Storica National Geographic - Agosto 2021

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VITA ALLA CORTE IMPERIALE CINESE VISIR IN EGITTO INDIA BRITANNICA

LO SPLENDORE COLONIALE

ARTISTI DELLA PREISTORIA

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LA MORTE DEL PADRONE D’EUROPA

9 772035 878008

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periodicità mensile

LA CITTÀ PROIBITA

N. 150 • AGOSTO 2021 • 4,95 E

storicang.it

LA CADUTA DELL’IMPERO ROMANO NAPOLEONE


STEVE McCURRY. TERRE ALTE


BISONTI DELLA GROTTA DI NIAUX (FRANCIA). 13MILA ANNI FA.

24 I potenti visir dell’antico Egitto I faraoni delegavano compiti di governo ai visir, che in alcuni casi arrivarono perfino a sedere sul trono del Paese del Nilo. DI JOSÉ LULL

36 Gli artisti del Paleolitico Da schematiche incisioni nella roccia fino alle spettacolari pitture di Altamira, l’arte paleolitica è più antica di quanto si credesse e si diffuse inizialmente tra i neandertal. DI MARCOS GARCÍA DIEZ

56 La caduta dell’impero romano Secondo studi recenti il lento declino precedente alla caduta definitiva dell’impero romano d’Occidente fu causato anche da fattori climatici ed epidemici. DI JORGE PISA SÁNCHEZ

72 La Città Proibita Per oltre quattro secoli fu la dimora degli imperatori cinesi, che vi celebravano solenni cerimonie. DI VERÓNICA WALKER VADILLO

92 L’India britannica Nel 1858 fu fondato il raj (governo) britannico in India, che divenne la destinazione di centinaia d’inglesi a caccia di fortuna. DI JORDI CANAL-SOLER

110 La morte di Napoleone L’imperatore morì in esilio a Sant’Elena nel maggio del 1821 dopo una lenta agonia. DI JEAN-JÖEL BRÉGEON

6 ATTUALITÀ 8 PERSONAGGI STRAORDINARI L’anarchico Ravachol

Autore di diversi crimini minori, diede inizio a una campagna terrorista in nome dell’anarchia.

14 VITA QUOTIDIANA

Brindisi con lo champagne Nel XVIII secolo il vino spumoso conquistò l’aristocrazia francese.

18 DATO STORICO

La droga del reich I soldati tedeschi facevano uso abituale di metanfetamine.

20 ANIMALI NELLA STORIA Il quetzal

L’uccello sacro di maya e aztechi era particolarmente apprezzato per il suo piumaggio colorato.

122 GRANDI SCOPERTE

Un tesoro sommerso

Nel 1987 fu recuperata la Nan Hai-1, una nave della flotta cinese del XII secolo.

126 LA FOTO DEL MESE 128 LIBRI E MOSTRE

INCENSARIO DI BRONZO DELLA TERRAZZA DELLA SALA DELL’ARMONIA SUPREMA. XV SECOLO. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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Licenciataria de NATIONAL GEOGRAPHIC SOCIETY, NATIONAL GEOGRAPHIC TELEVISION

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LA CADUTA DELL’IMPERO ROMANO NAPOLEONE

Pubblicazione periodica mensile - Anno XIII - n. 150

VISIR IN EGITTO INDIA BRITANNICA

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LO SPLENDORE COLONIALE

ARTISTI DELLA PREISTORIA

LA CITTÀ PROIBITA

VITA ALLA CORTE IMPERIALE CINESE

LA TORRE NORD OVEST IN UN ANGOLO DELLA CITTÀ PROIBITA DI PECHINO. FOTO: M. KUZMANOVIC / ALAMY / ACI

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RICARDO RODRIGO

LA MORTE DEL PADRONE D’EUROPA

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4 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC


IN ED ICO LA

Gli speciali di Storica National Geographic in edicola questo mese

Speciale Storica Grandi Filosofi

SOCRATE

In questo numero vi raccontiamo una delle figure più influenti della storia del pensiero, il cui metodo si propone di condurre verso la verità. In edicola dal 27 luglio. Prezzo ¤9,95.

Speciale Storica

LA FINE DELL’ANTICO EGITTO Le gesta di Alessandro Magno diedero inizio al periodo tolemaico, la cui ultima esponente fu Cleopatra VII. In edicola dal 15 luglio. Prezzo ¤9,95.

Speciale Storica Archeologia

ROMA IN AFRICA

La sabbia ha protetto per secoli le rovine di Timgad e Leptis Magna, due splendide città dell’Africa romana. In edicola dal 20 luglio. Prezzo ¤9,95.


AT T UA L I T À

SPAGNA ROMANA

La signora di Complutum A partire da alcuni frammenti di un dipinto murale ritrovati nel 2012, gli archeologi sono riusciti a ricostruire il ritratto di una donna Nel 2012, infatti, gli archeologi hanno scoperto in questa magnifica domus i frammenti di dipinti parietali che con il trascorrere dei secoli si erano staccati dai muri di alcune stanze.

Appare una domina

SERVIZIO DI ARCHEOLOGIA DI ALCALÁ DE HENARES

Dopo anni di studi minuziosi e in cui si è cercato pazientemente di rimettere insieme i vari frammenti, l’archeologa Ana Lucía Sánchez è riuscita a ricostruire il ritratto di una donna (forse il primo ritratto storico rinvenuto in zona) che osserva direttamente lo spettatore. «È un pezzo molto interessante perché fa parte di una serie più ampia origi-

RICOSTRUZIONE DELLA STANZA “E” DELLA CASA DEI GRIFONI, CON LE SUE ARCHITETTURE DIPINTE. ALCALÁ DE HENARES (MADRID).

6 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

RITRATTO di una domina ANA LUCÍA SÁNCHEZ

L’

antica città romana di Complutum, situata nel comune dell’attuale Alcalá de Henares, nella comunità autonoma di Madrid, fu fondata all’inizio del I secolo d.C., sotto il regno dell’imperatore Augusto. Intorno al 50, durante il regno di Claudio, a Complutum fu costruita una grande dimora padronale. Oggi conosciuta come la casa dei Grifoni, deve il suo nome ai dipinti di queste creature mitologiche metà aquila e metà leone che decoravano le pareti di una delle stanze. Situata nei pressi di quello che doveva essere il foro cittadino, la residenza ha lasciato in eredità ai posteri una splendida collezione di pitture murali.

romana, scoperto nella casa dei Grifoni a Complutum, dopo il restauro.

nariamente situata in una piccola stanza della casa dei Grifoni, che secondo la nostra ipotesi attuale serviva come vano di ricevimento per le riunioni culturali e religiose della proprietaria, probabilmente la donna che appare nel ritratto», afferma il capo del servizio archeologico di Alcalá de Henares, Sebastián Rascón. «Il primo ritrovamento fisico di questo ritratto è avvenuto durante lo scavo

del 2012, che è stato finanziato dal comune. Il lavoro di ricerca è stato condotto da Ana Lucía Sánchez, la nostra archeologa per gli interventi di restauro. Si tratta di un lavoro molto lento, perché quando si recupera la pittura murale di una stanza il livello di frammentazione è estremamente elevato. È come un gigantesco puzzle: ti fai un’idea di ciò che hai tra le mani nella misura in cui lo completi», continua Rascón.


LA CASA DEI GRIFONI QUESTA IMPORTANTE residenza privata della città romana di Complutum, ad Alcalá de Henares, fu costruita intorno al 50 d.C. e restò in uso per circa 250 anni. A giudicare dalle dimensioni e dalle sontuose decorazioni (in particolare le pitture murali) apparteneva probabilmente a una famiglia agiata della città. Alla fine del III secolo, per ragioni sconosciute, la casa fu colpita da un incendio devastante e dovette essere demolita. Ma la catastrofe si è rivelata provvidenziale per i successivi studi archeologici, in quanto l’incendio e la demolizione hanno fatto sì che numerosi elementi artistici si conservassero al di sotto delle macerie.

SERVIZIO DI ARCHEOLOGIA DI ALCALÁ DE HENARES

IL PERISTILIO DELLA CASA DEI GRIFONI, DI CUI RESTANO ALCUNE PITTURE MURALI SUI PLINTI.

Nel corso degli scavi però non è stato recuperato solo il ritratto di questa antica domina, o signora, che secondo i ricercatori era la proprietaria della casa e probabilmente un personaggio di rilievo della sua comunità. È stato anche possibile ricostruire un altro dipinto: un’immagine del volto di Bacco, il dio romano del vino, scoperta nella stessa stanza. Sul plinto inferiore (basamento) della sala sono apparse pure

alcune pitture che rappresentano altri personaggi, apparentemente divinità e animali fantastici.

Un palazzo lussuoso Secondo quanto sostengono gli archeologi, questa domus era una residenza di grandi dimensioni che occupava un’area di trenta metri per trenta (circa novecento metri quadrati), a cui si aggiungevano anche una taverna e due portici di due metri di larghezza sulle

facciate ovest e sud. Fino a oggi all’interno della struttura sono state individuate diciassette stanze. Il centro dell’edificio, com’era frequente nelle case romane, è occupato da un peristilio (un portico colonnato) con un giardino, circondato da un corridoio porticato. La maggior parte delle sale si affaccia su questo spazio luminoso, che ne permetteva anche la ventilazione. Nella domus sono stati identificati diversi cubicola

(stanze private o camere da letto), un tablinium (una sala dove il proprietario della casa riceveva le visite dei suoi clienti), un oecus o triclinium (una grande stanza che era spesso usata come sala da pranzo principale), e altri vani con una chiara funzione artigianale e commerciale. Gli archeologi credono che i futuri scavi di questa lussuosa dimora permetteranno di portare alla luce nuovi e interessanti risultati. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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PERSONAGGI STRAORDINARI

Ravachol, da delinquente a martire anarchico Autore di diversi crimini comuni e di due attentati, legò per sempre il suo nome alla violenza della cosiddetta “propaganda dei fatti”

Povertà, crimine e idealismo 1859 François Koeningstein nasce in una famiglia che suo padre abbandonerà. Prende il cognome della madre, Marie Ravachol.

1881 Il 3 dicembre una conferenza della socialista Paule Minck segna l’inizio del suo interesse per le questioni sociali.

1891 Riesuma il corpo di una baronessa per rubarne i gioielli, ma fallisce. Uccide un uomo per impossessarsi dei suoi averi.

1892 Da anarchico organizza attentati contro il giudice e il pubblico ministero, “responsabili” della condanna di due operai.

T

otto e i sedici anni frequentò la scuola per la durata di tre corsi annuali e alternò diversi mestieri a seconda della stagione e della fortuna: fece l’aiutante per il raccolto, il guardiano di mucche, l’operaio in una fabbrica di fusi, smistò pezzi di carbone in una miniera, girò la ruota con i cordai e batté i rivetti con i ramai fino a diventare apprendista in una tintoria. Le giornate raggiungevano spesso le dodici o tredici ore di lavoro. In tre anni divenne tintore. A cambiare la sua visione del mondo fu una coincidenza: nel periodo in La strada della rivoluzione cui leggeva il romanzo L’ebreo errante L’uomo si chiamava in realtà François di Eugène Sue, in cui i gesuiti vengoKoeningstein ed era nato il 14 ottobre no descritti come una setta spieta1859 a Saint-Chamond, vicino a Lione. ta, ascoltò l’oratrice socialista Paule Sua madre era una torcitrice di seta e Minck: «Secondo lei, niente Dio, niensuo padre un laminatore olandese af- te religione, materialismo completo». flitto dai debiti. Il bambino fu cresciu- Perse così la fede cattolica e iniziò a to da una balia fino all’età di tre anni e interessarsi ai problemi sociali e a legpoi, fino ai sette, visse in un ospizio. gere Le Prolétaire, il giornale dell’anarQuando uscì i suoi genitori ormai si chico Paul Brousse. Entrò pure in un erano separati: «Mio padre picchiava circolo di studi sociali. «Inizialmente mia madre e l’abbandonò con quattro consideravo quelle teorie irrealizzabili, figli». François decise allora di adot- non volevo accettarle. Solo due o tre anni dopo ho finito per sposare comtare il cognome materno: Ravachol. Iniziarono tempi duri e François do- pletamente l’anarchia», una dottrina vette andare a lavorare già da piccolo. che per lui consisteva nell’eliminazio«Vivevamo tutti molto tristemente», ne della proprietà privata, del denaro e avrebbe ricordato in seguito. Tra gli degli accaparratori.

ra il 1892 e il 1894 la Francia conobbe la prima irruzione della violenza terrorista in una democrazia. Alcuni attentati perpetrati da anarchici con dinamite, bombe o coltelli (pochi, ma ampiamente raccontati dalla stampa) diffusero il panico tra la borghesia parigina. Tutto iniziò quando un personaggio fino ad allora oscuro di nome Ravachol fece saltare in aria un edificio al numero civico 136 di boulevard Saint-Germain.

1892 Viene giustiziato l’11 luglio, dopo essere stato condannato prima ai lavori forzati e in seguito a morte.

Quando vennero alla luce le sue simpatie anarchiche, fu licenziato e non trovò più lavoro PRIMA PAGINA DEL GIORNALE ANARCHICO LA RÉVOLUTION SOCIALE. 18 MARZO 1881. BRIDGEMAN / ACI

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MEMBRO DEL «CLUB DELLA DINAMITE» contro Ravachol, il pubblico ministero lo definì «un semplice signore del club della dinamite», una frase che lui prese come un complimento. La dinamite, l’esplosivo brevettato dal chimico Alfred Nobel nel 1867, era molto amata dagli anarchici, che le dedicarono pubblicazioni, poesie e canzoni che ne esaltavano la potenza. Ne è un esempio il seguente testo: «Questa cosa affascinante può essere portata in tasca senza pericolo ed è un’arma formidabile contro qualsiasi gruppo di miliziani, poliziotti e detective che aspiri a soffocare il grido di giustizia emesso dalle gole degli schiavi sfruttati». ALAMY / ACI

NEL PRIMO PROCESSO

Ma il destino di Ravachol fu stravolto da un incidente. Sapendo che aveva in casa dell’acido solforico, una giovane donna andò da lui, ne prese un po’e lo gettò in faccia al suo amante. Le successive indagini di polizia giunsero alle orecchie del suo datore di lavoro, che licenziò François e il fratello dopo aver scoperto le tendenze anarchiche di entrambi. Quando si sparse la voce, nessuno a Saint-Chamond fu più disposto ad assumerli. «All’epoca mia sorella aveva appena avuto un bambino. Io e mio fratello eravamo senza lavoro e senza un soldo da parte», avreb-

be ricordato in seguito Ravachol. I due ragazzi si mantennero con piccoli furti fino a quando non si trasferirono con la madre nella vicina Saint-Étienne, dove poterono ricominciare a lavorare. Ma la crisi economica si faceva sentire e i giorni di disoccupazione erano frequenti. Ravachol si diede al contrabbando di alcol e alla falsificazione monetaria, ma senza ottenere i profitti sperati. Fu allora che decise di fare un passo oltre. Nel maggio del 1891 profanò la tomba di una baronessa per impossessarsi dei suoi gioielli, ma scoprì

RAVACHOL IN UNA FOTOGRAFIA DEL 6 MAGGIO 1892, DOPO LA CONDANNA AI LAVORI FORZATI E PRIMA DELLA SENTENZA DI MORTE.

che non erano sepolti con la donna. Il 18 giugno dello stesso anno partì per Chambles, a venti chilometri da Saint-Étienne. Aveva sentito parlare di un vecchio che da una cinquantina di anni viveva da solo, campando di elemosina, grazie alla quale aveva accumulato una certa fortuna. A mezzogiorno Ravachol si presentò a casa sua. Bussò alla porta e, non ricevendo risposta, entrò passando per la cantina. Ma si ritrovò davanti l’anziano, che nel frattempo si era svegliato e alzato dal letto. François gli piombò addosso e lo soffocò con un cuscino. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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PERSONAGGI STRAORDINARI

ROGER VIOLLET / GETTY IMAGES

L’ATTENTATO al ristorante Véry, opera dei compagni di Ravachol. Incisione pubblicata da Le Petit Journal nel maggio del 1892.

In casa trovò così tanti sacchi di monete che dovette tornare più volte per prenderli tutti. Fu un’imprudenza. Tutto quell’andirivieni insospettì la polizia che finì per arrestarlo. Mentre gli agenti lo scortavano a piedi in questura, Ravachol approfittò di un loro momento di distrazione per mettersi a correre, riuscendo a fuggire. Pensò che

la cosa migliore fosse inscenare la sua morte lasciando i vestiti e una lettera d’addio sulle rive del Rodano. Poi partì per Parigi con il nome di Léon Léger.

Una condanna eccessiva Nonostante la fuga, Ravachol continuò a tener fede ai suoi ideali anarchici. Ad agosto due operai che si erano scon-

LA RAVACHOLE LA PRIMA STROFA di La Ravachole, la canzone scritta in omaggio all’anarchico francese, recita così: «Nella grande città di Parigi / ci son borghesi ben pasciuti / Ci son miserabili / con la pancia vuota: hanno i denti lunghi / Viva il suono, viva il suono / Hanno i denti lunghi / Viva il suono / dell’esplosione!». CANDELOTTI DI DINAMITE USATI DA RAVACHOL NEL 1892. BRIDGEMAN / ACI

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trati con la polizia durante le manifestazioni del primo maggio a Clichy furono condannati a cinque e tre anni di prigione. Quella sentenza sproporzionata indignò gli anarchici, e Ravachol si propose di vendicarli. Nel marzo del 1892, con alcuni complici piazzò delle bombe nelle case del giudice e del procuratore che avevano preso parte al processo. Gli edifici furono distrutti, ma non si contarono vittime. Un informatore mise la polizia sulle tracce di Ravachol, che esaltò l’anarchia in un ristorante parigino, il Véry, nel corso di una conversazione con un cameriere. L’uomo lo riconobbe dalla descrizione sulla stampa e allertò le forze dell’ordine. Arrestato, dettò le sue memorie agli ispettori che lo sorvegliavano ed espo-


1802-1804 Francia

L’ORO DELL’ULTIMO IMPERATORE D’EUROPA

In una rara moneta, la testimonianza dell’epopea di un personaggio straordinario Nata nel 1801 per celebrare la vittoria di Napoleone Bonaparte nella battaglia di Marengo l’anno precedente, l’omonima moneta d’oro da 20 franchi che ne recava l’effigie - dapprima come Primo Console e poi come Imperatore – si rivelò presto la vera e propria antesignana della moneta unica europea.

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PERSONAGGI STRAORDINARI

VIOLENZA E PROPAGANDA del terrorismo anarchico avvenne in un contesto di crisi ed ebbe grandi ripercussioni sulla stampa. Nel 1870 il teorico anarchico russo Michail Bakunin chiedeva di diffondere i principi del movimento «non più con le parole, ma con i fatti, perché questa è la forma di propaganda più popolare, più potente e più irresistibile». L’anarchismo abbracciò apertamente la “propaganda dei fatti” in un congresso tenutosi a Londra nel 1881, ma fu soltanto con l’ondata di attentati avviata da Ravachol che la strategia fu messa in pratica. Fu però abbandonata poco tempo dopo per lasciare il posto all’anarco-sindacalismo, cioè alla lotta condotta dai sindacati dei lavoratori.

RAVACHOL durante il processo del 1892 in cui fu condannato a morte. Incisione dell’epoca.

se le sue idee: «Basta guerre, basta discordia, basta gelosia, basta furti, basta omicidi, basta magistratura, basta polizia, basta amministrazione». Alla vigilia del processo i suoi compagni lanciarono una bomba contro il Véry provocando due morti. Gli anarchici, che fino ad allora avevano attaccato solo personaggi pubblici, per la prima volta prendevano di mira dei privati cittadini. Il 26 aprile 1892 Ravachol fu condannato ai lavori forzati a vita. Ma i suoi problemi con la legge non erano finiti. Dalla sua regione natale giungevano altre accuse: la profanazione della tomba e l’omicidio dell’eremita, a cui si aggiunsero alcuni crimini che lui negò di aver commesso. La situazione di Ravachol era disperata. Solo suo fratello Henri e sua sorella Joséphine testimoniarono a suo favore, invano, dichiarando che li aveva salvati dalla miseria e dalla fame. Ravachol fu condannato 12 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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L A N A S C I TA

a morte e giustiziato a Montbrison l’11 luglio 1892. La ghigliottina interruppe il suo ultimo grido: «Vive la re…». Probabilmente voleva inneggiare alla rivoluzione.

Da anarchico a martire La sua morte ebbe enormi ripercussioni. Nel mondo anarchico era considerato un personaggio equivoco, ma la sua aperta proclamazione dei valori antiborghesi, il coraggio dimostrato durante il processo e il suo sacrificio ne fecero un martire. La stampa anarchica rivendicò la sua figura, romanzieri come Octave Mirbeau ne trassero ispirazione e gli fu dedicata anche una canzone popolare: La Ravachole. «So che sarò vendicato», aveva detto al processo. Ed effettivamente la sua morte scatenò nuovi attentati. Il 13 novembre 1893 un ammiratore di Ravachol di nome Léon Leauthier accoltellò un politico serbo; il 9 di-

cembre Auguste Vaillant lanciò una bomba nella Camera dei deputati, ferendo una trentina di persone. Nel febbraio del 1894 Émile Henry, conosciuto come “il Saint-Just dell’anarchia”, gettò un ordigno contro il Café Terminus di Parigi, uccidendo una persona e ferendone venti. E il 24 giugno l’anarchico italiano Santo (o Sante) Caserio assassinò il presidente della repubblica francese, Sadi Carnot. Dalla sua cella Caserio spedì alla vedova di Carnot una foto di Ravachol con la scritta: «È stato vendicato». VLADIMIR LÓPEZ ALCAÑIZ STORICO

Per saperne di più

SAGGI

Anarchismo. Le idee e il movimento Gianfranco Ragona. Laterza, Roma-Bari, 2019. Anarchia. Idee per l’umanità liberata Noam Chomsky. Ponte alle Grazie, Milano, 2015.


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DATO S TO R I CO

La guerra lampo condotta dal Terzo reich fu strettamente connessa all’uso di metanfetamina da parte di numerosi soldati tedeschi

L’

uso di stimolanti da parte dei soldati non è certo una novità: ce ne sono esempi fin dall’antichità, quando quello più utilizzato era il vino. Ma la Seconda guerra mondiale ha segnato una svolta nell’impatto delle sostanze eccitanti sulle vicende militari a partire dal momento in cui la Wehrmacht (come si chiamavano allora le forze armate tedesche) ha iniziato a fare un ricorso massiccio alla metanfetamina. Anche se oggi è considerata una droga in grado di creare una forte dipendenza, all’epoca questo psicostimolante era estremamente apprezzato; fino agli anni cinquanta, infatti, poteva

POSTO DI COMANDO MOBILE DEL GENERALE GUDERIAN DURANTE L’INVASIONE DELLA FRANCIA. ULLSTEIN BILD / GETTY IMAGES

14 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

essere acquistato nei Paesi occidentali senza restrizioni legali. L’utilizzo di metanfetamina si era diffuso in Germania a partire dal 1937, quando il dottor Fritz Hauschild, direttore chimico dei laboratori Temmler, ne aveva brevettato una variante con il nome commerciale di Pervitin. Il suo principio attivo, la pervitina, generava euforia e permetteva a chi l’assumeva di rimanere sveglio per intere giornate di lavoro. Il Pervitin era raccomandato a scopi molto diversi: per gli stati depressivi (stimolava una «rinnovata gioia di vivere nelle persone rassegnate»), per l’insufficienza circolatoria o la frigidità femminile, per rendere meglio

PETER NEWARK / BRIDGEMAN / ACI

Una campagna sotto l’effetto degli stimolanti «FANTERIA, LA REGINA DI TUTTE LE ARMI». CARTELLO TEDESCO.

sul lavoro e anche per neutralizzare i sintomi prodotti dall’astinenza da alcol, cocaina od oppiacei. I suoi effetti non passarono inosservati in ambito militare, e nel 1938 l’Istituto tedesco di fisiologia generale e difesa condusse dei test, in seguito ai quali la dichiarò «un’eccellente medicina per risollevare improvvisamente il morale delle truppe affaticate» e, di conseguenza, «una sostanza militarmente preziosa».

