AL Mensile di informazione degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori Lombardi
Ordini degli Architetti P.P.C. delle Province di: Bergamo, Brescia, Como, Cremona, Lecco, Lodi, Mantova, Milano, Monza e della Brianza, Pavia, Sondrio, Varese
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novembre 2008
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EDITORIALE
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FORUM Letteratura e città interventi di Arduino Cantafora Piero Colaprico, Andrea Vitali
Letteratura e città
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OSSERVATORIO Argomenti Riletture Conversazioni Concorsi Libri Mostre
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PROFESSIONE Legislazione Normative e tecniche Organizzazione professionale Strumenti
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INFORMAZIONE Dagli Ordini Lettere e Commenti
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INDICI E TASSI
€3,00
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FORUM ORDINI Brescia Como Cremona Lecco Lodi Mantova Milano Monza e Brianza Pavia Sondrio
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11 NOVEMBRE 2008
Mensile di informazione degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori Lombardi
Consulta Regionale Lombarda degli Ordini degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori, tel. 02 29002174 www.consultalombardia.archiworld.it Segreteria: segreteria@consulta-al.it Presidente: Ferruccio Favaron; Past President: Giuseppe Rossi; Vice Presidenti: Giorgio Tognon, Paolo Ventura; Segretario: Sergio Cavalieri; Tesoriere: Emiliano Ambrogio Campari; Consiglieri: Achille Bonardi, Stefano Castiglioni, Angelo Monti, Biancalisa Semoli, Giuseppe Sgrò, Daniela Volpi Ordine di Bergamo, tel. 035 219705 www.bg.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettibergamo@archiworld.it Informazioni utenti: infobergamo@archiworld.it Presidente: Achille Bonardi; Vice Presidenti: Paola Frigeni; Segretario: Stefano Cremaschi; Tesoriere: Matteo Calvi; Consiglieri: Francesca Rossi, Mario Salvetti, Carolina Ternullo, Elena Zoppetti (Termine del mandato: 15.10.2009) Ordine di Brescia, tel. 030 3751883 www.bs.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettibrescia@archiworld.it Informazioni utenti: infobrescia@archiworld.it Presidente: Paolo Ventura; 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Maurizio Carones
3 EDITORIALE
Se pensiamo ad un qualsiasi romanzo, inevitabilmente, ci vengono in mente anche i luoghi in cui le vicende in esso narrate si svolgono. Gli ambienti caratterizzano il racconto, talvolta gli stessi personaggi sono in stretto rapporto con i luoghi descritti assumendo sembianze coincidenti, sorta di mimesi fra volti e paesaggi. A volte addirittura il luogo stesso è il principale oggetto della descrizione letteraria ed, in questo senso, la città è uno scenario particolare: si potrebbe attraversare la letteratura riconoscendo differenti ed importanti filoni relativi a singole città. Con questo numero di “AL” ci siamo posti l'obiettivo di guardare la Lombardia attraverso la letteratura: la sua vastissima e molteplice narrazione ci interessa non tanto, o non solo, per un'attenzione alla letteratura - in fondo un architetto è quasi sempre anche un appassionato lettore - ma soprattutto per i ritorni che la descrizione letteraria ha, a sua volta, sulla città e sull'architettura. Una prima ricaduta è la rinnovata attenzione alle città ed ai paesaggi che sono oggetto di interesse da parte della letteratura. È noto, ad esempio, come il fascino che Milano ha suscitato in alcuni autori abbia generato nuove sensibilità: si pensi, in particolare, alla scelta delle periferie come luogo in cui ambientare il racconto. Rilette nelle pagine di Giovanni Testori, o più recentemente in quelle di Piero Colaprico o di Gianni Biondillo, anche quelle strade, quelle case che possono sembrare semplicemente luoghi di una città non particolarmente conosciuta se non da chi la abita, diventano gli ambienti in cui si dipanano avvincenti romanzi, luoghi di fascino, complessi ed articolati come i personaggi che vi si muovono. Un altro effetto può essere quello della scoperta di luoghi che invece abbiamo sempre visto e crediamo di conoscere molto bene ma che una modalità descrittiva differente ci porta a vedere in modo nuovo e sorprendente. Come nel celebre episodio, narrato nel Viaggio in Italia, in cui Goethe suscita le risentite reazioni degli ingelositi abitanti di Malcesine, i quali vedono ritratto il “loro” castello ad opera di un viaggiatore straniero che lo guarda con occhi nuovi. Ulteriore ritorno possibile è individuabile nel tematismo che le descrizioni letterarie possono offrire: la limitazione della descrizione suggerisce l'individuazione di una parte della città, di un quartiere, di una casa, di una scala quale cornice allo svolgimento di una vicenda, quasi scena teatrale che si articola con le variazioni richieste dalla narrazione. Tale limitazione dello sguardo suggerisce interpretazioni degli stessi luoghi secondo particolari tematismi: l'edificio in cui si dipanano le famose vicende di La vita. Istruzioni per l'uso di Georges Perec diventa un mondo sufficiente a descrivere una grande varietà di situazioni, ricchissimo di differenze. Tutto ciò può essere di grande utilità alle nostre discipline: un territorio ed una città guardati in maniera sempre nuova dalla descrizione letteraria si dimostrano ancora una volta un inesauribile testo la cui lettura è aperta a tutti. Sta agli architetti riuscire ad utilizzare, dal punto di vista dell'architettura, anche tali contributi.
Letteratura e città
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A questo forum partecipano: Arduino Cantafora, pittore, architetto e scrittore milanese; Piero Colaprico, giornalista e scrittore, conoscitore e interprete della realtà milanese; Andrea Vitali, medico condotto di Bellano e romanziere. Ringraziamo tutti i partecipanti per la loro collaborazione.
Città
di Arduino Cantafora “Come una staffilata percuote le orecchie il grido lanciato su incomprensibili modulazioni gutturali, che si spengono poi in sbuffi soffocati e ansimanti. Il volto, dopo lo sforzo dell'urlo, rimane affranto e contratto, cedendo alla bocca, semiaperta, una smorfia sgangherata e calata di lato. La mano è ancora là protesa, in segno di vuoto dialogo. Aveva appena finito di minacciare o di blandire (chi può dirlo?) una veloce automobile di passaggio o una cartaccia strascicata dal vento. Il corpo magro, ricoperto da uno spolverino blu stinto, si adatta a positure rannicchiate o scatta eretto, molleggiandosi sulla punta dei piedi, mentre il capo, periscopio senza vista, divide in settori lo spazio circostante. Questo è l'intervallo più terribile, il momento di sospensione in cui nulla interviene a distrarre il silenzio di quella mente offuscata. Poi, all'improvviso, e Dio solo sa il perché, qualcosa, come un'ombra di sguincio per un cavallo ombroso, attraversa la vista, rigettando nel caos quel corpicino contraentesi e riscoppia l'urlo. È una voce antica, che nell'incoscienza si trascina, evocandolo, il demone di secoli di tanta umanità. Sei là in via Ortles, uscita dall'Albergo dei Poveri di via Ortles, ma non si può sapere da quanto. Il tuo incedere a singhiozzo ti può avere trattenuta per un minuto come per un'ora su quei venti metri che ti separano dalla porta dell'Ospizio. Scarichi la tua agitazione sulla fettuccia di rotaie, che collegano allo scalo una fabbrica poco distante, ti prendi alla gola e poi scagli giù a capo fitto la tua mano tesa, a chiedere una ragione a quelle lamine luminescenti. Sorta di immane panteismo, in cui tutto, anche la pisciata di un cane, è terreno di dialogo. La geografia dei tuoi spostamenti urbani è assolutamente imprevedibile. Puoi macinare chilometri torno la cinta della nuova periferia, come puoi tagliare da sud a nord, tagliando per il centro, la città; e mi piace supporre che tutto questo groviglio di strade e case sia completamente e chiaramente tuo e che tu riesca a caricarti sulle spalle il peso della storia di un’intiera città. Sono anni che giri, sempre più stanca e roca, tanto hai urlato la tua voce in Cordusio o a fianco delle rimesse dei tram in via Messina. Nel tuo mondo e nella tua lingua tu hai dato tutta te stessa ai muri delle case e le case ti hanno donato tutto e niente di esse stesse.
Un’enorme pianta scala uno a uno è ai tuoi piedi. La Milano che, quando tu eri più giovane, meno astratta e rarefatta, ti giostravi fra i denti in un ossessivo scioglilingua “milanés sèmm e mai dismilaniserem" (siamo milanesi e mai ci dismilanizzeremo). Vera tiritera di appartenenza di un mondo che pensava ancora di potersi attribuire un’origine certa, se pure, già per i tuoi tempi, slavata in un sentito dire di qualcosa che non esisteva più. Che pure io ho paura a darti spazio fra queste righe nel timore di scivolare in apprezzamenti di facile fattura e non rispondenti al carattere estremo del tuo peregrinare fra le vie di questa città. Più volte mi sono chiesto, e per la verità questione del tutto oziosa, quanto Manzoni avrebbe accettato del tuo stato attuale. Se si sarebbe chiuso in un riserbo silenzioso o meglio affidato ad una pietas di antica origine o ancora ad una pagina di intransigenza controriformata, odiando la tua scellerata vecchiaia. Forse ti sarebbe andata meglio con un Rovani. Si perché, vecchia pazza, sei come la tua città e come tutte le altre città di tanto Mondo, proprio vecchia. È da un pezzo che si viaggia per mare aperto e il dialogo con il “prima” non si riesce più a trasmetterlo per tradizione orale, come se fosse qui con noi e per noi. E di quel prima sembra esserci preclusa ogni esperienza, che tu, al contrario, mi pare, contro tutto e contro tutti, ti ostini a volere mantenere viva in una struggente assenza di significato, non potendola tu comunicare. E così mi sono aggregato a te, vecchia pazza, tenendomi in retroguardia, spiandoti tra le fratte calate sulle rogge dietro Chiaravalle, perché nelle belle giornate di sole lombarde ti capita di passare anche per lì. È forse un percorso che mi vuoi indicare? Sono docilmente pronto a seguirti, potrei risponderti, annuendo con il capo, se amassi utilizzare un artificio retorico di siffatta specie. Guidami “milanesa” per la tua città e scriviamo assieme una nuova guida; Galvanio Fiamma, Giulini, Latuada, tu ed io, ma non è questo il senso, tu scrivi tragicamente la tua storia segreta giorno dopo giorno ed io, da parte mia, ti osservo di tanto in tanto, non riuscendo a mantenere sempre una costante concentrazione. Non sarei un buon socio e tanto meno un buon traduttore. E poi guardiamoci francamente, non abbiamo nulla in comune se non un possibile rapporto fra la tortuosa casualità del tuo vagabondare e le mie ossessioni, da cui emergono sempre gli stessi frammenti urbani. Tu qua e là, indifferente, a dividerti con tutto, io tenace conservatore, fissato su quattro cose o quattro case. (tratto dal romanzo di Arduino Cantafora, Quindici stanze per una casa), Einaudi, Torino 1988
Le immagini del forum sono tratte dal volume Delle Lettere. Manuale di calligrafia e tipografia: dalla teoria alla progettazione, Hoepli, Milano, 2008, di Ivana Tubaro, grafica e calligrafa che vive e lavora a Milano (www.rtt.net). Laureata in architettura a Milano nel 1985, il suo interesse si rivolge presto alla grafica e in particolare alla tipografia e alla calligrafia. Alla sua attività professionale affianca quella di insegnante per l'Associazione Calligrafica Italiana (www.calligrafia.org) e per alcune scuole professionali. Didascalie: p. 5, interpretazione calligrafica del testo More than ever, we need spaces… di P. Walker. Opera realizzata da Helga Ladurner con “folded pen” e pennino a punta tronca. P. 6, interpretazione tipografica di Claire Billiotte del titolo Soleil Noir, romanzo di Patrick Pécherot. P. 7, composizione alfabetica di Ivana Tubaro, incisione su linoleum. P. 9, composizione alfabetica di Anna Schettin realizzata con tecnica “a timbro”. In copertina: trama di lettere realizzate con una spatola, di Marco Campedelli. Tutte le immagini pubblicate appartengono a lavori recenti.
FORUM GLI INTERVENTI
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La bellezza del cemento di Piero Colaprico
“L’ispettore della sezione Omicidi Francesco Bagni immaginò la scena, il suo pensiero corse veloce alla Bicocca, ai tacchi della donna elegante che ticchettavano sui marciapiedi. Dove un tempo sorgevano le grandi fabbriche della Pirelli, era nato il quartiere nuovo ed era nato sbagliato. Come se anche le case fossero state concepite per starsene alla catena di montaggio, tanto vicine e affaticate da assumere l’aria triste dei cottimisti che qui, negli anni del boom economico, avevano visto scorrere le loro esistenze in una tuta, standosene sempre al chiuso, tra i rumori, i capireparto, i volantini, i sindacati, i sogni di un cambiamento che forse avrebbero visto meglio i loro figli, e non grazie alla rivoluzione o alla politica, ma grazie alla tecnologia, ai computer, ed era come se le anime di quei vecchi e stressati operai fossero trasmigrate nei mattoni, nelle matite, nelle teste di chi aveva immaginato un quartiere senza poesia, senza fantasia, come se fosse un gigantesco telaio, dove sbattersi, restare vigili, e non un quartiere dove poter portare i figli con il passeggino. A volte a Bagni mancava il fiato e gli capitava di vedere Milano come una città prigione, e allora non pensava ai quartieri della mala, alle periferie deprimenti e agli intonaci scrostati delle case popolari, pensava alla Bicocca con le finestre strette e le facciate delle case ostili. L’università, che avrebbe dovuto rappresentare un luogo aperto a idee e persone, era incombente e inaccessibile come un fortilizio, come la fortezza Bastiani del "Deserto dei tartari", come la città iraniana di Bam, ma senza quel fascino di antichi mattoni levigati dal vento, quando gli uomini con il vento si battevano alla pari, e non dovevano, come oggi, chinare la testa, per salire su bus in ritardo, o infilarsi in automobili sempre più ridotte”. Così, più o meno, scrivevo in Trilogia della città di M., ma non tanto per prendermela con la Bicocca (ci vado al cinema, nella multisala), quanto per esprimere il mio disagio: in questa "onnipoli", nella città più mondiale d’Italia, non sembra esistere – nemmeno oggi – la possibilità di creare qualche cosa che resti impressa per bellezza nei nostri cuori di camminatori metropolitani. Ci sono palazzi, nuovi grattacieli, piazze che, anche quando sono ben riusciti – faccio un esempio: mi piacciono i palazzoni della stazione Garibaldi – sembrano stati catapultati da chissà dove. Non c’è organicità. Non ci sono colori. Milano si autocostruisce sempre, lo segnalò per primo Guido Piovene, Milano ha una fretta retorica in qualsiasi cosa, non si è mai fermata e anche l’architettura milanese si mostra prigioniera. Credo sia prigioniera per necessità: appalti, contratti, politici, lottizzazioni, committenti, burocrazie, sogni spezzati di amministratori perdenti. Ma non vola, né ci fa mai volare con la fantasia, come successe ai tempi con la Torre Velasca o il Pirellone. Ma tanto la gente ha altro a cui pensare, la bellezza del cemento non è un argomento per milanesi.
FORUM GLI INTERVENTI
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Una diroccata casa di campagna di Andrea Vitali
Non avevo molta voglia di mettermi in macchina e fare tutti quei chilometri. La giornata era bella, serena, appena ventilata: una giornata di quelle che ci si guadagna a stare qui, sul lago, guardandosi in giro, lasciandosi permeare dalle suggestioni e dai silenzi che calano misteriosamente in quel tempo di mezzo o di passaggio che è l’ingresso nell’autunno. E poi c’era anche l’autostrada, tanta, un sacco di chilometri, un perpetuo duello di occhiate, un tempo rubato a tante altre cose da fare, senza dubbio più piacevoli. Ma gli impegni sono impegni, la parola data andava mantenuta. Quindi, sebbene a malincuore, salii in macchina e partii. Avevo fatto il conto di dover guidare per quattro, cinque ore. Di queste, buona parte in autostrada. Avevo controllato la cartina. E, a consolarmi, dopo gli idrocarburi i clacson e i sorpassi dell’autostrada, era stato quell’ultimo tratto di percorso: quando, uscito dal bestiale guazzabuglio, mi sarei immesso su una stradettina statale, da percorrere a non più di cinquanta, sessanta chilometri all’ora, con la possibilità quindi di guardarmi un poco in giro, incamerare immagini di luoghi nuovi e trarne emozioni. Andò proprio come mi ero immaginato. L’ininterrotta colonna di autoarticolati che batteva l’asfalto dell’autostrada mi impedì qualunque altro pensiero che non fosse quello di evitare di trasformarmi in una scatoletta di carne. Ogni tanto buttavo l’occhio verso il cielo, azzurro, come se fosse battuto da un vento di quota, per averne in cambio un’immagine di serenità e di pace: ma era una sensazione che poteva costare cara. Dovevo uscire da quel regno di pneumatici per riprendere il filo dei miei soliti pensieri e l’impresa mi riuscì verso metà mattina quando finalmente imboccai il raccordo verso il casello e, a seguire, la strada statale che avevo imparato dalla cartina. Mi sembrò subito, di rientrare in una dimensione di normalità, di misura, alla dimensione di vita cui ero da sempre abituato e che era nata e cresciuta anche grazie alle strade statali: le mie, quelle di lago, sulle quali si affacciano ville sontuose e superbe, esposte agli occhi invidiosi di chi non può fare altro che sognarle, oppure ville più discrete, gelose della propria intimità, nascoste dentro immensi giardini di alberi giganteschi. Non solo ville però. Anche alberghi onusti, di una gloria passata, arricchiti da un turismo di eccellenza che viveva il tempo della vacanza sul lago come una sospensione dell’umano correre dietro alle cose, una parentesi posta a metà strada tra cielo e terra. La strada statale intanto correva. Ai lati campi di granturco, campi incolti, di tanto in tanto qualche fila di platani: un verde comunque consolatorio, riposante. Cartelli equidistanti uno dall’altro avvisano me, come gli altri viaggiatori, di non superare il limite di velocità. Ubbidivo, e con me la macchina il cui motore, benché ringhiando insoddisfatto, sopportava di non andare oltre la terza marcia. Attraversai anche qualche paese sviluppato lungo i lati della strada: case discrete, le solite pizzerie, anche da asporto, le inevitabili discoteche. Abbassai il finestrino a un certo punto: dovevo sentire il profumo di quella misura per me nuova, più che nuova, ritrovata. Oltre che il mio olfatto, che si beava di un’aria
odorosa di terra e freschezza, anche il mio occhio prendeva parte al divertimento, quello di vedere la prevalenza di alberi e fili d’erba, e campi sterminati e boschi e boschetti sui cartelli che avvisavano la vendita di mono, bi o trilocali o prospettavano la nascita di un nuovo complesso condominiale con tanto di piscina e proprio lì, da dove ero partito la mattina, dove di acqua ne abbiamo in abbondanza. Sapevo che quel pensiero, il confronto mi avrebbe in parte intristito e in parte innervosito, cosa che accadde. Se avessi saputo quello che stava per capitarmi però avrei tenuto a freno la chimica delle emozioni, ne avrei risparmiato i prodotti per consumarli di lì a breve. Avevo davanti a me un tratto di strada lunga e diritta, una specie di respiro dopo una corsa. Al fondo di quel rettilineo c’era una curva fatta la quale lei mi comparve davanti agli occhi. Fu una sorta di apparizione, come se fosse stata lì solo per me: dovetti rallentare, frenare, spegnere il motore, scendere per guardarla bene, a fondo. Era una vecchia casa di campagna, diroccata. Dal tetto, incavato e privo di parecchie tegole, si involò un gruppo di piccioni quando mi avvicinai. Era una casa, l’ho appena detto, ma sembrava animata da pensieri umani. Dietro le sue persiane, screpolate e storte perlopiù, mi sembrò di sentire un pensiero sommesso che si faceva più chiaro là dove le finestre non avevano più alcuna protezione. Quelle finestre inquadravano il buio delle stanze non più abitate da chissà quanto tempo, ma la cosa singolare fu la percezione delle vite che in quelle stanze erano passate, vite normali, fatte di grida, sudori, preghiere, sogni ma anche cose da mangiare, desideri da realizzare, amori finiti bene o male. Dopo dieci minuti passati a guardarla quella non era più una casa di campagna diroccata e disabitata ma il simbolo di un tempo irrimediabilmente tramontato di cui lei rappresentava uno degli ultimi sopravvissuti. Il mondo di cui mi stava regalando una postrema testimonianza aveva regole di rispetto tra gli umani ma anche verso le cose, non confondeva tra il creare e il distruggere. Ma, in quel momento, quella casa diroccata di campagna mi stava dicendo che ormai aveva perso la battaglia. Il suo tetto incavato, le sue finestre buie, quelle persiane screpolate: che le guardassi bene perché non le avrei più riviste. Di lì a poco qualche gigantesca ruspa avrebbe raso al suolo tutto il suo scheletro e niente più di ciò che era stato sarebbe rimasto. Poi, sulla sua polvere, sarebbe sorto un ipermercato o un condominio o chissà che altro. La salutai, prima di andarmene, agitando la mano e chiamandola per nome, ciao casa, dissi. Sono sicuro che mi rispose. Con voce pacata e buia, una voce che da molto tempo non parlava più con nessuno. Fu per quello che capii che quella non era solo una casa ma un vecchio anche, un vecchio uomo solo, abbandonato da tutti e che passava il tempo pensando a ciò che era stato, a quanto fosse stato bello prima, e sapendo che niente più sarebbe ritornato, macinato o distrutto dalla modernità. Mi rimisi in macchina con l’immagine di quella casa diroccata che ogni tanto si trasformava in un vecchio che esercitava ancora la memoria cercando di non cedere alla nostalgia. Non mi vergogno a confessare che mi commossi.
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a cura di Rosanna Corini, Roberto Saleri, Paola Tonelli
Lʼimmagine del Lago La Fondazione Ugo Da Como è un’istituzione della città di Lonato del Garda dal 1942; voluta dal senatore bresciano che le ha dato il nome, essa ha lo scopo di “promuovere ed incoraggiare gli studi, incoraggiandone l’amore nei giovani”. La fondazione ha sede nella quattrocentesca Casa del Podestà, che fu acquistata nel 1906, dopo anni di abbandono, dal senatore Da Como; questi, consapevole dell’importanza storica del luogo, la fece completamente “restaurare” dal maggiore architetto bresciano del tempo, Antonio Tagliaferri, che ne fece, secondo le intenzioni del committente, una casa-museo da abitare. In essa si conservano collezioni storiche, artistiche e librarie. La biblioteca ospita una delle collezioni private più importanti dell’Italia settentrionale con oltre 30.000 titoli, databili a partire dal XII secolo. Ringraziamo Stefano Lusardi, curatore delle Raccolte Artistiche della Casa-Museo del Podestà e Roberta Valbusa, bibliotecaria della Fondazione Ugo Da Como, per la collaborazione ed il materiale fornito. Tra i volumi raccolti, che particolare attenzione volgono al territorio bresciano e benacense, abbiamo scelto una Guida al lago di Garda esposta in una passeggiata di Lorenzo Ercoliani (Bonfanti, Milano, 1846). Questo agile libretto che nelle intenzioni dell’autore non vuol essere “una di quelle guide che assomigliano all’elenco che un perito estimatore fa dei mobili di una casa” descrive l’amena passeggiata dell’autore con un amico, la di lui moglie e cognata, dall’aprirsi della spettacolare visione del lago dall’altura di Drugolo, fino a Salò e poi a Gargnano, (più oltre no perché “l’onda appare di un bruno-azzurro, e tutto spira mestizia”) col ritorno in barca a Salò rimirando la sponda con la necessaria prospettiva. In questa guida è la parola che forma l’immagine di spazi, edifici e paesaggi, con la suggestione e la piacevolezza di un romanzo. La scrittrice Elisabetta Pierallini, è nata e vive a Brescia. Con il romanzo Sotto sale vinse il premio “L’inedito” nel 1979. Ha pubblicato romanzi con Vallecchi, Bompiani, Camunia. Ha collaborato alla “Domenica del Corriere”, ad “Amica” e “Il Giorno”. Qui riportiamo il brano iniziale del romanzo I belli di famiglia (Camunia, 1986), ambientato tra il lago e la città, tra una villa nei pressi di Gargnano e le strade e le piazze di Brescia; è la storia di una donna alle prese con tre maschi, suocero, marito e figlio, i belli di famiglia appunto, la madre, le amiche, e le complesse relazioni affettive che si intreccia-
no, analizzate con acume ed ironia. Abbiamo scelto questo brano iniziale per le ulteriori suggestioni del paesaggio gardesano che ha saputo offrirci. “Sulla vetta di quel monte l’occhio di collina in collina scendea giù al lago, percorrendo una scala di forse tre miglia, una scala ammantata dalla più ricca e frondosa vegetazione, da boschetti di querce, d’olivi, di vigneti. Una fresca auretta ci aleggiava intorno, olezzante di soavissima, incognita fragranza; il lago, simile ad argento fuso, presentava all’occhio un piano lucidissimo, sul quale discorrea fino alle falde de monte Baldo; e vedea quel tesissimo specchio recinto da monti alteri, abbracciato dall’amoroso amplesso di colline soavissime. E mentre sulla ricurva sponda figurava, quasi in ombreggiatura, le terre e le borgate che specchiasi in quell’onda, vedea da quest’ultima sorgere la penisola di Sirmione, e a rincontro di essa quell’isoletta ch’altra volta prendea nome dai frati che l’abitavano, e ch’ora s’intitola dalla famiglia Lechi, dalla quale è abbellita e posseduta. Sirmione sorgea protendendo in atto altero il suo castello, le sue torri, i suoi tre colli, superba della sua amenità e delle sue antiche memorie. L’isola Lechi, più modesta, più umile, parea galleggiare sulla acque, parea si movesse allontanandosi dal lido, e che l’onda amorosa, palpitando la stringesse, mentre il sole, vagheggiandola dall’alto, la facea splendente e luccicante a modo di imbrillantata gemma. Quella vista ha in sé tanta e sovrumana vaghezza che, alla maniera di un affetto intensissimo, vuol essere sentita e non descritta. E ben se n’accorsero i miei compagni che non brevemente stettero muti a contemplare lo spettacolo; e quando il posare della meraviglia loro concesse le parole, s’avvidero di non saperne trovare di adeguate alle loro sensazioni”. (Guida al Lago di Garda, pp. 21-23). “Noi dicemmo come la Riviera di Salò risulti da una lingua di terra, avente a tergo il monte e all’innanzi il lago. Questo angusto terreno per sua natura ghiaioso, esposto alle alluvioni siccome territorio submontano, sarebbe sterile se umana industria non avesse trovato modo di far riparo agli inconvenienti della posizione e di trar partito dalla medesima, mutando quella balza, per sé infeconda, in una delle più fertili e, per dir tutto in una parola, in un giardino. Sul lago di Garda è questa la plaga che meglio si presta alla coltivazione degli agrumi, né qui è il tutto, perché i limoni della Riviera di Salò vincono in qualità tutti gli altri limoni d’Italia, onde sono ricercatissimi e pagati meglio degli altri. L’area ove si coltivano i cedri, i limoni e gli aranci è detta giardino. I giardini sono disposti a cala dietro il monte: risultano da una lista di terreno, più o meno lunga, della profondità di circa quattordici braccia. Questa lista di terreno è sostenuta da muricciuoli; una lista soprastà all’altra, e a maniera di scala sorgono dietro l’erta del monte. Ogni giardino, cioè
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ognuna di quelle liste, profonda circa quattordici braccia, viene divisa in iscompartimenti (di sette ad otto braccia ognuno) da pilastri che sorgono su alto, destinati a sorreggere gli assiti coi quali alla stagione invernale si fa riparo alle piante degli agrumi. Quegli scompartimenti, larghi otto braccia, profondi quattordici, sono detti campi; il complesso dei campi, in cui è divisa una lista di terra, chiamasi giardino. Le piante vi sono distribuite in modo che se ne contano due ogni tre campi. Il che è detto rispetto alla generalità, mentre vi sono piante di limoni di tal grossezza da occupare ognuna oltre due campi. Molte piante portano da due a tremila limoni all’anno; sono additate qual meraviglia alcune piante che ne producono sino ad ottomila”. (Guida al Lago di Garda, pp. 171-173). “La riviera, contrada bella ed amenissima, a modo di altre cose umane bellissime non presenta le sue maggiori vaghezze a chi in essa si interna: anche la Riviera vuol essere guardata a certa distanza, perché appaia meravigliosa e sia la realtà fondamento di dolcissime illusioni. Se il Petrarca, anziché essere l’amante di Laura ne fosse stato il marito, con tutta la sovrumana potenza del suo ingegno non avrebbe rinvenuto in essa tutti quegli straordinari pregi che gli facevano parere quella donna unica al mondo. E perché? Perché gli sarebbe mancato il punto di prospettiva per la soverchia vicinanza. E così avviene appunto a chi percorre la Riviera per terra. Ond’io, consigliato ai compagni di rimandare la carrozza a Salò, noleggiai una barchetta, e, in essa entrati, ci scostammo da terra prendendo un po’ l’alto del lago. Di là ci si offerse veramente il meraviglioso spettacolo della Riviera, un miracolo, cioè, di naturali bellezze, una vista tanto svariata, amena, sorprendente, da non poter essere descritta. Perché chi l’ha veduta, e ne serba necessariamente indelebile memoria, troverebbe fiacca ogni più vigorosa espressione, sbiadita ogni più ardita immagine; mentre chi non la vide troverebbe quel dire esagerato. Presentatasi una costa semicircolare della lunghezza di dieci miglia, sorgente dal lago a modo del recinto di un anfiteatro. Giù in basso, alla riva, stavano le case delle borgate nominate in addietro, e pareano, le une unite all’altre, presentare un’ampia città. I loro muri, i loro pilastri, simmetricamente disposti in lunghe fughe, succedentesi le une alle altre per lo spazio di circa dieci miglia e tutte di un medesimo colore bianchissimo, protendansi allo sguardo a modo delle logge di un immenso teatro. E fra gli interstizi di quelle logge vedeasi splendere il verde degli agrumi; e al di sopra di quelle logge folteggiare il bosco che ricopre quella parte superiore del monte ove non salgono i giardini. Immaginate questo bellissimo panorama riflesso dall’onda del soggetto lago, e avrete una languida idea della Riviera di Salò; perché è dessa una di quelle piagge meravigliose che non possono essere ritratte, né dalla penna né dal pennello”. (Guida al Lago di Garda, pp. 177-180). “A volte l’ulivo è celeste, come in quest’ora del pomeriggio vuoto di vènti e di suoni, in un silenzio estatico, ma dove
sono le cicale, e tutto è dello stesso colore, cielo lago terra pennellati senza fantasia. Spicca solo l’alloro, contro le colonne portanti del terrazzo, di un verde metallico divorato dai bruchi. Ha bacche nere sanguinolente che sporcano il portico. Gli amici dicono: ma che bello spettacolo! Si afferrano con le mani alla ringhiera e guardano giù, lo strapiombo irto di agavi, lo stretto cordone di sassi e infine l’acqua del lago, che a volte pare morta tanto è ferma. Nella loro esclamazione di meraviglia c’è la gioia di un’asettica contemplazione. Dopo che hanno ben guardato e ben esclamato, tutti, dico tutti, se ne vanno con sollievo. A volte ho visto dell’ironia negli occhi di chi diceva: beata te che stai in questo paradiso. ‘La nostra casa è sinistra’ dico a Filippo. ‘Non è sinistra, se non ti guardi alle spalle’ risponde lui, quieto, senza alzare gli occhi dal giornale. Filippo parla sempre senza alzare gli occhi da quello che sta leggendo o scrivendo e le sue parole sono concise. Non una di più non una di meno. ‘Io non mi guardo alle spalle’ dico. ‘Se mi guardo alle spalle mi spavento’. ‘Esagerata’ dice Filippo e tutto finisce qui. Potrebbe invece indicarmi la terraferma, al di là del lago, che in quest’ora comincia ad assumere rilievo e colorazione. Potrebbe farmi notare i paesi sparsi a manciate, senza nessun ordine, e poi la fila di barche ferme come anitre. Piano piano il vento della sera snebbia e sbuccia lago ulivi e cielo. C’è un momento, prima del buio definitivo, in cui dal piatto acquerello emergono le tre dimensioni: il lago è lontano, il cielo sta in alto, gli olivi tra il lago e cielo sono una barriera. Lui invece legge, col sorriso sulle labbra, perché non ha problemi, gli occhi cuciti ad un giornale con troppe pagine, non partecipa assolutamente alla mia buona disponibilità nel percepire la grazia di questo posto, così non mi resta che appoggiarmi con la schiena alla ringhiera e guardare l’orrore dei cipressi neri, macchiati di ruggine, impegolati di nidi distrutti. Chi li ha piantati non ha fatto i conti con lo sviluppo naturale e lo spazio vitale, ora i cipressi si mangiano l’uno con l’altro, tra la facciata della casa e il tratto di strada provinciale sempre in ombra nell’umida ascella di un monte. Chi passa lì davanti si fa il segno della croce. ‘Anche la gente ha paura’ butto là con noncuranza”. (I belli di famiglia, pp.3-4). P. T.
