Recognitiones da laura silvestri
Sette oggetti denarrativi
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TRIXIE
Un’ancora è l’insegna, specchietto per le allodole sperdute, col neon rosso e giallo che lampeggia e sfonda il buio che c’è intorno, scalda l’aria della notte... e tutti quando arrivano, prima ancora di chiedermi il prezzo, mi fanno - Ehi, che strana idea, Anchor’s Motel, pensare che il mare da qui per vederlo lo devi sognare. O c’è chi mi ringrazia - Hai ragione, capo, mi dice, ci vuole qualcosa per inchiodarci a terra, col vento che tira stanotte... Allora, ogni volta dovrei ripartire di nuovo con quella spiegazione che mi son fatto nella testa quel giorno che allo sfasciacarrozze là sulla Highway al chilometro 325 ho chiesto di scovarmi dei bei paraurti azzurromare o verde alga o blu-fondo-oceano e quello, stai certo, ha girato la testa dall’altra perché, lo riconosco, tutto quel parlare di acque marine, quassù, sapeva un po’ di presa per il culo. E invece è così, gli dico, voglio farci una bella ancora, per quelli che
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verranno al motel, sbattuti dall’aria gelata, sbilanciati e un po’ ondeggianti per chissà quale malessere atmosferico o sventura... ma più ancora per me, un monito, un promemoria accendi-e-spegni di lampadine colorate per tutte le volte che si apre la porta e dietro il vetro appare un’altra faccia. Perché ci vuole un bel fegato a prendersi addosso come fagotti che lievitano, di gambe e teste e metastasi deformi, prendere e sopportare, quasi amare le troppe infinite agonie che si trascinano fino a noi, ci passano vicine e ci costeggiano con i loro fiati cattivi. E se per caso sei stato fregiato - ma è sfregio piuttosto, ferita che sempre si apre, e insomma grandissima sfiga - di quel sentire attento ai detriti e alle macerie, ascoltatore tuo malgrado di suburbie... allora ti tocca ogni volta comprendere il nuovo danno, anzi finisce che te lo ritrovi dentro, incastrato, ficcato nella carne proprio come uno schizzo di materia impura, estranea e tuttavia già pronta ad ambientarsi. Ma per fortuna c’è un limite al nostro sopportare visione e suoni di tristezza che arrivano anche da bocche chiuse, da volti sigillati e impenetrabili, quando entrano qui dentro e ti chiedono una stanza... una barriera all’inquieta sensazione e quasi vertigine, che sia cioè un banale caso se non è tua quella curva delle spalle, lo spazio grigio della fronte e il destino di vita che si porta... un imprevisto disporsi di molecole se non ti è stato dato un altro cammino. C’è un limite, per debole e fiacca fantasia, troppe vite simultanee non riusciamo a immaginarle, e così ci salviamo. E’ l’ancora, insomma, che come un richiamo sospeso sul mio capo m’invita a interrompere l’inchiesta, a ritrarmi... e quindi lascio correre, se mai il cliente vuol sapere e gli sembra soltanto un capriccio, accenno con gli occhi e per tutti ogni volta è abbastanza, e se ne vanno alla camera e subito dimenticano quell’infantile curiosare. Ché
tanto di dubbi ne
hanno già da vendere, da starci su l’intera esistenza. Dunque, un gran carico di insopportabile, di scarti indigeribili. E non sono solo i dolori, le pene infinite, no, che allora ne faremmo un esercizio di ascesi capovolta, rivoltata sottosopra, e sprofondando in quelle angosce raggelate ci si potrebbe lastricare un sentiero privato al
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paradiso, la croce su misura da cristo che tutto comprende su sé fino a farsi sanguinare... ben peggio sono le vite insulse che arrivano fin qui, pericolose, inquinanti, tanto che se anche cerchi di chiudere gli occhi gli indizi che lasciano in giro ti arrivano in testa, ti si scodellano in faccia, quasi ti si aggrappano per l’ansia di mostrarsi. Dico le vite ordinarie, quelle che si spengono per via come per lento esaurirsi del sangue e aggrinzirsi del cuore, quelle in cui tutto sembra messo al suo posto, giardini e vialetti d’accesso, messinpieghe, pieghe dei calzoni, contenuto della borsa da viaggio. E te ne arrivano a decine, anche quando, per abbaglio, ti aspetti un po’ di movimento e chissà quale scarica di novità e storie interessanti. Come quella volta che qui intorno hanno girato un film e per qualche notte gli artisti, così li chiamano, hanno dormito al motel arrivando a notte fonda coi fuoristrada infangati di finta neve per via della vicenda ambientata in inverno. Avranno scelto questo posto, mi dico, per il cielo di certe giornate, basso e pesante sulla strada. Scena centrale, la poliziotta incinta arresta il criminale proprio mentre quello è occupato a triturare il complice in una macchina per fare segatura... ci vuole un cielo come il nostro, appunto, da toglierti l’aria per mancanza di orizzonte. Nel film, mi raccontano, la tipa, fatta rapire dal marito per un riscatto di ottantamila dollari che dovrebbe scucire il padre di lei, finisce nelle mani di due tizi veramente raffinati. Per dire, stanno per fare il colpo ma sulla strada gli cade l’occhio sul Blue Ox e cosa c’è di meglio prima del lavoro di una pausa a base di frittelle e puttane... e solo dopo se la portano via incappucciata che si dimena come un’anguilla. Da lì in poi è tutto uno scorrere di osceni dettagli, tanto son stupide quelle esistenze, di gente vuota e piatta che guarda la tv, s’ingozza, telefona e poi spara nei parcheggi, ingurgitare hamburger non è troppo diverso dal menar colpi con l’ascia, e se per caso arriva uno strano rumore dalla veranda la donna allontana a fatica gli occhi dallo schermo mostrando la bocca mezza aperta e piena di cibo. E la poliziotta eroica... è ancora più gonfia oltreché incinta e quando non spara guarda documentari sulla vita degli
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animali, e mangia, mangia fino a perdere nozione del tempo, quello necessario per far scendere una gamba e poi l’altra dal divano e andare per il mondo con qualche sincronia. Allora, questi del film arrivano al motel alla fine del lavoro e il bello è che sembrano goffi e appannati come i loro personaggi, scambi verbali di appena qualche monosillabo, sintassi smozzicata, si trascinano alle stanze simili ad animali un po’ appesantiti e assenti come per un attacco cerebrale che li abbia ricondotti d’un tratto a un’infanzia primordiale, ma con corpi ormai logori. Non uno che dica una frase sensata, neanche una fiammella di avventura ho intravisto ad animargli le esistenze. Ma il vero problema... è che tutta la gente qui intorno è così, non è questione solo di un film, di una recita che per un po’ blocca la vista su un mondo desolato. Che tu uscendo da qui vada ad ovest oppure, girando la testa, ti faccia abbindolare dall’opposta direzione, qualunque strada tu prenda, non troverai respiro. Puoi scegliere, praterie polverose e per chilometri sempre la stessa striscia di asfalto, città mezze abbandonate di case basse, balconi sbriciolati, una strisciante diserzione che sembra senza motivo, come se per un passaparola molta gente avesse deciso di sloggiare, svuotare le stanze, o forse dopo un po’ non gli è piaciuto più quel tremolio sotto il culo ogni volta che i generali qua intorno decidevano un nuovo esperimento, un bel terremoto nucleare sotto il culo, una gaia corrente radioattiva che andava a rinfrescargli l’acqua per irrigare il giardino e a concimare i campi di segale e patate. Neanche gli piace un granché l’idea di dormire su un tappeto sotterraneo di missili balistici pronti e puntati verso il cielo e seminati a centinaia nella base militare ch’è il
gioiello della zona. Allora in giro non vedi quasi
nessuno, nelle strade cittadine, ma se vuoi trovare un po’ di people non hai che da uscire un po’ fuori, alle periferie. Sono tutti a riscaldarsi sgomitando l’uno nell’altro e cozzando di pance e di sederi, tutti nel centro commerciale più vicino ad annusarsi e a rimpinzarsi, entrano al mattino e sembrano non volere più uscire, fino a sera li vedi penetrare così numerosi che lì dentro t’immagini situazioni preoccupanti, tragici
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calpestii, ossa che s’incrinano negli urti. A tratti per fortuna le porte girevoli ne sputano fuori piccoli mucchi, scomposti e un po’ arruffati, e poi ad eliminarne alcuni esemplari presi a caso, e senza preconcetti, ci pensa di tanto in tanto qualche killer che se ne sta acquattato nel piazzale tra i bidoni e i carrelli della spesa e con buona ispirazione si dà a ripulire un po’, sparando qua e là. Questo è il nostro paesaggio, questa l’umanità che ci hanno dato in sorte. Perciò un giorno ho deciso di comprarmi il motel e di fermarmi qui dentro, diciamo per ridurre le brutte sorprese lasciando al caso se mai gli incontri che avrei fatto, magari qualche sperduto autista che dalla US2 scantona di un po’ di chilometri, e chissà cosa cerca, per fermarsi una notte pensando però che qui non ci vivrebbe neanche a pagarlo e come si può sprecare i propri giorni in questo deserto di polvere gelata e strade diritte dove l’unica festa che ti aspetti è che, per favore, compaia una luce, un’insegna, uscendo fuori dalla nebbia come in un brutto telefilm, la pompa di benzina, il lampo rosso che t’invita, vacancy clean quiet, e quei nomi improbabili perché certamente solo in posti come questi, e solitudini che ti fanno inebetire, può venire in mente al proprietario di chiamare quel suo buco Liberty o Nike o Judy o che altro, non c’è limite... alla nostalgia. Anchor’s Motel, in fondo, è ancora il nome meno strano... solo un’offerta, un pensiero gentile, per chi viene a perdersi quassù. E certo che a quei due qualche ormeggio sarebbe servito, a giudicare da quanto mi è finito sotto gli occhi quel mattino. Arrivano qui a notte fonda, notte freddissima di novembre, appannata, umida, quelle notti che quasi ti convinci di essere arrivato al capolinea, per sfinitezza, consunzione non tanto di desideri, che quelli si sono consumati e rarefatti già da un pezzo, ma di attese piuttosto e minime, sì che disperi perfino che torni il giorno e faccia luce ancora una volta. Rieccola invece, la mattina, e ti tocca vedere e ascoltare e di nuovo provare la pena che volevi per sempre abolita.