Guerra lampo Inizialmente la Wehrmacht non forniva Pervitin alle sue unità, così i soldati e gli ufficiali se lo procuravano da soli. Poi, nel settembre del 1939 l’invasione della Polonia – che segnò l’inizio della Seconda guerra mondiale in Europa – dimostrò l’enorme potenziale della metanfetamina: gli equipaggi dei carri armati procedevano a tutta velocità verso i loro obiettivi senza bisogno di dormire per giorni, e i motociclisti che fungevano da ufficiali di collegamento potevano affrontare spostamenti quotidiani di centinaia di chilometri senza mostrare segni di fatica. Non sorprende che nell’aprile del 1940, un mese prima dell’inizio della guerra sul fronte occidentale, la pervitina entrasse a far parte della dotazione sanitaria del reich: lo stabiliva un decreto secondo il quale la campagna polacca aveva dimostrato come «il superamento della fatica da parte di


UN PERICOLO PER LA RAZZA ARIANA NON TUTTI i funzionari del reich erano favorevoli a tollerare la somministrazione di metanfetamine alle truppe. Ne fu un esempio Leonardo Conti, un medico svizzero-tedesco che ricoprì la posizione equivalente a quella di ministro della sanità del regime. Convinto sostenitore delle dottrine nazionalsocialiste, Conti riteneva che l’uso di droghe come il Pervitin rischiasse di minare la purezza della razza ariana, conducendola alla degenerazione. Per questo cercò inutilmente di far sì che la sostanza fosse considerata una droga (per i suoi effetti collaterali e il potenziale di dipendenza) e venisse dispensata esclusivamente sotto stretto controllo medico. BPK / SCALA, FIRENZE

UN MOTOCICLISTA TEDESCO ESAUSTO DORME SUL MANUBRIO DEL SUO MEZZO.

una truppa sottoposta a sforzi intensi» potesse avere un’influenza positiva sul conseguimento del successo militare. La Wehrmacht ordinò 35 milioni di pastiglie ai laboratori Temmler. La pervitina ebbe un ruolo centrale nel blitzkrieg, o guerra lampo, la devastante avanzata delle colonne terrestri tedesche appoggiate dall’aviazione. I veicoli corazzati che invasero la Francia nel maggio del 1941 impiegarono solo dieci giorni per raggiungere la costa atlantica e tagliare il Paese in due, isolando le truppe britanniche e francesi a Dunkerque. Queste ultime furono sopraffatte anche grazie a veicoli blindati i cui conducenti assu-

mevano tra le due e le cinque pillole di Pervitin al giorno e potevano passare due notti senza dormire. Quando il 15 maggio il ministro della guerra Édouard Daladier sentì il generale Gamelin dire che i mezzi corazzati tedeschi erano a 150 chilometri da Parigi, si rifiutò di credergli: «È impossibile!» gridò. Secondo lo storico della medicina Peter Steinkamp la guerra lampo fu gestita tramite la metanfetamina, se non addirittura «resa possibile dalla metanfetamina». Anche i piloti della Luftwaffe che bombardarono la Gran Bretagna prendevano la pervitina; la chiamavano la“pillola stuka”(dal nome del loro

modello di aereo) o la“pillola Göring” (dal nome del comandante in capo della forza aerea tedesca). Anche altri eserciti ricorsero a psicostimolanti come la benzedrina, usata dagli inglesi e dagli statunitensi, ma gli effetti collaterali della pervitina erano peggiori: crisi psicotiche, allucinazioni, sindrome da astinenza. Questo non ne impedì l’uso fino alla fine della guerra; nell’aprile del 1945 il reich mandò a morire interi equipaggi di mini sottomarini che usavano gomme da masticare alla pervitina e alla cocaina per rimanere concentrati. ENRIQUE MESEGUER STORICO

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V I TA Q U OT I D I A N A

Lo champagne, la bevanda del piacere All’inizio del XVIII secolo questo vino spumante francese innaffiava le feste dell’aristocrazia di mezza Europa

AC I MY / ALA

La concorrenza dei suoi vini con quelli già affermati di Bordeaux fu immediata anche grazie al prezzo inferiore dovuto alla maggior vicinanza della regione, tanto che i produttori del bordolese lo considerarono un colpo basso e promossero petizioni e iniziative per affermare la superiorità del proprio vino. Ma ormai la fama dello champagne aveva spiccato il volo, ed era pronta a farlo anche oltremanica. Ormai da tempo gli inglesi importavano grandi quantitativi di vini dalla Francia. Questi sbarcavano sull’isola conservati in grandi botti di rovere e venivano successivamente tagliati con altri vini aggiungendo aromi e spezie, creando così un prodotto sofisticato chiamato appunto “vino all’inglese”. In questo contesto Charles SaintÉvremond, un aristocratico esiliato nel 1661 per aver scritto alcuni testi contro il cardinal Mazzarino, primo ministro di Luigi XIV, ebbe un ruolo determinante. Pare che qualche tem-

DOM PÉRIGNON ANCHE SE PROBABILMENTE non fu lui

a “inventare” lo champagne, Dom Pérignon fu il primo a sviluppare un metodo per mescolare uve di diverse provenienze che oggi è alla base della produzione di vini spumosi.

STATUA DI DOM PÉRIGNON A ÉPERNAY.

DEA / ALBUM

po dopo avesse ordinato delle botti provenienti proprio da Sillery. Imbottigliato e riposto in cantina, il vino venne stappato in primavera. Con l’innalzamento delle temperature le sostanze zuccherine non si erano ancora esaurite e ripresero a fermentare, rilasciando l’anidride carbonica responsabile della caratteristica spuma. I commensali ne rimasero affascinati e Saint-Évremond lo introdusse alla corte di Carlo II d’Inghilterra, dove spopolò. Poco tempo dopo gli inglesi presero ad aggiungere deliberatamente zucchero ai vini freschi di Champagne per riprodurne l’effetto.

Il successo in patria Dal canto loro i francesi avevano sempre considerato la spuma un difetto. Dom Pérignon aveva proprio il compito d’impedire che le botti scoppiassero a causa della fermentazione. All’epoca il vino prodotto in zona si chiamava vin gris, un succo chiaro ottenuto da uve nere la cui vitalità rischiava di spaccare i contenitori. Non si può dunque affermare con certezza che fu Dom Pérignon a creare la versione moderna dello champagne, ma di sicuro il monaco era un grande conoscitore dell’arte enologica. Fu lui a selezionare i vitigni più adatti allo scopo, il Pinot Nero, lo Chardonnay e

RENÉ-GABRIEL OJEDA / RMN-GRAND PALAIS

F

ratelli, accorrete! Io sto bevendo le stelle!». Secondo la leggenda, questa fu l’esclamazione di Dom Perignon, il monaco responsabile delle vigne dell’abbazia di Hautvillers – nella regione dello Champagne, nel nord-est della Francia –, dopo aver assaggiato il vino che aveva appena creato e che da quel momento lo avrebbe reso celebre. Sin dal Medioevo monasteri e abbazie della regione erano impegnati in prima linea nella produzione di vino da messa. Nel clima freddo e umido della zona le uve faticavano a raggiungere una piena maturazione, dando così origine a succhi acidi, frizzanti ma non spumosi. La vicinanza della regione a Parigi contribuì a far giungere i vini di Champagne presso la corte francese, anche grazie ai rapporti personali fra il re Enrico IV e il marchese Nicolas Brûlart, funzionario e amico intimo del sovrano nonché proprietario delle terre di Sillery.

PINOT BLANC, VARIETÀ DI UVA COLTIVATA NELLO CHAMPAGNE E IN BORGOGNA.


PRANZO DI OSTRICHE.

Olio di Jean-François de Troy. 1735. Museo Condé, Chantilly.

il Pinot Meunier, e forse cercò di valorizzare l’effetto naturale della spuma laddove altri tentavano di attenuarla. In ogni caso, fino alla metà del XVII secolo si parla ancora di un generico “vino di Champagne”. Ma lo champagne così come lo s’intende oggi si sviluppò in seguito, fra il 1650 e il 1700. Le prime menzioni letterarie sono inglesi: in The man of mode George Etherege inserisce una canzone che lo definisce sparkling champagne, il vino scintillante, mentre in Lucasta di Richard Lovelace (1649) si trova la prima menzione del flûte, bicchiere di forma allungata e apertura stretta. Nella madrepatria dello champagne

Una scorpacciata di ostriche e champagne NEL XVIII SECOLO tra i circoli più esclusivi dell’aristocrazia

francese andava di moda mangiare ostriche e champagne, sia come aperitivo sia come colazione. Il dipinto riprodotto sopra queste righe mostra uno di questi banchetti: vi è rappresentato un gruppo di nobili seduti intorno a un tavolo. Un cameriere serve un vassoio colmo di ostriche; a sinistra un commensale ha appena stappato una bottiglia di champagne e gli altri partecipanti osservano la traiettoria festosa del tappo. In primo

piano due bottiglie ancora sigillate sono mantenute al fresco in un contenitore colmo di acqua e ghiaccio. Tutti bevono in coppe coniche di altezza modesta, che una volta usate si ripongono in contenitori di porcellana, che forse raccoglievano i residui del vino.

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V I TA Q U OT I D I A N A

UN GRUPPO DI AMICI

invece Bertin de Rocheret, produttore di Éparnay, scrive queste lapidarie parole al conte d’Artagnan nel 1713: «La spuma è un pregio di vini modesti, tipica della birra, del cioccolato e della panna montata. Il buon vino di Champagne deve essere chiaro, fine, frizzare nel bicchiere ed emanare quel buon profumo che non ha mai quando spumeggia». Non a caso i francesi distinguevano fra vino frizzante e vino spumeggiante, come attesta un ordine evaso dallo stesso de Rocheret nel quale si elenca: «Cinquanta RMN-GRAND PALAIS

BUM AKG / AL

BRIDGEMAN / ACI

degusta gelato e champagne. Olio di Philippe Mercier. 1744. Università di Yale.

bottiglie di spumeggiante, cinquanta di frizzante». Eppure col tempo quella che era considerata una pecca dagli intenditori finì per imporsi anche in Francia.

Il “salta-tappo” A partire dal XVIII secolo si diffuse un preciso cerimoniale che ruotava attorno allo champagne: il raffreddamento nel ghiaccio, l’apertura della bottiglia facendo saltare il tappo di sughero, il versare il prezioso liquido dall’alto e il berlo in un colpo solo divennero rituali di riferimento dell’alta società che si giovava del consumo

Per madame de Pompadour, «lo champagne è il solo vino che rende una donna più bella dopo averlo bevuto» FLÛTES PER CHAMPAGNE DEL XVII E XVIII SECOLO.

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di questo vino. In quegli anni, e più precisamente nel 1715, salì al trono Luigi XV. Dal momento che aveva solo cinque anni, la reggenza dello stato fu assunta dallo zio Filippo II, duca d’Orléans. Il periodo passò alla storia come un’epoca di costumi corrotti e licenziosi, e in questo contesto modaiolo e libertino lo champagne assunse un ruolo da protagonista nei fastosi banchetti dell’aristocrazia. Francesca Maria di Borbone, moglie del reggente, raccontava che le donne in particolare amavano questo vino e presero a chiamarlo saute bouchon, salta-tappo. «Fa saltare i tappi e bagnare di spuma le spalle nude delle signore», rincara la dose il poeta satirico Bernard de la Monnoye. E difatti il legame fra sensualità e champagne sarà destinato a rafforzarsi sempre più. La favorita di Luigi XV, Madame de Pompadour, ne fu un’insostituibile “testimonial” e ne


MICHELE BELLA / AGE FOTOSTOCK

CANTINA DI DOM PÉRIGNON

nell’abbazia di Hautvilliers, nello Champagne.

ordinava con regolarità grandi quantità. Celebre la frase che le viene attribuita: «Lo champagne è il solo vino che rende una donna più bella dopo averlo bevuto». Si dice che la coppa da champagne – ampia, a differenza dei flûtes – venne modellata proprio sui suoi seni, famosi per la forma perfetta. Altri sostengono che la modella fosse piuttosto Maria Antonietta: si racconta che la regina bevesse solo acqua della sorgente di Avray, cioccolato ai fiori d’arancio e champagne. Anche il libertino veneziano Giacomo Casanova ne faceva un uso generoso: in Histoire de ma vie egli ripercorre le sue memorie e racconta che non mancava mai sulle tavole altolocate o nelle situazioni di corteggiamento. Egli stesso lo usava per irretire giovinette inesperte o inebriare mogli smaliziate. Nel celeberrimo episodio in cui seduce la monaca M. M., sarà lei stessa a preparare un punch allo champagne

impiegarlo anche per festeggiare avvenimenti importanti come nascite, matrimoni reali e inaugurazioni. In particolare, il varo di una nave veniva Champagne a tavola salutato dalle salve sparate dai tappi, In quel periodo la cucina francese si mentre la spuma benaugurale bagnava spogliò dell’eccesso di spezie e iniziò lo scafo. Nemmeno l’atmosfera di rina puntare su profumi e sapori più de- novamento generale che seguì alla Rilicati. Tra i nobili si affermò la moda voluzione francese riuscì a rimuovere del pic-nic, o pranzo alla militare, un lo champagne dal suo trono: il 14 lupasto all’aria aperta il cui menù pre- glio del 1790, in occasione della festa vedeva piatti freddi come frittate, sa- della federazione al Champ de Mars, lumi, formaggi, insalate e torte salate. venne usato per brindare all’avveniAbbondavano specialmente tartufi e mento. Un pezzo di Ancien Régime ostriche, che con la loro presentazione entrava nella nuova epoca. semplice ben si legavano allo champaMARTINA TOMMASI STORICA gne, dal sapore delicato e con un’abbondante spuma. Non v’era banchetto o colazione veloce alla quale questi tre SAGGI Per ingredienti potessero mancare. stirpe del vino saperne La Attilio Scienza, Serena Imazio. Grazie al saltar dei tappi e alla Sperling & Kupfer, Milano, 2018. di più spuma generosa lo champagne era Maledetto champagne Roberto Bellini. diventato il simbolo della festa e Aliberti, Reggio Emilia, 2015. dell’allegria, tanto che si cominciò a

con le sue mani, pratica che prevedeva una precisa ritualità e che avrebbe poi condotto i due amanti all’amplesso.

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ANIMALI NELLA STORIA

UN ESEMPLARE MASCHIO DI QUETZAL DISPIEGA LE ALI NELLA FITTA GIUNGLA DEL GUATEMALA. SI POSSONO NOTARE LE LUNGHE PENNE CAUDALI.

O. PROSICKY / AGE FOTOSTOCK

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Le piume che crescono sulla coda si chiamano quetzalli [e] sono verdissime e sfolgoranti [...] Tutto il dorso ha piume verdi anch’esse sfolgoranti». Appena si alza la foschia dai boschi frondosi, con un po’di fortuna si possono avvistare ancora oggi i quetzal, che si nutrono di avocado selvatici o si lanciano in piroette di corteggiamento, lasciando nell’aria scie colorate di piume. Forse gli antichi mesoamericani rimasero affascinati proprio da un simile rituale “magico” e videro nell’uccello la reincarnazione di uno dei loro dèi più primitivi, il serpente piumato: Quetzalcoatl per gli aztechi e Kukulkan per i maya. Questi era il

B UM

I

l quetzal è uno dei volatili più belli del continente americano, nonché un animale sacro per tutte le culture mesoamericane, perché in lui si uniscono cielo e terra. Non possiede l’apertura alare del condor delle Ande né la potenza dell’aquila, eppure il suo innegabile fascino lo rese particolarmente richiesto dalla nobiltà locale, e l’iridescenza delle sue piume diede origine a miti e ad accostamenti divini. Secondo il missionario e cronista spagnolo del XVI secolo, Bernardino da Sahagún, il quetzal «ha piume molto belle e di diversi colori; il giallo becco acuto e [...] un ciuffo di piume in testa, simile a una cresta di gallo [...]

/ AL

Nell’antica Mesoamerica esistevano cacciatori professionisti che catturavano e vendevano i quetzal, col cui piumaggio colorato si realizzavano copricapi magnifici

AKG

Il quetzal, l’uccello sacro dei maya e degli aztechi UN VENDITORE DI QUETZAL PORTA ALCUNI UCCELLI. CODICE FÉJERVÁRY-MAYER. WORLD MUSEUM, LIVERPOOL.

nume tutelare che, tra tentazioni e sofferenze, aveva sacrificato il proprio sangue per infondere vita agli uomini, donargli l’agricoltura, il fuoco e la scrittura. Era scomparso nel cielo come la stella del mattino – il pianeta Venere – e aveva promesso che un giorno sarebbe tornato da oriente.

Le piume più ambite Sin dall’inizio dei tempi, i popoli originari della Mesoamerica (la vasta regione storica che comprende il Messico e gran parte dell’America centrale) furono ammaliati dalla bellezza di tale volatile prodigioso, i cui esemplari maschili sono provvisti di quattro penne caudali lunghe anche oltre novanta centimetri. Con queste si realizzavano meravigliosi copricapi per le élite mesoamericane: li sfoggiavano infatti re, sacerdoti e guerrieri. Non solo: la parola “quetzal” entrò addirittura a far parte degli attributi di alcuni governanti, come Quetzal Giaguaro (K’uk’ Balam I), fondatore della dinastia di Palenque. Il florido commercio del piumaggio era controllato dai pochteca, mercanti che viaggiavano per lunghe distanze, mentre a realizzare i copricapi erano gli amanteca, artigiani specializzati nel confezionare oggetti di splendida fattura proprio con le piume. I quetzal erano così preziosi che cacciarli senza permesso equivaleva a morte certa.


IL RE YAXUN B’ALAM IV e la moglie Wak rappresentati con

copricapi di penne in un architrave di Yaxchilán, in Messico. SCIENCE HISTORY IMAGES / ALAMY / ACI

I mesoamericani si resero ben presto conto che era molto complicato far riprodurre l’animale in cattività. Un rapporto del XVI secolo, la Relación de Guatemala, riferisce che era «impossibile allevarli, né in gabbia né in altro modo, malgrado i tentativi, perché si rifiutano di mangiare e di dormire». Per tale motivo gli aztechi mandavano i loro migliori cacciatori a catturarli nei boschi tropicali del Guatemala, a patto che non ne rovinassero le pregiate penne. «La questione del piumaggio è molto cara e impegnativa, nonché pericolosa perché, oltre a perdere molti giorni sui sentieri in attesa dell’animale, [i cacciatori] cadono spesso dagli

alberi e si rompono gambe e braccia, e a volte muoiono [...] Dovrebbero lasciare l’arrampicata alle scimmie, che si aiutano con la coda che Dio gli ha dato a mo’ di corda, senza più disturbare quei poveri e begli uccelli dalla livrea verde e dorata». Il documento prosegue affermando che, una volta avvistati gli animali, gli uccellatori «li attendono nei nidi e li prendono da lì. Gli tolgono le piume di corpo e coda, tranne le penne delle ali, e così li portano via avvolti». Re e nobili possedevano inoltre alberi con nidi di quetzal. In tal caso erano cacciati «con bastoni o corde fatte di vischio, che collocano negli abbeveratoi, o negli alberi dove il

volatile ammassa il suo cibo, un piccolo frutto ben noto agli indigeni. Sia alberi sia abbeveratoi appartengono a indigeni, sono venduti ed ereditati». Oggi il quetzal è una specie in pericolo d’estinzione, non solo per via della caccia e del commercio illegali, ma anche per colpa della deforestazione del suo habitat. Se non si riuscirà a porvi rimedio, del quetzal rimarrà soltanto l’immagine negli antichi libri e sulle pietre mesoamericane, o nella bandiera e sull’omonima moneta del Guatemala, che nel 1871 l’ha dichiarato emblema nazionale. ISABEL BUENO STORICA

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LA PURIFICAZIONE DI RAMOSE

Questo personaggio ricoprì la posizione di visir sotto i regni di Amenhotep III e suo figlio Akhenaton. In questo rilievo della sua tomba a Gurna è rappresentato nel corso di una cerimonia di purificazione. S. VANNINI / AGE FOTOSTOCK


VISIR D’EGITTO IL POTERE DIETRO IL FARAONE I sovrani dell’antico Egitto avevano al loro fianco potenti ministri su cui ricadeva tutto il peso del governo. Alcuni di questi funzionari ricchi e temuti furono coinvolti in congiure di palazzo che ne misero a repentaglio la posizione e anche la vita


N

ell’antico Egitto i faraoni erano affiancati da numerosi ministri organizzati in una complessa gerarchia, nella quale spiccava la figura del visir. Questo personaggio, che occupava la posizione più alta nella scala dei funzionari, aveva un potere e un’influenza enormi; in sostanza si trattava della seconda carica più importante del Paese dopo il faraone. Il titolo convenzionalmente tradotto come

“visir”, termine che rimanda all’arabo wazir (ministro principale dei califfi), corrisponde all’egizio chaty. È un titolo documentato almeno a partire dalla IV dinastia, ma anche prima di quel periodo molti alti funzionari avevano avuto attributi e poteri simili a quelli specifici di questa carica. È questo il caso di Imhotep – cancelliere della III dinastia, sommo sacerdote di Eliopoli e architetto della piramide a gradoni di Djoser –, che in epoche successive fu anche divinizzato. Imhotep è l’esempio perfetto di funzionario egizio con una formazione in differenti discipline. Per un visir, infatti, l’istruzione, la preparazione e le competenze erano molto importanti, considerate le immense responsabilità che il faraone gli delegava e la varietà di compiti che doveva assolvere. Non è quindi un caso che la letteratura egizia attribuisse il titolo di “saggio” ad alcuni di questi alti funzionari, come il già citato Imhotep o i visir Ptahhotep e Kagemni, tutti

vissuti nel corso dell’Antico regno (un periodo compreso tra il 2700 a.C. e il 2192 a.C. circa). Proprio questi due funzionari sono passati alla storia come autori di una serie d’insegnamenti, consigli o proverbi morali caratteristici della cosiddetta letteratura sapienziale egizia.

Le funzioni di un visir I visir della IV e della V dinastia erano per lo più membri della famiglia reale. È il caso di Kanefer e Nefermaat, probabilmente figli del faraone Snefru. Hemiunu, figlio di Nefermaat, assunse la direzione dei lavori della Grande piramide di suo zio Cheope in virtù del suo ruolo di“sovrintendente di tutti i lavori del re”, un titolo detenuto da molti visir dell’epoca. Tali funzionari in quel periodo spesso rivestivano anche la carica di “grande dei cinque della casa di Thot” – un ruolo che forse implicava la responsabilità nell’ambito legale e sugli archivi reali – e quella di “capo degli scribi dei documenti reali”, appartenente allo stesso campo. Con il passare del tempo la carica di visir fu ricoperta dai funzionari che il faraone

BRIDGEMAN / ACI

C R O N O LO G I A

LE POTENTI OMBRE DEL FARAONE

2530 a.C.

2500 a.C.

Nefermaat, forse figlio del re Snefru, ricopre importanti cariche istituzionali, tra cui quella di visir.

Il visir Hemiunu, figlio di Nefermaat, riceve l’incarico di responsabile delle opere del re Cheope, tra le quali spicca la Grande piramide.

IMHOTEP. STATUETTA CHE LO RAPPRESENTA IN TRONO E DIVINIZZATO. ASHMOLEAN MUSEUM, OXFORD.


PIRAMIDE A GRADONI

Fu eretta a Saqqara per il faraone Djoser. Fu progettata e costruita dal saggio Imhotep, architetto reale e visir del sovrano. OLIMPIO FANTUZ / FOTOTECA 9X12

2300 a.C.

1940 a.C.

1445 a.C.

1200 a.C.

Il visir Mereruka diventa l’uomo di fiducia del re Teti e ne sposa la figlia, la principessa Sesheshet.

Amenemhat, che era stato visir di Mentuhotep IV, diventa sovrano d’Egitto.

Rekhmira, membro di una famiglia di visir, ricopre questa carica sotto i faraoni Thutmose III e Amenhotep II.

Il re usurpatore Amenmesse rimuove dall’incarico il visir Amenmose, legato al faraone legittimo.


Nebet, la visir del faraone

N

ELLA STORIA DELL’ANTICO EGITTO ci furono esem-

pi di donne che arrivarono a ricoprire la carica di visir. Si conoscono almeno due casi: una svolse questo ruolo prestigioso durante la XXVI dinastia (664-525 a.C.) e un’altra circa 1.600 anni prima, sotto il regno del faraone Pepi I. Quest’ultima, Nebet, era la moglie del governatore di Abido, Khui, e divenne una figura di assoluta fiducia del sovrano. Ebbe anche il grande privilegio di dargli in spose due figlie: Ankhesenpepi I, con la quale Pepi I ebbe Merenra, suo successore al trono; e Ankhesenpepi II, madre di Pepi II, che sarebbe succeduto al primo e avrebbe detenuto il più lungo regno della storia dell’Egitto. Ma la visir Nebet fu anche la madre di Djau, che, come lei, sarebbe diventato visir dell’Alto Egitto. Nebet apparteneva a una delle famiglie più influenti dell’epoca, che vantava una stretta relazione con la dinastia reale. Forse ciò contribuì a permetterle di ricoprire la carica di visir.