a cura di Roberta Fasola
Il ventre e lʼanima di Como nelle parole di Cesare Cattaneo “Azzurro di vento sul lago e rosso d’autunno sui monti; promessa di meraviglia”. Cesare Cattaneo, Paolo Pons, 1932 A volte l’occhio dell’architetto indugia sul presente con frenesia. A volte la mano e la voce dell’architetto permettono d’entrare nelle città, nelle storie, nelle opere e nella materia. Qualche volta le parole dell’architetto sono capaci di seduzione. Ed è per via di tali coincidenze che nell’interpretare il rapporto fra l’architettura e la letteratura è stato per alcuni versi inevitabile guardare all’opera di Cesare Cattaneo (1912-1943). Un architetto, autore di due testi nei quali l’architettura assume i caratteri di uno strumento per comprendere il presente, la vita, gli uomini. La stessa struttura e modalità di scrittura adottata dall’autore depongono per una siffatta scelta: si tratta di due opere eccentriche rispetto agli stilemi ai quali si riconduce la critica e la letteratura architettonica. Per tale ragione Paolo Pons, del 1932, e Giovanni e Giuseppe (1), del 1941 si prestano a rendere tangibile il flebile e mutevole legame fra architettura e letteratura. Un tratto distintivo dei due scritti di Cesare Cattaneo risulta essere, senza dubbio, il gioco delle parti, dei dialoghi che, seppure con apparente levità, scavano inesorabilmente nell’esistente, nell’architettura e nelle coscienze. La città di Como tratteggiata in Paolo Pons assume le sembianze di un universo inatteso e infinito, nel quale ogni elemento – anche ciò che in apparenza potrebbe dirsi effimero - diviene occasione per scrutare, dare ascolto e rispondere alle tensioni ideali che si dibattono nell’animo dei giovani comaschi che diedero vita alla stagione del razionalismo lariano. Il testo si dispiega in quattro parti e conduce il lettore in un’incessante oscillazione tra lo sguardo complessivo e il dettaglio, tra il dato materiale e la vita quotidiana. Cattaneo vede e descrive - con il trasporto dei suoi vent’anni - la città, i cantieri in fieri, i luoghi ove trascorrere un quotidiano solo in apparenza anonimo, gli abitanti con le loro inevitabili antinomie. Grazie agli strumenti di una capacità retorica non comune, l’autore entra a piè pari nei sentimenti che intridono i giovani comaschi nel loro senso di appartenenza ad un
luogo, a Como “con la forza di ‘repulsione’, ma anche di autoattrazione e autocompensazione che la provincia può esercitare” (2). Agli occhi del giovane architetto la città e il suo territorio si svelano senza riserbi, anche con le loro incongruenze. A discapito della giovane età, Cesare Cattaneo ne è pienamente cosciente: “Altri paradossi meravigliosi sono mescolati nel paesaggio. Certe piante si mostrano, a un tempo, d’estate e d’inverno. E c’è negli elementi soprannaturali una intensità di vita, che invano cercheremmo in quelli naturali. Pons cammina solenne in questo che è il suo mondo. Lo vedo finalmente nel suo vero aspetto, ma non so dire quale sia questo aspetto”. Il tema del dialogo immaginario, caro all’autore, torna nel celeberrimo Giovanni e Giuseppe (3). Il testo, dedicato ai pittori astrattisti, ed amici, Manlio Rho e Mario Radice, possiede un’anatomia articolata in 21 capitoli, taluni privi di titolo, preceduti da un’Avvertenza e dal saggio “Giovanni è per il mattino” e seguiti da un commiato: “Giovanni va in città”. Rispetto all’opera precedente, s’avverte qui la maturità procurata da un decennio, oramai quasi compiutamente trascorso. E benché Cesare Cattaneo si schernisse nell’apostrofare la propria opera come l’esito di “un non esperto dell’arte letteraria e sprovveduto di cultura”, l’autore riesce a rendere compiutamente tangibili le ragioni soggiacenti alla cultura razionalista, nel suo farsi. Non sorprende pertanto che Giuseppe Pagano, nel recensire Giovanni e Giuseppe, avvertisse la necessità che il testo di questo giovane potesse essere “letto e meditato da tutti gli architetti italiani, giovani o vecchi, funzionalisti o reazionari. Vorrei soprattutto che lo leggessero con rispettosa simpatia tutti coloro che rivestono posizioni di grande responsabilità verso l’architettura e l’urbanistica italiana. È tale la serietà delle questioni trattate ed è così serena la loro esposizione, così preciso il senso della misura nelle supposizioni e nei giudizi e nella enunciazione delle teorie che il dialogo assume davvero l’importanza di un bilancio preventivo sulla crisi del mondo moderno e sulle grandi responsabilità dell’architettura di oggi e di domani (4). Ecco alcune delle ragioni per le quali attendiamo, con ansia, la prossima riedizione critica degli scritti di Cesare Cattaneo, magistrale scultore della materia e delle parole. Chiara Rostagno Note 1. Cesare Cattaneo, Giovanni e Giuseppe, Milano, Libreria Artistica Salto, 1941. 2. Cesare Cattaneo, Giovanni e Giuseppe dialoghi di architettura, Milano, Jaca Book, 1993; p. 9. 3. Si rimanda al riguardo al testo di Ornella Selvafolta, La tensione dell’intendere che apre la riedizione del testo. Ivi, pp. 7-42. 4. G. Pagano, Giovanni e Giuseppe, in “CostruzioneCasabella”, n. 172, apr. 1942, p. 5.
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Cremona a cura di Fiorenzo Lodi
Crema nella letteratura La cittadina di Crema, piccola ma strategicamente collocata nella geografia lombarda, come già affermava nel 1562 il Podestà di crema Andrea Bernardo: “per picciol terra è molto bella et honorata”, approda al secolo XX con una precisa struttura morfologica urbana, ma nel segno del rinnovamento, dell’espansione pur nella grande attenzione alle tante ed importanti presenze storiche, più o meno visibili, pubbliche o private. Non esente dai disastrosi effetti delle due grandi guerre che hanno segnato il secolo, non si piega ed anzi incomincia e prosegue quel grande fermento che a tutt’oggi ne fa un importante crocevia tra i maggiori capoluoghi lombardi, attivo centro urbano sotto i più svariati profili, non ultimo quello culturale. Dunque anche la letteratura, perlopiù locale, non esita ad interessarsi della sua città, la osserva, la descrive, la celebra, ne tratteggia le vicende storiche, ne apprezza con orgoglio le straordinarie e molteplici eccellenze artistiche, insomma scrive nero su bianco le “grandezze” di questa pur piccola cittadina. In particolare è dopo il secondo dopoguerra che si riscontra la maggiore produzione letteraria, tra i quali spiccano: Terre nostre (1946) di A. Zavaglio, Crema bella (1959) di A. Bombelli, Crema monumentale ed artistica (1960) di W. Terni De’Gregorj, Vicende degli edifici monumentali e storici di Crema (1975) di M. Perolini. Diverse sono poi le guide artistiche della città. Particolare rilievo va dedicato ai testi di L. Ceserani Ermentini, Il volto della città. Crema nella storia e nell’arte, Turris, 1990, seguito da M. Ermentini, L. Ceserani, Crema, Piazza Duomo e le Porte della città. Storia, arte, restauro (1993). Il primo percorre magistralmente le vicende storiche e l’evoluzione della città sotto i profili storico-politico, sociale, urbanistico, architettonico ed artistico, con particolare attenzione filologica, dovizia di particolari, quanto altrettanta curiosità ed amore per tutte le manifestazioni del “volto” di questa cittadina. Il secondo testo è interamente dedicato al cuore della città di Crema, fatto urbano assolutamente baricentrico e manifestazione fisica dei massimi poteri della città, religioso e temporale, ovvero alla Piazza del Duomo e alle sue straordinarie presenze artistiche. Ricco di straordinaria documentazione fotografica e di disegni, raccolta e redatta dagli autori e dallo studio d’architettura
Ermentini, il volume muove da un approfondito studio delle emergenze architettoniche di questo centrale brano di città, per giungere a spiegare le ragioni sottese alle scelte operate nel progetto di restauro dei diversi monumenti, che altrettanto ampiamente viene illustrato nelle sue fasi progettuali, esecutive e di risultato finale. Proprio i lavori di restauro hanno contribuito ad ulteriori e nuove conoscenze della città: le fonti cioè sono state non letterarie e storiche, bensì artistiche e materiali. La loro osservazione e il loro studio è quindi confluito in questo straordinario tassello della letteratura sui maggiori monumenti e luoghi della città di Crema. Punto fermo nel panorama letterario della città è poi certamente il volume di Maria Laura Bianchessi Crema una città da scoprire (1991). Chiaro e lineare il testo si offre sia all’amatore e al curioso che al letterato ed intellettuale. Il superbo corredo fotografico di Carlo Bruschieri ne costituisce uno splendido e davvero superlativo completamento. Preciso e dettagliato nella sezione storica, quanto vario e curioso nelle sezioni dedicate all’artigianato ed al folclore, stupisce, sempre con un sapiente uso combinato del testo e delle immagini, per la capacità di leggere la città di oggi immersa nelle tante e tanto dense presenze storiche: la città fisica ed architettonica, quella dei mestieri e delle arti, quella delle manifestazioni artistiche, in ogni loro forma, tradizionale, folcloristica, moderna e innovativa. Insomma si racconta una città viva e fervida in ogni suo splendido angolo e in ogni sua vitale manifestazione, la grandezza dei suoi palazzi, delle chiese e dei giardini, delle opere ingegneristiche e dei tesori naturalistici, dei suoi artefici passati e presenti. Infine il recentissimo (2006) Crema tra identità e trasformazione. 1952-1963, di autori vari, a cura del Centro Ricerca Alfredo Galmozzi, testo che esamina e racconta, nel breve spazio temporale degli anni ‘50 la “vita” della città di Crema nella sua interezza. Grazie ai qualificati autori e ai preziosi interventi si ottiene un excursus sempre interessante e perfettamente supportato dai molteplici documenti d’archivio rinvenuti e studiati, nonché da un superbo corredo fotografico sempre riferito agli anni presi in esame. Ne esce una fotografia assai fine che perlustra le trasformazioni economiche, sociali e sindacali, l’attività urbanistica ed architettonica, la vita religiosa e del volontariato, la scuola, il cinema e la musica. Assai curioso, nel suo carattere al contempo spicciolo e sorprendente, è la sezione denominata “Crema quotidiana. Florilegio di cronache cremasche dal 1952 al 1962”. Adriano Alchieri
a cura di Enrico Castelnuovo e M. Elisabetta Ripamonti
Il territorio lecchese nella letteratura Sappiamo di essere ripetitivi, ma tutto cominciò con Alessandro Manzoni. Nessuno mai aveva descritto Lecco ed il suo territorio con così tanto trasporto, ispirazione, cognizione di causa e amore per il lago come fu per il Manzoni. Ma questa grandiosità e ricchezza di particolari alla lunga ingessò qualsiasi altro tentativo di descrivere le nostre sponde e le nostre montagne perché era chiaro ad ogni scrittore che il paragone con il massimo romanziere italiano sarebbe stato impietoso nei confronti di chiunque. Sebbene nella storia dei nostri luoghi ci siano stati altri importanti letterati che ne abbiano decantato la bellezza, dopo la pubblicazione dei Promessi Sposi il rapporto tra città e letteratura è cambiato in modo irreversibile. E così, a più di 150 anni dall'edizione definitiva del celebre romanzo storico, capita tuttora che qualche forestiero abbia negli occhi la Lecco seicentesca intatta ed incontaminata che invece nel frattempo è stata più e più volte intaccata da una selvaggia e poco raffinata speculazione edilizia che ha avuto poco riguardo per il costruito preesistente (per chi non lo sapesse la Casa del Sarto teatro di memorabili scene del romanzo è in parte crollata poiché totalmente lasciata all'abbandono da proprietari e amministratori comunali). Le generazioni di lecchesi che hanno vissuto il '900 hanno quindi molto spesso trascurato una eredità letteraria importantissima per dedicarsi ad una cultura della produzione e dell'industria del ferro che, se da una parte ha avuto meno lustro culturale di altre attività, dall'altra ha avuto il merito di garantire al nostro comprensorio una ricchezza che si è perpetrata per molti decenni. Se quindi l'industria ha da parte sua modificato irreversibilmente i paesaggi cari al Manzoni, bisogna comunque dire che anche l'edilizia residenziale ha avuto la sua responsabilità nell'aggressione formale delle nostre dolci colline. E così, rileggendo le pagine di don Rinaldo Beretta, probabilmente il più grande storico della Brianza e del Lecchese, si ha la sensazione che gli antichi percorsi ed insediamenti gallici prima e la diffusione dei monasteri
poi, abbiano lasciato il passo ai complessi abitativi di forma sempre uguale e addirittura abbiano usurpato spazi sacri. Il paesaggio lecchese del rinascimento aveva i suoi tratti peculiari nelle canoniche, nei campanili, nei conventi e nelle chiese, i centri culturali di cui don Beretta ci parla erano caposaldi della civiltà brianzola in nuce che è stata letteralente cancellata. E fanno tenerezza quelle descrizioni contenute negli Appunti Storici del 1966 con le quali il don ci riporta a un territorio solcato dall'Adda la cui vita sociale e mercantile gravitava per molta parte sul fiume. Si scoprono così i porti che sorgevano sull'Adda e che facevano da cerniera tra il Ducato di Milano e la Serenissima Republica di Venezia, storie di commerci e dazi doganali, esempi di un commercio appena nascente inserito nelle dinamiche della storia lombarda che visse le alterne vicende delle dominazioni spagnole ed austriache con molle rassegnazione. Si leggono allora le dispute tra le varie Signorie sull'uso delle acque e dei sentieri che portavano all'acqua, si legge degli interventi papali per l'assegnazione di terreni ad un monastero o ad una parrocchia che aveva in carico troppe “bocche” da sfamare. Ciò che l'eredità di don Beretta ci ha insegnato è stata la lettura di un paesaggio sicuramente romantico, di una popolazione inconsapevole e quasi sempre invisibile perché dominata da fattori religiosi, politici e sociali decisi altrove. Sono pagine che permettono di riflettere sull'essenza del nostro territorio e che invitano ad un ossequio imposto dal lustro della Storia. Ma si sa, con gli ossequi formali non ci sarebbe nessuna innovazione, nemmeno culturale e fortunatamente c'è stato chi ha avuto il merito di cimentarsi in una coraggiosa rilettura del nostro paesaggio in chiave totalmente diversa da quella romantica: Carlo Emilio Gadda. Il termine “coraggio” si addice ad uno scrittore che non ha lesinato critiche né al paesaggio antropizzato di Lecco né ai suoi abitanti. E siccome siamo sicuri che a molti può essere sfuggito come Gadda ci descrive ne La cognizione del dolore abbiamo deciso di pubblicare una parte del testo. “Noi ci contenteremo, dato che le verze non sono il nostro forte, di segnalare come qualmente taluno de’ più in vista fra quei politecnicali prodotti, col tetto tutto gronde, e le gronde tutte punte, a triangolacci settentrionali e glaciali, inalberasse pretese di chalet svizzero, pur segui-
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tando a cuocere nella vastità del ferragosto americano: ma il legno dell’Oberland era però soltanto dipinto (sulla scialbatura serruchonese) e un po’ troppo stinto, anche, dalle dacquate e dai monsoni. Altre villule, dov’è lo spigoluccio più in fuora, si drizzavano su, belle belle, in una torricella pseudosenese o pastrufazianamente normanna, con una lunga e nera stanga in coppa, per il parafulmine e la bandiera. Altre ancora si insignivano di cupolette e pinnacoli vari, di tipo russo o quasi, un po’ come dei rapanelli o cipolle capovolti, a copertura embricata e bene spesso policroma, e cioè squame d’un carnevalesco rettile, metà gialle e metà celesti. Cosicché tenevano della pagoda e della filanda, ed erano anche una via di mezzo fra l’Albambra e il Kremlino”. Come ben si vede nel mirino ci sono anche gli architetti “pastrufaziani” ossia gli architetti milanesi colpevoli di aver fatto proliferare le ville – politecnicali prodotti – con gronde enormi o torricelle “pseudosenesi”. Il libro di Gadda, pur usando strutture manzoniane e addirittura parafrasando alcune sue descrizioni, racconta il nostro territorio in chiave ironica anzi irriverente. E così la città di Lecco diventa Terepattola, il Resegone si trasforma nel Serruchon e i tratti distintivi degli abitanti sono da ricercare in un continuo sforzo per apparire grottescamente circondati da case prestigiose e sovrabbondanti di elementi decorativi con il solo fine dell'ostentazione. Forse il caustico Gadda non aveva poi sbagliato di molto, rimane infatti la sensazione, suffragata dalle parole di un critico letterario che “non si può più, dopo aver letto la Cognizione, guardare la Brianza come prima”. Noi però, evitando accuratamente le generalizzazioni dettate da un troppo avventato giudizio, vogliamo – citando Don Beretta – sottolineare che “ognuno dei nostri paesi, oltre alla storia generale della zona in cui è situato, ha una storia propria, intima fatta di piccole cose, di episodi locali ed alle volte quasi insignificanti per gli estranei, ma importanti per la comunità del luogo. È la vita d'ogni giorno che con date, nomi ed opere, oggi è cronaca e domani sarà storia”. Constatiamo con rammarico che l'antico paesaggio campestre non tornerà mai più, ma quali che siano i futuri destini del nostro comprensorio, gli scriventi sono comunque convinti che, la descrizione delle creste rosa del Resegone illuminato dal sole al tramonto, sia sempre un buon motivo per trovare un momento di sana emozione condivisibile da tutti. E. C. e M. E. R.
Lodi a cura di Antonino Negrini
La bella di Lodi Durante la passata edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, nell’ambito della rassegna “Questi fantasmi: Cinema Italiano ritrovato” curata da Tatti Sanguineti e Sergio Toffetti, che prevedeva la proiezione di una trentina di pellicole restaurate, è stato presentato il film La bella di Lodi, (1963), del regista Mario Missiroli con sceneggiatura dello scrittore Alberto Arbasino, basato su un suo racconto scritto nel 1961 per la rivista “Il Mondo”. Il racconto, ambientato nell’Italia e nella Lodi degli anni del boom economico, verrà poi ripreso e trasformato in un romanzo edito da Einaudi nel 1972. Un romanzo strutturato quasi fosse una sceneggiatura, è commedia di descrizioni e immagini priva di introspezione e pensiero. L’intera vicenda ha una connotazione realistica, ben radicata nella materia, nel buon senso affaristico; tutte caratteristiche proprie del carattere di Roberta, la protagonista, e della sua terra, il Lodigiano, territorio da sempre legato all’agricoltura e alla praticità che caratterizza la vita rurale (la “grassa Lombardia agricola”, dunque, per dirla con il critico Squillaci). Primavera a Forte dei Marmi. In spiaggia, Roberta, giovane e bella possidente lodigiana, conosce Franco, un meccanico privo di scrupoli ed opportunista. Subito, tra i due erompe l’attrazione: la storia si snoda attraverso incontri e fughe dei due, che a bordo della "MG" di Roberta vagano sull'autostrada del Sole, in motel, alberghi di lusso, in un panorama da miracolo economico. Ma la giovane donna non cede mai alla tentazione di vivere un amore completamente on the road e dal gusto bohémienne: ben radicati in lei sono le abitudini della sua terra, accanto al desiderio di vivere la sua “stupidata al mare” c’è saldo l’intento di curare i propri interessi economici e la responsabilità di dover “mandare avanti” la propria azienda. Dunque, ecco che questo dualismo si risolve nell’happy ending: Roberta si lega definitivamente a Franco, sposandolo, e gli promette un garage tutto suo, a casa, a Lodi. In realtà non verrebbe da descrivere il romanzo come “lodigiano”: esso si svolge per la maggior parte lontano da Lodi e dalle sue campagne, lungo i chilome-
Laura Boriani
Mantova
a cura di Elena Pradella e Nadir Tarana
Festivaletteratura Nella città di Mantova il rapporto fra letteratura e città (“come la città e il territorio divengono teatro delle vicende letterarie”), si esprime in un modo del tutto particolare e singolare attraverso l’esperienza del Festivaletteratura, la cui XII edizione si è appena conclusa. È un rapporto immediato e diretto, in cui la città si mette a disposizione nella sua dimensione più significativa e complessiva di spazio pubblico, e il fenomeno letterario non si fa merce, ma nobilita lo spazio della città. Il Festivaletteratura di Mantova dura cinque giorni: si apre il mercoledì pomeriggio, in piazza Erbe: si conclude al tramonto della domenica successiva con l’ultimo evento in piazza Castello e con la festa finale della città, di tutti i volontari e degli ospiti. Caratteristica distintiva del Festival è il volontariato: sono volontari gli sponsor e gli otto componenti del comitato organizzatore del Festival; è volontaria la città: le strade, le piazze, gli edifici; ma anche la gente, la comunità. Per cinque giorni la città è a disposizione del Festival. Anche se la presenza fisica del Festival è evidente per circa un mese (20 agosto/20 settembre), dall’avvio dei montaggi degli allestimenti, fino allo smontaggio dell’ultimo allestimento a Festival concluso. Il cuore funzionale (sede operativa, biglietteria, ufficio stampa, accoglienza) del Festival utilizza l’insieme dei palazzi e delle piazze storiche della città, cioè esattamente il cuore di Mantova. Questo è anche il cuore dove vengono svolte molte delle attività specifiche del Festival, e per questo è sempre affollato e particolarmente animato: da qui hanno inizio tutti percorsi del Festival, a partire dal “percorso del Principe” che da sempre rappresenta l’asse portante della città storica. Lungo questi percorsi si snodano i luoghi veri e propri dove si svolgono gli eventi del Festival. In questi dodici anni la mappa dei luoghi si è arricchita, ampliata e articolata progressivamente, con il dichiarato intento di coinvolgere progressivamente sempre nuovi àmbiti della città e del territorio. La scelta di questi luoghi è sempre una questione molto delicata e complessa, perché deve tener conto di molteplici fat-
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tri della neonata Autostrada del Sole, negli Autogrill, nelle pinete della Versilia, a Forte dei Marmi. Tuttavia, ciò non significa che il territorio lodigiano non sia una presenza costante nella narrazione: infatti esso è racchiuso nelle piccole manie e nei comportamenti estremamente concreti dei personaggi, vive nel loro inconscio; e specialmente Roberta, nonostante giunga addirittura a seguire una compagnia itinerante di saltimbanchi, non si libera mai di questa sua essenza lombarda, rurale, questo suo background che mette il senso della proprietà e degli interessi economici sopra ogni cosa. Roberta non lascia mai, in realtà, il suo mondo fatto di terre e mucche, latte e formaggio, aziende e speculazioni immobiliari. “Per parecchie generazioni loro sono stati affittuari di grossi fondi agricoli nel basso Milanese, per esempio di proprietà dell’ospedale Maggiore. Poi verso la fine dell’Ottocento, ai figli maschi si cominciava a comprare, uno dopo l’altro, un fondo proprio, organizzato secondo la maestosa struttura quadrilatera longobarda che si vede bene specialmente dall’aereo, il palazzetto dell’abitazione con le case dei contadini e le stalle e il rustico intorno al medesimo gran cortile patriarcale col concime e i rigagnoli (esterno invece il giardino circondato da un semplice muro)”. Questa è la cascina: rigida gerarchia tra gli edifici, organismo saldamente ancorato al territorio e alla sua storia in virtù di quel legame stretto di mutua dipendenza tra uomo e ambiente, dove gli appezzamenti della grande proprietà fondiaria sono suddivisi da filari di alberi lungo i fossi secondo la tipica modalità della "piantata padana"; quella “grossa casa vicina alla strada, al centro d’uno dei fondi nel giro tra Lodi [e] Sant’Angelo, Codogno, Piacenza e Casale (…) dove si va a fare il mercato” tra le mura delle quali si forgia il carattere di Roberta. Come sempre accade quando le parole diventano immagini del grande schermo, quando i personaggi ed i luoghi che si erano solo immaginati prendono forma e divengono i volti e le location volute dal regista, anche “La bella di Lodi” avrà per sempre il volto di una giovanissima Stefania Sandrelli, doppiata con accento lodigiano da Adriana Asti. Ed è con i fotogrammi in un bianco e nero dolce e malinconico che ci si ritrova a seguire Roberta che sale in auto, “lungo la strada incrocia e sorpassa macchine (…) Passano i pioppi, e i fossi, e i filari di gelsi primaverili” Eccola che attraversa, lo sguardo sicuro, “respirando forte”, il ponte sull’Adda, su, su verso corso Adda, corso Umberto e poi la piazza (in cui sono parcheggiate Fiat 500, Giuliette e Lancia – non erano tempi di isola pedonale), e infine il Bar Tacchinardi in cui la protagonista si ferma per un caffé. Gli occhi che guardano, oltre la vetrina, senza vederla, la solida facciata del Duomo.
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tori: una facile accessibilità pedonale, che richiede riconoscibilità e prossimità reciproca; rappresentatività e “immagine”; adeguatezza funzionale in relazione alle esigenze degli eventi e del pubblico; rispondenza alle norme di sicurezza; disponibilità dei proprietari. Il Festival ha anche sempre cercato luoghi “da scoprire”; cioè luoghi che normalmente non sono (o non sono mai stati) considerati importanti o significativi per la vita pubblica della città, ma che lo possono diventare o tornare ad essere. Gli spazi utilizzati per gli eventi del Festival sono assolutamente determinanti e, per così dire, rappresentano con la loro immagine il Festival: • Piazza Castello e il Cortile della Cavallerizza, all’interno del Palazzo Ducale: sono i luoghi che offrono la maggiore capacità (1.200 e 800 posti, rispettivamente), e sono dedicati agli eventi di maggior richiamo e alle serate in cui vi siano spettacoli. • I cortili e i chiostri di palazzi storici e di conventi, con capacità variabile fra i 200 e i 600 posti. Sono luoghi di grande tradizione e valore architettonico, e sono dedicati a incontri selezionati, avendo particolare cura di porre in relazione i temi, i luoghi, la prevedibile affluenza di pubblico. • Molti altri luoghi, più intimi o particolari, diffusi nella città, per gli incontri “di nicchia”: che però non sono mai da considerare come “secondari”, perché offrono sempre immagini architettoniche suggestive e, molto spesso, “nuove” anche per i mantovani. • Vengono usati anche i “contenitori” tradizionali (teatri e sale di riunione varie): ma per la massima parte il Festival utilizza spazi pubblici (piazze) o che presentano chiare potenzialità di uso pubblico (cortili aperti di edifici di uso pubblico). Lo “stile” del Festival è ispirato alla semplicità; è informale e non appariscente: non si sovrappone alla città. Anche se, in alcune situazioni, vengono proposte immagini o situazioni innovative, che fanno vedere un luogo o la città secondo “prospettive” diverse. Durante il Festival si cerca di non rivoluzionare la città, cioè di non occuparla: anche se, ovviamente, la grande presenza di pubblico del Festival crea problemi di sovraffollamento. Semmai, invece di stravolgere la città, il Festival si incarica regolarmente di scoprire e valorizzare luoghi che, proprio in occasione del Festival, ven-
gono “immessi” nel circuito dei luoghi “centrali” o di facile accessibilità; e che vi rimangono poi, a Festival concluso: o per un ritrovato uso, o almeno per la memoria che persiste. Alcune considerazioni e valutazioni conclusive L’importanza essenziale del volontariato: organizzato e attivo, ma non istituzionalizzato. Il Festival è sentito come proprio dalla intera città e dai suoi abitanti. Il Festival offre molto alla città, ma riceve anche molto. Un equilibrato rapporto fra iniziativa privata ed ente pubblico. Per la verità non è stato facile, anzi difficile. Se si concorda che il Festival svolge un’attività che interessa a fondo la città, ci si aspetta dall’Ente Pubblico (Regione, Provincia, Comune): • autonomia per l’organizzazione e gestione, soprattutto per il programma e per l’“immagine” del Festival in quanto manifestazione; • supporto effettivo in termini di risorse, opportunità, problemi organizzativi; • collaborazione e non competizione/sovrapposizione nella programmazione delle attività. Il Festival costituisce per Mantova un grande potenziale di promozione, stimolo, sviluppo: economico/commerciale, turistico e culturale. Il Festival documenta che si possono realizzare attività di grande richiamo anche con temi, modalità e “immagine” di indiscutibile livello, ma non usuali; con proposte che sono in controtendenza rispetto alla globalizzazione e al consumismo, alla banalizzazione, alla massificazione; e per nuove attività avviate da giovani e collegate o stimolate dalla presenza del Festival. Il Festival, infine, rappresenta un potente motore per la rivitalizzazione della città storica: • nel recupero dell’uso civile e sociale della città come spazio pubblico organizzato e rappresentativo della comunità, il Festival documenta in concreto la possibilità effettiva di un uso efficiente della città storica; • nella riaffermazione del centro storico come luogo centrale della città e del territorio, con un ruolo non antagonista ma di supporto e riferimento; • nella diffusione progressiva dell’“effetto Festival” sulla città e sul territorio. Francesco Caprini
a cura di Roberto Gamba
Milano, letteratura e architettura Milano è città protagonista di vicende e avventure di romanzi contemporanei: numerosi scrittori, oltre che poeti, giornalisti, cineasti vi ambientano le loro storie. Generalmente i racconti che si svolgono nella città lombarda hanno una trama delittuosa e traducono i risultati di inchieste poliziesche; ma l’atmosfera che viene letterariamente descritta non è quella “fumosa”, grigia, deprimente delle metropoli sterminate e uniformi, bensì rappresenta il luogo ove, oltre che monumenti, architetture e ambienti caratteristici, si incontrano lavoratori, studenti, massaie e tanti altri tipici personaggi. Molti di loro si esprimono in forme dialettali e con la semplicità a cui noi abitanti dei paesi mediterranei siamo abituati. Chi sono questi scrittori; che cosa rappresentano nel panorama della letteratura contemporanea, come vivono, come si esprimono? Piero Colaprico, nato a Putignano nel 1957, è giornalista (“la Repubblica”) e scrittore, vive a Milano. È proprio Colaprico ad aver coniato il termine Tangentopoli, riferendolo a quel famoso sistema di bustarelle e corruzione, scoperto a Milano negli anni‘90. Ha pubblicato alcuni saggi con taglio giornalistico (Duomo Connection, Manager Calibro 9 dedicato alla malavita milanese; (Capire tangentopoli - pubblicato nel 1996) e romanzi e racconti gialli. Una serie (Marco Tropea ed.) ha per protagonista il maresciallo Binda: Quattro gocce di acqua piovana, La nevicata dell'85, La primavera dei maimorti (questi con Pietro Valpreda), poi L'estate del Mundial e La quinta stagione, scritti dal solo Colaprico, dopo la morte di Valpreda. Nel 2004 esce La Trilogia della città di M, un romanzo composto da tre lunghi racconti ambientati a Milano (come i libri della quadrilogia di Binda) con protagonista l'ispettore Bagni. Il libro si aggiudica, ex aequo, il Premio Scerbanenco. Di Piero Colaprico pubblichiamo un contributo, scritto per la sezione Forum. Andrea G. Pinketts è nato a Milano nel 1961, sua madre è trentina e suo padre irlandese. Ha vinto tre edizioni ('84, '89, '90) del Mystfest per il miglior racconto. Nel 1991 gli è stata assegnata la targa “Un Remington per la strada” per il giornalismo investigativo. Le sue inchieste per la rivista “Esquire” hanno riguardato la realtà del dormitorio, i segreti della Stazione Centrale, i vù cumprà e i portatori di handicap. Ha fondato “La scuola dei duri”, un movimento letterario che si propone di esplorare la realtà attraverso l'indagine poliziesca.
