AL Mensile di informazione degli Architetti Lombardi
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FORUM Luoghi del lavoro interventi di Emilio Reyneri, Alberto Mioni, Giorgio Oldrini, Andrea Branzi Tre domande a… Vittorio Gregotti
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OSSERVATORIO Argomenti Conversazioni Concorsi Libri Mostre Itinerari
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PROFESSIONE Legislazione Normative e tecniche Strumenti
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INFORMAZIONE Dagli Ordini Lettere
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INDICI E TASSI
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EDITORIALE
12 DICEMBRE 2005
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Dragoni, Maura Lenti, Gian Luca Perinotto, Giorgio Tognon, Alberto Vercesi (Termine del mandato: 15.10.2009) Ordine di Sondrio, tel. 0342 514864 www.so.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettisondrio@archiworld.it Informazioni utenti: infosondrio@archiworld.it Presidente: Simone Cola; Segretario: Aurelio Valenti; Tesoriere: Claudio Botacchi; Consiglieri: Giampiero Fascendini, Giuseppe Galimberti, Enrico Scaramellini, Giuseppe Sgrò, Giovanni Vanoi, Laura Trivella (Termine del mandato: 15.10.2009) Ordine di Varese, tel. 0332 812601 www.va.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettivarese@archiworld.it Informazioni utenti: infovarese@archiworld.it Presidente: Riccardo Papa; Segretario: Laura Gianetti; Tesoriere: Pietro Minoli; Consiglieri:Luca Bertagnon, Claudio Baracca, Maria Chiara Bianchi, Antonio Bistolettil, Emanuele Brazzelli, Claudio Castiglioni, Stefano Castiglioni, Orazio Cavallo, Giovanni B. Gallazzi, Matteo Sacchetti, Giuseppe Speroni, Adriano Veronesi (Termine del mandato: 15.10.2009)
Maurizio Carones
3 EDITORIALE
Da un paio di decenni le modificazioni generate da radicali trasformazioni economiche e tecnologiche hanno causato profondi mutamenti nei modi della produzione, sia riguardo ai luoghi che agli stessi procedimenti produttivi. Una straordinaria occasione, di portata storica, si è quindi presentata alle nostre città: vaste aree non più utilizzate dalle attività industriali si sono rese disponibili per grandi progetti urbani di trasformazione: parchi, residenze, aree a servizi, aree commerciali hanno composto una sorta di miscellanea funzionale che ha caratterizzato tali progetti. Grande occasione che ha visto consolidarsi, attraverso strumenti legislativi specificamente approntati, la pratica della contrattazione fra amministrazione pubblica e proprietà privata. Ciò ha determinato una definizione dei diversi casi legata al potere contrattuale delle parti, alle occasioni, in sostanza sempre anche a condizioni economiche. In questo quadro, si è detto, è spesso venuta meno la possibilità di guardare tali trasformazioni da un punto di vista più generale: il “piano” stesso, in molti casi, ha dimostrato di essere strumento inadeguato. Tutte questioni che il dibattito urbanistico e architettonico ha discusso per molto tempo e che, almeno in parte, sono riferibili a modificazioni oggi ormai avvenute o in avanzato corso di realizzazione. Al di là di tutto ciò, tali processi di trasformazione sono comunque sempre caratterizzati dal venir meno dell’originaria univoca funzione produttiva delle aree in questione: fenomeno che indica il cambiamento che la concezione di lavoro sta subendo, così come le profonde mutazioni che riguardano lo stesso luogo del lavoro. Problema che riguarda direttamente le nostre discipline, nelle quali la questione dei “luoghi del lavoro” ha avuto un ruolo determinante nell’elaborazione di alcuni concetti largamente sviluppati nel corso del ’900 all’interno di un pensiero che riteneva possibile distinguere precisamente i diversi ambiti spaziali in cui si svolgeva l’attività umana. Oggi tutto questo appare meno chiaro, gli stessi luoghi della produzione diventano forse immateriali, sempre più legati al “terziario avanzato” – secondo alcuni “quaternario” e “quinario”– sorta di atopia riferibile più alle connessioni delle reti di comunicazione che allo spazio fisico. Le modalità stesse dell’abitare si modificano in rapporto a nuove condizioni lavorative, a tempi diversi. In altre parole sembra essere molto complesso poter ancora praticare quella differenziazione funzionale che ha retto la pianificazione territoriale sino a poco tempo fa. Se la “funzione” è sempre più difficile da utilizzare quale parametro strutturante il progetto territoriale, urbano e architettonico, la “forma”, quale campo in cui esprimere gli aspetti più propriamente disciplinari delle nostre professioni, probabilmente vede esaltato il suo ruolo. Ad essa va quindi rivendicata una completa dignità e problematicità, contrastando la tendenza a considerarla utile “optional qualitativo” per rendere più credibili e praticabili soluzioni il cui reale interesse sembra essere esclusivamente di natura economica e finanziaria. Il riconoscimento di questa importanza compete, per ruolo, innanzitutto all’amministrazione pubblica che deve perseguire in tali trasformazioni urbane il fine collettivo e, di questo, certamente l’architettura costituisce una delle primarie rappresentazioni.
