta di un faraone, evento fino ad allora mai accaduto.

Le tre mummie Frastornato per l’inatteso rinvenimento, Loret decise di rimandare l’apertura del sarcofago. Preferì prima esaminare le quattro sale che circondavano la camera sepolcrale. Nella prima a sinistra rimanevano indizi di quanto vi era stato immagazzinato più di tremila anni addietro: cibo per sopravvivere nell’aldilà. Nella seconda si trovavano i resti del materiale rituale funerario e di statue reali. Ma un’altra grande sorpresa l’attendeva nella prima saletta a destra. In un angolo giacevano infatti tre corpi co-


perti alla bell’e meglio dagli stracci dei loro sudari: tre mummie che gli antichi saccheggiatori avevano privato delle bende, mostrandone corpo e volti. Una simile scoperta merita un discorso a sé stante, visto che i tre corpi sono stati oggetto di lunghe polemiche. Si crede oggi che uno di questi, appartenuto a un giovane principe con una treccia, potrebbe corrispondere a Ubensenu, e ciò metterebbe in discussione la presunta identità delle spoglie rinvenute sulla barca. Si è ipotizzato anche che potrebbe essere di un personaggio successivo di cinquant’anni: Thutmose, il primogenito del re Amenofi III, morto prematuramente. Quanto alla seconda mummia, caratterizzata dalla bocca storta e forse

LA DECORAZIONE DELL’ANTICAMER A L’ANTICAMERA FUNERARIA della KV35 è straordinaria perché mantiene le decorazioni della camera funeraria, che si trova a un livello inferiore. Questa continuità spaziale fornisce all’anticamera, retta da sei pilastri, un aspetto maestoso. Sulle facce delle colonne il faraone è dipinto mentre viene accolto nell’aldilà dagli dei, che gli infondono il “soffio della vita eterna” con un ankh. Sono soltanto disegni, a malapena colorati, eppure quello che potrebbe sembrare un difetto conferisce all’insieme un fascino eccezionale. In Egitto il disegno fu sempre alla base di qualsiasi arte plastica, e quanto si può ammirare nell’anticamera della KV35 è un’autentica lezione d’arte: tratti nitidi, senza sbavature o una previa griglia a riquadri. La mano del maestro che li compose non ne ebbe affatto bisogno.


IL MISTERO DELLE TRE MUMMIE I corpi che Loret scoprì nella KV35 erano stati privati delle bende da antichi saccheggiatori di tombe, che ne avevano anche perforato il cranio e il petto per estrarre gli “scarabei del cuore”, amuleti funerari a volte realizzati con pietre preziose. L’analisi del DNA ha permesso di mettere queste spoglie in relazione con altre mummie e d’identificarne alcune.

Oggi si crede oggi che la cosiddetta Elder Lady 1, una donna con una lunga chioma e il braccio sinistro piegato sul petto, sia la regina Tiy, moglie di Amenofi III e nonna di Tutankhamon. L’adolescente 2 con la testa rasata e la cosiddetta treccia infantile, tipica dei principi, potrebbe essere Ubensenu, figlio di Amenofi II, o anche Thutmose, primogenito di Amenofi III e della regina Tiy. Il terzo corpo 3, sul cui genere gli studiosi non sono concordi, aveva la testa rasata e una parrucca accanto e la bocca sfregiata in quella che sembra una smorfia quasi d’orrore. La sua identità rimane incerta.

FOTO: BRIDGEMAN / ACI

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Loret guardò da un foro e alla debole luce della candela scoprì nove bare, cinque delle quali ancora protette dai coperchi appartenente a un uomo (ma non c’è unanimità al riguardo), nel 2003 l’egittologa britannica Joann Fletcher ha affermato, contro tutto e tutti, che si trattasse in realtà delle spoglie della regina Nefertiti. La sua teoria è stata in seguito smentita. Più interessante ancora è il caso del terzo corpo: si tratta di una donna dalla lunga chioma battezzata The Elder Lady, la signora più anziana. La comparazione chiama in causa proprio la mummia precedente, che molti studiosi credono essere appartenuta a una giovane donna. Sulla scia delle suggestioni di Fletcher, si è pensato che potesse essere lei Nefertiti, ma il caso ha fatto luce sull’enigma. Nella tomba di Tutankhamon era stato infatti trovato un ricciolo all’interno di un piccolo sarcofago con il nome della nonna del faraone bambino, la regina Tiy. L’analisi del DNA ha permesso di verificare che il patrimonio genetico di quel reperto e della Elder Lady erano identici. La terza mummia appartiene quindi a Tiy, grande sposa reale di Amenofi III e madre di Akhenaton!

TESTA DI MUCCA

Sul lato sinistro della camera sepolcrale Victor Loret scoprì una testa di vacca quasi a grandezza naturale, plausibilmente una rappresentazione della dea Hathor. Museo egizio, Il Cairo.

MARY EVANS / CORDON PRESS. COLORE: JOSÉ LUIS RODRÍGUEZ

Altre mummie reali

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Quei ritrovamenti erano straordinari ma la tomba, a cui venne dato il nome di KV35, non aveva ancora mostrato il più spettacolare dei suoi segreti, rivelato quando Loret decise d’ispezionare la seconda camera laterale a destra. Nell’antichità era stata sigillata con blocchi di pietra e ora mostrava una fessura. Nel suo diario l’archeologo raccontò di essersi limitato a guardare dall’apertura e, alla debolissima luce della candela, di aver scoperto nove bare, cinque delle quali con i coperchi intatti, e di aver immaginato che fossero appartenute a persone legate alla famiglia reale.

Poiché, almeno in quel momento, era impossibile accedere alla camera, Loret ordinò di costruire delle casse in cui riporre le mummie e, dopo una breve assenza per terminare i lavori nella tomba di Thutmose III, ritornò alla KV35 così da esaminarne gli altri ambienti. Come prima mossa fece riporre i tre corpi in contenitori di legno ripieni di cotone. Quindi fece rimuovere i blocchi che ostruivano l’ingresso della camera laterale. Si avvicinò alla bara a lui più vicina e, tolto lo spesso strato di polvere sul coperchio, lesse un cartiglio reale con il nome di Ramses IV. Non è difficile immaginare il suo immenso stupore. Si affrettò a leggere le altre iscrizioni: corrispondevano a Thutmose IV, Amenofi III, Merenptah, Seti II, Siptah, Ramses V

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IL RECUPERO DELLE MUMMIE

L’incisione ricostruisce il momento in cui i membri del Servizio delle antichità egizie diretto da Gaston Maspero prelevarono le mummie reali dal nascondiglio di Deir el-Bahari per trasportarle al Cairo.

e Ramses VI. Solo il nono corpo apparteneva a una donna sconosciuta. L’archeologo francese aveva appena scoperto una serie straordinaria di mummie reali. Se sommate a quelle rinvenute nel nascondiglio di Deir el-Bahari, scavato diciassette anni prima, nel 1881, costituivano l’elenco quasi completo dei faraoni della XVIII dinastia, fondamentali nel Nuovo regno. I due gruppi di spoglie erano stati raccolti nei tempi antichi pur di essere preservati, dopo che le tombe in cui erano stati originariamente sepolti avevano subito l’avido attacco dei predoni. Nel caso della tomba di Amenofi II, il trasferimento delle diverse spoglie dovette essere effettuato quando il nascondiglio di

LE SPOGLIE NASCOSTE DEI FARAONI TRA LA XX E LA XXI DINASTIA le mummie dei sovrani egizi sepolti nella Valle dei Re furono nascoste a Deir el-Bahari e nella tomba di Amenofi II. Quelle di Ramses I, Seti I e Ramses II vennero portate prima nella tomba di Ahmose-Inhapi, moglie di Seqenenra Ta’o II, il faraone “Coraggioso” della XVII dinastia. Poi, forse per mancanza di spazio, furono spostate in quella del grande profeta di Amon Pinedjem (XXI dinastia), a Deir el-Bahari. All’ingresso e lungo i corridoi si ammassavano i sarcofagi dei faraoni del Nuovo regno, tra cui quello del sovrano Ahmose-Inhapi. Nell’ultima sala c’erano invece i feretri intatti della famiglia di Pinedjem II. Probabilmente l’area era talmente colma che le altre mummie furono portate nella tomba KV35, di Amenofi II, dove furono scoperte da Loret.


RMN-GRAND PALAIS

L’ANELLO DI AMENOFI II

Sulla targa di quest’anello in oro venne iscritto il nome del trono di Amenofi II, signore dell’Alto e del Basso Egitto. Musée du Louvre, Parigi.

Deir el-Bahari era ormai pieno, durante la XXI dinastia. Si può spiegare la scelta della KV35 in virtù della sua particolare localizzazione nella Valle dei Re, segnata da piogge brevi ma intense che trasformano in torrenti gli uadi, cioè gli antichi corsi d’acqua ormai secchi. Ebbene, a nessuno verrebbe in mente di celare o seppellire un corpo in una tomba sotterranea, proprio per il rischio d’inondazione. Malgrado ciò, chi costruì il sepolcro credette forse che in questo modo avrebbe depistato i ladri. Per scongiurare eventuali infiltrazioni d’acqua e le loro terribili conseguenze, all’interno della tomba fu scavato un pozzo che aveva la funzione d’immagazzinare il liquido che sarebbe potuto filtrare da possibili crepe. Una simile scelta era già stata adottata dal padre di Amenofi II, Thutmose III, che aveva incluso un pozzo nella sua tomba, scavata anch’essa in uno uadi.

Al cospetto del faraone Loret si concentrò pure sul sarcofago presente al livello inferiore della tomba di Amenofi II, che con ogni probabilità ne conteneva la mummia. Appena iniziò a esaminarlo, ebbe l’ennesima sorpresa. Scostò la corona di foglie deposta ai piedi della bara e si accorse sbigottito che nel legno c’era un foro. I ladri erano forse riusciti, nonostante tutto, a rimuovere le spoglie del faraone dal loro luogo di riposo? Lo studioso fece un respiro profondo, introdusse la mano nel buco e sentì il vuoto. La tensione, quella che descrivono tutti gli archeologi in procinto di realizzare una scoperta decisiva, si poteva tagliare con il coltello. Chissà cosa provò Loret quando alzò il coperchio della bara.

Per impressionare i turisti Howard Carter fece collocare una lampadina elettrica sulla testa della mummia di Amenofi II 40 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

ALAMY / ACI

Al contrario di quanto aveva creduto, la mummia del faraone Amenofi II era ancora lì, intatta dopo tremila anni. Non era riuscito a toccarla soltanto perché i sarcofagi dei faraoni di solito erano più grandi rispetto al corpo disteso che contenevano: in questo caso, il cadavere imbalsamato misura 1,80 metri, mentre il sarcofago era decisamente più lungo. I resti dei faraoni della KV35 erano finalmente tornati alla luce, espressione che per gli antichi egizi equivaleva a rinascere. E in un certo senso fu così, perché grazie a Loret le mummie sarebbero state protette per sempre, anche se nella fredda solitudine di un museo. Con un’eccezione, però: quella del proprietario della tomba.


Nel 1902 Gaston Maspero, direttore del Servizio delle antichità egizie, stabilì che al faraone venisse tolto il sudario per poterne studiare la mummia. Se il suo comportamento rispondeva a ragioni scientifiche, e quindi giustificabili, non si può dire lo stesso riguardo a quello di Howard Carter, scopritore della tomba di Tutankhamon. Amante della teatralità, Carter non fu molto sensibile nei confronti delle spoglie mortali di Amenofi. Quando nel 1903 venne nominato ispettore capo del Servizio delle antichità per l’Alto Egitto, pur d’impressionare i turisti fece collocare una lampadina elettrica sopra la testa della mummia. Appena i visitatori giungevano davanti al sarcofago, posto a un piano inferiore, l’ac-

censione della lampadina aveva su di loro un forte impatto emotivo. Fortunatamente però non tutti condividevano il gusto di Carter per la platealità. Nel 1907 il viaggiatore e scrittore Pierre Loti ebbe modo di recarsi in loco e pretese che venisse spento quel lume poco rispettoso. Solo nel 1931 il faraone Amenofi II avrebbe trovato il riposo che merita nel Museo egizio del Cairo. MAITE MASCORT EGITTOLOGA

Per saperne di più

IL FARAONE NEL SUO SARCOFAGO

L’immagine mostra la mummia di Amenofi II nel sarcofago con il coperchio aperto. È illuminata dalla lampadina voluta da Howard Carter per attrarre i visitatori.

SAGGI

Nella tomba di Amenofi II Patrizia Piacentini. Giunti, Firenze, 2017. Amenofi II Pietro Brussino. Ananke, Torino, 2009. Guida alla Valle dei Re. Ai templi e alle necropoli tebane Alberto Siliotti. White Star, Novara, 1999.

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LA DONNA IN GRECIA SOTTO LA TUTELA MASCHILE

METROPOLITAN MUSEUM / SCALA, FIRENZE

Nell’antica Grecia l’autonomia delle donne poteva variare: si passava dal caso delle ateniesi, più sottomesse a costumi restrittivi, a quello delle spartane, che godevano di maggiore indipendenza

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LA CASA COME ORIZZONTE VITALE

Una giovane ripone le vesti in un baule. Rilievo del V secolo a.C. Museo archeologico nazionale, Taranto. L’anfora della pagina precedente, chiamata lutroforo, era impiegata nei rituali di nozze. BRIDGEMAN / ACI

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LA CURA DEI FIGLI

BRIDGEMAN / ACI

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ella Grecia antica la donna non aveva alcun riconoscimento giuridico, politico o sociale. Veniva tenuta lontana dalla sfera pubblica e non poteva avere accesso allo status di cittadina perché non svolgeva incarichi nelle istituzioni della polis. Il suo ruolo era quello di sposa e soprattutto di madre, visto che doveva “garantire” la nascita di nuovi cittadini e perpetuare la stirpe del marito. Nella Politica Aristotele afferma: «La libertà concessa alle donne è dannosa sia all’intento della costituzione sia alla felicità dello Stato».

Sempre sotto tutela A causa del suo ruolo di moglie e di madre, la donna viveva nell’area femminile per eccellenza, l’oikos, la casa. Veniva iniziata all’età adulta

tramite il matrimonio, occasione in cui passava dalla tutela del padre a quella del marito, e per tutta la vita dipendeva da un uomo: il tutore, o kyrios (letteralmente il termine significa “padrone”). Dopo la cerimonia delle nozze si stabiliva nella casa del coniuge, che diveniva il suo nuovo focolare. Alla vigilia del matrimonio il padre della promessa sposa compiva un sacrificio agli dei mentre la ragazza dedicava i giocattoli dell’infanzia ad Artemide, impegnandosi a rispettare gli obblighi di una donna sposata. Il giorno della festa le altre donne le portavano dell’acqua in un recipiente molto caratteristico chiamato lutroforo: serviva per il bagno purificatore. Questo contenitore, dalla forma allungata, il collo alto e ornato con scene matrimoniali, poteva poi essere deposto come offerta nei templi – per esempio nel santuario delle Ninfe sull’Acropoli – o come parte del corredo funebre nelle tombe delle nubili. La comitiva di donne aveva inoltre il compito di preparare la promessa sposa e farle indossare una corona nella propria casa, dove avrebbe poi atteso l’arrivo del futuro marito e dei suoi compagni. Sempre nella dimora della

SPECCHIO CON UNA RAGAZZA E FIGURE DI EROS. V SECOLO A.C. WALTERS MUSEUM, BALTIMORA. BRIDGEMAN / ACI

Era la madre a occuparsi dell’educazione dei figli. Stele funeraria con una madre e un bambino. V secolo a.C. Musée du Louvre, Parigi.


ADDIO ALL’INFANZIA

In questa decorazione su ceramica la ragazza che assieme alle amiche si prepara per le nozze è Ippodamia. Sta per unirsi al re dei lapiti Piritoo. Lo sposalizio di Ippodamia e Piritoo è un episodio celebre della mitologia greca. FOTO: BRIDGEMAN / ACI

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ETERE, LE DONNE PIÙ LIBERE

fanciulla il padre celebrava un banchetto, al termine del quale la giovane avrebbe tolto il velo. Era quello il momento simbolico in cui il genitore cedeva la custodia della figlia al marito, che quindi la scortava festosamente nella nuova casa assieme a parenti e amici, alla luce delle torce e al suono della musica. I festeggiamenti proseguivano fino al giorno seguente, in cui la sposa riceveva i regali dei parenti e degli amici nella sua nuova casa.

Il gineceo

RMN-GRAND PALAIS

Nell’ambiente domestico, sorvegliato dal capo della famiglia, la moglie occupava il gineceo, un’area per sole donne che in genere si trovava nella parte più nascosta della casa. Nelle stele funerarie e nelle ceramiche compare spesso rappresentato tale spazio intimo e personale, l’unico luogo dove la donna poteva esercitare la propria autorità.

La pittrice MarieGeneviève Bouliard rappresenta sé stessa nelle vesti di Aspasia. 1794. Musée des Beaux-Arts d’Arras.

Le mansioni femminili riguardavano la gestione dell’economia domestica. Una delle maggiori attività consisteva nella realizzazione dei tessuti. La donna di casa realizzava vesti e altre stoffe al telaio, che divenne uno strumento della quotidianità. La stretta relazione tra donne e tessitura acquisì un importante valore simbolico, come si può notare nel mito di Penelope, la moglie di Ulisse divenuta l’emblema della fedeltà coniugale. La figura di Penelope è legata proprio al telaio: durante il giorno prepara il sudario per il suocero Laerte, durante la notte lo disfa pur di non sposare uno dei suoi pretendenti. Difatti tutti credevano che Ulisse fosse morto, mentre lei era certa che il suo sposo sarebbe tornato. La quotidianità femminile era talmente segnata dal lavoro tessile che uno degli oggetti archeologici piuttosto frequenti negli scavi è l’epinetron, uno strumento in legno o in ceramica a forma di cilindro cavo e chiuso a un’estremità che veniva appoggiato sulle gambe. Le donne greche lo infilavano sul ginocchio e lo utilizzavano per torcervi EPINETRON (UTENSILE PER CARDARE LA LANA) CON SCENA DI GINECEO E TESTA FEMMINILE A UN’ESTREMITÀ. V SECOLO A.C.

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AKG / ALBUM

BRIDGEMAN / ACI

ASPASIA DI MILETO

ORONOZ / ALBUM

ANCHE SE IL RUOLO TRADIZIONALE della donna era quello di madre e moglie, non mancavano le eccezioni. Una era il caso delle etere, che tenevano compagnia agli uomini nei banchetti, intrattenendoli con danze, musiche e discorsi raffinati. Potevano ricevere un’educazione e il loro stato gli consentiva di accedere ai luoghi preposti agli uomini. L’etera più famosa fu senza dubbio Aspasia di Mileto, il cui nome è rimasto nella storia. Compagna del politico ateniese Pericle, la donna s’impose come figura chiave nell’Atene della sua epoca. Famosa per la bellezza e per l’intelligenza, conobbe alcuni tra i personaggi più noti di allora, come Socrate o Fidia. Gli attacchi a lei mossi dai suoi contemporanei avevano in realtà lo scopo di screditare il compagno.


LA SPOSA CHE ATTENDE

In questa ceramica compare Penelope vicino al telaio assieme a Telemaco, il figlio avuto da Ulisse. Penelope promise che avrebbe sposato uno dei suoi pretendenti solo dopo aver ultimato il sudario che stava preparando. Nella notte, però, lo disfaceva pur di prendere tempo.