Dal 1991 al Post Café (al Lorenteggio) ha coordinato un ciclo di seminari sulla criminologia dal titolo “Giallo e Bar”. Nel 1996 ha vinto la prima edizione del “Premio Scerbanenco”. • Da Il vizio dell'agnello (Feltrinelli, 2002): “A Milano, di notte, c'è il mare. È un mare di persone che, nascoste dall'oscurità, nuotano da un locale all'altro per pescare o per farsi pescare, un po' esche, un po' squali disinvolti e impacciati. È un mare di guai, nelle bische volanti di piazza Tirana, dove un dado e una pallottola rimediano sempre un buco di troppo. È un mare in burrasca alla disperata, frenetica ricerca del divertimento prima che faccia giorno. È un mare di equivoci in cui i travestiti brasiliani si spacciano per ex ballerine Oba Oba, ostentando, anziché la voce delle sirene, baritonali listini dei prezzi. È un mare che a tratti può apparire deserto e ti sembra che non ci sia in giro nessuno, ma sai che è profondo come l'oceano e, come l'oceano, abitato. È un mare in cui potresti perderti se non ci fossero le luci dei locali aperti a farti da faro, se non ci fossero finestre illuminate anche in palazzi quasi completamente addormentati, come a dirti che a Milano le case dormono con un occhio solo. E poi ci sono i fari delle auto che dragano la città per mettere a fuoco una tentazione. I buchi dei dadi, dei proiettili, delle siringhe, delle narici da dove esce muco ed entra cocaina, i buchi del corpo umano eletti a custodi del piacere della carne. Da tutti questi buchi, di notte a Milano, fuoriesce l'acqua; da tutti questi buchi, al mattino, l'acqua rientra e nessuno ha il coraggio di ricordare che a Milano, di notte, c'è il mare”. • Da Il senso della frase (Feltrinelli, 2002): “Nelle stazioni della metropolitana si era creata una geografia sotterranea con imperi da perdere e da conquistare. I mastini del Nord avevano in appannaggio la stazione Udine. Udine è nel Nord d'Italia. Porta Venezia era in mano ai coloured forse per via di Otello, il “Moro” di Venezia. A Lotto c'era il gioco d'azzardo; a Duomo i turisti giapponesi; Conciliazione, in effetti, nomen omen, non era una fermata pregiudiziale; Cascina Gobba implicava un pellegrinaggio in un hinterland di lavoratori non atletici. Gorgonzola puzza di campagna. Bande Nere pullula di neofascisti periferici. QT8 è segreto come 007; a Palestro ci sono i culturisti. Non era solo compiaciuta paranoia metropolitana. Funzionava così anche in superficie: in piazza Cinque Giornate nessuno trascorre il week-end”. • Da Il conto dell'ultima cena (Mondadori, 2002): “Il Magia era completamente cambiato. Negli anni Ottanta, gli anni di piombo placcato oro da stilisti, modelle, assessori, aerobici, il Magia rappresentava il rifugio notturno di creativi e cretini. Si tirava mattino ascoltando gruppi musicali emergenti. Il guaio di emergere è che, se sei uno stronzo, galleggi, così tutti si accorgono di che pasta escrementizia sei fatto. E allora, a volte, è meglio reimmergersi nel liquido amniotico dell'anonimato”. Carlo Castellaneta milanese (1930), ha dedicato alla sua città
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gran parte della propria produzione letteraria. Ha pubblicato, infatti, 15 romanzi e 4 raccolte di novelle che hanno per sfondo Milano, tra cui Anni Beati (Rizzoli, 1982), Notti e nebbie (Rizzoli, 1984), Progetti di allegria (CDE, 1978), La vita di Raffaele Gallo (CDE, 1985). Collabora a il “Corriere della Sera” con note di costume. Aldo Nove, pseudonimo di Antonello Satta Centanin (Viggiù, 1967), scrittore e poeta; ha scritto Woobinda e altre storie senza lieto fine (Castelvecchi, 2005), Superwoobinda (Einaudi, 1998). Ha pubblicato due raccolte di poesia con il suo vero nome e un libro di poesie ispirate a celebri brani rock, con Tiziano Scarpa e Raul Montanari. L'uscita di Amore mio infinito, nel 2000, segna una svolta intimista ed esistenzialista; poi si interessa alle questioni sociali legate al precariato e alla flessibilità: nel 2005 è coautore (con Alessandro Gilioli) del testo teatrale Servizi & Servitori: la vita, al tempo del lavoro a tempo. Nel 2006 pubblica Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese (Einaudi, 2006) con cui vince il Premio "Stephen Dedalus". Dà vita, con la Tea, alla collana di narrativa "Neon". Edoardo Sanguineti lo inserisce, insieme a Scarpa e a Giuseppe Caliceti, nel suo Atlante del Novecento Italiano, ponendoli a chiusa del "secolo delle avanguardie" della letteratura italiana. Sandrone Dazieri (Cremona, 1964) vive a Milano; è stato giornalista freelance; ha militato nel Centro Sociale Leoncavallo; con il regista Gabriele Salvatores e il produttore Maurizio Totti fonda nel 2004 la casa editrice Colorado Noir. È stato direttore editoriale dei Gialli Mondadori e dei Libri per Ragazzi Mondadori. Raggiunge il successo nel 1999 con il libro Attenti al gorilla (Mondadori), primo di una felice serie, dove il protagonista è una sorta di doppione dell'autore che vive la notte di Milano e le sue contraddizioni. Seguono, nel 2007, Bestie (Edizioni Ambiente) e (con Marco Martani) Cemento Armato (Mondadori). Gianni Biondillo (Milano, 1966) architetto, autore di testi televisivi e cinematografici, dopo il successo del suo primo volume Per cosa si uccide (Guanda Editore, 2004), presenta il secondo romanzo incentrato sulla figura dell'ispettore di polizia Ferraro, ambientato a Milano, Con la morte nel cuore (Guanda Editore, 2005). John Mackintosh Foot (Londra, 1964) è uno storico inglese specializzato in storia italiana; laureato a Oxford, nel 1991 ha ottenuto un PhD presso l'Università di Cambridge con una tesi sui movimenti socialisti a Milano negli anni 1914-1921. Fino al 1995 è stato docente associato presso l'università di Cambridge, tenendo seminari sulla storia italiana del XX secolo. Oggi insegna Storia moderna italiana presso lo University College. Foot ha collaborato a numerose pubblicazioni, tra cui alcune per Feltrinelli e Il Saggiatore. Ha tenuto cicli di confe-
renze, sui temi dei moti migratori post-bellici e delle evoluzioni urbanistiche delle città italiane riferite specialmente a Milano. La sua attività editoriale ha riguardato il periodo del boom economico, le prigioni belliche milanesi, il ruolo del capoluogo lombardo nel cinema e nei media, le stagioni terroristiche e, di recente, lo studio critico della storia del calcio italiano e delle sue influenze nella vita politica, sociale ed economica. Nel 2006 ha fatto parte della giuria del concorso “La Città di Città”, organizzato dalla Provincia di Milano. Tra le opere principali: Milan since the Miracle - City, Culture, Identity (Berg, Oxford, 2001; Feltrinelli , 2003), uno studio sulla storia culturale di Milano a partire dagli anni Cinquanta, incentrata sugli aspetti sociali ed economici; Pero: Città di immigrazione: 1950-1970 (comune di Pero, 2002), studio sui flussi migratori dell'hinterland milanese. In Milano dopo il miracolo, egli smonta alcuni miti non solo storiografici e suggerisce nuove linee di ricerca per la storia milanese contemporanea. Afferma che, negli ultimi cinquant’anni, Milano ha cambiato pelle più volte. Negli anni del boom economico è stata la "capitale del miracolo": centinaia di migliaia d’immigrati vi sono approdati dal resto d’Italia trasformandola nella capitale industriale e finanziaria del paese e creando un’immensa periferia che non solo è stata per anni, col suo grigiore, l’immagine stessa della città, ma è diventata la città. Poi il Sessantotto e gli anni di piombo. Improvvisamente com’era scoppiato, il boom ha avuto termine e Milano ha attraversato anni di feroce deindustrializzazione: una dopo l’altra, hanno chiuso la Breda, la Falck, l’Alfa Romeo, l’Innocenti, la Pirelli. Al governo della città fin dal dopoguerra, i socialisti la pilotano verso quella "Milano da bere" che è sfociata in Tangentopoli e Mani pulite. Milano capitale della Resistenza, epicentro del rinnovamento culturale, sede della prima televisione e dell’impero di Berlusconi. È Milano il luogo in cui si coagula in partito Lega Nord e dove nasce Forza Italia. Questo non è un libro di storia in senso tradizionale, è un tentativo di capire la storia di questi processi a partire dall’esame di alcuni quartieri, luoghi, spazi, eventi, film, programmi televisivi, strade, immigrati, oggetti del design. È un libro fatto di micromomenti e microentità utili a spiegare i macrocambiamenti cittadini. Gianluigi Ricuperati collabora con “la Repubblica”, “il manifesto” e “Domus”. Dirige il progetto editoriale Cluster (www.progettocluster.it). Nel numero intitolato “Dreams” si afferma: “Le città contemporanee sono infinite serie di sogni (o incubi); sognati da chi vive nelle case, da chi passa nelle strade, persino da chi passa dal vivere in una casa a vivere in una strada; e poi dagli architetti, dagli imprenditori edili, dagli amministratori; e dai ‘nuovi’ cittadini che si attaccano ai propri sogni delle città occidentali con i denti e con le unghie”. R. G.
a cura di Francesco Redaelli e Francesco Repishti
Il paesaggio della Brianza tra natura e architettura Agli inizi dell’Ottocento Henri Beyle Stendhal, durante i numerosi soggiorni in Brianza, allude ad un suo particolare stato d’animo dato dalla contemplazione del paesaggio naturale circostante: “Finalmente il mio spirito, che rifiuta per amore un bello troppo bello, ha trovato qualche cosa dove non c’è nulla da rifiutare: il paese tra Varese e Laveno, i monti della Brianza” (Journal de voyage dans la Brianza). Lo scrittore francese celebra la Brianza come terra deputata alla villeggiatura e allo svago, “luogo di mattutine e vespertine gite, di allegre colazioni e merende”, dove “all’orizzonte si distingue addirittura il Duomo di Milano”, come parte significativa di “questa bella Lombardia con tutto lo splendore del suo verde e delle sue ricchezze”, dalle cui colline “l’occhio si perde per trenta leghe e più, sin quasi alle nebbie di Venezia”. Lo sguardo di Stendhal sul paesaggio brianzolo è una forma di contemplazione romantica in grado di stabilire un legame di tipo percettivo e psicologico tra l’osservatore e i fenomeni naturali circostanti. D’altronde, che la Brianza sia sempre stata considerata un territorio ideale per la villeggiatura ce lo conferma anche un anonimo monzese degli inizi dell’Ottocento che, riferendosi all’arciduca Ferdinando, ci ricorda che “gli piacque quell’orizzonte, e veduta la deliziosa prospettiva dei colli briantei, e più lontano i monti dei laghi di Como e di Lecco, e mano a mano quelli del Bergamasco, che vanno all’occhio perdendosi in una vasta pianura, innamoratosi del sito decise che si erigesse per i principi vicerè, un sontuoso palazzo sotto il bel cielo di Monza”. E proprio la Villa Arciducale fece da volano all’insediarsi in Brianza di un certo numero di dimore patrizie che, come già prima le cascine, i mulini, le manifatture, andarono a trapuntare la campagna, continuando quella progressiva trasformazione di un paesaggio prevalentemente naturale in un paesaggio antropizzato. Ed è quindi Cesare Cantù che a metà Ottocento descrive un paesaggio brianzolo in costruzione, dove l’intervento dell’uomo, le sue architetture, si armonizzano con la natura circostante, contribuendo alla formazione del paesaggio per stratificazioni successive. Cantù racconta di un territorio percorso dal “Lambro, che scendendo dai monti della Valassina, si è aperto una valle abbastanza spaziosa e profonda, da rompere variamente l’eguaglianza del suolo, anche fin presso la città stessa [Monza], e presen-
tare colle sue sponde un grazioso dorso alle tante ville che sonvi di ornamento (…), tra le quali spicca appunto la Villa Arciducale di Monza del Piermarini che “siede sopra una costiera che è quasi l’ultima onda dei colli della Brianza” (Grande illustrazione del Lombardo-Veneto, 1858-61). A distanza di qualche decennio Carlo Emilio Gadda, per rappresentare il decadimento di quella terra un tempo amena, che altrove chiamerà la nostra perduta Brianza, la parafrasa in una grottesca repubblica sudamericana, caratterizzata da un pullulare “di ville, di villule, di villoni ripieni, di villette isolate di ville doppie, di case villerecce, di ville rustiche, di rustici delle ville” con cui “gli architetti pastrufaziani [per Gadda Pastrufazio è il nome della Milano sudamericanizzata] avevano ingioiellato, poco a poco un po’ tutti, i vaghissimi e placidi colli delle pendici preandine, che, manco a dirlo, digradano dolcemente alle miti bacinelle dei loro laghi”. In quell’opera geniale e grottesca che è La cognizione del dolore (pubblicata parzialmente tra il 1938 e il 1941), Gadda sfoga il suo amore-odio per una terra a lui familiare, già evocata nello scritto Villa in Brianza (1928-29), divertendosi a sbeffeggiare la più tipica delle villeggiature milanesi di inizio Novecento, rappresentando in chiave farsesca i mali di un paesaggio a suo modo di vedere stravolto dal progresso, dove un architettura ripetitiva e priva di qualità, indisponibile al dialogo, sembra aver preso il sopravvento sull’elemento naturale circostante. Quella costruzione del paesaggio sviluppatasi sapientemente e in equilibrio per secoli, è andata progressivamente degenerando proprio in un momento storico in cui la Brianza stava in un certo senso perdendo una sua chiara identità. In fondo un paesaggio, quello di Gadda, diretto discendente e parte significativa di quella città diffusa raccontata dal geografo Eugenio Turri (La megalopoli padana, 2000), di quella città infinita celebrata dal sociologo Aldo Bonomi, per il quale “la Brianza è un iper-luogo” dove “non solo le grandi infrastrutture, ma anche istituzioni come la nuova Provincia o la Camera di Commercio saranno al servizio del territorio se sapranno porsi come snodi di un’unica città-regione al centro di una piattaforma produttiva che ormai dal Piemonte si spinge fino ai distretti del nord-est” (Il Cittadino - Giornale di Monza e della Brianza, ottobre 2006). Un paesaggio costituito da una successione senza soluzione di continuità di ville, villette, palazzine residenziali, centri commerciali, poli logistici, che, incapaci di valorizzare e coinvolgere l’elemento naturale, costituiscono una sorta di paesaggio virtuale indifferenziato che ha progressivamente caratterizzato parte del territorio della nostra indimenticabile Brianza (C.E. Gadda). F. Redaelli
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Pavia a cura di Vittorio Prina
“È una città sotterranea, le nevrosi si riparano nelle vie strette”* Quattro sono i romanzi scelti in ragione del legame non casuale ma indissolubilmente stretto tra i luoghi e il territorio di Pavia, le sensazioni provate dai personaggi e il carattere della storia che viene narrata. Il primo si svolge nel 1956 ma di fatto narra del periodo di guerra civile al termine del secondo conflitto mondiale che si protrae come un fantasma di orrori e vendette ancora ai nostri giorni. Il secondo si svolge negli anni Cinquanta e narra di torbidi accadimenti successi in alcuni paesi della bassa pavese. Una trilogia ci accompagna dagli anni del dopoguerra, attraverso gli anni del “boom”, del miracolo economico e della costituzione di un sistema pubblico anche corrotto. Nel terzo un inquietante racconto contemporaneo corrisponde a una altrettanto inquietante lettura urbana. “È una città noiosa”, disse lei, “dove non capita nulla” I nostri giorni proibiti. Romanzo di una passione nel dopoguerra di Giampaolo Pansa (Sperling, 1996), racconta l’apparentemente impossibile storia d’amore nel 1956 tra Marco, studente al quale hanno appena assassinato il padre, ex comandante partigiano e Carla, insegnante che abita a Pavia: i suoi genitori parteciparono alla Repubblica di Salò e la madre venne uccisa su ordine anche del padre di Marco. I due luoghi fondamentali nei quali si dipana la storia sono Pavia e soprattutto l’Appennino fra le valli Trebbia, Borbera, Curone, Staffora, i monti Penice e Brallo, il passo del Giovà, Varzi, ecc. Un’infinità di paesi e di luoghi di bellezza straordinaria, a breve distanza da Pavia, nei quali si sovrappongono profumi usanze e dialetti liguri, lombardi e piacentini (adottati da Pansa anche nei dialoghi); luoghi nei quali si è consumata una tragica guerra civile densa di massacri, tradimenti, atrocità. La ricerca dei luoghi dell’orrore e di vite passate ma anche dell’amore, viene descritta da Pansa sia con esattezza geografica che con una restituzione attenta delle sensazioni che trasmette ogni luogo: l’anima del luogo stesso. Alcuni incontri ci permettono di percorrere la provincia: la piazza Ducale di Vigevano; “Le Rotonde” di Garlasco, “un posto americano, la domenica si balla senza interruzione dalle quattro di pomeriggio fino a notte”; un picnic sui prati sopra Varzi; in bicicletta sino a Torre d’Isola e Bereguardo proseguendo poi sul Ticino in “barcè” o verso San Biagio e Zerbolò e poi
alla frazione della Zelata; il Ticino, che assomiglia al carattere di uno dei personaggi femminili “limpida come le acque del Ticino e, insieme, piena di anse segrete”. Altri incontri avvengono a Pavia: il profilo della città visto dalla sponda opposta e le case di Borgo Ticino che “sembravano i pezzi colorati di un gioco”; il centro storico ove stanno girando un film con Lea Massari, I sogni nel cassetto; alcuni riferimenti letterari: “Un giorno Ada Negri ha scritto: rossa Pavia, città della mia pace. Ma io la pace non l’ho ancora incontrata” e “Piovene dice che San Michele ha il colore della luce lunare. Recitò: ‘Dall’arenaria affiorano bassorilievi barbarici, come sbozzati su una superficie di sabbia’”; il “dedalo delle stradine tortuose, fatte di sassi del fiume spartiti con trottatoi di granito, sassi bianchi, neri, verdi, rossi, color dell’argento”, che dopo una pioggia “sembrano teneri e vivi”, “tornati in qualche modo alle tonalità antiche, poiché si trattava di pietre fluviali, raccolte secoli prima dai ghiaioni del Ticino” e che sembrano accompagnare, con il loro mutare, le variazioni degli stati d’animo dei protagonisti. Una cena all’Osteria della Malora in Borgo Ticino, accanto a gente equivoca, svela la doppia anima della città stessa: “Nel 1300 Milano era famosa per i chierici, Ravenna per le chiese e Pavia per i piaceri”, e ancora: “E poi sto scoprendo che ha il potere magico di cambiare da un’ora all’altra. Ieri sera, vista da Borgo Ticino, nella luce del tramonto, sembrava insanguinata: le chiese, i tetti, le torri mandavano bagliori da fortezza in fiamme, dove una battaglia si è appena conclusa con un grande massacro. Questa mattina, dopo la pioggia, ha i colori freddi di un serpente”. Microcosmo “Vigevano è per me il mondo in piccolo: una realtà fatta di grettezza, di avarizia, di sporcizia, ma anche una realtà sensibile a ogni mutamento politico e sociale. Un microcosmo e insomma”; queste le parole di Lucio Mastronardi, che visse è lavorò quale insegnante a Vigevano: scrisse negli anni del dopoguerra, del boom economico e di un rapido sviluppo industriale, una trilogia agra e dissacrante dedicata a una piccola borghesia di “industrialotti”, grottesca, gretta e ignorante che si raduna nella piazza Ducale per sfoggiare abiti, auto fuoriserie e gioielli: Il Calzolaio di Vigevano; Il Maestro di Vigevano, l’opera più famosa in ragione anche del film omonimo girato a Vigevano, regista Elio Petri e protagonista un inimitabile Alberto Sordi; Il meridionale di Vigevano, (raccolti in: Einaudi, 1994). Giovanni Tesio nell’introduzione scrive: “La famosa piazza di Vigevano diventa così la metafora del caos e gli abitanti della città le larve di un mondo infero, sgangherato, che dismisure e asimmetrie strutturali e stilistiche registrano ben fuori d’ogni realismo”. Esasperato è il contrasto tra la percezione, da parte del protagonista,
“Pavia, distrutta da Carlo Magno nel 774 e mai più risorta” Il mio vescovo e le animalesse (ora: Baldini & Castoldi, 1993) è uno dei romanzi più amati e a lungo meditati da Gioanbrerafucarlo, il Gran Lombardo Gianni Brera nativo di San Zenone Po, che nei romanzi prende il nome di Pianariva, paese della Bassa Pavese. Come ne Il corpo della ragassa, qui la Bassa Pavese diventa la reale protagonista dei suoi romanzi, luogo di innegabili tradizioni, culinarie e popolari, ma anche di invidie, grettezza, ignoranza e inganni. L’acuta ironia di Brera avverte in premessa il lettore che “Sebbene le persone e i fatti di questa vicenda siano rigorosamente veri, nessuno oggi vivente vi si può riconoscere. Sono invece di fantasia i nomi dei luoghi, a incominciare dalla città di Pavia, distrutta da Carlo Magno nel 774 e mai più risorta”. La vicenda, tragica ed esilarante, del Vescovo Rovati (Tugnìn), di preti belli, canonici, suore, prelati, proprietari terrieri e “stalloni”, donne e “animalesse”, libagioni, fantasie erotiche e realtà lubriche, si svolge negli anni Cinquanta nel podere della Speziana, nella campagna pavese tra il Po e l’Olona; luogo di nefandezze, estorsioni, omicidi, incesti, poligamia, e quant’altro. Pavia rimane sullo sfondo - l’Arcivescovado, il Duomo e pochi altri luoghi - mentre colpisce l’esatta descrizione pesaggistico-architettonica dei luoghi e dei paesi della campagna pavese: le cascine - dalle componenti architettoniche a quelle botaniche agli spazi interni, arredi compresi; i villaggi, le chiese, i campanili, i ponti, le strade e soprattutto il territorio: lanche, rogge, cavi, poderi, le differenti essenze degli alberi, marcite, risaie, sentieri, rivoni sabbiosi, il fiume. “Pavia non è quella che vedi. È una città di matti” Il romanzo più recente, Fai di te la notte (Einaudi, 2007), si svolge a Pavia ai giorni nostri e l’autore è il pavese Giorgo Scianna.
Una scrittura lucida e spaesante descrive le conseguenze della scoperta della protagonista Clara del “tradimento” del marito che le ha nascosto di essere un “marrano”: (“marrani” erano gli ebrei convertiti forzatamente al cristianesimo che praticarono di nascosto i loro riti, secondo consegne tramandate di generazione in generazione). Il primo luogo fondamentale è l’abitazione del padre del marito che affaccia sulla piazza della basilica di San Michele, descritta sempre con una dominante di luce bianca, fredda e gli inquietanti bassorilievi che si sgretolano: “La piazza era bianca. I riflettori coprivano tutto con una luce di latte che sbiancava la pietra arenaria di San Michele (…) in mezzo al silenzio improvviso dell’acciottolato (…) si incamminò verso il fiume dove c’erano le luci dei lampioni e dei fari.” Fondamentale è la lucida e impietosa lettura delle architetture e dei luoghi limitrofi a Pavia. La casa di Clara, superato il raccordo autostradale, è un luogo che potrebbe essere ovunque: “Il paese, che non era un paese ma un agglomerato di unità separate da cancelli e muretti bassi (…) i serramenti in douglas, i dieci metri di giardino, il barbecue spento e l’altalena immobile”; poco lontano “una vecchia cascina, ristrutturata e smembrata in dodici spicchi di quadrilocali con giardino e taverna. Dietro le finestre illuminate c’erano schiene piegate sui piatti sotto travi a vista dappertutto”; e ancora “Non c’è posto dove stare nella notte di un paese di milleottocento persone, con intorno paesi di milleottocento persone, campanili, pioppi e cascine che non sono più cascine ma una sequenza di muri bassi, erba e barbecue, ritiri in campagna a otto minuti dal casello dell’autostrada”. Clara, che non attraversa il centro storico da mesi, lavora a Pavia, vive a Trivolzio, va in piscina a Bereguardo e il marito lavora a Magenta: “Come nel Minnesota. Avete trasformato una città medievale nel Minnesota. Una villa col barbecue in mezzo a niente e fate le biglie impazzite tutta la vita”. Tagliente anche la descrizione dell’Università e dei pavesi: “I cortili erano tutti uguali. Intonaco giallo, colonne e acciottolato per terra. Quello che consentiva di distinguerli e di dargli un nome era la pianta (…) Camminò per una città che non era la sua. Una città che non aveva strade ma cortili, che aveva un’università più grossa di lei che coi suoi istituti e i suoi collegi ne aveva occupato il centro. Un tumore al suo interno con cui questa città conviveva da secoli, ma che le aveva distrutto il metabolismo per sempre”. “Pavia non è quella che vedi. È una città di matti. (…) non intendo di strambi, di originali. È una città sotterranea, le nevrosi si riparano nelle vie strette. Ma non li vedi in giro? (…) Non è normale. Nessuna città di provincia ha tanti pazzi per le strade. Ed è solo la punta di un iceberg”. V. P. *Giorgio Scianna, Fai di te la notte, Einaudi, Torino, 2007, p. 49.
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della città moralmente disgregata contrapposta alla campagna nei pressi del Ticino, descritta quale sorta di Arcadia. Le reazioni e le polemiche della popolazione dopo la pubblicazione sono stigmatizzate da Giorgio Bocca in un articolo per Il Giorno del 1962: “Di abitanti cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di librerie neanche una”. Italo Calvino, nel ricordo ora in appendice ai romanzi, scrive che “la letteratura italiana ha ricevuto, in un breve volgere d’anni, tra il 1959 e il 1964, dall’inattesa apparizione d’un ciclo romanzesco che rappresenta tutta una società nei suoi meccanismi pubblici e privati, nel suo ritmo vitale e nelle sue ossessioni, nel fitto repertorio di voci e locuzioni idiomatiche delle sue manifestazioni parlate blaterate imprecate. Non so quanti e quali nessi si possano trovare tra questa Vigevano romanzesca e la Vigevano reale: ma so che come immagine dell’Italia, di trent’anni di storia della società italiana, la Vigevano mastronardiana funziona egregiamente”.
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Sondrio a cura di Marco Ghilotti ed Emanuele Tagliabue
Vedere il paesaggio leggendo le parole Se si vuole vedere un paesaggio, descriverne i luoghi, descriverli completamente, non come un’immagine fugace ma come una porzione di spazio che ha una forma, un senso, non basta tenere gli occhi aperti. È necessario, come ci ricorda Italo Calvino, “rappresentarlo attraversato dalla dimensione del tempo, bisogna rappresentare tutto ciò che in questo spazio si muove, d’un moto rapidissimo o con inesorabile lentezza: tutti gli elementi che questo spazio contiene o ha contenuto nelle sue relazioni passate, presenti e future”. Così, per una volta, lasciamo da parte le rappresentazioni cartografiche, le analisi numeriche ed i progetti d’eccellenza per osservare il paesaggio valtellinese e valchiavennasco attraverso gli occhi e le parole di alcuni scrittori, spesso più abili di noi nel decifrare le trame nascoste del paesaggio nel suo incessante divenire. I brani seguenti - raccolti in: AA.VV., Parole attraverso le montagne, un viaggio con gli autori nella Montagna di Lombardia, Edizioni Geographica, Sondrio, 2001 - propongono quindi un viaggio ideale lungo il nostro territorio; intraprendere questo viaggio significa per noi vedere il paesaggio leggendo le parole. Sondrio “Non vorrei snaturata questa classica valle di montagna italiana, diversa dalle valli svizzere che le stanno accanto per le usanze, per l’arte e la stessa vegetazione. L’albero che vi predomina non è l’abete, ma l’olmo, il pioppo, il faggio, il castagno, come nella nostra poesia, e la solcano le acque torrentizie dell’Adda. Né la villetta svizzera, né il casamento d’affitto si possono intonare con le vecchie case, con i campanili di sasso, con le vie acciottolate nei borghi, con le cappelle e i tabernacoli sparsi sui sentieri tra i greppi, con un modo di vivere impregnato di affetto, di intelligenze ed anche di comodità razionale. La povertà, dov’essa esiste si manifesta in purezza e non in disordine. Prediligo la Valtellina per i colori ‘fini e mesti, intensi e teneri’, ed aggiungerò silenziosi, giacché essa, a differenza di altre vallate alpine, non ci dà canti originali e non è portata al canto. Si scorgono invece dovunque i segni di un’arte paziente, casalinga, intonata alla natura ed in gran parte inconsapevole; che però culmina a Chiavenna, a Ponte, nel santuario di Tirano, nel Palazzo Besta di Teglio. Questo è un
commovente esempio di umanesimo montanaro, e chiude nell’interno affreschi illustranti l’Eneide”. Guido Piovene, Viaggio in Italia, Mondadori, Milano, 1958 La valle del Bitto “Risalivamo dunque, in alto, a mezza costa, la strada del Bitto di Albaredo, secondo il programma di arrivare fino al famoso Passo di San Marco. Nel grigiore estivo, chiaro e mosso, della mattinata piovigginosa, l’opposto fianco della montagna, quello che ci nascondeva l’attigua, quasi parallela, valle del Bitto di Gerola, offriva al nostro sguardo uno spettacolo scenografico, tempestoso, romantico, degno in tutto e per tutto del Calame e degli altri pittori alpestri appartenenti alla tradizione svizzera ottocentesca. Valloni folti di querce e abeti precipitavano come colossali solchi scavati pressoché verticalmente nello spessore stesso del bosco, fino a profondità oscure dove scorrevano acque invisibili. Cirri ineguali di nebbia vagavano qua e là, sospesi, stracciati da punte di roccia o dalle cime degli alberi. E dalla sovrastante catena orobica, attraverso grandi nubi cumuliformi, lame di un sole ormai meridiano sfioravano le dorsali dei valloni, si insinuavano nelle loro ombre cupe”. Mario Soldati, Avventura in Valtellina, Laterza - Banca Popolare di Sondrio, Sondrio, 1985 I terrazzamenti “La terra è una vecchia reliquia a chi la porta per tutta la vita sulle spalle invano per dar seme alla roccia dove l’Adda corre di gioventù nei suoi colori”. Alfonso Gatto, “Sera in Valtellina”, in Poesia 1929-1941, Milano, A. Mondadori, 1961 Medesimo, “Il canalolone” “Che cos’è un canalone? Perché, rispetto alle piste aperte che sono la grandissima maggioranza, offre singolari voluttà? Il canalone è un corridoio, uno scosceso viale, una lunga prigione in cui si resta chiusi. Da una parte e dall’altra impraticabili quinte di rupi. C’è molto più carica di solitudine. C’è un gioco molto più fantastico di luci e di suoni. E c’è l’incanto dell’intimità, lo stesso che si assapora in parete, su per i grandi camini e diedri, intimità veramente simile a quella della nostra camera da letto; per cui le lingue di neve, le infossature, i macigni, gli aerei baldacchini assumono un’espressione pressoché umana. Si direbbe che qualcuno ci aspetti, che ci spii tra le rocce. Ogni angolo, cavità, anfratto, sembra invitarci a restare, promettendo misteriose beatitudini. Nei canaloni, non sulle pareti o sulle creste, vivono gli elfi, gli gnomi, gli antichi spiriti della montagna. Attraverso il favoloso scenario, la pista si incurva, si allarga, spaziando in vertiginosi anfiteatri, si raccoglie a cucchiaio, concede respiro, poi si restringe di nuovo, si impenna come se dietro quella gobba si spalancasse un impossibile abisso. Ma anche l’erta strettoia fa di tutto per non scoraggiare come le curve sopraelevate dei velodromi felici, anzi trascina agilmente gli
Dino Buzzati, “Il Canalone Groppiera”, in “Corriere della Sera”, 1966 Passo dello Stelvio, il ghiacciaio del Livrio “Tutto su quella montagna sembrava moltiplicato per dieci: i sassi, il sole, il freddo, come fossi entrato in una specie di super-alpe, un mondo a parte, riservato a pochi eletti. E la sensazione che ritrovo ogni volta che ci torno, la consapevolezza orgogliosa che dormiremo in mezzo alle nuvole, che scivoleremo lungo i fianchi di un gigante, che affronteremo in piena estate tormente di neve come d’inverno, trainati dagli ski-lift in una dimensione fuori del tempo. Ma è un paesaggio che fa da sfondo alle discese e alle risalite, il vero protagonista delle giornate al Livrio. Quel cielo blu cobalto che spicca contro i costoni di neve fresca caduta nella notte, è raro da vedere in altre stagioni. E così il profilo dell’Ortles che sembra fatto di cristalli, scintillante di mille riflessi in quella luce abbagliante. Nell’aria tersa il senso della vastità della montagna diventa una percezione quasi fisica. Ma in capo a pochi giorni si capovolge ciò che prima avevamo sentito, non sembra più assurdo abitare a tremila metri, quel biancore sterminato sembra essere del tutto naturale, mentre le verdi vallate che si scorgono in basso ci appaiono quasi estranee, niente di più che una macchia di pittura.” Carlo Castellaneta, “Il mio Livrio”, in “Notiziario della Banca Popolare di Sondrio”, dicembre 1984 Alta Valtellina Teneramente la notte fasciava Il grande ghiacciaio: al lume di luna pinnacoli chiari aerei nel cielo di madreperla fragile… danzano danzano gli elfi di tra le forre e le aguglie azzurre del monte: fantastica stele vibrante di luce e in alto smarrita nel gurgite blu. Grytzko Mascioni, “Teneramente”, in Se il vento dice sorgi, Intelisano Editore, Milano, 1956 Villa di Tirano Terra di cieli chiari La mia terra, e il monte è azzurro a sera e di mattina.