BRIDGEMAN / ACI

LA REGINA ANKHESENPEPI II TIENE IN GREMBO IL FIGLIO, IL FARAONE BAMBINO PEPI II. BROOKLYN MUSEUM, NEW YORK.

PETTORALE DEL VISIR PASER

C. DÉCAMPS / RMN-GRAND PALAIS

Questo manufatto in oro e lapislazzuli, raffigurante il dio solare Khepri affiancato da Iside e Nefti, appartenne al visir di Ramses II. Louvre, Parigi.

considerava migliori e più fedeli, anche se in alcune occasioni la posizione rimase nelle mani di potenti famiglie che se la trasmisero per via ereditaria per diverse generazioni. Un testo geroglifico della XVIII dinastia, Istruzioni per il visir, permette di conoscere con notevole precisione le funzioni e i compiti associati a questa carica. Nel testo si trova un consiglio morale che dichiara quale dovrebbe essere la condotta appropriata di un visir: «Il valore di un magistrato consiste nel fare giustizia. Ma se un uomo finisce per essere troppo temuto, la gente penserà che c’è qualcosa di falso in lui e non dirà: “È un uomo buono! […]”. Tratta equa-

mente quelli che conosci e quelli che non conosci, quelli che sono vicini e quelli che sono lontani. Il magistrato che agisce secondo questa massima avrà molto successo». Lo stesso testo fornisce al visir consigli e regole utili in ambito amministrativo. In effetti questi non era solo il consigliere del re, ma svolgeva anche numerosi compiti nell’amministrazione dello stato, dalla supervisione dei processi legali all’assegnazione delle terre, dalla riscossione delle imposte ai lavori pubblici, fino alla gestione del tesoro. Nello svolgimento di tutte queste mansioni godeva di un’autorità molto ampia, che gli permetteva di emanare ordini in autonomia. In un passaggio delle Istruzioni si dice: «Il visir deve essere informato sia della sigillatura delle camere del tesoro sia della loro apertura all’ora indicata. Deve essere informato anche dello stato delle fortezze del delta e del nord, e della spedizione di tutto ciò che esce dalla Casa del Re e della ricezione di tutto ciò che entra nella Casa del Re». Il potere dei visir aumentava notevolmente quando questi potevano contare su parenti che ricoprivano altre posizioni importanti in ambito civile o militare. Era dunque comune che queste alte cariche fossero coinvolte in casi di corruzione o tentassero a volte di perseguire i propri fini alle spalle del sovrano, anche a rischio d’incorrere nel reato di tradimento.

Congiure di palazzo Nella storia egizia gli episodi di congiure di palazzo che videro coinvolti i visir sono diversi. Uno di questi avvenne tra la morte di Unis, l’ultimo faraone della V dinastia (intorno al 2300 a.C.), e l’ascesa al trono di suo genero Teti, fondatore della VI dinastia. La transizione tra i due regni non fu probabilmente pacifica e forse i visir di Unis furono coinvolti nei disordini. I monumenti funerari di Akhethotep e di Ihy, rispettivamente i visir dell’Alto e del Basso Egitto, furono confiscati da principi che ridecorarono le tombe all’inizio del regno di Teti. Presumibilmente entrambi i visir furono eliminati per ordine del faraone Teti. Questi si circondò di uomini fedeli, tra i quali si distinse il visir Mereruka, proprietario di una delle più belle e grandi mastabe


IL VISIR AKHETETEP

Questo importante personaggio della V dinastia si fece costruire una tomba a Saqqara. Da lì proviene questo rilievo oggi esposto al museo del Louvre, che lo ritrae seduto su una sedia con le gambe a forma di zampe di leone, intento a controllare una consegna di tessuti. CHRISTIAN DÉCAMPS / RMN-GRAND PALAIS


IL FARAONE PEPI I. STATUA IN RAME DI QUESTO SOVRANO DELLA VI DINASTIA SCOPERTA A IERACOMPOLI. MUSEO EGIZIO, IL CAIRO.

compreso il visir Hesi, la cui tomba fu confiscata a beneficio di un altro funzionario. Anni più tardi lo stesso Pepi I fu vittima di una cospirazione forse guidata dalla regina, sua moglie. Il complotto fu scoperto e Weni – il sovrintendente dell’harem incaricato d’indagare sul caso – decise di allontanare i visir dal tribunale, una chiara indicazione del fatto che erano coinvolti nel tentato omicidio del faraone. Ottenuta in questo modo la fiducia del sovrano, Weni divenne a sua volta un famoso visir e generale. Diversi anni dopo un altro funzionario, Rawer, guidò un nuovo complotto che fallì e si concluse con numerose esecuzioni.

Da visir a faraone

DEA / SCALA, FIRENZE

IL NOME DEL FARAONE

MET / SCALA, FIRENZE

Parte superiore di un sistro in alabastro (a forma di stelo di papiro) con l’incisione del nome di Teti. Metropolitan Museum, New York.

di Saqqara, situata di fronte alla piramide del suo sovrano. Mereruka sposò la figlia del re, la principessa Sesheshet; gli furono assegnati anche numerosi titoli, tra cui “sovrintendente della protezione di tutte le case del re”, “sovrintendente dell’harem reale” e anche l’importante carica religiosa di “gran sacerdote del re”, un fatto assolutamente fuori dal comune. La fine del regno di Teti fu tanto tragica quanto il suo inizio fu turbolento, e forse anche in questo caso fu coinvolto un visir. Nella sua cronaca scritta molti secoli dopo, Manetone – uno storico e sacerdote greco originario di Sebennito, in Egitto – racconta che «Othoes [Teti] fu ucciso dalle sue guardie». Il trono fu in seguito occupato da un usurpatore che ben presto fu rovesciato dal legittimo erede di Teti, Pepi I. Quest’ultimo punì probabilmente tutti i traditori,

Nel corso della storia millenaria d’Egitto ci sono anche esempi di visir che divennero faraoni. È forse questo ciò che accadde alla morte dell’ultimo sovrano dell’XI dinastia, Mentuhotep IV, intorno al 1940 a.C. Il suo successore al trono fu Amenemhat I, che prima aveva probabilmente ricoperto la carica di visir. In quel contesto, Amenemhat fu incaricato di guidare una grande spedizione nelle cave dell’inospitale Uadi Hammamat, nel deserto a est di Tebe, nel corso della quale, come attestano le iscrizioni, si verificarono due eventi miracolosi: una gazzella partorì proprio nel luogo dove si trovava il blocco di pietra destinato a diventare il sarcofago del faraone; e un’inaspettata pioggia torrenziale fornì acqua ai diecimila uomini guidati dal visir. Non è chiaro se Amenemhat salì al trono in modo violento o pacifico, ma la storia del suo regno si concluse in modo cruento, in quanto fu assassinato, come ricordano testi quali Le avventure di Sinuhe e altre fonti. Un altro visir che riuscì ad ascendere al trono fu Ramses I, intorno al 1290 a.C. Il faraone Horemheb non aveva discendenti diretti, pertanto decise di nominare suo successore un ministro di fiducia, un uomo ben preparato ed esperto nell’amministrazione, proveniente dall’ordine militare e con figli che avrebbero potuto garantire stabilità alla una nuova dinastia. Con il nuovo faraone ebbe inizio l’era ramesside. Durante il Nuovo regno il Paese fu suddiviso in due visirati, uno per il Basso Egitto


MASTABA DI MERERUKA

La tomba di questo visir del re Teti si trova a Saqqara. Qui è raffigurato con gli attributi propri della sua funzione in diversi rilievi dipinti e in una statua posta all’interno di una nicchia. ARALDO DE LUCA


Ankhu, il visir di cinque faraoni persino più stabile di quella di sovrano. Il numero di faraoni di queste due dinastie è molto elevato: nell’arco di circa 150 anni si alternarono circa 57 sovrani per la XIII dinastia e un numero simile se non maggiore per la XIV. Il governo di alcuni dei faraoni di questo periodo durò solo pochi mesi. Tuttavia, si sono conservate testimonianze di casi di visir che mantennero la carica nel corso dei regni di diversi sovrani. Uno di questi fu Ankhu, visir durante i governi di cinque faraoni consecutivi. In un mondo in cui i regni erano così brevi, la figura del visir rappresentava un simbolo di stabilità. Inoltre, i visir formarono delle vere e proprie dinastie che gli permisero di tramandare la carica per via ereditaria. Ankhu è un esempio anche in tal senso: sia suo padre sia due dei suoi figli furono infatti celebri visir. STELE DI IMENISENEB. È STATA TROVATA AD ABIDO E GLI FU DEDICATA IN VIRTÙ DEL SUO RUOLO DI “CONTROLLORE DI SQUADRA”. XIII DINASTIA. MUSÉE DU LOUVRE, PARIGI.

Nella sua tomba nella Valle dei Re, Ramses I, padre di Seti I e nonno di Ramses II, è rappresentato insieme al dio falco Horus e ha in testa la doppia corona.

e l’altro per l’Alto Egitto. In questo periodo ci sono esempi molto interessanti di vere e proprie stirpi di visir che godettero di un grande potere ma che a un certo punto caddero in disgrazia. Un caso notevole è quello della famiglia del visir Amethu, che servì sotto il regno di Thutmose II e all’inizio dell’epoca di Thutmose III. Anche suo figlio Useramon fu visir ed ebbe grande potere durante i regni di Hatshepsut e Thutmose III, come testimoniano le sue due tombe monumentali a Tebe. E furono visir anche suo fratello Neferweben e il figlio di quest’ultimo, Rekhmira, sulla cui tomba sono iscritte le già citate Istruzioni per il visir. I due mantennero il controllo sul visirato e su altre importanti cariche ufficiali per oltre sessant’anni, ma alla fine la loro carriera s’interruppe bruscamente quanZE

RAMSES I, IL VISIR CHE DIVENNE RE

SCALA, FIREN

C. DÉCAMPS / RMN-GRAND PALAIS

D

URANTE LA XIII E LA XIV DINASTIA la carica di visir fu

do, per ragioni ignote, persero il favore reale. Accadde l’opposto al visir Amenemipet, che succedette a Rekhmira sotto Amenhotep II ed ebbe l’onore eccezionale di possedere una tomba (la KV 48) nella Valle dei Re, accanto a quella del suo signore.

Pilastri d’Egitto Nell’antico Egitto il fatto di essere stranieri non costituiva un ostacolo a una carriera di successo. Ne è un esempio un personaggio chiamato Aper-el. Il suo nome significa “il servo di El”, un dio cananeo, da cui si evince una probabile origine straniera del funzionario. Educato con i figli reali, iniziò la sua carriera nel mondo militare. In seguito divenne ambasciatore e confidente del faraone, precettore dei figli reali e anche sacerdote di Aton, fino a essere nominato visir all’inizio del regno di Amenhotep IV (poi ribattezzatosi Akhenaton). La sua tomba fu scoperta nel 1987 a Saqqara. Di alcuni visir sappiamo che furono rimossi dall’incarico senza apparenti ragioni. Ciò accadde al tempo del re usurpatore Amenmesse, che spodestò temporaneamente dall’Alto Egitto il legittimo faraone, Seti II, nipote del grande Ramses II. Durante il periodo dell’usurpazione, Paneb, un noto sobillatore di Deir el-Medina, fu processato e condannato dal visir ma presentò una denuncia al re illegittimo, che approfittò della situazione per rimuovere il funzionario, legato al legittimo sovrano. I visir avevano sicuramente un grande potere, ma potevano anche ritrovarsi sopraffatti dalla mole di doveri e responsabilità che derivavano dalla loro posizione. Nelle Istruzioni per il visir, il faraone lo dice senza mezzi termini: «Svolgi con estrema cura il ruolo di visir; sii vigile in tutte le tue azioni, perché il visir è il pilastro di tutto il Paese. Il visirato non è sicuramente piacevole, anzi è amaro come il fiele». JOSÉ LULL UNIVERSITÀ AUTONOMA DI BARCELLONA

Per saperne di più

SAGGI

L’antico Egitto: storia di un impero millenario Toby Wilkinson. Einaudi, Milano, 2012. Storia dell’antico Egitto Nicolas Grimal. Laterza, Roma-Bari, 2002.


STELE DELLA FALSA PORTA DI REKHMIRA

Stele di granito ritrovata nella tomba del visir Rekhmira, a Gurna. Il funzionario è raffigurato accanto alla moglie davanti a una tavola di offerte. Musée du Louvre, Parigi. CHRISTIAN DÉCAMPS / RMN-GRAND PALAIS


IL VISIR REKHMIRA Rekhmira, visir di Thutmose III e Amenhotep II, visse intorno al 1400 a.C. Fu sepolto a Tebe ovest in uno spettacolare ipogeo, una tomba sotterranea composta da due corridoi perpendicolari le cui pareti sono decorate con pitture. Qui si vede una parte del muro su cui è raffigurato il visir intento a controllare i suoi scribi e i suoi funzionari, che registrano la ricezione delle donazioni al tempio di Amon a Karnak.

Magazzini. In questi depositi venivano conservati alimenti, sandali, cesti, anfore, prodotti provenienti dalla Nubia e beni di alto valore, come metalli preziosi e gemme.

Alimenti. Alcuni apicoltori lavorano agli alveari e conservano il miele in grandi recipienti. Altri lavoratori sono impegnati nella cottura del pane.

Trasporto. Un equipaggio comandato dal “capitano della chiatta per le offerte al tempio di Amon” trasporta anfore di vino, olio e altri prodotti verso i magazzini.

Prostrati. Diversi ufficiali vanno a fare rapporto al visir. Alcuni sono in piedi con le braccia conserte in segno di rispetto; altri s’inginocchiano e «annusano la terra».

Raccolta. Alcuni contadini prelevano delle piccole quantità da un cumulo di tuberi usando un contenitore. Uno scriba e un contabile registrano l’operazione.


Ricezione di tuberi e miele nella Casa del Tesoro del tempio e sigillatura di tutti i beni come [offerte al tempio di Amon] in virtù della sua posizione di supervisore dei registri, membro dell’élite […] sovrintendente della città e visir, Rekhmira.

Il visir. È raffigurato più volte con indosso l’abito proprio della sua funzione. In una mano impugna un bastone e nell’altra uno scettro sekhem, entrambi simboli di rango e potere.

CALCO DELLE PITTURE SULLA PARETE SUD DELLA GALLERIA LONGITUDINALE DELLA TOMBA DI REKHMIRA, DI NINA DE GARIS DAVIES. A DESTRA, IMMAGINE DI REKHMIRA SULLA STESSA PARETE.

Assistenti. Dietro la figura del visir appare un gruppo di assistenti. Molti sono scribi con la rispettiva tavolozza, altri sono semplici servi.

ILLUSTRAZIONE: MET / SCALA, FIRENZE. FOTO: ARALDO DE LUCA

Geroglifici. Le scene sono accompagnate da testi esplicativi che ne facilitano la comprensione. Sopra la figura del visir c’è scritto:


LA NASCITA DELL’ARTE I P I T TO R I DE L L A P R E I S TO R I A Quasi 40mila anni fa l’homo sapiens, utilizzando abilità già dimostrate dai neandertaliani, fu protagonista di una formidabile esplosione di creatività che lasciò un’eredità impressionante: l’arte paleolitica


ARTISTI DEL PASSATO

Ipotetica ricostruzione di un artista paleolitico che lavora nella sala dei policromi di Altamira (Spagna). Per l’illuminazione usa una lampada a midollo animale che non produce fumo. ILLUSTRAZIONE: PEDRO SAURA / JUAN DE MATA


IN ASIA CENTRALE

Uri (una specie di bovide ormai estinta) incisi nel sito all’aperto di Qobustan, in Azerbaigian. MARCOS GARCÍA DIEZ

Una creazione di homo sapiens? L’arte paleolitica è stata a lungo considerata un’opera esclusiva dei primi esemplari di homo sapiens, la nostra specie, ma grazie alla 38 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

serie dell’uranio (una tecnica di datazione che studia il disequilibrio isotopico degli elementi radioattivi) ora si sa che l’homo neanderthalensis, l’uomo di Neanderthal, sviluppò la capacità di disegnare nelle grotte, dimostrando così che la creazione artistica non è una prerogativa esclusiva della nostra specie. Questa scoperta ha fatto sì che la data d’inizio dell’arte rupestre, situata generalmente 40mila anni fa, sia stata spostata indietro di almeno 25mila anni: le immagini nelle grotte spagnole di Maltravieso, La Pasiega e Ardales infatti sono state realizzate almeno 65mila anni fa. Disegni colorati a soffio a forma di ellissi o di grandi punti, mani in negativo e semplici segni lineari, sempre in rosso, sono le prime produzioni artistiche dell’umanità.

Un’arte mondiale Per molto tempo si è ritenuto che la Spagna (in particolare la Cantabria settentrionale), la Francia (con importanti concentrazioni nei Pirenei e in Aquitania) e – in misura minore – l’Italia fossero i principali centri dell’arte rupestre paleolitica. Questa visione “franco-cantabrica” ha probabilmente condizionato per diversi anni la possibilità di localizzare nuovi complessi in altre zone, visto che difficilmente si trova ciò che non si cerca – e viceversa. Per fortuna a un certo punto questa tendenza a centralizzare l’origine dell’arte rupestre esclusivamente

MARC DOZIER / GTRES

N

el corso del periodo compreso tra i 2,8 milioni e i 12mila anni fa, noto come Paleolitico, vissero gruppi umani di cacciatori, raccoglitori e pescatori. Questo lunghissimo arco di tempo corrisponde alle prime fasi della storia umana, quando emersero le caratteristiche fisiche e comportamentali della specie oggi conosciuta come homo sapiens. Durante il Paleolitico la struttura ossea umana si è progressivamente modificata e il rapporto con l’ambiente e le relazioni tra individui è in costante evoluzione. Si verificano continui adattamenti che comportano incessanti trasformazioni sociali e nuovi progressi tecnici. L’arte paleolitica è il risultato di questo processo evolutivo. Ma non è semplice definire cosa sia esattamente. Si può iniziare dicendo che comprende un insieme di creazioni formali capaci di condensare in sé un’idea o una narrazione. Va intesa come un linguaggio formale costruito, percepito e compreso dai membri del gruppo umano che l’ha generata, e che attraverso di essa cerca d’informare e – perché no – di dirigere o condizionare le decisioni di una comunità. In poche parole, è una simbologia sociale.


GROTTA CHAUVET

Sopra una renna e due rinoceronti spiccano i profili di alcuni leoni delle caverne dipinti circa 32mila anni fa con dinamismo e realismo: l’artista ha raffigurato la zona dei baffi o vibrisse con dei punti.


JAVIER TRUEBA / SPL / AGE FOTOSTOCK

Busto modellato a partire dai reperti trovati nelle grotte abitate dai neandertaliani; le piume avevano forse un valore simbolico.

in Europa si è interrotta e oggi Paesi quali Romania, Russia, Azerbaigian, Egitto, Cina, Indonesia, Timor e Australia possono vantare nel loro patrimonio culturale esempi di quest’arte, in alcuni casi risalenti ad almeno 40mila anni fa. Questa grande dispersione permette di scoprire, grazie anche alle similitudini e alle differenze individuabili tra le regioni geografiche, i legami culturali stabiliti dai gruppi umani del Paleolitico, che in alcuni casi si estesero per centinaia di chilometri. Tali reti sociali mostrano il tipo di popolamento, la mobilità e la natura mutevole dei legami che le comunità stabilivano con il territorio. In questo senso l’arte paleolitica è un riflesso fedele delle dinamiche di regionalizzazione e globalizzazione che hanno segnato la storia umana fin dai suoi primordi.

Una lunga tradizione Oggi si sa che l’arte rupestre paleolitica durò almeno 55mila anni. Eppure, nonostante gli sforzi per determinare il momento in cui furono tracciati i vari segni e figure di animali e di uomini, si è ancora lontani dallo stabilire una cronologia precisa. Sicuramente l’arte paleolitica non ebbe un sviluppo lineare, ma fu caratterizzata dall’alternarsi di momenti di grande cre-

Artisti sconosciuti È purtroppo impossibile dare un nome agli autori di grotte come Altamira o Lascaux. Non si sa neppure se in determinati siti i disegni siano opera di una o più persone, e in questo secondo caso cos’abbia realizzato ciascuna di loro. D’altra parte sembra ipotizzabile l’esistenza di “scuole” artistiche, rintracciabili dalla presenza di alcune convenzioni singolari, come per esempio un modo determinato di tracciare un dettaglio anatomico o l’uso di una risorsa tecnica molto specifica (come i contorni punteggiati), che si ripetono in più di un sito. Ma le conoscenze dimostrate nella realizzazione dei disegni, dei dipinti e delle incisioni, nella selezione dei luoghi in cui realizzarli, nell’uso delle forme dei supporti per completarne i tratti, nella fedeltà della rappresentazione anatomica, nella ricerca della tridimensionalità, nell’espressione di comportamenti e movimenti, e, in alcuni casi, nel carattere narrativo delle opere confermano che gli autori paleolitici erano veri artisti, consapevoli delle risorse tecniche ed espressive necessarie a suggestionare lo spettatore. MARCOS GARCÍA DIEZ ARCHEOLOGO E SPECIALISTA IN ARTE PREISTORICA

Per saperne di più

SAGGI

Lascaux. La nascita dell’arte Georges Bataille. Abscondita, Milano, 2020. L’arte dell’uomo primordiale Emilio Villa. Abscondita, Milano, 2017. INTERNET

Grotte di Lascaux https://archeologie.culture.fr/lascaux/es Grotta Chauvet https://archeologie.culture.fr/chauvet/es

FOTO (DA SINISTRA A DESTRA DALL’ALTO IN BASSO): BRIDGEMAN / ACI; ORONOZ / ALBUM; ALAMY / ACI; MARCOS GARCÍA DIEZ; JEFF PACHOUD / GETTY IMAGES; MARIAN VANHAEREN; VALORIE GÔ / RMN-GRAN PALAIS

SIMBOLI O ORNAMENTI?

MAXIME AUBERT / GRIFFITH UNIVERSITY

FACOCERO DIPINTO SULL’ISOLA DI SULAWESI, IN INDONESIA, ALMENO 45.500 ANNI FA.

atività ad altri dove l’inventiva fu scarsa o addirittura residuale. Quel che è certo è che iniziò a diffondersi circa 35mila anni fa, con l’homo sapiens. Con l’avvento della nostra specie fanno la loro comparsa temi figurativi animali di grande varietà, i segni mostrano per la prima volta un’ampia diversificazione compositiva, le associazioni di motivi sono molto differenziate e vengono esplorati stili e tecniche diversi. Nonostante le evoluzioni temporali, la rappresentazione preferita di certi soggetti manifesta un retroterra culturale comune: le forme cambiarono e i significati si modificarono, ma il pensiero e il carattere distintivi dei gruppi umani del Paleolitico rimasero gli stessi per millenni.


LA PRIMA ARTE Alcuni ricercatori vedono un’espressione del gusto estetico in asce di pietra fabbricate con sorprendente simmetria almeno 500mila anni fa. Ma gli oggetti creati con valore esclusivamente simbolico e ornamentale sono più recenti: appaiono in Africa, nel Vicino Oriente e in Europa con specie umane precedenti alla nostra, come i neandertal, ai quali dobbiamo i primi esempi di arte parietale. D’altro canto l’espansione dell’arte figurativa è caratteristica dell’homo sapiens, che occupò l’Europa circa 43mila anni fa.

QUANDO È NATO IL SENTIMENTO ARTISTICO?

PALEOLITICO MEDIO (TRA 3 0 0 MILA E 4 3 MILA ANNI FA)

Figure umane e animali

Arte parietale

Espressione personale

VENERE DI BEREKHAT RAM. RISALENTE A CIRCA 250MILA ANNI FA, È LA PIÙ ANTICA FIGURA UMANA CONOSCIUTA. MUSEO DI ISRAELE, GERUSALEMME.

PALEOLITICO SUPERIORE (TRA 4 3 MILA E 1 2 MILA ANNI FA)

Le prime rappresentazioni umane, opera dei neandertal, sono delle mani come quelle della grotta di Maltravieso (Spagna), le più antiche conosciute.

Questa scultura umana femminile in avorio rinvenuta a Hohle Fels (Germania) misura meno di 6 cm ed è la più antica conosciuta in Europa.