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EDUCAZIONE MUSICALE

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sopra il filo di lana. Spesso gli epinetra venivano offerti come regali di nozze; alcuni presentavano una decorazione estremamente accurata, che poteva includere la testa della dea dell’amore, Afrodite. Tra le mansioni delle donne di casa si annoveravano anche la preparazione del cibo e la cura dei figli. L’educazione di bambini e bambine ricadeva sotto la responsabilità delle madri anche se, a partire da una certa età, i maschi erano affidati a un pedagogo, mentre le bambine venivano istruite alla musica. Era comune che le figlie dei cittadini imparassero a suonare la lira, mentre l’aulos (un antenato del flauto) era appannaggio delle prostitute.

Fuori di casa Sebbene la donna greca trascorresse la maggior parte del tempo in casa, in alcune occasioni le era permesso recarsi nei luoghi

pubblici. Era il caso della partecipazione alle festività religiose, durante le quali le mogli potevano abbandonare il gineceo. Non a caso la religione era l’unico ambito nel quale una donna poteva svolgere mansioni rilevanti, come divenire sacerdotessa o partecipare attivamente ai culti. È il caso delle arrèfore, incaricate tra le altre cose di tessere il peplo per vestire la statua della dea Atena sull’Acropoli. Esistevano pure feste esclusivamente femminili, in genere associate all’agricoltura e alla fertilità della terra. Durante le Tesmoforie le donne si riunivano per rendere omaggio alla dea Demetra e alla figlia Persefone. In occasione di questa festività sacrificavano maialini da latte che poi seppellivano in pozzi attorno ai templi dedicati a tali divinità agricole. Tempo dopo ne riesumavano i resti e li spargevano ritualmente nei campi assieme alle sementi. Nella festa delle Lenee invece le donne abbienti si trasformavano in menadi e, senza più freni inibitori né rispetto per le norme sociali, prendevano parte al corteo di Dioniso. Non bisogna infine dimenticare che la famosa Pizia di Delfi, dalla cui bocca Apollo emetteva gli oracoli, era una donna.

UNA DONNA CUCINA, UNA BAMBINA L’OSSERVA. V SECOLO A.C. MUSEUM OF FINE ARTS, BOSTON.

BRIDGEMAN / ACI

Una giovane suona la lira davanti a un’altra ragazza. Decorazione di una pelike (un tipo di vaso) attribuita a Polignoto di Taso o alla sua bottega. V secolo a.C.


CONSACRAZIONE A DIONISO

Nel 1889 il pittore olandese Lawrence Alma-Tadema immaginò così un rituale in onore di Dioniso, dio del vino e dell’ebbrezza. In tali celebrazioni le donne svolgevano un ruolo fondamentale. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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LE DONNE DI GORTINA ANCHE IN ALTRE CITTÀ, e non solo a Sparta, le donne erano più

LIBERTÀ CRETESI

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Le donne s’incaricavano pure dei riti funebri. Preparavano il corpo del defunto ungendolo e vestendolo e partecipavano alla processione rituale, nella quale svolgevano il ruolo di prefiche e gridavano il loro dolore, mentre gli uomini rimanevano in silenzio. Oltre a ciò, uscivano di casa anche per andare a far visita ad altre donne o per partecipare alle cerimonie di nozze. Si sa con certezza che non potevano esibirsi come attrici o collaborare alle rappresentazioni teatrali; gli studiosi non sono però concordi sul fatto che potessero o meno assistere agli spettacoli.

Più libertà Va tenuto conto del fatto che non tutte le città imponevano le stesse restrizioni e vietavano l’accesso agli spazi urbani. Sotto quest’aspetto Atene costituiva la realtà più chiusa, mentre a Sparta le donne godevano di maggiore libertà. Il principale legislatore di Sparta, Licurgo, istituì l’allenamento fisico per entrambi i sessi. In verità lo scopo ultimo non era favorire la parità di genere, bensì fare in modo che le donne fossero più forti e sopportassero meglio il parto. In ogni caso diversi elementi lasciano supporre che le spartane fossero meno recluse rispetto al50 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Dracma coniata sull’isola di Creta, dove si trova Gortina. L’immagine sul rovescio corrisponde alla dea Era. 350-222 a.C.

le ateniesi. Ne dà prova lo stesso Aristotele nella Politica: «Le donne dei laconi [gli spartani] furono quanto mai funeste […] ma c’erano fin dal principio buone ragioni per cui la licenza femminile dovesse farsi strada tra i laconi: essi rimanevano molto tempo fuori della patria per le loro spedizioni». Le differenze esistevano non solo tra le poleis, ma anche tra le classi sociali. Per quanto curioso possa sembrare, le schiave avevano maggiore libertà di movimento, giacché dovevano recarsi al mercato o alla fonte per l’acqua, come si può notare nelle decorazioni di alcune ceramiche. E le donne povere non potevano permettersi di rimanere chiuse in casa perché lavoravano: quelle di lavandaie, tessitrici, venditrici, nutrici e levatrici erano professioni a carattere prettamente femminile. MARÍA JOSÉ NOAIN ARCHEOLOGA

Per saperne di più

SAGGI

Gli inganni di Pandora Eva Cantarella. Feltrinelli, Milano, 2019. L’ambiguo malanno Eva Cantarella. Feltrinelli, Milano, 2017. La donna greca M. P. Castiglioni. Il Mulino, Bologna, 2019. LIBRI PER BAMBINI

Mitiche Giulia Caminito, Daniela Tieni. La Nuova Frontiera Junior, Roma, 2020.

BRIDGEMAN / ACI

ORONOZ / ALBUM

ORONOZ / ALBUM

libere di quanto non lo fossero ad Atene. Secondo le leggi di Gortina, a Creta, le donne avevano il diritto di ereditare e gestire i propri possedimenti. Si trattava di un modo implicito per riconoscere il valore del lavoro femminile e la conseguente capacità di generare ricchezza. Oltre ad amministrare i beni, le donne diventavano tutrici dei figli nel caso in cui il padre o il marito avessero infranto le leggi preposte a tale scopo. Nell’antica città cretese sono stati rinvenuti dei documenti riguardanti la legislazione circa il matrimonio, il divorzio e il possesso dei beni di serve e schiave. La stessa è stata comparata con quella GE relativa alle donne benestanti. FO T


RITO FUNEBRE

Il giovane Ofelte (personaggio mitologico chiamato anche Archemoro) giace sul letto di morte mentre una donna l’avvolge nel sudario. Ceramica del IV secolo a.C. Museo archeologico nazionale, Napoli.

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COSÌ GLI AUTORI GRECI VEDEVANO LE DONNE Nei testi greci è tramandata una visione estremamente negativa del genere femminile, in cui si concentrano i peggiori aspetti dell’animo umano.

egli antichi testi greci di carattere filosofico, epico o letterario, traspare sempre la visione negativa delle donne. Lo sguardo misogino degli autori ha dato luogo a una concezione piena di stereotipi del genere femminile, al quale sono stati attribuiti i peggiori aspetti del carattere umano. Nella Teogonia Esiodo descrive il mito della creazione di Pandora, la ragazza che aprì il vaso o la scatola in cui erano contenuti i mali che avrebbero afflitto la terra: «E meraviglia colse le genti mortali ed i numi, quando l’eccelsa frode funesta agli umani fu vista. Da questa derivò delle tenere donne la stirpe, la razza derivò, la donnesca genía rovinosa, grande iattura, che vive fra gli uomini nati a morire, che della povertà compagne non sono, ma del lusso». Le opere teatrali costituiscono una fonte inesauribile d’informazioni circa i pregiudizi maschili. Euripide mette in bocca a Medea la seguente affermazione: «Noi donne per natura siamo incapaci di belle azioni, ma nelle arti del male siamo molto esperte». I testi non parlano solo dei difetti femminili, ma cercano anche di attribuire alle donne un comportamento “corretto”, basato su riserbo e sottomissione. Ne è un esempio Sofocle. In Aiace l’eroe si rivolge così alla moglie o concubina Tecmessa: «Reca il tacer pregio alle donne». L’espressione più evidente della misoginia appare in Aristotele, e tramite questi rimarrà in auge anche nel Medioevo. Infatti nella Politica il filosofo dichiara: «Nelle relazioni del maschio verso la femmina, l’uno è per natura superiore, l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata». Dovranno trascorrere più di venti secoli perché una simile idea inizi a incrinarsi.

ARISTOTELE

Il busto in marmo del filosofo, vissuto tra il 384 e il 322 a.C., risale all’epoca romana ed è conservato nella Galleria degli Uffizi, a Firenze. FOGLIA / SCALA, FIRENZE


FASCINO GIOVANILE

Questa superba scultura femminile intagliata nel marmo è nota come Kore di Euthydikos. Prende il nome di chi la diede in offerta alla dea Atena. 490 a.C. Museo dell’Acropoli, Atene. LUISA RICCIARINI / BRIDGEMAN / ACI


PLINIO IL VECCHIO

Il grande esploratore naturale dell’antichità


CURIOSITÀ PER IL MONDO

Interessato ai misteri della natura, Gaio Plinio Secondo scrisse, tra le altre opere, la Naturalis historia, in 37 libri. Nell’immagine, Plinio descrive la natura che lo circonda. Manoscritto medievale. British Library, Londra. BRITISH LIBRARY / AGE FOTOSTOCK

Nella sua opera più famosa, la Naturalis historia, Plinio il Vecchio raccolse tutto il sapere dell’antichità sul mondo naturale, dalla flora e dalla fauna fino alle popolazioni più esotiche


C R O N O LO G I A

Saggio e ministro imperiale 23

Nasce Gaio Plinio Secondo. Suo padre è un cavaliere e sua madre la figlia di un senatore. Viene educato a Roma da Publio Pomponio Secondo.

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Dopo aver prestato servizio militare in Germania agli ordini di Gneo Domizio Corbulone, torna a Roma e si dedica allo studio.

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Svolge incarichi ufficiali per l’imperatore Vespasiano. Scrive trattati sulla cavalleria, una storia di Roma e delle cronache.

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Viene nominato procuratore in Spagna Tarraconense. Viaggia per la penisola iberica, in Gallia e in Africa. Completa una storia in 31 libri.

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Plinio termina la sua grande opera, la Naturalis historia, che ambisce a riunire tutto il sapere del suo tempo sul mondo della natura. La dedica all’imperatore Tito.

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È a Miseno durante l’eruzione del Vesuvio. Mentre cerca di raggiungere Stabia per soccorrere le vittime, muore di asfissia.

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ALBUM

FRONTESPIZIO RICOLORATO DELLA NATURALIS HISTORIA DI PLINIO IL VECCHIO IN UN’EDIZIONE DEL 1516.

CONGELATA NEL TEMPO

L’immagine qui sopra mostra una delle strade della città romana di Pompei, sepolta dall’eruzione del Vesuvio (sullo sfondo) nel 79 d.C.

N

ell’autunno del 79 d.C., in mezzo alla pioggia di cenere e al terrore provocati dall’eruzione del Vesuvio, moriva Gaio Plinio Secondo, il grande naturalista che i posteri avrebbero ribattezzato come Plinio il Vecchio, per distinguerlo dall’omonimo nipote e figlio adottivo. L’eruzione lo sorprese mentre si trovava nella zona. Di fronte a quello strano spettacolo, Plinio chiese che gli preparassero un’imbarcazione leggera per avvicinarsi al vulcano e osservare il fenomeno nel modo più preciso possibile. Mentre stava per salpare, giunse una richiesta di aiuto che cambiò immediatamente i suoi piani, obbligandolo a svolgere le sue funzioni di comandante della flotta imperiale. Invece della nave leggera chiese allora che fossero allestite delle quadriremi con le quali andare a soccorrere la popolazione colpita, che poteva fuggire solo per mare. Ma le correnti marine e le frane gli impedirono di raggiungere la sua destinazione, e morì asfissiato dai gas vulcanici.


AKG / ALBUM

TRAGEDIA A POMPEI

ALAMY / ACI

PLINIO IL GIOVANE racconta così la morte dello zio: «Sostenuto da due giovani servi, si alzò in piedi, ma subito ricadde, perché, suppongo, l’aria ispessita dalla caligine aveva ostacolato la respirazione e ostruito la trachea, che per natura egli aveva delicata e stretta, e di frequente congestionata […] Il suo corpo fu ritrovato integro, illeso, e con ancora intatte le vesti che indossava».

La vita di Plinio il Vecchio fu sempre caratterizzata dalla compresenza di questi due distinti ruoli: quello del politico e militare di alto rango appartenente alla classe equestre, e quello dello studioso con una curiosità pressoché illimitata e una sete inestinguibile di conoscenza.

Letterato e uomo d’armi

venti libri intitolato Sulle guerre di Germania ispirato, secondo quanto scrisse Plinio il Giovane, dal fantasma di Nerone Claudio Druso – figlio adottivo dell’imperatore Tiberio – che apparve in sogno allo studioso mentre questi stava prestando servizio militare nella suddetta provincia. Ci è giunta inoltre menzione di due trattati di retorica che sarebbero stati scritti durante il regno di Nerone, quando le circostanze non permettevano di esprimersi liberamente su temi politici; così come di un altro testo storico sulle guerre germaniche, che proseguiva il lavoro di Aufidio Basso sullo stesso argomento. Ma soprattutto ci sono i trentasette libri della Naturalis historia, la Storia naturale, l’unica delle opere di Plinio il Vecchio giunta fino ai nostri giorni. Il nipote racconta che lo studioso era costretto a continui equilibrismi tra i suoi doveri politico-militari e i suoi interessi intellettuali. Di fatto, nessuno al corren- CALA, FIR

TEMPI DI TIRANNIA

Durante il regno di Nerone, Plinio visse a Roma, dove si dedicò soprattutto allo studio della grammatica e della retorica. In basso, dritto di un aureo con l’effigie dell’imperatore. Museo civico, Padova.

S

La maggior parte delle nostre informazioni sulla vita di Plinio proviene da due lettere di suo nipote: una contiene un resoconto delle sue ultime ore ed è indirizzata allo storico Tacito; l’altra fu inviata a un certo Bebio Macro, una figura influente nella sfera politica e sociale romana. L’interesse dei suoi interlocutori per l’opera dello zio spinse Plinio il Giovane a stilare una lista cronologica dei testi da lui scritti. Il primo era un trattato di tecnica militare, Sul lancio del giavellotto da cavallo, seguito da una biografia del suo amico Pomponio Secondo, letterato e governatore romano in Germania superiore. Ci sono poi testimonianze di un testo storico in

MORTE DI PLINIO. PIERRE-HENRI VALENCIENNES. 1813. MUSÉE DES AUGUSTINS, TOULOUSE.

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AGE FOTOSTOCK

VISIONE DELL’UNIVERSO

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L’incisione qui sopra si trova all’inizio del libro II della Naturalis historia di Plinio, dedicato all’universo e alla terra, in un’edizione pubblicata a Francoforte nel 1582.

te della dedizione con cui affrontava i suoi impegni pubblici avrebbe sospettato che conducesse una vita di studi così intensa e produttiva; viceversa, chi conosceva la sua enorme produzione come scrittore ignorava che ricoprisse cariche pubbliche che implicassero tali e tante responsabilità. Nella prefazione alla Naturalis historia, è lo stesso autore ad affermare quanto segue rivolgendosi all’imperatore Tito, al quale era dedicata l’opera: «Poiché sono un uomo, e occupato negli uffici, studio queste cose nel tempo libero, cioè di notte: che non pensiate che io mi distragga nelle vostre ore. Il giorno lo spendo al vostro servizio. Dormo poi quanto basta a mantenermi sano, contento di questo premio solo, che mentre, come dice Varrone, m’impiego intorno a queste cose, vivo più ore».

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PLINIO IL VECCHIO CON INDOSSO VESTI MILITARI E MANTELLO. INCISIONE A COLORI DEL XIX SECOLO. COLLEZIONE PRIVATA. 58 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Come si può vedere, la maggior parte dei testi di Plinio sono intrinsecamente legati alla sua attività politica: il suo trattato sulla tecnica del lancio del giavellotto da cavallo è direttamente connesso al suo status di cavaliere nella stratificata società romana. Gli scritti storici trattano delle campagne da lui vissute in prima persona, e anche quelli di retorica hanno a che fare con l’abilità oratoria richiesta dall’esercizio politico del suo tempo. Eppure, di tutta l’ingente opera di Plinio si è conservata l’unica sezione che non dipende dall’attività pubblica, ma dalla sua “altra vita”, quella di uno studioso instancabile alla costante ricerca di nuove conoscenze.

Enciclopedia della natura La lettera di Plinio il Giovane descrive la Naturalis historia come «un’opera di grande lunghezza ed erudizione, varia come la natura stessa». Il testo raccoglie e offre ai lettori un compendio della ricchezza di fenomeni ed esseri viventi che l’ambiente esterno può


PRODIGI DIFFICILI DA CREDERE

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SCIENCE SOURCE / ALBUM

ella sua opera Plinio menziona diversi animali che sembrano frutto della fantasia. Parlando di serpenti, per esempio, cita l’anfisbena (da un termine greco che significa “che va in due direzioni”). Secondo lo studioso, «le anfisbene hanno due teste, cioè l’una dal capo e l’altra dalla coda, quasi che fosse poco gettare veleno per una bocca sola. Alcune serpi hanno scaglie, altre pitture, ma tutte hanno mortali veleni». Plinio si limitava a riportare le notizie che leggeva in testi di altri autori, senza ritenere necessariamente che fossero vere. Così, quando parla dell’araba fenice – un uccello che secondo il mito viveva 500 anni per poi morire su una pira da cui sarebbe sorto un nuovo esemplare –, Plinio dice che è qualcosa che si racconta, sottolineando che potrebbe trattarsi di una favola.

offrire. Si tratta quindi di un’enciclopedia completa del mondo, e per tutta la tarda antichità e il Medioevo rappresentò il testo di riferimento per coloro che volevano approfondire la conoscenza dei fenomeni naturali. Ecco cosa contiene. Nel libro I si possono trovare gli indici generali. Il libro II offre una spiegazione del cosmo che, secondo la visione di molti autori dell’epoca, viene descritto come una struttura composta dalla sovrapposizione di diversi strati contenuti l’uno nell’altro: prima di tutto il fuoco, che in base alle credenze del periodo era la materia costitutiva delle stelle e circondava l’atmosfera; in seguito veniva posta l’aria, poi l’acqua e infine la terra, solida e rotonda al centro dell’universo. Dal III al VI libro Plinio si occupa di geografia: parte dall’Italia e dalla sua sfera d’influenza e passa per la Grecia per poi allontanarsi e descrivere territori sempre più remoti fino a raggiungere i confini del mondo conosciuto, che all’epoca andava dallo stretto di Gibilterra – le famose colonne

SERPENTE BICEFALO

Immagine dell’anfisbena nella miniatura di un bestiario medievale. Secondo un mito greco, questo animale nacque dal sangue versato dalla gorgone Medusa quando fu decapitata dall’eroe Perseo.

d’Ercole – alla valle del Gange in Oriente. A nord, il limite era rappresentato dalle isole britanniche. A sud, la conoscenza del continente africano, chiamato Libia dai greci, superava di poco il parallelo del golfo di Guinea. Questo è il teatro in cui si muovono i viventi, a cui Plinio rivolge ora il suo sguardo. Nel libro VII si occupa dell’essere umano, per poi passare alle differenti varietà di animali, ordinati secondo la loro maggiore o minore vicinanza all’uomo: animali terrestri (VIII), acquatici (IX), uccelli (X) e insetti (XI), in base alla loro fisiologia e alle loro forme di comportamento. Il modo d’intendere questi diversi ordini, però, non coincide esattamente con quello attuale. Plinio inserisce per esempio tra gli insetti tutti gli artropodi, compresi ragni e scorpioni, che per noi appartengono a un gruppo a parte; e tra gli uccelli include anche creature come i pipistrelli. Nell’antichità già si sapeva che erano mammiferi, in quanto producevano latte, ma venivano considerati un’eccezione nel mondo dei volatili. A loro volta i mammiferi STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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INCISIONI DAL LIBER CHRONICARUM DI HARTMANN SCHEDEL (1493), CON UNA MAPPA DEL MONDO E DIECI ESEMPI DI PRESUNTI POPOLI COSÌ COM’ERANO DESCRITTI DAGLI AUTORI ANTICHI.