Si culla il vento fresco nella valle sul dorso rosso dei vigneti: è autunno. Se è rosso il sangue il vino è granata, odor di mosto per la via selciata. Se il cielo è chiaro lo sguardo celeste del contadino e del contrabbandiere. Grytzko Mascioni, “La mia terra”, in Se il vento dice sorgi, Intelisano Editore, Milano, 1956 Madonna di Tirano “Campanili, chiese e cappelle disseminate dovunque: pietre che parlano d’una fede che è la sola anima della storia di tutta la regione. E i prati, i vigneti, i campi sembrano snodarsi tutti intorno come vasti sagrati, su cui vengano ancora discusse le sorti religiose del paese, inscindibili dalla vita civile. Questa è una Valle dove la Chiesa è l’intero villaggio e a toccar la Chiesa tutti si sentono feriti, i vivi e i morti, da secoli (…) Quando si arriva a Madonna, è questa medesima storia che diventa epopea: il poema sacro che deve ancora essere narrato in un volume degno; e intanto è inciso nella pietra, fiorita in mezzo alla piazza, per miracolo di fede e di genio insieme: una bellezza rarissima e completa, capace di resistere ai confronti delle maggiori cattedrali. Qui ha termine il viaggio spirituale di tutto il popolo; questo è il cuore della Valle”. Davide Maria Turoldo, “Viaggio a Madonna di Tirano 1954”, in Il santuario della madonna di Tirano nella Valtellina del Cinquecento, a cura di Francesca Bormetti - Credito Valtellinese, Tirano. M. G.
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sci in armoniosi zig-zag che riescono da soli. Quindi si allarga ancora in maestose cavee ciascuna delle quali ha una luce particolare, un’espressione e una atmosfera diversa dalle altre”.
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Periferie urbane e centralità utopiche Il 30 giugno scorso, presso lo Spazio Oberdan a Milano, è stato presentato l’ultimo libro di Gianni Biondillo: Metropoli per principianti (Guanda, 2008). Con l’autore e l’editore sono intervenuti l’architetto Mario Botta e lo storico dell’architettura Fulvio Irace. La serata, organizzata dalla Provincia di Milano, è stata un’occasione di riflessione sulla città contemporanea e il ruolo che l’architetto può e deve giocare in una partita, non ancora chiusa, con la modernità - che insieme alla globalizzazione ha portato a una perdita di senso e valore dei luoghi, tra questi, in primis, le periferie. Ad un architetetto, dunque, il compito di evidenziare il potenziale utopico insito negli agglomerati urbani che, insieme alle loro brutture e contraddizioni, portano anche elementi di bellezza, di forza, di senso. Ma non ad uno qualunque: Biondillo, architetto e scrittore, cresciuto a Quarto Oggiaro, può permettersi di parlare delle periferie, con cognizione e partecipazione, a differenza di altri che le elogiano con certo “distacco scientifico”, ma raramente vi hanno messo piede e mai ci vivrebbero. Si può parlare solo di ciò che si conosce e “si conosce solo ciò che si ama”, diceva Hegel. Oggi, superata con gli anni l’incredulità (ma non l’indignazione), Biondillo dà ragione a Gregotti: architetti “si nasce” (da buona famiglia) e “non si diventa” (per talento), poiché i poveri, non ricevono commesse da nessuno, dunque non hanno occasione di “dimostrare” nulla, né di essere “scoperti” mai. Ecco perché non consiglierebbe a suo figlio di iscriversi ad Architettura. Eppure Biondillo - come egli stesso ricorda in quest’occasione, venendo da una famiglia i cui membri non hanno potuto andare oltre la quinta elementare, ha fatto “il salto”, laureandosi in Recupero e tutela del patrimonio storico architettonico - ci ha creduto alla possibilità di riscatto e ci è riuscito. Ma per uno che ha attraversato il muro della separazione (“razziale”, “classista” o “borghese” che dir si voglia) conquistando visibilità oggi è letto e riconosciuto anche da “quelli che contano” - ci sono
molti, che rimangono esclusi. A questa parte di mondo dà voce nei suoi romanzi lo scrittore milanese (“È chiaro che io ho deciso di parlare nei miei romanzi di Quarto Oggiaro innanzitutto per ragioni autobiografiche. Quello è, rubando a Montale, il mio “panorama interiore”. Ma non basta. Quello che ideologicamente ho deciso di fare è di lavorare sul popolare. Anzi, per non cadere in confusione - popolare in che senso? Populistico? Folk? Pop? - ho deciso di scrivere romanzi plebei. Plebei per i soggetti trattati, per le storie esposte, plebeo pure nel desiderio ponderatissimo di utilizzare una precisa tipologia narrativa”. (Dall’intervista in “Nuovi Argomenti”, n. 30, aprile-giugno 2005). Ora, Metropoli per principianti non è un romanzo: è un saggio scritto da un romanziere. Un libro che parla di architettura e lo fa al di là dei luoghi comuni e del comune senso estetico, restituendo al lettore – più o meno esperto – la chiave per discernere tra esempi validi e meno validi dell’architettura novecentesca milanese (che, al contrario dell’opinione di molti milanesi ignari di quanto li circonda, “non è tutta uguale!”). L’autore ci porta a spasso nella sua città, tra edifici belli (alcuni veri e propri “monumenti”) e brutti, in una personale rassegna di amori e antipatie. A differenza del libro di Franco La Cecla Contro L’architettura, uscito quasi in concomitanza con questo (a cui Fulvio Irace fa espresso riferimento) Metropoli per principianti è un libro su e “per” Milano: costruttivo, anche quando il tono è critico - con lo sconcerto di Irace, Biondillo liquida Giovanni Muzio e Aldo Rossi e si prende la libertà di definire Gio Ponti “il più fighetto”. Licenza concessa allo scrittore (“mi sono tolto un sacco di sassolini dalle scarpe!”, ammette) non allo storico dell’architettura - il cui giudizio è soggetto al canone critico della storicizzazione più che all’inclinazione personale. Piace la libertà di Biondillo, associata a questo “per” che, a giudizio di Mario Botta, indica la qualità più importante dell’architettura, la forza “utopica del progetto”: strumento di miglioria della realtà – della parte che prende in considerazione, certo, ma
che, attraverso questa, produce effetti sul mondo. Che cos’è, dunque, che “l’architetto Biondillo” aggiunge al “Biondillo scrittore”? si domanda Botta. Rispetto alla descrizione letteraria (o cinematografica) dei luoghi (e qui il riferimento è alle periferie), lo sguardo del progettista, dell’uomo artifex porta in sé la speranza, perché con la presenza dell’uomo intravede il riscatto di un’identità. Botta concorda con Biondillo, contro ogni pregiuizio, sulla redenzione delle periferie: non luoghi infernali – o non-luoghi di Augè (popolati da non-abitanti? si chiede lo scrittore) - ma spazi di socialità e di azione. La lettura architettonica dello spazio urbano fatta da Biondillo, prosegue Botta, insegna “ad amarlo, a riconoscere nel disordine quotidiano gli elementi di forza”. E a questo punto l’analisi di Milano, diviene opportunità per dibattere sul futuro delle metropoli: dal particolare al generale. Botta rivendica il primato della città europea, “territorio della memoria”, fatta di “stratificazione continua” incomparabile con le città asiatiche - una su tutte Seul dove si viaggia per ore unicamente nel contesto contemporaneo. “Questo è il vero inferno” - insiste l’architetto - “non trovare un edificio che abbia più di 30 anni”, vievere solo la funzionalità, dove tutto è organizzato “ma è privo di senso”. “È lì” - prosegue - “che riscopri la vecchia città europea, il vecchio centro storico, dove ci troviamo a nostro agio, perché la città è la città dei morti, è la città delle generazioni estinte, che non parla dei nostri bisogni, delle nostre funzioni, della nostra quotidianità (questo è il grande paradosso)”. Il fascino della città europea è dato dal fatto che nei suoi spazi “riconosciamo un vissuto, le lotte, gli amori, i trascorsi che ci appartengono e ci sollevano, che ci danno gli anticorpi per resistere alla barbarie della globalizzazione e del contemporaneo”. In questo senso la lettura di Biondillo della metropoli rimette ordine: la città ha un centro ed un limite, queste cose semplici sono
la natura della città. All’interno di questi limiti vi sono luoghi che hanno una storia ed un’identità. Quelle che erano città attorno alla città (come Quarto Oggiaro, che fino agli anni ‘50/’60 era la più periferica) oggi sono quartieri interni al tessuto urbano. Sull’onda di un entusiasmo rinsaldato dall’ottimismo dello scrittore, Botta profetizza: le periferie sono “condannate a migliorare”, a ritrovare, attraverso le generazioni successive, una “stratificazione” in cui si correggeranno gli errori fatti, perché arriverà un vissuto nuovo che darà memoria a quello precedente. Incoraggiante. Tuttavia qualche dubbio, se non altro, rimane al pensiero che anche i centri storici delle città, nel cuore stesso della vecchia Europa, fanno fatica a preservare detta stratificazione: tendono rapidamente ad assomigliarsi tutti, in forza di una massiva penetrazione del “democratico” (davvero, in questo caso) mercato globale. Se - come sosteneva altrove anche Massimiliano Fuk-sas - la mancanza di fiducia, oggi, è degli architetti, questo libro è rivolto soprattutto a loro, affinchè la memoria e la speranza, possano incidere in questa modernità, che (si passi l’espressione) appare alla deriva, senza centri nè periferia. Per concludere con Biondillo: “Abbiamo devastato il territorio col banalismo edilizio (ma il territorio finisce!). Devastato città, pianure, fiumi, colline con le peggiori e più banali delle architetture europee. Rimpiangeremo le architetture che oggi denigriamo”. E riferendosi ancora a Milano, - segnatamente al progetto City Life - ma non solo: “La città non dev’essere in mano al mercato, ma alla società”. Irina Casali e Federica Blasini
L’Associazione Culturale “AccademiA del tempo libero” insieme al Comune di Milano, settore Tempo libero, Assessore Giovanni Terzi, hanno organizzato un ciclo di incontri che si sono tenuti nei mesi di ottobre e novembre presso la sede dell’Ac-cademia in via Vitruvio 41. L’iniziativa, “Segreti e curiosità di Mila-no: alla scoperta di un mondo affascinante” ha avuto l’obiettivo di portare alla conoscenza del pubblico aspetti forse meno noti della vita della città. Gli incontri sono stati suddivisi in tre cicli differenti. Il primo (28 ottobre), curato da Mauro Raimondi, autore fra l’altro del volume Cento Milano, la città raccontata dai suoi libri, Fratelli Frilli editore, Genova, 2006, si è incentrato sulla rappresentazione letteraria della città. La storia di Milano attraverso i suoi libri: dalla Mediolanum di Ausonio a quella del XX secolo di Montanelli-Cervi passando attraverso Bonvesin de la Riva, Federigo Borromeo, Cattaneo, i racconti delle due guerre fino ad arrivare alla Metropolis di Bocca e al crollo delle aspettative di Doninelli. Nel secondo incontro (4 novembre) Milano è protagonista in quanto scena di racconti e romanzi, non solo Manzoni, ma anche Verga, Vittorini, Guareschi,
Olmi oltre ai più noti Testori, Gadda, Castellaneta e Bianciardi. L’ultimo degli incontri del primo ciclo “La cultura milanese, dalla sua canzone alle leggende” (11 novembre) ha spaziato fra la cucina di Brera e Veronelli e la canzone “meneghina” per concludere con le considerazioni di Aldo Nove sulla città attuale. Il secondo ciclo “Artisti attraverso la scrittura: analisi grafologica della personalità”, curato da Geraldina Cella, (30 ottobre, 6, 13 novembre) si è concentrato sull’interpretazione della scrittura, in quanto gesto, di alcuni artisti che hanno lavorato e vissuto a Milano (Mozart, Verdi, Leonardo da Vinci, Cecilia Gallerani) per evidenziarne il carattere e la personalità. Il terzo e ultimo ciclo ha visto la partecipazione di: Valentino Scrima, relatore del primo degli incontri dedicato alla Milano che scompare: “Milano che dispare: i sestieri e in Navigli” (12 novembre); Monica Torri che ha curato l’incontro “Milano 2015: l’avventura dell’Expo”, un viaggio attraverso le prime esposizioni di fine 800 per giungere alla prossima del 2015; in ultimo, “La formazione dei musei milanesi: dall’Ambrosiana e Brera alle collezioni private”, relatore Claudio Giorgione (26 novembre). Martina Landsberger
La coscienza di Giorgio L’autore avanza un riferimento sottotono per il titolo di questo suo libro, addirittura una canzonetta di Ligabue, (Una vita da mediano), ma a chi non frequenta i cantautori italiani Una vita da architetto ricorda La fonte meravigliosa il film che parafrasava la vita eroica e solitaria di Frank Lloyd Wright, o anche Il poema dell’angolo retto di Le Corbusier, gli ideali di un intellettuale insomma. Non so quanti tra attori e registi hanno ridicolizzato le manie di una
professione, quella dell’architetto, che oscilla tra due estremi, l’autodeterminazione degli obiettivi da una parte e dall’altra un lavoro di serve (come prevedeva Plecnik per i suoi allievi), ma pur sempre, come mostra la foto di copertina del restauro del Teatro Romano di Sagunto, un lavoro che rimane una battaglia, ricco di tradizione, e quindi di valori condivisi, e privo, insieme, di certezze. Forse per questo Giorgio Grassi confessa di aver costruito, per il
suo lavoro, una gabbia di principî inderogabili. Dentro quella gabbia egli si muove in completa libertà. Questa libertà gli consente di affermare in un convegno a Roma nel ’98 che l’aspetto finale delle sue costruzioni come di “cose incomplete” vuol verificare i limiti di credibilità e di verità dell’esser oggi architetti dentro una scelta di “mediocrità”, intesa questa come un “surrogato” di quell’obiettivo di “essenzialità per le forme del progetto che non ci è più permesso di credere realizzabile”. A me le parole di Grassi ricordano la coscienza insoddisfatta e moderna dei protagonisti dei romanzi di Svevo, il loro monologare ironico e deciso, una difesa preventiva, quasi la preoccupazione di poter essere trascinati sul letto dello psicanalista. Il mondo dell’Architettura è il suo mondo ma Giorgio Grassi afferma di esservi stato coinvolto per caso, non per sua scelta. L’insegnamento universitario è una sorta di sfera seconda, con lo stesso centro, l’Architettura, ma di raggio più ampio, nella quale ha vissuto per quarant’anni. Giorgio ha amato solo Pescara, i suoi primi sette anni di insegnamento. Per quanto so io la sua presenza, in varie scuole d’Europa, è stata sempre molto importante. Ma per gli allievi, ci dirà lui. Non era una vocazione. La sua ricerca di un’architettura legittimata dall’appartenenza ad un corpus disciplinare trova i suoi confini non soltanto a partire dall’interno della tradizione ma anche dall’apparire di presenze demoniache di architetture contemporanee, che tentano di confrontarsi, “con le loro forme assurde e sorprendenti”, col suo lavoro. Qui Grassi non mi ricorda più Zeno
Cosini ma piuttosto Sant’Antonio nel deserto e le sua lotta vittoriosa contro le tentazioni, che sarebbero poi il formalismo, la decorazione, l’irrazionale. Nei confronti dello sperimentalismo e dell’avanguardia, le certezze di Grassi diventano, e vogliono essere, una provocazione. In qualche modo la sua “vita da architetto”, proprio per i suoi toni sommessi ed educati, diventa scandalosa per il rigore che essa pretende per sé e per gli altri. Ed è e vuol essere una provocazione. Questo terzo libro pubblicato da Franco Angeli, dopo gli Scritti scelti del 2000, e Leon Battista Alberti e l’architettura romana del 2007 completa una trilogia che ha avuto fin dal 1967 le sue premesse logiche ma che ha trovato nella lettura delle opere di Tessenow, di Hilberseimer, di Piero della Francesca i principî di “una modernità senza rimedio”. Non a caso mi pareva di poter ricordare un artigiano della modestia letteraria come Italo Svevo, e potrei aggiungere la rabbia feconda di Thomas Bernhard, che Giorgio Grassi ben conosce anche in fatto di ritmica ed arte retorica. È come se l’esempio degli Antichi maestri desse forza e debolezza insieme, come se la “povertà” fosse l’unica arma possibile per una seduzione duratura, come se il “rituale della costruzione”, “il mestiere” lasciasse solo intravvedere un’irraggiungibile “calma bellezza”. Queste sono le armi non più tanto nascoste di questo ormai non più tanto giovane, anzi ormai quasi antico “maestro”. Fu per questi sortilegi di idealità e disprezzo mescolati insieme che Giordano Bruno fu portato al rogo e Tommaso Campanella rimase in carcere per ventisette anni. Perciò confidiamo che questo libro non venga giudicato e letto per quello che in definitiva esso è, e cioè una critica impietosa dei nostri costumi, ma solo come un bel romanzo, ben scritto, curioso e avvincente dalla prima pagina all’ultima fotografia. Luciano Semerani Giorgio Grassi. Una vita da architetto Franco Angeli, Milano, 2008 pp. 160, € 25,00
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Milano nellʼarte
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Il Sole: primo Forum di architettura Il 3 ottobre si è tenuta la prima edizione del Forum Architettura, appuntamento annuale di aggiornamento e confronto rivolto ai professionisti del settore, organizzato da “Il Sole 24 ORE” presso la Triennale di Milano. Durante la mattinata si è svolta la conferenza inaugurale “L’architettura e l’housing sociale” sul tema attuale della casa in Italia e dell’edilizia sociale, discusso attraverso il confronto tra rappresentanti istituzionali e regionali. L’housing sociale si prefigge di risolvere il problema del “disagio abitativo” rispondendo anche alle nuove esigenze legate a “fenomeni migratori, lavoratori e studenti fuori sede, che hanno favorito l'incremento dell'offerta di alloggi in affitto”. Attualmente in Italia l’housing sociale copre una fetta ridotta di mercato residenziale, percentuale molto inferiore rispetto al resto dell’Europa. La conferenza è stata introdotta e moderata da F. Irace (Settore Architettura della Triennale), seguito dal saluto inaugurale di G. Leoni (“d’Architettura”). Sulla situazione nella regione Lombardia sono intervenuti G. Bardelli - Fondazione Abitare la Città; S. Urbani - Fondazione Housing Sociale; C. Masseroli -
Comune di Milano. Successivamente è stato svolto un confronto sulle esperienze italiane. Per primo è intervenuto Vittorio Gregotti affermando che il problema dell’housing è in parte dovuto ai molti architetti che hanno “smesso di occuparsi di edilizia pubblica perchè costruire stravaganze di lusso garantisce più successo” (“la Repubblica”, 3 ottobre 2008). Sono seguiti gli interventi di A. M. Pozzo - Federcasa; M. Cruciani ANCE; M. Di Carlo - Regione Lazio; B. Sciannimanica Regione Campagna. Nel pomeriggio si sono svolte due sessioni di approfondimento. Presso Triennale Lab si è tenuta la sessione “Le nuove forme dell’abitare: i moderni ensembles” nella quale M. Casamonti (“Area”) è intervenuto come moderatore. La problematica è stata discussa da alcuni progettisti attraverso la presentazione dei loro lavori (in foto un progetto di Camerana & Partners). Al termine tavola rotonda con F. Irace, G. Leoni e R. Sirica (Consiglio Nazionale Architetti). Parallelamente, nel Salone d’Onore, si è svolta la sessione “Nuove tecniche per la residenza tra efficienza energetica e innovazione”, moderatore dei lavori D. Bollani, de “Il Sole 24 ORE Arketipo”. Oltre all’intervento dei progettisti, il focus “Materiali ecocompatibili e tecnologie di intervento” tenuto da F. Bianchi, di Kerakoll Group. La sessione è stata chiusa dal confronto tra F. Bianchetti (“Frames”), G. Di Cesare (“Costruire in Laterizio”) ed E. Pizzi (Politecnico di Milano BEST). Fabiana Pedalino
Gino Valle in Carnia L'Ordine degli Architetti della Provincia di Mantova, su iniziativa della Commissione Cultura e Giovani, ha portato a Mantova le architetture di Gino Valle con l’esposizione “Architettura in montagna. Gino Valle in Carnia”. La mostra ha promosso la conoscenza del noto architetto friulano, scomparso di recente, attraverso
un percorso monografico delle sue architetture di montagna, pensate e costruite dallo Studio Valle dal 1954 al 1978 in Carnia. I nove progetti esposti, elaborati nell’arco di circa trent’anni, hanno evidenziato la qualità del processo progettuale che l’architetto udinese ha posto in favore dei centri montani in cui è stato chiamato ad
operare. Disegni, esecutivi di dettaglio, schizzi preliminari, foto delle realizzazioni, sono stati raccolti in un programma espositivo semplice ed efficace, facendo emergere la capacità realizzativa e l’approccio artigianale attraverso cui Valle opera l’inserimento di nuove costruzioni in ambienti consolidati. Dai progetti esposti è emerso quanto le soluzioni architettoniche di ogni intervento siano efficaci anche dal punto di vista urbanistico. Il dialogo con l'esistente fà del lavoro di Gino Valle un punto di riferimento sul piano metodologico, fondato su un concetto di architettura scevra da mimetismi. Le tre versioni progettuali sviluppate per l’impianto termale di Fonte Pudia ad Arta sono, in questo senso, esemplari. L'edificio nasce da un complesso lavoro che arriva a soluzione per tentativi guidati dalla conoscenza dei luoghi e dalla padronanza degli strumenti propri della disciplina architettonica.
La qualità degli elaborati grafici pone la questione della rappresentazione e della loro natura di strumenti di controllo del processo progettuale. L'efficacia delle attuali pratiche legate alla rappresentazione digitale può essere proficuamente confrontata con i valori grafici contenuti in queste tavole. La tecnica della matita su foglio bianco riesce ad evocare il prodotto finito, senza facili iperrealismi, nella rigorosa verifica metrica della soluzione. La mostra, curata da Giovanni Corbellini, ha offerto uno spunto di riflessione sui modi correnti della pratica architettonica e lo stimolo ad un rinnovato approccio sperimentale nei confronti della forma costruita (foto di Sebastiano Bertoni; disegno dello Studio Valle). a cura della Comm. Cultura e Giovani dell'Ordine degli Architetti PPC di Mantova e di Elena Pradella
I premi della Biennale Il 13 settembre scorso la giuria dell’11 Mostra Internazionale di Architettura presieduta da Jeffrey Knipnis, critico e docente dell’Università dell’Ohio, e composta da Paola Antonelli, Max Hollein, Farshid Moussavi e Luigi Prestinenza Puglisi, ha attribuito i seguenti premi: • Leone d’Oro per la migliore Partecipazione nazionale alla Polonia; • Leone d’Oro per il miglior progetto d’installazione della Mostra Internazionale a Gregg Lynn Form (USA); • Leone d’Argento per promettenti giovani architetti della Mostra Internazionale al gruppo cileno Elemental (vedi foto). Durante la cerimonia di inaugurazione e premiazione della Mostra, in seguito a una decisione presa dal CdA della Biennale
di Venezia presieduto da Paolo Baratta e su proposta del Direttore dell’11 Mostra Aaron Betsky, sono stati inoltre assegnati il Leone d’Oro alla carriera a Frank O. Gehry e il Leone d’Oro Speciale per uno storico dell’architettura a James S. Ackerman.
a cura di Manuela Oglialoro
L’ondata di rinnovamento che sta investendo Milano non riguarda solo nuove realizzazioni urbanistiche, come quelle previste per l’Expo e per la riqualificazione delle aree industriali e degli scali ferroviari dismessi, ma interessa anche la città costruita e le sue storiche istituzioni. Alcuni musei e pinacoteche milanesi stanno avviando progetti di restauro e programmi di risistemazione delle proprie collezioni: il Museo Bagatti Valsecchi, il Palazzo Reale, l’Arengario, la Pinacoteca di Brera, il complesso dell’Ambrosiana. La scorsa primavera, dopo circa tre anni di chiusure parziali, il Museo Bagatti Valsecchi è tornato a riaprire tutte le proprie sale al pubblico, dopo un accurato restauro e il miglioramento delle dotazioni tecniche per la conservazione delle opere. Inoltre, dal mese di ottobre 2008 il Museo è entrato a far parte di un nuovo circuito espositivo che riunisce le Case Museo di Milano: Offrire un servizio alla città e ai suoi ospiti. Creare iniziative condivise a livello culturale e didattico. Fare rete tra istituzioni, per valorizzare il patrimonio artistico milanese. Questo è lo spirito con cui nasce il “Circuito delle case museo di Milano” (…) Un nuovo sistema museale che riunisce, nel rispetto delle reciproche autonomie, quattro realtà espositive: Museo Bagatti Valsecchi, Casa Boschi Di Stefano, Villa Necchi Campiglio e Museo Poldi Pezzoli. “Le dimore museo sono luoghi in cui si svela l'identità di una comunità. Luoghi speciali, che da una prospettiva intima e domestica sono in grado di restituire uno spaccato particolare della storia urbana – spiega Annalisa Zanni, direttrice del Poldi Pezzoli. In quelle milanesi si può leggere la trasformazione della società tra 1850 e 1950, dall'aristocrazia impegnata nell'unità d'Italia fino alla borghesia illuminata del XX secolo (Chiara Vanzetto, Le Case Museo hanno fatto poker, “Corriere della Sera” del 1.10.08). Tra i grandi restauri di edifici di pregio architettonico, in corso, vi sono gli interventi riguardanti Palazzo Reale, di cui sono stati recuperati e riaperti al pubblico altri
spazi, prima inaccessibili: È una parte di Palazzo Reale mai vista (…) Si tratta di quindici stanze dell´“appartamento” di riserva, per gli ospiti illustri e i principi, occupate dal duca di Bergamo fino al 1936 e poi diventate uffici della Corte dei conti. Ora restituite al loro splendore dopo un attento restauro durato più del previsto, cinque anni (si iniziò nel luglio 2003, si doveva concludere nell’agosto 2006), che ha mantenuto la sovrapposizione di stili delle decorazioni, dal Piermarini all´800, fino ai primi del '900. (Anna Cirillo, Palazzo Reale, restauro infinito, “la Repubblica”, 28. 8.08). Un’altra realizzazione d’eccellenza riguarda il nuovo Museo cittadino delle Arti del Novecento, che sarà ospitato nell’edificio dell’Arengario ora in fase di ristrutturazione: L'inaugurazione è prevista per il dicembre del 2009, centenario del Futurismo, considerata una data simbolo, dal momento che le collezioni più importanti dell’esposizione del museo saranno dedicate al movimento di Marinetti e Boccioni. (L’Arengario di Milano diventa Museo del XX sec.,www.edilone.it, 7.2.07). Nel novero dei progetti di maggior rilievo si segnala il rinnovo e l’ampliamento della Pinacoteca di Brera che si renderà effettivo dopo il trasferimento di una parte dell'Accademia in una nuova sede, per ora indicata nell’edificio della caserma di via Mascheroni: Riparte il percorso verso la Grande Brera, progetto che vuole i corsi nell'edificio militare e più spazi per la Pinacoteca nella sede storica. E il percorso riparte in un momento chiave: a breve inizia il restyling delle sale espositive del museo, a dicembre si conclude il restauro delle facciate di palazzo Brera e nel 2009 sarà celebrato il bicentenario dell’inaugurazione. (Stella Armando, Restauro e trasloco. Grande Brera, sì del governo, “Corriere della Sera”, 31.8.08). Anche il complesso dell’Ambrosiana, formato dalla Biblioteca, dalla Pinacoteca e dall’annessa chiesa di S. Sepolcro è interessato da progetti di grande importanza. I lavori di recupero fervono nell’antica Biblioteca fondata da
Federico Borromeo e tra le prime al mondo ad essere aperta al pubblico nel 1609: qui gli interventi in corso riguardano prevalentemente il restauro delle volte e degli stucchi della sala Federiciana. Monsignor Franco Buzzi, da circa un anno prefetto dell’Ambrosiana, intervistato da Armando Torno, spiega che: Qui sono conservati libri di incalcolabile valore: per esempio, c'è la biblioteca personale di Cesare Beccaria con i suoi manoscritti. I bombardamenti del '43 distrussero la parte alta e, nel dopoguerra, si intervenne rapidamente e non si potè ricostruire tutto com'era. “Ora – sottolinea Buzzi – cercheremo di salvare quel che si era fatto analizzando i materiali; questa sala va consegnata al futuro, anche se le sue caratteristiche originali sono andate perdute. La parte che si vede non fu toccata dai restauri del 1990”. (Armando Torno, Buzzi: restituiremo ai milanesi la sala con i libri del Beccaria, “Corriere della Sera” del 18.8.08). Fra i programmi di rinnovamento vi è l’intenzione di ampliare lo spazio a disposizione della biblioteca recuperando vasti spazi dei sotterranei. Anche nell’attigua chiesa di S. Sepolcro sono in atto restauri delle strutture. La chiesa è stata fondata nel 1030 con il nome di S.S. Trinità da Benedetto Ronzone e poi ridedicata al San Sepolcro nel 1100 dall’Arcivescovo di Milano, Anselmo da Bovisio, in occasione del primo anniversario della spedizione crociata lombarda che nel 1099 prese Gerusalemme. L’edificio sacro subì allora dei rimaneggiamenti che avevano la finalità di creare un edificio ad imitazione del complesso gerosolimitano. Infatti, in Europa sono tanti gli esempi di chiese realizzate nelle forme della Chiesa del S. Sepolcro di Gerusalemme. Nel corso dei secoli vi furono ulteriori interventi edilizi eseguiti sulla chiesa. Da tempo l’edificio necessitava di restauri così come anche la sottostante cripta risalente al XI secolo, edificata sul sito dell’antico foro della città in epoca romana. È un fatto di ampia portata culturale che venga restituito alla città, grazie alle opere di rispristino, un edi-
29 ficio di così grande valore storico artistico. Tra i vari progetti avviati dall’Ambrosiana vi è anche quello di rendere accessibile al pubblico un ampio spazio dei sotterranei della biblioteca, dove è stata riportata alla luce una vasta porzione dell’antico lastricato del foro romano. Sarà così possibile, in un prossimo futuro, calcare il suolo che appartenne alla Milano di epoca imperiale, lo stesso su cui avevano camminato S. Ambrogio e S. Agostino. Oltre agli interventi relativi alle opere architettoniche, vi sono molte proposte culturali che si intendono promuovere: progetti di mostre, di convegni, la valorizzazioni delle Accademie di studio già presenti in Ambrosiana, la nascita di nuove sezioni per gli studi orientali e per le lettere, l’apertura verso la città, il mondo universitario e la ricerca, come descrive monsignor Buzzi: A me piacerebbe far diventare l'Ambrosiana, che già agisce in questa ottica, un punto di riferimento che interagisca con tutte le altre realtà culturali della città, soprattutto che si trasformi nel baricentro delle ricerche universitarie (…) Abbiamo, per prima cosa, in mente la costituzione all'interno della biblioteca di un'Alta Scuola di Studi di filologia italiana, strutturata in corsi che analizzeranno sistematicamente la storia del libro, dei manoscritti e delle biblioteche. (Armando Torno, Sogno un'Ambrosiana veramente aperta. Sarà la casa degli studiosi e della ricerca, “Corriere della Sera” del 4.11.07). Tutte queste iniziative sono intraprese per tener fede a quello che fu l’impegno di Federico Borromeo, come ci confermano le parole di Monsignor Buzzi: La filosofia della Ambrosiana è quella di Federico: aprirsi agli studi e alla città, essere il luogo dove la ricerca trova sostegno e aiuto. (Armando Torno, Buzzi: restituiremo ai milanesi la sala con i libri del Beccaria, “Corriere della Sera” del 18.8.08). M. O.