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Gli ho dato la chiave della cinque e dalla porta li ho guardati andare lungo il muro e poi svoltare, lui davanti, magro e quasi sghembo sulle gambe, quel modo inconfondibile di buttare il passo da artista o pseudointellettuale giovane e già molto arrogante, e dietro la ragazza, ma sembrava veramente una bambina, col nastro tra i capelli e un grande mantello che le arrivava fino ai piedi. E nel parcheggio han piazzato la Buick sgangherata color verdemare - guarda un po’ - e una vecchia roulotte. Ma stanotte si dorme nel motel... Lei camminava davvero come una bambina un po’ impacciata, come avesse ciabattine leggere, orientali, o forse era solo il pastrano che le ingombrava le caviglie. Li vedo svoltare e sparire dietro l’angolo e me ne torno dentro e non capisco bene, ma quel gusto di ultima fermata e capolinea stasera riempie la gola e fa male più del solito. Me ne vado diritto a dormire. Ma la mattina arriva prima del previsto come una burrasca livida, qualcosa che ti buca lo stomaco e la testa e si fa strada sbattendo e scantonando nella luce che fatica a sollevarsi, a ripulirsi. Era un grido sottile e continuo, che a tratti si spezzava col respiro, ma poi risaliva, secco, sdegnato ma forse solo per un dolore ormai stanco. Esco fuori e non c’è proprio ragione eppure le gambe mi portano alla cinque. Non c’è nessuno ma tutto è a posto, perfino più pulito e ordinato, mi sembra, di come gli avevo lasciato la stanza. Non si spegne però quell’onda acuta di voce e questa volta so, come sentissi l’aria smuoversi incrinata. Nel parcheggio, bloccata sull’asfalto e goffa, è rimasta la roulotte, come una navicella appesantita e derubata delle acque. La porta è spalancata, tutta piena del respiro incrinato. Ma la prima cosa che vedo non è voce o carne... solo una strana luce, come di membrane eccitate, una gialla vibrazione che arriva dal fondo, da quell’orrenda cella frigorifera che nasconde la parete, dal funebre acquario che subito, chissà perché, mi ricorda il passo sghembo dell’artista, l’insolenza di questi giovani che credono di aver capito e uno come me lo guardano appena. E poi ti lasciano davanti al motel un tale funereo ingombro, che chiamano arte... c’era un giardino tropicale, dietro il vetro trasparente, un
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ammasso di minuscole piante fin troppo rigogliose eppure già morte nel loro brodo raggelante di silicone liquido a meno venti, per sempre fissate in quell’apparenza di vita. E pesci, e uccelli, e altre anatomie in formalina, bloccate, sospese. Solo uno stupido insolente può costruire una tale oscenità. E divertirsi a ficcarla in una roulotte fino quasi a riempirla e portarsela poi in giro per le strade del nord... Ma infine con forza ho strappato gli occhi, quello strido continuava quasi seguendo un suo disegno, lì dentro... Era seduta su una piccola branda, l’unico altro oggetto oltre alla gelida cella, sembrava presa dal delirio come in quei riti in cui al risveglio ti attraversa la follia se un qualche tuo nemico, mentre dormi, ti cambia l’abito o ti ricopre il volto di una nera tintura. E veramente pareva appena riscuotersi da un sonno portatore di sventura, per il viso abbassato e la mano quasi a coprire gli occhi, ma assomigliava a biacca la materia con cui le avevano nascosto la pelle, uno spesso strato quasi a voler cancellare ogni traccia anteriore, ridurre ogni segno o piega ad una distesa sfocata per eccesso di bianco, così che il rosso della bocca truccata sembrasse ancora più uno strappo, uno sfregio di sporco sul pallore. Portava ancora quel nastrino di raso tra i capelli ma adesso potevo vederne uno uguale alla caviglia, sovrapposto in arabesco al serpentello tatuato. Le babbucce di velluto, nere... e quell’incredibile abito di taffetà, che forse già nascondeva sotto il pastrano, bianco e trasparente come il viso, e come le labbra segnato da un rosso irreale, fanciullesco, in quei grandi fiori aperti lungo il bordo. E nell’umido di quel mattino, le braccia nude e lisce, quasi di puttina... così se ne stava, carica di ornamenti, dipinta e sfuggente nella sua vera natura, come un acrobata che nasconde il sesso e l’età dietro la maschera eccessiva, e continuava ipnotica il suo verso che neanche un respiro aveva mutato da quando ero comparso sulla porta. Ma forse invece mi aveva visto, perché adesso nella linea di quel canto stridulo entravano parole appena comprensibili, come inserti smozzicati giunti chissà da dove a modulare il grido.
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Alla fine, diceva, l’ho mandato via alla fine, separato cacciato per sempre, su altre strade infinite ai quattro punti cardinali... ma la cella, le viscide piante, gonfie di morte succhiata aspirata, al silicone... quelle sì che me le lascia, non certo il cuore... e io, io che non ho ali, solo tesori fragili, e neanche isole odorose, per quanto desolate e deserte del suo passo. Qualcuno mi tirerà su, mi toglieranno di dosso queste perle appiccicose. Ma c’è un prezzo per spiare le mie cicatrici, c’è un prezzo per ascoltare il mio battito leggero... E questa frase, l’ultima, la ripeteva di tanto in tanto come per un fiato che torna a frantumare il ritmo. Ma non capivo, mentre restavo lì a guardarla come un incanto incomprensibile, cosa fosse scompiglio più grande, se quello strido irritato senza possibile conforto o le terribili parole, come arrivate da un tempo lontano e a lei anteriore per una pena, smisurata pena. E inconciliabile. E così sconveniente a quel liscio pallore di braccia rotondette, da fanciulla.
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fibre E’ nell’ordine delle cose, in ciò che è stabilito per vostra quiete e tutela delle ore, è lì che l’imbarazzo s’intromette, sinistro, e scompagina, denuda, come per gole tagliate e odore improvviso di ultimo, estremo inseguimento. Lì, in quel punto, vi mostro la mia faccia miserabile, felice e indifendibile. Ti piace questa morte, mi dite, annaspi, urlate, e ti sprofondi come fosse una palude in questo regno di cose inanimate, in questo deserto senza corpi e carni, eccolo, il tuttonaso, il millepori, mi gridate. Perché è vero, mi entrano nel naso, le stoffe, mi avvolgono e legano generando ogni volta pieghe inattese, queste intime e mie soltanto divinità fruscianti, mi abbracciano le caviglie - qualcuno di voi avrà visto, quando incollate l’occhio alla fessura per spiare - al mio cervello sabbioso e disseccato, alla sua musica che sembra un franare di ciotoli e residui, mandano suoni fragili, sottili, come fiori nell’ombra, e io... sono felice.