2.

1.

India

ti». Plinio però sostiene che l’atteggiamento corretto di un uomo saggio è quello di essere aperto a realtà diverse da quelle del suo mondo: «Chi infatti avrebbe potuto credere che esistano gli etiopi [che in greco significa “dal viso bruciato”] prima di averli visti? […] Ma la forza e la maestosità della natura sono difficili da credere per coloro che considerano solo alcune parti di essa e non la sua totalità». Di seguito, alcune delle informazioni da lui riportate su alcuni popoli di fantasia.

POPOLI CURIOSI

Etiopia

Arabia

el libro VII della Naturalis historia Plinio racconta ciò che greci e romani sapevano (o pensavano di sapere) sui popoli dell’Africa, dell’Asia centrale e dell’India. «Non dubito che a molte persone alcune cose sembreranno prodigiose e incredibili», scrive, e mette le mani avanti dicendo: «Non ho intenzione di legare la mia attendibilità alla maggior parte di queste cose, e per tutti gli aspetti dubbi farò riferimento agli autori che sono nomina-

Libia GRANGER / ACI

7.

6.


FOTO: BRIDGEMAN / ACI

5.

4.

3.

«Si dice che nella parte più lontana della montagna ci siano i pigmei (10 ), che non superano le tre spanne in altezza. Lì l’aria è molto sana, è sempre primavera [...] Secondo Omero [i pigmei]sono vittime delle gru».

«Ctesia scrive di una stirpe di uomini, che sono detti monocoli, con una gamba sola, e di straordinaria agilità nel salto; che gli stessi sono chiamati sciapodi (7 ), perché durante il caldo più intenso si sdraiano a terra supini, riparandosi con l’ombra dei piedi […] ci sono alcuni senza collo (8 ), che hanno gli occhi sulle spalle. Ci sono anche i satiri (9) nelle montagne della parte orientale dell’India; sono una specie di esseri velocissimi, che camminano a volte a quattro zampe e a volte eretti, alla maniera umana».

«Sul monte Nulo, scrive Megastene, ci sono uomini (5 ) con i piedi volti al contrario, avendo otto dita in ciascun piede; e in altri monti ci sono uomini con teste di cane (6 ), i quali si vestono di pelli di fiere, e invece di parlare abbaiano: e armati di unghie vivono di cacciagione e uccellagione. E si dice che questi fossero stati più di centoventimila».

«Nel levante settentrionale, da quella spelonca che si chiama Gescliton, si dice che abitano gli arimaspi (3 ) […] i quali hanno un occhio solo in mezzo alla fronte [...] Scrive Callifane che oltre i nasamoni ci sono i maclii (4 ), che sono androgini e hanno entrambi i sessi, e si accoppiano alternando le loro nature. Aristotele aggiunge che essi hanno la poppa destra di un maschio e quella sinistra di una femmina».

i sono altre isole dove gli uomini nascono con zoccoli di cavallo, e perciò sono chiamati ippopodi (1 ); e in altre vivono i fannesi (2 ), che vanno in giro nudi e si limitano a coprirsi con le loro enormi orecchie».

TRIBÙ FAVOLOSE

10.

9.

8.


PLINIO NEL RINASCIMENTO

Questa pagina splendidamente illustrata appartiene alla prefazione di una delle prime versioni stampate della Naturalis historia, realizzata a Venezia nel 1472. British Library, Londra.

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PIANTE CURATIVE MULTIUSO

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el libro XXVII della Naturalis historia Plinio si concentra sulle piante e sui molteplici rimedi che possono offrire per il trattamento di diversi disturbi. Alcuni di questi erano conosciuti fin dall’antichità. In certi casi sono davvero pittoreschi, tanto da sembrare quasi assurdi: «Senocrate chiama gallidraga [dipsacus pilosus] una pianta simile al leucacanto [carduus leucogra] palustre e spinosa, con uno stelo di canna, alto, alla cui estremità è attaccata una cosa simile a un uovo. Dice che quando arriva l’estate su questa nascono dei vermetti, che chiusi in un vasetto vanno legati con del pane al braccio dallo stesso lato in cui si ha male a un dente, e che stranamente così passa il dolore. Che durano non più a lungo di un anno e solo se non toccano terra».

ALAMY / ACI

marini, la cui natura era anch’essa ben nota, erano classificati come una sottocategoria dei pesci, quella dei kete o «mostri marini», in cui rientravano anche altri esseri acquatici come per esempio il tonno o alcune varietà di squalo.

AKG / ALBUM

I libri delle piante Dopo gli animali, l’autore si occupa delle piante dal XII al XIX libro, iniziando con le specie lontane ed esotiche per poi avvicinarsi gradualmente all’ambiente a lui più prossimo. Per prima cosa nell’opera vengono citate le piante provenienti dall’Asia, in particolare dall’India e dall’Arabia: Plinio parla anche delle preziose materie prime da esse prodotte, come le spezie e le sostanze aromatiche. C’è poi una sezione dedicata alle piante africane, che comprende un’approfondita descrizione della pianta del papiro e del suo utilizzo per elaborare il materiale di supporto della scrittura. Si tratta di un testo di grandissimo valore storico per gli studiosi contemporanei, in quanto permette

BOTANICI DELL’ANTICHITÀ

Plinio non fu l’unico a parlare dell’uso delle piante. Anche Dioscoride lo fece nel suo De materia medica. Sopra, disegno della mandragola in una copia di quest’opera. VII secolo. Biblioteca nazionale, Napoli.

di ricostruire come si producevano i “libri” nel mondo antico. «Infino a qui non s ‘è ragionato dei luoghi paludosi, né degli alberi de’fiumi. Ma nondimeno prima che ci partiamo d’Egitto, parleremo della natura del papiro, poiché con l’uso della carta principalmente si conserva la storia della vita umana», scrive Plinio. Quando arriva il momento di trattare l’ambiente a lui più vicino, l’autore opera una precisa distinzione tra piante coltivate e piante spontanee. I capitoli botanici sono direttamente relazionati con la sezione successiva, che Plinio dedica ai rimedi e alle sostanze medicinali che si possono ricavare dalle piante (libri XX-XXVII). Si sofferma

Per Plinio i mammiferi marini formavano un gruppo a parte all’interno dei pesci: i kete o «mostri marini» STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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RMN-GRAND PALAIS

con dovizia di particolari sull’uso di erbe, fiori, foglie, frutti, resine, linfa, corteccia e semi. In questa parte dedicata alla farmacopea vegetale trova sorprendentemente spazio anche una disamina sulle proprietà terapeutiche del miele, che erano considerate connesse a quelle delle piante che producono il polline. A questa sezione ne segue una piuttosto ampia sulla farmacopea animale (libri XXVIII-XXXII), che tratta delle virtù curative o velenifere delle diverse sostanze che si possono estrarre dalle bestie, come sangue, bile, midollo, latte, sterco e altri materiali e tessuti. Plinio tratta approfonditamente anche l’uso farmacologico del veleno prodotto da animali come i serpenti o gli scorpioni. La Naturalis historia si chiude con una sezione dedicata ai minerali (libri XXXIII-XXXVII). Curiosamente, questa parte

CRISTALLI DI ALLUME. PLINIO AFFERMA CHE L’ALLUME SI TROVA NATURALMENTE NELLA TERRA, È SOLUBILE IN ACQUA E HA UN SAPORE DOLCE. INCISIONE. XIX SECOLO. 64 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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SEGRETI DELLA MEDICINA

In alto a sinistra, miniatura della cura di un ferito descritta nel libro XXVI della Naturalis Historia. 1460. A destra, illustrazione sull’uso delle piante medicinali. 1481. Biblioteca nazionale Marciana, Venezia.

comprende un volume dedicato alla pittura, il libro XXXV, che è diventato un testo di riferimento fondamentale per chi studia storia dell’arte. Come nel caso del miele e della farmacopea vegetale, a volte la struttura dell’opera non obbedisce tanto alla rigidità di uno schema logico, quanto piuttosto a un’associazione d’idee libera e asistematica. Ecco perché la natura minerale di molti pigmenti giustifica l’inclusione della pittura in questa parte del trattato. La Naturalis historia di Plinio mira a coprire tutta l’ampiezza e la varietà della natura, dalla struttura complessiva dell’universo ai segreti del mondo inanimato delle pietre, passando per gli esseri viventi, le loro caratteristiche, virtù e usi. Facendosi guidare dai propri criteri di pertinenza, Plinio elenca nel libro I gli autori che sono stati le sue fonti d’informazione per ogni sezione. L’opera è un prodotto delle letture effettuate dallo studioso nel corso degli anni, nelle ore che rubava al sonno, o quando ordina-


BRIDGEMAN / ACI DAGLI ORTI / AURIMAGES

L’ORIGINE DELL’ARTE

va a uno schiavo di leggere per lui mentre viaggiava, mangiava o riceveva un massaggio. Nella lettera a Bebio Macro, Plinio il Giovane racconta che lo zio consacrava alla lettura ogni istante che non doveva dedicare allo svolgimento dei suoi doveri pubblici.

Plinio non passa mai di moda La Naturalis historia divenne ben presto un punto di riferimento obbligatorio per chiunque volesse conoscere qualche aspetto della natura, e rimase un paradigma per i secoli successivi alla morte di Plinio, ben oltre la fine del Medioevo. Gli autori di opere enciclopediche che vissero dopo di lui, come Boezio, Cassiodoro, Isidoro di Siviglia o Vincenzo di Beauvais, tanto per citarne alcuni, si nutrirono delle sue pagine. L’influenza delle sue idee è osservabile finanche in epoca illuminista. Ma questo risultato è veramente spiegabile solo basandosi sull’ampiezza del testo o sul suo carattere enciclopedico? Forse l’elemento chiave che distingue l’opera di Plinio il Vecchio dalle altre enciclo-

IL XXXV LIBRO della Naturalis historia è interamente dedicato all’arte. Qui Plinio racconta una leggenda sull’origine della scultura. Una fanciulla corinzia proiettò con una lucerna l’ombra del suo amato su un muro e poi ne tracciò il contorno. Il padre della ragazza, Butade, vi applicò sopra uno strato di argilla e poi fece cuocere la forma ottenuta con altro vasellame. LA FANCIULLA CORINZIA. OLIO DI JOSIAH WEDGWOOD. 1782-1784.

pedie dell’antichità, e a cui probabilmente deve il suo enorme successo, è proprio la consapevolezza dell’autore in merito al fatto che non si tratta di un volume da leggere dall’inizio alla fine, ma di un testo di consultazione. Va ricordato che anticamente i libri avevano forma di rotoli, quindi non c’erano numeri di pagina e non si potevano inserire segnalibri per ritrovare più agevolmente certi passaggi. Eppure l’autore prese una decisione che rende molto più agevole la consultazione di questo testo, e in base alla quale è possibile spiegarne la fortuna successiva: nel libro I Plinio mette a disposizione dei suoi lettori degli indici. E forse fu proprio questo elemento ad aver reso l’opera un unicum nella letteratura antica. IRENE PAJÓN LEYRA UNIVERSITÀ DI SIVIGLIA

Per saperne di più

TESTI

Storia naturale Plinio il Vecchio. Einaudi, Torino, 1988. SAGGI

Plinio il Vecchio Mario Margheritis. Mimesis, Sesto San Giovanni (MI), 2017.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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LA FAUNA DELL’AFRICA VISTA DA ROMA

1  SERPENTI

2  SCIMPANZÉ

«Ne esistono di vari tipi. Le ceraste hanno quattro piccole corna, col moto delle quali attraggono a sé gli uccelli, mentre il resto del corpo resta nascosto». In questo caso, Plinio si riferisce alla vipera cornuta.

«Le sfingi e i satiri nascondono il cibo nelle guance e poi lo tirano fuori con le mani per mangiarlo. Quello che le formiche accumulano per un anno, questi lo conservano per un giorno o qualche ora». Secondo alcuni autori, le sfingi di cui parla Plinio nel testo sarebbero in realtà degli scimpanzé.

Il famoso mosaico di Palestrina (antica Praeneste, a sud di Roma), realizzato nel II secolo a.C., illustra la curiosità dei romani per quella che chiamavano Etiopia, cioè l’Africa subsahariana. Nella sua Naturalis historia Plinio riprende la descrizione di quegli animali, mescolando dati veri con elementi di fantasia.

Iena o corocotta

2

1 Iene

Non identificato

Nutrie

Giraffe

Tartarughe

Granchi

4

4

66 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Cinghiali

Molluschi

Potamocero


4  RINOCERONTE

5  COCCODRILLO

6  SCOLOPENDRA

«Una certa somiglianza con il cammello si trova in due animali. Gli etiopi chiamano l’altro nabo, simile nel collo al cavallo, nei piedi e nelle gambe al bue, nel capo al cammello, con alcune macchie bianche, che risaltano il color rosso, onde è stato chiamato cammellopardale». Si tratta di una giraffa o forse di un dromedario.

«Agli stessi giochi [organizzati da Pompeo] fu visto anche il rinoceronte, con un solo corno sul naso […] Questo, l’altro nemico naturale dell’elefante, si prepara alla lotta affilando il suo corno contro le rocce e attacca soprattutto il ventre, che sa essere più vulnerabile».

«Il Nilo dà vita al coccodrillo, un quadrupede funesto e nocivo sia sulla terra sia in acqua. È l’unico animale terrestre che non usa la lingua, l’unico che morde con la mascella superiore, la sola mobile, avendo i denti in fila come un pettine […] Depone uova grandi come quelle delle oche».

Parlando dell’intelligenza degli animali acquatici, Plinio il Vecchio fa l’esempio di un verme marino simile al centopiedi ma di maggiori dimensioni, 28 cm. «Se inghiottono l’amo di un pescatore, le scolopendre vomitano tutte le loro viscere fino a espellere l’amo; poi le ingoiano di nuovo».

DAGLI ORTI / AURIMAGES

3  GIRAFFA

Onocentauro. Animale fantastico simile al centauro, ma con il corpo di un asino. Questa creatura è presente nel mosaico ma non viene citata da Plinio.

Garze

3

Scimmia

6

Babbuino Orso Tigri Leone Asino selvatico

Lucertola

5 Lince con testa umana

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GIOVANNA AL ROGO

Questo quadro in cui Jules Eugène Lenepveu evoca con slancio realista gli ultimi istanti della vita di Giovanna d’Arco è esposto al Pantheon di Parigi. XIX secolo. Nella pagina seguente, Giovanna di fronte al suo giudice, Pierre Cauchon. Pagina miniata del Diario dell’assedio di Orléans. MONDADORI / GETTY IMAGES

68 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC


GIOVANNA D’ARCO SUL ROGO

PHOTO 12 / GETTY IMAGES

Sei secoli fa una ragazza di diciannove anni fu condannata dalla Chiesa per eresia e bruciata viva a Rouen con l’accusa di aver indossato abiti maschili. Ma il suo vero crimine era quello di aver sostenuto il re di Francia contro il sovrano inglese


DEA / GETTY IMAGES

GIOVANNA IN CELLA CON I SUOI CARCERIERI INGLESI. RILIEVO DI VITAL GABRIEL DUBRAY PER LA BASE DELLA STATUA DI GIOVANNA D’ARCO IN PLACE DE MARTROI A ORLÉANS.

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Si dice che questo bacinetto (calotta metallica da portare sotto l'elmo) conservato a lungo nella chiesa di Saint-Pierre du Martroi a Orléans, fosse appartenuto a Giovanna d’Arco. Sarà stato un ex voto?

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erso le sei del mattina di mercoledì 30 maggio 1431 le prime luci illuminarono le mura del castello di Bouvreuil, che con le sue dieci grandi torri dominava la città normanna di Rouen. Il chiarore dell’alba penetrò attraverso la stretta finestra sbarrata che si apriva in uno di questi edifici, dissipando gradualmente l’oscurità di una stanza in cui una ragazza dai capelli rasati giaceva immobile su una branda coperta da un mucchio di paglia. Due ceppi di ferro posti all’estremità di una lunga catena inchiodata a un’enorme trave di legno le bloccavano le caviglie e le incidevano la carne. Nella stessa stanza, tre soldati – i suoi carcerieri – osservavano la prigioniera, rallegrandosi per il suo destino. La ragazza non sapeva che sarebbe morta sul rogo sette ore dopo. Le privazioni del carcere nel quale era rinchiusa da sei mesi, i continui interrogatori e l’angoscia avevano reso il suo volto emaciato e spigoloso. Quella giovane donna dall’aria smunta e dal cranio rasato era Giovanna d’Arco, che

poco tempo prima aveva influito profondamente sul corso della Guerra dei cent’anni, rompendo la sequela inesorabile di vittorie inglesi e risollevando le sorti delle stanche armate francesi e del re Carlo VII. Quella stessa giovane coraggiosa che aveva cavalcato a fianco dei migliori capitani del suo tempo, era stata ferita tre volte in battaglia e aveva tentato due volte di fuggire dalle prigioni in cui era detenuta. Solo sei giorni prima sembrava che il destino che l’attendeva non fosse il rogo. Avrebbe dovuto morire lentamente in prigione, a pane e acqua, rinchiusa tra le quattro mura di una cella: la giovane aveva accettato di tradire sé stessa pur di continuare a vivere, anche se miseramente.

Il primo processo Giovanna era stata ricevuta da Carlo VII due anni prima, quando la posizione del sovrano vacillava di fronte alla pressione dei suoi nemici tra loro alleati: l’Inghilterra e la Borgogna. La giovane contadina aveva candidamente raccontato che le voci che sentiva da quando aveva tredici anni, e che provenivano da Dio, le avevano fatto sapere di essere

DEA / AGE FOTOSTOCK

TEMPO DI COMBATTERE


1425

II-1429

V-1429

1430

1431

All’età di 13 anni, nel suo villaggio natale di Domrémy, Giovanna inizia a sentire delle voci che ritiene divine.

Spinta dalle voci, Giovanna convince il capitano di Vaucouleurs ad accompagnarla dal re Carlo VII.

Giovanna contribuisce a porre fine all’assedio inglese di Orléans. Spinge il re a farsi consacrare a Reims.

Giovanna è catturata a Compiègne dai borgognoni che la vendono agli inglesi.

A Rouen un tribunale della Chiesa condanna Giovanna per eresia. Viene giustiziata il 30 maggio.

CARLO VII DI FRANCIA CON I SUOI CAPITANI. GIOVANNA, LA PULZELLA, È IN BASSO A DESTRA. MINIATURA DELLA CRONACA DI CARLO VII SCRITTA DA JEAN CHARTIER.


Il 10 maggio 1429 il segretario del parlamento di Parigi Clément de Fauquembergue fu informato della vittoria francese a Orléans e disegnò così Giovanna a margine di un documento.