OSSERVATORIO RILETTURE
Restauri a Milano: dal Museo Bagatti Valsecchi al rilancio della Biblioteca Ambrosiana
a cura di Antonio Borghi
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Intervista a Paolo Caputo Paolo Caputo si è imposto sulla scena architettonica milanese con una serie di progetti di rilevanza urbana e i temi da affrontare nella nostra conversazione sono molti. Partiamo dal progetto più atteso per la città di Milano: la co struzio ne della nuova sede della Regione Lombardia nell'area GaribaldiRe pubblica. Sono trascorsi quattro anni dal concorso e il Presidente Napolitano, in una sua recente visita al cantiere, ha parlato di un “emblema di efficienza della pubblica amministrazione”. Come procedono i lavori dal suo punto di vista? Per il mio studio si tratta di una esperienza straordinariamente positiva, ma non priva di difficoltà. Alla fine del 2003 siamo stati selezionati come “Associazione temporanea d’impresa” insieme allo studio Pei Cobb Freed and Partners di New York e Sistema 2000 srl per la partecipazione a questo concorso e nell’aprile del 2004 siamo risultati vincitori, ottenendo l’incarico per il progetto definitivo. Da allora abbiamo lavorato in stretta collaborazione con gli uffici di Infrastrutture Lombarde, il braccio tecnico della Regione Lombardia, che ci ha sottoposto un brief più dettagliato e concreto rispetto a quello del concorso, il che ha comportato una serie di modifiche al progetto originario. Alla consegna del progetto definitivo è seguito un appalto integrato che abbiamo seguito con una certa apprensione, temendo modifiche al progetto che passava, nella delicata fase esecutiva, in mano ai tecnici delle imprese appaltatrici. In questa fase siamo stati molto presenti al fianco di Infrastrutture Lombarde cercando di intervenire a tutela della qualità del progetto. Al momento della aggiudicazione definitiva dell’appalto la nostra perseveranza è stata “premiata”: abbiamo infatti avuto modo di prendere visione del progetto esecutivo e di esprimere il nostro punto di vista attraverso una serie di osservazioni. Questo sforzo è stato apprezzato, le osservazioni positivamente recepite e si è giunti alla defini-
zione di un nuovo incarico all’Ati, questa volta per la direzione artistica, in base al quale in periodiche riunioni di cantiere ci vengono sottoposti i dettagli costruttivi e le campionature dei materiali. Nelle settimane scorse ad esempio siamo stati chiamati ad esprimerci su scelte relative ai nuclei ascensori, ai controsoffitti e a quegli apparati tecnologici che hanno un impatto architettonico. Certo avremmo preferito avere l’incarico per l'intero sviluppo del progetto, ma la procedura prescelta non lo prevedeva e quindi abbiamo cercato di esercitare un controllo “a valle”. Per quanto riguarda il cantiere i lavori procedono bene. Il cantiere è ben organizzato, con livelli di efficienza paragonabili a quelli del polo esterno della Fiera che ad oggi è considerata un’esperienza di riferimento a livello internazionale. La fase più complessa è stata quella iniziale, di scavo e realizzazione delle opere strutturali nel sottosuolo, per le difficoltà logistiche connesse all’area. Da quando siamo arrivati con le strutture alla quota del piano terreno si è potuta utilizzare tutta l’area di progetto per organizzare il cantiere. Da quel momento si è costruito un piano di edificio alla settimana arrivando rapidamente al coronamento della parte basamentale. In novembre si è dato avvio allo sviluppo delle strutture della torre. Oltre alle strutture sarà molto veloce anche la realizzazione del tamponamento esterno dell’edificio: le cellule di facciata verranno montate in circa dieci minuti ciascuna. La consegna dell’opera è prevista per il dicembre del 2009 e nella primavera del 2010 il complesso ospiterà gli uffici della Regione. Dal punto di vista della progettazione come si è strutturata la collaborazione all’interno della Ati? La collaborazione è stata intensa fin dall’inizio. La mia scelta di partecipare al concorso con lo Studio Pei Cobb Freed and Partners non è stata estemporanea: durante i miei studi alla Pennsylvania State University abitavo con uno dei futuri soci di Pei-Cobb e da quegli anni ho condiviso e apprezzato la loro visione “classica” dell’architettu-
ra contemporanea che è anche alla base del progetto della nuova sede della Regione. Da un punto di vista operativo nei tre mesi di elaborazione del progetto abbiamo tenuto sessioni congiunte a Milano e a New York. Il mio referente è stato Henry Cobb, con il quale c’è stata grande unità di vedute fin dall’inizio. È stata un’esperienza molto intensa del cui risultato siamo molto convinti e credo che anche chi ha “mugugnato” contro il progetto di concorso si ricrederà vedendo il risultato finale. Il vostro studio ha un ruolo importante in vari progetti di edilizia residenziale a Milano. Alcuni di questi apparteng ono alla cosiddetta stagione dei Piani di Riqualificazione Urbana (PRU), altri, ancora in corso, sono Piani Integrati di Intervento (PII). Come giudica gli esiti di questi due strumenti urbanistici? Per quanto riguarda il ruolo avuto dal mio studio è bene distinguere. L’unico PRU che ho avuto modo di progettare negli anni ‘90, il cosiddetto PRU Marelli di via Adriano, non fu avviato ad attuazione dall’Amministrazione Comunale perché non sufficientemente servito in termini infrastrutturali e troppo funzionale alla incerta realizzazione della “Strada Interperiferica Nord”. I PRU che sono stati realizzati – Rubattino, Pompeo Leoni e Certosa – non sono stati disegnati dal mio studio, anche se vi abbiamo progettato alcuni edifici: una Casa per studenti e due edifici di cooperativa a Rubattino, un'altra residenza universitaria a Certosa. Nella stagione dei PII ho disegnato insieme a Giovanni Carminati il progetto Montecity-Rogoredo, poi ridenominato “Milano Santa Giulia” per la presenza nell’area di una piccola chiesa dedicata alla Santa e per ragioni di marketing legate all’ingresso di Norman Foster nel progetto. In seguito ho presentato il progetto di via Adriano, aggiornato in veste di PII, che prevedeva la trasformazione di due aree al confine settentrionale del territorio comunale milanese. Qualche anno fa ho presentato un ulteriore PII su una parte dell’area dei gasometri alla Bovisa di proprietà Euromilano, ma questo pro-
getto si è poi arenato. Rispetto alla sua domanda, ritengo che i PRU siano la premessa all’esperienza più matura dei PII. Non amo l’assetto spaziale scaturito dai PRU: ritengo che Rubattino presenti livelli di densificazione eccessiva, Certosa ha sofferto sul piano attuativo la bassa qualità architettonica di gran parte degli edifici e il Pompeo Leoni mi pare poco significativo nella definizione morfologica. In sintesi credo che il contributo dei PRU alla qualità urbana di Milano non sia stato del tutto soddisfacente. Credo invece che i PII riusciranno a dare alla città una qualità aggiuntiva perché è maturata una maggiore sensibilità circa la qualità degli edifici e degli spazi pubblici, sia da parte dei privati che della pubblica amministrazione. Ad una generazione di operatori ne è subentrata una nuova, più sensibile al "bello”, parlo ad esempio di Luigi Zunino, della famiglia Castelli, di Manfredi Catella, Antonio Napoleone di Europarisorse, Luigi Marchesini, dei giovani Cabassi e Ligresti, Giuseppe Statuto, Dario Broglia e Alessandro Pasquarelli, attualmente alla guida di Euromilano e che recentemente ha chiamato lo studio OMA di Rem Koohlhaas a disegnare il masterplan dell’Area Bovisa. Per inciso se è vero che Koohlhaas non sempre produce “bellezza”, a mio parere è pur sempre un “positivo provocatore”, portatore di idee interessanti che certamente apporteranno un contributo di qualità alla città di Milano. In definitiva mi pare che i PII stiano portando a buoni risultati, come ad esempio al Portello e prossimamente alla Bicocca, dove gli interventi su nuove aree stanno implementando la qualità del quartiere disegnato da Gregotti. Quella della Bicocca è stata un’esperienza valida per la ricerca di una articolata sobrietà e coesione del progetto urbano e architettonico. Mi pare però evidente che sussistano alcuni aspetti critici nell’impianto: gli isolati hanno un carattere eccessivamente introverso che non invita a un utilizzo delle strade come spazio di socialità e c’è mancanza di relazione tra le strade e le piazze-corti. Un altro PII è legato al Progetto
Si parla molto di Santa Giulia come di una nuova centralità urbana. Secondo lei il quartiere sarà all'altezza delle aspettative? L’area di cui mi sono occupato, e che conosco meglio nell’attuazione, è la parte sud del quartiere Santa Giulia dove il committente è un Consorzio di Imprese e Cooperative volto alla realizzazione di residenze per un target medio. In un primo tempo ho curato il masterplan dell'area e in seguito ho steso le linee guida della progettazione architettonica dei singoli edifici. Il “progetto direttore” prevedeva un sistema di regole di carattere compositivo a livello urbano e architettonico: allineamenti, altezze di gronda, abaco di parapetti, recinzioni, infissi, il piano colore e una selezione di materiali, ecc. L’intervento prevedeva la realizzazione di circa 1.800 alloggi
corredati da negozi di vicinato mentre il terziario, il commerciale di livello urbano, le residenze di fascia alta saranno concentrati nella parte nord. Il tema della qualità non è necessariamente legato alla dimensione degli investimenti, ma è soprattutto una questione di progetto. Il quartiere è stato “aperto” da poche settimane. Credo che lo sforzo per farne un pezzo di città coeso, ma al tempo stesso variegato, sia sotto gli occhi di tutti. Dal 2002 lei è membro de l Consig lio di amministraz io ne della Triennale che fino a una decina di anni fa era un ambiente un po’ polveroso che ospitava una o due mostre all’anno mentre oggi presenta una girandola di eventi di varia natura e un numero di visitatori in crescita costante. La politica della Triennale è quella di aderire il più possibile alla sua “ ragion d’essere” originaria: essere un luogo di incontro, discussione e ricerca sull’architettura e sulle tante discipline che con essa interagiscono. La Triennale nasce per questo, con ampi spazi dedicati sia alle arti figurative che applicate, al design, alla moda, al teatro e così via. I programmi di molte edizioni storiche della Triennale rispecchiavano questa molteplicità di interessi. Tornando all’oggi, la ricchezza dell’offerta fa sì che si possa catturare l’attenzione di un pubblico molto articolato nei confronti di un luogo e di una istituzione. A questo scopo abbiamo assunto anche qualche “rischio” nella programmazione culturale, ad esempio inaugurando una sede alla Bovisa dedicata alle forme narrative della contemporaneità. L’architettura non è certamente trascurata nel nostro progetto, semmai nella ricchezza dei programmi proposti è un po' più difficile individuare il filo rosso che caratterizza la sua “presenza” in Triennale. Quest’anno abbiamo trattato il tema della casa con due mostre e vari momenti di dibattito. L’anno scorso abbiamo trattato il tema dei “luoghi della sofferenza”: un tema difficile ma molto stimolante. Oltre al programma degli eventi “temporanei” abbiamo realizzato iniziative durature e importanti come il “Maggio
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dell’architettura”, con mostre monografiche e itinerari tematici, l’apertura della Biblioteca del Progetto, siamo diventati oggetto di donazioni da parte di studi di architettura che mettono a disposizione le proprie biblioteche e gli archivi, abbiamo aperto al pubblico lo Studio-Museo di Achille Castiglioni e il Design Museum con un nuova formula espositiva, quella dell’allestimento a tema e a tempo, nel quale le nostre collezioni si “raccontano” in modo sperimentale. L’anno scorso l’allestimento è stato curato da Italo Rota, l’anno prossimo sarà di Antonio Citterio, perché la Triennale vuol far discutere di architettura e non ha interesse a promuovere una particolare scuola di pensiero. Tra poco entreremo di nuovo in possesso del Teatro dell’Arte e amplieremo ulteriormente la nostra offerta culturale. Tutto questo è dovuto soprattutto all’impegno del presidente Davide Rampello coadiuvato dal direttore generale Andrea Cancellato. C’è ancora spazio per la tradizionale figura del professionista oppure il mercato è solo dei grandi studi organizzati come imprese per la fornitura di servizi di progettazione? Credo che nel prossimo futuro gli architetti saranno chiamati a dare un contributo fondamentale a un nuovo generale modello di sviluppo orientato più dalla cultura della sintesi che da quella dell’analisi. La tendenza a suddividere in parti sempre più piccole l’oggetto della nostra attenzione al fine di conoscerlo ci ha fatto perdere la visione d’insieme e ha provocato molti danni. Dal punto di vista del mercato la questione è complessa e credo che anche gli Ordini siano chiamati a dare il proprio contributo. La nostra categoria è poco tutelata, non solo nelle questioni più strettamente procedurali
quali i rapporti con la committenza, ma anche sotto aspetti importanti di carattere socio-culturale quali l’immagine pubblica. Certamente sia-mo corresponsabili di un’immagine pubblica non del tutto integra, ad esempio quando ci vengono imputate alcune criticità del territorio. Tuttavia la categoria deve compiere uno sforzo di “tenuta”, anche con un rafforzamento del ruolo degli Ordini. Il “gioco al ribasso” tra colleghi, tipico del nostro Paese, si basa spesso sulla riproposizione di ”progettifotocopia”, sulla mancanza di investimenti in ricerca e nelle strutture, a scapito della qualità del prodotto architettonico e della reputazione della categoria. Il mercato tende in ogni settore alla concentrazione, e per accedere a un certo livello di confronto professionale è necessario avere strutture solide e ben organizzate. Molti committenti internazionali entrano negli studi, valutano le competenze e vogliono conoscere personalmente non solo il titolare, ma anche i suoi più stretti collaboratori perché la struttura conta tanto quanto l’architetto che la dirige. La mia principale preoccupazione è per la tutela del lavoro di qualità e, quindi, della categoria. L’architetto è poco tutelato nei confronti della committenza e una volta espletate le prime fasi della progettazione, è troppo “esposto”. Spesso non ha la possibilità di portare a termine l’opera sotto il proprio controllo e lavora sotto la minaccia di essere estromesso e sostituito in qualsiasi momento. Per opporci a questo stato di cose dobbiamo recuperare il senso di appartenenza a una categoria il cui ruolo è prezioso per la società. Il momento è propizio perché l’attenzione verso l’architettura è molto cresciuta, sia a livello mediatico che nella consapevolezza della committenza pubblica e privata.
OSSERVATORIO CONVERSAZIONI
Citylife per l’area della vecchia Fiera. Per quel che ho visto sulla stampa e sui tavoli da disegno di alcuni colleghi mi pare che la nuova versione sia migliore delle precedenti. L’ampliamento delle aree verdi, la connessione alla Metropolitana e al Centro Congressi della Fiera, la definizione del Museo di Arte Contemporanea e la rilettura dell’impianto degli edifici residenziali, hanno rafforzato il carattere di un progetto nel quale emerge una forte tensione verso un’architettura urbana di qualità. Lo stesso accade nell’Area delle Varesine dove ho partecipato alla definizione del masterplan curato dallo studio KPF, uno dei tre comparti che compongono il complesso di Porta Nuova, insieme all’intervento di Stefano Boeri e a quello di Cesar Pelli. In questo caso la qualità dello spazio pubblico e dei singoli edifici è perseguita con grande attenzione attraverso una partecipazione costante e propositiva della committenza al tavolo di lavoro. Alla maggiore sensibilità verso l’estetica e la qualità urbana dei progetti si aggiunge oggi l’attenzione nei confronti dell’ambiente. In definitiva è sempre più difficile imporre al mercato un prodotto edilizio “ordinario”; le qualità che poco tempo fa erano considerate un lusso oggi sono "obbligatorie". Il mercato è saturo della mediocrità diffusa e richiede prodotti di qualità.
a cura di Roberto Gamba
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Edilizia residenziale pubblica a Grumello del Piano (Bergamo) marzo - luglio 2007
Il Comune di Bergamo, proprietario di un’area rurale, da urbanizzare, in Grumello del Piano, ha indetto un concorso di progettazione, di livello di approfondimento pari al preliminare, per la realizzazione di nuovi edifici per l’edilizia residenziale pubblica, con alloggi da destinare alla locazione. Il costo massimo da prevedere per gli interventi, comprese le urbanizzazioni e le sistemazioni di suolo, era di euro 4.000.000. Gli elaborati richiesti erano 4
tavole in formato “A0”: una contenente la planimetria generale; un’altra le sistemazioni del suolo; la terza piante, sezioni, alzati e rappresentazioni tridimensionali; l’ultima, gli impianti tecnologici e lo schema dei criteri bioclimatici adottati. Membri della giuria sono stati: Massimo Casanova (Presidente), Claudio Coppola, Alessandro Pellegrini, Antonio Monicchi, Fulvio Adobati, Francesco Sannino, Bortolo Balduzzi, Massimo Locatelli, Roberto Madaschi.
1° classificato Stefano Diene (Milano), Roberta Cattorini collaboratori: Alberto Micheli, Roberto Battelli La matrice strutturale del nuovo intervento edilizio assume gli orientamenti e gli allineamenti del tessuto esistente come tracce fondamentali per la costruzione dell'impianto generale. I tre nuovi corpi di fabbrica, massimo di tre piani fuori terra, si dispongono a corte aperta, con disposizione est-ovest per ottenere una favorevole esposizione eliotermica e mantenere i coni
panoramici verso il contesto agricolo. Lo spazio aperto della piazza alberata collega il nuovo impianto con la piazza Aquileia, stabilendo un continuum urbano. I nuovi edifici vi prospettano con una grande serra vetrata. Si prevedono 42 alloggi, suddivisi in 18 bilocali, 18 bilocali e 6 quadrilocali in duplex. Il progetto prevede inoltre la creazione di una fascia verde di connessione ecologica, a protezione dei corsi d’acqua limitrofi al comparto, accompagnata dalla realizzazione di percorsi ciclopedonali.
Gli alloggi si dispongono su due aste progettate organicamente con linee arcuate, per accogliere al loro interno il parco in un’isola verde che ne rappresenta l’ultima propaggine. In essa sono piantumate piante defoglianti in grado di ombreggiare nella stagione estiva gli alloggi
e di farvi filtrare l’irraggiamento solare nella stagione invernale. La differenziazione delle altezze dell’asta a sud consente migliori apporti di luce e di sole, nella stagione invernale, agli alloggi corrispondenti dell’asta a nord. Il posizionamento, lungo i fronti a sud, di serre bioclimatiche, consente la captazione solare nel periodo invernale; il sistema di schermatura solare previsto ne consente l’ombreggiamento durante il periodo estivo. La scelta impiantistica è riferita a un impianto che utilizza l’energia geotermica, che consente anche il raffrescamento nella stagione estiva e a pannelli fotovoltaici per la produzione di energia elettrica.
3° classificato Giorgio Forlani (Bergamo), Francesco Franchi, Dario Frigoli, Umberto Pozzi, Rosangela Rigoli collaboratori: Tommaso Bellè, Iacopo Boccalari Il progetto si articola in due corpi di fabbrica di tre piani fuori terra, posti in linea, paralleli nelle porzioni occidentali e divergenti in quelle orientali, aperti al paesaggio agrario; disposti con orientamento simile a quello del “castello”. Il margine orientale dell’area di
progetto, disegnato dai tracciati delle rogge irrigue, suggerisce un percorso che dalla campagna del parco agricolo ecologico entra nell’“imbuto” dei due corpi di fabbrica. È stato calcolato per l’edificio un consumo di 33 kwh/m2 anno, grazie all’orientamento lungo l’asse est-ovest; all’affaccio dei locali abitabili a sud e di ballatoi e servizi a nord; a opportune scelte impiantistiche e all’uso di materiali naturali coibenti; all’attenzione a soluzioni ottimali per gli ombreggiamenti invernali ed estivi.
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2° classificato Piero Cadeo (Brescia), Giovanni Cadeo, Niccolò Cadeo, Chiara Dolcetta, Giovanni Boniotti, Vincenzo Toninelli, Andrea Pelizzari, Paolo Pelizzari, Giambattista Gasparini, Oliviero Castellanelli, Eleonora Chiafe
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Riqualificazione del parco urbano dellʼIsola Carolina di Lodi novembre 2007
Il Parco, denominato “Isola Carolina”, è uno dei tre giardini storici di Lodi, un’area verde pubblica attrezzata di circa 50.000 mq, non soggetta a vincolo paesaggistico. Ha preso il nome dalla preesistente cascina Carolina, di cui tuttora rimane traccia. L'area venne acquistata dal Comune nel 1953 e fu sistemata con piantumazioni di ben 35 tipi di essenze arboree e con speci pregiate, selezionate a Villa Taranto, sul lago Maggiore. Oggi si rileva un manto erboso diradato, l’assenza di sottobosco, una prevalenza di soli alberi ad alto fusto, una scarsa rilevanza paesaggistica e decorativa delle essenze. Angusti ed in stato di degrado sono due degli accessi (un sottopassaggio che collega il Parco con un parcheggio e la rampa di scale a chiocciola che lo collega al centro storico). Con questo concorso di progettazione erano richieste proposte che includessero elementi necessari a garantire la
fruizione sicura del Parco, un sistema di illuminazione, una diversificazione nella messa a dimora di essenze arboree, un miglioramento dei percorsi e degli spazi attrezzati. Le opere dovevano essere suddivise in 4 lotti, per una spesa, per la somma dei primi due lotti, di euro 450.000. La Giuria era composta da Annalisa Calcagno Maniglio, Silvana Garufi, Angelo Bugatti, Federico Oliva, Claudia Sorlini, Luigi Trabattoni, Matteo Zanchi, Gianpaolo Gatti. Il Comune ha messo a disposizione un monte premi di euro 21.000. Al vincitore dovrà essere assegnato l'incarico della progettazione definitiva ed esecutiva. Oltre ai progetti qui presentati, si sono classificati: 3° Davide Cerati; 4° Roberto Burlando con Gianluca Terragna, Fabio Palazzo, Gianluca Bongiovanni, Michele Armento, Paola Sabbion, Sara Caprini; 5° Maria Pia Cunico con Francesca Benati, Giuseppe Rallo.
1° classificato Marco Simone Bay (Milano), Claudio Valent, Marinella Patetta, Paolo Tatavitto, Sofia Meda, Ewen Le Rouic, Michela Viganò, Daniela Cappuccio La prima idea è stata di svuotare alcune parti del bosco, per creare uno spazio vitale al suo interno con radure luminose di prati dove riposare e giocare. Il parco così svuotato offre nuove panoramiche sulla città; viene ridisegnato nei suoi confini, con
2° classificato Michelangelo Lassini (Milano), Mauro Montagna collaboratori: Raffaella Donatelli, Alessia Santi, Cristina Martone È prevista la realizzazione di radure all’interno della copertura arborea per ottenere una maggiore diversificazione di pieni e vuoti, di sole ed ombra, per consentire lo sviluppo del sottobosco e dei prati di nuovo
la promenade, disegnata da un doppio viale formale lungo via Dalmazia e il parco chiuso. L’intero parco sarà in terra battuta, in modo da garantire il fluire degli spazi in tutte le direzioni e da creare una superficie unitaria in un materiale più consono all’ambiente naturale. L’illuminazione è realizzata pensando alla sua integrazione nel progetto paesaggistico. La nuova organizzazione propone un caffé, un’area per mercato, due aree giochi, un anfiteatro e un percorso botanico.
impianto all’interno del parco. Il margine orientale del parco verrà riplasmato attraverso un “sistema di bastioni” che dalla piazza Castello scende con un nuovo percorso collegando le scuole al parco e offrendo un accesso meno ripido all’area sottostante. I bastioni di testa (nord e sud) diverranno elementi di connessione fra il centro storico, piazza Castello, il parco e la città fuori le mura.
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Riqualificazione di una piazza a Locate Varesino (Como) giugno – settembre 2007
1° classificato Elena Bertinotti (Mergozzo – No), Paolo Citterio, Anna Chiara Morandi collaboratori: Claudio Borroni, Marzia Redaelli Sono ridefiniti i caratteri degli spazi aperti: l’ingresso al parco, la nuova pensilina per la fermata degli autobus e la riperimetrazione degli alberi ad alto fusto esistenti. Il disegno della pavimentazione converge all’intersezione di
come uno spazio unitario; considerare, inoltre, la possibilità di prevedere spazi da utilizzare per mostre all’aperto, mercatini e, per il mercato settimanale, valutare la compatibilità della sua permanenza in piazza o l’opportunità di individuare una nuova idonea collocazione. La giuria era formata da Luca Castiglioni, Matteo Caimi, Re-nato Conti, Aldo Mauri, Fabio Mangili, segretario Tiziana Ronchetti. Oltre ai due progetti presentati, la classifica ha visto terza Elisa Zucchini.
via Caimi con via Parini definendo un “fulcro percettivo”, dove viene ricollocato il monumento ai Caduti. La pavimentazione della piazza viene estesa fino al muro di cinta del parco, separando la zona pedonale dai percorsi automobilistici. L’ingresso esistente, molto decentrato rispetto alla piazza, è segnalato, nel centro dello spazio pedonale, da una fontana e da inserti in lastre nella pavimentazione.
OSSERVATORIO CONCORSI
Il concorso di idee riguardava il rifacimento di piazza S. Anna, oggetto di Piano particolareggiato di iniziativa pubblica, comprensiva dell'area utilizzata quale sagrato della chiesa parrocchiale e del parcheggio prospiciente l'ufficio postale, nonché del tracciato delle vie che intersecano tali aree o ne delimitano il perimetro. La riqualificazione doveva interessare anche l'integrazione del parco di villa Catenacci, per permettere la miglior fruibilità ai cittadini. L’obiettivo è conferire unità stilistica all’intera area, così da renderla percepibile e fruibile
2° classificato Francesco Megna (Varese) collaboratori: Valentina Ruta, Alessandro Arzaghi, Gianluca Bassani, Maurizio Burragato Idea portante è la trasformazione di una piazza inesistente, composta da spazi di risulta tra vie di traffico, in una spazialità centrale articolata. A margine della prima piazza si
sottolinea l’asse prospettico della villa con un filare di tigli e con elementi di arredo urbano: un’architettura gradonata attrezzata a fontana. L’orditura delle fasce trasversali in lastricato di granito bianco rafforza l’unitarietà delle piazze. Un filare di alberi a fioritura primaverile si inserisce nell’ordito della pavimentazione, cosi come aiuole di piante aromatiche e fiori.
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Design Made in Italy
Sullʼabitare contemporaneo
Costa e le sue opere
Matteo Vercelloni Breve storia del Design italiano Carocci, Roma, 2008 pp. 180, € 14,50
Maria Alessandra Segantini Atlante dell’abitare contemporaneo Skira, Milano, 2008 pp. 336, € 32,00
Merito di questo consigliabile libro è il racconto agile di una non-storia. Un’introduzione secca e sette brevi capitoli per un coraggioso tentativo di descrivere in modo essenziale, per soglie problematiche, un fenomeno italiano, la nostra gloria metropolitana. Si tratterebbe altrimenti di riferire una vicenda troppo densa, difficile da valutare essendo immersi nel suo probabile epilogo. Il design italiano si pone tra disegno del prodotto industriale e la stilizzazione dell’oggetto d’uso. Già in questa originaria duplicità, le diverse oscillazioni della sua posizione dalle esigenze della produzione a quelle della comunicazione, propongono una possibile linea di lettura che attraversa la nostra coscienza di massa. Un filo che mostra, assieme all’intuizione presentita ed annunciata di una possibile società, la perdita della nostra cultura industriale, sbriciolata sul diagramma dei consumi e sulla rapida sostituzione del desiderio alla necessità. Una domanda che emerge dalla lettura “milanese” di Matteo Vercelloni, sarebbe fino a che punto il design sia costola di un mondo nuovo che nel suo ripiegare ha prodotto una Eva sin troppo seduttiva nelle sue confortevoli lusinghe. Quanto il clima che ha generato le scuole dell’Umanitaria e di Monza, La Triennale, l’ambiente degli architetti milanesi, dei grafici e pubblicitari, di artisti e fotografi, di teatro, letteratura e cinema, di stilisti e mannequins, e via dicendo, sia cultura dell’industria e della sua produzione, o della trasformazione del mondo in mercato, piuttosto che una sua ideologia infranta, sopravvissuta come icona, cascame di cattiva coscienza utile per gabbare i più. Teoria evidentemente disgiunta dalla grama sostanza di bozzolieri e ferraioli – a cui si sono aggiunti rentiers meno distinti negli ultimi decenni – investita non nella capitale morale, ma nella capitale del design e della moda del mercato globale. Una situazione in cui dire glo-cale sembra dir meglio, ma ironizzare sulla folla di termini che si son dovuti elencare per annotare l’indescrivibile è perlomeno necessario.