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Voi mi schernite, tirate fuori litanie beffarde, eccolo, il sartino, il tagliatore, quello che andava in giro col suo piccolo manuale illustrato, come un compito boy scout o una mammina che vuol cucire lei l’abito nuovo della figlia, squadra, centimetro, pezzetti di gesso, e fogli e fogli di carta velina... e ne ha fatta di strada, il giovanotto. So bene, non potete guardare, sopportare, perché mi piace questo fondo inerte, questo confine e transizione a una materia che credete immota, e questo fascino che svia e spinge dentro al vuoto, fino al silenzio delle cose. E per meglio ripararvi vi fate schermo del vostro io trasparente e sovrano, separato, un milleocchi che invoca, che blatera “io“, convinti di poter dominare e dividere, la vita dalla morte, il puro pensiero dal niente sentire, voi, che vi costruite dèi umani che vi promettano somiglianza e nomi comuni, porzioni di dio da condividere, inalare, e stabilite confini e ovvie etichette, e se entrate in una stanza abbandonata ciò che vedete è la polvere sul bordo delle cose e mai che vi sfiori un qualche dubbio, che stessero parlando, le cose, fino all’istante prima e muovendo, scorrendo su vie che mai conoscerete, forse per celebrare un rito, un’annuale ricorrenza, o perché spinte ancora da un qualche transito umano, da una notizia. Ma c’è un’altra misura, vi dico, ci sono sirene che sembrano mostri, tanto son chiuse, sigillate, a indicare un’assenza incolmabile, eppure legano e fanno sanguinare i polsi e la tortura del canto, o del silenzio, non è niente in confronto a quel vuoto che ti chiama. E ci sono dèi ancora più informi, dispersi in brani di cose e materia, e ben altro incantamento in questo assoluto non somigliarci e inumano resistere a possesso e comprensione. E se sono dovunque e nell’inerzia apparente è tutto un brulicare di parvenze, di spiriti nani o beffardi o perfino infantili, se anche il tavolo mi parla, vuole alzarsi, preferisce un altro angolo vicino alla finestra, e io m’inchino e lo assecondo per non farlo irritare, e ne ammiro l’obliqua espressione... tuttavia questo è ancora un parlare minore, di civiltà più bassa e primitiva.
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La vera brillantezza, l’ingegno, l’eccitazione viva che lega e incanta... è nelle sete, nei velluti, lì è la parola che soggioga, la formula e il sortilegio che ti spingono il corpo fin quasi a denudarlo, scorticarlo. Le stoffe pensano, resistono e parlano, siete voi che non volete sentire questo gran bisbigliare, sono fibre sottili e vibrano al tocco, sono piccole lamine raffinate per eccesso di ascolto e perfezione, per trasmissione infinita di segnali e messaggi. Le stoffe mi parlano e agiscono per me nel mondo, accarezzano, sfrigolano, strangolano colli, subiscono al mio posto assalti, richieste fastidiose e desideri, e me ne liberano... sì, la perfezione stupefacente della materia che si anima e ti avvince, e l’infinita sorpresa e meraviglia dei corpi e delle carni umane che finalmente arretrano verso regioni immote, sprofondate, in un livido silenzio minerale. Non potranno più ferire, sottrarsi, o urlarci un qualche bisogno. E voi, guardate pure da quella fessura. Voi ci vedete manichini, drappi, e ritagli di tessuti a coprire il pavimento, e alle pareti centinaia di immagini all’apparenza tutte uguali nella loro mancanza che a voi pare sfregio. Sono foto di corpi velati, non bocca occhi sesso, né uomini né donne, oltre la sicurezza dell’umano... sono fibre viventi come pelli, statue che al tocco si animano, e dentro ai mucchi scomposti esseri che vivono da tempi immemorabili, combinazioni inattese e sempre nuove di materia frusciante. Sono le mie divinità personali, sono cose silenziose al mio servizio, regni in cui inoltrarsi, scomparire. Che sollievo dimenticare infine la carne, anche la propria. In giro vado dicendo di essere molto malato, invio lettere di commiato, descrivo i sintomi del prossimo abbandono e intanto appresto la mia scena luccicante e sfarzosa, esclusiva, io, la regina bardata, sontuosa come per mille orienti accorsi ai miei piedi e carovane spossate dal viaggio verso me. Il mondo è fuori, tutto funziona in modo regolare, risponderò con precisione a un nome e cognome che è scritto sulla mia porta, quando mi chiameranno, quando suonerà la prossima cliente. Faccio buio. Anche
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l’ultimo spiraglio sarà chiuso e impenetrabile. Che si ripeta la danza, la silenziosa liturgia che torna ogni volta sempre identica e in ciò portatrice di splendido squilibrio, attossicante come un’incarnazione proibita. Ora posso distendermi su queste coltri che mi afferrano, posso coprirmi e rivestirmi e scivolare a un fondo che conosco, come scendendo a stagni assopiti in penombra. Laggiù, più in basso, è il piacere, inarrivabile, buio. Ma posso restare in attesa, per anni e anni, in questo muto comunicare e poi sottrarsi. Ecco, ora sono denudato e messo a morte, in loro potere. Le stoffe mi guardano, e io mi lascio contemplare. Ben vengano imbarazzo e quella luce un po’ sinistra nei miei occhi, vuol dire che la recita anche oggi è perfetta, che nel divieto ancora una volta il godimento si lascerà intravvedere, dal fondo vivo dello stagno.
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ascolti Ci sono quelle voci come per cento gole e bocche e feritoie e spiriti funesti, ventosi, che ne abbiano preso possesso e lì insediati, truci di vendetta scomposta, le torcono, le bocche, stirano gli orli e i labbri - e che io abbia rubato un paio di forbici ordigni obici flesh di quelle carni ancora tenere spazzate via alle pareti di stanze che sembrano scatole grigie, saltavano per aria frantumandosi e addio mia bella - fino a farli sfrigolare, per quel ronzante impulso a dire, a rovesciarmi addosso le notizie, dilagando invischiando ogni parte di me, un sibilo così materiale, corporeo, che quasi ne sento l'odore sanguigno, dei visceri ed organi che ha percorso, polmoni stomaci tubi pulsanti, sussurranti addio che ci lasciano qua a marcire inumiditi alle radici, quasi ci strappano via il midollo, qué va, conciare spalmare strisciare da tazza di cesso al pavimento appena tiepido dai passi, e qui dove mi tengono regina degli ospizi regina degli orfani di guerra, avrei pertanto cavato gli occhi al mio bambino con quelle forbici di sarta raffinata, non ho bisogno - un confuso parlare di cose che mi entrano dentro, o già sono, annidate tra i tessuti e le vene?, e subito vogliono uscire, sfiatare - oh, non ho bisogno di rubarle io, l'imperatrice Alessandro che con acqua e inchiostro di voci vi posso tenere informati, e sfamati di mille e mille
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scricchiolii di gusci, testuggini che mi arrancano dalla riva alla parete di fondo sopportando rovesci frastuoni di uragani mentre avrebbero voluto far piano e non svegliare nessuno, non tagliate nessun filo o nastro di raso, io così pura, amabilmente bianca e regale... E non un cane che voglia aiutarmi, aspirandole fuori come fosse un fumo nero e attossicante che va disperso per ridare fiato ai corpi imprigionati nella stanza che bruciava, ecco che torna, tornano chiassose solenni teatrali pulsando nella coscia, sulla spalla, viscide e sdrucciolevoli, fottutissime parvenze che si sporgono, le vedo, da quel pulpito sospeso e nebbioso, con piccoli squittii te lo annunciano, che loro sanno, hanno da dire, conoscono i segreti tuoi più sconci e te li spalancano imperiosi e... che lassù potessero esserci delle persone abbandonate, io per tre volte proprietario del mondo da quest'isola d'argento mento mondare, ah certo la pena non è lontana, per tutti quegli anni chiusi dentro che nemmeno il respiro poteva uscire sciocco sciancato incespicante, per dolori alla schiena, come ci fossero quintali di lastre di ferro sulla schiena - ingiurie, solo uno scherno lacerante, l'urlo animale delle ombre morte se ritrovano in un attimo un parlare imperfetto - e corsi là su quell'ultima scheggia di terra in alto sulla collina, dormono mordono terra radici e come vanno d'accordo con ogni fibra della vita neanche l'intera navata di saint peter fosse zeppa di pezzi da cinque fino al soffitto, insomma lasciate lassù a marcire per quanto davanti a una splendida tavola apparecchiata con succulenti venti e più bicchieri, grandi e piccoli Ma un tempo non era così, ah no, ero il signore delle voci io, di dominio incontrastato, fin da quei giorni al liceo di Versailles che al vecchio preside di pronuncia perfetta rispondevo nel bretone aspro del padre, mio padre, di quando insoddisfatto mi batteva, giù nel buio della stalla, giurando che mi avrebbe cacciato. O quando l'elegante rollio della Sévigné, quelle sue monache grigie e bianche e panni di bucato buttati qua e là e uomini sepolti rigidi contro gli alberi, mi si rivoltavano in testa
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in russo o in polacco, sedimentando, per via di ricomposizioni e sospensioni... Ed era solo l'inizio, poi presi su me l'ungherese, l'arabo, il cinese, e il croato, il georgiano... scorticato, denudato per meglio filtrare. Tacevo, finalmente, non facevo che ascoltare. Entro mezzogiorno il bollettino era là, sul tavolo dell'ufficio E, al Ministero... quei giorni, le mattine in cui sfociavano interminabili ore sibilanti. Lei non capiva, anche gli amici dopo un po' se ne andarono, troppo piccola la cucina piena di voci, un garbuglio di fili elettrici e la radio che sgolava, le cuffie mi chiudevano al mondo, Paul Armand la mia Jacqueline mi guardavano con occhi grandi, spalancati, non potevano credere, sapere che tutta la mia vita, la vita, era in quell'ascolto prolungato, dodici quindici ore, anche malato, anche nel pericolo. Ma io attraversavo mondi brucianti, pulsazioni, materia e carni e indicibile vibrare ricomposti nelle lingue degli umani, e quelle mi curavano, mi salvavano dal vuoto ma ancor più miracolosamente massaggiavano i miei piedi doloranti e gonfi o riscaldavano i bronchi infreddati. Mosca Pechino, l'incapacità di Alexandrov, lottare contro la ratificazione degli accordi di Parigi Jacqueline se ne andò - il compagno Malenkov si riconosce inadeguato al compito che, comunica pertanto la sua volontà di dimissione - un tale miserabile ai suoi occhi ormai, in fondo non altro che un folle illetterato dagli abiti bucati, ancora sai di sterco, e tasche scucite, su sandali stridenti a calpestare i fili notte dopo notte, tra magnetofono radio gracidare di tasti e arrotare manopole, un anarchico pezzente che decifra l'accadico e il sumero e dietro lenti annebbiate di polvere e fumo scruta segni guizzanti sui muri di Scozia... vivevo di voci e di soffi, di ritmi, ma nessuno da Gallimard voleva i miei versi... per loro ero il barbone poliglotta, si accostavano ai muri vedendomi arrivare e io gli gridavo contento saltellando su una gamba Sono un fellagha, sono un fellagha, e i miei poemi indésirables li lasciavo ai tavolini dei caffè. False parole? Menzogne spudorate... ah, che piacere quando una virgola soffiata nel microfono bastava a rivelarmi l'inganno. Io lo vedevo