RUE DES ARCHIVES / ALBUM

DEA / GETTY IMAGES

Catturata e processata Dopo alcuni insuccessi militari, Giovanna fu catturata dai borgognoni che la vendettero agli inglesi. Questi la condussero a Rouen, la capitale dei loro domini in Francia, e accettarono di buon grado l’idea dell’Università di Parigi (allora città alleata dell’Inghilterra e della Borgogna) di processare Giovanna per diverse accuse di eresia e stregoneria. Se per i francesi infatti la ragazza era stata mandata da Dio, per gli inglesi e i loro alleati continentali era una creatura diabolica. Il duca di Bedford, governatore della Francia inglese, aveva già scritto al suo giovane nipote Enrico VI d’Inghilterra – proclamato dai suoi sostenitori anche re di Francia – che la disfatta inglese a Orléans era stata provocata da «una seguace del maligno chiamata la Pulzella», la quale aveva fatto ricorso a incantesimi e stregonerie. Durante il processo condotto da Pierre Cauchon, vescovo di Beauvais, e dall’inquisitore Jean Le Maistre, le accuse contro Giovanna furono sostanzialmente ridotte a due: aver sentito delle voci (da lei identificate durante il processo con quelle di santa Caterina, di santa Margherita e dell’arcangelo Michele) che appartenevano in realtà a diavoli, non ad angeli o santi; e, soprattutto, di aver indossato

CATTURATA IN COMBATTIMENTO

HERVÉ LEWANDOWSKI / CMN

LA SPADA E LO STENDARDO

la prescelta per soccorrere la Francia. Fu accolta alla corte del sovrano come una profeta e fece il possibile perché le sue predizioni si realizzassero. Con indosso un’armatura e in mano uno stendardo, si batté in prima linea infondendo ai soldati francesi il coraggio necessario a liberare la città di Orléans dall’assedio inglese. Convinse inoltre Carlo VII a penetrare per oltre duecento chilometri in territorio nemico, fino a Reims, per farsi consacrare con l’olio benedetto nella cattedrale cittadina. Un gesto che agli occhi del popolo conferiva ai re di Francia la legittimità di governo. Ma poi le cose iniziarono ad andare male.

Giovanna fu catturata il 23 maggio 1430 davanti alle mura di Compiègne, mentre copriva la ritirata dei francesi che avevano attaccato gli assedianti anglo-borgognoni.

abiti maschili, un atto condannato esplicitamente nel libro biblico del Deuteronomio e che costituiva l’unica imputazione davvero dimostrabile nei suoi confronti. In effetti la ragazza si era messa spesso vestiti da uomo in quanto più consoni alla battaglia e perché la proteggevano dagli sguardi concupiscenti dei soldati. Furono queste le cause che il 23 maggio 1431 portarono alla sentenza che la dichiarava eretica e scismatica. Per evitare la condanna, le venne chiesto di «emendare

I francesi ritenevano Giovanna un’inviata di Dio; gli inglesi e i loro alleati una creatura diabolica PIERRE CAUCHON. STATUA DEL VESCOVO DISTESO NELLA SUA TOMBA (OGGI SCOMPARSA) NELLA CATTEDRALE DI LISIEUX.


i suoi errori». Di fronte al suo categorico rifiuto, gli inquisitori provarono a convincerla ricorrendo a una procedura più rapida.

Abiura e pentimento Giovedì 24 maggio, nel cimitero dell’abbazia di Saint-Ouen, si svolse il penultimo atto della tragedia della giovane. Era stata innalzata una pedana per i numerosi ecclesiastici, tra i quali Cauchon, e una più piccola per Giovanna e un predicatore, che le intimava di confessare. Il boia era in attesa: se Giovanna non avesse ammesso di aver agito contro la Chiesa, l’avrebbe condotta verso la pira eretta poco lontano o forse, secondo altre fonti, nel Mercato Vecchio di Rouen. Ma la morte di Giovanna sul rogo, tanto attesa dagli

COSA FIRMÒ GIOVANNA QUANDO ABIURÒ? TRA TUTTI GLI INTERROGATIVI che circondano l’abiura di Gio-

vanna, spicca il fatto che non si sa cos’abbia firmato. Secondo i testimoni, si trattava di un documento di sei o sette righe in cui s’impegnava a non prendere le armi e a evitare abiti e tagli di capelli maschili. Ma nel testo del processo in latino apparvero due formule, di cui una in francese, di oltre 40 righe, dove Giovanna si dichiarava «scismatica ed eretica, colpevole di aver sedotto gli altri con le sue folli credenze, bestemmiato Dio, condotto pratiche dissolute, desiderato crudelmente lo spargimento di sangue umano, disprezzato i sacramenti, idolatrato e invocato gli spiriti maligni». Secondo alcune ipotesi Cauchon sostituì il testo originale con uno in cui Giovanna ammetteva dei crimini che in realtà non riconobbe affatto di aver commesso.


Come la stragrande maggioranza delle contadine, Giovanna non sapeva né leggere né scrivere, ma cominciò a imparare mentre serviva il re. Sopra, la sua firma su una lettera datata 28 marzo 1430. ALAMY / ACI

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fece. Furono i suoi carcerieri a nasconderle gli abiti, lasciando solo quelli da uomo in qualche angolo della cella, come forma di vessazione? È possibile, ma molti storici ritengono che Giovanna prese la decisione di sua spontanea volontà – un modo per riconciliarsi con sé stessa dopo quell’abiura che considerava un tradimento verso di sé e verso Dio. Tornare a indossare abiti maschili era riaffermare l’origine divina delle voci che udiva e della missione a cui la chiamavano.

La condanna finale Il 27 maggio gli inglesi informarono Cauchon che la ragazza aveva nuovamente indosso abiti maschili. Il giorno successivo il vescovo, Le Maistre e alcuni consiglieri entrarono nella cella di Giovanna e la trovarono effettivamente vestita da uomo. Alle domande di Cauchon, la ragazza rispose che si era messa quegli indumenti perché il vescovo non aveva mantenuto le sue promesse: in quella cella era incatenata, non poteva ascoltare messa né ricevere la comunione, tutte cose che riteneva le fossero dovute come compenso per la sua abiura. Cauchon formulò allora la domanda chiave: aveva sentito di nuovo quelle voci che, secondo la Chiesa, erano di origine diabolica? Giovanna rispose in modo affermativo. «Dio mi ha mandato a dire per bocca di santa Caterina e santa Margherita quale miserabile tradimento ho commesso accettando di ritrattare tutto per paura della morte; mi ha fatto capire che, volendo salvarmi, stavo per dannarmi l’anima!», spiegò. Il notaio che trascrisse quelle parole nel verbale del processo appuntò a margine: responsio mortifera, risposta fatale. Giovanna segnò il suo destino: «Tutto ciò che ho fatto è stato per paura del fuoco». Il giorno successivo, martedì 29, si stabilì che la ragazza era ricaduta nell’eresia. Il balivo Jean Massieu si recò nella sua cella per farle sapere che sarebbe stata convocata la mattina seguente nella piazza del Mercato Vecchio di Rouen, dove sarebbe stata dichiarata relapsa – recidiva – e quindi scomunicata. Ma Massieu non fece menzione del rogo perché non era la Chiesa a occuparsi di quella parte: i condannati venivano consegnati al

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UN TRATTO INCERTO

inglesi, avrebbe rappresentato una sconfitta per Cauchon. L’obiettivo del vescovo era che la donna riconoscesse i suoi errori. Il sermone del predicatore, però, non sembrava sortire alcun effetto. Fu allora che Cauchon cominciò a leggere la sentenza. Lo fece probabilmente con lentezza, per dare tempo alla paura delle fiamme di fare rinsavire la ragazza. E così fu. Giovanna cedette e abiurò. Disse che se gli ecclesiastici non credevano alla divinità di quelle voci, nemmeno lei vi avrebbe creduto. Si sarebbe rimessa alla Chiesa e ai suoi giudici. Il seguito della scena è confuso. Le fu posta dinnanzi la dichiarazione di abiura. Benché sapesse firmare, Giovanna disegnò un cerchio sul foglio, un gesto che fu preso come una provocazione. Qualcuno, apparentemente un segretario del re d’Inghilterra, le prese la mano e la obbligò a tracciare una croce. Cauchon lesse immediatamente, a voce alta, una seconda sentenza preparata in caso di abiura e che conteneva la formula di rito: Giovanna veniva condannata «alla carcerazione a vita […] al pane del dolore […] all’acqua della tristezza». Ma gli inglesi erano furiosi. Erano venuti ad assistere al rogo della strega francese che aveva ucciso i loro compagni e invece la vedevano uscirne viva. Alcuni soldati scagliarono delle pietre contro Cauchon. Giovanna fu riportata nella sua cella a Bouvreuil, quando invece pensava che, come previsto dalla legge dell’epoca, la firma le avrebbe garantito il diritto a essere reclusa in una prigione ecclesiastica custodita da donne. Il pomeriggio di quello stesso giorno l’inquisitore Le Maistre le fece visita per controllare che stesse scontando la condanna che le era stata inflitta. Indossava abiti da donna e un barbiere le aveva rasato completamente la testa, affinché i capelli le tornassero a crescere naturalmente in modo femminile. Fino a quel momento, infatti, come prova della sua colpevolezza, avevano continuato a tagliarle i capelli alla maniera maschile, come Giovanna li portava durante le sue campagne militari. Ma nei giorni successivi le cose non andarono come previsto: l’abiura prevedeva che la ragazza vestisse come una donna, ma non lo


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I DUE PROCESSI A GIOVANNA uesta miniatura del XVI secolo è una ricostruzione di fantasia del processo a Giovanna d’Arco. Il re è Enrico VI 1, raffigurato con più dei nove anni che aveva in realtà all’epoca del processo, al quale non prese parte. In quanto sovrano d’Inghilterra e di Francia, sulla sua veste compaiono i gigli e i leoni passanti o illeoparditi, simboli rispettivamente delle Corone francese e inglese. Sulla sinistra sono seduti

i due giudici: il domenicano Jean Le Maistre 2, con l’abito bianco e nero del suo Ordine, e Pierre Cauchon 3, con la mitra vescovile. La persona in piedi al centro è Giovanna d’Arco 4. Il processo prevedeva un procuratore o promotore (l’equivalente dell'odierno pubblico ministero), Jean d’Estivet; tre notai, grazie ai quali sono disponibili i verbali del processo, e più di 130 consiglieri, dai prelati normanni e inglesi ai membri dell’Università di Parigi fino

ai canonici della stessa cattedrale di Rouen. Il processo ebbe inizio il 9 gennaio 1431 con l’istruzione del caso. Il 21 febbraio prese avvio l’interrogatorio della giovane. Il 24 maggio fu letta la sentenza nel cimitero di Saint-Ouen. Giovanna abiurò, ma il 28 dello stesso mese fu dichiarata ricaduta nell’eresia. Il tribunale, riunitosi il giorno seguente, la condannò come recidiva nel corso di un secondo e rapido processo. Fu bruciata sul rogo il 30 maggio.


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LO STEMMA

Nel 1429 Carlo VII di Francia decise di nobilitare Giovanna conferendole lo stemma che appare in questo rilievo. A causa di esso, a Rouen fu accusata del peccato di orgoglio.

braccio secolare, cioè alla giustizia civile, a cui spettava il compito di eseguire la sentenza di morte. E questo fu ciò che avvenne il mattino seguente. O meglio ciò che sarebbe dovuto avvenire. Non è chiaro cosa successe nella cella di Giovanna tra l’alba del 30 maggio e il momento in cui uscì in direzione del supplizio finale. Con lei c’erano diverse persone tra cui il domenicano Martin Ladvenu, il confessore incaricato di prepararla alla morte. Quando le annunciarono che sarebbe stata bruciata quello stesso giorno, Giovanna scoppiò in lacrime: «Povera me! Sono stata trattata in modo orribile e crudele… E ora il mio corpo candido e integro, che non fu mai corrotto, sarà consumato e ridotto in cenere!». Queste parole smentirebbero il fatto che Giovanna fosse stata violentata in cella, come invece sostengono alcune fonti. «Preferirei essere decapitata sette volte che bruciata in questo modo!» aggiunse la ragazza. Il rogo infatti implicava l’impossibilità di essere sepolta in un terreno consacrato. In quel momento entrò Cauchon, e Giovanna gli gridò: «Vescovo, muoio per causa vostra!».

Verso il rogo Perché Cauchon era andato da lei? Forse per portare a termine la sua opera. Giovanna aveva scelto di morire, ma la fine che le veniva imposta era terribile. E soprattutto sarebbe morta scomunicata, al di fuori dalla Chiesa e senza ricevere i sacramenti. Essendo una fervida credente, la ragazza era sconvolta. Cauchon approfittò di questa debolezza: «Hai sempre dichiarato che secondo le tue voci saresti stata liberata», disse rivolgendosi a lei. «Ora puoi ben vedere che sei stata ingannata. Ammettilo». Giovanna rispose: «Sì, sono stata ingannata», e poi restò sola con Ladvenu e si confes-

PRIMA DELLA TORTURA

Charles-Henri Michel evoca in quest’olio l’unica comunione ricevuta da Giovanna a Rouen, per mano di Martin Ladvenu, prima d’incamminarsi verso il rogo. 1899. Musée de beaux-arts, Rouen.

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sò. Il domenicano mandò il balivo Massieu a dire a Cauchon che la ragazza voleva ricevere l’eucaristia. Il vescovo diede l’autorizzazione, perché Giovanna aveva riconosciuto i suoi errori in articulo mortis, in punto di morte. Questo drammatico episodio è controverso. Innanzitutto contraddice ciò che Ladvenu stesso dichiarò anni dopo: Giovanna avrebbe continuato ad affermare che le voci da lei sentite provenivano da Dio, che tutte le sue azioni erano eseguite per ordine divino e che non

Per gli inglesi e i loro alleati Giovanna era una creatura diabolica PAGINA FINALE DEL PROCESSO, CON I SIGILLI NOTARILI, E PRIMA PAGINA DELL’INFORMAZIONE POSTUMA. 76 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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riteneva di essere stata ingannata. Poi perché le ammissioni di Giovanna furono riportate nella cosiddetta informazione postuma, un documento che i notai del processo rifiutarono di firmare perché non erano presenti ai fatti, e che potrebbe essere quindi una montatura. Giovanna riconobbe davvero di essersi sbagliata e si comunicò? O semplicemente Cauchon provò un briciolo di compassione per quella creatura e l’autorizzò a ricevere l’eucarestia nonostante la scomunica? Qualcuno ha sostenuto che la concessione del sacramento implica che Cauchon non credesse alla colpevolezza della ragazza. Ma in realtà la procedura inquisitoriale non impediva ai condannati di comunicarsi se mostravano segni di pentimento. Anni prima, nel 1415, il riformatore

ESPOSTA A TUTTE LE UMILIAZIONI IN PRIGIONE GIOVANNA subì molti maltrattamenti. Si disse che

fu rinchiusa in una gabbia di ferro costruita apposta per lei, ma non è vero. Ogni sera le venivano però messi i ceppi e nella sua cella c’erano sempre tre o quattro carcerieri. Fu vittima di aggressioni fisiche, come il tentativo di accoltellamento nella notte del 13 maggio, quando un gruppo di nobili inglesi e borgognoni, probabilmente ubriachi, entrò nella sua cella. E forse subì anche delle aggressioni sessuali da parte delle guardie o, dopo l’abiura a Saint-Ouen, di un importante signore inglese di Rouen. Come se le vessazioni fisiche non fossero sufficienti, i suoi carnefici la torturarono anche psicologicamente: sapendola una fervida credente, il vescovo Cauchon le negò la messa e la comunione, forse per spingerla a dichiararsi colpevole.


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Clément de Fauquembergue il 30 maggio annotò su un documento che Giovanna indossava una mitra con scritti i suoi peccati. Olio di Eugène Pascau, 1933.

scherno dei soldati inglesi, Giovanna pregava alla ricerca disperata di qualche forma di conforto. Ma non tutti furono crudeli con lei. Quando quella creatura angosciata chiese una croce, fu proprio un inglese ad averne pietà: spezzò un bastone e gliene costruì una. Probabilmente furono Ladvenu o Massieu a consegnargliela, e Giovanna se la strinse al petto, infilandola tra la veste e il corpo.

Sulla pira Dopo la lettura della sentenza ecclesiastica, la giustizia civile avrebbe dovuto pronunciare il verdetto di morte, ma non fu così. Il procuratore di Rouen era circondato da soldati inglesi furiosi, stanchi di ascoltare formule giuridiche e sul punto di ammutinarsi. Temendo forse di mettere a rischio la propria incolumità, gridò al boia di sbrigarsi a fare il suo dovere. Geoffroy Thérage, che da più di un decennio svolgeva questo incarico a Rouen, allontanò Giovanna da Massieu. Un inglese gridò al balivo intento a confortarla: «Spicciati, non vorremmo ritrovarci ancora qui all’ora di cena». Il boia condusse la ragazza sulla sommità della pira senza alcun riguardo e la legò al palo. Il fatto che il tribunale civile non avesse letto la sentenza di morte costituiva una palese illegalità. Forse è per questo che il conte di Warwick, capitano di Rouen, quel mattino non si presentò: in qualità di massimo rappresentante della legge, era tenuto a farla rispettare; quindi Giovanna non avrebbe potuto essere giustiziata senza un processo civile, come invece accadde. In realtà forse fu lui stesso a ordinare al procuratore e al boia di procedere rapidamente all’esecuzione, per evitare che Giovanna approfittasse della lettura della sentenza di morte per ribadire che le sue voci provenivano da Dio. Ladvenu rimase accanto a lei sulla pira a consolarla; Massieu e Isambard de la Pierre attesero sotto. Quest’ultimo corse alla chiesa di Saint-Sauveur quando Giovanna gli chiese di poter vedere la croce dell’altare. Il domenicano tornò con il simbolo sacro e lo tenne davanti agli occhi della ragazza mentre il boia accendeva il rogo. Contrariamente a quanto si faceva di solito con i condannati per sottrarli

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COLPE BEN IN VISTA

religioso Jan Hus aveva potuto confessarsi prima di essere bruciato a Costanza. Verso le otto, dopo aver ricevuto la comunione, Giovanna salì su un carro con indosso una lunga veste bianca. Secondo alcune fonti le avevano collocato sul capo rasato una mitra sulla quale erano scritte quattro parole: eretica, recidiva, apostata e idolatra, i peccati per i quali era stata condannata. L’accompagnavano Ladvenu e un altro domenicano, Isambard de la Pierre, così come il balivo Massieu. Il gruppo era circondato da un centinaio di soldati armati di asce e spade. Durante quello straziante percorso attraverso la città, la ragazza pianse e pregò ad alta voce. Nella piazza del Mercato Vecchio si accalcava una folla enorme. Davanti alla maestosa chiesa di Saint-Sauveur oggi scomparsa erano stati eretti un palco per i giudici civili, rappresentanti della giustizia secolare a cui sarebbe stata consegnata la prigioniera; una grande tribuna destinata agli ecclesiastici e una costruzione ancora più alta, con un basamento in muratura, su cui erano accatastati dei fasci di legna da ardere sormontati da un palo minaccioso. Affiancata da Ladvenu e Massieu, Giovanna fu costretta innanzitutto ad ascoltare i rimproveri di un predicatore (l’ammonizione), che prolungarono la sua agonia. Finito il sermone, verso le nove, le fu letta la sentenza: i giudici la dichiararono idolatra, scismatica, invocatrice di diavoli e soprattutto eretica e relapsa: aveva promesso di non ricadere negli stessi errori, come appariva in una lettera firmata di suo pugno, ma non era riuscita a evitarlo, «alla guisa di un cane abituato a tornare nel suo vomito». Anche queste circostanze smentirebbero l’informazione postuma, secondo la quale Giovanna aveva riconosciuto quel mattino stesso che non poteva fidarsi delle voci da lei udite. Quindi le fu annunciato che, «in quanto membro marcio», veniva respinta dall’unità della Chiesa e consegnata alla giustizia secolare. Abbandonata al suo destino davanti a migliaia di persone ed esposta allo


LA CATTEDRALE DI ROUEN

Pierre Cauchon era vescovo di Beauvais, non di Rouen, dove non aveva il diritto di giudicare i rei. Eppure l’inquisitore generale di Francia lo autorizzò a condurre il processo in quella città dove Giovanna, presunta eretica, non aveva mai messo piede.