Luoghi del lavoro
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Nel Forum di questo numero intervengono: Emilio Reyneri, professore ordinario di Sociologia del Lavoro all’Università di Milano Bicocca; Alberto Mioni, professore ordinario di Urbanistica presso il Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico; Giorgio Oldrini, Sindaco di Sesto San Giovanni; Andrea Branzi, architetto e designer, professore associato alla III Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. L’architetto Vittorio Gregotti ha risposto a tre domande di Maurizio Carones. Ringraziamo tutti i partecipanti per i loro contributi. Ringraziamo, inoltre, la Fondazione Ansaldo per averci gentilmente concesso le immagini qui riprodotte.
Il lavoro nella società dei servizi: plurale, frammentato e relazionale di Emilio Reyneri
Contrariamente alle profezie sulla fine del lavoro, viviamo in una società che presenta il più elevato livello di occupazione della popolazione adulta della sua storia recente: all’inizio del nuovo secolo oltre tre su quattro italiani da 30 a 50 anni hanno un lavoro retribuito. Ciò si spiega con la fortissima crescita dell’occupazione extrafamiliare delle donne, che costituisce la vera rivoluzione del mercato del lavoro contemporaneo. In Italia le donne sfiorano ormai il 40% delle persone adulte con un lavoro extrafamiliare, mentre non erano neppure il 35% soltanto dieci anni fa. Si avvicina il momento in cui, come nelle società scandinave ed anglosassoni, “l’altra metà del cielo” diventa anche l’altra metà dell’occupazione. Ogni discorso sul mondo del lavoro dovrà perciò spogliarsi dei suoi tradizionali tratti maschili ed essere declinato al plurale per tener conto delle differenze di genere. Con la diffusione del modello di famiglia a doppio reddito, la conciliazione dei tempi di lavoro retribuito e di vita assume un ruolo centrale nell’organizzazione delle attività produttive e dell’intero assetto metropolitano: dalla diffusione dei servizi di cura ai trasporti collettivi e individuali, dalla localizzazione delle diverse funzioni urbane alla sincronizzazione dei tempi di fruizione di queste funzioni. Non più recluse nel lavoro casalingo, come nell’era industriale, le donne rischiano però di dover scegliere tra rinunciare agli impegni richiesti dai compiti riproduttivi o essere segregate nelle posizioni professionali meno elevate, nonostante livelli di istruzione superiori a quelli dei coetanei maschi. Perché anche le donne con figli possano essere “in carriera” si dovrà intervenire in moltissimi campi, alcuni dei quali interessano architetti e urbanisti. La questione della conciliazione dei tempi è decisiva anche perché il lavoro tende ad invadere la sfera di quello che la società industriale aveva definito “tempo libero”. Oltre un quarto degli occupati in Italia svolge attività lavorative al di fuori dell’orario di lavoro e la percentuale è destinata a crescere, perché è molto più alta tra i lavoratori più istruiti addetti a mansioni intellettuali, da tempo in forte crescita. Come in