66.700 anni fa

38mila anni fa

LA RICERCA CHE ATTRIBUISCE TALE DATAZIONE AI DIPINTI DI MALTRAVIESO È STATA PUBBLICATA DALLA RIVISTA SCIENCE NEL FEBBRAIO DEL 2018.

URGESCHICHTLICHES MUSEUM, BLAUBEREN.

I segni tracciati a La Pasiega (Spagna), opera dei neandertaliani, sono i più antichi d’Europa.

65mila anni fa

La scoperta della grotta ChauvetPont-d’Arc (Francia) colloca gli inizi dell’arte figurativa e naturalistica 20mila anni prima di Altamira e Lascaux.

SCALARIFORME, FIGURA SIMILE A UNA SCALA DISEGNATA 64.800 ANNI FA NELLA GROTTA SPAGNOLA DI LA PASIEGA.

32mila anni fa

Questo dente di volpe perforato – forse un ciondolo – trovato nella grotta della Renna (Francia) è opera dei neandertaliani.

Ornamenti di conchiglie provenienti dalla grotta di Cro Magnon (Francia).

43mila anni fa

25mila anni fa

MUSÉE NATIONAL DE PRÉHISTOIRE, LES EYZIES-DE-TAYAC.

MUSÉE D’ARCHÉOLOGIE NATIONALE, SAINT-GERMAIN-EN-LAYE.

ORSO DELLE CAVERNE DIPINTO IN ROSSO A CHAUVET.


SPECIALE / ARTE RUPESTRE

K NC FRA

LAMPADA IN PIETRA SCOLPITA PROVENIENTE DA LASCAUX. LES EYZIES-DE-TAYAC.

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TECNICHE E STRUMENTI dell’arte rupestre sono il disegno, la pittura e l’incisione, sebbene si praticassero anche il bassorilievo e la scultura. Nel disegno e nella pittura – i procedimenti più frequenti – si usavano ossidi di ferro per il rosso, idrossidi di ferro per il giallo, e ossidi di manganese e soprattutto carbone per il nero. Il bianco era utilizzato raramente, per poche figure o per creare uno strato d’intonaco su cui dipingere. I minerali venivano pestati e ridotti in polvere; i coloranti, a eccezione del carbone, venivano a volte mescolati con la terra per aumentarne il contenuto di pigmento e con l’acqua per incrementarne l’adesione al supporto. Qualcuno ritiene che fossero diluiti con grassi animali o sangue, ma non ci sono prove scientifiche in tal senso. La maggior parte delle figure sono di un solo colore (monocrome), ma in alcune grotte, come per esempio ad Altamira, Lascaux e Tito Bustillo, ci sono immagini a due colori (bicrome). Quando il materiale colorante era costituito da frammenti di ocra o carbone veniva applicato direttamente sul supporto; altrimenti si usavano tamponi e pennelli vegetali o di peli animali. Si utilizzava anche la tecnica a soffio (già usata dai neandertal), che consisteva nell’introdurre il pigmento in bocca o in ossicini di uccelli usati come cannule (una sorta di rudimentale aerografo) e poi spruzzarlo intorno alle mani o a dei dischi per disegnarli in negativo.

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42 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

PIERRE ANDRIEU / GETTY IMAGES

LE RISORSE TECNICHE


GRANDE SALA DEI TORI

18mila anni fa, in questo imponente spazio della grotta di Lascaux, furono dipinte figure monocrome e bicrome: uri come quello in primo piano, cervi e cavalli.


SPECIALE / ARTE RUPESTRE

ALAMY / CORDON PRESS

UNICORNO DI LASCAUX NELLA GRANDE SALA DEI TORI. SI TRATTA FORSE DI UN FELINO CON LE CORNA DI UN ALTRO ANIMALE. 18MILA ANNI FA.

ANIMALI, UNO SQUILIBRIO VARIO E RICERCATO

SPL / AGE FOTOSTOCK

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SCONTRO TRA DUE RINOCERONTI DIPINTO NELLA GROTTA CHAUVET 32MILA ANNI FA CIRCA.

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(anatidi, rapaci, pinguini…), rettili e insetti sono marginali. Le ragioni di questa scelta non sono chiare. Le percentuali della rappresentazione della fauna sono state messe a confronto con quelle dei resti di animali consumati a scopi alimentari, e si è visto che spesso non c’è una corrispondenza. Tutto indica che la selezione risponde a ragioni culturali, e questo spiegherebbe perché alcuni animali sono raffigurati più frequentemente in determinati periodi o in certe regioni. Alcune rare figure mescolano le caratteristiche di animali differenti o sono semplicemente “fantastiche”, come l’unicorno di Lascaux o il cavallo-uro di El Castillo. Forse l’intenzione era quella di riunire insieme alcune caratteristiche particolarmente rilevanti, come la forza, la capacità di difendersi dai predatori o lo spirito di collaborazione.

JAVIER TRUEBA / SPL / AGE FOTOSTOCK

NONOSTANTE LA GRANDE VARIETÀ di animali con cui convivevano gli esseri umani del Paleolitico, l’arte rupestre mostra una selezione parziale dell’ecosistema. I più rappresentati sono i cavalli, i bisonti, i cervi, gli uri e le capre, che costituiscono più dell’80 per cento del totale. Mammut, renne, orsi, megaceri (cervidi giganti), leoni e rinoceronti appaiono con una ridotta frequenza complessiva, ma sono numerosi in alcuni siti, il che suggerisce che certi animali avevano una grande rilevanza simbolica per alcuni gruppi, o che questi sentivano semplicemente la necessità “rituale” di dedicargli uno spazio monografico. Le rappresentazioni di pesci, mammiferi acquatici (foche, balene), uccelli


CAVALLI NELL’OSCURITÀ

In una sala della grotta Chauvet (Francia), dove 32mila anni fa furono dipinte più di 21 figure, sono visibili rinoceronti, uri e questi cavalli neri di grande realismo che trasmettono una suggestiva sensazione di movimento.


SPECIALE / ARTE RUPESTRE

VENERE DI WILLENDORF. RISALENTE A 27MILA ANNI FA CIRCA, PRESENTA LE CARATTERISTICHE ANATOMICHE DI MOLTE VENERI PALEOLITICHE.

LESS ING / AL B UM

GLI ESSERI UMANI LA FIGURA UMANA è il gruppo tematico meno

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FIRMA SULLE PARETI?

Le rappresentazioni delle mani possono essere in positivo, cioè fatte stampando l’impronta sul supporto, come nell’immagine qui visibile; oppure, nella maggior parte dei casi, in negativo: consistono cioè in un profilo ottenuto soffiando della tintura intorno alla mano.

FOTO. SOPRA: JEFF PACHOUD / GETTY IMAGES. SOTTO: ORONOZ / ALBUM

frequente nell’arte rupestre, e in molti casi non mostra caratteri fisici ben definiti. Ecco perché le rappresentazioni umane sono state di volta in volta definite “comiche”, “fantasmagoriche”o “animalesche”. Sebbene esistano rappresentazioni femminili e maschili, quelle di donne sono le più frequenti e possono essere parziali o integrali. Tra le prime, spiccano i genitali, la zona pubica e la vulva. Le seconde sono in genere costituite da silhouette o profili che mettono in evidenza i fianchi, le natiche e, in qualche caso, il seno. Ci sono anche esempi di figure scolpite, come le cosiddette veneri, statuette femminili le cui caratteristiche anatomiche esemplificano la rilevanza sociale della donna in quanto elemento chiave per il mantenimento e il sostegno demografico del gruppo. Si tratta, insomma, di un chiaro riferimento al ruolo materno all’interno della comunità. Molto più rare sono invece le rappresentazioni maschili, tra le quali spesso si riscontrano forme genitali o immagini integrali, alcune in stato eretto. Infine, alcune raffigurazioni combinano elementi umani e animali, andando a formare esseri fantastici che lasciano trapelare una sorta di fusione immaginaria tra i due mondi.


Molteplici rappresentazioni della figura umana IL MOTIVO UMANO più frequente sono le mani, realizzate principalmente

a soffio e in colore rosso; quelle dell’immagine qui sopra si trovano nella grotta Chauvet, in Francia. Non c’è accordo sul loro significato. Per alcuni sono l’impronta di una persona specifica; per altri, sono una testimonianza della volontà di lasciare una traccia del passaggio attraverso un certo luogo, simboli astrali o una lingua. Quanto alla mescolanza di caratteristiche umane e animali in esseri come il cosiddetto “stregone” della grotta francese di Trois-Frères, risalente a 13.500 anni fa e di cui è visibile il calco qui a sinistra, rappresenta probabilmente una dimensione trascendente: la volontà umana di dotarsi delle caratteristiche fisiche o comportamentali degli animali, catturandone lo spirito.

RAPPRESENTAZIONI DI GENITALI FEMMINILI NELLA GROTTA DI TITO BUSTILLO (SPAGNA), REALIZZATE OLTRE 15MILA ANNI FA.


SPECIALE / ARTE RUPESTRE

ORONOZ / ALBUM

FILE DI PUNTI NELLA GROTTA DI EL CASTILLO (SPAGNA), RISALENTI ALMENO A 35MILA ANNI FA.

Segni neri tettiformi nella grotta di Altamira (Spagna), dipinti almeno 15mila anni fa.

L’INCOGNITA DEI SEGNI leolitica lascia aperte molte domande, in particolare per quanto riguarda l’interpretazione dei segni. Questi ultimi costituiscono senza dubbio le rappresentazioni più frequenti, ma finiscono spesso in secondo piano rispetto alla chiarezza e all’eleganza delle figure animali. I segni includono una grande varietà di forme lineari, geometriche e a punti. Sulla base di una comparazione etnografica e della loro struttura, sono stati suddivisi in claviformi (a forma di clava), scutiformi (a forma di scudo), tettiformi (a forma di capanna) e arboriformi (a forma di albero). Altre classificazioni, più asettiche, parlano di segni aperti o chiusi; altre ancora li catalogano in “maschili” e “femminili”. C’è pure chi ha voluto vedere nelle associazioni tra segni diversi, o tra segni e animali, dei sistemi che condensano informazioni e rispondono a norme sociali – insomma una semiologia. Oggi, la ricerca sui segni è a un punto morto. Una delle domande più importanti da affrontare è se queste raffigurazioni nascondono immagini della realtà, di un paesaggio naturale o sociale. Alcune forme chiuse potrebbero essere interpretate come capanne? Contengono riferimenti al mondo vegetale? Sono un modo d’incidere o dipingere montagne, fiumi o vulcani? Chissà se avremo mai una risposta.

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48 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

FOTO (DA SINISTRA A DESTRA DALL’ALTO IN BASSO): MUSEO DI ALTAMIRA / PEDRO SAURA; JEFF PACHOUD / GETTY IMAGES; SPL / AGE FOTOSTOCK; EFE / ALBUM; SPL / AGE FOTOSTOCK; IGN / RMN-GRAND PALAIS

A QUASI 150 ANNI dalla sua scoperta, l’arte pa-

Segni di vario tipo nella grotta di La Covaciella (Spagna), risalenti a oltre 18mila anni fa.

Punti e claviformi nella grotta di El Pindal (Spagna), 13.500 anni fa circa.


Punti rossi realizzati con un tampone 32mila anni fa nella grotta Chauvet (Francia).

Segni tettiformi e punti nella grotta di El Castillo (Spagna), risalenti a più di 18mila anni fa.

Rettangolo e punti sotto un cervo nella grotta di Lascaux, 18mila anni fa.


FINE ART

/ AGE FO TOSTOCK

UOMO LEONE. INTAGLIO IN AVORIO DI MAMMUT PROVENIENTE DALLA GROTTA DI HOHLESTEINSTADEL (GERMANIA). 34MILA ANNI FA. MUSEO ULM.

IN MERITO AL SIGNIFICATO dell’arte rupestre sono state proposte teorie da campi di studio molto diversi, come per esempio l’etnografia, la neuropsicologia, la semiologia (lo studio dei sistemi di comunicazione) o lo strutturalismo (lo studio delle funzioni di un elemento culturale in relazione ad altri). Secondo la teoria dell’arte per l’arte, il sentimento estetico e la creazione artistica sono caratteristiche umane, per cui la contemplazione dell’arte paleolitica avrebbe delle finalità di piacere. In contrasto con la laicità di questa interpretazione, altre ipotesi insistono sulla centralità del sentimento religioso. La tesi della magia simpatica sostiene che i paleolitici eseguivano rituali nel corso dei quali dipingevano animali e trappole per favorire una caccia fruttifera. C’è finanche chi ha ipotizzato che il rituale mirasse a promuovere la fecondità degli animali affinché i cacciatori avessero un maggior numero di prede. Secondo il totemismo, le creature rappresentate sono il totem dei gruppi umani: evocano l’essere da cui discende un clan o una tribù e ne costituiscono l’emblema collettivo. Questo implica l’esistenza di forti legami sociali tra i gruppi, così come la teoria che interpreta alcuni segni come “tracce identitarie” la cui dispersione geografica rivelerebbe l’estensione territoriale dei gruppi paleolitici.

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50 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

ARNAUD SPANI / GTRES

ALLA RICERCA DEL SIGNIFICATO

MAGIA PER LA CACCIA?

Sul tronco di questi bisonti della grotta di Niaux (Francia) sono visibili delle frecce. Un’interpretazione è che l’autore abbia voluto rappresentare il suo desiderio di cacciare determinate prede.

L’approccio strutturalista ha constatato un ordine nella distribuzione e nell’associazione dei motivi, una sorta di codice simbolico dotato di una propria logica. Questa visione è sfociata nella teoria sessuale, secondo la quale le figure sono legate a coppie, una dualità “maschile + femminile”, in cui il genere maschile sarebbe rappresentato dai cavalli e dai segni semplici o “aperti” (come frecce e linee), e il genere femminile dai bisonti e dai segni “chiusi” (come cerchi ed ellissi). Secondo la teoria sciamanica gli stati di alterazione della coscienza sperimentati dallo sciamano nella trance tramite lo sforzo, il digiuno e l’assunzione di droghe verrebbero trasposti graficamente sulle pareti delle caverne, generando animali fantastici, umani trasformati in animali e segni complessi. In base a questa


SPECIALE / ARTE RUPESTRE

IL COSIDDETTO “STREGONE” DELLA GROTTA DI TROIS-FRÈRES (FRANCIA), CON CARATTERISTICHE UMANE E DI BISONTE. 13MILA ANNI FA.

AKG / ALBUM

ipotesi, i supporti – le pareti – hanno un ruolo attivo, che serve allo sciamano per connettersi con l’aldilà, il mondo degli spiriti. La grande varietà d’interpretazioni mostra le difficoltà di utilizzare un unico approccio per decifrare le ragioni e le finalità dell’arte paleolitica, tanto più quando lo stesso motivo può avere significati diversi. Appare comunque chiaro che l’elaborazione delle pitture rupestri è un processo pianificato, il risultato di una riflessione e di una scelta su cosa dipingere, dove realizzare i disegni e come disporre i motivi. Quasi certamente il luogo prescelto – una grotta, un riparo o uno spazio aperto – aveva una dimensione simbolica per i gruppi umani; si tratterebbe insomma di uno spazio simbolico monumentalizzato grazie alle rappresentazioni che vi si eseguivano.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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SPECIALE / ARTE RUPESTRE

SALA DEI POLICROMI

BISONTE DI LA COVACIELLA (SPAGNA). LA COMBINAZIONE DI PITTURA, INCISIONE E SFREGAMENTO DELLA SUPERFICIE GLI CONFERISCE VOLUME. 14MILA ANNI FA.

JAVIER ANGULO

È il nome dello spazio più conosciuto di Altamira. Vi si possono ammirare decine di dipinti, disegni e incisioni di animali e segni, i più notevoli dei quali sono i bisonti che raggiungono 1,7 metri di lunghezza. La maggior parte è policroma e fu realizzata in sporgenze naturali del soffitto che contribuiscono a conferire volume e corporeità, come si può vedere nella foto.

REALISMO FOTOGRAFICO mostra esempi in cui gli artisti cercarono di rappresentare la realtà così com’era, al punto che c’è chi parla di vere e proprie “fotografie”. Alcune figure sono formalmente semplici e rappresentano il profilo dell’animale con un solo arto per coppia, o con un solo orecchio, il che probabilmente non è dovuto a una mancanza di capacità di registrare la realtà, ma a uno stile forse influenzato da regole sociali. Altre figure invece mostrano un canone proporzionato e una delineazione precisa del contorno, e presentano dettagli di anatomia secondaria come il condotto lacrimale, gli zoccoli, la barba o la muscolatura. Ma a volte c’è qualcosa di più. Anche se la maggior parte dell’arte rupestre è bidimensionale, gli autori impiegarono alcune tecniche per suggerire figure tridimensionali dotate di corporeità. Come dei veri maestri, ingannano l’occhio dello spettatore con risorse ed effetti grafici. Ampliano o riducono lo spessore delle linee di contorno, giocano con due colori per suggerire zone anatomiche, sfumano i pigmenti con le mani per creare tonalità e trasparenze, tracciano linee interne per realizzare tagli anatomici, giocano con la profondità dei tratti per favorire una percezione scultorea, ripassano i contorni delle linee dipinte incidendole… Tutto questo dimostra che le immagini sono autentiche opere d’arte del primo genio creativo.

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52 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

© MUSEO DE ALTAMIRA. FOTO: PEDRO SAURA

L’ARTE PALEOLITICA



INCISIONE DI CAVALLO NEL SITO ALL’APERTO DI SIEGA VERDE (SPAGNA). 15MILA ANNI FA.

JAVIER ANGULO

SPECIALE / ARTE RUPESTRE

ARTE DELLA LUCE E DELL’OSCURITÀ si è ritenuto che l’arte rupestre fosse limitata alle grotte e situata nelle zone più interne e oscure, dov’era necessario utilizzare torce o lampade a midollo bovino per creare e vedere le immagini. Ciò implicava vincolare l’arte a uno spazio riservato, privilegiandone così le interpretazioni di natura religiosa. Oggi le figure rinvenute in luoghi aperti come le rocce sulle pendici di una montagna o vicino a un fiume, in ripari e all’ingresso delle caverne rompono la concezione esclusiva di un’arte nell’oscurità. La situazione non era così uniforme e c’erano zone con diversi gradi d’illuminazione. Tale disomogeneità dimostra che l’arte rupestre non aveva necessariamente un carattere riservato. Di fatto, in alcuni casi, l’intimo legame spaziale tra aree decorate e domestiche evidenzia un aspetto pubblico di quest’arte e un certo rapporto con la quotidianità. La varietà di luoghi usati indicherebbe che i gruppi umani paleolitici sperimentavano e vivevano i loro sentimenti trascendenti, i loro rituali, le loro credenze ed eventuali cerimonie in modi diversi, sia individualmente sia collettivamente, in aree riservate o in spazi di uso comune. La molteplicità di situazioni è la stessa che si può trovare oggi nelle differenti religioni. Si tratta, in altre parole, di una primordiale manifestazione della diversità del comportamento umano.

PER MOLTO TEMPO

54 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

© MUSEO DE ALTAMIRA. FOTO: PEDRO SAURA

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VOLTI NELL’OSCURITÀ

In fondo alla grotta di Altamira gli artisti esplorarono le forme suggestive del supporto. 15mila anni fa trasformarono alcune sporgenze naturali in animali ed esseri umani tracciando dei segni con il carbone per creare le cosiddette “maschere”. Queste immagini emergono dalla roccia con il riflesso della luce, come questa che guarda davanti a sé.



IL FORO ROMANO

Questo complesso di templi ed edifici pubblici fu per tutta la storia di Roma il centro politico della città. In primo piano, le colonne del tempio di Saturno, sede dell’erario. ALESSANDRO SAFFO / FOTOTECA 9X12


PESTILENZE E CAMBIAMENTO CLIMATICO

LA CADUTA DELL’IMPERO ROMANO Una serie di disastri ambientali e di epidemie devastanti accelerò la fine della supremazia di Roma


GUIDO BAVIERA / FOTOTECA 9X12

LA VILLA DEI QUINTILI

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Cambiamento climatico Davanti a una simile varietà d’ipotesi, negli anni più recenti si è invece imposta una nuova teoria che rimarca l’importanza dei cambiamenti climatici e delle epidemie nelle vicende dell’impero romano. In un saggio pubblicato nel 2017, Il destino di Roma.

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La lussuosa villa romana del II secolo d.C. ubicata nei dintorni di Roma e appartenuta ai fratelli Quintili rimase parzialmente in uso fino al VI secolo d.C.

orto nel 753 a.C. grazie alla fondazione dell’Urbe da parte di Romolo, lo stato romano giunse alla sua fine nel 476 d.C. con il rovesciamento dell’ultimo imperatore d’occidente, Romolo Augustolo. La sua storia, che copre più di milleduecento anni, lo rende uno dei più longevi dell’antichità, e anche uno dei più estesi e popolati. Sono moltissimi gli storici che hanno provato a capire le ragioni di tale crollo, alimentando perciò un dibattito che non ha ancora trovato una risposta certa. Ne è la prova una lista compilata nel 1984 dallo studioso tedesco Alexander Demandt nel saggio La caduta di Roma. La dissoluzione dell’impero romano nel giudizio dei poste-

ri. Questi ha stilato più di duecento cause che, in un modo o nell’altro, provano a dar conto del declino di Roma. In passato si era soliti considerare il declino e la caduta dell’impero come un processo derivato dalla corruzione interna. Nel magistrale testo Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano (1776-1788) Edward Gibbon scriveva: «La decadenza di Roma era il naturale ed inevitabil effetto della sua smoderata grandezza. La prosperità maturò il principio della caduta; si moltiplicarono le cause della distruzione coll’estensione della conquista; ed appena il tempo, o l’accidente, ne rimosse gli artificiali sostegni, che quella stupenda fabbrica cedè alla compressione del suo proprio peso». Al contrario di Gibbon, autori successivi si sono concentrati su fattori più specifici. Alcuni hanno focalizzato la propria analisi sull’evoluzione dell’economia romana, stagnante dal III secolo d.C. a causa dell’eccessiva dipendenza dalla manodopera degli schiavi. Oltre a ciò, sono stati evidenziati l’aumento della burocrazia e la crescita dell’esercito romano, il cui costo opprimeva l’economia imperiale, così come l’incremento delle tasse e la notevole corruzione interna. Si è puntato il dito anche contro i continui conflitti militari e le guerre civili che si scatenarono sempre a partire dal III secolo, perché debilitarono l’autorità centrale e favorirono la frammentazione dell’impero, rendendolo più vulnerabile alle minacce esterne.

C R O N O LO G I A

LA LUNGA AGONIA DELL’IMPERO

165-180

249-269

Scoppia la peste antonina, la prima grande epidemia che colpisce l’impero romano.

Entra in scena un nuovo morbo, la peste di Cipriano, che si estende per tutti i domini di Roma.

L’IMPERATORE MARCO AURELIO. DURANTE IL SUO GOVERNO SI SCATENÒ LA PESTE ANTONINA. BUSTO IN MARMO.


368-369

395

476

In Cappadocia si verifica una terribile siccità, seguita da una tremenda carestia.

Alla morte di Teodosio l’impero si divide a metà, con capitali a Roma e a Costantinopoli.

Il generale Odoacre depone Romolo Augustolo, l’ultimo imperatore romano d’Occidente.

Questo magnifico mosaico figurativo del II secolo d.C., che decorava una fastosa villa romana, mostra una vivace scena di semina ed evoca un’epoca di abbondanza, molto diversa dalle siccità e dalle carestie che ben presto avrebbero afflitto l’impero. Musée public national de Cherchell, Algeria.

DEA / ALBUM

LA SEMINA


DEA / ALBUM

I rilievi in basso mostrano, nella parte superiore, la vendita dei prodotti agricoli e, in quella inferiore, due contadini che lavorano la terra. Musée archéologique, Arlon.

Clima, epidemie e la fine di un impero, lo storico statunitense Kyle Harper, professore alla University of Oklahoma, ha proposto un’ambiziosa sintesi delle cause della caduta dell’impero. Sostiene infatti: «Il destino di Roma fu portato a compimento da imperatori e barbari, senatori e generali, soldati e schiavi, ma venne parimenti deciso da batteri e virus, eruzioni vulcaniche e cicli solari [...] La fine dell’impero romano è una storia in cui sono indissociabili l’umanità e l’ambiente». Harper e altri studiosi hanno potuto avvalersi di una gran quantità di nuovi dati, provenienti da discipline come la climatologia o l’epidemiologia; tali informazioni hanno quindi consentito di sviluppare innovative indagini per lo studio del passato. Oggi si sa che l’apogeo dell’impero romano è inquadrato nel periodo noto come optimum climatico romano – il periodo caldo romano – che si estese tra il 200 a.C. e il 150 d.C. circa e fu caratterizzato da un clima temperato, umido e stabile nella maggior parte del Me-

diterraneo. Queste condizioni favorirono lo sviluppo agricolo, economico e demografico. Testimonianze come quella dell’agronomo Columella indicano che nel I secolo d.C. in Italia centrale e meridionale le piogge estive erano più frequenti rispetto a oggi. Si è potuto inoltre capire che nell’Africa settentrionale il deserto ha attualmente invaso ampie zone che in epoca romana erano invece coltivabili.