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scorrere, quel fiume sotterraneo gorgogliante, la vera storia mi si svelava come all'emergere accecato dell'acqua dalla grotta cava... fu così che quel giorno d'ottobre scrissi la lettera, Avenue Foch, ai piccoli boia, Gestapo, Paris, ehi voi, sono l'ascoltatore pagato dal ministero, sono l'orecchio clandestino e veggente, cos'è quell'orrore, quel tumefatto ribollire che in lampi di secondi gonfia le voci dei vostri notiziari, le distorce, le vostre voci sempre così lucide e lisce come membra educate a una contratta rigida postura, scarnificate per troppa pulizia... è vero questo che sento?, questo borbogliare di vesciche infette che vi sfugge involontario e che mi parla di braccia e gambe spezzate, grandi fosse spalancate nei campi polacchi bagnati di nebbia, camion saturi di gas per le strade delle città russe... è tutto vero? Mi presero, per settimane in qualche sotterraneo della capitale occupata. Mi lasciarono andare. Tornai nella stanza dei fili aggrovigliati, ricominciai gli ascolti, clandestino. I bollettini? Non ce n'è traccia negli archivi, anzi gli archivi son scomparsi, come pure il Ministero, e gli amici di Canard, del Libertaire. Le febbrili trascrizioni, le parole tradotte e interpretate nel loro vero dire, l'ininterrotto racconto di anni di ascolti, non resta nulla... ma se anche me lo avessero annunciato, allora, non avrei potuto fermarmi. Era la potenza delle voci a tenermi, inchiodato, contratto nell'ascolto, un oscuro profeta dalle giacche bucate eppure visitato da parole-regine, inflessibili padrone delle mie veglie. Nel silenzio delle notti, da cento punti del pianeta, da terre raggelate, da deserti polverosi, i testi mi trovavano entrando nella stanza e nelle orecchie e io li decifravo, a volte ne scioglievo la doppiezza, ma sempre la voce debordava spaccando triturando le linee intessute del messaggio, sempre oltre lo schermo la voce scorreva come acque o terre in movimento. Voci senza corpo, voci insieme di parola e canto, enigmi sonanti per cui mi convincevo di aver attraversato le ere fino all'antico spazio bisbigliante in cui le cose ancora hanno da esser nominate... non da Polonia Cina Uzbekistan giungevano quei soffi, ma da profondità nascoste nei corpi di uomini e donne e da lì risalenti a
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ritroso per lunghi cammini fino all'origine del mondo, quando le cose si svegliano e pulsano chiedendo di esistere nel suono materno che le dice. Conoscevo ormai più di venti lingue e in quel parlare ininterrotto mi annegavo, libero da me stesso, affollato nell'apparente solitudine, errante in un perenne sogno di anarchia e affrancato dal nome e dalla carne, e come avessi venti vite o mille, tanti erano i corpi e le esistenze abitati e rivelati dalle voci in cui mi mescolavo, riconoscente... mentre andavo scoprendo risonanze inattese, un accordo tenuto segreto a noi uomini iracondi. Tutte le esistenze si rispondevano, come frammenti di una melodia in cui l'intera vita compatta si rivela, canto remoto inascoltato, se non a volte nel riso che visita il bambino nel sonno, se non in quel mio bracconaggio appassionato... su quella spiaggia bianca dove camminavo raccogliendo relitti legni levigati avanzi, ogni reliquia una parola del poema originario, ed era così semplice afferrarlo, bastava andare sotto il cielo e umilmente chinarsi nella sabbia bagnata. Ed anche se la lingua mi era ignota era quel non paese di soffi e lampi di sonorità che cercavo, la spiaggia che non sembrava finire all'orizzonte ma... no, ecco che sembrano tornare da sfinteri irritati, maligni, feritoie, e mi si apre la bocca come fosse uno spacco screpolato una ruga un taglio dai bordi indistinti, ecco - ma pure essendo io questa meraviglia del mare rossolilla - qui urla, rossolilla urlato e non saprei dire il perché della foga o rabbia, le parole ne sfiatano come getti di gas da corrose tubazioni nuovo blu inghiottito scampato a così grande pericolo, ecco che mi spunta dalla bocca una tal bambinella col suo vestitino marrone grinzoso - questa bocca che non può riposare, quest'orecchio che non vuole zittirsi... Ma dire certe cose è un'indecenza, un brodo spesso che mi s'incolla vergognoso al corpo ribollendo qua e là, sibili e squarci su una coscia, alla nuca, nel mezzo della schiena... E io che avevo scelto di tacere, quasi cieco e inconoscente e con mente ammutolita come per disporsi a una preghiera, nel silenzio
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ascoltare e sparire nella terra, nelle voci e nei ritmi ricomposti. Si poteva vivere, giacere, in quel non paese dove si scorda la ferita - il tradimento? - corpo senza passato, zeppo dei suoni dell'universo, del tumulto e del bisbiglio, dell'umile sostare dell'albero che guarda al golfo immenso sotto sé, della zolla fangosa che impercettibile scivola e si sfalda, di strepiti sordi esplosioni... di voci umide, ventose, voci d'acqua, di animali nascosti e braccati, di mille cose e avventure disciolte nell'incessante melodia. E nessuno a spiarmi, non avrebbero più chiamato la polizia per portarmi ancora una volta in Rue de Bourgogne, al commissariato, e poi subito all'infermeria speciale, perché quel commissario ormai non mi voleva più vedere, ancora lì, con le tasche piene di carta e nella bocca parole straniere che lui non capiva. Fuggitivo, introvabile, avrei potuto sottrarmi, così da zittire chi andasse dicendo che avevo vissuto, che quello era stato il mio nome, quella la donna che mi aveva abbandonato, quelli gli occhiali le giacche sfondate i poemi presuntuosi... ecco, ritornano, approfittando della più piccola crepa, chi l'avrebbe detto quelle mattine, due ore prima dell'alba, quando tutto d'improvviso taceva e nel silenzio del cielo sopra i tetti la mia testa continuava a risuonare, ma di bisbigli ritmati, accenti, scomposizioni infinitesime di sillabe, e tutto era perfettamente chiaro, comprensibile, e assoluto come la luce che ogni volta risaliva e niente sembrava preparare la catastrofe imminente, del ritorno alla vita rumorosa con i suoi falsi drammi recitati a piena gola... tutto aspettavo, ma non perdìo queste voci di dissesto, furenti, che un dio maligno, illividito forse per l'assenza, continua ad inviarmi, e sanno tutto, loro, si presentano per nome - col vestitino grinzoso non più stiratello e un fiocchetto azzurro appuntato salvato faresti meglio, oh! se ogni tanto ti uscisse qualcosa di vero, il fiocco era grigio e poi la bambinella non è tua, a malapena te l'hanno imprestata quegli altri, i santi del piano di sopra - come vecchie conoscenze sibilanti per la rabbia, voci di avvoltoio affollate nella fronte e dentro gli occhi, dovrei forse scavarmi un buco e sperare che escano fuori per
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sempre come getti di vapore da una fogna straripante - e la rivogliono indietro tra un'ora - mi faccio allora un cappello di piume rosse e verdi un pince-nez e una dentiera di piccole strisce d'avorio, aguzze, e non mi venga incontro neanche uno di quei salvatori usciti dal branco di cani e di scimmie, salvagione di zotici, infelice samaridio, disamaro ...non uno che mi tocchi la nuca con le dita e mi soffi nelle orecchie, a liberarmi nel silenzio Mont a ra mad atao? Me zo skuiz. State sempre bene? Sono stanco
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SOTTRAZIONE
Queste montagne inestricabili sono il regno e il suo confine. Si vive in remoti pertugi, a valle, negandoci ad ogni ascensione, quelli di noi, esigua minoranza, che l'esilio ha eletto a suoi scalcinati ministri. Esilio dentro il regno, nel cuore stesso del territorio, negli interstizi lasciati vuoti per distrazione. Tutto attorno è questo brulichio, questo bisogno vuoto e neutro di sopravvivere aggrappandosi all'esistenza congelata delle cose. Dalle stanze isolate, da questa sottrazione, si distoglie lo sguardo, si ha ritegno a parlarne. Ma ci sono visioni nella notte, quegli spazi che si aprono nel cielo a grandi altezze. Non così in alto che non ci si possa immergere e scrutarne i bordi frastagliati, là dove i limiti aprono il vuoto sgombrandolo all'ascolto. Accadono nell'arco di molti anni e si danno a vedere dall'alto di queste montagne, centro e confine dell'esistente, entità e margine della geografia che è stata concessa. Ma lo scrutare da tali vertici lungo i margini e dentro la materia che risuona non è dato alle
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maggioranze dei camminatori che qui dominano i luoghi e conoscono valli e crepe, gli sfondamenti con le croci dei precipitati, e i sentieri i boschi e tutti i tipi di fogliami digradanti e impallidenti verso il cielo. Questi evanescenti diorama come da bocche di vulcano aperte a tali altezze nella notte ghiacciata si mostrano ai più oziosi imbiancati che per i lunghi anni inveiscono al monte, alle creste, stando immobili chiusi su sé alle pendici. L'origine e il confine furono sempre per loro incompresa dannazione. Ma li ripagano quelle notti – una due al passare di una vita – quando a loro spetta il cammino, veloce agilissimo, impensato, per quanto senza moto, il monte è una bestia domata, il confine s'infrange al solo fissarsi dell'occhio. Lassù sollevati, nel vuoto gialloarancio che si apre, hanno sagome forti eppure sfasate come di chi danza controvoglia, con gambe pesanti. - Ci sbilanciamo. Verso un'acuta striatura verdedorata, come in progressive frane, scivolamenti.