Se in generale, guardando ai migliori esempi della storia, intendiamo l’architettura lo specchio di una civiltà, la sua espressione, possiamo allora considerare la casa, la sua definizione formale, il suo ordine così come la sua organizzazione, la rappresentazione del modo concreto di vivere di un popolo, la manifestazione puntuale della sua cultura. In questo quadro riconosciamo l’interesse per un testo dal titolo Atlante dell’abitare contemporaneo in cui ci aspettiamo di trovare, più che un semplice catalogo sulla casa, una riflessione su cosa possa essere inteso realmente per abitare contemporaneo, su quali siano gli elementi della casa stabili e quali, invece, quelli che, in tempi comunque necessariamente molto lunghi, possano effettivamente modificarsi al variare dei costumi e dei gusti di un popolo. In una riflessione come quella proposta, basata su una raccolta di progetti quali migliori esempi di un’epoca, o quanto meno più espressivi delle esigenze di un’epoca, sembra importante ragionare su quegli aspetti dell’abitare contemporaneo a cui i progetti di architettura raccolti hanno saputo dare espressione, attraverso risultati formali riconoscibili e caratterizzati. In questo senso è di sicuro interesse ritrovare un rinnovato catalogo di proposte sul tema consolidato dell’edificio a distribuzione collettiva che, riproposto oggi per necessità di natura economica e sociale, mostra qui alcune sue possibili nuove declinazioni spesso anche convincenti. La definizione formale degli elementi distributivi a ballatoio, dei corpi scala e degli spazi adibiti ad attività collettive riesce spesso a diventare concreta espressione del carattere degli edifici e rappresenta, per questo, un dato di effettivo avanzamento. Al contrario, i progetti raccolti sul tema della sostenibilità, pur essendo fortemente legati a urgenti questioni effettivamente contemporanee, mostrano ancora tutti i limiti di un campo in cui l’architettura sembra dover ristabilire un proprio ruolo in modo scientifico e storicamente consapevole. Il testo è utile dunque, non solo perché ricco di spunti, ma perché, tra le molte bizzarrie che come spesso accade si fatica a riconoscere come espressione di una presunta contemporaneità, lascia intravedere invece alcuni effettivi caratteri di un’epoca e alcune strade sicuramente percorribili.
Franco Gritti, Matteo Invernizzi, Gastone Piacentini, Cesare Rota Nodari (a cura di) Andrea Costa architetture e disegno Skira, Milano, 2008 pp. 166, € 35,00
Giulio Barazzetta
Francesca Scotti
Il bel volume, edito da Skira, è stato presentato alla Galleria d’Arte Moderna di Bergamo in una attenta e partecipata cornice di pubblico. L’opera ripercorre la produzione architettonica e artistica dell’architetto Andrea Costa, illustrandone e tratteggiandone la complessa, ricca di sfaccettature, figura di uomo e di artista. Arricchito da un’introduzione di Sergio Crotti, è una sorta di inventario che cataloga, suddividendole per gruppi di destinazioni, alcune opere, della sua vasta produzione architettonica, realizzate e non, a partire dall’anno 1966 sino al 2004. Queste sue architetture sono perlopiù localizzate nel territorio della Bergamasca ed in particolare nella pianura, ambiente che ne ha marcato l’appartenenza culturale caratterizzandone la sua produzione. Il libro è arricchito da progetti rigorosamente disegnati, con grande perizia, a mano libera o al tavolo da disegno, che illustrano il suo percorso e che anche i curatori della pubblicazione giudicano “intenso, isolato e tra i più curiosi e vivaci del panorama Bergamasco della fine del ventesimo secolo, interrotto nel giugno del 2007”. La sua matrice razionalista, accompagnata da una grande forza espressiva sia plastica che cromatica, emerge con prepotenza dalle architetture del catalogo. Nelle sue opere e soprattutto nei disegni si legge quanta acuta e sofferta attenzione venga posta alla luce, all’ombra e alla penombra, con il colore utilizzato per “l’attenuazione dei contrasti e per accentuare i contorni”. La cura e la passione del disegno e per il disegno traspaiono dall’intera pubblicazione e sono resi ancor più evidenti nelle tavole allegate, rigorosamente in bianco e nero, “in punta di matita”, che ritraggono la campagna della Bassa Bergamasca ed i suoi antichi cascinali e trasmettono all’attento osservatore un tumulto di sentimenti, emozioni, amore e nostalgia. Gianfranco Bergamo
Un annuario per ricordare il presente
Baukuh Cento Piante De Ferrari, Genova, 2008 pp. 100, € 15,00
Luca Molinari (a cura di) Y08 – The Skira Yearbook of World Architecture 2007-2008 Skira, Milano, 2008 pp. 240, € 75,00
L'editore De Ferrari di Genova inaugura la collana testimoni dell'architettura con un libro dedicato allo studio associato “baukuh”, formatosi anch'esso a Genova, nel 2003. Il volume, - che, come tautologicamente dichiara il titolo, presenta cento piante - è curato dallo stesso baukuh ed accompagnato da due brevi scritti di Kersten Geers e Asli Cicek. La ripetizione di piante, sistematica, ossessiva, meccanica, esprime con chiarezza una scelta affatto semplice oggi e sicuramente non inscrivibile all'interno di un modus operandi consolidato: se l'architettura è sempre più fatta di involucri privi di un autentico carattere specifico, ma piuttosto legati a una natura evenemenziale, nella quale i concetti sono ricondotti a slogan caduchi e vendibili, la pianta ci riporta all'indole e al fine ultimo della spazialità del progetto. Per baukuh - cito dal passo manifestuale in quarta di copertina - “i meccanismi di controllo dei progetti sono indipendenti da predilezioni personali”. Sono sei gli architetti che formano, oggi, lo studio che, per sua propria auto-definizione, è una struttura agerarchica. Quando, fresco di stampa, baukuh mi portò a Milano la prima quartina del libro e srotolai il grande foglio ancora lontano dallo spessore fisico del libro, pensai alla natura ideogrammatica di quelle piante: una pagina scritta, fitta di disegni equivalenti, appunto a ideogrammi, simboli che rappresentano immagini o idee. Edifici a scale eterogenee vincolate dal formato della pagina del futuro libro costituivano nella mia mente una nuova, possibile definizione o sinonimo di pianta: il luogo dei punti dove segno e senso si sovrappongono e l'adeguazione reciproca di segno e senso è un presupposto etico, coerente, rigoroso. È come se, alla stregua di Durand o Palladio, queste loro piante fossero molto più che una sezione parallela al terreno nella quale si mostra la composizione dell'edificio al suo interno: segni forti, alla stregua di ideogrammi, formano uno scenario. Un'idea di spazio attinta dall'architettura, da ciò che l'architettura esprime nel suo timbro quando ancora non si estroflette verso il cielo. Tornare oggi alla pianta è una scelta: Piranesi e Palladio paiono essere lontani, verso l'orizzonte, ma baukuh, con questo piccolo e potente libro, ci fa ancora immaginare (e sperare) un'architettura possibile.
Ogni professionista si mantiene costantemente aggiornato attraverso le riviste del settore. Ma quanto rimane effettivamente impresso nella memoria di tutte le informazioni consumate acriticamente che ci bombardano da riviste e internet? Skira Yearbook of World Architecture nasce proprio con l’obiettivo di offrire uno strumento per ricordare, col fine di arricchire il futuro. Storicizzando il lavoro delle riviste mensili si crea l’occasione di “rallentare il tempo” dando l’opportunità di riflettere sullo stato dell’architettura e sugli orientamenti in corso in un panorama a scala internazionale. Curato da Luca Molinari, il primo annuario di architettura mondiale è una raccolta di 35 progetti internazionali, costruiti a cavallo tra il 2007 e il 2008, ai quali - nei dodici mesi, da giugno a giugno - è stato dedicato spazio su riviste pubblicate in tutto il mondo. Non solo lavori firmati dai “grandi” del momento, ma anche da molti progettisti emergenti: progetti scelti non per la loro notorietà, ma in quanto “opere che hanno un’anima e che cercano di costruire identità radicandosi nei contesti e nelle comunità per cui sono state pensate”. Una selezione critica, né immediata, né scontata, frutto di una paziente raccolta di progetti che sono stati tenuti a “decantare”, prima che fosse deciso quali erano meritevoli di sopravvivere al consumo di immagini e di idee. Il materiale della rivista è organizzato in sezioni tematiche e riccamente illustrato. I testi sono in inglese, con traduzione in italiano a fine libro. Ogni argomento è stato affidato ad un autore in forma d’intervista, recensione o saggio. Y08 si apre con una cronologia degli eventi più significativi registrati durante l’anno preso in considerazione. Alla fine della raccolta, le pagine di carta differente, ospitano, oltre ai testi in italiano, la sezione degli strumenti con gli indici delle migliori fonti legate al mondo dell’architettura, quali riviste e pubblicazioni, siti web d’interesse, mostre ed eventi internazionali. Un volume di alta qualità, sia nei contenuti che nelle immagini, caratterizzato da un’impronta grafica fortemente curata - questa prima edizione è stata affidata a Pierluigi Cerri, ma ogni anno la veste grafica di Yearbook sarà assegnata ad un graphic designer diverso.
Carlo Gandolfi
Fabiana Pedalino
Disegni come costruzioni Cristina Nepote e Augusto Rossari (a cura di) Ugo Rivolta. Disegni e costruzioni Araba Fenice, Boves, 2008 pp. 96, € 20,00 “I segni che noi mettiamo sulla carta devono essere coerenti con la nostra idea architettonica. Sembra ovvio quanto dico, ma imparerete che la ricerca dell’essenzialità e della chiarezza espressiva sono obiettivi ardui da perseguire e difficili da raggiungere”. Scelta ad epigrafe del libro, la citazione è tratta da una lezione di Ugo Rivolta: parole da cui traspare la certezza di chi possiede un mestiere, i suoi strumenti e trasforma ogni tema di lavoro in un’occasione per saggiarne i limiti, provarne l'efficacia. Con la sicurezza e l'operosità “elementari” dei Tessenow, degli Albini. Ugo Rivolta, novarese di nascita, a lungo consigliere e vicepresidente dell'Ordine degli Architetti di Milano e negli ultimi anni docente presso la Facoltà di Architettura Civile, a Milano ha vissuto e lavorato in un lungo sodalizio personale e professionale con Matilde Baffa, progettando soprattutto nell'ambito dell'architettura residenziale pubblica – da qui il Premio Europeo istituito dall'Ordine di Milano sul Social Housing dedicato alla sua memoria – di quella scolastica e civile. A cura di Cristina Nepote e Augusto Rossari, la pubblicazione è relativa alla prima sistemazione dell'archivio professionale dello studio Rivolta-Baffa che ha dato luogo alla mostra tenutasi presso la Facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano nello scorso ottobre. Essa contiene una introduzione di Antonio Monestiroli, saggi di Federico Bucci e Claudio Camponogara, Gianni Ottolini, Valeria Fossati Bellani, Aurelio Cortesi e di un gruppo di collaboratori di Rivolta. Di interesse anche per un più generale approccio critico al lavoro di Rivolta, oltre ad illustrare attraverso sintetiche schede i singoli progetti, di cui è in calce un completo regesto, il libro invita a considerare proprio il rapporto tra disegno e progetto, a partire dal modo in cui i diversi e bellissimi disegni, prospettive, piante, prospetti, dettagli – a tratti davvero “ridolfiani” – non sono mai concessione al bel disegno ma necessari strumenti di costruzione del progetto. “Disegni intermedi” li ha definiti Matilde Baffa, quasi a sottolineare come nel disegno – o nei disegni – ripetuti, corretti, modificati, risieda il luogo della costruzione del progetto. Nel consegnarci una certezza operativa, il lavoro di Rivolta risulta rassicurante sul nostro mestiere, in una positiva riflessione proprio sui suoi fondamenti disciplinari. Maurizio Carones
37 OSSERVATORIO LIBRI
Immaginando unʼarchitettura possibile
a cura di Sonia Milone
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Cinquecento anni e non li dimostra: Palladio Palladio. 500 anni Vicenza, Palazzo Barbaran da Porto 20 settembre 2008 – 6 gennaio 2009 È di questi giorni la notizia che il premio per la critica dell’architettura alla XVII edizione della Biennale di Venezia è andato a James Ackerman uno dei più insigni studiosi di Palladio. Un premio importante in un momento importante. Infatti, nell’ambito di questo anno dedicato alle “celebrazioni palladiane” per i cinquecento anni dalla nascita del grande maestro padovano, Vicenza ha anche inaugurato Palladio 500 anni. La grande mostra, l’evento centrale di questo anniversario, prodotto dal Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, dalla Royal Academy of Arts e dal Royal Institute of British Architects di Londra. Una mostra a cura di due tra i più insigni studiosi del 1500, Guido Beltramini e Howard Burns, che hanno anche coordinato gli importanti saggi in catalogo uscito per i tipi di Marsilio. “Vita di un architetto”, “La creazione di una nuova architettura”, “Un eterno contemporaneo” (quest’ultima dedicata alla fortuna critica del suo trattato e all’eredità del maestro, dalla sua morte fino a Le Corbusier) sono le
tre sezioni tematiche rintracciabili nel percorso critico-espositivo ospitato a Palazzo Barbaran da Porto che lo stesso Palladio realizzò tra il 1569-75. Un allestimento costellato dalla presenza di opere d’arte (da Veronese a Canaletto, da Giulio Romano a Tintoretto, etc.) e disegni di protagonisti del tempo (Raffaello, Michelangelo, Scamozzi) assieme a ricostruzioni digitali e modelli nuovi, ad inondare gli spazi di cultura tardo rinascimentale in una interpretazione critica della vicenda del grande maestro, tra fortune note e fallimenti anche quasi inediti (un caso per tutti la vicenda del ponte di Rialto), che punta sull’inquadramento storico ma anche sulla trasversalità tra le arti così come sul concetto stesso di eredità palladiana: dalla influenza di Palladio architetto nel resto d’Europa, ed in particolare in Inghilterra, con i disegni acquistati da Inigo Jones e più tardi da Lord Burlington che ritornano, anche se pur per un breve periodo, nella loro terra d’origine, all’importanza assoluta del suo Trattato in termini teorico-accademici. Circa quattrocento, fra disegni originali (90 autografi di Palladio, provenienti da Londra, Oxford, Chatsworth, Budapest, Brescia, Bologna, Venezia e Vicenza), modelli architettonici, dipinti, sculture, libri e manoscritti, prestati da oltre cento musei europei e americani. Un evento da non perdere. Maria Vittoria Capitanucci
Architettura fotosensibile Kazuyo Sejima + Ryue Nishizawa / SANAA & Walter Niedermayr Mendrisio, Accademia di Architettura 16 settembre – 2 novembre 2008 Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa, fondatori della società Sejima And Nishizawa Associated Architects (SANAA) con sede a Tokyo, sono tra i pochi architetti contemporanei che hanno saputo costruire il loro percorso progettuale con coerenza, serietà e onestà, lavorando sui principî compositivi, sulle gerarchie spaziali, sulle caratteristiche dei materiali (la leggerezza del vetro, del metallo, dei tessuti) senza mai cedere alla ten-
tazione di forme sensazionali o pretenziose, senza mai concedere nulla alla moda o al mercato. Walter Niedermayr, fotografo di Bolzano, ha conseguito fama internazionale con le sue vedute del paesaggio alpino delle Dolomiti (Die bleichen Berge): ritratti di montagne immerse in una luce pallida e diffusa, impressioni di natura immensa e incommensurabile e insieme testimonianza della conquista del mondo da parte dell’uomo. Ha cominciato a fotografare gli edifici dello studio SANAA per motivi personali, assimilando architettura e natura, cercando di cogliere, con il suo stile caratteristico, la materialità leggera, quasi effimera dei progetti di SANAA. Il risultato è impressionante: le immagini di Niedermayr non rappresentano l’architettura, non la documentano in senso tradizionale, ma la interpretano, la catturano, come un fenomeno naturale, attraverso l’inquadratura e la luce, restituendone il senso sotto forma di una visione altra. La mostra espone per la prima volta il risultato di questa collaborazione, che si è nel tempo consolidata, mettendo in luce la consonanza di intenti e di obiettivi che unisce il lavoro del fotografo a quello degli architetti: semplicità e misura, luce e materia, spazio e movimento. Il percorso espositivo è interamente costruito sull’assenza dell’oggetto architettonico in sé, nessun disegno, nessun modello, solo fotografie di grande formato e proiezioni, in cui l’edificio è ripreso da due o tre prospettive diverse allo stesso tempo, con scatti che talvolta si sovrappongono e confondono, a sottolineare la
dinamicità della visione e il fatto che l’architettura acquista senso grazie al movimento e alla luce che cambia. Sejima e Nishizawa hanno curato l’allestimento, limitandosi a completare la presentazione fotografica delle loro opere con degli interventi minimi, piante e sedie, che accompagnano il visitatore nella visione delle immagini (catalogo a cura di Moritz Küng, Stoccarda, 2007, in inglese e tedesco). Silvia Malcovati
Gli anni ʼ70 in Lombardia Come eravamo. Anni ‘70 Lecco, Musei Civici – Torre Viscontea 14 settembre – 26 ottobre 2008 Spesso le mostre, specie nelle grandi città, sono organizzate con criteri hollywoodiani perché, pare, solo un grande spettacolo può attirare visitatori, ovvero sponsor, e rimpinguare le casse esangui dei nostri musei. Dello spettacolo fanno parte una grande campagna pubblicitaria, costosi cataloghi, eventi collaterali e un buon numero di gadget. Non è detto, però, che a tutto ciò si accompagni anche un buon progetto culturale. Già perché una buona mostra dovrebbe tessere un percorso-discorso intorno alle opere esposte. Da questo panorama piuttosto uniformato emergono, ogni tanto, le esposizioni di provincia, più modeste nelle dimensioni, capaci però di portare coraggiosamente avanti inte-
Sonia Milone
Scarpa e i Giardini della Biennale Carlo Scarpa e l’origine delle cose Venezia, Padiglione Venezia, Giardini della Biennale 14 settembre – 23 novembre 2008
un bronzo di Augusto Murer che Scarpa propose di sistemare in acqua su un basamento galleggiante preceduto da pilastri con teste in pietra d’Istria che, viste dal mare, volevano apparire come lapidi sullo sfondo della figura di donna con mani legate e viso sfigurato dalla paura. Un secondo gruppo di disegni ruota attorno allo straordinario spazio del Giardino delle Sculture presso il Padiglione Italia – anch’esso parte dell’itinerario di visita presso i Giardini poiché sede dell’esposizione Out There: Architecture Beyond Building, che dà il titolo all’intera Biennale – concepito come luogo di sosta e insieme di passaggio dall’una all’altra ala del Padiglione grazie alla pensilina curvilinea in calcestruzzo sospesa su pilastri, che fa
Mostre di architettura nel cuore dellʼuniversità La mostra, curata dal Centro Internazionale Andrea Palladio e allestita da Scandurra Studio nell’ambito della XI Biennale di Architettura, si rivela essere un evento prezioso nel vasto percorso espositivo realizzato ai Giardini, soprattutto se paragonata ad altri episodi che lo compongono per numero di documenti originali esposti. Incentrata su opere poco note della carriera di Scarpa (accomunate tra loro dall’essere state concepite per la location dei Giardini), la rassegna accoglie chi vi arriva con la voce del maestro, primo suono percepibile oltre la soglia grazie alla riproduzione audiovisiva di un’intervista d’epoca. Lungo tutto l’emiciclo del Padiglione Venezia è poi collocato un cavalletto rosso debolmente illuminato da un tubo al neon sospeso al soffitto, che ironicamente si conclude con la scritta luminescente “copyright”. A questo cavalletto sono agganciati binari lungo i quali il visitatore può far scorrere le teche che proteggono le foto d’archivio e gli schizzi di Scarpa, consentendo di leggerne l’iter progettuale conclusosi negli allestimenti per La Partigiana Veneta. Di questi, il primo fu realizzato nel 1955 per la scultura in maiolica colorata dell’artista umbro Leoncillo; distrutta l’opera in un attentato del 1961, si decise di sostituirla con
A Mendrisio, all’interno del complesso dell’Accademia di Architettura, nuovi spazi si stanno aggiungendo al nucleo storico di Villa Argentina e Palazzo Turconi, e agli edifici di nuova costruzione della Biblioteca e Palazzo Canavée, questi ultimi i primi ad essere occupati dalla giovane Accademia di Architettura della Svizzera Italiana. Fra questi un’aula ipogea di forma rettangolare, perfettamente realizzata dal punto di vista costruttivo e compositivo, è la nuova Galleria dell’Accademia, inaugurata nell'autunno del 2005. Uno spazio di forma semplice e geometrica garantisce a questo spazio una flessibilità molto elevata per ospitare diversi allestimenti di mostre. Infatti, in soli tre anni di apertura abbiamo già visto esposti i lavori di Alvaro Siza, Campo Baeza, Francesco Venezia, Christian Kerenz, Jonathan Sergison e, non ultima, la bellissima mostra su Vittoriano Viganò inaugurata da una conferenza di Kenneth Frampton. Dopo le mostre dedicate a Kazuyo Sejima + Ryue Nishizawa / SANAA & Walter Niedermayr, per l’autunno è prevista la prima edizione dello Swiss Architecture Award, apertura il
da contraltare alla pavimentazione geometrica e alla texture in mattoni dei muri ciechi delimitanti il cortile e dei piedistalli ora spogliati delle proprie statue. Un passaggio assurdamente chiuso in questa occasione espositiva da uno sbarramento che trasforma il giardino in un cul de sac, vanificandone lo spirito. M. Manuela Leoni
13 novembre 2008. Le mostre della Galleria dell’Accademia sono tutte introdotte da una conferenza pubblica alla quale possono partecipare tutti, non solo gli studenti, a testimoniare che una sala mostre può essere, da una parte, uno spazio di servitù per gli studenti interni alla scuola e dall’altra può costituire un centro di ritrovo per addetti ai lavori e per la collettività, costituendo così un rapporto più saldo e sano tra architettura, architetti e società civile. La Galleria è sempre aperta e la custodia dello spazio è affidata agli studenti che, a turno, si impegnano a dare informazioni al visitatore inerenti a pubblicazioni, video e tutto ciò che riguarda la mostra in corso. Questo fatto mi sembra di grande interesse perché dimostra che si può far funzionare una galleria anche con poche risorse, impegnandosi in prima persona, e che questo piccolo spazio è col tempo diventato una casa della cultura architettonica, un punto di riferimento, dove la collettività si può avvicinare al lavoro della scuola e degli architetti più affermati. Francesco Fallavollita Accademia di Architettura Mendrisio (Svizzera) Palazzo Canavée www.arch.unisi.ch
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ressanti approfondimenti culturali su tematiche che vanno al di là della solita retrospettiva dedicata al grande maestro. Ne è un felice esempio l’esposizione Come eravamo realizzata grazie alla collaborazione dei tre comuni di Lecco, Maccagno (Va) e Gazoldo degli Ippoliti (Mn) per illustrare la scena artistica degli anni Settanta in Lombardia. La mostra propone un itinerario nella memoria e nel territorio, accompagnati da una cinquantina di artisti: dai più conclamati (come Baj, Munari, Pomodoro) ai più – ingiustamente – trascurati oggi (penso a uno come Umberto Lilloni). Gli anni ’70 sono stati un momento fondamentale nella scena artistica, uno spartiacque, in cui si sono incrociate tendenze che portavano a compimento le istanze di tutto il ‘900 e altre che aprivano nuove sperimentazioni. In ogni caso, l’arte animava la vita delle città, gli artisti si incontravano nei bar e nei ristoranti, la vivacità delle gallerie accoglieva critici (che facevano la critica) e persone comuni. E pur nel variegato paesaggio artistico di allora, i “gironi dell’arte” – come scrivono in catalogo Claudio Rizzi e Stefano Crespi – erano evidenti e chi voleva orientarsi disponeva di punti cardinali. Poi, con gli anni ’80 cambierà tutto e l’arte si confonderà coi concetti di moda, innovazione… E sebbene nelle premesse la mostra esplicita di non volere indugiare in vaghe nostalgie, puntando l’attenzione su un passato recente che ha influito direttamente sul nostro presente, tutto, nella sostanza, ci parla di un mondo scomparso, in cui l’arte era l’arte e lo spettacolo lo spettacolo.
a cura di Walter Fumagalli
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Le nuove norme sul risparmio energetico nellʼedilizia In Italia gli edifici sono il principale fattore di spreco di risorse energetiche, e quindi uno dei maggiori colpevoli dell’inquinamento atmosferico e del riscaldamento globale. Per tentare di arginare questo fenomeno è stato approvato il Decreto legislativo 30 maggio 2008 n. 115, il quale costituisce attuazione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 5 aprile 2006 n. 2006/32/CE, ed è stato emanato in forza della Legge di delega 6 febbraio 2007 n. 13, mediante la quale il legislatore ha fra l’altro riconosciuto al Governo il potere di coordinare la nuova normativa con le discipline vigenti nei singoli settori dalla stessa coinvolti. L’Articolo 11 di tale decreto, ai commi primo, secondo, terzo e quinto, contiene alcune norme da applicare al fine di incentivare la realizzazione di opere volte a migliorare la prestazione energetica degli edifici. a) Il primo comma riguarda i nuovi edifici, il cui volume secondo le norme locali deve essere sovente misurato comprendendo anche lo spessore delle murature e dei solai; pertanto, se per risparmiare energia si realizzano murature e solai più spessi, si rende necessario ridurre la superficie calpestabile, il che penalizza economicamente il costruttore che quindi è disincentivato ad adottare tali tecniche costruttive a discapito dell’efficienza energetica del fabbricato. Il comma in esame stabilisce dunque che, nel calcolare i volumi, le superfici ed i rapporti di copertura relativi alle nuove edificazioni, lo spessore delle murature esterne, delle tamponature, dei muri portanti e dei solai non deve essere computato per la parte eccedente i 30 centimetri, fino a un massimo di ulteriori 25 cm per gli elementi verticali e di copertura, e di 15 cm per gli elementi orizzontali intermedi. Esso aggiunge però che questa esenzione potrà trovare applicazione solo se
la realizzazione di tali maggiori spessori consentirà di ridurre almeno del 10% l’indice di prestazione energetica del fabbricato, di cui al D.Lgs 19 agosto 2005 n. 192. Quindi, se per esempio un progetto prevede la realizzazione di murature esterne, di tamponature o di muri portanti spessi 58 centimetri in luogo degli ordinari 30 cm, e se risulta accertato che tale maggior spessore consente di ridurre almeno del 10% l’indice di prestazione energetica del fabbricato, ai fini della determinazione dei volumi, delle superfici e dei rapporti di copertura dell’edificio si deve fare finta che tali strutture abbiano uno spessore di soli 33 cm. Il comma in esame contiene un’ulteriore disposizione, che pare costituire attuazione del potere conferito al Governo dalla legge delega, di armonizzare la nuova disciplina con le normative vigenti. Nei casi di cui sopra, infatti, esso consente di derogare alla normativa nazionale, regionale e comunale, vigente in tema di distanze minime tra edifici, di distanze minime di protezione dal nastro stradale e di altezze massime degli edifici, fermo restando l’obbligo, sancito dal successivo quinto comma, di rispettare in ogni caso le prescrizioni in tema di sicurezza stradale e antisismica. Le conseguenze di questa normativa possono essere davvero rilevanti. Per esempio, si pensi al caso in cui su terreni confinanti vengano realizzati due edifici, ciascuno dei quali dotato di murature esterne e di muri portanti aventi uno spessore di 55 centimetri: per effetto di ciò, la distanza fra i due fabbricati potrebbe risultare considerevolmente inferiore rispetto a quanto prescritto dalle norme vigenti. Con un colpo di spugna, nel nome del “risparmio energetico”, il Governo consente quindi di derogare per esempio alla disciplina in tema di distanze fra pareti finestrate di edifici antistanti di cui all’Articolo 9 del Decreto ministeriale 2 aprile 1968 n. 1444, disciplina che la Corte di Cassazione ha costantemente qualificato come inderogabile. Questo può indurre a dubitare che il Governo avesse il potere di introdurre una norma derogatoria di tale portata,
in assenza di una espressa e specifica menzione nell’ambito della legge delega. Resta comunque il fatto che la norma esiste, e che dovrà essere applicata fino a quando non dovesse essere dichiarata incostituzionale. b) Il secondo comma dell’Articolo 11 disciplina gli “interventi di riqualificazione energetica” degli edifici esistenti. Esso stabilisce che, qualora tali interventi consistano nella realizzazione di maggiori spessori delle murature esterne e degli elementi di copertura, tali da ridurre almeno del 10% i limiti di trasmittanza di cui al D.Lgs n. 192/2005, è possibile derogare alla normativa nazionale, regionale e comunale in tema di distanze minime tra edifici, di distanze minime di protezione dal nastro stradale e di altezze massime degli edifici. Il comma in esame, a differenza del precedente, introduce però un tetto massimo a tale deroga, così differenziato: • per le distanze minime fra edifici e le distanze minime di protezione dal nastro stradale, la deroga non potrà superare 20 centimetri; • per le altezze massime degli edifici, la deroga non potrà superare 25 centimetri. Viene altresì specificato che, per le distanze tra edifici, la deroga può essere esercitata nella misura massima con riferimento ad entrambi gli edifici prospettanti: il che comporta, al più, una deroga pari a 40 centimetri. Nel decreto legislativo non si rinviene una definizione del concetto di “interventi di riqualificazione energetica”, a meno che tale espressione non sia da considerare equipollente a quella di “misura di miglioramento dell’efficienza energetica”, la quale individua “qualsiasi azione che di norma si traduce in miglioramenti dell’efficienza energetica verificabili e misurabili o stimabili” (Articolo 2, lettera “h” del decreto stesso). Anche con riguardo al secondo comma trova comunque applicazione la previsione contenuta nel successivo quinto comma, per cui non è ammessa alcuna deroga alle prescrizioni vigenti in tema di sicurezza stradale e antisismica.