un lontano passato, ma con modalità ovviamente molto diverse, il confine tra i tempi e persino i luoghi del lavoro e quelli del divertimento e della cura di sé tende a sfumare. Ci si può divertire in ufficio “chattando” al computer o facendo esercizi in una stanza adibita a palestra e si può lavorare su una spiaggia deserta grazie alla pervasiva connessione wireless. Sta al contesto organizzativo e sociale se ciò vada a vantaggio dell’impresa o del lavoratore oppure di entrambi. Lo sfumare dei confini tra lavoro e non lavoro si deve anche al processo di downsizing delle imprese terziarie. Unità produttive che non hanno più bisogno di grandi attrezzature e con sempre meno addetti, si possono facilmente “mischiare” con edifici adibiti a residenza. Ciò non implica, però, che sia destinato a ridursi il pendolarismo casa-lavoro, soprattutto in Italia, ove la scarsa diffusione dell’affitto rende difficile “adeguare” il luogo in cui si abita a quello in cui si lavora. Anzi, a fronte di una frequenza con cui si cambia lavoro non inferiore a quella dei paesi più sviluppati (frutto della gran diffusione delle micro-imprese, che hanno un alto tasso di nati-mortalità), la crescente occupazione delle donne aumenta la probabilità che in una famiglia almeno uno degli occupati abiti lontano dal luogo di lavoro. La terziarizzazione dell’occupazione e la ridotta dimensione delle imprese tendono ad aumentare la frequenza anche degli spostamenti per motivi di lavoro. Infatti, molti servizi devono essere forniti dai lavoratori presso la sede del cliente e per fornirli spesso occorre cooperare con lavoratori di altre micro-imprese. Grandi speranze ha sollevato la possibilità di inter-agire sul lavoro e con i clienti on line, ma i risultati sono stati deludenti, come mostra anche l’ancor scarsa diffusione del telelavoro, nonostante le crescenti possibilità tecnologiche. La società dei servizi è una società ancor più relazionale che virtuale. A parte i servizi di cura e personali, che richiedono la presenza fisica di chi li fornisce, la dimensione della fiducia e le relazioni “faccia a faccia” che la favoriscono sono importanti quando “si trattano” prestazioni lavorative fondate su conoscenze specialistiche senza poter controllarne in anticipo i risultati. Gran parte dei frenetici spostamenti lungo tutta la giornata di lavoro, al di fuori di ogni prevedibile sincronizzazione, si devono alla necessità di “vedersi”, o con il destinatario del servizio, o tra lavoratori che devono cooperare per fornirlo. Quanto, infine, al contenuto del lavoro nella società dei servizi si manifesta la tendenza ad una polarizzazione tra una fascia molto qualificata ed una fascia di occupazioni elementari. Nella prima si concentrano i lavoratori della conoscenza ad alto reddito (ma sempre più grazie ai due redditi in famiglia), mentre la seconda è costituita dai lavoratori manuali che consentono l’elevato tenore di vita dei primi fornendo loro i più vari servizi: dalla custodia alla sicurezza, dalla preparazione di cibi alla pulizia, dalla distribuzione commerciale alla manutenzione domestica, dalla cura della persona all’assistenza. E la metropoli contemporanea va assumendo tratti propri della città sino al Seicento, ove servitori e domestici costituivano gran parte popolazione.
FORUM GLI INTERVENTI
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Stabilimento Delta di Cornigliano, Genova, ufficio disegnatori, 1956.