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Come ascoltando il resto di lingue primitive cancellate, articolazoni, balbettii che si affacciano tra i filamenti di questo cielo gelato, noi e loro sospesi in un notturno esilio, su soglie sonore, al limitare di abrasioni, prossime afasie. Ci facciamo sottili come lamine per risuonare a questo acceso diniego, a queste lacune e smarrimenti, mentre là al fondo la totalità delle voci si scheggia in frammenti inudibili, in scie disperse, ripercorrendo il cammino a ritroso. Si aprono ferite nella pelle per questi suoni-scheggia, suoni-materia, e intorno è tutto un crepitare un raspare uno sgranarsi attraverso carni sconfinate di cui ci giunge il lontano interno vibrare. Ecco l'Espressione: che s'incolla alla cornea e al cuore irrichiesta, pura, cieca passione. Il vuoto al fondo dove germogliano le voci senza suono. L'occhio si fa trasparente. Ma come un lampo si richiude il battito silenzioso, essiccato. A un volgere del vento, al blu striato che ci fende il capo, in quella distrazione, nel volerci custodire un equilibrio terrigno e cieco, in quella fessura. Nel sostenerci troppo umano scivola su noi rapida la cancellazione, così come precipitosa la nostra discesa ci riconsegna al silenzio oscuro giù al fondo, al nostro ritegno. Ricondotti al parlare dei più, alla perdita, all'assenza irreparabile, siamo nuovamente clandestini. Tra quelli che parlano avendo da sempre dimenticato. Nell'universo tornato ad essere taciturno.
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MIRABILIA / ESILIO / VOCI
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MIRABILIA Se scrivere non ha niente a che vedere con significare, ma con misurare territori, cartografare, perfino contrade a venire , la mappa ha qui da essere esercizio di smembramento, invito a perdere le tracce, dei luoghi come del linguaggio. Immaginando carte che inventano il loro territorio, cartografie mobili, instabili, che dileguano i confini, divenendo in tal modo illeggibili al potere. Mappe in cui si sciolga la rigidità del corpo di Dioniso ricondotto in vita, cosparso di gesso e ricomposto sull'altare in quella pelle bianca squamosa, dopo che i Titani ne avevano squartato le membra, e là disteso fu nel mito la prima immagine piatta e squadrata della terra. Le geografie immaginarie avranno allora la precisione vertiginosa delle piccole lamine d'oro che nelle sette orfiche si consegnavano agli adepti, dettagli e tappe di un viaggio di salvezza nel mondo delle ombre. Avranno slittamenti che costruiscono inaspettati legami nel tempo, ritorni, incroci, ciò che l'occhio ha visto, o creduto di vedere, immaginato, spazi sognati, intersezioni. Se l'Altalena perpetua di Warburg, schizzo che ha la rapidità dei giochi d'infanzia e già il guizzare delle future visioni di Kreutzberg, può incontrare il funambolo di Genet è lungo le vie dell'azzardo mobile, della passione, K, l'artista/kunstler che danza nel punto di equilibrio incrocia Abdallah e i suoi lustrini d'oro - si tratta della solitudine mortale, di quella regione disperata e fulgida in cui opera l'artista aprendo squarci nella mappa. In immagini che soffrono di reminiscenze , che non temono il carico, lo sfondamento, la geografia si fa palinsesto, cancellandosi e riscrivendosi, aprendo varchi, scivolamenti, a volte precipizi, nelle crepe dei luoghi degli oggetti del materiale nostro consistere distendendoci nello spazio. Inscrivendo tempi - agire contro il tempo, e in tal modo sul tempo - di memoria come di dimenticanza, di profezia, di non avuto - tornare a un presente in cui non siamo stati... Non ciò che abbiamo vissuto e, poi, dimenticato, torna alla coscienza ma, piuttosto, noi accediamo a ciò che non è mai stato, alla dimenticanza come patria della coscienza. Per questo la nostra felicità è intrisa di nostalgia. Prediligendo i margini, le periferie - del mondo, della città, del territorio perimetrato e controllato - là dove si creano spazi di sottrazione, di alterità. Nelle antiche carte era questo il luogo dei mirabilia, eventi o esseri che si sottraggono alla spiegazione, sciapodi, ermafroditi, creature del mostruoso e visioni del prodigio, esuli dell'altrove. Carte che hanno occhi per guardare nel grande corpo della terra, sotterranei pulsanti presi da metamorfosi ininterrotta e vitale - Athanasius Kircher, Mundus Subterraneus in XII libros digestus - sognando inabissamenti e nuove aggregazioni, formicolio di spirito minerale che trascorre in vene e filamenti, caverne segrete ricolme d'acqua e grandi laghi sotto i Monti della Luna e infine l'Isola perduta - Situs insulae Atlantidis a mari olim obsorptae ex mente Aegytiorum et Platonis descriptio - coi suoi palazzi rivestiti di oricalco e i pubblici banchetti nelle case sovraccariche di fiori, scomparsa lasciando ai naviganti brandelli di terre, apparizioni, il Paese delle Gorgoni, i Giardini 26
delle Esperidi - Quomodo autem et quando defuerit, tam ignotum est, quam ignota tempora, quibus viguit. Mirabilia del geometrico convergere degli eventi e degli incontri destinati ad avverarsi - confluence of heartstreams - attese lunghe trent'anni per ciò che è predisposto ad un incontro, come una freccia che attraversa il tempo e lo annulla completando il disegno - in simmetria perfetta si compivano i piani di Dio - come una composizione che silenziosa attende di essere un giorno lontano eseguita. Mirabilia delle storie nostalgicamente incantevoli e geometricamente perfette. E dei margini che irrompono, così portando notizie dell'impensato, di avventure verticali. Viaggiatori di una notte, spettatori di visioni che risuonano e subito si sfaldano, come sottili sculture di fiato.