115 è disciplinata, oltre che dalla normativa statale, anche da quella regionale. In Lombardia, per esempio, a tale materia era stata dedicata la Legge regionale 20 aprile 1995 n. 26, successivamente modificata con le Leggi regionali 21 dicembre 2004 n. 39 e 28 dicembre 2007 n. 33. Dopo l’entrata in vigore del Decreto legislativo n. 115/2008, dunque, va applicata la normativa statale o quella regionale? I rapporti fra tali normative sono regolati dal quarto comma del citato Articolo 11, il quale dispone testualmente che “le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 trovano applicazione fino all’emanazione di apposita normativa regionale che renda operativi i principî di esenzione minima ivi contenuti”. Su questo tema la Regione Lombarda si è espressa mediante la circolare approvata in forza del decreto della Direzione generale reti e servizi di pubblica utilità e sviluppo sostenibile n. 8935 del 7 agosto 2008, secondo la quale “la norma regionale è prevalente in quanto introdotta da Regione Lombardia proprio con le stesse finalità dell’Articolo 11 citato”, mentre “per quanto riguarda la deroga alle distanze minime e alle altezze massime, è legittima l’applicazione della possibilità previste dal Decreto legislativo 115/2008”. La presa di posizione della Regione, tuttavia, è pienamente rispettosa delle regole fissate dal quarto comma poc’anzi riportato? Probabilmente no. Torniamo infatti al testo del quarto comma dell’Articolo 11, il quale ci dice alcune cose. Ci dice anzitutto che le disposizioni dettate dai precedenti primo, secondo e terzo comma sono da considerare “principî di esenzione minima”; ma se si parla di “esenzione minima”, è Laura Scambiato evidente che può essere prevista anche un’esenzione diversa, e che quest’ultima non può essere più ridotta di quella Le disposizioni statali stabilita dal decreto legislativo, ma può benissimo essere più ampia. e regionali, quali vanno Ci dice inoltre che anche le regioni posapplicate? sono regolare questa materia, attraverLa materia trattata dall’Articolo 11, primo, so l’introduzione di proprie norme che secondo, terzo e quinto comma, del però, anche in virtù dell’Articolo 117 Decreto legislativo 30 maggio 2008 n. della Costituzione, non possono ovvia-
mente derogare ai “principî di esenzione minima” fissati dalle disposizioni statali; il che significa cioè che non possono prevedere esenzioni più ridotte, ma possono prevedere esenzioni più ampie. Ci dice altresì che le disposizioni statali trovano applicazione immediata, fin dal momento dell’entrata in vigore del Decreto legislativo n. 115/2008 (e cioè fin dal 4 luglio 2008). Ci dice infine che dette disposizioni cessano di avere efficacia a partire dal momento dell’entrata in vigore di “apposita normativa regionale che renda operativi i principî” di cui sopra (l’uso dell’espressione “renda operativi” è evidentemente impropria, visto che tali principî sono entrati in vigore, e quindi sono “divenuti operativi”, il 4 luglio 2008). Le disposizioni statali, quindi, non perdono efficacia per effetto dell’entrata in vigore di una qualunque normativa regionale, indipendentemente dal contenuto di quest’ultima, ma solo per effetto dell’entrata in vigore di una normativa regionale che sia coerente con i “principî di esenzione minima” di cui sopra (cioè, per usare il linguaggio del decreto, li “renda operativi”). In pratica, pertanto, se una regione approva una normativa che preveda ipotesi di esenzione identiche o più ampie di quelle previste dall’Articolo 11 in esame, quest’ultimo cessa di produrre effetti nel territorio di tale regione ed in esso deve essere applicata la normativa regionale; ma se una regione approva una disciplina che preveda (illegittimamente) ipotesi di esenzione meno ampie di quelle stabilite dall’Articolo 11, quest’ultimo continua ad applicarsi anche nel territorio di detta regione. Sulla base di queste regole, dunque, per stabilire se in Lombardia debbano essere applicate le esenzioni stabilite dal Decreto legislativo n. 115/2008 oppure quelle previste dalla Legge regionale n. 26/1995, sarà di volta in volta necessario confrontare quelle applicabili nel singolo caso: andrà applicata la disposizione regionale, se a seguito di tale confronto emergerà che la stessa preveda un’esenzione identica o più ampia rispetto a quella prevista dal decreto legislativo per quella specifica fattispecie, mentre in caso contrario andrà applicata la disciplina statale. W. F.
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c) Il terzo comma dell’Articolo 11 ha lo scopo di agevolare la realizzazione degli interventi che comportino un incremento dell’efficienza energetica degli edifici, e che consistano nell’installazione: • di singoli generatori eolici con altezza complessiva non superiore a 1,5 metri e diametro non superiore a 1 metro; • di impianti solari termici o fotovoltaici aderenti o integrati nei tetti degli edifici, aventi la stessa inclinazione e lo stesso orientamento della falda, e i cui componenti non modifichino la sagoma degli edifici stessi. Il comma in esame qualifica espressamente tali opere come interventi di manutenzione ordinaria, e dispone che qualora la superficie degli impianti non sia superiore a quella del tetto esse non sono soggette all’obbligo della Denuncia di inizio di attività prevista dagli Articoli 22 e 23 del D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, ma solo ad una comunicazione preventiva al Comune, comunicazione che quindi può essere effettuata anche poche ore prima dell’inizio dei lavori. Tuttavia la sola comunicazione non è sufficiente quando gli interventi di cui sopra concernano: • beni culturali vincolati ai sensi della parte seconda del D.Lgs 22 gennaio 2004 n. 42; • ville che “si distinguano per la loro non comune bellezza”, nonché edifici compresi entro “complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale, inclusi i centri ed i nuclei storici”, vincolati in forza dell’Articolo 136, lettere “b” e “c” del medesimo D.Lgs n. 42/2004. In tali casi, prima di effettuare la comunicazione occorre acquisire le autorizzazioni prescritte dalla predetta normativa.
a cura di Verena Corrà, Emanuele Gozzi, Umberto Maj, Ilaria Nava, Claudio Sangiorgi
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Norme e certificazioni di sistemi di pavimentazione antitrauma per spazi gioco per bambini Vengono definiti parchi gioco, custoditi o incustoditi, tutte quelle aree attrezzate destinate all’attività ludica di bambini o ragazzi in genere fino ai 14 anni. Spazi così definiti sono, ad esempio, i cortili degli asili nido, delle scuole materne e delle elementari. È bene ricordare che da questa definizione sono escluse le aree sportive attrezzate, mentre sono comprese le aree giochi di centri parrocchiali, di condominii, nonché le aree giochi nei parchi (urbani ed extraurbani), e tutte quelle attrezzature specifiche che si affiancano ad attività turistiche o commerciali (ristoranti, bar, villaggi, club, centri commerciali, ecc.). Sono definite invece attrezzature per aree da gioco le strutture fisse, per uso individuale o collettivo (quali altalene, giostre e dondoli, scivoli), installate in aree esterne o interne, ad uso pubblico. Nel settore parchi gioco le norme tecniche di riferimento che costituiscono uno strumento a garanzia di sicurezza dei piccoli utenti sono la UNI 11123:2004, la EN 1176 e la UNI EN 1177. La Norma UNI 11123:2004 “Guida alla progettazione di parchi e delle aree gioco all’aperto” La finalità principale della norma è quella di fornire alle Amministrazioni Comunali, ai gestori pubblici e privati delle aree scolastiche e sportive, ai responsabili di giardini condominiali e dunque ai progettisti, tutte le indicazioni per la progettazione e l’allestimento di parchi e zone gioco sia di nuova costruzione sia destinati a modifiche, miglioramenti o ricostruzioni. In particolare, essa puntualizza: • le indicazioni utili alla corretta collocazione ambientale dell’impianto che deve garantire la salubrità dell’area, il buon orientamento rispetto ai venti e al sole, la presenza di zone ombreggiate, e tutte quelle caratteristiche ambientali che possano garantire la sicurezza per la salute ed il benessere psicofisico dei fruitori.garantire la sicurezza per la salu
• Le indicazioni utili a garantire la buona accessibilità dell’area, che comportano la rimozione di ostacoli alle entrate, alle uscite e lungo i percorsi interni. I vialetti e le aree di sosta devono essere realizzati preferibilmente con materiale antisdrucciolo e drenante. La norma indica inoltre la segnaletica che deve essere presente nelle aree gioco e che deve riportare informazioni utili per interventi sulle strutture e di pronto soccorso. • Le indicazioni utili alla individuazione dei “contenuti” delle aree gioco destinate ai bambini, il cui fine dovrebbe essere l’armonico sviluppo dei sensi, delle funzioni motorie, e della capacità di socializzazione. Utili al progettista sono in questa sezione, l’elenco dei materiali adeguati allo scopo, quali la sabbia, l’argilla, i ciottoli, la ghiaia, il legno e le piante. Viene fornito inoltre un elenco di quelle specie botaniche che potrebbero risultare potenzialmente pericolose per i bambini. • Le indicazioni e i relativi richiami normativi in materia di sicurezza. In particolare la norma prescrive che tutte le attrezzature per aree gioco siano conformi alla norma EN 1176 ( Attrezzature per aree gioco), mentre che le pavimentazioni nelle aree di pertinenza delle suddette attrezzature siano certificate “antitrauma” secondo quanto prescritto dalla norma europea EN 1177 (Rivestimenti di superfici di aree gioco ad assorbimento d’impatto). La norma UNI EN 1176 “Attrezzature per aree gioco” Il testo è stato messo a punto con il concorso di fabbricanti di attrezzature, progettisti di parchi gioco, gestori di spazi pubblici e privati e rappresentanti dei consumatori. Il suo inserimento è requisito necessario nelle gare d’appalto da parte dei comuni ed amministrazioni locali. In caso di incidente esso costituisce, inoltre, il riferimento per le autorità giudiziarie al fine di verificare la conformità delle attrezzature e, dunque, le eventuali responsabilità civili e penali. La norma è suddivisa in 7 parti. La prima, “Requisiti generali di sicurezza e metodi di prova”, si applica a tutte le
attrezzature per aree gioco per bambini ad uso collettivo o individuale. Particolare attenzione deve essere prestata alle caratteristiche dei materiali, che devono essere atossici, non infiammabili e privi di rischio da contatto anche nei casi di utilizzo in condizioni climatiche estreme. Inoltre essi devono essere facilmente smaltibili o riciclabili, e non risultare causa di inquinamento ambientale. Al fine di garantire un elevato grado di sicurezza tutte le attrezzature devono disporre di adeguate protezione contro le cadute, che sono la causa principale di infortunio. In particolare i corrimano, la cui altezza è fissata fra i 60 cm e gli 85 cm, devono proteggere i percorsi sopraelevati a partire dalle rampe. I componenti, una volta assemblati, non devono presentare elementi sporgenti, appuntiti o taglienti; le giunzioni possono essere realizzate a mezzo di saldature debitamente levigate o bulloni, che se raggiungibili, devono essere correttamente ricoperti. Vengono dunque stabiliti i requisiti di sicurezza di tutte le parti componenti le attrezzature: dalle fondamenta, che devono essere ricoperte dal piano di gioco antitrauma, alle rampe, scale, corde e catene, ecc. La norma stabilisce inoltre gli spazi minimi delle attrezzature che devono comprendere gli eventuali spazi liberi di caduta. Le successive parti della norma descrivono i requisiti specifici e metodi di posa per le attrezzature ricreative più comuni quali altalene, scivoli, funivie, giostre, dondoli a bilico e la guida per l’istallazione e manutenzione delle suddette attrezzature. La norma UNI EN 1177 “Rivestimenti di superfici di aree gioco ad assorbimento di impatto” La norma europea EN 1177 è stata recepita dall’ordinamento italiano dando luogo alla UNI EN 1177 che diventa norma avente forza di legge in Italia. Questa vuole identificare le caratteristiche tecniche ed i requisiti che devono possedere le superfici di pavimento delle aree giochi per bambini. L’evento infortunistico che più spesso
Pavimentazioni antitrauma: materiali, tecniche di posa e soluzioni commerciali Un requisito frequentemente richiesto
liquido. In seguito l’agglomerato viene compattato e lisciato con macchine speciali. La posa avviene nelle seguenti fasi: • preparazione dell’impasto di sottofondo di spessori di 30 mm, 50 mm, ecc. (gomma “grezza” e collante resiliente); • getto del primo strato di gomma “grezza” su soletta in csl armato di spessore 10 cm con fori in numero e dimensioni adatte alla percolazione delle acque; • preparazione del secondo impasto di finitura (gomma “finitura”, collante resiliente); • getto del secondo strato di gomma di “finitura” per uno spessore nominale pari a 20 mm, rullatura e spianamento finale. La granulometria della gomma utilizzata per i due strati varia in genere tra i seguenti valori: • gomma grezza 12 ÷ 20 mm; • gomma finitura (EPDM) 1 ÷ 4 mm. Il getto di finitura può essere eseguito miscelando alla gomma nera dei granuli di termopolimeri colorati (colori base: rosso, blu, verde e giallo), permettendo al progettista di prevedere vari abbinamenti di colore, tematizzazioni, giochi a terra e disegni. La cordonatura di contenimento delle pavimentazioni può costituire elemento di insidia e pericolo di inciampo. Al fine di limitare questo problema si può prevedere una cordonatura posata a raso, o qualora non sia possibile, questa dovrà comunque essere ricoperta con idoneo materiale antitrauma, preferibilmente gomma. Umberto Maj
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si verifica proprio in queste aree è, infatti, la caduta, con conseguenti lesioni a livello del capo. Si dimostra dunque indispensabile la presenza di idonee superfici in grado di assorbire gli impatti, i cui materiali componenti posseggano in sostanza la capacità di disperdere l’energia cinetica a mezzo di opportune deformazioni. Al fine di sviluppare un criterio che aiuti nella scelta dei materiali, la norma utilizza come riferimento scientifico per stilare un’analisi statistica il criterio HIC (Head Injury Criterion) che stabilisce le lesioni alla testa che si possono verificare in caso di impatto con la superficie di gioco. Di particolare interesse per il progettista sono le indicazioni relative ai requisiti generali di sicurezza che le forme costituite dal materiale scelto devono presentare: assenza di spigoli, sporgenze, presenza di aree di caduta completamente ricoperte di materiale antitrauma. La parte conclusiva della norma contiene allegati che illustrano una serie di esempi di test effettuati su materiali di comune utilizzo: corteccia, sabbia e ghiaia. Per ognuno vengono riportati i valori dimensionali di spessori e l’altezza massima di caduta. Le indicazioni riportate dalla norma sono dunque un utile strumento per il progettista che può valutare i caratteri tecnici dei materiali sottoposti a prova al fine di orientare la scelta che possa garantire il più alto livello di sicurezza possibile.
dalle stazioni appaltanti è che le attrezzature siano realizzate con materiale riciclato e riciclabile (il D.Lgs. 203 del 8.5.2003 sollecita le regioni ad adottare disposizioni, destinate agli enti pubblici, che garantiscono che i manufatti e i beni realizzati con materiale riciclato coprano almeno il 30% del fabbisogno annuale). Ne risulta che, oltre ai materiali tradizionali quali prato o terriccio, corteccia, trucioli di legno, sabbia e ghiaia, molto usati siano anche materiali plastici riciclabili quali il caucciù, gomma naturale riciclata, termopolimeri, gomma espansa EPDM (EthylenePropylene-Diene-Monomere) e affini. Esistono svariate soluzioni commerciali che propongono pavimentazioni realizzate in opera mediante colata a freddo di impasti contenenti i suddetti materiali ridotti in particelle dalla varia granulometria e colore, legate a mezzo di resine poliuretaniche. Questo tipo di prodotto garantisce una pavimentazione priva di fughe. Le caratteristiche richieste al materiale sono l’insonorizzazione, la resistenza all’usura (resistenza all’intacco/intaglio, tensione interna, allungamento a rottura) la permeabilità all’acqua e, non ultima, una elasticità molto elevata. Inoltre esso deve garantire la non infiammabilità e un’adeguata resistenza al calore, ai raggi UVA e UVB, alla neve, al ghiaccio e al sale. La superficie deve risultare ruvida e antisdrucciolevole. Particolare attenzione deve essere posta all’atossicità, dato che i materiali di rigenerazione di questo tipo in genere provengono da una lunga filiera; la certificazione alla norma EN 71/3 è dunque requisito imprescindibile al fine di garantire la sicurezza per la salute degli utilizzatori. Per quanto riguarda la salvaguardia dell’ambiente il Testo Unico per l’ambiente del 29.4.2006 n. 152/6 regolamenta l’utilizzo di questi materiali per uso residenziale e verde pubblico. L’agglomerato viene preparato sul posto e steso con stagge metalliche e appositi regoli quando la parte chimica è ancora allo stato
a cura di Sara Gilardelli
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Ritorno alla semplificazione. Manovra estiva 2008 contro manovra estiva 2006 La manovra estiva 2008 (D.Lgs. 25 giugno 2008 n. 112, convertito dalla Legge 6 agosto 2008 n. 133) è intervenuta su diversi argomenti fiscali, quelli trattati in questa occasione riguardano esclusivamente: • la semplificazione apportata con l’abrogazione di alcuni obblighi fiscali introdotti della manovra estiva 2006 c.d. Decreto Bersani; • l’innalzamento dei limiti antiriciclaggio; • l’introduzione della totale detraibilità IVA sulle fatture per prestazioni di alberghi e ristoranti. Semplificazione Con la manovra estiva 2006 erano stati introdotti nuovi obblighi per i professionisti: • obbligo di versamento di tutti i compensi professionali su conto corrente bancario o postale; • obbligo di effettuare le spese inerenti all’attività professionale solo con prelievi dal conto corrente bancario o postale; • obbligo di incasso solo con strumenti finanziari tracciabili (bonifico o assegno) dei compensi professionali di importo pari o superiore a € 100,00; • obbligo di pagamento delle imposte solo con F24 telematico con l’abolizione del modello cartaceo; • obbligo di fornire l’elenco clienti e fornitori all’Amministrazione Finanziaria. Come un ciclone la manovra estiva 2008 ha spazzato via con un solo colpo gli obblighi sopra elencati, mantenendo invariato unicamente l’obbligo dell’invio telematico del modello F24 per il pagamento delle imposte. Pertanto la manovra estiva 2008 ha: • eliminato l’obbligo per i professionisti di dover versare tutti gli incassi professionali su conto corrente prima di essere utilizzati per sostenere i costi inerenti all’attività professionale. Questo obbligo aveva due finalità: la prima era quella di attribuire agli incassi, soprattutto a quelli in contanti, un’identità o una trasparenza con il versamento sul conto corrente, e la seconda era quella di limitare la deduci-
bilità dei costi, in quanto anche se documentati da fattura, diventavano deducibili solo se sostenuti con prelievi effettuati dal conto corrente. Con l’intervento della manovra estiva 2008 dal 25 giugno 2008, dunque: - non vi è più l’obbligo di far affluire le somme riscosse nell’esercizio dell’attività sul conto corrente destinato anche all’attività professionale; - non vi è nemmeno più l’obbligo di sostenere i pagamenti dei costi solo con prelievi effettuati da tale conto corrente. • eliminato il divieto di incasso per contanti di somme oltre la soglia massima dei 100 euro. La manovra estiva del 2006 aveva previsto di introdurre tale divieto secondo il seguente piano di dilazione: - massimale di 1.000 euro in contanti fino al 30 giugno 2008; - massimale di 500 euro dal 1° luglio 2008 al 30 giugno 2009; - massimale di 100 euro dal 1° luglio 2009. Con la manovra estiva 2008, e anche in questo caso dal 25 giugno 2008, non vi è più alcun divieto di incasso in contanti. In sintesi, l’obbligo dell’utilizzo del conto corrente e il divieto degli incassi in contanti sono rimasti in vigore per meno di due anni senza essere accompagnati
da una specifica sanzione, però, va, comunque, sottolineato che una ordinata gestione degli incassi, delle spese e dei prelievi può diventare un elemento significativo per vincere contro i cosiddetti accertamenti bancari. • eliminato l’obbligo della predisposizione ed invio dell’elenco clienti fornitori. Si osserva che tale obbligo era stato introdotto nel 1973 e successivamente abrogato dalla “Legge Tremonti” nel 1994 per essere reintrodotto dopo 10 anni dal Decreto Bersani nel 2006 per essere in fine nuovamente abrogato con la manovra estiva 2008 (Ministro delle Finanze Tremonti). Vista la ciclicità tra introduzione e abrogazione della disposizione può essere utile, anche se non obbligatorio, proseguire a inserire in fattura il codice fiscale del cliente. Questo potrà semplificare la raccolta dei dati per un’eventuale futura reintroduzione del modello elenco clienti fornitori. Inoltre, la manovra estiva 2008 con l’eliminazione dell’elenco clienti fornitori ha anche reso non più sanzionabili, per errori ed omissioni, gli elenchi inviati nel 2006 e nel 2007 per effetto del principio di legalità contenuto nell’Art. 3 del D.Lgs. 472/1997.
FATTISPECIE DELLA VIOLAZIONE DAL 25 GIUGNO 2008
SANZIONE PECUNIARIA
Trasferimento per un importo superiore a 12.500 euro in contanti o di libretti di deposito bancari o postali al portatore o di titoli
Da 1% al 40% dellʼimporto trasferito
Emissione di assegni bancari o postali per importi superiori a 12.500 euro senza lʼindicazione sullʼassegno del nome del beneficiario oppure senza la clausola di non trasferibilità
Da 1 al 40% dellʼimporto trasferito
Possesso di libretti di deposito al portatore bancari o postali con saldo superiore a 12.500 euro
Fino al 20% del saldo se lʼimporto è inferiore a 250.000, al 40% se lʼimporto è superiore a 250.000 euro
Mancata estinzione o riduzione del saldo al di sotto del 12.500 euro dei libretti di deposito al portatore bancari o postali entro il 30 giugno 2009
Dal 10 al 20% del saldo
Introduzione della totale detraibilità IVA sulle fatture per prestazioni di alberghi e ristoranti Dal 1° settembre 2008 diventa totalmente detraibile l’IVA addebitata sulle fatture relative a prestazioni alberghiere e di ristorazione. Questo si traduce in minor IVA da versare trimestralmente o mensilmente. Ma per usufruire di tale diritto di detrazione o beneficio fiscale, vale a dire l’IVA pienamente detraibile, i costi sopra nominati devono essere inerenti all’attività professionale; e se inerenti subiscono una riduzione di deducibilità ai fini delle imposte dirette (IRPEF e IRAP) in contropartita all’agevolazione IVA. Questo significa che ancora per l’anno in corso (anno d’imposta 2008) i costi per prestazioni alberghiere e di somministrazione ai fini IRPEF ed
IRAP rimarranno nell’unico 2009 ancora deducibili nel limite massimo del 2% del reddito, mentre dal 1° gennaio 2009, dunque nell’unico 2010, i costi saranno deducibili sempre nel limite massimo del 2% ma solo per il 75% anziché per il 100%, come confermato dall’Agenzia delle Entrate con Circolare 5 settembre 2008 n. 53/E. Dunque il risparmio di imposta IVA, per la detrazione totale IVA sui costi per prestazioni alberghiere e di ristorazione, avviene in cambio di un recupero di maggiore imposta IRPEF e IRAP per effetto della riduzione al 75% di deducibilità dei costi per prestazioni alberghiere e di ristorazione. Pertanto se i costi per prestazioni di alberghi e ristoranti rimango inferiori uguali o per lo più non superiori a circa il 33% del limite massimo del 2%,, la nuova disposizione ha effetto di ridurre realmente la deducibilità dei costi, se invece il costo sostenuto è superiore al limite massimo del 2% non si produce alcun effetto negativo su IRPEF e IRAP, come nel caso di seguito esposto, e si beneficia a pieno dell’agevolazione IVA introdotta dalla manovra estiva 2008. Si sintetizza, qui di seguito, la tempistica di applicazione della nuova disposizione: • dal 1° settembre 2008 detraibilità totale dell’IVA sui costi per prestazioni di alberghi e ristoranti, con effetti già nel 3° trimestre IVA oppure, per i mensili, già dal mese di settembre; • a giugno 2009 pagamento delle imposte IRPEF e IRAP, sull’anno 2008, ancora con l’applicazione della deduzione del 100% dei costi con il limite massimo del 2%; • a giugno e novembre 2009, per il pagamento degli acconti, applicazione invece della deduzione del 75% dei costi con il limite massimo del 2%. È necessario sottolineare che la totale detraibilità dell’IVA si può applicare solo se il costo è riconoscibile come inerente all’attività professionale svolta. Ed è proprio questa la difficoltà: individuare una relazione di inerenza tra l’attività svolta e il costo, che per natura si presta anche ad un utilizzo privato. Per esempio, il pernottamento in giorni lavorativi nella città in cui è presente il cliente potrebbe risultare un costo inerente all’attività professionale,
mentre se le spese di ristorante vengono sostenute nei giorni festivi risulta arduo individuare l’inerenza per il professionista ed invece diventa semplice una contestazioni del costo da parte dell’amministrazione finanziaria. L’obbligo di inerenza ha la finalità di selezionare i costi e, conseguentemente di limitare la libera interpretazione della disposizione che può portare alla detrazione dell’IVA di tutti i costi per prestazioni di alberghi e ristoranti. È necessario invece valutare attentamente costo per costo per evitare di trovarsi in difficoltà a gestire un eventuale contenzioso ed inserire in contabilità solo i costi effettivamente inerenti anche se per diritto con IVA detraibile. Questo comportamento prudenziale nell’utilizzo dell’agevolazione IVA sui costi per prestazioni alberghiere può essere considerato uno strumento essenziale per individuazione dell’inerenza dei costi all’attività svolta. Rosalba Pizzulo dottore commercialista - revisore contabile in Milano
45 PROFESSIONE STRUMENTI
Innalzamento dei limiti antiriciclaggio Il Decreto della manovra estiva 2008 ha stabilito che dal 25 giugno 2008 le transazioni possono essere effettuate con denaro contante per importi inferiori alla soglia di 12.500 euro, innalzando dunque il limite introdotto da pochi mesi di 5.000 euro. L’intervento prevede inoltre: • il trasferimento di libretti di deposito bancari o postali al portatore o di titoli per un importo non superiore a 12.500 euro; • emissione di assegni bancari o postali per importi superiori a 12.500 euro con l’indicazione sull’assegno del nome del beneficiario e la clausola di non trasferibilità; • emissione di assegni circolari o vaglia postali e cambiari senza la clausola di non trasferibilità se l’importo è inferiore a 12.500 euro; • il limite di saldo non superiore a 12.500 per i libretti di deposito al portatore bancari o postali; per tali libretti, che alla data del 25 giugno, erano con saldo superiore al limite è stato stabilito l’obbligo dell’estinzione del libretto oppure l’obbligo di ridurre il saldo al di sotto dell’ammontare di 12.500 euro entro il 30 giugno 2009, per evitare l’applicazione delle sanzioni per il mancato rispetto delle disposizioni in materia di antiriciclaggio. Si riporta di seguito una tabella in cui vengono indicate le violazioni alle disposizioni sopra indicate con le relative sanzioni amministrative.
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Lavori Pubblici: emanato il terzo decreto correttivo che modifica il Codice degli Appalti (D.Lgs 163/2006) (G.U. n. 231 del 2.10.2008 Suppl. Ordinario n. 227) Decreto legislativo 11 settembre 2008, n. 152 Ulteriori disposizioni correttive e integrative del D.Lgs 12 aprile 2006, n. 163, recante il Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, a norma dell'Articolo 25, comma 3, della Legge 18 aprile 2005, n. 62 Il presente decreto, in relazione alle fonti comunitarie, apporta nuove sostanziali modifiche al D.Lgs n. 163 del 12 aprile 2006. Tali modifiche riguardano principalmente il project financing, la gestione di procedure di affidamento e controllo del subappalto, i limiti stabiliti per gli stessi subappalti, e l'esclusione automatica relativamente ad offerte anomale per le gare fino a un milione di euro per i lavori e sotto i centomila euro per i servizi e le forniture. Viene abrogato inoltre l'Art. 92, comma 4 del Codice che prevedeva che i compensi professionali per le attività di progettazione fossero basati sulle tariffe professionali, allineandosi con il Decreto Bersani che aveva abolito l'obbligo per i professionisti di attenersi alle tariffe minime. Al D.Lgs 12 aprile 2006, n. 163, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti ulteriori modificazioni: • All’Art. 13 viene aggiunto il comma 7 bis prevedendo che gli enti aggiudicatori debbano mettere a disposizione degli operatori economici interessati, e che ne abbiano esplicitamente fatto domanda, “le specifiche tecniche previste nei loro appalti di forniture, di lavori o di servizi, o le specifiche tecniche alle quali intendono riferirsi per gli appalti che sono oggetto di avvisi periodici indicativi. Quando le specifiche tecniche sono basate su documenti accessibili agli operatori economici interessati, si considera sufficiente l'indicazione del riferimento a tali documenti”. • Il comma 1bis dell'Art. 18 detta che “in sede di aggiudicazione degli appalti da parte degli enti aggiudicatori, gli stessi applicano condizioni favorevoli quanto quelle che sono concesse dai Paesi terzi
agli operatori economici italiani in applicazione dell'accordo che istituisce l'Organizzazione mondiale del commercio”. Relativamente agli appalti aggiudicati a scopo di rivendita o di locazione a terzi il presente codice non viene applicato quando "l'ente aggiudicatore non gode di alcun diritto speciale o esclusivo per la vendita o la locazione dell'oggetto di tali appalti e quando altri enti possono liberamente venderlo o darlo in locazione alle stesse condizioni”. • Un'ulteriore modifica riguarda l'Art. 32, comma 1 ed è relativo a lavori pubblici da realizzarsi da parte di soggetti privati titolari di permesso di costruire, che assumono in via diretta l'esecuzione delle opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso. “L'amministrazione che rilascia il permesso di costruire può prevedere che, in relazione alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, l'avente diritto a richiedere il permesso di costruire presenti all'amministrazione stessa, in sede di richiesta del permesso di costruire, un progetto preliminare delle opere da eseguire, con l'indicazione del tempo massimo in cui devono essere completate, allegando lo schema del relativo contratto di appalto”. L'amministrazione, sulla base del progetto preliminare, indice una gara il cui oggetto del contratto, previa acquisizione del progetto definitivo in sede di offerta, sono la progettazione esecutiva e le esecuzioni di lavori. L'offerta relativa indicherà distintamente le competenze professionali per la progettazione definitiva ed esecutiva, per l'esecuzione dei lavori e per gli oneri di sicurezza. Inoltre, quando nell'oggetto dell'appalto rientrano, oltre ai lavori prevalenti, opere per le quali sono necessari lavori o componenti di notevole contenuto tecnologico o di rilevante complessità tecnica, quali strutture, impianti e opere speciali, il cui valore unitario superi il 15% dell'importo totale dei lavori, se i soggetti affidatari
non siano in grado di realizzare le predette componenti, possono utilizzare il subappalto secondo quanto stabilito dall'Articolo 118. In caso di subappalto che, senza ragioni obiettive, può essere diviso, la stazione appaltante provvede alla corresponsione diretta al subappaltatore dell'importo delle prestazioni eseguite dallo stesso, nei limiti del contratto di subappalto. • Le modifiche all'Art. 49 stabiliscono che i concorrenti, nell'esecuzione dei lavori possano avvalersi di una sola impresa ausiliaria per ciascuna categoria di qualificazione. Il bando di gara può ammettere la presenza di più imprese ausiliarie in ragione dell'importo dell'appalto o della peculiarità delle prestazioni, pur mantenendo il divieto di utilizzo frazionato per il concorrente dei singoli requisiti economico-finanziari e tecnicoorganizzativii che hanno consentito il rilascio dell'attestazione in quella categoria. • "Per la realizzazione di lavori pubblici o di lavori di pubblica utilità, inseriti nella programmazione triennale e nell'elenco annuale di cui all'Articolo 128, e negli strumenti di programmazione formalmente approvati dall'amministrazione aggiudicatrice sulla base della normativa vigente, finanziabili in tutto o in parte con capitali privati, le amministrazioni aggiudicatrici possono, in alternativa all'affidamento mediante concessione ai sensi dell'Articolo 143, affidare una concessione ponendo a base di gara uno studio di fattibilità, mediante pubblicazione di un bando finalizzato alla presentazione di offerte che contemplino l'utilizzo di risorse totalmente o parzialmente a carico dei soggetti proponenti”.
propri dipendenti o a dipendenti di amministrazioni aggiudicatrici, con elevata e specifica qualificazione in riferimento all'oggetto del contratto, alla complessità e all'importo delle prestazioni, sulla base di criteri da fissare preventivamente, nel rispetto dei principî di rotazione e trasparenza; il provvedimento che affida l'incarico a dipendenti della stazione appaltante o di amministrazioni aggiudicatrici motiva la scelta, indicando gli specifici requisiti di competenza ed esperienza, desunti dal curriculum dell'interessato e da ogni altro elemento in possesso dell'amministrazione". • Il bando di gara, nel rispetto del principio del divieto di anticipazione del prezzo, può individuare "i materiali da costruzione per i quali i contratti, nei limiti delle risorse disponibili e imputabili all'acquisto dei materiali, prevedono le modalità e i tempi di pagamento degli stessi, ferma restando l'applicazione dei prezzi contrattuali ovvero dei prezzi elementari desunti dagli stessi, previa presentazione da parte dell'esecutore di fattura o altro documento comprovanti il loro acquisto nella tipologia e quantità necessarie per l'esecuzione del contratto e la loro destinazione allo specifico contratto, previa accettazione dei materiali da parte del direttore dei lavori, a condizione comunque che il responsabile del procedimento abbia accertato l'effettivo inizio dei lavori e che l'esecuzione degli stessi proceda conformemente al cronoprogramma”. • Riguardo agli aspetti relativi alla progettazione, il responsabile del procedimento, "nella fase di progettazione preliminare, stabilisce il successivo livello progettuale da porre a base di gara e valuta motivatamente, esclusivamente sulla base della natura e delle caratteristiche del bene e dell'intervento conservativo, la possibilità di ridurre i livelli di definizione progettuale e i relativi contenuti dei vari livelli progettuali, salvaguardandone la qualità”. C. O.