Il mondo è invecchiato Nella seconda metà del II secolo d.C. tali propizie condizioni terminarono. Lievi variazioni nell’orbita, nell’asse d’inclinazione o nel movimento di rotazione della terra alterarono l’afflusso e la distribuzione dell’energia solare che penetrava nell’atmosfera e, di conseguenza, il clima. Questo cominciò a cambiare portando all’abbassamento delle temperature e, al contempo, all’aumento della siccità nel Mediterraneo. E di sicuro tutto ciò contribuì alla crisi della produttività agricola attestata nell’impero durante il III secolo. Alcune testimonianze, come quella di san Cipriano, vescovo di Cartagine, ne danno fede: «Devi sapere che il mondo è invecchiato e

CHRIS BRADLEY / AGE FOTOSTOCK

FRUTTI DEI CAMPI

SFGP / ALBUM

L’INVASIONE DEI BARBARI. OPERA DEL PITTORE SPAGNOLO ULPIANO CHECA. L’OLIO RICOSTRUISCE UN ATTACCO DEGLI UNNI GUIDATI DA ATTILA. 1887. MUSEO DEL PRADO, MADRID.


PALMIRA

La peste antonina che devastò l’impero nel II secolo d.C. ebbe origine in Oriente. Nell’immagine, l’arco di trionfo trionfo della città di Palmira, una prospera realtà commerciale della provincia romana della Siria.


LE CITTÀ, VIVAIO DI EPIDEMIE

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E MALATTIE CONTAGIOSE trova-

vano terreno fertile nelle città dell’impero romano, in particolare a causa dell’affollamento che regnava nei quartieri più popolari. L’alta concentrazione di abitanti comportava un accumulo di rifiuti e di acque residuali nelle strade. Non esisteva inoltre una vera e propria coscienza dell’igiene personale e collettiva; per esempio, era consuetudine recarsi presso i bagni pubblici per riprendersi dopo una malattia, e ciò rendeva tali luoghi centri di trasmissione di agenti patogeni. Tra le altre cose, nelle città arrivavano di continuo migranti provenienti dai campi e schiavi che non avevano anticorpi per difendersi dai germi locali, a differenza dei cittadini, che potevano invece averli sviluppati durante l’infanzia.

Il cammeo mostra probabilmente la cattura di Valeriano da parte del re sasanide Sapore I nella battaglia di Edessa, nel 260 d.C. Département des monnaies, médailles et antiques. Bibliothèque national de France, Parigi. BRIDGEMAN / ACI

62 HISTORIA NATIONAL GEOGRAPHIC

che non ha più quel vigore e quella forza sui quali prima poggiava [...] Non ci sono più così tante piogge in inverno per nutrire le sementi, non c’è più il solito calore in estate per fare maturare i frutti, né la primavera sorride più del suo bel clima, né l’autunno è così fecondo dei prodotti degli alberi». La crisi fu segnata da un altro flagello della natura: le epidemie. La loro proliferazione durante il III secolo d.C. fu, in un certo qual modo, il risultato dell’espansione romana. Difatti durante l’optimum climatico romano il mondo aveva sperimentato una notevole crescita economica e demografica, e si era sviluppata una rete di città densamente popolate e strettamente connesse tra di loro. La conseguenza negativa fu che così venne propiziata la diffusione di malattie contagiose. A questo proposito Harper afferma: «I densi habitat urbani, la trasformazione dei paesaggi e le fitte reti di col-

legamento dentro e fuori l’impero contribuirono a creare un’ecologia microbica unica». Alcune di queste malattie, come la tubercolosi, la lebbra o la malaria, si estendevano su scala limitata. Altre, invece, si convertirono in epidemie devastanti. Se in passato avevano avuto un’incidenza regionale e stagionale, dalla seconda metà del II secolo d.C. si originarono contagi che colpirono vaste regioni dell’impero con una veemenza fino ad allora sconosciuta.

Periodo di epidemie Va tenuto conto del fatto che i termini latini pestis e pestilentia erano usati nell’antichità per indicare qualsiasi tipo di malattia epidemica. In virtù di ciò, sappiamo che la prima grande epidemia che afflisse l’intero territorio dell’impero romano fu la peste antonina (165-180 d.C.). Sviluppatasi in Oriente, tale pestilenza flagellò il territorio dell’Urbe in diverse ondate, favorite dal ritorno dei legionari che combattevano in Persia al seguito dell’imperatore Lucio Vero. I picchi epidemici sono ben noti grazie alle descrizioni dei sintomi fornite dal celebre

PAOLO GIOCOSO / FOTOTECA 9X12

LA CATTURA DELL’IMPERATORE

BEAUX-ARTS, PARIS / RMN-GRAND PALAIS

TERME DI DIOCLEZIANO. ERETTE A ROMA AGLI INIZI DEL IV SECOLO. DISEGNO DEL 1885. ÉCOLE NATIONALE SUPÉRIEURE DES BEAUX-ARTS, PARIGI.


VIA APPIA

Durante la peste antonina morivano a Roma 2mila persone al giorno. I nobili venivano tumulati in grandi sepolcri accanto alle vie pubbliche, mentre i cadaveri dei poveri erano bruciati su enormi pire.


IL GERBILLO, IL VAIOLO E LA PESTE

GERBILLO DELLA MONGOLIA. DISEGNO DI HENRI E ALPHONSE MILNE-EDWARDS PER L’OPERA RECHERCHES POUR SERVIR À L’HISTOIRE NATURELLE DES MAMMIFÈRES. 1868.

Particolare dei bassorilievi che decorano il sarcofago romano. Vi è raffigurata una battaglia tra romani e barbari. III secolo d.C. Museo nazionale romano, Roma. L. RICCIARINI / BRIDGEMAN / ACI

medico Galeno Claudio, che fu costretto a recarsi a Roma dalla sua residenza vicino alla costa egea per assistere l’imperatore Marco Aurelio e la sua famiglia. Oggi si crede che la peste antonina fu in realtà un’infezione di vaiolo ed è statacalcolata una mortalità che rasenta il dieci per cento della popolazione: significa che portò alla morte di circa sette o 7,5 milioni di persone su un totale di circa settantacinque milioni. A metà del III secolo d.C.si verificò un nuovo episodio epidemico con il propagarsi della peste di Cipriano, così chiamata per via dello scrittore cartaginese cristiano prima menzionato, il quale ne lasciò una testimonianza dettagliata nell’opera De mortalitate (Sulla mortalità). Forse originatasi in Etiopia, si abbatté tra il 249 e il 269 d.C. in territori come l’Egitto, l’Oriente mediterraneo, l’Asia minore, la Grecia e l’Italia. Uno storico del V secolo, Paolo Orosio, dichiarava

in modo catastrofico: «Non c’è stata quasi provincia romana, né città o casa che non sia stata colpita e spogliata da questa pestilenza globale».

Ripresa imprevista La cosiddetta crisi del III secolo d.C., però, non comportò la fine dell’impero romano, che riuscì a riprendersi nel corso del secolo successivo. La “rinascita” è in genere associata alla figura di energici regnanti quali Costantino (306-337) e Teodosio (379-395), ma bisognerebbe anche tenere in considerazione la tregua climatica che visse l’impero in tale periodo. Kyle Harper individua come causa di questa relativa calma il fenomeno detto oscillazione nord atlantica, una fluttuazione tra zone di alta e bassa pressione atmosferica che provocò nel continente un sensibile incremento delle precipitazioni. Le condizioni meteorologiche divennero ancora più variabili, il che spiegherebbe l’alta frequenza di siccità e carestie registrate nell’area mediterranea. Ne è un esempio la carestia che patì la provincia della Cappadocia (nell’attuale

ADAM EASTLAND / ALAMY / ACI

SARCOFAGO LUDOVISI

SCALA, FIRENZE

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razie a branche come la paleopatologia e la paleomicrobiologia, la scienza ha permesso agli storici di capire meglio l’evoluzione delle malattie contagiose del passato. In base a questo tipo di analisi gli studiosi sono quindi riusciti a riconoscere un episodio di vaiolo dietro l’epidemia passata alla storia come peste antonina. Il focolaio iniziale proverrebbe da un passaggio da animali a uomini, verificatosi forse tramite il contatto con esemplari di gerbillo di Kemp, una specie di roditore che vive in ambienti aridi in un territorio esteso dalla Guinea all’Etiopia. Questo mammifero è l’unico portatore del virus taterapox virus, imparentato con quello del vaiolo del cammello. Entrambi sono i più vicini al virus variola major, responsabile della malattia nota come vaiolo.


ROVINE DI ROMA

In questa vista aerea del Foro si possono distinguere in primo piano la casa delle Vestali e sullo sfondo, i tre grandi archi della basilica di Massenzio, eretta nel IV secolo d.C.


MURA AURELIANE

Quest’ampia cintura difensiva che circondava la città di Roma fu fatta costruire da Aureliano. L’imperatore si ammalò mentre lottava contro i goti, nel 270 d.C., quando ebbe inizio un’epidemia mortale. ANDREA JEMOLO / AURIMAGES



LA MALARIA RESPINGE L’INVASORE

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ELL’ESTATE DEL 452 D.C. il re

unno Attila invase l’Italia settentrionale. Dopo aver preso Aquileia e aver messo a ferro e fuoco la regione transpadana, l’esercito unno si diresse incontrastato verso Roma. Davanti a una simile minaccia l’imperatore Valentiniano III e il senato mandarono una delegazione guidata dal papa Leone I Magno e da altri dignitari romani per evitare la presa della città. Secondo la tradizione, Attila ordinò la ritirata perché rimase profondamente colpito dalla figura del pontefice. Tuttavia altre fonti sostengono che tornò indietro per via di un’epidemia, forse di malaria, endemica delle pianure dell’Italia settentrionale. Insomma, in un momento di terribile rischio, Roma avrebbe potuto contare sulla protezione di un anello invisibile di germi.

ATTILA E IL SUO ESERCITO MARCIANO SULLA CITTÀ DI PARIGI, CHE , SI NARRA, FU SALVATA DA SANTA GENOVEFFA. AFFRESCO DI JULES-ÉLIE DELAUNAY. XIX SECOLO. PANTHEON, PARIGI.

BRIDGEMAN / ACI

Recto di un aureo coniato durante il governo di Romolo Augustolo, l’ultimo regnante dell’impero romano d’Occidente, deposto nel 476 d.C. British Museum, Londra. BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE

Turchia) negli anni 368 e 369 d.C., nota grazie alla testimonianza di Basilio Magno, vescovo di Cesarea dal 370, che nei suoi sermoni invitava a soccorrere i poveri, costretti a vendere i figli al mercato nero pur di procurarsi del cibo.

Rifugiati climatici Tuttavia il maggiore impatto di simili cambiamenti climatici si verificò al di là delle frontiere dell’impero romano. Un periodo di siccità prolungata nella steppa euroasiatica, dalle pianure dell’Ungheria fino alla Mongolia, influenzò notevolmente la vita dei pastori nomadi. Ed è a partire da quest’epoca che gli unni cominciano a fare la loro comparsa nelle fonti scritte, perché progressivamente si spostarono verso ovest. Si è sostenuto che, a causa della crisi ambientale, gli unni si trasformarono in rifugiati climatici alla ricerca di nuovi pascoli, spingendo così altri popoli nomadi del nord a trasferirsi verso le terre del dominio romano.

Epidemie e siccità furono perciò un fattore significativo, se non determinante, nel processo che portò alla caduta definitiva dell’impero romano d’Occidente nel 476 d.C. Di certo la conoscenza dei periodi climatici del passato non è completa, tanto più per una regione tanto estesa come fu il territorio dominato da Roma. E bisogna senz’altro evitare conclusioni deterministiche: la storia non si può spiegare con una variazione della temperatura o delle precipitazioni né per il semplice impatto delle epidemie, per quanto letali possano essere. Tuttavia, come sostiene Kyle Harper, la realtà dell’impero romano è un esempio del «primato dell’ambiente naturale nel destino di questa civiltà». JORGE PISA SÁNCHEZ STORICO

Per saperne di più

SAGGI

Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero Kyle Harper. Einaudi, Torino, 2019. L’ambiente nel mondo antico Lukas Thommen. Il Mulino, Bologna, 2014. La caduta dell’impero romano Giorgio Ravegnani. Il Mulino, Bologna, 2012.

GIUSEPPE DALL’ARCHE / FOTOTECA 9X12

L’ULTIMO IMPERATORE


CAPITALE IMPERIALE

Ravenna fu l’ultima capitale dell’impero romano d’Occidente: Flavio Onorio vi trasferì la corte nel 402. Nell’immagine, interno della basilica di San Vitale, consacrata nel 547.


LA PESTE DI CIPRIANO, UN’EPIDEMIA DIMENTICATA

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Alla metà del III secolo d.C. un’epidemia generatasi in Etiopia si diffuse praticamente in tutto l’impero romano. I testimoni suggeriscono che la causa fu un virus di origine animale.

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L’IMPERO ROMANO: FINE DEL IV SECOLO. LUOGHI COLPITI DALLA PESTE DI CIPRIANO.

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ra la peste antonina, scoppiata tra il 165 e il 180 e quella di Giustiniano, che decimò la popolazione tra il 541 e il 549, il mondo occidentale patì un’altra piaga dalle conseguenze ugualmente devastanti: la cosiddetta peste di Cipriano. I cronisti dell’antichità la descrissero come un terribile flagello. Lo storico

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Giordane assicurava: «Distrusse l’intera faccia della terra». Un altro storico, Zosimo, descrisse così gli effetti: «Afflisse città e villaggi e distrusse quanto rimaneva dell’umanità: nessuna piaga precedente aveva seminato tanta distruzione nella vita umana». Numerose testimonianze dirette hanno permesso agli studiosi di ricostruire

Secondo Cipriano, la pestilenza provocava «un fuoco che inizia nelle parti più profonde [...] gli occhi bruciano [...] si resta ciechi»

CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM

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il viaggio dell’epidemia. Secondo quanto appurato, il morbo ebbe probabilmente origine in Etiopia e avanzò lungo il Nilo sino a giungere ad Alessandria nel 249 d.C. Da lì, a causa degli scambi commerciali di questa città, si diffuse


PESTE A ROMA

Nell’olio di Jules-Élie Delaunay compare una scena di un’epidemia a Roma, sulla base della leggenda di san Sebastiano, nel III secolo. 1869. Musée d’Orsay, Parigi.

che diede il nome alla pestilenza, fornisce un resoconto dettagliato dei sintomi: «Un fuoco che inizia nelle parti più profonde sale e brucia le ferite nella gola; gli intestini si scuotono a causa di un perpetuo vomitare; gli occhi bruciano per la pressione del sangue; ad alcuni, l’infezione della putrefazione mortale mozza i piedi o altre estremità; e mentre prevale la debolezza per i fallimenti e le perdite dei corpi, si paralizza il passo si perde l’udito si resta ciechi».

ALBUM

Un filovirus del III secolo

rapidamente tramite strade e rotte marittime fino a luoghi come Cartagine, Antiochia e la stessa Roma, colpita nel 251. Forse si trattò di un contagio che coinvolse in maggiore o minore misura tutti i territori dell’impero. I casi do-

cumentati suggeriscono inoltre che l’epidemia poté prolungarsi per più di un decennio, o che si manifestò in più ondate. Il grande interrogativo riguarda la natura stessa della malattia. Cipriano, il vescovo di Cartagine

Kyle Harper ha provato ad associare tali sintomi disastrosi a malattie epidemiche attive all’epoca. A una a una, è riuscito a scartare le ipotesi di peste bubbonica, tifo, colera, morbillo o vaiolo. Secondo lo studioso, i sintomi descritti da Cipriano somigliano invece a una terribile febbre pandemica causata probabilmente da virus trasmessi da animali. Restringendo a poco a poco il ventaglio di possibilità, Harper individua una forma di febbre emorragica virale che avrebbe tre possibili patogeni: un flavivirus, diffuso dalle zanzare; un arenavirus, contagiato dai roditori, o un filovirus, simile all’ebola, ospitato dai pipistrelli. Lo storico statunitense crede che quest’ultimo sia il più probabile.


LA SALA DELL’ARMONIA SUPREMA

Posto a circa 30 metri sopra il livello della piazza, l’edificio è uno dei più importanti della Città Proibita di Pechino. Al suo interno si trova il trono del Drago, dove sedeva l’imperatore, o figlio del Cielo. AGE FOTOSTOCK

LA CITTÀ PROIBITA

IL PALAZZO DEL FIGLIO DEL CIELO


Dal XV secolo fino alla caduta dell’impero, nel 1911, gli imperatori cinesi vissero in una vasta area di palazzi situata nel centro di Pechino. In teoria chiusa ai visitatori, la Città Proibita comprendeva numerosi edifici, templi e residenze riservate al sovrano, alle concubine e ai servitori più fedeli


LA CITTÀ PROIBITA

I tre ideogrammi indicano il nome ufficiale del complesso imperiale di Pechino: Zijincheng.

C R O N O LO G I A

NUCLEO POLITICO DELLA CINA 74 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

formare una figura identica all’ideogramma zhong , il quinto punto cardinale cinese, che rappresenta il centro. Collocando il trono proprio nel punto centrale della figura, l’imperatore si trasformava così simbolicamente nel nucleo dell’universo, nel vertice della gerarchia sociale e naturale intorno alla quale ruotava tutto l’impero. Il complesso venne eretto come una casa, affinché soddisfacesse i bisogni del sovrano cinese come imperatore e regnante. Le stanze private si trovavano a nord e vi potevano accedere solo donne ed eunuchi. Si trattava di uno spazio destinato ai piaceri del corpo, dove concubine ed eunuchi esercitavano la propria influenza. A sud erano invece ubicati i luoghi dell’amministrazione: qui l’imperatore concedeva udienze e governava la Cina assieme a ministri e ufficiali, suddivisi e “inquadrati” secondo il protocollo. In questa zona avvenivano gli scambi con il mondo esterno e si dispiegava in maniera stupefacente il simbolismo della corte imperiale cinese, di cui l’architettura era scenario di fondo per l’esibizione del potere dell’imperatore.

Cerimonie e rituali Per la tradizione imperiale cinese, il monarca era l’unico abitante della Città Proibita, dove viveva insieme alle sue spose e concubine. I sudditi, rappresentati da ufficiali e nobili, erano invece concepiti quali semplici visitatori. Tale distinzione era fondamentale nelle cerimonie ufficiali di cui era protagonista l’imperatore, come l’ascesa al trono, le

1406-1420

1644

1772-1777

1890

1912

Yongle fa costruire la Città Proibita grazie a un milione di lavoratori coatti.

I manciù del nord-est della Cina saccheggiano Pechino e fondano la dinastia Qing.

Nella parte nord-ovest della Città Proibita Qianlong fa innalzare più edifici per il suo ristoro.

Durante la Seconda guerra dell’oppio, le forze anglofrancesi controllano il complesso.

L’ultimo imperatore, Pu Yi, abdica. La Città Proibita non è più il centro politico del Paese.

FINE ART / ALBUM

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a Città Proibita, detta anche Città Purpurea, centro simbolico e politico della Cina tra il 1420 e il 1911, si trova nel cuore di Beijing, Pechino. Costruita da Yongle, terzo imperatore Ming (1403-1424), ha mura imponenti che delimitano un’ampia superficie di circa 72mila metri quadrati, arricchita da palazzi, giardini e sale. Qui vissero e governarono ventiquattro imperatori, quattordici della dinastia Ming (1368-1644) e dieci della dinastia Qing (1644-1911). Tra il 1406 e il 1420 circa 100mila artigiani e un milione di lavoratori coatti lavorarono senza sosta per erigere il complesso. Le mura, alte otto metri e delimitate da un fossato d’acqua ampio cinquanta, costituiscono un rettangolo lungo 960 metri e largo 750. Organizzato secondo i precetti del feng shui (la disciplina artistica e spirituale cinese di disporre oggetti ed edifici in un determinato modo così da incanalare le energie positive), il complesso fu costruito in un ordine rigorosamente simmetrico per imitare l’equilibrio dell’universo. L’insieme si basava su 9.999 jian, un termine cinese che si riferiva all’intercolunnio, il vano delimitato da quattro colonne lignee su cui posava il tetto a padiglione. La Città Proibita è dotata di 9.999 stanze e mezza. D’altro canto, in Cina questo è un numero di buon auspicio, legato all’imperatore perché ha una pronuncia identica alla parola cinese “eterno”. I locali più importanti della Città Proibita si distribuiscono lungo un asse verticale di 960 metri che taglia simmetricamente la muraglia rettangolare. In tal modo si viene a


IL PALAZZO IMPERIALE MING

Questa pittura su seta rappresenta la residenza imperiale eretta dalla dinastia Ming nel XV secolo. Vi compaiono i numerosi edifici che la componevano. Museo di Nanchino.


Qianlong, imperatore della dinastia Qing. Regnò fino al 1795, quando decise di abdicare in favore del figlio Jiaqing.

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grandi udienze, il compleanno e l’emanazione di decreti. Tutti gli eventi seguivano una stessa formula rituale. Mentre il regnante si recava nella sala o porta dove avrebbe avuto luogo la funzione, gli ufficiali e i nobili dovevano compiere un viaggio verso il cuore del complesso in rigido ordine gerarchico, superando porte e ponti in base al rango, per poi andare a occupare il posto che gli spettava nel patio a sud dell’imperatore, che rimaneva a nord. Una simile disposizione geografica risponde a un’antica tradizione cinese secondo la quale chi è a settentrione e volge lo sguardo a sud ha una posizione superiore, e chi si trova all’interno di un edificio o in un locale soprelevato è più importante di chi è fuori o sotto. Queste asimmetrie spaziali vennero traslate nell’architettura della Città Proibita, dove il sovrano si disponeva sempre all’interno di una porta, o torre, o in una sala in alto, a nord, con lo sguardo diretto verso meridione. I sudditi, invece, rimanevano esposti alle intemperie, nei cortili aperti a sud, contemplando dal basso i palazzi e quindi il loro sovrano. Le descrizioni storiche delle commemorazioni imperiali testimoniano in modo affidabile come venisse riprodotto l’ordine sociale stabilito dal protocollo. I presenti si riunivano

L’importanza del trono L’imperatore doveva assistere alle cerimonie più importanti, ma quando non era presente il trono del Drago era oggetto di venerazione quanto lui. Allo stesso modo, se il monarca emanava un editto, il suo seggio veniva trasportato con la medesima pompa con cui era condotto il sovrano. Ogni rito sottolineava così la sacralità di un particolare modo d’intendere il mondo, con l’imperatore al centro e i sudditi sottomessi in base alla gerarchie, e rafforzava inoltre il modello delle relazioni sociali che i cinesi avevano organizzato attorno alla figura imperiale. Il modello architettonico della Città Proibita servì da scenario fondamentale per simili spettacoli imperiali, rafforzando perciò il potere dell’imperatore quale istituzione. VERÓNICA WALKER VADILLO UNIVERSITÀ DI HELSINKI

Per saperne di più

SAGGI

La Cina Jessica Harrison-Hall. Einaudi, Torino, 2018. TESTI

Il Milione Marco Polo. BUR, Milano, 2020. LIBRI PER RAGAZZI

Cacciatori di tesori. La città proibita James Patterson, Chris Grabenstein. Salani, Milano, 2017.

MIRKO KUZMANOVIC / ALAMY / ACI

BRIDGEMAN / ACI

IL FIGLIO DEL CIELO

all’alba nella sala dell’Armonia suprema e nel patio esterno. Sui gradini delle scale si schieravano i familiari dell’imperatore in base al grado di vicinanza al sovrano, e anche loro dovevano volgersi a nord, mentre gli ufficiali militari e i civili formavano delle file nel cortile esterno in base al rango, e indirizzavano il viso a settentrione. Il perno della cerimonia era il trono. Qui ognuno dei partecipanti era separato dal monarca in base alla prossimità politica, geografica o di parentela. Pure l’imperatore doveva rispettare le formalità e giungere al trono preceduto da un corteo; era inoltre abbigliato con i vestiti imperiali decorati con il drago. Una volta che tutti erano al loro posto, i presenti s’inginocchiavano tre volte e, ogni volta, omaggiavano l’imperatore toccando tre volte il suolo con la testa.