Un bilancio sommario (con qualche riserva)* di Alberto Mioni
La strada aperta quattro-cinque lustri orsono da pochi appassionati cultori di archeologia industriale in materia di recupero di siti produttivi dismessi oggi è molto affollata. Anche se a livello di teorizzazioni non ci sono stati avanzamenti apprezzabili, via via che l’abbandono si è esteso e che si sono compiuti tutti i passi necessari ad individuarne natura e problematiche (1), ma soprattutto via via che gli immobiliaristi si sono impadroniti della partita, questa pratica è diventata probabilmente la più diffusa fra tutte quelle ascrivibili alla famiglia degli interventi di trasformazione urbanistica (2). Dunque, si è passati dal dire al fare: il che non è poca cosa. Tuttavia mi pare che, in questa importante transizione, non ci si sia discostati molto dalle falserighe iniziali, perché ci si avvale degli stessi ingredienti e si impiegano le medesime modalità
d’azione che erano state focalizzate negli anni ’80, salvo qualche distorsione degli ideali e degli stili. In particolare, ben poche sono le innovazioni introdotte in materia di politiche territoriali, di programmazione di tali interventi, di valutazione preventiva del loro impatto sul territorio (3). Naturalmente, gli unici operatori in campo sono sempre dei promotori privati che si muovono quasi esclusivamente sulla base dei criteri del tornaconto economico, sicché nelle loro mani i recuperi diventano in realtà dei veri e propri riciclaggi integrali. Di promotori pubblici non c’è quasi traccia e poche ce ne sono di “controllori”, sicché i casi nei quali si attribuisce un qualche peso alla qualità e al valore testimoniale dei manufatti sono davvero rari. Quanto alla tipologia dei reimpieghi dei fabbricati, essa non va al di là di una gamma di possibilità che era già stata completamente sondata almeno trent’anni fa: loft, atélier, uffici, magazzini, pezzi di università, musei e quant’altro. Nulla di nuovo. Trascurando quelli di pubblica
Stabilimento Metallurgico Delta di Cornigliano, Genova, uffici, 1937.
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utilità imposti dalla legge, pure nei nuovi usi assegnati ai suoli integralmente liberati gli operatori tendono ad andare sul sicuro, e infatti la residenza e i suoi complementi guidano la classifica. Anche qui non mancano eccezioni significative, ma si segnala la scarsità di opzioni innovative e fertili, di reale sviluppo economico e sociale, di cui pure si ha sentore da decenni. In particolare l’inserto di quelle nuove attività che dovrebbero valorizzare la rinnovata “competitività” cui aneliamo, resta ancora sporadico, e dove è avvenuto non ha prodotto né sembra destinato a produrre effetti insediativi diversi da quelli usuali. Circa gli effetti territoriali dei riciclaggi di maggior scala, è difficile capire se quelli positivi corrispondono effettivamente alle attese: ne dubito, ma forse sbaglio perché non conosco verifiche esaurienti in merito. Quelli negativi emergono quando i grandi interventi non sono inquadrati nel concerto di azioni di regolazione – e soprattutto di sostegno contestuale – che usualmente sono scaricate sugli enti locali. Sono i soliti: densificazione insediativa e/o sprawl urbano, ulteriore sovraccarico e congestionamento delle arterie e del trasporto pubblico, conseguente crescita del malessere dei pendolari, e così via; tutte problematiche arcinote della crescita urbana d’un tempo, che si ripropongono tali e quali anche quando si tratta di azioni rivolte alla cosiddetta “rigenerazione” della città. In parte gli impatti negativi citati vanno attribuiti alla tradizionale insofferenza lombarda per le pratiche di regolazione (pubblica) dei processi insediativi, che col tempo si è accentuata. Oggi essa ha ottenuto di esautorare l’urbanistica come istituzione, di privarla di ogni efficacia anche di indirizzo e di ridurla a mera validazione di fluttuanti decisioni (private) assunte al di fuori di essa. E ancora, gli interventi di trasformazione più importanti, decantati per il valore dei progetti e la fama dei loro autori, solo raramente vengono completati secondo le previsioni iniziali e nei tempi prefissati. Anzi, quanto più sono ambiziosi, tanto più finiscono con l’allontanarsi dai disegni originari, spesso frutto di grandi e ambitissimi concorsi, per seguirne altri che talvolta contraddicono clamorosamente gli impegni assunti. Ma pure questa è una costante di tutti i nostri cosiddetti “grandi progetti” (4), una sorta di maledizione cui ci siamo dovuti assuefare. Infine, anche le nuove brillanti configurazioni architettoniche che talvolta emergono negli interventi conclusi o che illuminano i rendering dei progetti, in un’età di eclettismo edilizio imperante come la nostra, non mi paiono novità “strutturali” bensì soltanto di abbigliamento ovvero di moda. Basta confrontare gli eclatanti e spesso volutamente sconcertanti prospetti con la banalità delle piante. Insomma, secondo me, la proliferazione di interventi di riciclaggio grandi e piccini in Lombardia – di per sé certamente positiva – non ha affatto alterato il DNA tradizionale che governa il metabolismo dei nostri processi insediativi. Forse è inalterabile: come l’Olanda o la Ruhr non diventeremo mai.