M AKG / ALBU

IL CONTE DI WARWICK

Richard Beauchamp regge il piccolo Enrico VI in una miniatura dell’epoca. Questo potente nobile inglese era l’autorità suprema di Rouen.

al supplizio delle fiamme, Thérage non strangolò Giovanna, affermando che il palo era troppo alto per poter raggiungere il collo della ragazza. Ma molto probabilmente fu per paura degli inglesi, che volevano vedere con i loro occhi la morte della strega. Il boia temeva che potessero ucciderlo se le risparmiava la sofferenza. La legna cominciò ad ardere e Giovanna disse a Ladvenu di andarsene. Le fiamme si alzarono e il fumo avvolse la ragazza, il cui sguardo restò fisso sulla croce sorretta da Isambard de la Pierre. Tra i gemiti di dolore, Giovanna invocò il nome di Gesù. Fu questa l’ultima parola che pronunciò, emettendo un forte grido che si sentì in tutta la piazza. Poi la sua testa ricadde di lato e Giovanna spirò, asfissiata dal fumo.

Sangue e cenere Qualche istante più tardi il boia fece abbassare le fiamme e allontanò le braci dal cadavere, in modo che tutti potessero vederlo e convincersi che la ragazza era morta. Il fuoco aveva consumato integralmente la lunga veste bianca di Giovanna. Ora il suo povero corpo, arso e nudo, era esposto agli sguardi della folla, mostrando «tutti i segreti che una donna può e deve conservare», secondo le parole di un testo dell’epoca, il Diario di un borghese di Parigi. Questa nudità postuma e infamante fu l’ultima vendetta degli inglesi contro l’audacia della giovane donna che li aveva sfidati. Ma una sorpresa li attendeva. Quando Thérage tornò ad alimentare le fiamme, la scatola cranica e la cavità addominale del cadavere esplosero, mentre gli arti s’irrigidirono ritraendosi sul torso. Però a quel punto la legna sulla pira finì e la cremazione restò incompleta: dal busto fuoriuscirono le viscere fumanti, rivelando un cuore ancora pieno di sangue.

ALEXANDRE MARCHI / EFE

Il boia tentò di bruciare ciò che rimaneva del corpo con una miscela di olio e zolfo, ma non ci riuscì. Gli inglesi vollero che i resti fossero gettati nella Senna, per evitare che si trasformassero in reliquie. L’atteggiamento coraggioso della ragazza di fronte alla morte convinse molte persone che a bruciare non era stata un’eretica, ma una santa. Quella sera stessa il domenicano Pierre Bosquier, che aveva partecipato al processo in qualità di consigliere, dichiarò in stato di

Il boia Thérage non la strangolò, come si faceva di solito per risparmiare ai rei il supplizio delle fiamme I CARCERIERI DI GIOVANNA IMPLORANO IL SUO PERDONO. SCULTURA DEL XV SECOLO CONSERVATA NEL CASTELLO DI PLESSIS-BOURRÉ. KHARBINE-TAP ABOR / ALBU M


SENZA TOMBA NÉ RELIQUIE ALLE TRE DEL POMERIGGIO del 30 maggio 1431 il boia Geoffroy Thérage si sporse dal parapetto del ponte Mathilde, che collegava la città vecchia di Rouen con la periferia, e gettò nelle acque della Senna tutti i resti della cremazione di Giovanna – ceneri, carboni, ossa bruciate e resti di viscere – per impedire ai francesi di venerarne le reliquie o di utilizzarle in qualche rituale di stregoneria contro chi l’aveva condannata. Tutto scomparve. Uno studio pubblicato nel 2007 ha certificato che i «resti trovati sotto il rogo di Giovanna d’Arco, Pulzella d’Orléans», secondo l’etichetta di un barattolo di vetro rinvenuto nel 1867 nella soffitta di un farmacista parigino, erano in realtà di una mummia egizia. Anche gli oggetti con cui Giovanna potrebbe essere entrata in contatto sono andati perduti, come la spada conservata nelle collezioni di Luigi XII nel castello di Amboise, o il copricapo custodito dagli oratoriani di Orléans tra il 1635 e il 1792. È stato smarrito anche il capello nero che Giovanna mise nella cera del sigillo della lettera che inviò a Riom nel 1429, capello che un collezionista di tale località rubò intorno al 1890.

ebbrezza che i giudici avevano commesso un errore. Fu rinchiuso nel suo convento a pane e acqua per nove mesi. Guillaume Manchon, uno dei tre notai del processo, si ammalò per una trentina di giorni e, con il compenso ricevuto per il lavoro svolto, comprò un messale con cui pregare per Giovanna. La Pulzella era morta. Gli inglesi rimasero in Francia per altri vent’anni, finché non persero la Normandia nel 1450. Dopo aver sconfitto gli storici nemici, Carlo VII sollecitò al papa una revisione del processo di Giovanna. Il re di Francia infatti non voleva che la sua Corona fosse dovuta alle gesta di un’eretica. Le irregolarità che avevano caratterizzato il processo (il fatto che Cauchon fosse vescovo di Beauvais e non di Rouen, l’imprigiona-

mento di Giovanna a Bouvreil e non in un carcere ecclesiastico, l’assenza di una sentenza secolare prima della sua esecuzione) facilitarono la riabilitazione della ragazza nel 1456. Anche questa fu una decisione politica, come in precedenza lo era stata la condanna. Infine, il 16 maggio 1920, quella stessa Chiesa che aveva bruciato sul rogo Giovanna d’Arco cinquecento anni prima, la dichiarò santa. JOSEP MARIA CASALS STORICO

Per saperne di più

MOMENTI DI AGONIA

Sopra, particolare di uno degli otto grandi dipinti di Lionel Royer sulla vita di Giovanna d'Arco nella basilica di BoisChenu, eretta in suo onore nei pressi di Domrémy, dov’era nata.

SAGGI

Giovanna d’Arco Colette Beaune. Il Saggiatore, Milano, 2019. Il processo di condanna di Giovanna d’Arco T. Cremisi (a cura di). SE, Milano, 2000.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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ALEXANDRE MARCHI / GETTY IMAGES

JEANNE DES ARMOISES, L’IMPOSTORA JEANNE DES ARMOISES, RAPPRESENTATA IN UN AFFRESCO DELLA SALA GRANDE DEL CASTELLO DI JAULNY, PROPRIETÀ DI SUO MARITO ROBERT DES ARMOISES. XVI SECOLO.

GETT Y IM AGE S

econdo una cronaca di Metz, la prima impostora di cui si ha notizia, che curiosamente si faceva chiamare Claude, apparve il 20 maggio 1436 nei pressi di tale città, dove fu riconosciuta da Pierre e Jean, fratelli di Giovanna, probabilmente anch’essi due mistificatori. Si sa che il vero Jean ricevette del denaro dalla città di Orléans il 31 agosto di quell’anno

Era molto difficile accettare che l’inviata di Dio in soccorso della Francia fosse stata schiacciata dai suoi nemici, quindi non sorprende l'apparizione, tra il 1436 e il 1456, di quattro impostore: o forse una sola che si ripresentò in diverse occasioni per incontrare la sorella; poi i fratelli non vengono più menzionati. Forse, dopo essere stati ingannati in un primo momento, ripartirono alla sua ricerca. In ogni caso, la notizia della ricomparsa di Giovanna si diffuse rapidamente: il 27 giugno di quell’anno, un notaio di Arles registrò un dibattito pubblico in cui si discusse se si trattasse della vera Pulzella. Un’altra circostanza sospetta è che l’impostora fu accolta da alcuni sostenitori della Borgogna (ovvero della fazione che aveva venduto Giovanna agli inglesi), il conte Virneburg e la duchessa Elisabetta di Görlitz. Dopo la minaccia di un processo per eresia a Treviri, la donna sposò un nobile minore, Robert des Armoises, proprietario del castello di Jaulny, vicino a Metz.

La mercenaria

SIGILLO DI GILLES DE RAIS. COMPAGNO D’ARMI DI GIOVANNA E MARESCIALLO DI FRANCIA, FU GIUSTIZIATO NEL 1440 CON L’ACCUSA DI AVER UCCISO DEI BAMBINI E INVOCATO DEMONI.

La falsa Pulzella riappare nel 1439, quando un documento rivela che si batté al servizio del nobile Gilles de Rais: l’ex compagno d’armi di Giovanna d’Arco ormai in rovina si dedicava al banditismo e forse alla stregoneria. Tra il 18 luglio e il primo agosto di quell’anno la donna andò a Orléans, dove fu accolta come la vera

Giovanna. Ripartì alla vigilia di un banchetto in suo onore. Aveva forse paura di essere smascherata? L’anno seguente si presentò al cospetto di Carlo VII, che non si fece scrupoli a denunciarla e a mandarla a Parigi per essere giudicata dal parlamento. Nel Diario di un borghese di Parigi si menziona che la donna aveva combattuto per papa Eugenio IV. Se il fatto fosse vero, sarebbe avvenuto intorno al 1433. Si sa che più tardi, tra il 1449 e il 1452, una «Giovanna la Pulzella» apparve a Sermaize, dove andò a farsi riconoscere da due cugini di Giovanna d'Arco. Infine, nel 1456 si parla di un’ultima Giovanna, chiamata “de Sermaize”, sposata con un certo Jean Douillet, che fu imprigionata per un certo tempo a Saumur. Sembra insomma che nel Medioevo non fosse difficile farsi passare per qualcun altro: bastava una certa rassomiglianza fisica, un buon grado di spregiudicatezza e molta fortuna. L’ULTIMO ATTO DEL DRAMMA

I resti della cremazione di Giovanna vengono gettati nella Senna dal ponte Mathilde, che fu demolito nel XVII secolo. Incisione di Émile Deshayes.


CHARMET / BRIDGEMAN / ACI. COLORE: SANTI PÉREZ


VELÁZQUEZ ISTA NTA NEE ALLA CORTE DI FILIPPO IV Con il suo incredibile realismo per quasi quarant’anni Diego Velázquez ritrasse tutti i membri della corte degli Asburgo, dai re e dai principi fino ai più umili buffoni

MAESTRO DEL RITRATTO

I dipinti di Velázquez erano considerati la perfetta imitazione della natura. Quest’autoritratto, realizzato verso il 1640, appartiene al periodo della maturità. Museo de Bellas Artes, Valencia. ORONOZ / ALBUM



Alcuni studiosi hanno considerato Una domestica per la cena in Emmaus (1618-1622) come la più antica opera nota di Velázquez. National Gallery of Ireland, Dublino.

N

el 1623 Diego Velázquez veniva chiamato a Madrid dietro ordine del conte-duca d’Olivares, ministro del re Filippo IV. A soli ventiquattro anni il pittore di Siviglia, che si era formato nella bottega di Francisco Pacheco, di cui era poi divenuto il genero, si era già fatto notare per i quadri religiosi e di carattere popolare, influenzati dallo stile di Caravaggio. Chi ne conosceva le opere non metteva in dubbio il suo talento. Alcuni di questi conoscitori, stabilitisi a Madrid e vicini a Olivares, gli spianarono la strada per la corte. L’anno precedente una prima incursione dell’artista in città si era rivelata poco fruttuosa, ma stavolta andò diversamente. Si racconta che Velázquez dipinse in un solo giorno un ritratto del giovane monarca, che fu subito colpito dalla sua attenzione per la verosimiglianza. Un mese dopo veniva nominato pittore reale, con il compito di dedicarsi a tempo pieno alla sua professione.

C R O N O LO G I A

NON SOLO UN SEMPLICE PITTORE

L’incarico di pittore reale, che in Spagna esisteva sin dal Medioevo ed era ormai comune in tutta l’Europa, acquisì un nuovo prestigio man mano che la pittura diventava un’arte fondamentale e che il genere del ritratto si faceva più popolare. Nel XVII secolo i ritratti erano comuni sia nei palazzi delle famiglie regnanti sia in quelli dell’aristocrazia. In genere venivano esposti lungo i sontuosi corridoi, con i membri della stirpe in bella vista, giacché erano strumenti per rafforzare l’appartenenza e la continuazione della stessa dinastia. A volte venivano perfino mandati come regali ad altre casate. E le raffigurazioni delle principesse o delle infante erano donate a possibili pretendenti di altre corti, non tanto per sottolineare la bellezza della giovane, spesso idealizzata, quanto per offrire una rappresentazione delle sue virtù, del potere e della magnificenza sia di questa sia della sua parentela. Gli originali o le copie di effigi della famiglia reale spagnola realizzati da Velázquez

1599

1623

Diego Rodríguez de Silva y Velázquez è battezzato nella chiesa di San Pedro a Siviglia. A 12 anni diventa apprendista nella bottega di pittura di Francisco Pacheco.

Dopo che la sua reputazione di pittore ha superato i confini di Siviglia, Velázquez si reca a Madrid per entrare a corte come pittore del re Filippo IV.

RITRATTO. È POSSIBILE CHE L’OLIO SIA UN AUTORITRATTO DELL’ARTISTA. MUSEI CAPITOLINI, ROMA. ALBUM

ORONOZ / ALBUM

OPERA DI GIOVENTÙ

STEFANO POLITI MARKOVINA / ALAMY / ACI

JOSEPH MARTIN / ALBUM


LA MADRID DEGLI ASBURGO

A soli 24 anni Velázquez divenne il pittore di corte degli Asburgo. Nell’immagine, statua equestre di Filippo III al centro della plaza Mayor di Madrid.

1652

1660

Fino a questo momento Velázquez ha ricevuto i titoli di usciere, mastro di guardaroba e aiutante di camera. Diviene ora gran maresciallo di palazzo.

Muore il 6 agosto, ormai celebre. L’anno precedente la sua ascesa sociale ha raggiunto il culmine con la nomina a cavaliere dell’Ordine di Santiago.


Mulatto o forse di origini morische Juan de Pareja fu servitore e aiutante di Velázquez nella sua bottega. Ritratto del 1650. Metropolitan Museum of Art, New York.

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giunsero così in molti palazzi europei. Per riuscire a soddisfare l’ingente domanda i pittori di corte fondavano di frequente delle botteghe in cui si circondavano da aiutanti. Così fece anche Velázquez. Uno dei suoi discepoli, Juan Bautista Martínez del Mazo, ne avrebbe poi sposato la figlia.

Il tocco personale In quanto ritrattista reale, Velázquez si attenne alle convenzioni del genere. I personaggi rappresentati compaiono in piedi, a corpo intero, con scenografie semplici – tende o qualche dettaglio di mobili – e sfondi di solito neutri. Ogni elemento ha un valore simbolico e sottolinea il potere del soggetto del quadro. Malgrado tale canone, Velázquez riusciva a imporre la propria personalità. Un altro pittore che lavorava alla corte di Filippo IV, il fiorentino Vincenzo Carducci, affermava che l’artista «si deve tenere fedele all’imitazione del soggetto, bello o brutto che sia, senza discutere o indagare». Velázquez lasciò invece nelle sue creazioni un’evidente impronta personale grazie a una tecnica molto particolare, che si basava su pennellate fluide e un’esecu-

L’amico del re Ben presto Filippo IV provò molta stima per Velázquez e per le sue opere, a tal punto che, secondo le dicerie, non permetteva a nessun altro di ritrarlo. Oltre a essere un mecenate e un collezionista, il sovrano si dilettava di pittura, come molti altri reali dell’epoca. Per questo faceva spesso visita all’artista nel suo laboratorio e godeva inoltre della conversazione con quell’uomo colto e istruito. Secondo un biografo posteriore, il pittore Antonio Palomino, Filippo IV nutriva «tanta stima della sua persona [di Velázquez] che si fidava di lui più di quanto un re si fidi di un suo cortigiano, e parlava con lui di questioni molto delicate, soprattutto nelle ore più solitarie, quando i signori e gli altri nobili si erano ritirati». Ciò nonostante, Velázquez non dipinse molte tele del re, al quale non piaceva posare né vedersi anziano. Nel 1653 il sovrano stesso scriveva che «da nove anni non si fanno di me ritratti, e preferisco non passare sotto la flemma di Velázquez, né vedermi invecchiato da questa». La vicinanza al regnante permise al pittore di ottenere diversi titoli di prestigio. Alcuni furono incarichi onorifici che rispondevano a una precisa volontà del monarca, a mo’ di ringraziamento per il suo artista favorito.

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IL SERVITORE DI VELÁZQUEZ

zione abbozzata. A ciò abbinava un’estrema attenzione per i volti, di cui cercava di cogliere l’aspetto psicologico. Fino alla morte, nei quasi quarant’anni che trascorse a corte, Velázquez dipinse i membri della casata reale, ma anche i principali ministri, come il conte-duca d’Olivares, e ogni sorta di personaggio che popolava i palazzi del potere, quali nani, buffoni e servitori. L’artista ha così trasmesso una galleria di tipi umani che portano alla luce i dettagli più intimi della corte spagnola degli Asburgo. Sono invece poche le rappresentazioni di scene cortigiane: si limitano al paesaggio di un giardino di Aranjuez, all’episodio di caccia intitolato La tela real – da alcuni attribuito al discepolo Juan Bautista Martínez del Mazo – e, ovviamente, a Las Meninas, una tela collettiva che coglie un istante della vita a palazzo.


MAESTRO DI PITTORI

Velázquez poteva contare su una bottega di aiutanti che copiavano i suoi quadri e l’assistevano in molti incarichi, come nel caso di La fontana dei Tritoni nel giardino dell’isola di Aranjuez. Museo del Prado, Madrid.


L’ascesa di Velázquez non conobbe soste: fu nominato usciere di camera nel 1627, e nel 1633, al ritorno da un primo viaggio in Italia, ottenne un prezioso bastone da alguacil, una sorta di titolo ufficiale, come ricompensa per l’impegno profuso all’estero. Verso il 1636 divenne inoltre aiuto guardarobiere. Nel 1646 ottenne il posto di aiutante di camera, un ruolo di particolare rilievo perché gli dava accesso alle stanze private del re e alle cerimonie cortigiane che vi avevano luogo. Dopo essere stato designato sovrintendente alle opere reali, nel 1652 ricevette la qualifica di gran maresciallo di palazzo. Toccava a costui, tra le altre cose, occuparsi degli spostamenti della corte, arredare il palazzo e organizzare le feste. Antonio Palomino riconosceva che si trattava di un grande onore e si rallegrava per i traguardi del pittore, ma si lamentava che così gli veniva sottratto il tempo necessario a dipingere. La scalata sociale di Velázquez culminò con la nomina a cavaliere dell’Ordine di Santiago nel 1659. Per ottenere il prestigioso titolo il candidato dovette dimostrare le radici cristiane e il sangue blu, sia per l’importanza conferita allora allo stato di nobile sia perché un cavaliere non poteva ambire a introiti derivanti da attività poco decorose. E ciò entrava palesemente in contrasto con la pittura, considerata un semplice lavoro manuale. Tuttavia, nonostante diverse difficoltà, Velázquez raggiunse l’ambita ricompensa grazie all’aiuto del sovrano. Il suo trionfo rimase cristallizzato in Las Meninas, dove il pittore sfoggia sul petto la croce rossa dell’Ordine che, secondo la leggenda, fu dipinta dallo stesso monarca. Indica quindi non solo il riconoscimento di Velázquez quale membro della nobile élite, bensì anche, di riflesso, la considerazione di cui godeva e gode la sua pittura. JESÚS FÉLIX PASCUAL MOLINA UNIVERSITÀ DI VALLADOLID

SAGGI

Diego Velázquez Norbert Wolf. Taschen, Köln, 2016. Velázquez e il ritratto barocco Tomaso Montanari. Einaudi, Torino, 2018. Las meninas allo specchio Vincenzo Gambardella. Ensemble, Roma, 2020.

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LAS MENINAS

L’infanta Margherita compare con la sua piccola corte di dame di compagnia e nani e con la guardia del corpo. Velázquez indossa una chiave alla cintura, simbolo dell’incarico di gran maresciallo. Dallo specchio si può vedere come Filippo e la moglie siano presenti nello studio del pittore. Museo del Prado, Madrid.