LA TORRE NORD-OVEST

La Città Proibita è circondata da una muraglia di quasi otto metri di altezza. A ogni angolo s’innalza un’elegante torre di splendida fattura. Nell’immagine, la torre nord-ovest.


ATTRAVERSO LA CITTÀ PROIBITA Nelle pagine seguenti sono mostrate le sei tappe principali di un possibile percorso nella Città Proibita di Pechino, dall’ingresso per la porta di Mezzogiorno fino alla porta settentrionale, passando per le tre grandi sale cerimoniali del mezzo e il giardino imperiale.

3 Le tre sale cerimoniali

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Il fiume dalle Acque dorate e la porta dell’Armonia

1

La porta di Mezzogiorno

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2 1

Strada che conduce alla porta della Rettitudine (Duanmen) e alla porta della Pace celeste (Tienanmen).


Asse centrale

Giardino imperiale

1  Porta di Mezzogiorno 2  Fiume dalle Acque dorate 3  Porta dell’Armonia suprema 4  Sala dell’Armonia suprema 5  Sala dell’Armonia perfetta 6  Sala della Preservazione dell’armonia 7  Porta della Purezza celeste 8  Palazzo della Purezza celeste 9  Sala dell’Unione

5

Il giardino imperiale

4

Il salone del Trono

Sala della Pace imperiale Porta della Divina potenza Laterali Locali degli eunuchi Sala del Nutrimento dello spirito Palazzi delle Concubine imperiali Sala della Gloria letteraria Palazzo della Longevità tranquilla

Palazzo della Pace terrestre

Porta della Prosperità occidentale

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La porta della Divina potenza

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ILLUSTRAZIONE: SOL 90 / ALBUM. MAPPA: NG MAPS


LA CIT TÀ PROIBITA

L A PORTA DI MEZZOGIORNO ALTA QUASI 40 METRI, la porta di Mezzogior-

no, Wumen in cinese, è un’imponente costruzione che da meridione consente l’accesso alla Città Proibita. Ubicato sull’asse centrale del complesso, l’edificio è più una torre che una semplice porta, e ha due bracci laterali ispirati alle torri (que), una tipologia di edificio impiegata per decorare l’ingresso di palazzi, templi e tombe dalla dinastia Zhou (XI-III secolo a.C.). La parte centrale misura circa 60 metri di larghezza ed è sormontata da un padiglione a doppio tetto coperto di tegole smaltate. A ogni estremità c’erano due campane e tamburi. Quando l’imperatore saliva verso l’altare del Cielo, all’interno del recinto della corte esterna, rintoccavano le campane, mentre i tamburi si univano durante le cerimonie più importanti, celebrate nella sala dell’Armonia suprema. Tra le cinque porte che permettevano di entrare nel complesso, quella centrale era riservata unicamente al monarca. Si faceva un’eccezione solo per l’imperatrice al momento delle nozze e per omaggiare i tre laureati del concorso imperiale nel giorno della loro ammissione. L’imperatore rivolgeva i suoi proclami da questa porta.

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L’INGRESSO PRINCIPALE

Quella di Mezzogiorno è la porta principale del complesso della Città Proibita. In questo punto la muraglia che circonda il palazzo raggiunge un’altezza di 13 metri. XIAOLEI WU / ALAMY / ACI


LA CIT TÀ PROIBITA

IL FIUME DALLE ACQUE DORATE

Il canale, detto Jin Shi He, svolgeva, tra le altre, una funzione magica: fare da barriera di protezione davanti alla porta dell’Armonia. TRAVEL PIX / AWL IMAGES

IL FIUME DALLE ACQUE DORATE, NELLA CITTÀ PROIBITA.

IL FIUME E LA PORTA DELL’ARMONIA

SHUTTERSTOCK

VALICATA LA PORTA MERIDIONALE si accedeva a un patio aperto attraversato da ovest a est dal fiume dalle Acque dorate. Dall’altra parte rimaneva gran parte del fossato e la struttura della porta dell’Armonia imperiale. Secondo i millenari principi del feng shui, una monta82 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC


L A CIUDAD PROHIBIDA

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Un leone dall’aspetto fiero si erge a ogni lato delle scale che portano al padiglione del lato settentrionale.

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LEONE DI BRONZO

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incarnano cinque raggi di tali principi, che il potere imperiale emana verso il mondo. Come ogni elemento della Città Proibita, oltre al valore simbolico, i ponti erano connessi alla gerarchia sociale: quello centrale poteva essere percorso solo dall’imperatore; i due accanto dalla famiglia reale e i laterali dagli ufficiali di corte.

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gna – rappresentata dalla porta monumentale – dev’essere preceduta da un elemento acquatico. Per questo motivo venne scavato un fiume serpeggiante che entra nella città da nord-ovest ed esce da sud-est. Ai piedi della porta dell’Armonia imperiale il fiume ha la forma di un arco mongolo, interrotto da cinque ponti. Ognuno di questi simbolizza una virtù del confucianesimo alla quale i sudditi si dovevano attenere: benevolenza (ren), onestà (yi), conoscenza (zhi), integrità (xin) e rito appropriato (li). I cinque ponti


LA CIT TÀ PROIBITA

LE TRE SALE CERIMONIALI AL CENTRO della Città Proibita, su una terrazza di marmo bianco suddivisa in tre livelli, s’innalzano gli edifici più importanti del complesso: la sala dell’Armonia suprema, la sala dell’Armonia perfetta e la sala della Preservazione dell’armonia. Ognuno di essi era ricoperto da tetti in luminose tegole smaltate gialle, il colore imperiale, ed era dotato di un trono da cui l’imperatore assisteva a cerimonie, udienze e rituali. Il più importante dei tre spazi è la sala dell’Armonia suprema, dove si ergeva imponente il trono del Drago. L’intero edificio era decorato con immagini di quest’animale mitologico, simbolo dell’imperatore, e al suo interno si svolgevano gli eventi più importanti. Le cerimonie di minore rilevanza, come gli omaggi al sovrano o la disamina di documenti imperiali, si tenevano di solito nella sala dell’Armonia perfetta, un edificio più piccolo ma più illuminato. La sala della Preservazione dell’armonia, il cui nome alludeva al compito imperiale di favorire l’armonia sotto il cielo, era usata affinché il monarca indossasse le vesti imperiali durante il periodo Ming, mentre in quello Qing era teatro di banchetti per capi di stato, nobili e ministri d’alto rango.

3

VETRINA IMPERIALE

SHUTTERSTOCK

Davanti alla sala dell’Armonia suprema, collocata su una triplice terrazza in marmo, si apre un’immensa piazza, il più grande spazio aperto della Città Proibita.

84 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC


Il numero di animali mitologici disposti sul tetto indica la categoria dell’edificio. Questa sala ne ha dieci, il massimo, posti accanto a un drago e a un essere che cavalca una gallina.

Nel marzo 1889 il ministero dei riti organizzò un grande evento per annunciare le nozze dell’imperatore Guangxu e della sua promessa sposa. Il matrimonio era già stato celebrato tre giorni prima nel palazzo della Pace terrestre. Dall’alba i funzionari civili e militari, con vestiti di gala e bandiere, parasoli e ventagli circolari, occuparono la terrazza davanti alla sala dell’Armonia suprema. In questa si trovava il monarca, seduto su un trono soprelevato. Da qui partiva il “cammino imperiale”, una strada centrale coperta da un tappeto di lana che solo il regnante poteva percorrere, generalmente sulla portantina. La cerimonia terminò quando alcuni funzionari lessero il proclama del matrimonio dalla porta di Tienanmen.

UNO DEI 18 INCENSIERI DI BRONZO COLLOCATI NELLA TERRAZZA DELLA SALA DELL’ARMONIA SUPREMA. XV SECOLO. AKG / ALBUM

ILLUSTRAZIONE: BRUCE MORSER / NATIONAL GEOGRAPHIC IMAGE COLLECTION

NOZZE IMPERIALI NELLA CITTÀ PROIBITA


LA CIT TÀ PROIBITA

L A DIMOR A DEL TRONO COLLOCATO NELLA SALA dell’Armonia suprema,

durante i cinque secoli in cui venne utilizzato, il trono del Drago fu senza dubbio l’elemento più importante della Città Proibita. Nel corso della storia della Cina il drago è stato spesso usato come simbolo imperiale. Ne è prova la decorazione del trono stesso, in cui sono rappresentate queste creature mitologiche sbalzate in oro e con intarsi di pietre preziose. Cinque draghi compaiono sullo schienale e rappresentano i cinque elementi. Dietro di loro figura un pannello con altri nove animali, simbolo dell’eternità. Proprio sopra, su un tetto finemente ornato, appare un altro drago acciambellato che nelle fauci tiene una grande perla di metallo. Noto come specchio Xuanyuan, raffigura il mitico primo imperatore, Qin Shihuang, il protettore del trono, di cui si diceva che avrebbe fatto cadere la perla sugli usurpatori. Quando un regnante, fasciato nelle vesti cerimoniali insignite con l’emblema del drago, sedeva sul trono, il risultato della loro fusione diventava il cuore dell’intero mondo civilizzato. L’identificazione della Cina come centro dell’universo si riflette nel nome stesso del Paese, Zhongguo, che si traduce come Paese di mezzo.

QUEST’INTRICATO PANNELLO DI MARMO CON LA RAFFIGURAZIONE DI UN DRAGO SI TROVA DAVANTI AL PALAZZO DELLA PUREZZA CELESTE. SULLO SFONDO SI SCORGE L’OMONIMA PORTA. 86 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

SHUTTERSTOCK

ALAMY / ACI

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IL TRONO DEL DRAGO

Il trono è intagliato in legno di palissandro laccato di giallo, e vi si accede salendo sette gradini. Dietro compare un grande paravento in legno scolpito, con cinque pannelli articolati, che proteggeva l’imperatore dalle influenze malefiche del nord.


LA CIT TÀ PROIBITA

IL GIARDINO IMPERIALE ridotte, sparsi in un giardino artificiale con piante di bambù, cipressi e pini, il giardino imperiale è situato a nord del complesso della Città Proibita. Venne costruito nel XV secolo, durante il governo dell’imperatore Yongle, per il sovrano e la moglie. Poco a poco venne ampliato fino a occupare 12mila metri quadrati. Al centro del giardino venne eretta la sala della Pace imperiale, un tempio taoista, l’unico presente nell’asse principale della Città Proibita, in cui gli imperatori Ming si esercitavano in arti come l’alchimia o la divinazione. La sala principale era dedicata a Zhenwu (anche scritto Xuanwu), un potente dio guerriero del taoismo associato ai concetti di nord e di acqua. Sotto la dinastia Qing i

PADIGLIONE DELLE DIECIMILA PRIMAVERE

È una delle molte costruzioni di questo tipo presenti nel giardino imperiale della Città Proibita. È identica al padiglione dei Mille autunni.

ALAMY / ACI

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regnanti usavano invece il luogo per venerare le divinità taoiste durante il festeggiamento del nuovo anno lunare e per celebrare ulteriori ricorrenze. Un altro degli edifici salienti del giardino imperiale è il padiglione della Neve cremisi, il cui nome pittoresco ed evocativo si riferisce agli alberi che lo circondano (philadelphus pekinensis): quando fioriscono, in primavera, i petali ondeggianti nel vento sembrano neve che cade. La sua bellezza venne particolarmente apprezzata dagli imperatori Kangxi (1662-1722) e Qianlong (1736-1795), che vi si recavano per comporre poesie.

PORTA DELLA PACE TERRESTRE

Permette l’accesso al giardino imperiale, un luogo in cui rilassarsi in mezzo alla rigogliosa vegetazione tra alberi, rocce, aiuole fiorite, colline artificiali, padiglioni e terrazze. 88 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

COWARD LION / ALAMY / ACI

DOTATO DI NUMEROSI padiglioni di dimensioni



LA CIT TÀ PROIBITA

L A PORTA DELL A DIVINA POTENZA COSTRUITA NEL 1420, la porta della Divina po-

tenza è l’accesso posteriore del palazzo ed era impiegata solo dai lavoratori e dalle donne che venivano presentate all’imperatore come concubine. Assieme ai quasi 50mila eunuchi incaricati di salvaguardare la legittimità della successione imperiale, le concubine erano le uniche altre abitanti del complesso. Venivano selezionate quali xiunu (donne eleganti), anche se il criterio di tale scelta cambiò nel tempo. Durante la dinastia Ming erano escluse solo le donne sposate o quelle con deformità fisiche, mentre nel XVII secolo i Qing decisero di limitare la selezione a donne provenienti dalla Manciuria e dalla Mongolia. Accompagnate da genitori o parenti, le giovani erano condotte alla porta della Divina potenza così da poter essere ispezionate. Meno di cento candidate superavano la prima valutazione,e qui imparavano a dipingere, leggere, scrivere, danzare e giocare a scacchi, nonché a comportarsi in modo appropriato. Le più brave servivano poi la madre dell’imperatore prima di diventare concubine imperiali. Nessuna poteva uscire dalla zona settentrionale del palazzo, e chi dava un figlio al monarca poteva aspirare al titolo di consorte imperiale.

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L’USCITA DEL PALAZZO IMPERIALE

Dietro il giardino imperiale s’innalza questa porta, o torre, monumentale che risponde al nome di porta della Divina potenza. È l’ingresso posteriore della Città Proibita, oggi usato come uscita principale. SHUTTERSTOCK


IL DURBAR DI DELHI

Questo variopinto olio dell’artista statunitense Roderick D. MacKenzie ricostruisce il durbar, o assemblea imperiale, tenutosi nel 1903 a Delhi per celebrare la successione di Edoardo VII come imperatore dell’India. BRIDGEMAN / ACI


INDIA

la perla dell’impero britannico Dopo il 1858 migliaia di britannici iniziarono a recarsi annualmente nella colonia più preziosa dell’impero per fare carriera come militari, funzionari o commercianti


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IL MARAGIÀ DI PATIALA, SUO FIGLIO E L’UFFICIALE BRITANNICO J.R. DUNLOP SMITH. FOTOGRAFIA SCATTATA NEL 1902.

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li inglesi arrivarono in India già nel XVI secolo, attratti dal commercio delle spezie. Alla fine del 1600 i mercanti diedero vita alla Compagnia delle Indie orientali, una società che non solo fondò fabbriche e centri di commercio lungo le coste, ma si dotò anche di un proprio esercito. Dopo la vittoria sul nawab – nababbo – del Bengala e i suoi alleati francesi nella battaglia di Plassey del 1757, la Compagnia intraprese un processo di espansione tramite una combinazione di guerre e alleanze con i principi locali. Ciò le consentì di ottenere il controllo su un vasto territorio che va dall’attuale Afghanistan alla Birmania. La grande rivolta del

C R O N O LO G I A

LE TAPPE DEL RAJ BRITANNICO

94 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

1858

1857 minacciò la presenza stessa degli inglesi in territorio indiano. Una volta soffocata nel sangue la ribellione, il governo britannico decise di assumere il controllo diretto del Paese. Nacque così il cosiddetto raj britannico (il termine indiano raj significa “governo”), chiamato anche “impero” a partire dal momento in cui la regina Vittoria fu incoronata imperatrice dell’India nel 1876. La grande sfida del raj era come governare una popolazione immensa – che al suo apice raggiunse i 315 milioni di abitanti – con un contingente britannico che rappresentò sempre una piccola minoranza di non più di 150mila persone. Il merito è in gran parte di Warren Hastings, che aveva ideato un siste-

In seguito alla rivolta dei sepoy del 1857 viene istituito il raj, il governo coloniale britannico, che comprende gli attuali territori di India, Pakistan, Birmania e Bangladesh.

1876

La regina Vittoria viene proclamata imperatrice dell’India su richiesta del suo primo ministro, Benjamin Disraeli. Il titolo sarà mantenuto fino al regno di Giorgio VI.

1886

CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM. FOTO: BRIDGEMAN / ACI

BRIDGEMAN / ACI

L’Alta Birmania, un vasto territorio con una popolazione di 4 milioni di abitanti, entra a far parte del raj britannico, che raggiunge così la sua massima estensione.


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1899-1905

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Colonia portoghese Colonia francese Residenze estive Capitali dell’India Dominio britannico nel 1858 Stati indiani sotto protezione britannica nel 1858

COLOMBO

Lord Curzon, governatore dell’India, promuove una serie di riforme amministrative che provocano l’opposizione del nascente movimento nazionalista indiano.

1947

Gli inglesi lasciano l’India ponendo fine al raj. Dopo un grave conflitto civile il territorio viene definitivamente diviso in due nuovi stati: il Pakistan e l’Unione indiana.

LA REGINA VITTORIA E IL SUO SEGRETARIO MOHAMMED ABDUL KARIM NEL CASTELLO DI BALMORAL. 1900 CIRCA.


ma amministrativo basato sui funzionari ai tempi della Compagnia delle Indie orientali. I funzionari provenivano dalle migliori scuole della Gran Bretagna, avevano studiato a Oxford o a Cambridge, e arrivavano in India con aspettative di esotismo, lauti stipendi e potere sulla popolazione nativa. Il prezzo da pagare era, in molti casi, l’isolamento del luogo di lavoro e, soprattutto, i rigori del clima. Nel subcontinente indiano c’erano tre stagioni: una fresca, una calda e una piovosa. Alla fine della stagione fresca, a metà marzo, si verificava un esodo di massa del personale di governo verso gli altipiani per sfuggire al «caldo torrido, alla febbre cerebrale, alle insolazioni, alla polvere e alla malaria», secondo le parole dello scrittore Francis Yeats-Brown. Con i funzionari si trasferivano le mogli, i bambini e gli anziani, per i quali il clima caldo delle pianure era ELMETTO PER IL SERVIZIO MILITARE IN INDIA APPARTENUTO AL PRINCIPE DI GALLES. 1901. NATIONAL ARMY MUSEUM, LONDRA. 96 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

CUOCO NATIVO

In India gli inglesi avevano al loro servizio cuochi locali. A sinistra, una fotografia colorata dell’inizio del XX secolo.

RELAX TRA LE PALME

ORONOZ / ALBUM

IL CUOCO era un inserviente di particolare importanza nell’impero. Ogni residenza britannica aveva il suo chef locale, che preparava i piatti tradizionali indiani. Molti di questi sarebbero entrati a far parte della cucina inglese, come la zuppa di lenticchie mulligatawny, il kedgeree (un riso con pesce e uova servito di solito a colazione) o il chutney (la salsa che lo accompagnava). Si faceva abbondante uso del curry, una miscela di spezie in cui predomina la curcuma. A volte i cuochi cercavano di replicare le ricette inglesi, ma la carne disponibile si limitava al montone e al pollo, e andava mangiata immediatamente per ragioni sanitarie, quindi era sempre dura.

Questa giovane in abito edoardiano riposa tra le palme davanti al suo bungalow. Fotografia scattata nel 1911.

un fattore di stress insopportabile. I britannici costruirono centinaia di hill stations – dei villaggi sparsi sulle colline di ogni distretto e dotati di tutte le comodità. Le stazioni più famose erano Simla (dove si trovava il palazzo estivo del viceré), Nainital, Mussoorie e Darjeeling sull’Himalaya, e Ootacamund sui monti Nilgiri, nel sud del Paese.

La vita in un bungalow Gli inglesi adottarono un tipo di abitazione adatto al clima indiano: il bungalow, uno spazio caratterizzato da ampie stanze con i soffitti alti e una copertura vegetale che si estendeva anche sull’ampio balcone che contornava l’intero edificio. In assenza di aria condizionata si ricorreva al punkah, un grande ventaglio appeso al soffitto della stanza principale azionato dal punkawallah, un inserviente che non mancava nelle case britanniche del raj, dove il basso prezzo della manodopera permetteva di assumere una o due decine di camerieri. Nel caso di famiglie con figli, un’aya (tata) si prendeva cura dei bambini e gli insegnava la lingua nativa, che spesso veniva appresa prima dell’inglese stesso. Cresciuti in un ambiente semiselvaggio, i piccoli trascorrevano

SSPL / GETTY IMAGES

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BRIDGEMAN / ACI

UN TOCCO DI CURRY



le vacanze di Natale nella giungla facendo safari a dorso di elefante, schiacciando millepiedi con i sandali o cacciando scimmie. La vita quotidiana dei fanciulli prevedeva la colazione in veranda, una cavalcata intorno alla residenza, i giochi in giardino, il pranzo, un sonnellino e un po’ di studio prima di ricominciare a giocare in casa, dove al posto del cane era buona usanza tenere una mangusta per proteggersi dai serpenti. Prima o poi questo paradiso dell’infanzia sarebbe finito. Nelle sue memorie del 1909 la scrittrice Maud Diver avvertiva: «Dopo il quinto compleanno, quanto prima il bambino lasci l’India meglio sarà per il suo futuro benessere». La mancanza di scuole e università di alto livello in territorio indiano implicava che i ragazzi venissero mandati a proseguire gli studi in Gran Bretagna. Il momento della separazione

HERITAGE / ALBUM

L’INTERNO DI UNA SALA DI FORTE FATEHGARH, UN IMPORTANTE POSTO MILITARE NELLA PROVINCIA DELL’UTTAR PRADESH. 1902.

svolgeva spesso un ruolo centrale nel determinare il carattere indipendente di alcuni giovani che, una volta tornati in India al termine della loro formazione, avrebbero cominciato subito a lavorare ricevendo incarichi di grande responsabilità e assumendo sulle loro spalle il controllo di vasti distretti. L’inizio delle piogge alla fine dell’estate era un sollievo, ma solo momentaneo. I temporali potevano durare anche due mesi e la costante umidità provocava non solo infiltrazioni e proliferazioni d’insetti, ma anche infezioni cutanee e malattie associate alla contaminazione dell’acqua.

Viaggi e corteggiamenti Verso settembre od ottobre, gli inglesi tornavano in pianura. Era allora che arrivava la cosiddetta fishing fleet (flotta da pesca), navi cariche di ragazze inglesi che speravano di trovare marito tra i sahib (signori) celibi dell’amministrazione o dell’esercito. La stagione fresca era anche il momento migliore per muoversi: poliziotti, missionari, soldati, mercanti e ispettori giravano il Paese al passo lento di carri trainati da buoi, cammelli o

GANESHA, IL DIO DALLA TESTA DI ELEFANTE FIGLIO DI SHIVA. XIX SECOLO. MUSÉE GUIMET, PARIGI. THIERRY OLIVIER / RMN-GRAND PALAIS


BOMBAY INTORNO AL 1900

Questa fotografia scattata tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo mostra l’atmosfera intorno alla stazione ferroviaria Chhatrapati Shivaji, originariamente Victoria Terminus, a Bombay (attuale Mumbai). ALAMY / ACI



COMMERCIANTI INDIANI

Il raj cercò di fare dell’India un mercato riservato alle merci britanniche. Nella foto, commercianti in una strada di Ambala, 200 km a nord di Delhi, intorno al 1900. LEBRECHT / BRIDGEMAN / ACI


BRIDGEMAN / ACI

FUNZIONARIO BRITANNICO ASSISTITO DAI SUOI INSERVIENTI INDIANI, UNO DEI QUALI AZIONA UN PUNKAH, O VENTAGLIO, PER MEZZO DI UNA RUOTA. LITOGRAFIA A COLORI DEL 1860.

elefanti. Anni più tardi la ferrovia avrebbe consentito di spostarsi più rapidamente e in maniera più comoda da una zona all’altra. Il rapporto degli inglesi con i nativi era permeato di razzismo. Yeats-Brown descriveva gli indiani come «gente stanca, generalmente accovacciata sui talloni accanto a falò di sterco». I colonizzatori non capivano la società indiana, con il suo rigido sistema di caste e la sua religione politeista così diversa dai dogmi cristiani che molti di loro professavano ardentemente. Eppure alcuni missionari seppero avvicinarsi alla realtà della popolazione nativa. Ne fu un esempio William Carey che, oltre a svolgere un ruolo importante nella diffusione della conoscenza delle lingue locali, si batté per la soppressione della sati, la pratica che prevedeva che le vedove venissero bruciate vive sulle pire funerarie dei mariti. Anche altri britannici mostrarono un genuino interesse per la lingua e la cultura native e si sforzarono di promuoverne lo

sviluppo. Fu il caso di Flora Annie Steel, una scrittrice molto legata alla regione del Punjab che sollecitò riforme del sistema educativo e s’interessò ai costumi dell’India. Maud Diver, da parte sua, elogiava i matrimoni misti come un modo per unire oriente e occidente e superare così il pregiudizio contro gli anglo-indiani, i meticci che occupavano il gradino più basso della scala sociale britannica in India. Ma se c’è uno scrittore associato al raj è senza dubbio Rudyard Kipling. Figlio di un professore e curatore d’arte la cui carriera si era interamente svolta in India, Kipling nacque a Bombay nel 1865, studiò in Inghilterra e tornò in India a lavorare sette anni come giornalista. Anche se successivamente si stabilì in Europa, nelle sue opere raccontò il mondo indiano come lo vedevano i suoi compatrioti britannici, mescolando il fascino dell’esotico, il gusto dell’avventura e la giustificazione del dominio imperiale.