FORUM GLI INTERVENTI
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Stabilimento Elettrotecnico Ansaldo di Rivarolo, Genova, trasporto girante turbina idraulica, 1951.
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* Non tutti i lettori possono ricordare la splendida mostra dedicata a “Il e a quel punto in una città di soli 11 chilometri quadrati di luogo del lavoro” dalla XVII Triennale di Milano nel 1986. Ed è un peccato perché Eugenio Battisti, il suo inventore, ci aveva messo tutta la sua genialità. Se ne ricordano gli amici della redazione, che mi hanno chiesto di rivisitare per “AL” i temi trattati allora, guardando alle cose di oggi nella prospettiva affrontata in quell’occasione nella sezione che si chiamava “Paesaggi industriali di oggi – I luoghi di lavoro abbandonati”. Il suo filo conduttore era l’archeologia industriale, disciplina ancora poco nota in Italia, che si rivolgeva alla storia del lavoro, alla conservazione dei suoi lasciti, declinata in termini di esplorazione di pratiche di riuso di organismi produttivi la cui funzione originaria era cessata e la cui presenza risultava una risorsa. Ma cosa rivisitare adesso, e come? Confesso che mi sarebbe piaciuto esaminare pratiche di riuso volte alla creazione di luoghi di lavoro intrinsecamente “nuovi” rispetto al 1986, in quanto ad attività insediate e modalità operative messe in atto. Purtroppo ho dovuto rinunciare a procedere su questo terreno: anche un consuntivo della situazione è impossibile perché non esiste alcun censimento su cui riflettere, e quindi ho ripiegato su un approccio diverso. Così, facendo sempre un confronto rispetto alla situazione prospettata dalla XVII Triennale, mi limito a considerazioni molto più generali. Cosa è cambiato da allora nelle problematiche del recupero di derelict lands produttive e infrastrutturali e nelle loro soluzioni in Lombardia? La mia conclusione è: certamente molto per ciò che riguarda la quantità, poco o nulla per tutto il resto. Note 1. Un’intensa stagione di ricerche e dibattiti ha impegnato un gran numero di specialisti e di istituzioni per tutti gli anni ’90, l’età d’oro dell’archeologia industriale e dei primi grandi “progetti urbani”. 2. A questo genere di azioni standard possiamo ascrivere praticamente tutti gli interventi lombardi più rilevanti. Innanzitutto quelli più emblematici di Milano già realizzati almeno in parte (es. la Bicocca, le nuove Fiere, la Bovisa, il Portello, diversi deplorevoli PII che gridano vendetta) o che si profilano come imminenti (la Città della Moda, l’area di Garibaldi-Repubblica, l’ex Montecity, l’ex Fiera-City Life e vari altri PII “minori” che vorremmo migliori di quelli già conclusi). Poi ci sono le dozzine di luoghi della Lombardia che nell’insieme ne facevano la prima regione industriale d’Italia (vedi i grandi recuperi di aree ex industriali di Sesto S. Giovanni, Castellanza, Legnano, Crema, Lodi, Brescia, ecc.). Senza considerare gli interventi di riciclaggio e recupero spiccioli, che sono davvero innumerevoli. 3. Qualche interessante tentativo di sperimentazione dell’IReR negli anni ’90 non ha lasciato traccia. 4. Quante volte, per esempio, è cambiato il Progetto Bicocca al mutar delle circostanze e degli umori? E quelli per la Bovisa e il Portello, per Tecnocity, per Sesto e moltissimi altri di questo genere?