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LA CURVA DELLA VITA

ilippo IV ascese al trono nel 1621, quando aveva solo 16 anni. Velázquez lo ritrasse per la prima volta nel 1623, anno in cui divenne pittore reale. Da allora realizzò diverse tele con il monarca come soggetto. Filippo IV in piedi (1624 circa), di cui esistono versioni a Madrid e a New York, mostra il sovrano ancora giovane, agli inizi del suo governo. Il quadro segue i modelli del ritratto cortigiano spagnolo. Ritratto di Filippo IV in marrone e argento (1631-1632), proveniente dall’Escorial e oggi a Londra, venne effettuato dopo il viaggio di Velázquez in Italia. I legami con l’arte veneziana sono evidenti nella nuova tecnica impiegata dal pittore, a base di macchie di colore e pennellate libere. Risaltano la sontuosità delle vesti del sovrano e il caratteristico baffo, che il re tenne fino alla morte. Gli ultimi dipinti di Filippo, risalenti agli anni cinquanta, presentano un regnante ormai invecchiato e tradiscono un’aria di malinconia e stanchezza. Prive di ornamento – nella tela di Londra si può notare comunque la catena con il Toson d’oro –, queste opere ricordano i busti tipici degli Asburgo, che imitano quelli degli antenati, i duchi di Borgogna. Questi ritratti si concentrano piuttosto sul volto del re, con un mirabile esercizio d’introspezione psicologica. Da sinistra a destra:

filippo iv in piedi olio su tela (1624 ca.). 200 x 102,9 cm. metropolitan museum, new york. filippo iv in marrone e argento olio su tela (1631-1632). 195 x 110 cm. national gallery, londra. filippo iv olio su tela (1656 ca.). 64,1 x 53,7 cm. National gallery, Londra.

SINISTRA: SUPERSTOCK / ALBUM; CENTRO: ORONOZ / ALBUM; DESTRA: GRANGER / ALBUM

le età di filippo iv



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SPOSA E MADRE

la regina isabella di borbone potrebbe essere opera degli aiutanti. La tela segue il modello del ritratto di corte, con sfondo neutro, tende e una poltrona su cui la regina appoggia la mano. Isabella è vestita in modo elegante e regge un ventaglio. Il ritratto equestre della sovrana (1635 ca.), destinato alla sala dei Regni nel palazzo del Buen Retiro, faceva coppia con quello del re. A loro volta le due opere formavano un insieme dal valore dinastico con il dipinto del principe Baltasar Carlos, figlio della coppia. Il ruolo politico della regina, consorte e madre dell’erede, si riflette nella composizione, che è frutto di almeno due mani diverse. In essa risalta la testa dell’animale, sulla quale sono evidenti le pennellate libere del maestro, che contrastano con i particolari delle ricche vesti della regina, adornate con il monogramma sotto la corona reale, e con la gualdrappa del cavallo, senza alcun dubbio realizzate da un altro pittore. isabella, regina di spagna olio su tela (1632). 132x 101,5 cm. kunsthistorisches museum, vienna. la regina isabella di borbone a cavallo olio su tela (1635 ca). 301 x 314 cm. museo del prado, madrid. 94 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

SINISTRA: ERICH LESSING / ALBUM; DESTRA: ALBUM

sabella di Borbone (1602-1644), figlia di Enrico IV di Francia e di Maria de’ Medici, nel 1615 divenne la prima moglie di Filippo IV. Il suo ritratto, risalente al 1632 circa e conservato a Vienna, si trovava vicino a quello del marito. Entrambi furono mandati alla corte imperiale come regali. Il volto della donna mette in mostra il talento di Velázquez, mentre il resto della creazione, di qualità inferiore,



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I FIGLI DEL RE

1.

l ritratto del principe Baltasar Carlos a cavallo (1634-1635), destinato al salone dei Regni nel palazzo del Buen Retiro, ha un importante significato politico. In tale insieme, volto a esaltare la monarchia, il principe di sei anni figurava come l’erede. Posava infatti a cavallo, con la fascia, lo scettro del comando e la spada, al pari di un adulto. L’anatomia dell’animale potrebbe essere spiegata con l’altezza alla quale doveva essere esposto il quadro, che necessitava quindi di una determinata prospettiva. L’infante Filippo Prospero (1659) rappresenta il terzo figlio di Filippo IV, avuto dalla seconda moglie Marianna d’Austria, all’età di due anni. Indossa un saio da bambino, da cui pendono perline e amuleti protettivi. Questi, insieme al cagnolino sulla poltrona (che sottolinea la tenerezza e la malinconia del ritratto), alludono alla salute delicata del principino, che morì nel 1661. L’infanta Margherita in azzurro (1659), conservato a Vienna, fu un regalo di nozze mandato alla corte imperiale, dove la giovane avrebbe finito per stabilirsi dopo il matrimonio con lo zio, l’imperatore Leopoldo I. La bambina, allora di otto anni, compare adornata da un elegante abito azzurro e argento, colori che assieme al dolce viso arrossato e ai capelli chiari, contrastano con l’ocra dello sfondo. 1. l'infante filippo prospero olio su tela (1659). 128,5 x 99,5 cm. kunsthistorisches museum, vienna. 2. l'infanta margherita in azzurro olio su tela (1659). 125,5, x 106 cm. kunsthistorisches museum, vienna.

2.

3. baltasar carlos a cavallo olio su tela (1634-1635). 211,5 x 177 cm. museo del prado, madrid.

SOPRA: ERICH LESSING / ALBUM; SOTTO: ALBUM; DESTRA: ALBUM

principi e infanti


3.


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IMMAGINE DEL POTERE

nche le élite amavano essere rappresentate secondo i canoni del ritratto cortigiano, in cui nulla è lasciato al caso e ogni elemento riveste un importante significato simbolico. La pittura era infatti un’efficace arma di propaganda. Don Gaspar de Guzmán, conte-duca d’Olivares, accompagnò il re Filippo IV nel suo governo sin da quando quest’ultimo salì al trono nel 1621. Ne divenne il favorito e il primo ministro. Velázquez lo rappresentò in diverse occasioni. Nel quadro del 1625 Olivares compare vestito in gran pompa, con la croce di Alcántara sul petto – nel 1624 cambiò l’Ordine di Calatrava per quest’ultimo Ordine – e il mantello. Nella mano destra regge un frustino, simbolo del suo titolo di cavaliere, che è appoggiato sullo stesso tavolino su cui è posto anche un cappello. Olivares indossa una voluminosa catena, e s’intuisce che la mano sinistra impugni una spada. Don Diego del Corral y Arellano fu un famoso giurista, docente emerito dell’università di Salamanca. Fece anche parte degli organi collegali di Hacienda e della Castiglia, oltre a essere cavaliere dell’Ordine di Santiago. Nel ritratto che gli dedicò Velázquez nel 1632 compare con i simboli del suo status: un copricapo alto, poggiato sulla scrivania, e la croce di Santiago al petto. I documenti che tiene in mano e la toga alludono alla sua qualifica. diego del corral y arellano olio su tela (1632 ca.). 215 x 110 cm. museo del prado, madrid.

SINISTRA: ALBUM; DESTRA: ORONOZ / ALBUM

ministri dello stato


gaspar de guzmán, conte-duca d’olivares olio su tela (1625). collezione privata. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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I D I M E N T I C AT I

la dignità di nani e buffoni ella pittura di Velázquez convivono l’eccezionale e il quotidiano. Molte volte le sue opere di carattere mitologico sembrano private dell’aura epica e divina, così come i personaggi più mondani sono rappresentati con decoro e nobiltà. Un caso interessante è quello di nani, buffoni e altre figure “da intrattenimento”: si trattava di soggetti dai differenti tratti fisici o psichici che popolavano la corte perché facevano ridere. Va anche detto, però, che alcuni di loro divennero ricchi e famosi e agirono da messaggeri e persino da spie. Nessun artista gli diede la stessa considerazione di Velázquez. Il buffone Calabacillas (1635-1640), con il

sorriso enfatizzato, compare assieme alle zucche (in spagnolo, calabaza), che ne avevano determinato il soprannome e che sono associate alla mancanza di scaltrezza. Buffone con libri (1640 ca.) mostra un personaggio vestito di nero, secondo la moda di corte. Ha con sé libri e materiali per la scrittura (calamaio e inchiostro), forse in allusione al suo interesse per la lettura. Il buffone El Primo (1644) accompagnò Filippo IV in Aragona e lì venne ritratto dal pittore, che lo fa posare seduto in modo tale da metterne in risalto la bassa statura. Al contempo il buffone rivolge uno sguardo serio e dalla grande forza espressiva proprio verso lo spettatore.

n la pintura de Velázquez lo excepcional y lo cotidiano se dan la mano. Muchas veces sus pinturas mitológicas parecen desposeídas del aura mítica y divina, al tiempo que sus personajes más mundanos aparecen representados con distinción y nobleza. Un caso interesante es el de los enanos, bufones y otros personajes «de placer», como se denominaba en la corte a aquellos marcados por algún rasgo inusual físico o psíquico, asociados a lo burlesco y al divertimento, como bufones, si bien algunos alcanzaron fama y fortuna y actuaron como mensajeros e incluso espías. Nadie trató el tema con la dignidad con que

lo hizo el sevillano. El bufón Calabacillas (1635-1639), con su destacada sonrisa, aparece con las calabazas que originan su mote y que son un elemento asociado a la falta de juicio. Bufón con libros (hacia 1640) muestra a un personaje vestido de negro, a la moda de la corte, acompañado de libros y material de escritura –cálamo y tintero–, tal vez en alusión a su interés por la lectura. El bufón el Primo (1644) acompañó a Felipe IV a Aragón y allí fue retratado por Velázquez, que coloca al modelo en una posición que resalta su talla, pero al mismo tiempo dirige una mirada directa y seria al espectador, de gran fuerza expresiva.

1.

2.

2. buffone con libri olio su tela (1640). 107 x 82 cm. museo del prado, madrid.

3. il buffone el primo olio su tela (1644). 106,5 x 82,5 cm. museo del prado, madrid.

SINISTRA: ALBUM; CENTRO: ORONOZ / ALBUM; DESTRA: ALBUM

1. il buffone calabacillas olio su tela (1635-1640). 106 x 83 cm. museo del prado, madrid.


3.


102 HISTORIA NATIONAL GEOGRAPHIC

la dama con un ventaglio olio su tela. (1638-1639). 95 x 70 cm. wallace collection, londra.

Spesso i visitatori stranieri giunti alla corte di Filippo IV chiedevano a Diego Velázquez di essere raffigurati. Nel 1623 l’artista dipinse un olio, oggi scomparso, del principe di Galles (il futuro Carlo I d’Inghilterra) durante il suo soggiorno a Madrid. Si è invece conservato quello di Francesco I d’Este, duca di Modena, in visita presso la corte spagnola nel 1638. Sulla stessa linea è stato ipotizzato che il magnifico quadro La dama con un ventaglio rappresentasse una straniera: la francese Marie de Rohan, duchessa di Chevreuse. Un documento del 1638 affermava infatti che Velázquez «le sta facendo un ritratto con l’aspetto e le vesti francesi». L’opera mostra una donna con abiti in stile francese, come il guardinfante e l’ampio décolleté, insolito alla corte spagnola. Un testimone riferiva che la duchessa di Chevreuse girava «scollacciata». Invece la delicata mantella che cade sulle spalle, il rosario con il nastro azzurro – colore che poteva essere associato all’Ordine dello spirito santo –, il ventaglio e i guanti danno un tocco spagnolo. Forse per la duchessa era una maniera d’ingraziarsi gli ospiti, o si trattava di regali ricevuti dal re, com’è stato suggerito riguardo ai lussuosi guanti profumati della dama. Altri studiosi rifiutano tale interpretazione sull’origine francese della donna e credono si tratti piuttosto di una dama spagnola.

una francese a corte?

E N I G M AT I C A D A M A


DEA / ALBUM HISTORIA NATIONAL GEOGRAPHIC

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PADRONI E SCHIAVI LA VITA IN UNA PIANTAGIONE DEGLI STATI UNITI Abusi, punizioni indiscriminate e giornate di lavoro estenuanti segnavano la vita quotidiana degli schiavi afroamericani nelle piantagioni di cotone degli Stati Uniti


DURO LAVORO

Questa fotografia, scattata negli anni sessanta dell’800 a Savannah (Georgia), mostra un gruppo di afroamericani in una piantagione con i cesti pieni del cotone raccolto. Nella pagina precedente, catene usate per gli schiavi. FOTO: BRIDGEMAN / ACI


IL

SUD SCHIAVISTA

nel 1860 la schiavitù era legale in 15 stati su 34. Ma anche nelle aree meridionali l’attuazione del sistema era disomogenea. A possedere schiavi era meno del sei per cento dei bianchi del sud, e di questi solo il 12 per cento ne aveva almeno 20. Le piantagioni con più di 100 schiavi erano una minoranza, 1.800 per la precisione. E tuttavia c’erano aree con grandi concentrazioni di lavoro forzato, come mostra questa mappa in cui sono indicate le percentuali di popolazione schiava in ogni contea e provincia. Nella Carolina del Sud e nel Mississippi la proporzione era superiore al 50 per cento, mentre nel Kentucky e nell’Arkansas superava di poco il 20 per cento. In tutto, nel 1850 c’erano negli Stati Uniti più di tre milioni di schiavi, oltre a quasi mezzo milione di afroamericani liberi.

MAPPA DEGLI STATI UNITI PRIMA DELLA GUERRA CIVILE. IN BIANCO GLI STATI CHE AVEVANO ABOLITO LA SCHIAVITÙ, IN NERO QUELLI DOV’ERA LEGALE. GLI ALTRI TERRITORI NON ERANO ANCORA DIVENTATI STATI.

A

partire dal 1619, quando poco più di una ventina di africani furono condotti nell’insediamento di Jamestown, in Virginia, la schiavitù divenne parte intrinseca della vita delle tredici colonie inglesi dell’America settentrionale. Tanto che nel 1776, al momento della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, il sistema schiavista venne legalizzato in tutto il territorio. Ratificata nel 1787, la costituzione del nascente Paese stabiliva che gli stati fossero rappresentati nel Congresso in base al numero di abitanti. Se un bianco valeva uno, un nero era considerato invece tre quinti di una persona, una contabilità che impediva l’uguaglianza tra le due razze in termini legali ed economici, legittimando così il possesso degli schiavi da parte dei padroni.

TEXAS

Fu soprattutto negli stati del sud che l’agricoltura divenne totalmente dipendente dalla manodopera degli schiavi. Qui, accanto a una maggioranza di piccoli proprietari terrieri e produttori che possedevano due o tre lavoratori forzati, si svilupparono grandi piantagioni in cui ne vivevano decine, se non centinaia. In epoca coloniale le coltivazioni principali erano quelle del tabacco e, più tardi, dello zucchero; ma a partire dalla fine del XVIII secolo il settore del cotone prese il sopravvento grazie all’invenzione della sgranatrice, una macchina che permet106 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

MAPPE: ALBUM

L’economia schiavista

1619

1787

Un gruppo di 20 o 30 africani viene condotto a Jamestown, in Virginia. Sarebbero diventati i primi schiavi dei coloni anglosassoni.

Con la ratifica della costituzione degli Stati Uniti, la schiavitù è formalmente legalizzata nei territori dei 13 stati fondatori.


MARYLAND DELAWARE

VIRGINIA MISSOURI

KENTUCKY

CAROLINA DEL NORD

TENNESSEE

ARKANSAS

CAROLINA DEL SUD MISSISSIPPI

ESTADOS UNIDOS: UN PAÍS CONTINENTALALABAMA

GEORGIA

LOUISIANA

G O L F O

FLORIDA

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M E S S I C O

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AC

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TARGHETTA CON NUMERO IDENTIFICATIVO E ANNO CHE DOVEVANO INDOSSARE GLI SCHIAVI RESIDENTI NEL CENTRO DI CHARLESTON.

1807

1831

1863

1865

La Gran Bretagna vieta il commercio internazionale di schiavi, bloccando di fatto l’importazione di africani negli Stati Uniti.

Stanco della sua condizione di schiavo, Nat Turner guida una rivolta poi repressa. Perdono la vita oltre 50 coloni bianchi.

Il proclama di emancipazione rende finalmente liberi cittadini tutti gli schiavi fuggiti o liberati.

Dopo la fine della guerra civile il XIII emendamento alla costituzione abolisce ufficialmente la schiavitù.


ALAMY / ACI

HARRIET A. JACOBS IN UNA FOTOGRAFIA DEL 1894. SOTTO, IL FRONTESPIZIO DEL SUO LIBRO VITA DI UNA RAGAZZA SCHIAVA, PUBBLICATO NEL 1861.

IN FUGA VERSO LA LIBERTÀ

GRANGER / ACI

HARRIET A. JACOBS (1813-1897) nacque schiava a Edenton, nella Carolina del Nord. Prima di ottenere la libertà per sé e per i suoi due figli trascorse sette anni nascosta in una piccola soffitta nella casa di sua nonna, una donna nera libera. Poi fuggì e raggiunse New York. Nel 1861, dopo ripetuti sforzi per trovare un editore, pubblicò lei stessa, con lo pseudonimo di Linda Brent e grazie all’aiuto dell’abolizionista Lydia Maria Child, la sua autobiografia, Vita di una ragazza schiava. Questa difesa radicale degli afroamericani cadde nell’oblio fino alla fine del XX secolo.

teva di cardare e separare rapidamente le fibre dal resto della pianta. L’aumento di questo tipo di coltivazioni provocò il ricorso sistematico all’importazione di manodopera africana. Quando all’inizio del XIX secolo il commercio internazionale di schiavi fu abolito, venne sostituito dalla compravendita interna. Nel 1863, anno in cui Lincoln promulgò il Proclama di emancipazione, negli Stati Uniti c’erano più di tre milioni di afroamericani ridotti in stato di schiavitù. Una particolarità assunta dalla diaspora africana negli Stati Uniti rispetto a quella delle altre zone del continente è costituita dai resoconti in forma scritta lasciati a testimonianza delle esperienze vissute. Tra i


BRIDGEMAN / ACI

numerosi testi autobiografici che gli schiavi composero senza dover ricorrere all’aiuto di scrivani bianchi, ne spiccano due: Memorie di uno schiavo fuggiasco (1845), di Frederick Douglass, e Vita di una ragazza schiava. Raccontata da lei medesima (1861), di Harriet A. Jacobs. In entrambe le opere viene narrata la dura esistenza di una popolazione che, paradossalmente, viveva in una repubblica basata sull’uguaglianza degli esseri umani secondo il diritto costituzionale.