Bibliografia sullʼargomento in attesa di pubblicazione
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Siti internet di consultazione www.gazzettaufficiale.it www.ilsole24ore.com www.altalex.com www.ordinearchitetti.mi.it www.infrastrutture.gov.it www.edilportale.it
PROFESSIONE ORGANIZZAZIONE PROFESSIONALE
• Il bando pone a base di gara lo studio di fattibilità predisposto dall'amministrazione aggiudicatrice e specifica che "l'amministrazione aggiudicatrice ha la possibilità di richiedere al promotore prescelto, di apportare al progetto preliminare, da esso presentato, le modifiche eventualmente intervenute in fase di approvazione del progetto e che in tal caso la concessione è aggiudicata al promotore solo successivamente all'accettazione, da parte di quest'ultimo, delle modifiche progettuali nonché del conseguente eventuale adeguamento del piano economico-finanziario”. Le amministrazioni aggiudicatrici valutano le offerte presentate con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, per gli aspetti relativi alla qualità del progetto preliminare presentato, per il valore economico e finanziario del piano e dei contenuti della bozza di convenzione. Le offerte devono contenere un progetto preliminare, una bozza di convenzione, un piano economico-finanziario asseverato da una banca nonché la specificazione delle caratteristiche del servizio e della gestione. Relativamente ai contratti di paternariato pubblico privato viene stabilito che in essi rientrino "la concessione di lavori, la concessione di servizi, la locazione finanziaria, l'affidamento di lavori mediante finanza di progetto, le società miste. Possono rientrare altresì tra le operazioni di partenariato pubblico privato l'affidamento a contraente generale ove il corrispettivo per la realizzazione dell'opera sia in tutto o in parte posticipato e collegato alla disponibilità dell'opera per il committente o per utenti terzi”. • Al fine di contrastare il fenomeno del lavoro sommerso ed irregolare, "il documento unico di regolarità contributiva è comprensivo della verifica della congruità della incidenza della mano d'opera relativa allo specifico contratto affidato, la cui verifica è effettuata dalla Cassa Edile in base all'accordo assunto a livello nazionale tra le parti sociali firmatarie del contratto collettivo nazionale comparativamente più rappresentative per l'ambito del settore edile ed il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali”. • Per i contratti relativi a lavori, servizi e forniture, "l'affidamento dell'incarico di collaudo o di verifica di conformità, in quanto attività propria delle stazioni appaltanti, è conferito dalle stesse, a
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Ordine di Bergamo
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Pavia Premio Internazionale di Architettura Sacra “Frate Sole” Sabato 4 ottobre al Teatro Fraschini di Pavia si è tenuta la consegna del Premio Internazionale di Architettura Sacra “Frate Sole”, giunto alla sua quarta edizione, e dedicato al progettista che nell’ultimo decennio ha realizzato la migliore opera per il culto nell’ambito delle confessioni cristiane. Ad aggiudicarsi il "Ciel d'Oro", scultura ideata da Padre Costantino Ruggeri, è stato quest’anno l’architetto inglese John Pawson per il progetto della Chiesa del Monastero di Nostra Signora di Novy Dvur in Boemia. La Commissione Giudicatrice del Premio – L. Leoni, M. Bosi, G. Della Longa, E. Fernandez Cobian, O. La Rocca, Don G. Russo, M. Von Gerkan – ha indicato come secondo premio ex aequo i progetti di seguito pubblicati. Primo premio John Pawson collaboratori: Stefan Dold, Ségolene Getti, Vishwa Kaushal, Stéphane Orsolini, Shingo Ozawa, Pierre Saalburg, Monastero di Nostra Signora di Novy, Boemia (Repubblica Ceca)1999- 2004 La chiesa del monastero cistercense di Novy Dvur nella Repubblica Ceca, progettata e realizzata da John Pawson, si presenta come uno spazio pensato e studiato per il raccoglimento e la preghiera, luogo privilegiato per la riflessione,
dove è allontanata ogni distrazione e tutto è volutamente veicolato verso un mondo fatto di integrità e di purezza visiva. Qui si impone il silenzio, si entra come in punta di piedi per non turbare con atteggiamenti banali o incoerenti, un luogo ove si respira solo pace e senso di tranquillità. Pawson non si è concesso alcun compiacimento formale nella rigorosità di un impianto architettonico che parla con il linguaggio dell’armonia delle relazioni tra gli spazi e della figuratività elementare. Nell’architettura sacra, ove si vivono sensazioni ineffabili, ci si chiede quali siano gli elementi che collaborano in modo significativo al raggiungimento dei risultati che fanno dello spazio uno spazio mistico. È difficile esprimerlo con parole perché in realtà non si può tradurre in canoni e regole ciò che viene comunicato poeticamente in modalità inesprimibili con dati tangibili e solo traducibili a livello di sentimenti della sfera profonda dell’animo umano. Nella chiesa si entra per vivere un senso di mistero che travalica le
bianche pareti e accende un’atmosfera di alta spiritualità, vivificando e facendo vibrare ogni cosa. Tale atmosfera viene come da lontano e riproduce con efficacia e vigore un canto lirico. È spazio che evoca nella sua limpidezza e rigore compositivo la ricchezza di un’età trascorsa, nella quale valori immutabili riprendono vita, rivisitati in forme rinnovate che vogliono esprimere la continuità con la bellezza acquisita nel tempo e rivissuta in un anelito verso un futuro di speranza sempre nuova. La scalinata, invenzione plastica nella fascia absidale, rovesciata rispetto al comune sentire che presupporrebbe un’elevazione terminale a conclusione dell’intera composizione, scompare alla vista e crea un vuoto suggestivo che proietta il presbiterio in una dimensione non percepibile in termini configurabili in uno spazio finito, bensì in una prospettiva che abbraccia l’infinito, facendo fluttuare elementi e cose, come sospese tra cielo e terra. Simbolo inconfutabile di purezza e di presenza viva del divino l’altare
Secondo premio ex aequo Lamott Architekten BDA Centro parrocchiale cattolico del Sacro Cuore a Völklingen (Germania), 1999-2001 Il nuovo centro della comunità si snoda intorno a un cortile interno condiviso. Il progetto e la forma sono chiaramente in contrasto con l’ambiente circostante. Il cortile della chiesa si alza al di sopra del livello della strada e unisce le parti che costituiscono il centro della comunità: la chiesa, il centro giovani, l’auditorium, l’asilo, la canonica e l’amministrazione.
JSA, Jensen & Skodvin Arkitektkontor (Jan Olav Jensen e Børre Skodvin) collaboratori: Torstein Koch, Torunn Golberg, Martin Draleke, Aslak Hanshuus, Kaja Poulsen, Siri Moseng, AnneLise Bjerkan Nuovo monastero cistercense nell’isola di Tautra (Norvegia), 2004-06 Si tratta di un nuovo monastero per diciotto monache, completo di una piccola chiesa e di tutte le strutture necessarie per la sussistenza e le aree di produzione. Il progetto consiste in un sistema di stanze di dimensioni diverse collegate agli angoli e dotate di cortili per creare nel complesso sette giardini.
Luigi Leoni
Peter Kunze, Stefanie Seeholzer collaboratore: Marta Binaghi Cappella di San Benedetto a Kolbermoor (Germania), 2007-08 Il visitatore penetra all’interno dello spazio sacro passando attraverso un alto portale d’ingresso che ospita la piccola campana della cappella: l’immagine classica della chiesa con campanile non viene abbandonata bensì reinterpretata con spirito moderno.
Decio Tozzi Cappella della Fazenda Veneza a Valinhos, San Paolo (Brasile), 2001-02 Due elementi segnalano un luogo nel paesaggio. Due segni s’aggiungono al paesaggio: la copertura ricurva - rifugio dell’uomo - e la Croce di Cristo. Si genera così un vuoto che disegna il piccolo tempio in riva al lago. Tra il rifugio e la croce si configura una successione spaziale che suggerisce il programma liturgico – atrio, battistero, navata inclinata, altare e abside.
Paolo Zermani collaboratori: Mauro Alpino, Fabio Capanni, Giovanna Maini, Giacomo Pirazzoli, Fabrizio Rossi Prodi, Tomohiro Takao Centro parrocchiale e chiesa di San Giovanni Apostolo a Perugia (Italia), 2000-03 La chiesa e il centro parrocchiale si appoggiano alla collina attraverso una sequenza che privilegia il concetto di costruzione, di scavo, di piazza bassa e piazza alta che è nella storia di Perugia. Una linea retta segna il percorso dal sagrato alla chiesa principale, alla chiesa feriale, alla canonica: lungo questa linea gli spazi si dispongono come stazioni. Il percorso è duplicato all’esterno, attraverso la grande scala che lega la piazza Bassa e la piazza Alta.
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domina tutto lo spazio con la sua forma possente, candida ed essenziale. Tutto da esso si genera, trae forma e si misura; ad esso tutto converge. Vi è un’altra parola: la spogliazione. La si legge nel disegno progettuale, la si avverte nella sequenza ordinata degli spazi, nel candore delle pareti e nell’allontanamento di ogni elemento che faccia da barriera ai gesti indispensabili da compiersi nella pura nudità espressiva. L’effetto che si genera è di una limpidezza gioiosa che trae forza dalla sapiente sequenza di luci e di ombre e qualifica lo spazio facendolo vibrare in modo impalpabile ma reale. La luce è soffusa e si diffonde in vari ritmi tonali che parlano al cuore. Lo spazio, principalmente pensato per la vita di preghiera dei monaci, diviene luogo di accoglienza e fraternità non luogo di segregazione dal mondo ma luce che vuole investire l’umanità intera e in questo abbraccio tutto si fa unità chiara, netta, precisa, messaggio universale di salvezza.
INFORMAZIONE DAGLI ORDINI
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Mantova
La qualità architettonica come esercizio democratico Mantova da qualche anno, verso la fine dell’estate, si affolla di una moltitudine di turisti per l’appuntamento col Festivaletteratura. Pensando a tutti quegli sguardi sugli edifici, sulle piazze e sulle strade, mi chiedo quale immagine potrà restare della nostra città e del territorio che la circonda. Pur apparendo una questione meramente percettiva, legata al senso estetico e al gusto soggettivo, capire quale immagine resta nella memoria, visitando una città o guardando un paesaggio, è il primo indicatore per rendersi conto della qualità di un territorio. Questa immagine è il risultato di una somma di sensazioni, che sono determinate da fattori individuabili precisamente (la qualità dell’aria, dell’acqua, del cibo, dei servizi), ma dove un ruolo fondamentale viene giocato dalla qualità degli spazi costruiti, delle infrastrutture e dalla tutela dell’ambiente. Partendo da queste considerazioni, viene da chiedersi se le trasformazioni urbane, necessarie per recuperare l’esistente, creare nuovi insediamenti, pensare le infrastrutture che ne permettono la fruibilità, tengano conto dell’impatto che possono avere sull’immagine di un luogo. Capire come questa può essere conservata senza essere cristallizzata oppure trasformata senza stravolgere e tradire la sua natura, è il difficile compito – e la grande responsabilità – di chi amministra e governa il territorio, e l’imprescindibile dato di partenza di chi si occupa di progettare questi interventi. Per meglio dire, dovrebbe essere stimolo per una progettazione consapevole. Eppure rispetto al tema delle nuove costruzioni – a Mantova come altrove – permane un grande equivoco, in base al quale la qualità di un edificio è confusa con la sua somiglianza alle rassicuranti forme del passato; senza poi approfondire i modi della sua realizzazione, i materiali realmente utilizzati, il rispetto delle prescrizioni sul risparmio energetico. Puntare su questo valore estetico fittizio, è stata per anni l’arma vincente di chi ha realizzato e venduto case di scarsa qualità, e il veloce degrado delle abitazioni dei nuovi insediamenti lo testimonia. Anche per quanto riguarda il rispetto della qualità ambientale, abbiamo
validi esempi dell’uso indiscriminato che è stato fatto del territorio attorno a noi. Modelli insediativi estensivi (lottizzazione + villette) continuano ad essere accettati se non promossi dalle amministrazioni locali. Vediamo le nostre periferie e le nostre campagne invase da costruzioni che saturano il territorio, senza che si abbia l’impressione della fine di questo fenomeno. E mentre le villette in stile neo-classico o neo-romanico assediano le periferie, gli edifici che parlano un linguaggio contemporaneo, e che sono i migliori interpreti delle esigenze funzionali di oggi, difficilmente riescono ad imporsi come modelli da imitare. Nonostante gli sforzi di alcuni progettisti coraggiosi e di pochi amministratori illuminati, gli interventi che hanno un vero valore innovativo da un punto di vista estetico ed energetico sono un numero irrisorio. La colpa non sta da una parte sola: chi progetta il nuovo e chi recupera l’esistente, dovrebbe avere principalmente a cuore l’innovazione e la qualità del progetto, e invece spesso ricorre a soluzioni di comodo che aggirano le prescrizioni a tutela dell’ambiente, o che imitano malamente linguaggi che non ci appartengono più. Fino a che non ci sarà una coscienza differente l’unica e immutabile immagine che le città italiane tenderanno a promuovere di sé – sia negli interventi privati che in quelli pubblici – sarà sempre quella legata alla loro architettura del passato. Come trovare possibili alternative ad un moderno che imita l’antico senza capirlo? Come dare l’opportunità alle forme e ai materiali del nostro tempo di esprimersi al meglio delle loro potenzialità? Come capire che assecondando oggi modelli insediativi incoerenti, si avranno domani ricadute negative dal punto di vista della sostenibilità? Come capire che l’architettura contemporanea è un’eccezionale strumento di governo del territorio? Alternative ne esistono. Senza allontanarsi troppo, esempi li troviamo in tante piccole e grandi città europee. Basta visitarle, percorrerle, rimanerci per qualche giorno e ci si accorge di come le cose in Italia non funzionano come dovrebbero. Anche nel nostro paese utilizzare in modo più sistematico lo strumento del concorso di progettazione per la soluzione dei temi urbani che riguardano parti di città e che coinvolgono la popolazione, sarebbe il mezzo
più corretto per la trasformazione del territorio e per la diffusione della cultura architettonica. Ed anche una delle poche strade non segnate, che permetterebbe ad un giovane di emergere in un contesto difficilmente penetrabile, a discapito dei clientelismi e degli interessi secondi e terzi, che da sempre contraddistinguono il mondo legato alle costruzioni edilizie. In conclusione, sia a livello di scelte nazionali che locali, il raggiungimento di un risultato di qualità condiviso, rispettoso dell’esistente, dell’ambiente e dell’interesse comune, può avvenire solo attraverso il più ampio numero di proposte progettuali. Aumentare la consapevolezza ed il coinvolgimento dei cittadini sui temi della qualità dell’ambiente urbano e del territorio, con iniziative culturali e formative, è l’unico mezzo per far sentire partecipe del processo progettuale anche la comunità. Le decisioni che calano dall’alto, gli edifici e gli interventi urbani e territoriali progettati nelle stanze chiuse, non condivise dalle persone, spesso vengono sentite come imposizioni, vere e proprie violenze, senza la possibilità di fare nulla per evitarle. È un modo di concepire la politica, la programmazione e la progettazione che ha fatto il suo tempo. Oggi ogni individuo vuole e deve essere partecipe della costruzione dello spazio che vive e che abita, come ci si auspica in una democrazia compiuta.
Milano Rettifica Premio Under 40 Rassegna lombarda “Nuove proposte di architettura” 1ª edizione Diversamente da quanto pubblicato a pagina 47 del catalogo della prima edizione del Premio Under 40 Rassegna lombarda “Nuove proposte di architettura”, si precisa che il progetto “Uffici Johnson Wax ad Arese (Milano)” è stato redatto, in qualità di cooprogettisti, dagli architetti Andrea Alfredo Argentieri e Giuseppe Michele Cantamessa, iscritti all’Ordine degli Architetti P.P.C. di Milano.
Luca Rinaldi
Errata corrige Segnaliamo che sul n. 8/9 di “AL”, agosto-settembre 2008, a p. 6, in riferimento al progetto di Marco Cristiano Valsecchi, Monumento al M.llo Capo Stefano Piantadosi a Locate Triulzi (Milano), è stato erroneamente inserito un testo non inerente al progetto. Ci scusiamo con l’autore e i lettori. Per un’esauriente visione del progetto si rimanda al volume Rassegna lombarda di Architettura Under 40. Nuove proposte di Architettura edito dalla Consulta e al sito www.consultalombardia.archi world.it
Vi scrivo come persona che, vedendo le forti trasformazioni che il vostro lavoro porta sul territorio, sempre più spesso, si chiede se la disciplina dell'Architettura e dell'Urbanistica, e gli Ordini professionali, abbiano o no un ruolo nel “governare” l'attività di architetti ed urbanisti. Sono commercialista e sono, per formazione ed attività, lontana dalla vostra professione, che ammiro e rispetto, ma sulla quale comincio a pormi domande. Il mio interesse verso le “cose da architetti” è recente, e deriva dall'essermi attivata in prima persona contro un progetto urbanistico promosso in un piccolo Comune della Valle Brembana, Piazzatorre (BG), paesino di 500 abitanti circa, un tempo florido centro turistico, ora in costante declino. Attribuisco gran parte del rovescio turistico di questo paese all'abnorme sviluppo edilizio degli anni ‘70 e ‘80, allorché furono edificate seconde case per circa 8.000 persone, depauperando la maggiore risorsa in loco, il territorio stesso, senza alcun potenziamento dei servizi da fornire a residenti e villeggianti. Per risollevare le sorti e l'economia del paese, è stato promosso un PII, con cui sarebbero realizzati alloggi per altri 455 abitanti. Ciò che mi preme evidenziare è la totale inazione di tutti gli enti che dovrebbero essere preposti a governare il territorio, Comune in primis, Provincia, Parco delle Orobie e Comunità Montana a seguire (circa la Regione, persino io ho capito che ha completamente abdicato al proprio ruolo). Però, mi chiedo e vi chiedo: se le istituzioni latitano, o sono folli (un comunello che gioca a “negoziare” programmi urbanistici promossi da gente che fa solo quello di mestiere, da anni!), architetti ed urbanisti hanno o no un ruolo da giocare per evitare scempi come quello descritto? Quando leggo, sulla vostra rivista o su altre, termini come “qualità del territorio”, “tutela del paesaggio”, “armonia con l'ambiente”, a cosa esattamente vi riferite? Perché se poi leggo un “documento di sintesi” come quello predisposto per evitare la VAS del PII cui accennavo, documento redatto da un architetto (sia chiaro, non intendo muovere una critica alla
persona, che non conosco, alla quale sarà stato conferito un incarico preciso e disciplinato da un contratto) e nel quale il succo è “tutto va bene madama la marchesa”, comincio a pensare che si faccia, a livello culturale, della gran teoria e del gran fumo, ma che poi, quando si scende sul piano pratico, l'arrosto sia sempre quello: più metri cubi = più quattrini = parcelle più alte, e quindi tanti saluti al territorio e agli articoli stampati sulle riviste. Non vorrei esservi parsa offensiva, nel caso me ne scuso. Se ne avete voglia, per favore, datemi una risposta, personale o sulla vostra rivista, che ormai mi faccio prestare tutti i mesi. Mara Colombo Legnano, 24 agosto 2008 p.s.: l’autorità competente ha poi deciso che la VAS, si fa!
Rem Koolhaas a Bovisa Ormai su periodici, magazine e quotidiani l’architettura si affianca sempre più alla moda, al glamour, al gossip. È quella la vetrina dove i cittadini possono venire a sapere di importanti trasformazioni del contesto in cui vivono. Non perché interessi il loro parere. I media li relegano al ruolo di spettatori impotenti (semmai immaginati nell’atto di emettere esclamazioni di meraviglia). Nel contempo si assiste alla promozione di alcuni architetti di grido al ruolo di esperti in pianificazione urbanistica e disegno urbano, ambiti in cui in molti casi non hanno alcuna competenza: non un pensiero, un’argomentazione; non un logos che possa essere oggetto di discussione nella polis. Ma si sa: il loro coinvolgimento è un grimaldello per ottenere l’innalzamento degli indici di edificabilità. Le amministrazioni locali li concedono in cambio del fatto che, con il ricorso alle archistar, acquisiscono, o pensano di acquisire, uno scudo che le mette al riparo da ogni critica. L’impreparazione degli amministratori e dei tecnici comunali fa il resto. E, come non bastasse, si usano la fama e le presunte competenze tecniche per fare a pezzi le competenze civili, ovvero quella mate-
ria – ciò che fa città – in cui tutti siamo esperti in quanto cittadini. Queste le considerazioni che suggerisce il progetto di Rem Koolhaas per l’area dei gasometri nel quartiere milanese della Bovisa. Il termine progetto è in questo caso un eufemismo. Si tratta più propriamente del divertissement di un individuo che evidentemente non ha giocato abbastanza da piccolo. Butta sull’area, a manciate, dei pezzi presi da una scatola di giochi d’infanzia e dopo averne cavato un assemblaggio che gli pare abbastanza stravagante da sorprendere gli allocchi, mette la sua firma sotto questo affastellamento, lo chiama masterplan e lo manda, con relativa parcella, al committente diretto. Ovvero a EuroMilano. Che qui, in termini di potere, avrebbe tutte le prerogative del principe. Come le avrebbero i suoi interlocutori primi: il Sindaco di Milano e il Rettore del Politecnico, il quale rappresenta un ente pubblico che in questo caso è il maggiore destinatario dell’intervento di recupero. Prìncipi? Sì: prìncipi. Solo che nel quattro-cinquecento i prìncipi avevano in generale buon gusto e ci tenevano a rispecchiarsi nelle opere. Ma si dirà: “Anche il masterplan di Koolhaas riflette qualcosa”. Vero. È uno specchio che la dice lunga sulla impreparazione e il cattivo gusto dei moderni prìncipi.
Pensioni Cerco colleghi che si trovino nella mia situazione rispetto alla pensione di vecchiaia, con cui condividere opinioni e iniziative. Mi sono iscritto ad INAR Cassa nel 1970, poi ho insegnato senza potere continuare l'iscrizione dal 1975 al 1989; dal 1989 ad oggi sono stato nuovamente iscritto. Sulla base di una indicazione scritta di INAR Cassa ritenevo di aver acquisito il diritto a poter percepire la pensione di vecchiaia con almeno 15 anni di iscrizione. Invece, oramai vicino ai 65 anni, ho avuto la sorpresa di non averne diritto perchè raggiungo solo 26 anni di contribuzione e oggi sono indispensabili almeno 30 anni. E se da domani la norma cambiasse ancora e divenissero necessari 40 anni... Fatevi vivi! Piero Baracchi 30 settembre 2008
Giancarlo Consonni Milano, 9 novembre 2008
Lettere e commenti è attivo l’indirizzo di posta elettronica lettere@consulta-al.it al quale i nostri lettori possono inviare i loro commenti (massimo 2.500 battute).
51 INFORMAZIONE LETTERE E COMMENTI
Per la difesa del suolo
A cura di Carlo Lanza (Commissione Tariffe dell’Ordine di Milano)
Variazione Indice Istat per lʼadeguamento dei compensi 1) Tariffa Urbanistica. Circolare Minist. n° 6679 1.12.1969
Base dell'indice - novembre 1969:100
Anno
Luglio
2005 2006 2007
52
2008
Aprile
Maggio
1560 1555,86 1560,88 1563,39 1568,42 1590 1589,76 1593,53 1596,04 1599,81 1620 1613,62 1617,39 1619,9 1622,41 1660 1670 1660,08 1663,85 1672,64 1676,41
Giugno
1570 1570.93 1573,44 1577,21 1600 1604,83 1606,09 1609,85 1630 1627,44 1631,2 1634,97 1680 1690 1700 1685,2 1692,73 1700,27
Agosto
Settembre Ottobre
1580 1579,72 1580,97 1583,48 1610 1600 1612,37 1612,37 1609,85 1640 1637,48 1637,48 1642,5 1690 1701,52 1697,76 1697,76
Novembre Dicembre
1583,48 1586 1610 1611,11 1612,37 1650 1648,78 1655,06
2) Tariffa stati di consistenza (in vigore dal dicembre 1982) anno 1982: base 100 Anno
2006 2007
INDICI E TASSI
Gennaio Febbraio Marzo
2008
Gennaio Febbraio Marzo
Aprile
Maggio
Giugno
Luglio
Agosto
Settembre Ottobre
Novembre Dicembre
274,72
275,37
275,81
277,33
277,54
278,19
278,63
278,63
278,19
278,41
278,63
278,85
279,5
279,93
276,46 280 280,36
281,88
282,53
282,97
282,97
283,84
284,92
286,01
286,87
287,53
289,04
289,7
281,23 290 291,21
292,52
293,82
294,04
293,38
293,38
n.b. I valori da applicare sono quelli in neretto nella parte superiore delle celle
3) Legge 10/91 (Tariffa Ordine Architetti Milano) Anno
2006 2007 2008
Gennaio Febbraio Marzo
121,49 123,32 126,87
121,78 123,60 127,15
121,97 123,80 127,83
Aprile
anno 1995: base 100
Maggio
122,26 123,99 128,11
Giugno
Luglio
122,64 122,74 124,37 124,66 128,79 129,36
123,03 124,95 129,94
Agosto
giugno 1996: 104,2
Settembre Ottobre
123,22 123,22 125,14 125,14 130,03 129,75
123,03 125,52 129,75
4) Legge 10/91 (Tariffa Consulta Regionale Lombarda) anno 2000: base 100 5) Pratiche catastali (Tariffa Consulta Regionale Lombarda) Anno
2006 2007 2008
Gennaio Febbraio Marzo
111,64 113,31 116,57
111,9 113,58 116,84
112,08 113,75 117,46
Aprile
112,34 113,93 117,72
Maggio
112,69 114,28 118,34
Giugno
Luglio
112,78 114,55 118,87
113,05 114,81 119,40
6) Collaudi statici (Tariffa Consulta Regionale Lombarda) Anno 2006 2007 2008
Gennaio Febbraio Marzo
117 118,76 122,18
117,28 119,03 122,45
117,46 119,22 123,10
Aprile
117,74 119,40 123,38
Maggio
118,11 119,77 124,02
7) Tariffa Antincendio (Tariffa Ordine Architetti Milano) Indice da applicare per lʼanno 2001 103,07
2002 105,42
8) Tariffa Dlgs 626/94 (TariffaCNA) Indice da applicare per lʼanno 1999 111,52
2000 113,89
9) Tariffa pratiche catastali Indice da applicare per lʼanno 1999 103,04
Luglio
118,2 120,05 124,58
Agosto
118,48 118,66 120,33 120,51 125,13 125,23
Settembre Ottobre
113,22 114,99 119,22
2004 110,40
2001 117,39
2002 120,07
118,66 120,51 124,95
2005 112,12
2006 114,57
2003 123,27
2002 111,12
2003 113,87
2004 125,74
118,48 120,88 124,95
113,22 116,22
Novembre Dicembre
118,57 121,34
118,66 121,81
gennaio 2001: 110,5
2007 2008 116,28 119,63 novembre1995:110,6 2005 127,70
2006 130,48
anno 1997: base 100 2004 116,34
Novembre Dicembre
113,13 115,78
gennaio 1999: 108,2
Settembre Ottobre
anno1995:base100
2001 108,65
113,05 115,34 119,22
anno 2001: base 100
2003 108,23
123,22 126,48
dicembre 2000: 113,4
anno 1999: base 100
Giugno
(Tariffa Ordine Architetti Milano)
2000 105,51
Agosto
113,22 114,99 119,48
Novembre Dicembre
123,12 126,00
2005 118,15
2006 120,62
2007 2008 132,44 136,26 febbraio 1997:105,2 2007 122,43
2008 125,95
Tariffa P.P.A. (si tralascia questo indice in quanto non più applicato) Con riferimento all'art. 9 della Tariffa professionale legge 2.03.49 n° 143, ripubblichiamo l'elenco, relativo agli ultimi anni, dei Provvedimenti della Banca d'Italia che fissano i tassi ufficiali di sconto annuali per i singoli periodi ai quali devono essere ragguagliati gli interessi dovuti ai professionisti a norma del succitato articolo 9 della Tariffa. Dal 2004 determinato dalla Banca Centrale Europea.
Provv. della B.C.E. (8.03.2007) dal 14.3.2007 Provv. della B.C.E. (6.6.2007) dal 13.6.2007 Provv. della B.C.E. (3.7.2008) dal 9.7.2008 Provv. della B.C.E. (8/10/08) dal 15/10/08 Provv. della B.C.E. (6/11/08) dal 12/11/08
3,75% 4,00% 4,25% 3,75% 3,25%
Con riferimento all'art. 5, comma 2 del Decreto Legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, pubblichiamo i Provvedimenti del Ministro dellʼEconomia che fissano il “Saggio degli interessi da applicare a favore del creditore nei casi di ritardo nei pagamenti nelle transazioni commerciali” al quale devono essere ragguagliati gli interessi dovuti ai professionisti a norma del succitato Decreto. dal 1.1.2006 al 30.6.2006
2,25% +7
9,25%
dal 1.7.2006 al 31.12.2006
2,83% +7
9,83%
dal 1.1.2007 al 30.6.2007
3,58% +7
10,58%
dal 1.7.2007 al 31.12.2007
4,07% +7
11,07%
dal 1.1.2008 al 30.6.2008
4,20% +7
11,20%
Comunicato (G.U. 10.7.2006 n° 158) Comunicato (G.U. 5.2.2007 n° 29)
Comunicato (G.U. 30.7.2007 n° 175) Comunicato (G.U. 11.2.2008 n° 35)
per valori precedenti consultare il sito internet del proprio Ordine.
Comunicato (G.U. 21.7.2008 n° 169) dal 1.7.2008 al 31.12.2008
2.184 iscritti dell’Ordine di Bergamo; 2.215
iscritti dell’Ordine di Brescia;
1.624 iscritti dell’Ordine di Como;
666 iscritti dell’Ordine di Cremona; 891
iscritti dell’Ordine di Lecco;
382 iscritti dell’Ordine di Lodi:
654 iscritti dell’Ordine Mantova;
11.407 iscritti dell’Ordine di Milano; 2.312 iscritti dell’Ordine di Monza e della Brianza;
816 iscritti dell’Ordine di Pavia; 343 iscritti dell’Ordine di Sondrio; 2.149 iscritti dell’Ordine di Varese. Ricevono inoltre la rivista:
90 Ordini degli Architetti PPC d’Italia;
Interessi per ritardato pagamento
Comunicato (G.U. 13.1.2006 n° 10)
La rivista AL, fondata nel 1970, oggi raggiunge mensilmente tutti i 25.643 architetti iscritti ai 12 Ordini degli Architetti PPC della Lombardia:
4,10% +7
11,10%
Per quanto riguarda: Indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, relativo al mese di giugno 1996 che si pubblica ai sensi dellʼArt. 81 della Legge 27 luglio 1978, n. 392, sulla disciplina delle locazioni di immobili urbani consultare il sito internet dell’Ordine degli Architetti PPC di Milano. Applicazione Legge 415/98 Agli effetti dell’applicazione della Legge 415/98 si segnala che il valore attuale di 200.000 Euro corrisponde a Lit. 394.466.400.
1.555 Amministrazioni comunali lombarde;
Assessorati al Territorio delle Province lombarde e Uffici tecnici della Regione Lombardia; Federazioni degli architetti e Ordini degli ingegneri; Biblioteche e librerie specializzate; Quotidiani nazionali e Redazioni di riviste degli Ordini degli Architetti PPC nazionali; Università; Istituzioni museali; Riviste di architettura ed Editori.