Sesto San Giovanni da città delle fabbriche a fabbrica delle idee di Giorgio Oldrini
Il mutamento di Sesto San Giovanni è profondo ed abbastanza rapido, come del resto è nella tradizione di questo centro che, secondo gli storici dell’industria, all’inizio del ’900 è stato il luogo dove nel minor tempo e nello spazio più ridotto si è prodotta la più intensa industrializzazione d’Europa. Infatti, tra il 1903 e il 1911, quello che era un centro agricolo simile a tanti altri, venne sconvolto e rivoluzionato dall’arrivo di aziende come la Falck, la Breda, la Ercole Marelli, la Osva, la Campari e tante altre che solo ai sestesi potevano sembrare “minori”. Come fu rapida e profonda l’industrializzazione, così è stata veloce e difficile la deindustrializzazione. L’ultimo altoforno della Falck ha smesso di fare la colata nel 1996
territorio con circa 80 mila abitanti si registravano 3 milioni di chilometri quadrati di aree industriali dimesse, una dimensione simile a quella di tutta la cerchia dei Navigli. C’è da dire che se il mutamento fu profondo e per molti lavoratori drammatico, non ci fu un disastro sociale paragonabile a quello che hanno vissuto altre città, anche di nazioni sviluppate, come la Detroit della crisi dell’auto o le città inglesi descritte dal film Full Monty. Una rete sociale forte, la capacità delle amministrazioni comunali, guidate prima da Fiorenza Bossoli poi da Filippo Penati, di costruire insieme le alleanze per salvare la coesione sociale e di progettare il recupero di una personalità territoriale, hanno difeso i lavoratori e poi hanno iniziato la ripresa. Il progetto su cui si è lavorato e sul quale continua a operare l’amministrazione comunale ora diretta dal sottoscritto, è stato quello di costruire il futuro partendo dalle caratteristiche storiche di Sesto San Giovanni: la capacità di innovazione e la solidarietà. L’asse del progetto sta nel costruire un mix di funzioni con alcune scelte qualificanti che facciano da traino “nobile” al resto degli interventi. In particolare si è puntato molto sulla scelta della città della comunicazione. Proprio in questi giorni, sull’area dove Ercole Marelli aveva creato l’elettromeccanica italiana, apre le sue aule il Polo della Comunicazione dell’Università Statale di Milano, mentre a poche centinaia di metri sono iniziati i lavori per costruire la sede italiana della tv Sky e da giugno ha cominciato a trasmettere La7. Abbiamo candidato una parte dell’area Falck per ricevere la Rai di Milano, che deve lasciare la sede storica di corso Sempione, e abbiamo buone speranze che la nostra proposta venga accolta. In questo modo, sommando La 7, Sky, il Polo universitario della Comunicazione, Mediaset (che è a Cologno Monzese, ma in pratica dall’altra parte della strada rispetto alla Falck), e la Rai, si costituirebbe il più grande sito televisivo italiano, con tutte le sinergie e le ricadute positive che si possono immaginare. Da città dell’acciaio a centro della comunicazione è la nostra prima linea di indirizzo. Ma non solo. Abbiamo svolto un’attività intensa di marketing territoriale, anche attraverso l’Agenzia Sviluppo Nord Milano, che ha consentito di portare nella nostra città aziende avanzate come Abb, Medtronic, Wind, General Electric, Tuv ed altre di settori diversi. Si sono creati incubatori di nuove imprese e distretti di piccole e medie industrie, che nel giro di pochi anni sono stati lo strumento per risalire la china. Quando ero uno studente universitario avevo letto con emozione nel testo di geografia umana del prof. George che Sesto San Giovanni veniva indicata come uno dei pochi esempi mondiali di “banlieu renversè”, di periferia dove arrivavano ogni mattina i lavoratori invece che andare nel capoluogo. Durante la crisi degli anni ’90 questa situazione si era azzerata. Ora meriteremmo di ritornare nel testo del prof. George, perché di cento nuovi assunti lo scorso anno nel nostro territorio comunale, solo 23 abitano a Sesto San Giovanni o nei comuni confinanti e ben 24
FORUM GLI INTERVENTI
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La Fondazione Ansaldo è stata costituita nel 2000 da Comune e Provincia di Genova e Finmeccanica spa. Inaugurata da Carlo Azeglio Ciampi, beneficia del sostegno del Ministero Istruzione Università e Ricerca, Università degli Studi di Genova, Associazione degli Industriali di Genova, Camera di Commercio di Genova, Regione Liguria, e di Ansaldo Energia spa, Elsag spa, Fincantieri spa. Suo compito è acquisire, tutelare e valorizzare l’esperienza delle imprese e degli attori economici del territorio regionale per ren-
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Stabilimento Meccanico Ansaldo di Sampierdarena, Genova, lavorazione albero a manovelle di motore diesel navale, 1926.