L’importanza del club Quando volevano rilassarsi e socializzare con i loro pari, gli inglesi – sia civili sia militari – andavano al club. Nel suo roman-

COLONNELLO JAMES SKINNER, FIGLIO DI UN BRITANNICO E DI UN’INDIANA. 1836. BRIDGEMAN / ACI


LA FORZA DELLA SCIABOLA

Il maggiore William Stephen Raikes Hodson, al centro della foto, fu un comandante di cavalleria che ebbe un ruolo importante nella repressione della rivolta indiana del 1857. PETER NEWARK / BRIDGEMAN / ACI



IL PORTALE DELL’INDIA

Questo spettacolare arco di trionfo di 26 metri di altezza fu eretto a Bombay nel 1911, in occasione della visita di re Giorgio V e di sua moglie, la regina Maria. WALTER BIBIKOW / AWL IMAGES


IL BRACCIO ARMATO DELL’IMPERO

ALTA UNIFORME

Soldato vestito con l’uniforme di artiglieria e il caratteristico casco alto delle truppe del raj britannico. Incisione del XIX secolo.

L’ESERCITO e l’amministrazione civile erano le

PRESS

Un giovane principe di Galles, futuro Edoardo VIII, partecipa a una battuta di caccia a dorso di elefante durante un viaggio in Nepal (19211922).

cutta club e il Bengal club. Al di fuori di questi ritrovi, le attività principali erano l’equitazione e la caccia. Si usciva a cavalcare per lo più al mattino presto, quando il sole non bruciava ancora. La caccia, o shikar, si faceva con cani e cavalli per i coyote, con lance per i maiali selvatici o a dorso di elefante e con fucili per le tigri.

Tigri e pantere Proprio quest’ultima era una delle favorite dei viceré e degli alti funzionari, e le battute potevano concludersi con la cattura di centinaia di esemplari. La conseguente scarsità di tigri fece sì che continuarono a essere cacciate solo negli stati principeschi, per il divertimento del maragià e dei suoi ospiti. Nel resto dell’India ci furono alcuni inglesi, come Jim Corbett o Kenneth Anderson, che divennero shikari professionisti, dediti alla caccia di tigri e pantere. Nelle zone più remote del raj, dove la vita sociale dei club e i loro intrattenimenti erano impossibili, potevano apparire poi figure stravaganti. Ad esempio, si racconta di un solitario coltivatore di tè delle monta-

GIOCATORI DI POLO. INCISIONE PUBBLICATA DALL’ILLUSTRATED LONDON NEWS IL 17 GIUGNO 1893. BRIDGEMAN / ACI

SPENCER ARNOLD COLLECTION / GETTY IMAGES

zo Giorni in Birmania George Orwell definì questi spazi come «la fortezza spirituale, il vero centro del potere britannico». E non a torto: i club erano il nucleo sociale attorno a cui ruotava la vita del raj, e ogni città ne aveva almeno uno. L’esercizio fisico era considerato essenziale per aiutare a sopportare il caldo, e fu questa originariamente la funzione dei club. Vi si poteva praticare il polo (un gioco di origine persiana che gli inglesi appresero nelle corti principesche dell’India del XIX secolo), il nuoto, il golf, lo squash e il tennis. Questi ritrovi erano di solito dotati anche di una biblioteca, un bar, dei giardini e delle sale da ballo. Raramente si accettavano membri indiani, quindi erano spazi tipicamente britannici dove le donne, o memsahib, si riunivano per chiacchierare e gli uomini per dedicarsi a competizioni sportive, bere gin tonic o whisky e soda e chiacchierare. I più noti erano il Punjab club, il Cal-

LA CACCIA ALLA TIGRE

ALAMY / CORDON

colonne portanti che permettevano al governo del raj di controllare l’intero subcontinente. La vita dei militari si svolgeva in caserma con il loro reggimento. Il clima torrido faceva sì che i loro movimenti si riducessero a qualche parata al mattino e un po’ di sport nel pomeriggio. Gli scenari dell’azione militare erano concentrati sul confine nord-occidentale con l’Afghanistan, dove le lotte tra tribù locali costringevano di tanto in tanto a effettuare qualche spedizione punitiva. Un cartello all’uscita di Landi Kotal, vicino al passo Khyber, avvertiva dei pericoli presenti dall’altra parte: «Abbandoni ogni speranza chi attraversa questa porta», recitava, a imitazione dei versi danteschi. Il racconto di Kipling L’uomo che volle farsi re rievoca molto bene questo mondo.



IL PONTE SUL FIUME SUTLEJ

Questa fotografia colorata della fine del XIX o inizi del XX secolo mostra il ponte ferroviario sul fiume Sutlej, nel Punjab.

EDIFICIO DEL SEGRETARIATO

ALAMY / ACI

Architettura eclettica Il prestigio britannico in India fu mantenuto anche tramite la costruzione di edifici emblematici nelle grandi città. Sebbene Aldous Huxley descrivesse l’architettura di Bombay (oggi Mumbai) come «una congerie di spropositi architettonici», la città possiede alcuni degli edifici più imponenti del cosiddetto stile indo-saraceno, una fusione di architettura britannica e moghul di cui sono buoni esempi il tribunale di Madras, l’edificio del segretariato di Nuova Delhi, il Victoria Memorial di Calcutta e la stazione ferroviaria Chhatrapati Shivaji di Mumbai. Proprio in questa città si trova il portale 108 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

dell’India, un monumentale arco di trionfo costruito per commemorare l’arrivo di re Giorgio V nel 1911, la prima volta che un imperatore dell’India britannica sbarcò sul suolo indiano. All’inizio del XX secolo il raj mostrava già segni di debolezza. Nacquero diversi movimenti che rivendicavano una maggiore autonomia per i territori dell’impero; agli indiani fu permesso di entrare nell’amministrazione e di avere una presenza crescente nel governo, ma le campagne di disobbedienza civile promosse da Gandhi e la Seconda guerra mondiale fecero precipitare gli eventi. Il grande merito del raj fu quello di aver tenuto unita l’India. Ma quando nel 1948 le ultime truppe britanniche lasciarono il Paese sfilando sotto il portale di Mumbai, il gioiello della Corona si ritrovò inevitabilmente diviso in due nuove realtà: India e Pakistan. JORDI CANAL-SOLER GIORNALISTA

Per saperne di più

SAGGI

Storia dell’India Michelguglielmo Torri. Laterza, Roma-Bari, 2007. Storia e cultura dell’India Radhakamal Mukerjee. Ghibli, Milano, 2016.

ALEX ROBINSON / AWL IMAGES

gne dell’Assam che, per impressionare i suoi servi, si vestiva in frac ogni sera per cena; o di un coltivatore di canna da zucchero che ogni mattina ispezionava i suoi campi a cavallo vestito come se andasse alla caccia alla volpe; o di un mercante che teneva un cobra in ufficio per scoraggiare i ladri. Gli inglesi erano consapevoli di governare il Paese perché considerati migliori dei nativi, quindi dovevano mantenere il loro prestigio a ogni costo, anche se ciò richiedeva qualche dimostrazione di eccentricità.

Eretto a Nuova Delhi, fu progettato dall’architetto Herbert Baker nel 1912. Oggi è la sede del ministero della difesa indiano.



LA MORTE DI NAPOLEONE AGONIA A SANT’ELENA

I problemi allo stomaco di cui soffriva da anni Napoleone Bonaparte si aggravarono appena venne confinato nell’isola di Sant’Elena. L’errata terapia dei medici ne accelerò la morte, avvenuta quando l’ex imperatore aveva 51 anni


LA FINE DELL’IMPERATORE

Il cadavere di Napoleone giace sul suo letto a Sant’Elena. Sul corpo sono adagiati il bicorno, una sciabola e la decorazione della Legione d’onore, istituita dall’imperatore stesso nel 1802. Fondation Napoléon, Parigi. PHOTO 12 / GETTY IMAGES


BRIDGEMAN/ ACI

Longwood

L’ISOLA IN MEZZO ALL’OCEANO

Sopra queste righe, cartina di Sant’Elena nel XIX secolo, con indicata la proprietà di Longwood in cui viveva Napoleone. A destra, panorama dell’isola dall’alto.

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ella vita di Isola di Napoleone Sant’Elena Bonaparte non erano mai mancati i problemi di salute: già da giovane veniva descritto come magro e malaticcio. Era però riuscito a schivare le minacce più pericolose, la peste bubbonica e il tifo durante il soggiorno e la successiva ritirata dall’Egitto, né gli avevano lasciato strascichi le due gravi ferite inferte a Tolone nel 1793 e a Ratisbona nel 1809. Ma nel 1812 la campagna in Russia era stata l’origine di una tosse acuta e di problemi urinari: durante la battaglia di Borodino Napoleone era afono e febbricitante, e dovette comandarla senza poter cavalcare. Non solo: dal 1808 iniziò a soffrire di forti spasmi allo stomaco che diventarono sempre più fre-

UWE MOSER / GETTY IMAGES

Jamestown

quenti. Nel 1813 le coliche epatiche e i dolori gastrici lo colsero mentre infuriava la battaglia di Lipsia. Gli specialisti odierni ritengono che Napoleone soffrisse di gastrite cronica degenerata poi in un’ulcera allo stomaco. La malattia si sarebbe inasprita a tal punto da causarne la morte a cinquantun anni. All’indomani della battaglia di Waterloo, ovvero alla fine dei tre lustri in cui era stato padrone della Francia e dell’Europa, Napoleone era ormai stremato sia nel fisico sia nel morale. Benché prigioniero dei britannici, sembra che durante il trasferimento in Inghil-

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C R O N O LO G I A

SCONFITTA, ESILIO E MORTE 112 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Sconfitto nella battaglia di Waterloo il 18 giugno e costretto ad abdicare quattro giorni dopo, Napoleone s’imbarca per andare in esilio a Sant’Elena, nell’Atlantico centro-meridionale.

CAMBIER / RMN-GRAND PALAIS

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L’imperatore e il suo seguito arrivano a Sant’Elena e si stabiliscono a Longwood, una magione fredda e umida in cui Napoleone trascorre gli ultimi anni, mentre la sua salute si logora.

CORAZZA USATA DA UN GENDARME FRANCESE A WATERLOO.


SENZA VIA DI FUGA

SANT’ELENA, LA SCELTA MIGLIORE

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opo Waterloo il governo britannico decise di confinare lo sconfitto Napoleone in una piccola isola dell’Atlantico centro-meridionale che dal XVII secolo era un punto di sosta per la Compagnia britannica delle Indie orientali. Il capitano James Cook vi transitò al ritorno dai viaggi nel Pacifico, nel 1771 e nel 1775, e la descrisse così: «Quest’isola lunga dodici miglia e larga sei non presenta in lontananza che un ammasso confuso di scogli circondati da precipizi, ove indizio non scorgesi di vegetazione». Secondo le autorità britanniche, l’isolamento geografico di Sant’Elena avrebbe impedito a Napoleone di turbare nuovamente la pace europea, come aveva fatto dopo la prima abdicazione, nel 1814, quando si era stabilito sull’isola d’Elba. Gli inglesi commentavano con crudele ironia che non si sarebbe potuto lamentare di quel posto dal “clima salubre”, dove avrebbe vissuto in tutta libertà.

A Sant’Elena Dopo una traversata di una settantina di giorni, la nave su cui viaggiava Napoleone assieme a quattro tra i militari e i ministri che avevano deciso di accompagnarlo, e due loro mogli, giunse a Sant’Elena il 16 ottobre 1815.

I primi due anni Bonaparte tollerò abbastanza bene il clima dell’isola, più mite grazie agli alisei di sud-est. Tuttavia l’altopiano su cui si trovava Longwood, la proprietà dove venne relegato, era piuttosto inospitale. Il prigioniero si sarebbe in seguito lamentato dei bruschi cambiamenti di temperatura e delle frequenti piogge. Con il passare dei mesi la forma fisica e l’umore di Napoleone peggiorarono. Mise su peso, le gambe presero a gonfiarsi

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La salute di Napoleone, già provata, si aggrava sempre di più, finché l’ex imperatore muore dopo diversi giorni d’agonia. Il 9 maggio verrà sepolto sull’isola.

Le ceneri di Napoleone sono collocate a Les Invalides di Parigi con tutti gli onori, in una cerimonia affollata. Si compiono le sue ultime volontà, di riposare «in mezzo al popolo francese».

TEMPO PER RICORDARE

Napoleone a Sant’Elena. Olio di Oscar Rex. Musée national des châteaux de Malmaison & Bois-Préau.

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RMN-GRAND PALAIS

terra avesse ripreso le forze e il buon umore. Un ufficiale inglese ebbe a commentare: «Senz’ombra di dubbio ha un volto migliore di quando è arrivato [...] È sereno». Napoleone ignorava che i suoi nemici avevano deciso di deportarlo in un’isoletta sperduta dell’Atlantico centro-meridionale.


GLI UOMINI DELL’IMPERATORE

LONGWOOD. LA RESIDENZA DI NAPOLEONE A SANT’ELENA ERA UNA CASA SIGNORILE CON UN TERRENO DI 20 CHILOMETRI QUADRATI, NEI QUALI POTEVA CIRCOLARE LIBERAMENTE.

BRIDGEMAN

/ ACI

MEMORIE DELL’IMPERATORE A SANT’ELENA Sotto queste righe, Napoleone detta le sue memorie al generale Gourgaud. Particolare di un olio di Charles de Steuben. XIX secolo. Collezione privata.

e soffriva spesso di catarro. Ebbe pure degli ascessi gengivali, forse dovuti a un attacco di scorbuto, e per la prima volta gli fu estratto un dente. Nei giorni negativi, quando non riusciva a dormire bene, se ne rimaneva chiuso nella sua stanza, e nel pomeriggio solo i bagni caldi gli davano qualche conforto. La vita intellettuale, intensa nei primi due anni, ebbe una battuta d’arresto. Secondo Las Cases, un ufficiale che l’aveva seguito a Sant’Elena e che più tardi avrebbe pubblicato i dialoghi scambiati con l’ex imperatore, Napoleone non avrebbe più recuperato lo stesso livello d’attenzione né il medesimo spirito d’iniziativa. Alternava momenti d’abbattimento, di malinconia mista ad amarezza ad altri di speranza non appena giungeva una qualche notizia dall’Europa, giacché ancora fantasticava su una sorta d’indulto. Il comportamento del suo carceriere, il governatore britannico dell’isola Hudson Lowe, l’innervosiva, come pure le scaramucce della corte riunita attorno a lui, un microcosmo pieno d’ invidie e odio. Dopo l’espulsione di Las Cases ci fu un nuovo e più duro colpo: la partenza, nel marzo 1818, del generale Gourgaud che, malgrado il carattere irritabile e la scarsa diplomazia, rimaneva il più fedele tra i fedeli all’ex imperatore. Come se non bastasse, nel 1819 i suoi problemi di salute resero necessaria la pre-

EMILIE CAMBIER / RMN-GRAND PALAIS

ALAMY / ACI

Napoleone osserva il porto di Jamestown, a Sant’Elena, assieme ai membri del suo seguito. Litografia. Musée de l’Armée, Parigi.

senza di un medico. A Sant’Elena ce n’erano diversi, militari e destinati alla guarnigione di più di 1.500 uomini. Lowe poteva anche autorizzarli a prendersi cura di Napoleone, ma quest’ultimo non si fidava e li rifiutò. Prima d’imbarcarsi per Sant’Elena aveva chiesto di essere accompagnato dal dottor Maingault, che l’aveva curato dopo la sua abdicazione, ma i britannici non avevano concesso la loro autorizzazione e l’ex imperatore si era dovuto accontentare di un chirurgo irlandese che aveva conosciuto nel viaggio da Rochefort a Plymouth: Barry Edward O’Meara. Il giovane parlava francese e italiano e ammirava Napoleone. Alloggiava a Longwood e si guadagnò ben presto la fiducia di Bonaparte, anche se al contempo era forse un informatore di Hudson Lowe. Alla fine diventò un intralcio e fu espulso nel gennaio 1818.

Errore nella diagnosi Medico non troppo abile, O’Meara lasciò dietro di sé una diagnosi sbagliata che avrebbe avuto conseguenze fatali. Secondo lui il


ALBINE DE MONTHOLON

L’ULTIMA AVVENTURA

ALBINE DE MONTHOLON. RITRATTO DI WILLIAM-ADOLPHE BOUGUEREAU.

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ALAMY / ACI

apoleone si dilettò della compagnia di Albine de Montholon, sposa del suo compagno fidato, il conte di Montholon. Alla ristretta corte di Longwood se ne parlò molto, e alcuni assicuravano che tra i due ci fosse una relazione intima. Il mistero ha affascinato non pochi autori e si è perfino attribuita a Napoleone la paternità di Joséphine Napoléone de Montholon, nata il 26 gennaio 1818. Non è ormai facile capire se ciò corrispondesse a verità; non ci sono dubbi, però, sul fatto che la partenza da Sant’Elena di Albine e della bimba, il primo luglio 1819, intristì enormemente l’imperatore, e da quel momento la sua salute peggiorò notevolmente.

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UNA SERIE DI MEDICI MEDIOCRI Durante l’esilio l’imperatore finì nelle mani di dottori come il giovane Francesco Antommarchi, mandato dalla famiglia Bonaparte alla fine del 1819. Sotto, valigetta del chirurgo còrso a Sant’Elena. Musée de l’Armée, Parigi.

paziente soffriva di un’epatite cronica e, prima di abbandonare Sant’Elena, condivise tale diagnosi con i colleghi. Uno di loro era il chirurgo navale John Stokoe. Il 17 gennaio 1819, dopo che Napoleone aveva lamentato un terribile dolore al costato destro e dopo che era svenuto per una fortissima emicrania, Stokoe, credendo a un caso d’epatite, gli prescrisse mercurio e sali di Cheltenham (solfato di sodio, solfato di magnesio e sale comune), rimedi assolutamente sconsigliati per l’ulcera che in realtà lo affliggeva.

Sempre più debole

RMN

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L’ex imperatore sopravvisse al trattamento. Si mise a dieta, faceva spesso bagni caldi e si applicava clisteri. Riponeva grandi aspettative nell’arrivo di un medico francese scelto dalla madre e dallo zio, il cardinale Fesch. E così, nel settembre 1819, si presentò a Longwood il giovane Francesco Antommarchi, trentenne, anatomista di formazione e poco professionale. Era però còrso, e a Napoleone piaceva la compagnia dei suoi compaesani. Antommarchi era un uomo intrigante e presuntuoso che trascorreva più tempo a Jamestown, dietro alle gonnelle, che a Longwood.

AFP / GETTY IMAGES

PASCAL SEGRETTE / RMN-GRAND PALAIS

TENDA DA CAMPO. NELL’ESILIO DORMIVA SUL SUO LETTO DA CAMPO. MUSÉE DE L’ARMÉE, PARIGI.

Ovviamente confermò la diagnosi di epatite. Con ogni evidenza, le nuove medicine promosse in Francia da Bichat e Corvisart – quest’ultimo, medico personale dell’imperatore per diversi anni – non erano giunte a Sant’Elena, e lo testimoniano i farmaci che, in teoria, avrebbero dovuto guarire Napoleone: emetici per provocare il vomito, chinina, pasticche di rabarbaro, oppio e, come ultima risorsa, pillole di calomelano (cloruro mercuroso), che, se assunto in dosi concentrate, si trasformava in un veleno mortale per qualsiasi persona affetta da ulcera gastrica. Alla fine del 1820 Napoleone era sempre più debole. Il 5 dicembre un membro del suo seguito, il conte di Montholon, scrisse alla moglie: «La malattia dell’imperatore è peggiorata [...] Gli si sente a malapena il polso. Le gengive, le labbra e le unghie hanno perso colore. Ha i piedi e le gambe sempre avvolti nella flanella e in pezzuole calde, eppure sono freddi come il ghiaccio». Dal canto suo, il medico era incapace di porre rimedio alle sofferenze del suo paziente, che se ne rese finalmente conto,


LA SALA DA PRANZO DELL’ESILIATO

Una stanza della residenza di Napoleone a Longwood decorata con elementi dell’epoca.

LA CRONACA DELL’AGONIA

TESTIMONI DELLA MORTE

HENRI-GATIEN BERTRAND RIMASE CON NAPOLEONE FIN DALL’INVASIONE DELL’EGITTO. RITRATTO DI PAUL DELAROCHE. CHÂTEAUX DE MALMAISON & BOIS-PRÉAU.

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FRANCK RAUX / RMN-GRAND PALAIS

memorialisti della cattività di Napoleone a Sant’Elena non mancano, ma gli unici rimasti a testimoniare l’agonia dell’ex imperatore furono Bertrand e Montholon. Le loro memorie, unite a quelle di Antommarchi e del mamelucco Saint-Denis (detto Ali), risultano le fonti principali su quegli ultimi giorni. Sebbene i resoconti concordino negli aspetti essenziali, divergono su alcuni punti. Bertrand scrisse ogni giorno alcune note, difficili però da decifrare, mentre Montholon compilò le memorie in un secondo momento e a volte si limitò a copiare testi precedenti. Anche Ali si espresse diverso tempo dopo, e il resoconto di Antommarchi, che mirava a giustificare il proprio operato risulta poco attendibile.

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AGENCE BULLOZ / RMN-GRAND PALAIS

affermando: «Antommarchi è un ignorante». Più avanti, gli sputò in faccia che gli avrebbe lasciato venti franchi purché comprasse una corda e ci s’impiccasse... Hudson Lowe giocò un ruolo decisivo nel deterioramento delle condizioni di Napoleone. Per molto tempo non aveva preso sul serio i problemi di salute del prigioniero, giacché lo considerava un bugiardo. Secondo lui, Napoleone si lagnava solo per sfuggire alla prigionia, che voleva abbreviare con il pretesto del clima ostile. Tuttavia, dal momento che il governatore era responsabile dello stato di salute di Bonaparte, la sua morte prematura l’avrebbe potuto porre in una situazione scomoda.

ANDRÉ MARTI

N / RMN-GRAND

PALAIS

Ultime volontà In ultima istanza Lowe mandò quindi il migliore medico dell’isola, il dottor Archibald Arnott, che subito rifiutò la diagnosi dei colleghi: Napoleone soffriva di ulcera gastrica, non di epatite. Sfortunatamente era troppo tardi – era il primo aprile 1821 – e Arnott non aveva alcun rimedio da offrire. La febbre non lasciò più Napoleone, ormai costretto a letto. Dopo i pasti, che si limitavano a brodo e carne tritata, spesso vomitava e a partire del 13 aprile concentrò le ultime forze per dettare il

GÉRARD BLOT / RMN-GRAND PALAIS

LA MASCHERA MORTUARIA DI NAPOLEONE Poiché non si riusciva a trovare del gesso di buona qualità, si tardò due giorni per realizzare la maschera dell’imperatore defunto. Ormai i tratti del volto erano quasi irriconoscibili. Musée du château de Malmaison.

PRIMO CODICILLO. MANOSCRITTO CON LE ULTIME VOLONTÀ DI NAPOLEONE, DEL 16 APRILE 1821.

lungo testamento e vari codicilli. Il compito richiese dieci giorni e sarebbe stato essenziale per i posteri. Nel preambolo Napoleone dichiarava di morire «in seno alla religione cattolica, apostolica e romana», una formula comune, inevitabile, ma opposta alle sue credenze, che oscillavano tra un vago deismo e il puro ateismo. Dopo chiedeva: «Io desidero che le mie ceneri riposino in riva alla Senna, in mezzo al popolo francese che tanto ho amato», affermazione di certo più sincera. Seguivano formule di “riconoscimento”ai membri della famiglia; a Eugenio e Ortensia, figli della prima moglie, Giuseppina di Beauharnais; alla seconda moglie, Maria Luisa d’Austria, e ancor più al figlio di entrambi, investito alla nascita del titolo di re di Roma. Era allora un bambino di dieci anni che sarebbe morto di tubercolosi a ventuno. Veniva poi il turno di chi gli aveva voltato le spalle e l’aveva tradito: Marmont, Augereau, Talleyrand... Infine se la prendeva con l’«oligarchia inglese» e «il suo sicario» (Hudson Lowe), che l’avevano «assassinato» con quell’esilio insopportabile.