Sorveglianza e punizioni La vita degli schiavi era regolata da un sistema di sorveglianza per cui ogni atto che contravveniva alle regole del proprietario era punito dal responsabile della piantagio-

ne o dai suoi capisquadra. Harriet A. Jacobs racconta di un agricoltore vicino di casa del suo padrone, «un uomo dalle maniere rudi e senza educazione, ma molto ricco», che per controllare i suoi seicento schiavi, «molti dei quali non conosceva nemmeno», ricorreva a dei sorveglianti ben pagati. Nessuno di loro esitava a usare i metodi più drastici per mantenere l’ordine. «Le punizioni a cui facevano ricorso erano svariate. Una delle preferite era quella di legare una corda intorno al corpo di un uomo e tenerlo sospeso da terra. Sopra di lui veniva acceso un fuoco da cui far pendere un pezzo di grasso di maiale. Nel cuocersi, le gocce di grasso bollente cadevano senza sosta sulla carne dello schiavo […] Se uno schiavo gli rubava anche

UNA PIANTAGIONE DELLA LOUISIANA

Negli anni venti dell’800 un produttore di origine francese costruì la Olivier House alla periferia di New Orleans. Vista della piantagione nel 1861, di Adrien Persac.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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BARACCHE PER GLI SCHIAVI

Questa fotografia mostra un gruppo di afroamericani probabilmente subito dopo l’emancipazione del 1863. Le loro abitazioni erano ancora delle baracche nella piantagione di cotone Fripp sull’isola di Sant’Elena, in Carolina del Sud. LIBRARY OF CONGRESS


PUNIZIONE BRUTALE

Questa incisione a colori raffigura la punizione ricevuta dallo schiavo Matt, accusato di aver provocato per sbaglio una bruciatura al sorvegliante della fucina, come raccontato dall’abolizionista Mary Ashton Rice nella sua autobiografia.

solo un etto di carne, oppure un po’ di farina, e poi lo scoprivano, veniva messo in catene e chiuso in prigione fino a quando non fosse deperito per la fame e le sofferenze». La punizione peggiore era riservata a coloro che tentavano di fuggire: «I suoi mastini erano ben addestrati […] ed erano il terrore degli schiavi. Li sguinzagliavano sulle tracce di un fuggiasco e quando lo raggiungevano gli strappavano letteralmente la carne dalle ossa […] Il padrone che faceva questo era un uomo straordinariamente raffinato, considerato un perfetto gentiluomo, e lui stesso si vantava di essere un buon cristiano, anche se Satana non ebbe mai un discepolo tanto devoto». Tutto questo avveniva nella più totale impunità: «Tale era la protezione garantitagli dalla sua ricchezza che non aveva mai dovuto rispondere dei suoi crimini, nemmeno degli omicidi».

Sadismo quotidiano

«LE SPEZZÒ IL NASO E LO STERNO CON UN BASTONE, COSICCHÉ LA POVERETTA SPIRÒ POCHE ORE DOPO» 112 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

AKG / ALBUM

Le punizioni e gli atti di crudeltà nei confronti degli afroamericani non erano prerogativa dei padroni delle piantagioni: anche le loro mogli abusavano senza timore degli schiavi. Per esempio, Frederick Douglass racconta l’agghiacciante caso della sposa del produttore Giles Hicks. Questa «uccise la cugina di mia moglie, una ragazza fra i quindici e i sedici anni [...] La sera del delitto, l’avevano incaricata di sorvegliare il bambino della signora Hicks; ma durante la notte si lasciò vincere dalla stanchezza e quando il bambino pianse lei, che aveva già perduto diverse notti di sonno, non lo sentì. Erano tutte e due in una stanza con Mrs. Hicks; questa, vedendo che la ragazza era tarda a muoversi, balzò dal letto, prese dal camino un ceppo di quercia e la colpì a più riprese […] infierendo sulla sua persona nel modo più atroce e spezzandole il naso e lo



MERCATO DI ESSERI UMANI

Un’asta di schiavi a Richmond, in Virginia, il principale mercato di schiavi degli Stati Uniti.

GRANGER / AURIMAGES

LA TATA DEI PADRONI

Le condizioni di vita della servitù domestica erano relativamente migliori di quelle nella piantagione. Nella foto, una tata nera con un bambino bianco alla fine del 1850.

sterno con un bastone, cosicché la poveretta spirò poche ore dopo […] Ci fu un mandato d’arresto, è vero; ma rimase lettera morta». Da parte sua, Jacobs riferisce che la sua padrona «non aveva lo spirito per supervisionare gli affari domestici, ma piuttosto il temperamento per sedersi sul divano e guardare una schiava che veniva frustata fino a sanguinare. Frequentava la chiesa, ma la partecipazione all’eucaristia non sembrava renderla più cristiana. Se il pranzo domenicale non veniva servito all’ora esatta come lei pretendeva, andava in cucina, aspettava che i piatti fossero pieni e poi sputava in tutte le pentole e le padelle che erano state usate per cucinare. Questo lo faceva per evitare che la cuoca e i suoi figli usassero per loro i magri avanzi di sugo e altri resti».

Separazione e sfruttamento sessuale Eppure c’erano cose peggiori delle continue punizioni fisiche o delle giornate di lavoro massacranti: per esempio la separazione forzata dei familiari, compresi i bambini. Racconta Harriet Jacobs: «In uno dei giorni di vendita [di schiavi] ho visto una madre condurre all’asta i suoi sette figli. Sapeva che 114 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

qualcuno le sarebbe stato strappato, invece glieli presero tutti. I bambini furono venduti a un mercante di schiavi e la madre fu acquistata da un uomo che abitava nella sua stessa città. Prima che facesse giorno i figli erano già lontani. Implorò il mercante affinché le dicesse dove aveva intenzione di condurli, ma lui si rifiutò di rispondere. E come poteva, quando immaginava di venderli uno alla volta, al prezzo più alto! Incontrai la donna in strada e il suo volto stravolto e disperato è ancora impresso nella mia memoria. Si torceva le mani dalla disperazione e gridava: “Via! Via tutti! Perché Dio non mi uccide?”». Altrettanto disumano era lo sfruttamento sessuale a cui erano sottoposte le schiave da parte dei loro padroni. Jacobs rievoca l’impressione che questo poteva provocare in una bambina: «Per quelle che vivono in schiavitù l’inizio stesso della vita è già avvolto nell’oscurità […] Anche la ragazzina a cui viene insegnato a servire la padrona e i suoi figli imparerà prima dei dodici anni perché la signora odia questa o quell’altra schiava [l’amante di turno del padrone] Arriverà a conoscere prima del tempo la crudeltà delle cose, e presto lei stessa sarà percorsa da un brivido al sentire i passi del padrone avvicinarsi e si rassegnerà a riconoscere che non è più una bambina innocente. Se Dio l’ha benedetta con la bellezza, questa diventerà la sua più terribile maledizione». Le mogli dei proprietari non erano estranee a tali abusi. Nella sua autobiografia Jacobs scriveva che «spesso le donne sudiste sposano un uomo pur sapendo che questi è il padre di tanti piccoli schiavi. Non si fanno troppi scrupoli. Considerano quei bambini alla stregua di una proprietà, smerciabile alla stregua dei maiali della piantagione, ed è raro che non glielo facciano capire chiaramente consegnandoli appena possibile nelle mani di un mercante di schiavi, e liberandosi così della loro vista». Come si può immaginare, l’atmosfera d’immoralità non risparmiava neanche i figli dei proprietari bianchi, proprio come si legge nella testimonianza di Jacobs: «Ovviamente i figli degli schiavisti vengono in-


fluenzati dalle sconcezze che gli accadono attorno, anche quando sono dei bambini. E non è detto che le figlie riescano a evitarlo. Talvolta, su di lui si abbattono delle punizioni tremende, causate dal male fatto alle figlie degli schiavi. Le figlie bianche sentono spesso i loro genitori che discutono di una schiava. La loro curiosità si accende e presto capiscono il motivo. Vengono accudite dalle ragazze schiave che sono state corrotte dai padri e ascoltano un linguaggio che non dovrebbe mai giungere alle loro orecchie, o a quelle di chiunque altro. Sanno che le schiave sono sottomesse al volere dei loro padri sotto tutti i punti di vista, e talvolta esercitano la medesima autorità nei confronti dei giovani schiavi».

BRIDGEMAN / ACI

BRIDGEMAN / ACI

Schiavi in vendita. Il cartello in alto annuncia l’asta che si svolse martedì 16 gennaio 1849, a New Orleans. 14 schiavi, tra cui due ragazze di 13 e 17 anni e un ragazzo di 15 furono offerti con «piena garanzia», tranne un ventiseienne di nome Henry, di cui si specifica che era scappato da una piantagione. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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UNA DECISIONE INSOLITA

La schiava Phillis Wheatley (1753-1784) fu la prima scrittrice afroamericana a pubblicare un libro di poesia. I suoi proprietari di Boston le insegnarono a leggere e scrivere.

D’altra parte, le schiave erano anche impiegate come macchine riproduttive per generare nuovi schiavi. «Le donne non hanno alcun valore a meno che non servano ad aumentare la mandria del padrone. Sono come animali», affermava Jacobs. Frederick Douglass racconta un esempio chiarificatore: «Mr. Covey era un povero diavolo che stava appena facendosi strada nel mondo e poteva permettersi al massimo di acquistare una sola schiava [.…] l’acquistò, come diceva lui, perché figliasse. Questa donna si chiamava Caroline […] Era una donna grande e robusta sui vent’anni e, avendo già dato alla luce un bambino, sembrava fatta apposta per soddisfare le esigenze del nuovo padrone. Orbene, dopo averla acquistata, Mr. Covey noleggiò per un anno uno schiavo di Mr. Samuel Harrison, sposato e con figli, e ogni sera lo spronava a coricarsi con lei!». Era poi abituale che gli schiavi subissero pure il razionamento del cibo e dei vestiti. Spiega Douglass: «[Gli schiavi] ricevevano la razione mensile di cibo, e annuale di vestiario. Quanto alla prima, spettavano agli schiavi, uomini e donne, otto libbre di carne di maiale, o l’equivalente in pesce, e otto galloni di farina […] Pasti veri e propri non ne ricevevamo. Ci si nutriva di farina gialla bollita, il cosiddetto mush. Versato il pastone in un grosso vassoio o in una ciotola, lo si posava sul pavimento; poi si chiamavano i bimbi come tanti porcellini, e come tanti porcellini essi accorrevano a divorare il

«VERSATO IL PASTONE IN UN GROSSO VASSOIO O IN UNA CIOTOLA, LO SI POSAVA SUL PAVIMENTO; POI SI CHIAMAVANO I BIMBI COME TANTI PORCELLINI» 116 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

mush, alcuni servendosi di gusci di ostriche, altri di pezzi di tegola, altri ancora delle mani, nessuno del cucchiaio. Chi divorava più in fretta riceveva di più; il più forte si assicurava il posto migliore; e pochi lasciavano il truogolo sazi».

Bambini nudi e niente scuola Per quanto riguarda la razione annuale di vestiti, Douglass racconta: «Comprendeva due camicie di tela grezza, un paio di pantaloni di tela come le camicie, una giacca, un paio di pantaloni per l’inverno in quel panno ruvido che si usava per i negri, un paio di calze lunghe e uno di scarpe; cose che, messe insieme, non potevano costare più di sette dollari. La razione per gli schiavi bambini era consegnata alle rispettive madri, o alle vecchie che ne avevano cura». E poi aggiunge: «Quelli inabili al lavoro agricolo non ricevevano né scarpe, calze e giacca, né pantaloni; il loro vestiario comprendeva due camicie di tela grezza all’anno, e se queste si logoravano rimanevano nudi fino al prossimo giorno di distribuzione. Bambini dai sette ai dieci anni, maschietti e femminucce, quasi nudi, si potevano vedere in ogni tempo dell’anno». Le testimonianze di questi autori evidenziano un’altra forma di oppressione non meno pesante per la popolazione afroamericana: il non avere diritto a ricevere alcun tipo d’istruzione. In certi stati i bianchi venivano addirittura multati se si scopriva che avevano insegnato ai neri a leggere e a scrivere. Douglass sottolinea l’importanza dell’alfabetizzazione come primo passo verso la libertà: «[La signora Auld] mi aiutò insegnandomi a sillabare parole di tre o quattro lettere; ma, proprio a questo punto, il signor Auld scoprì che cosa era in ballo e, detto fatto, proibì alla moglie di istruirmi dicendole, fra l’altro, che insegnare a leggere a uno schiavo era non solo pericoloso, ma illecito. Inoltre, per usare le sue parole: “Dà a un negro un pollice, e lui ti prenderà il braccio. Un nigger non dovrebbe saper altro che ubbidire al suo padrone – fare come gli si dice. L’istruzione guasterebbe il miglior negro che esista sulla faccia della terra.


PETER NEWARK / BRIDGEMAN / ACI

Ora – prosegue il racconto – se tu insegni a leggere a quel nigger (parlando di me), non ci sarà più modo di tenerlo. Non riuscirà mai più a essere uno schiavo”».

Forme di resistenza Sebbene il sistema schiavista interessasse ogni ambito della vita degli schiavi, dal lavoro alla famiglia, dall’istruzione alla sessualità, questo non significa che gli afroamericani non avessero mezzi per resistere all’oppressione. Naturalmente la fuga nei territori liberi era una soluzione fuori dal comune e decisamente troppo rischiosa, e ancor più lo era l’organizzazione di rivolte contro i padroni. Erano dunque molto più abituali le proteste silenziose, come finge-

re una malattia o sabotare gli strumenti di lavoro del padrone allo scopo di rallentare la produzione delle piantagioni. D’altra parte in quegli anni di oppressione gli schiavi riuscirono a sviluppare una cultura propria attraverso la religione, le feste, la musica e l’oralità. La visione religiosa delle culture africane si fuse allora con il cristianesimo protestante prevalente negli stati del sud degli Stati Uniti. Gli schiavi si appropriarono della religione dei bianchi, plasmandola e reinterpretandola in modo che potesse accogliere le vicissitudini della loro vita. Douglass e Jacobs, per esempio, erano acerrimi critici del cristianesimo così com’era professato dai bianchi, ma entrambi sottolineavano l’importanza delle congrega-

MANGIARE COME ANIMALI

I bambini attendono la pentola in cui mangeranno con qualsiasi oggetto a disposizione o semplicemente con le mani. Incisione stampata intorno al 1860.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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NIDAY PICTURE / AGE FOTOSTOCK

FREDERICK DOUGLASS INTORNO AL 1870. SOTTO, PUBBLICITÀ DI LA CANZONE DEL FUGGITIVO, COMPOSTA IN SUO ONORE.

DOPO ESSERE fuggito dalla schiavitù nel 1838, Frederick Douglass (1818-1895) divenne un brillante oratore abolizionista e nel 1845 pubblicò la sua autobiografia, Memorie di uno schiavo fuggiasco, una delle opere più riuscite e importanti della letteratura afroamericana precedente alla guerra civile. Douglass fece propri il linguaggio e il simbolismo della cultura e della religione della classe media statunitense e li utilizzò per denunciare i mali della schiavitù e del razzismo e per articolare una difesa dell’umanità degli uomini e delle donne afroamericani.

BRIDGEMAN / ACI

DA FUGGITIVO AD ABOLIZIONISTA

zioni cristiane di persone nere come fonte di speranza e d’impegno politico. Jacobs racconta che in seguito all’insurrezione dello schiavo Nat Turner nella contea di Southampton, in Virginia, nell’agosto del 1831 – nel corso della quale i ribelli uccisero più di cinquanta bianchi –, le autorità reagirono con forza, proibendo agli schiavi di praticare il culto nelle loro chiese. Erano infatti convinti che la rivolta si fosse originata in questi luoghi di culto: «Gli schiavi chiesero di potersi riunire ancora nella chiesetta tra gli alberi, circondata dal cimitero. Era stata costruita dalla gente di colore, e per queste persone non c’era gioia più grande che incontrarsi per cantare gli inni e dare libero sfogo ai loro cuori con preghiere spontanee. La richiesta fu respinta e la chiesa abbattuta. Accordarono loro il permesso di frequentare le chiese dei bianchi dopo avergli destinato una parte del loggiato. Così, quando tutti gli altri avevano ricevuto la comunione, e dopo le benedizioni, il prete diceva: “Adesso scendete voi, amici di colore”. Questi ubbidivano all’ordine e partecipavano del pane e del vino».

Ricordi del Paese d’origine Jacobs sottolinea anche il ruolo che svolgevano le feste nella vita quotidiana della popolazione schiava, in quanto momento di fusione di vari elementi delle tradizioni africane e americane. Così, a Natale gli schiavi organizzavano una particolare processione: «La mattina di Natale tutti i bambini si svegliano presto per vedere gli Johnkannaus. Senza di loro, il Natale perderebbe la sua maggior attrazione. Si tratta di compagnie di schiavi della classe più bassa, quelli delle piantagioni. Due uomini robusti, vestiti con una tunica di cotone, si gettano sulla testa una rete da pesca, ricoperta da ogni tipo di nastri dai colori vivaci. Gli attaccano una coda di mucca sul didietro e gli decorano la testa con delle corna. Una scatola ricoperta di pelle di pecora diventa una gumbo box. Una dozzina di persone batte su questo tamburo, altri suonano triangoli


METROPOLITAN MUSEUM / SCALA, FIRENZE

e ossa, mentre diversi gruppi di danzatori ballano a tempo. Compongono le canzoni da eseguire per l’occasione fin dal mese precedente. Queste compagnie, ognuna di un centinaio di persone, escono il mattino presto e hanno il permesso di girare per chiedere offerte fino a mezzogiorno. Bussano ovunque ci sia la più remota possibilità di ricevere un penny, o magari un bicchiere di rum. Mentre sono fuori non bevono nulla, ma conservano il rum nelle borracce per fare bisboccia a casa. Queste offerte natalizie spesso raggiungono i venti o i trenta dollari. È raro che un uomo bianco, oppure un bambino, rifiuti di dargli qualcosa». Ci sono voluti più di cento anni perché il racconto della vita delle schiave e degli

schiavi fosse accettato come un punto di partenza ineludibile per comprendere le radici della discriminazione razziale che perdura negli Stati Uniti del XXI secolo. Eppure molti nordamericani preferiscono ancora continuare a ignorare questa storia e le sue conseguenze. Ecco perché, come ha sottolineato il filosofo George Santayana, sono inesorabilmente condannati a ripeterla. CARME MANUEL UNIVERSITÀ DI VALENCIA

Per saperne di più

DA NATALE AL 4 LUGLIO

Alcuni aspetti del Johnkannaus furono incorporati nella festa del giorno dell’indipendenza. L’olio Vestirsi per il carnevale, dipinto da Winslow Homer nel 1877, s’intitolava originariamente Quattro luglio in Virginia.

SAGGI

Vita di una ragazza schiava. Raccontata da lei medesima Harriet A. Jacobs. Donzelli, Roma, 2004. Memorie di uno schiavo fuggiasco Frederick Douglass. Manifestolibri, Roma, 2011.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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SPL / AGE FOTOSTOCK

La produzione del cotone era un lavoro ad alta intensità di manodopera e comportava interminabili giornate nei campi che potevano superare le 15 ore. Nel 1853 Solomon Northup raccontò nel libro Dodici anni schiavo (diventato nel 2013 un film poi insignito con l’Oscar) i duri compiti che era costretto a svolgere.

N ERO

COTONE

RAMO DI COTONE CON LE CAPSULE APERTE DA CUI FUORIESCONO LE FIBRE CRESCIUTE ATTORNO AL SEME.

la raccolta. «Sul finire di agosto inizia la raccolta del cotone […] A ciascuno schiavo viene affidato un sacco […] e riceve anche un grande cesto […] Qui ognuno svuota il suo sacco una volta riempito». La giornata iniziava con il primo raggio di luce e terminava all’oscurità, con una sola pausa di una decina minuti per mangiare. BAMBINI RACCOLGONO IL COTONE IN UNA PIANTAGIONE DEL MISSISSIPPI NEL XIX SECOLO.

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GRANGER / ALBUM

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SCHIAVI AL LAVORO NELLA PIANTAGIONE DI THOMAS J. FRIPP (CAROLINA DEL SUD) NEL 1863.

la semina. «Due muli, tre schiavi, un aratro e un erpice vengono impiegati per piantare ciascun filare di cotone. Questo si fa nei mesi di marzo e aprile». Nei mesi successivi bisogna scavare il canale d’irrigazione per dare acqua alle piante, sotto l’occhio costantemente vigile del sorvegliante, la cui frusta era sempre pronta.


MET / ALBUM

ALAMY / ACI

I LAVORATORI DI UNA PIANTAGIONE DELLA CAROLINA DEL SUD CARDANO IL COTONE CON UNA SGRANATRICE. 1874.