ESILIO Come procedere in un'aria di deserto, un'immobile luce che affanna se agiti il cuore, ma la sai sola possibile, per menti e corpi decantati - egli ha soltanto quel terreno che occorre ai suoi due piedi, soltanto quel sostegno che le due mani coprono, dunque, molto meno del ginnasta al trapezio nel teatro di varietà, sotto al quale tendono per giunta una rete di sicurezza - esilio forma estrema del resistere, minoranza che si fa inflessibile e mentre sembra smarrire, smarrirsi, quasi tendere a prossima sparizione, modella vie di uscita, soluzione che ribolle. Mi farò resh golutha, esilarka sbeffeggiato, sarà mia l'espulsione, la parola che bandisce - band, non pena, per i saggi, ma rifuglio e scampo alle pene. Pronunciarla su sé, ciò che ai più appare invettiva, come rivestendosi di una stoffa preziosa e così proteggendosi il capo - la stupidità mi paralizza, perché scopre un terreno in cui le mie difese non sono più efficaci; se la betise non viene subito e da tutti riconosciuta come tale, vuol dire che esiste una terra dove io non sono mai stato e dove vigono norme che io non conosco; anzi, quella è l'unica terra, la capitale da cui sono esiliato. Come scampare alla vista costruendo protezioni per gli occhi, perché il nostro sguardo interiore non ne venga annullato, come schermare la pelle dal contagio, dell'italia tartarea-euforica, dei guitti e delle camicie verdi di bolzanetodiaz, e dalle innumerevoli abugraib - i rapporti di potere operano sul corpo una presa immediata, l'investono, lo marchiano, lo addestrano, lo suppliziano, lo costringono a certi lavori, l'obbligano a delle cerimonie, esigono da lui dei segni - dal segregare e tracciare confini che attraversano le carni, dagli esecutori che sguinzagliano cani, ammucchiano corpi, li trascinano come serpi in accecanti corridoi 27
- È qui il garage Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra, due sulla destra, un solo bagno. Si è identificati e fotografati...È saltato fuori durante il processo...tutti sono insultati...costretti a latrare come cani o ragliare come asini...chi patisce lo spappolamento della milza...B.B. è in piedi. Gli sbattono la testa contro la grata della finestra. Lo denudano...All' arrivo, lo picchiano contro un muretto. Gli agenti sono adrenalinici. Dicono che c' è un carabiniere morto. Un poliziotto gli prende allora la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due «fino all' osso». G.A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia / La sentenza archivia, con un'alzata di spalle e un ammiccare di sguardi, l'orrore di quelle giornate...esilio civile, il senso del nostro essere irrevocabilmente, irreversibilmente senza patria - così che i corpi si ripieghino su sé, sull'immenso indicibile dolore, e di quel sé frantumato si nutrano annullando il pensare - La ragazza ? chissà quale micidiale sventatezza l´ha spinta dai suoi giorni di paese a diventare il manifesto universale dello scontro di civiltà - si fa fotografare mentre punta il dito a mo´ di revolver contro i genitali di altri legati e incappucciati / Non è chiaro come la Sbs abbia ottenuto le immagini...uno è appeso per i piedi alla barra di ferro di un letto a castello... prigionieri in fila costretti a masturbarsi davanti alla macchina fotografica; un detenuto incatenato che sbatte ripetutamente la testa contro una porta di metallo. Come sottrarsi se non esercitandosi in una ininterrotta lateralità - esilio entro i confini del regno, dislocamento e conflitto. Se è sul corpo che esplode il controllo e attraverso le pelli, in un perpetuo esercizio di invenzione e affinamento, con corpo e pelli e parola si dovrà modellare, travestire il r/esistere, erodendo spazi, confondendo, disturbando gli ascolti e le visioni con codici molesti, indigeribili, difetti, segnali che invitalo all'ammutinamento - Dislocamento. Portare via e portarsi. Disambientarsi, sottrarsi a ogni meccanicità del degradarsi inevitabile verso un Destino già segnato / In questa raggelata sospensione...quella sua breve carne tormentata m'ipnotizza, come un possibile bastione da cui volgere le spalle alla pianura infestata di presagi. E' la sofferta traccia che le incide il corpo, quel suo privato modo di pungersi e tatuarsi, è questo che mi accoglie quasi sostegno di una madre al figlio? E' come se dicesse... vedi, che pesantezza nel mio corpo, che stabile frapporsi ostinato a questa legge che ci han dato del precario andare, del transito labile a fiancheggiare banchine e porti che ci ignorano e non ci invitano alla sosta. Ed io lo segno, questo corpo, mi sembra di sentirle confidare, perché si faccia resistente e fuorilegge.
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E' questa una libertà minoritaria che ai più può sembrare spaventosa, come una disgrazia che si incide nel volto e ti fa inguardabile e penoso, è quell'alterazione di orizzonti che ti porta a invocare il delirio - esser vorrei tutto quanto delira - e come una danza sghemba disegna linee nuove, anche se fossero le ultime, un estremo sbilanciarsi ridendo allo sgomento. Superbo assenso, nel darsi da se stessi vita, smisurata vincita su ciò che è stato ordinato - ci vuole un certo squilibrio, un ondeggiamento su qualche abisso, per sentire disaccordo. Come animali sotterranei e arguti scaviamo gli interstizi dove si annidano i tempi non vissuti, i possibili futuri che non conosceremmo, salvo frugare in quel deposito e ammantarci di scarti, di cronologie alternative, pensiero dell'anacronosmo, di luoghi della nostalgia dove mai siamo stati e che per questo ci sono necessari - vivere ogni cosa vissuta, contemporanei a tutto: anche a quanto verrà... i profeti non smettevano di sospirare il vagabondaggio nel deserto. Rivolgendomi all'aria servitore / le chiedevo servizi o notizie / e mi preparavo a partire o fluttuavo nell'arco / di viaggi che non cominciavano. Ritrovare le città e il nostro impossibile viaggio ad esse, alle loro identità nuovamente scandite, aperte al riconoscimento - ora che quelle imagini si confondono in un confuso tracciato di rimandi e coincidenze, e sarà per il nostro invecchiare nel tempo e affastellarsi di memorie disilluse, con gambe e cuori affaticati, o non piuttosto per il barbaro, simile ovunque, intasarsi e deformarsi di piazze e vie, troppi corpi troppe voci troppo uguali insegne e richiami al denaro - come quando, ormai adulto, visitando una nuova città e percorrendo i grandi viali all'ingresso, toccando le umide pietre lungo il cerchio antico delle mura, e poi dentro, annusando agli angoli l'aria che corre tra i vicoli affollati, lentamente vieni preso alla gola, e mentre siedi nel caffè all'aperto sotto i platani e il portale della chiesa alla tua destra ti bisbiglia soffi d'aria oscura che sa di legno e stoffe corrose, non sai, non puoi più dire se è sorpresa agrodolce o scoramento ciò che ferma la tua mano nel siglare la prima cartolina di saluti. Da dove? Perché quella che ti muove intorno non è una, ma molteplici città sovrapposte e speculari, tutte quelle che nel tuo peregrinare hai conosciuto. Ritorno a un ormai inaudito convergere di margini e centro, di periferia - forse già feroce un tempo ma in fermento e in corsa per la vita - e sedimenti della storia nei luoghi dell'antico. Ad un passaggio senza sconcerto, ad una poesia di spazi non sezionati e malinconicamente disciplinati. Ma come ritrovare la casa, l'accoglienza, con che toni declinare l'attesa se non come un durare e prolungarsi entro i gesti più minuti del giorno - di qui non sei, qui certo non hai base, / sei uno che non passa, che non erge /…o che alla sua pelle / sta come un senzacasa - porgere oggetti, guardare, muovere i passi, non collaborare. Esercizio 29