TEORIA SENZA FONDAMENTO

IN CERCA DI VELENO

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entinaia di autori hanno attribuito la morte “prematura” di Napoleone all’avvelenamento, in particolare all’arsenico. Le oltre 70 analisi effettuate sui capelli dell’imperatore hanno rivelato elevate concentrazioni di tale sostanza, ma la stessa proporzione è stata rinvenuta pure sui capelli del figlio e della prima moglie, Giuseppina, di cui nessuno sostiene la tesi dell’avvelenamento. I potenziali sospettati sono Hudson Lowe e Montholon. L’inglese non aveva però alcun interesse a eliminare il prigioniero, perché avrebbe così potuto rovinare la propria carriera. Quanto a Montholon, l’avventura che forse l’imperatore aveva avuto con la moglie non sembra un motivo sufficiente per assassinarlo. Lo specialista Pierre Branda ha concluso che non è scientificamente possibile dimostrare l’intossicazione e che, in caso fosse avvenuta, ne sarebbero responsabili i medici.

Per quanto forti, le parole di Napoleone vanno intese come denuncia del trattamento che l’aveva lentamente ucciso e non, come si fece poi, quale prova della sua uccisione da parte dei carcerieri britannici.

Agonia e morte Gli ultimi giorni furono un vero e proprio martirio. Il 27 aprile ebbe giusto la forza di sigillare il testamento con la ceralacca. Non si rimise più in piedi. Delirava, non mangiava, aveva un singhiozzo persistente. Ad Arnott e Antommarchi, che cercavano di sentire ogni sua parola, mormorò: «Sembra che dopo non ci sia nulla». Il 3 maggio i due gli somministrarono dieci granuli di calomelano, una dose letale che provocò la morte dell’ex imperatore il 5 maggio alle 17:49. Il giorno dopo sei medici inglesi e Antommarchi eseguirono l’autopsia. Non fu difficile scoprire l’organo danneggiato: lo stomaco. Ci fu comunque un dibattito, perché i dottori dubitavano tra ulcera e cancro. Antommarchi si rifiutò di firmare l’atto. Per la sepoltura,

Lowe assecondò l’ultimo desiderio di Napoleone, che voleva un’inumazione provvisoria a Hutt’s Gate, una piccola valle con una fonte d’acqua. Il cadavere venne posto all’interno di quattro bare, una dentro l’altra, e alla fine delle messa fu portato su un carro funebre scortato da soldati, che gli resero omaggio. Diciannove anni dopo una spedizione ufficiale riportò in Francia le spoglie di Napoleone. Dopo una fastosa cerimonia, il 15 dicembre 1840 fu deposto nella cripta dell’Hôtel des Invalides, a Parigi. Si realizzava il suo ultimo desiderio: riposare in mezzo ai suoi amati francesi.

MORTE DELL’IMPERATORE

Nel 1828 Charles de Steuben evocò la morte di Napoleone Bonaparte, avvenuta il 5 maggio 1821. A tale scopo si basò su molti colloqui con chi era allora presente, le stesse persone poi raffigurate nel suo quadro.

JEAN-JOËL BRÉGEON STORICO

Per saperne di più

SAGGI

La caduta di Napoleone Stefan Zweig. Garzanti, Milano, 2021. Ei fu. La morte di Napoleone Vittorio Criscuolo. Il Mulino, Bologna, 2021. Napoleone in venti parole Ernesto Ferrero. Einaudi, Torino, 2021. L’ultima stanza di Napoleone Luigi Mascilli Migliorini. Salerno, Roma, 2021.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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PROCESSIONE FUNEBRE DI NAPOLEONE, RIPRODOTTA IN UN’ACQUAFORTE CONSERVATA NELLA BIBLIOTECA NAZIONALE DI PARIGI.


il 9 maggio 1821, quattro giorni dopo la morte di Napoleone, ebbe luogo la sepoltura. È Francesco Antommarchi a descrivere l’evento. Precedeva tutti l’abate Vignali, vestito a messa, e seguito da due medici, tra i quali lo stesso Antommarchi. Era poi il turno del carro funebre, con il feretro coperto da un manto di velluto porpora e il cappotto che Napoleone aveva indossato nella battaglia di Marengo. Veniva scortato dai conti Bertrand e Montholon, nonché dal cavallo di Bonaparte, tenuto dal domatore Archambaud. Dopo altri membri della cerchia, avanzavano su un calesse la contessa Bertrand e la figlia. A chiudere il corteo ufficiali a piedi e a cavallo. L’acquaforte mostra il passaggio della processione, diretta verso la tomba, e rappresenta anche gli abitanti di Sant’Elena e le truppe britanniche, schierati a salutare l’ex imperatore.

FINE ART IMAGES / AGE FOTOSTOCK

IL CORTEO FUNEBRE


GRANDI SCOPERTE

La Nan Hai-1, una nave affondata nella Cina del sud Nel 1987 al largo della costa meridonale cinese è stato localizzato il relitto di una nave del XII secolo carica di porcellana e altre merci

CINA

Nan Hai-1

HONG KONG

Mar cinese meridionale

I limiti tecnologici dell’epoca e la mancanza d’investimenti hanno ritardato l’inizio del progetto di recupero dell’imbarcazione, che è stato avviato solo nel 2000. Per l’occasione l’area degli scavi è stata messa sotto sorveglianza dalle forze navali cinesi e per evitare visite indesiderate dei pescatori locali è stata diffusa la voce che sott’acqua ci fossero degli ordigni della Seconda guerra mondiale. La Nan Hai-1 misurava 30,4 metri di lunghezza, 9,8 di larghezza e quattro di al-

tezza (escluso l’albero). Trasportava circa ottocento tonnellate, quando la sua capacità di carico non doveva superare le quattrocento. La nave, con le sue preziose mercanzie, naufragò al largo della località cantonese di Yangjiang, circa venti miglia nautiche a sud del porto di Dongping. CARICO della Nan Hai-1 in mostra presso l’apposita struttura del Museo della via della seta marittima di Hailing Island, nel Guangdong.

Recupero complesso L’operazione di recupero ha dovuto affrontare numerose difficoltà, tra cui la scarsa visibilità subacquea e le condizioni meteorologiche avverse della zona. Inoltre, l’accumulo di sedimenti intorno al relitto obbligava a velocizzare il processo di scavo per evitare che i resti venissero subito ricoperti da nuovi detriti. Nel 2002 è stato proposto per la prima volta un piano di recupero e di protezione

ALAMY / ACI

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el 1987 la società britannica Maritime Exploration collaborava con la Guangzhou Salvage, un’azienda cinese, alla ricerca di una nave della Compagnia britannica delle Indie orientali affondata vicino a Hong Kong, quando i ricercatori hanno scoperto per caso il relitto di un’altra imbarcazione che trasportava ingenti quantità di oro, argento e porcellana cinese. Un primo esame ha confermato che si trattava di una nave affondata nel XII secolo. Sotto uno strato di fango spesso due metri, i resti dello scafo e il carico erano ancora in discrete condizioni. Dopo la scoperta il relitto è stato battezzato Nan Hai-1 in quanto si trattava della prima nave rinvenuta nel Nan Hai, il mar Cinese Meridionale.

integrale dell’Nan Hai-1. L’ambizioso progetto consisteva nell’utilizzare un cassone metallico, una specie di cassaforte, per avvolgere completamente il relitto sul fondale marino. Si trattava

CRONOLOGIA

XII secolo

1987

2002

2007

IL DIFFICILE RECUPERO DI UNA NAVE

Una nave carica di preziose porcellane e altre merci di lusso affonda nel mar Cinese Meridionale.

Un’azienda britannica e una cinese trovano sui fondali il relitto della Nan Hai-1.

Si propone di usare un cassone di metallo per sollevare il relitto e recuperarlo dal fondale marino.

Iniziano gli scavi del fondale attorno alla nave, che in seguito viene esposta a Guangdong.

122 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC


IN FONDO AL MARE IN EPOCA SONG la marina cinese navigava sul-

Gli scavi attorno alla Nan Hai-1 sono iniziati nell’aprile del 2007. La squadra archeologica ha confermato la topografia del fondale marino dove si trovava il relitto con metodi manuali e tramite un sonar a scansione laterale. In un raggio compreso tra uno e quattro metri intorno alla nave sono stati localizzati numerosi manufatti, direttamente trasferiti al museo per essere sottoposti a specifiche misure di protezione. Tra

NAN HAI-1. RIPRODUZIONE REALIZZATA NEL 2014. MUSEO DELLA VIA DELLA SETA MARITTIMA DI HAILING ISLAND, NEL GUANGDONG.

di una struttura in acciaio che avrebbe dovuto svolgere la funzione di un guscio protettivo. L’operazione è stata suddivisa in quattro fasi. Innanzitutto bisognava ripulire la zona circostante al sito, quindi calare in acqua il cassone metallico e successivamente montarne il fondo, facendolo scivolare al di sotto del relitto. A quel punto la struttura metallica sarebbe stata tirata su e il suo contenuto trasferito in un museo del Guangdong.

la giunca, dotata di uno scafo rettangolare e governata da un timone a dritto di poppa. Il sistema di vele era molto efficiente e la parte interna e più bassa – la sentina – era divisa in compartimenti stagni con delle paratie. Le misure abituali erano quelle della Nan Hai-1.

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MUSEO DELLA VIA DELLA SETA MARITTIMA DI HAILING ISLAND, NEL GUANGDONG.

GRANDI SCOPERTE

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FASI DEL RECUPERO. 1. Calo del cassone. 2. Posizionamento dei blocchi di cemento per farlo penetrare nel fondale. 3. La parte superiore viene assicurata con delle catene. 4. Il cassone viene sollevato con l’ausilio di un’imbarcazione semisommergibile.

questi oggetti c’erano svariati lingotti d’argento di differenti dimensioni, per un peso totale di 290 chili.

Estrazione difficile

MUSEO MARITTIMO DELLA VIA DELLA SETA, GUANGDONG

Il passo successivo è stato la posa del cassone metallico, un’enorme struttura d’acciaio di trentacinque metri di lunghezza, quattor-

124 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

dici di larghezza e dodici di altezza, progettato in modo da offrire una grande resistenza alla deformazione. Per immergere il cassone è stata utilizzata una grande gru e sono stati collocati dei sensori elettronici sul fondale marino che permettessero di posizionarlo esattamente sopra il giacimento.

Ma per il successo dell’operazione non era sufficiente depositarlo sulla superficie sabbiosa: era necessario che penetrasse nel fondale marino per arrivare allo stesso livello di profondità dello scafo della nave. A questo scopo la gru ha collocato degli enormi blocchi di cemento di un

RESTI DELLA NAN HAI-1 PRIMA DEL RECUPERO.

peso tra le trecento e le cinquecento tonnellate sopra la struttura, in modo da spingerla fino alla profondità richiesta, circa cinque metri. Poi si è proceduto a ripulire il fango attorno al cassone e a installare una base, così da trasformare l’insieme in una cassa chiusa su tutti i lati e sollevabile in superficie. Infine i sommozzatori hanno inserito delle travi metalliche attraverso i trentasei fori presenti nella parte inferiore dei lati lunghi, creando il fondo del cassone. Al termine dell’operazione la gru ha finalmente potuto issare dal fondale


Oro, argento e porcellana La Nan Hai-1 affondò mentre trasportava un carico enorme e prezioso, poi rimasto sui fondali per centinaia di anni. La maggior parte degli oggetti è costituita da porcellane e ceramiche; fino a oggi sono stati recuperati circa 180mila pezzi.

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2.

1.

1. Ciotola di porcellana nera prodotta a Jian’ou (Fujian).

marino la struttura con i resti della Nan Hai-1 al suo interno. A dicembre il cassone di quasi 5.600 tonnellate è stato trasferito al Museo della via della seta marittima. Lì il relitto è stato collocato in un gigantesco “contenitore” riempito di acqua per conservarlo nelle stesse condizioni del ritrovamento. L’interesse principale del recupero della Nan Hai-1 però risiede nel carico che trasportava. Nel 2002 gli archeologi avevano già effettuato uno scavo preliminare che aveva permesso di recuperare migliaia di manufatti. Dopo il trasferi-

2. Braccialetti

di bronzo rinvenuti nel 1987.

3. Monete

cinesi di bronzo di epoca Song.

mento del relitto al museo, i ricercatori hanno potuto portare a termine un’analisi esaustiva delle merci recuperate.

Un carico prezioso La maggior parte degli oggetti trovati all’interno della Nan Hai-1 è costituita da porcellane della dinastia Song del Sud, che regnò sulla Cina tra il 960 e il 1279. Dopo che l’imbarcazione è affondata, con il trascorrere del tempo i preziosi oggetti sono stati ricoperti da sedimenti che li hanno protetti dall’erosione dell’acqua marina. Il resto dei materiali rinvenuti

4. Collana d’oro trovata durante la campagna del 1987.

all’interno del relitto erano manufatti d’oro e d’argento, e monete di bronzo. I ricercatori hanno anche constatato che il relitto aveva la prua orientata con un angolo di 240 gradi verso sud-ovest, il che consente d’ipotizzare che la nave fosse diretta verso il sud-est asiatico, forse Singapore o l’India. Presumibilmente era salpata dal porto di Canton, una città vicina al luogo del naufragio e che già all’epoca era un importante centro commerciale. Anche le monete di bronzo trovate nel relitto sono molto significative. In Asia orientale e sudorientale le

MUSEO DELLA VIA DELLA SETA MARITTIMA.

5.

3.

5. Piatto di porcellana verde a forma di girasole proveniente dal Jingde.

monete della Cina erano particolarmente apprezzate perché fatte di materiali di buona qualità e comunemente accettate in un’area molto ampia. È quindi probabile che i potenziali clienti delle merci trasportate dalla Nan Hai-1 fossero mercanti e cittadini vissuti quasi mille anni fa nella penisola coreana, nell’arcipelago giapponese o forse in quello malese. KEXIN ZHONG STORICO

Per saperne di più SAGGI

Le vie della seta. Una nuova storia del mondo Peter Frankopan. Mondadori, Milano, 2015.

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HAL MOREY / GETTY IMAGES

LA FOTO DEL MESE


GRAND CENTRAL TERMINAL QUESTA FOTOGRAFIA, scattata da Hal Morey nel gennaio 1930, mostra una delle icone di New York: la stazione Grand Central Terminal, a Midtown Manhattan. L’edificio è un imponente omaggio ai committenti, ovvero alla famiglia Vanderbilt, una dinastia di robber barons (baroni ladroni) che, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, accumulò immense fortune grazie a corruzione e monopolio. Le ghiande e le foglie di quercia presenti nell’intera stazione corrispondono infatti allo stemma dei Vanderbilt, che fondarono il proprio impero sul commercio navale e ferroviario. Grand Central Terminal era una delle tappe delle loro linee di trasporto. Inaugurata nel 1913, fu la prima stazione di una metropoli progettata per treni a elettricità, e in effetti i suoi enormi lampioni dai bulbi incandescenti vogliono richiamare proprio quest’importante passo del progresso tecnologico. Oggi sarebbe impossibile scattare una foto del genere: i palazzi innalzati attorno a Grand Central Terminal impediscono al sole di filtrare attraverso i finestroni.


L I B R I E M O S T R E A CURA DI MATTEO DALENA

AVANGUARDIE

Mina e le altre futuriste creative e radicali

D Claudia Salaris

DONNE D’AVANGUARDIA Il Mulino, 2021; 288 pp., ¤ 22

onne […] siete pronte allo strappo? Non c’è mezza misura – non basta scalfire la superficie del cumulo d’immondizia della tradizione per la Riforma, l’unico metodo è la Demolizione Assoluta». In Feminist Manifesto (1914) l’artista e autrice Mina Gertrude Lowry, nota come Mina Loy, si esprimeva in maniera dirompente sulla “questione femminile”: «Siate coraggiose & negate fin dall’inizio quella patetica trappola del grido di guerra la Don-

na è uguale all’uomo. Perché Non lo è!». Giunta a Firenze nel 1907 con il marito artista Stephen Haweis, Mina vide la propria unione naufragare pochi anni dopo. Rimasta sola con tre figli, l’artista e scrittrice poco più che trentenne superò la depressione aderendo al movimento futurista di Marinetti e Papini. Nel suo programma femminista radicale Loy incluse persino la distruzione chimica della verginità, l’abolizione delle categorie di “madre” e “amante” e mise

in luce «come le donne debbano liberarsi dei condizionamenti nati dall’amore, distruggendo dentro di loro il desiderio di essere amate e protette». A sostenerlo è Claudia Salaris, studiosa del futurismo e delle avanguardie storiche, in un saggio dedicato a scrittrici, pittrici, polemiste, attrici, ballerine e fotografe che reclamarono il proprio diritto all’espressione in un mondo forgiato a uso maschile, pronunciandosi sui ruoli sessuali, la creatività e la politica. Attraverso una trentina di ritratti tra cui quelli di Eva Khun, Benedetta Cappa Marinetti e Tina Modotti, Salaris si propone di spiegare «cosa significasse essere donna d’avanguardia nella prima metà del Novecento».

ROMANZO STORICO

COMPLOTTISMI DURI A MORIRE DURANTE L’EPIDEMIA di colera del 1855 il sindaco di

Verbicaro (Cosenza) fu ucciso perché accusato della diffusione di «polverelle» venefiche. Sempre lì, nel 1911, venne impiccato un impiegato comunale addetto al censimento perché “correva voce” che il governo avesse «mandato in giro gente a contare le persone e ammazzare i poveretti». Si tratta di uno dei tanti “complotti contro l’umanità” che spaventano, affascinano e forse proprio per questo sono duri a morire. Il filologo Tommaso Braccini passa in rassegna «alcune delle leggende contemporanee più diffuse nel nostro Paese» al punto di essere «spacciate per vere e presentate come inaudite novità, segni dei tempi, dimostrazioni dei rischi e pericoli del mondo moderno». Tommaso Braccini

MITI VAGANTI Il Mulino, 2021; 192 pp., ¤ 15

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che si posava su una spalla e la stringeva forte». Così la scrittrice Emma Donoghue introduce il morbo letale che nel 1918, insieme alla guerra, devastava la città di Dublino. Qui l’infermiera Julia Power gestisce un angusto reparto d’ospedale nel quale sono ricoverate donne incinte affette dalla terribile influenza spaEmma Donoghue gnola. La scrittrice racconta L’INFLUENZA DELLE STELLE le lotte di alcune sanitarie per SEM, 2021; sottrarre madri e creature alla 320 pp., ¤ 18 morte nella squallida saletta-magazzino denominata «LA PESTILENZA era già dif- “Maternità/Febbre” ed esplofusa in tutta l’Irlanda. Uno ra la dura realtà delle madri spettro con tanti nomi: la dublinesi che si dannavano grande influenza, l’influenza «per mettere insieme il prancachi, l’influenza nera, la grip- zo con la cena e a riempire pe, ovvero la presa […] una i piatti dei maschi di casa, parola che mi faceva sempre mentre loro si sostentavano pensare a una mano pesante con il poco che avanzava».


@ VIK MUNIZ. COURTESY BEN BROWN FINE ARTS LONDON

VIK MUNIZ. TRITTICO THE BIRTH OF VENUS, AFTER BOTTICELLI – PICTURES OF JUNK, 2008.

ARTE CONTEMPORANEA

La Venere di Botticelli rinasce dai rifiuti Una mostra al Mart mette a confronto le opere del fiorentino con quelle di artisti contemporanei come Botero o LaChapelle

C

ircondata da cumuli d’immondizia e da scarti del tempo presente si staglia una rivisitazione della Nascita di Venere di Botticelli (1485 ca). Solo una visione ravvicinata può consentire all’osservatore di discernere ciò che realmente è da ciò che invece si percepisce a un primo, distanziato sguardo. Il trittico The Birth of Venus, after Botticelli – Pictures of

junk (2008) dell’artista brasiliano Vik Muniz può essere considerato un esempio di arte capace di valicare i limiti cronologici e le definizioni accademiche. La mostra curata da Alessandro Cecchi e Denis Isaia e nata da un’idea di Vittorio Sgarbi ed Eike Schmidt si propone un confronto tra artisti di diverse epoche. La vita di Sandro Botticelli (14451510) è resa in tre fasi rap-

presentate da diversi dipinti. Quella giovanile e il rapporto col maestro Filippo Lippi sono condensati nel Ritratto di fanciullo con mazzocchio (1470-1471 ca), mentre Pallade e il Centauro (1482 ca) e la Venere (1495-1497) conducono nel periodo maturo. L’ultima fase, in cui Botticelli attraversò una crisi mistica che lo portò ad avvicinarsi alle idee di Girolamo Savonarola, è resa attraverso

Compianto sul Cristo morto (1500-1502), Flagellazione (1495-1498), Andata al Calvario (1495-1498) e Adorazione dei magi (1509-1510). Ma influenze botticelliane affiorano in artisti italiani e internazionali contemporanei come Renato Guttuso, Fernando Botero o David LaChapelle, nelle creazioni di stilisti illustri o nel cinema di Federico Fellini. In tal senso la «Venere è bianca, nera, grassa, magra, transgender, eterea o popolare, quasi sacra e mondana, a seconda dell’artista che la cerca» spiegano i curatori. BOTTICELLI. IL SUO TEMPO E IL NOSTRO TEMPO Mart, Rovereto (TN) fino al 29 agosto 2021 www.mart.trento.it

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Prossimo numero L’INFERNO, L’ALDILÀ DEL “SOMMO POETA”

SCALA, FIRENZE

SETTE SECOLI dopo la morte di Dante Alighieri, la sua opera più famosa, la Divina Commedia, è ancora un simbolo della cultura italiana nel mondo. Nel suo Inferno il “sommo poeta” dipinse uno spietato ritratto del mondo come lo conosceva e allo stesso tempo ne cristallizzò i costumi, i vizi e le virtù, la politica. Da allora l’averno dantesco è entrato a far parte dell’immaginario collettivo mondiale, rendendo immortale l’opera e l’autore.

SARAJEVO, L’ATTENTATO CHE CAMBIÒ LA STORIA IL 28 GIUGNO 1914 il giovane bosniaco Gavrilo Princip assassinò l’erede al trono d’Austria-Ungheria, l’arciduca Francesco Ferdinando, e sua moglie Sophie Chotek. La sua intenzione era quella di assestare un colpo mortale alla monarchia che assoggettava i Balcani e scuotere così le coscienze slave. E invece fu il detonatore che innescò il conflitto più sanguinoso della storia fino a quel momento: la Prima guerra mondiale. HERITAGE / GETTY IMAGES

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I funerali del faraone Quando il sovrano d’Egitto moriva, si celebrava una fastosa processione per trasferirne il corpo mummificato nel sepolcro dal quale sarebbe rinato.

Triremi, la flotta di Atene Nel V secolo a.C. Atene dominava il Mediterraneo orientale grazie alla sua potente flotta di triremi, le navi da guerra più famose dell’antichità.

Livia e Augusto Nel corso dei suoi 52 anni di matrimonio con Augusto, Livia ricoprì una posizione privilegiata come consigliera dell’imperatore e madre dell’erede al trono, Tiberio.

L’Inquisizione spagnola Nel XVI e XVII secolo in diverse regioni d’Europa si verificarono terribili ondate di caccia alle streghe, che si tradussero nella morte di decine di donne.


presentano

la Divina Commedia del Duca Filippo Maria Visconti

Un grande progetto di arte e cultura per celebrare il 700° anniversario di Dante

Prima edizione mondiale di uno dei manoscritti danteschi più importanti e riccamente illustrati di tutti i tempi. Un capolavoro smembrato e diviso tra la Biblioteca nazionale di Parigi e la Biblioteca comunale di Imola finalmente riunito in un codice unico per studiosi, appassionati e collezionisti di tutto il mondo. 395 carte contenenti il testo dantesco e il commento di Guiniforte Barzizza 72 preziose miniature eseguite dal “Maestro delle Vitae Imperatorum” Applicazione dell’oro, cucitura e legatura eseguite a mano Copertina in pelle blu con fregi in oro a caldo Tiratura mondiale limitata a 350 esemplari numerati e certificati Per informazioni: Telefono: 353 4203036, email: info@operasrl.it oppure visita: www.operaedizioni.it L’opera fa parte della “Biblioteca di Dante”, progetto promosso con il patrocinio di:


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Algarco www.algarco.it


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