CARRI CARICHI DEL RACCOLTO DEL GIORNO NELLA PIANTAGIONE RICHARDSON (CAROLINA DEL SUD). 1891. ANCHE DOPO L’ABOLIZIONE DELLA SCHIAVITÙ LA MAGGIOR PARTE DEI LAVORATORI DELLE PIANTAGIONI ERA ANCORA NERA.

DON TROIANI / BRIDGEMAN / ACI

la pressatura. «Infine i cesti vanno portati all’apposito magazzino, dove il cotone viene conservato come in un fienile, con tutti i braccianti incaricati di pigiarlo […] Eseguiti questi incarichi, la giornata di fatiche non è ancora finita […] Chi dà da mangiare ai muli, chi ai maiali, chi taglia la legna e così via».

5

la sgranatura. Prima della sgranatura il cotone veniva pesato: «Se la quantità prodotta è inferiore a quella assegnatagli, [lo schiavo] sa che dovrà soffrire. E se l’ha superata […] il padrone ne terrà conto per la pesa del giorno seguente. Quindi, che abbia raccolto poco o troppo cotone, andrà verso la bilancia sempre tremando di paura».

4

trasporto del cotone. «Una volta conclusa la giornata di lavoro nei campi, i cesti vanno […] portati alla sala per la sgranatura». A causa della sua goffagine, Northup ricevette altre mansioni: «Venni così impiegato per tagliare e trasportare la legna, spostare il cotone dai campi alla sala per la sgranatura e svolgere qualsiasi altro compito».

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NATIONAL GALLERY OF ART, WASHINGTON / ALBUM

PRESSATRICE IN UNA FABBRICA DI COTONE A DAHOMEY, NELLO STATO DI MISSISSIPPI, INTORNO AL 1890.


GRANDI SCOPERTE

La domus del Mito, la dimora dei mosaici In un piccolo comune marchigiano gli archeologi hanno scoperto una magnifica villa romana del I secolo

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Domus del Mito RO M A

L I TA

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MAR TIRRENO

cie; ce n’era una tale quantità da farle sembrare inesauribili e per i piccoli, così come per i genitori prima di loro, era un hobby alternativo ed emozionante.

Le foto parlano per generazioni e generazioni i bambini del centro storico hanno avuto un passatempo insolito e incredibilmente affascinante, quello di andare a raccogliere le “tesserine”. Lungo i solchi del campo passeggiavano mentre si divertivano a trovare sassolini bianchi o colorati, perfettamente cubici, regolari nella forma e nelle dimensioni. Ora si sa che si trattava di tessere di mosaici che nel corso dei secoli si erano staccate ed erano affiorate in superfi-

Agli inizi degli anni novanta una serie di foto aeree di campo della Pieve mise in mostra delle linee su cui l’erba non cresceva bene. S’ipotizzò che fossero la testimonianza dell’esistenza di un’articolata serie di costruzioni nel sottosuolo. Ai voli in deltaplano seguirono poi dei saggi esplorativi tra il 1999 e il 2000. Q u est i co n f e r m a ro n o quanto ipotizzato in precedenza e diedero l’impulso determinante all’avvio della campagna di scavi condotta dalla Soprintendenza per i beni archeologici delle Marche. Gli scavi porta-

MICHELE DINI SU CONCESSIONE MIBACT-SABAP MARCHE

bicato a 270 chilometri a nord di Roma, Sant’Angelo in Vado è oggi un piccolo paesino di circa quattromila abitanti nel nord-ovest delle Marche. Fino a poco tempo fa nel cuore del centro abitato si trovava un grande terreno coltivato detto campo della Pieve, dove non si era mai costruito. Chissà quante volte i vomeri degli aratri dei contadini che coltivavano il campo avevano smosso la terra, sfiorando i resti di una villa romana decorata con meravigliosi mosaici lì sepolta da secoli, quando il picc o l o c o m u n e e ra u n a fiorente cittadina chiamata Tifernum Mataurense. Che lì sotto ci fosse qualcosa di antico e prezioso, però, era noto a tutti:

PARTICOLARE DEL MOSAICO che

mostra Nettuno e la moglie Anfitrite su un carro trainato da ippocampi.

rono alla luce una struttura sorprendente: una domus gentilizia di circa mille metri quadrati, decorata con una serie di mosaici bicromi e policromi perfettamente conservati.

CRONOLOGIA

I secolo d.C.

V secolo

1990

1999

RITORNO ALLA VITA

Costruzione della domus, commissionata da una famiglia benestante di Tifernum Mataurense.

Dopo 400 anni dalla costruzione, la domus viene abbandonata e se ne perde l’ubicazione.

Alcune foto aeree confermano i resti di un’abitazione nel sottosuolo di campo della Pieve.

Iniziano i lavori che avrebbero riportato alla luce l’antica domus e i suoi mosaici.

122 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC


GRANDI SCOPERTE

GORGONA VIGILANTE situata nell’angolo sud-est della struttura, è caratterizzata da una complessa rete di decorazioni policrome. Motivi intrecciati, svastiche e fiori racchiudono al centro un esagono che contiene la testa di Medusa, ritratta stranamente con un occhio socchiuso. LA STANZA DI MEDUSA,

domus attraversò una lunga fase florida che si prolungò fino al III secolo, periodo in cui subì diverse trasformazioni e ampliamenti.

MOSAICO CON AL CENTRO LA TESTA DI MEDUSA.

Dentro la domus La struttura dell’abitazione si articola in numerose stanze, alcune delle quali sono ancora sotto terra. All’ingresso si trova il vestibolo, dove campeggia lo splendido mosaico dedicato al trionfo di Nettuno. La raffigurazione segue l’ico-

MICHELE DINI SU CONCESSIONE MIBACT-SABAP MARCHE

Edificata verso la fine del I secolo d.C., la domus fu probabilmente commissionata da una famiglia benestante e colta. Lo suggeriscono le dimensioni dell’edificio e il ricco complesso di mosaici al suo interno. Dai soggetti raffigurati nelle rappresentazioni musive si può ipotizzare che il proprietario fosse una persona facoltosa, probabilmente un appassionato di caccia. Negli anni successivi alla sua costruzione, la

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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GRANDI SCOPERTE

La pavimentazione della casa alterna complesse trame geometriche a scene figurative gli ospiti e lavorava. Il mezzo busto del dio dell’ebbrezza è immortalato entro un cerchio al centro della pavimentazione. Da qui si dirama radialmente una serie di triangoli neri che crea un incantevole gioco ottico, interrotto da quattro figure femminili posizionate agli angoli del perimetro quadrato.

2 La sala di Bacco era probabilmente il tablinum, una stanza dove il proprietario della domus lavorava e riceveva gli ospiti. 3 Il triclinium o sala da pranzo, con scene di caccia e decorazioni policrome, dimostra la ricchezza della famiglia che abitava la dimora. 4 La sala della Medusa brilla per la perfetta conservazione dei colori del mosaico e per la complessità dei motivi decorativi.

Stanze lussuose Oltre il tablinum si trovano le pavimentazioni decorate dell’atrio, poste attorno a un peristilio, cioè a colonne che circondavano e delimitavano l’impluvium, la vasca in cui veniva raccolta l’acqua piovana. Per avere un’idea tridimensionale della struttura, bisogna immaginare un porticato con colonne di arenaria che collegava e illuminava le varie stanze, sviluppato attorno al cortile interno. Sulla parete sud dell’atrio si nota un’intercapedine vuota, probabilmente un antico sistema di climatizzazione dell’abitazione.

1

2

LOREM IPSUM

nografia antica: il dio dei mari è rappresentato insieme alla moglie Anfitrite a bordo di un carro trainato da due ippocampi. La cura dedicata alla realizzazione dei dettagli – dalla muscolatura scolpita di Nettuno alla veste perfetta di Anfitrite – rende il mosaico davvero eccezionale. In contrasto con la ricchezza di particolari del resto della composizione, il tridente di Nettuno è invece curiosamente semplice e schematico, e tuttavia del tutto simile a quello raffigurato in un mosaico bianco e nero conservato a Pompei. Tutta la pavimentazione della domus è caratterizzata da un continuo gioco geometrico: intricate e splendide trame adornano i corridoi e le stanze della casa, alternandosi a rappresentazioni più figurative, come quella del dio Bacco. A lui è dedicata la grande sala orientale, che molto probabilmente aveva la funzione di tablinum, un ambiente dove il proprietario riceveva

1 Vestibolo. Vi si accede dall’ingresso principale ed è dominato dal mosaico di Nettuno e Anfitrite su un carro trainato da cavallucci marini.

Tra le varie stanze risalta quella che quasi sicuramente era la sala da pranzo, il triclinium, un ambiente di quaranta metri quadri con mosaici policromi che rappresentano animali re-

ali e immaginari e un’accurata scena di caccia. Al momento del ritrovamento, sotto un blocco di pietra posto al centro del triclinium, gli archeologi rinvennero una composi-

Da sinistra a destra: busto di Bacco, figura geometrica, rappresentazione di animali marini e dettaglio di una scena di caccia. 124 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC


Felini, ungulati selvatici difficili da identificare e motivi geometrici dominano la stanza nord-orientale.

Atrio circondato da un peristilio, di cui si vedono ancora le basi delle colonne che circondavano il bacino d’acqua centrale.

ESSIONE MIBACT-SABAP MARC

HE

3

FOTO: MICHELE DINI SU CONC

4

zione che ritrae un crostaceo simile a un gambero trattenuto da un polpo, che a sua volta viene morso da una murena. Considerata la posizione geografica del luogo dove sorge la domus, a circa sessanta chilometri dalla costa, la presenza di creature marine nei mosaici rende

l’idea di quanto fosse ben collegato il territorio ai tempi dell’impero romano. La domus del Mito rappresenta una delle scoperte archeologiche più importanti realizzate nella zona negli ultimi trent’anni e aiuta a capire quanto, in epoca romana, Tifernum Mataurense fosse un mu-

nicipio importante e sviluppato. Lo testimoniano anche altri ritrovamenti: negli anni cinquanta furono portati alla luce un tratto del cardo maximus, uno degli assi viari principali dell’urbanistica cittadina, e una porzione delle terme pubbliche, in seguito ricoperte per essere nuova-

mente scavate dall’Università di Macerata a partire dal 2003. FRANCESCO MARTINELLI DIVULGATORE SCIENTIFICO

Per saperne di più Tifernum Mataurense Ediz. Integrale Vol. II Enzo Catani, Walter Monacchi. Me Monacchi Editore, Urbino, 2010.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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LA FOTO DEL MESE

VIOLENZA IN STRADA DOPO LA GRANDE GUERRA in Germania la politica si fece sempre più militarizzata: a metà degli anni venti tutti i partiti si servivano di apparati paramilitari. Quello dei comunisti era il Rotfrontkämpferbund, la Lega dei combattenti del fronte rosso, che si scontrò spesso con le Sturmabteilung (SA) hitleriane. Nell’immagine la polizia di Berlino, sotto il controllo dei socialdemocratici, disperde i manifestanti il 5 o 6 giugno 1927, durante il terzo raduno della Lega. L’organizzazione sarebbe poi stata dichiarata illegale dopo il cosiddetto Maggio di sangue, una brutale repressione di cui si macchiò la polizia berlinese all’inizio di maggio 1929. Negli scontri seguiti a una manifestazione operaia per commemorare la festa dei lavoratori rimasero uccise trentatré persone tra esponenti comunisti, simpatizzanti e spettatori. HERITAGE / GETTY IMAGES

126 HISTORIA NATIONAL GEOGRAPHIC


HISTORIA NATIONAL GEOGRAPHIC

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L I B R I E M O S T R E A CURA DI MATTEO DALENA

STORIA SOCIALE

Le sagge donne che immunizzavano dal vaiolo

D Maria Teresa Giaveri

LADY MONTAGU E IL DRAGOMANNO Neri Pozza, 2021; 160 pp., 17 ¤

el bagaglio di esperienze che lady Mary Wortley Montagu, moglie dell’ambasciatore inglese a Istanbul, riportò con sé a Londra dall’Oriente musulmano, una su tutte era destinata a segnare il corso dell’umanità. Ne parlò con dovizia di particolari in una delle sue lettere inviata da Edirne (antica Adrianopoli, in Tracia) all’amica Sarah Chisvell e datata 1 aprile 1717. «A proposito di malattie, vi racconterò qualcosa che vi darà, ne sono

sicura, il desiderio di stare quaggiù. Il vaiolo, così fatale e così frequente da noi, è qui reso completamente inoffensivo dall’invenzione dell’inoculazione come viene chiamata». Praticata all’inizio dell’autunno da sagge donne, la tecnica consisteva nell’iniettare con un grosso ago la «materia vaiolosa» nelle vene d’individui sani al fine di renderli immuni mediante una dose attenuata del morbo. Dopo aver tranquillizzato l’amica Sarah che a parte due o tre giorni di

febbre e la comparsa di pustole sul viso «non si conoscono esempi di persone che ne siano morte», lady Montagu esplicita le proprie intenzioni: «Sono abbastanza patriottica da darmi la pena di mettere alla moda in Inghilterra questa utile scoperta». Un anno dopo, con la collaborazione di un’esperta, Mary sottoporrà con successo il figlio Edward al «favoloso innesto». Maria Teresa Giaveri dedica un saggio alla battaglia condotta da lady Montagu «di nazione in nazione, di corte in corte, provocando dibattiti di dottori, dileggi di giornalisti, maledizioni di vescovi e versi di poeti» per l’affermazione di qualcosa che, perfezionato, «un giorno si chiamerà vaccinazione».

STORIA CRIMINALE

IL RE NON PRESE IL TRENO, LA REGINA SÌ NEL 1833 venne inaugurata la prima tratta ferroviaria

francese che collegava Saint-Étienne a Lione. Pochi anni dopo, nel 1837, alla presenza della regina Maria Amalia di Borbone fu tenuta a battesimo la linea che in 26 minuti collegava Saint-Germain-en-Laye e Parigi con l’utilizzo della prima locomotiva a vapore. A differenza della moglie, Luigi Filippo I fu dissuaso a prender parte all’evento perché il suo entourage credeva «che quella macchina sia pericolosa, e sarebbe inopportuno che sua maestà rischiasse la vita». A raccontare quel viaggio e gli aneddoti che si celano dietro ai primi tragitti in treno è la giornalista storica Dubois-Collet. Sophie Dubois-Collet

(trad. Enrico Pandiani)

LA STORIA PRENDE IL TRENO Add editore, 2021; 247 pp., 16 ¤

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Franco Astolfi

CRONACHE MACABRE I Libri del Casato, 2021; 256 pp., 16,90 ¤

messe nere, esorcismi e vampirismo, profanazioni, cannibalismo, esecuzioni capitali e torture. C’è un po’ di tutto questo nel MASSACRI E

nuovo libro di Franco Astolfi, un fosco viaggio tra le pieghe della storia delle città di Roma e Parigi e «nei diari di cronisti e testimoni oculari, tra le pagine di vecchi libri spesso ignorati o trascurati dagli specialisti, nonché tra opere moderne ma di scarsa diffusione». Ai margini della storia ufficiale c’è tutto un sottobosco di perturbanti microstorie come l’inquietante processo per indegnità alla salma di papa Formoso, un episodio dell’897 passato alla storia come “sinodo del cadavere”. O la vicenda del folle e solitario sergente Bertrand, che nella Parigi di metà ottocento era solito violare le tombe delle fanciulle guadagnandosi l’epiteto di “vampiro”.


© PALAZZO REALE DI MILANO

ALLEGORIA DELLA PITTURA (AUTORITTRATTO). GINEVRA CANTOFOLI. OLIO SU TELA DEL 1656 CIRCA. PINACOTECA DI BRERA, MILANO.

MOSTRE VIRTUALI

Non muse ma creatrici Un viaggio alla scoperta delle vite di 34 artiste attraverso oltre 130 opere dai soggetti e dalle atmosfere non convenzionali

L

e donne son così virtuose come gli omini […] anzi molto di più; e che così sia che la virtù è femina e l’vicio maschio». Baldassarre Castiglione nel Cortegiano (1528) consegna ai posteri quelle che avrebbero dovuto essere le caratteristiche ideali dell’uomo di corte, ma non dimentica le donne. La dama di palazzo, o cortegiana, avrebbe dovuto «far altro che la cucina e filare» e ambire alle arti cosiddette liberali, che si espli-

cano cioè mediante l’intelletto. A partire dall’opera di Castiglione, che mette definitivamente in discussione l’idea di «donna imperfettissima», essere donna e insieme artista è possibile. Ne sono testimonianza le vite tumultuose, colme di passione e travaglio di Artemisia Gentileschi e Sofonisba Anguissola. Nel XVI e XVII secolo si affacciano sulla scena pubblica artiste audaci, precocemente geniali: non più muse ispira-

trici ma finalmente creatrici all’interno di famiglie altolocate, conventi, accademie o associazioni di artisti. Una mostra al palazzo Reale di Milano cerca di veicolare i talenti di 34 artiste a partire dalla bolognese Elisabetta Sirani, che in oltre duecento tele realizzate in appena un decennio (morì violentemente a soli 27 anni) «propone un campionario di donne coraggiose, pronte a sfidare l’autorità maschile, dotate

di orgoglio privo di leziosità», spiegano i curatori. In Porzia che si ferisce alla coscia (1664) e Timoclea uccide il capitano di Alessandro Magno (1659) Sirani esplora il tema di donne eroiche che danno differenti prove di coraggio nell’automutilazione o nel farsi giustizia dei propri aguzzini maschi. Forse Ginevra Cantofoli, allieva del padre di Elisabetta Sirani, volle ricordare la più giovane amica in un’Allegoria della pittura (1650 circa) dando prova di una sorellanza artistica oltre la morte. LE SIGNORE DELL’ARTE STORIE DI DONNE TRA ‘500 E ‘600

Palazzo Reale di Milano Fino al 25 luglio 2021 Tour virtuale: www.palazzorealemilano.it

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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Prossimo numero CATILINA CONTRO LA REPUBBLICA NEL 63 A.C. il senatore

SCALA, FIRENZE

Lucio Sergio Catilina architettò insieme a un gruppo di seguaci una rivolta contro le autorità romane. Tra le altre cose i cospiratori pianificarono l’omicidio del console Cicerone, che però scoprì la congiura e ne denunciò l’artefice al senato. Molti dei personaggi coinvolti furono arrestati e condannati a morte, ma altri non si arresero. Catilina e tremila seguaci si scontrarono con le legioni e perirono nella battaglia di Pistoia.

COME VENIVANO COSTRUITE LE CATTEDRALI LA COSTRUZIONE di una cattedrale gotica

era un’impresa complessa, nella quale intervenivano diversi specialisti. Per diversi anni, o in alcuni casi per secoli, piccoli gruppi di artigiani e operai specializzati composti per due terzi da uomini e per un terzo da donne lavoravano senza sosta. Man mano che si procedeva verso la conclusione dei lavori, l’edificio diveniva il fulcro della vita della città che l’ospitava. GRANGER / AURIMAGES

130 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Le maschere dei faraoni Gli egizi credevano che i defunti, quando entravano nel regno dei morti, venissero riconosciuti dagli dei grazie alle maschere collocate sui volti delle mummie.

Assurbanipal, il re saggio Capace stratega e militare, il re assiro era anche un amante della scienza. A Ninive creò un’enorme biblioteca colma di testi confiscati ai nemici.

I segreti delle tombe etrusche Nell’VIII secolo a.C. Cerveteri e Tarquinia erano due prospere città etrusche, i cui nobili fecero costruire per le loro famiglie magnifiche tombe sotterranee.

Nördlingen, la grande vittoria Nel settembre del 1634, durante la Guerra dei trent’anni, l’esercito imperiale comandato dai tercios spagnoli pose fine all’avanzata svedese in Germania.


A B B O N AT I A L L A R I V I S TA

S T O R I C A N AT I O N A L G E O G R A P H I C D I G I TA L

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