quotidiano di respiro e lontananza - un canto sale da una terrazza, aspro, un canto di nomade dalla nostalgia sdegnosi - con occhi spalancati strapparsi al passato, al proprio lacerato vagabondare. Guardo questo presente di contorni taglienti, ne ingrandisco i dettagli bruciandoli per troppa luce, in questo tempo di moltitudini scacciate, di recinti in cui ammassare Internally displaced persons - e di spazi da svuotare - Questa ricerca della mia terra è stato il mio dolore. Dov'è la mia casa? Chiedo e ricerco. E sempre ne sono andato in cerca; ma non l'ho trovata - ascolto la dissonanza di chi subisce il cammino. Esilio dal paese che non c'è, mente invernale che non vede la fine e dispera del tempo. Privilegio di chi è dentro, comunque, e può nello spaesamento scegliere di ritrarsi. Dagli esuli, dagli espatriati, dagli spazi della rinnovata reclusione, impariamo allora un arduo vocabolario che incide la rivolta nelle pieghe delle mani, nella pelle seccata dalla luce del deserto - and that is the vision / that narrows in the irises and the dying / and the tired whom we leave in ditches / before they stiffen and their brows go cold / as the stones that have broken our shoes - lingua di fedeltà ai morti e di occhi gettati in avanti - attraversano confini, rompono barriere di pensiero e di esperienza - conoscenza delle cose come esse sono al momento di non essere più. Corpi in movimento, inarrestabile sfondamento di frontiere immateriali, di confini piantati nei cervelli a limitarne il libero scorrere dei pensieri- un modo più autentico di risiedere, di abitare senza abitudine. Sono il virale dilagare di contagiose costruzioni della mente, capaci di spostare l'orizzonte, di aggirarlo, sfidarlo. Come ricoprire di calce le rovine delle case di Kabul perché restino bianche e accecanti rovine, sospese come antichi frontoni di templi distrutti dai secoli, e con lo stesso bianco calcinare anche il dorso degli uomini che un tempo viveano lì Whitehouse - facendone improbabili tristi staue impolverate. Di un'altra casa a lungo rimpianta, cancellata da una vita di esilio, mettere in scena due centrini, biancoporpora, esercizio solitario di consumate mani femminili. Il ritorno annusa la polvere negli angoli, apre cassetti già temendo ciò che gli occhi scoveranno, allinea semplici trine sul tavolo disertato - Return to Sido's house. Amiamo queste cianfrusaglie, queste cose che nel loro abbandono e silenzio ci indicano chi è stato, con la dolcezza e la terribilità di ciò che si lascia deporre, relitti di memoria che sopraggiungono veloci a bucare il cuore, chiedendo un salavtaggio, come uscissero da un'acqua fonsa e scura - stracci e rifiuti non per farne l'inventario, bensì per rendere loro giustizia nell'unico modo possibile: usandoli. Siamo noi i benefattori, mentre le liberiamo dalle incrostazioni e le disponiamo sottraendole alla dispersione, o non sono loro invece le nostre barricate rivoluzionarie, oggetti 30
finalmente liberati dall'obbligo dell'utile, disposti a riposare sotto cumuli di polvere Purification room - pacificati nell'assenza di colore e movimento, nell'essere uniformi l'uno all'altro. Un mondo in cui tutto sia silenzioso e immobile e ogni cosa al suo posto estremo, sotto la polvere estrema. Arte dell'indugio, dell'astensione e del ritrarsi, oltre il produrre accumulando senso e forma e descrizione, per franchi tiratori, liberi da obblighi e dunque da ostacoli. Sbarazzarsi dei pensieri, la boite-en-valise stipata di miniature, mi fabbrico un museo portatile, un archivio buffonesco che odora di cuoio e inchiostri, oscillando lievemente tra indifferenza e gioco, e scelgo l'inazione allevando polvere come fiori in serra - tutti gli altri erano artisti, Duchamp raccoglie polvere - che l'opera si abbandoni alla sua usura, al suo invecchiare, alle tracce del tempo, e quell'inazione poi mettere in scena - l'impossibilité du fer - elevandola alla dignità del fare, sì che la polvere possa divenire colore - profumi di rossi, di blu, di verdi o di grigi accentuati verso il giallo. Esodo dalla rappresentazione, come un'uscita, una fuga dalla possibilità di parola. Quando la percezione ostinata permette di dar forma a figure non più alte di due centimetri e mezzo, ma quanto pesantemente trattenute dallo zoccolo di bronzo, come in una pagina quasi bianca prosciugata di parole estreme. Arte della sparizione, del perdere di vista - di una statua scoperta sotto la tavola, chinandomi per raccattare una cicca dice se è veramente forte, si mostrerà, anche se la nascondo, del chiedersi dove le cose vanno a finire. Quando il ritratto della donna o dell'amico è un volto cancellato poiché l'uscita può darsi per addizione, anche, e non solo sottrazione, di tratti di ingorghi di desiderati avvicinamenti che allontanano per sempre, come per addensarsi di domande inevase che neanche lasciano il tempo alla risposta aggiungendo altra voce, implorazione, consumando l'oggetto del venerare e togliendogli, ad ogni linea aggiunta alle altre, piuttosto il colore - una fangosa pozzanghera di grigi differenti - una sottrazione, questa sì, ma di vita, di respiro. Statue che appartengono al mondo delle ombre - non v'è per la bellezza altra origine che la ferita, singolare, in ciascuno diversa, nascosta o visibile, che ogni uomo porta con sé, preserva e in cui si ritira quando vuole lasciare il mondo per una solitudine temporanea, ma profonda - vascelli sospesi nel vuoto, abbandonati docilmente alla loro prossima sparizione - Nel bianco opaco che pare avere cancellato terre e acque, nel mondo passato per una qualche furia che tutto ha appiattito e sbiancato, quel vascello sembra chiedere ancora soltanto un breve tempo che gli basti a calare i suoi remi come pali corrosi...ma pronto a inabissarsi, sciogliersi in puro inchiostro, sacro e potente come tutti gli oggetti un giorno abitati e poi deserti, incamminato al declino e al proprio invisibile, mostrando a poco a poco la chiglia, il vuoto incastrarsi dei legni, la sua più vera realtà, e proprio ora che si va a consumare
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- con i loro legni carbonizzati, la silenziosa consisteza della cenere - Three studies from the Temeraire - o sommersi da improvvisa esplosione floreale - Coronation of Sesostris/Lepanto - a rimarcare dissoluzione e metamorfosi per via di macerazione vegetale. Andiamo a disfarci di noi, a trasformarci... è forse più vero questo che resta al fondo di tanta consunzione, questo imperfetto gorgo più umano della linea chiusa in equilibrio e compiuta. Esilio, elogio della sottrazione, dello sguardo laterale - la sua precisione ricordava quella di un sonnambulo - l'apparente noncuranza, la sublime distrazione di chi ha mente di profeta, che nel momentaneo silenzio sta scoprendo il presente - colui che sta in basso diventa il Santo oscuro e il re senza Corona - e dietro le palpebre scorre il possibile con la certezza di un'acqua che si getta dal monte. Uscita dal mondo. Esilio, potenza della scrittura che si ostinata si oppone - anarchia bollente...una disgregazione integrale del reale - questa parola che si incide con il gusto e la gioia della devastazione, e che sia aspro questo sapore, se si può indigesto alla blanda fame dei più e dissonante ai loro ascolti assuefatti, ai cuori rappresi - Perdere il volto, superare o perforare la parete, limarla con grande pazienza, scrivere non ha altro fine... vera rottura: la linea di fuga, non il viaggio nei mari del Sud, ma l’acquisizione di una clandestinità...siamo noi ad essere diventati un segreto, siamo noi che siamo nascosti. Se scrivi è per incidere e squarciare i contorni, intorbidare il comune pensiero. Se maneggi le tue parole-lance è per spostarti oltre le linee tracciate, in terre che ai più sembrano inospitali, e solo in questo deserto e nella divergenza trovare possibile dimora. Esodo dalla scrittura se è la parola dell'abitudine, se non scuote e frantuma incuneando sospetti, slogando costruzioni e intrecci. Se non porta fuori da questa galera. Di che mondo vogliamo parlare, qual è mai l'intrattenimento possibile, la riconciliazione, se intorno le schegge si muovono sempre più rapide e incerte mentre il tempo si avvolge, arretra, immobile perpetuarsi di danni, attese declassate, accelerazione di falsi movimenti, quale distrazione la scrittura dovrebbe avvalorare? Non questo, ma battaglia portata al cuore delle sonnolenza, un mondo altro che si fa nello scarto, nell'inversione. Sabotaggio, far saltare le attese, che l'opera appaia inservibile - i fili spezzati con la realtà non si riannodano più - e se anche nasce dalla nostra debolezza - c'est tojours pour souligner una faiblesse qu'on trace une ligne: ou, peut etre, pour nourrir l'omnifaiblesse, la faiblesse de la nuit, de l'ennui, du monde
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- la sua ostinazione ne faccia comunque un taglio radicale, elusa la storia la trama, disfatta ogni sostanza narrativa, a costo di vederla sfaldarsi. La speranza di ottenere un silenzio originario a furia di dire. Ai molti che chiedono trame, quelle capaci di sparigliare la vita, di portarla a esplosione, annichilendo il mattino che sembrava uguale agli altri, rispondono le opere che aspirano al disprezzo, perché dalla potenza del rifiuto sono nate, beffarde si dileguano - proverò a riscrivere tutta la vita non dico lo stesso libro, ma la stessa pagina, scavando come un tarlo scava una zampa di tavolino...ma anche vi darò il romanzo tradizionale, con tre morti per forza, due gemelli identici e monocoriali e un'agnizione - sottraendosi al dire lineare, tendendo se necessario alla propria sparizione, all'ozio e al fallimento. Combien de fois encore rêver d’un langage non asservi aux mots. Sfuggire all'inganno che rassicura - il linguaggio serve a instaurare il regno della certezza. Instancabilmente edifichiamo il mondo, affinché la segreta dissoluzione, l'universale corruzione di ciò che è sia dimenticata a vantaggio di questa coerenza di nozioni e oggetti, di rapporti e di forme, opera dell'uomo tranquillo, dove il nulla non può infiltrarsi - al falso convergere degli eventi, ad improbabili epiche che il reale stesso si incarica di aggirare e smentire , realtà alacremente cimiteriale di vite imbrigliate, di illusori compensi - chi non vive l’agganciarsi e il fondersi in blocco unico dei tempi e corpi del lavoro? esiste qualcuno che abbia da qualche parte una trama che lo rassicura, che lo completa , capace di tirarlo fuori dal confronto con le forme sempre daccapo vulnerabili della dissipazione del discorso, con i dialoghi interdetti e saltati, con la linea caduta?...diciamo che a monte di una prassi di scrittura che si dica non rappresentazionale, non lineare, non teleologica, sta ora prassi. ovvero la vita come materialmente è. Sibille asemantiche, linguaggio non asservito alle parole, liberato nel frammento l'allucinazione delle unghie di Emma, lucenti, assottigliate, più nette degli avori di Dieppe - nei residui, così che l'informe ci ricordi, o forse ci insegni, come respirano i luoghi della possibile liberazione - Toute forme précise est un assassinat des autres versions - delle relazioni senza potere, della dispersione e inutilità, dello stare inoperosi. Mentre il suono si assottiglia e l'ascolto si fa via via più precario, esercitarsi alla riduzione, all'azzeramento - se si trattasse di parole, se bastasse aggiungere una parola e si potesse allontanarsi con la coscienza tranquilla di aver completamente riempito di sé questa parola... in tal modo rendo irraggiungibile ciò che rimane da scrivere 33
- ritornare se necessario al silenzio - Mi piace credere, poiché l’amo, che se Lol è silenziosa nella vita, è perché ha creduto che tale parola poteva esistere. Non esiste, e lei tace. Sarebbe stata una parola-assenza, una parola-vuoto, con un vuoto scavato nel centro, quel vuoto che avrebbe inghiottito tutte le altre parole. Impossibile pronunciarla, quella parola, ma forse si poteva farla risuonare - risiedere nella signoria del distacco e sapersi separare dalla parola, quando la costruzione si rende inatingibile, impossibile al pensiero. -Non scrivere - che lungo cammino bisogna compiere prima di arrivare a questo punto... Non scrivere è uno degli effetti dello scrivere; è come un segno di passività, un mezzo di espressione a disposizione del dolore. Quanti sforzi sono richiesti per non scrivere.. E finalmente cesso di scrivere... non nella disperazione, ma come se ciàò fosse l'insperato: il favore concesso dal disastro. E' l'intensità senza la padronanza, senza la sovranità, l'ossessione di ciò che è totalmente passivo. Così, nella decisione comunque sovrana - scrivere/non scrivere - ti rendi simile al dio inoperoso, liminare, che se avanza è come un mendicante, per quanto inconcepibile appaia alla mente produttiva un trionfo che si dà nel ritrarsi. Lacerazione - ciò di cui siamo fatti è un'intima estraneità - nel consenso ad essere meno, abdicazione di sé e sguardo distratto - non azione, azione non agente... noi partecipiamo alla creazione del mondo de-creando noi stessi - zimzum che sottraendosi apre ad infiniti scenari. Si deve lavorare la pietra ma quella che si mostra più refrattaria ai colpi, si deve camminare nella città minacciata di sommersione, mentre già le acque dilagano, e senza timore di perdersi - E' per questo che ho rinunciato a voler giocare e ho fatto miei per sempre l'informe e l'inarticolato, le ipotesi mancanti, l'oscurità, la lunga marcia a braccia in avanti, il nascondiglio - si immaginano inediti sensi, direzioni, sprofondamenti che sanno di vittoria - E noi che la felicità la pensiamo / in ascesa sentiremo la commozione / che quasi ci atterra sgomenti / per una cosa felice che cade. Perdere la scrittura / perdersi nella scrittura, perdendo il mondo. Fare dei libri dove ci fosse solo da scrivere frasi / non dire nulla, parlare per non dire nulla.
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Esilio, potenza infinita del separarsi, con canto che porta insurrezione, il riso infinitamente gioioso: quello della scomparsa. L'esilio di Antigone, da sé e dalla città, che si fa atto di sovrano esercizio, corpo che rivendica la propria solitudine - A/reloaded. / Ho una morbidezza, qua sotto la gonna, che esplode e s'indura, ho schegge e frammenti di acciaio per un combattimento che neanche i vostri uomini saprebbero osare... scavavo vie sul mio corpo. Combattere per svanire. Diventare trasparente - fino a deformarsi, travestirsi, un freak che riconosci dall'occhio luminoso e dalla coda guizzante di basilissa. Ventre posticcio, dispendio in cui si avventura - e la vita promessa tornava ad apparirmi senza nome nè forma alcuna, come uno spazio chiaro; come un orizzonte e come una terra diversa, senza orme di piedi umani. La sognavo, e allora la vedevo; ma sentendola deserta, come un appello che ostinato mi attirava verso un punto invisibile, per sentieri che non conducevano da nessuna parte. Esodo dal materno, dall'infinita catena dei lutti partoriti dalle madri. Diventare la risata che sale nella gola. Far perdere le tracce. Conflitto. Solitudine. Nell'essere minoranza, mettere in conto la fuga dall'insostenibile, quest'aria che si è fatta irrespirabile ed il venir meno di forza e vigilanza, quando il combattimento si sfianca, come il corpo di un malato -Tutta quella vita gli fa male perché egli è di ostacolo al traffico, ma non perciò il vuoto è meno grave poiché scatena il vero dolore... Correre contro la finestra, e attraverso legni e vetri scheggiati scavalcare, deboli dopo l'impiego di tutte le forze, il davanzale - come il viaggio di chi si rifugia in altra terra e la trova subito insopportabile perché non si può rifugiarsi in nessun luogo. Potrai forse ridurre le attese, come si assaporano poche gocce d'acqua in un mondo di assetati - contento di poter respirare... mettermi quieto in un angolo... sopportarsi tranquillamente senza precipitare, vivere come si deve, non corrersi intorno come i cani - potrai accondiscendere, conformarti a perdite e accadimenti - L'uomo perfetto è sconosciuto al mondo... cammina senza sapere dove va e se ne sta tranquillo senza sapere cosa fa - facendoti ombra dell'albero che incontri, e come un perdigiorno accondiscendere alle voci così come si sceglie una strada solo ascoltando la brezza che spazza il selciato. O incamminandoti nel tuo completo scuro sul sentiero coperto dalla neve appena scesa, interrompendo per qualche ora l'estrema renitenza - riesco a 35
respirare solo nelle regioni inferiori - giusto il tempo di toccare la cima della collina - forse il suo desiderio era di sparire, discretamente, come un enigma che vuol sfuggire allo sguardo - e divagando sfibrarti nella nebbia. Può darsi, pensava, che la vita sia un beneficio e la morte una perdita; può anche daqrsi però che la morte sia un beneficio e la vita una perdita. Le domande resteranno inevase. Ma prima che giunga la verifica, una voce dal cuore dell'esilio ci ricorda la lotta, pensiero dell'insurrezione che animava le notti vigili, voce di dissidenza e di guerriglia, di clandestinità che assaporava la certezza del trionfo - l'amore è l'incontro tra due tracce di esilio - attraversando veloce i corpi mobili, solidali. Voce di rivoluzione, che scardina il passato scoprendo varchi rimasti insondati, che apre il campo del possibile entro ciò che verrà - come creare zone di resistenza, quando una macchina da guerra è nascosta in ogni nicchia?... unica sicurezza consiste nel non aver paura del possibile, nel non temere l'inevitabile... dissolvere le illusioni che sottomettono l'intelligenza al lavoro al consumo e alla crescita... creare forme di vita autonome. La rivolta di F.K., la rabbia di P.P.P. Errare senza riposo nel deserto ignorando i richiami della casa, votarsi alla parola che balena proprio là dove più radicale si fa la separazione. Il mio principale nutrimento viene da altre radici in un'altra aria... io sono altrove... grande è la forza di attrazione del mio mondo, coloro che mi amano mi amano perché sono abbandonato... perché sentono che in tempi felici, su un altro piano, ho la libertà di movimento che mi manca qui completamente. Ecco perché la mia rabbia non catalogabile si presenta come uno dei pochi casi di rabbia in Italia... perché, compagni e nemici, uomini politici e poeti, la Rivoluzione vuole una sola guerra, quella dentro gli spiriti, che abbandonano al passato le vecchie, sanguinanti strade della Terra.
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MIRABILIA G.Deleuze/F.Guattari; J.Genet; G.Didi-Huberman; B.Accarino; A.Kircher; C.Coccioli; L.Hohl;
F.Nietzsche;
G.Agamben;
ESILIO F.Kafka; W.Siti; C.Garboli; M.Foucault; G.D'Avanzo; M.Revelli; E.Scarry; A.Sofri; T.Ottonieri; Canti di lontananza; A.Artaud; A.M.Ortese; J.Kristeva; G.DidiHuberman; C.Coccioli; O.Mandel'stam; E.De Signoribus; W.Benjamin; W.Stevens; D.Walcott; E.Said; M.Mari; M.Blanchot; L.Abdul; E.Jacir; Chen Zen; S.Beckett; M.Duchamp; J.Cage; A.Giacometti; J.Genet; C.Twombly; H.Arendt; Zhuang-zi; B.Hrabal; G.Deleuze; N.Balestrini; E.Villa; L.Bianciardi; M.Giovenale; G.Flaubert; G.Bataille; J.Lacan; S.Weil; C.Campo; R.M.Rilke; Sabotaggio; M.Zambrano; F.Berardi; P.P.Pasolini.
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