arrivano addirittura da altre province. Il tasso di disoccupazione, che era salito pericolosamente negli anni ’90, fino ad arrivare a quasi il 12 per cento, ora è meno che fisiologico. L’altro sforzo dell’amministrazione comunale, sempre nel solco della tradizione sestese, è quello di assicurare servizi di alta qualità ai cittadini. In quest’anno di crisi delle finanze di tanti comuni falcidiati dai tagli delle finanziarie governative, non solo non abbiamo chiuso strutture, ma le abbiamo potenziate. A primavera abbiamo aperto l’ottavo asilo nido comunale ed in questi giorni entra definitivamente in funzione un nuovo centro anziani con un laboratorio per portatori di handicap. Siamo l’unico comune della zona (a parte Milano) ad avere quattro scuole civiche d’arte, biblioteche, l’Istituto di Storia dell’Età Contemporanea forse più ricco in Italia di documenti originali delle grandi fabbriche e dei loro lavoratori. Abbiamo impegnato cifre per noi rilevantissime per il prolungamento della linea rossa della metropolitana milanese oltre Sesto fino a Monza e per rafforzare le corse sulla linea ferroviaria Brianza-Sesto-Milano. I trasporti sono fondamentali per lo sviluppo di tutta l’area.
Il cammino da fare è ancora molto ed impegnativo. La scelta da parte del proprietario delle aree Falck, Luigi Zunino, di far progettare il loro futuro a Renzo Piano è una garanzia non solo di qualità, ma anche della capacità di attrattiva che Sesto San Giovanni avrà in questi anni, sfidando la sua crisi passata e proponendosi come modello, piccolo ma efficace, per superare la crisi che oggi tutta l’Italia vive.
Dall’ufficio al funzionoide di Andrea Branzi
Nel 2001 è uscito un interessante libro di Hans Ulrich Obrist e Barbara Vanderlinden, edito dagli stessi autori (e stampato a Toronto) intitolato Laboratorium, che in circa 500 pagine raccoglie una lunga serie di interviste e di riflessioni sul tema del luogo di lavoro e di come esso si evolve oggi verso forme avanzate di “indeterminazione funzionale”. Il libro si pone come uno dei pochi contributi analitici sul fronte delle modificazioni interne alla città contemporanea nell’epoca del lavoro diffuso e dell’economia relazionale,
dere accessibili i patrimoni archivistici e culturali del sistema imprenditoriale. La Fondazione Ansaldo non esaurisce il proprio compito tutelando le culture del mondo dell’economia e del lavoro, ma si configura come luogo dove: favorire la convergenza delle discipline che studiano i saperi originati dall’azione imprenditoriale; agevolare l’incontro d’intellettuali che hanno l’impresa come interlocutore o come centro della propria azione; promuovere il sistema locale delle imprese attraverso la dimensione culturale. In quest’ambito è il più importante polo
archivistico del Paese. Possiede milioni di documenti relativi a industrie dalla metà dell’800 al II dopoguerra; raccoglie circa trecentomila fotografie riferite ad attività imprenditoriali e al mondo del lavoro a partire dalla fine dell’800 e conserva oltre tremila filmati relativi alla vita economica, sociale e culturale di Liguria e non. La Fondazione fa parte dell’Associazione Nazionale Archivistica Italiana, dell’Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale, della Fédération Internationale des Archives du Film, dell’International Council on Archives.
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Stabilimento Elettrotecnico Ansaldo di Cornigliano, Genova, reparto avvolgimenti elettrici, 1962.
e di come la Terza Rivoluzione Industriale (o post-industriale) sta determinando una sorta di “liquefazione” (come direbbe Zigmunt Bauman) dei perimetri e delle specializzazioni funzionali degli spazi interni, non più corrispondenti ad attività pre-determinate e programmate, ma disponibili a flussi di necessità diverse, che si coagulano di volta in volta in dispositivi temporanei, per poi evadere verso assetti funzionali nuovi e sempre provvisori. In altre parole, si sta passando dal vecchio ordinamento tipologico, che corrisponde ad organizzazioni razionali degli spazi progettati attorno ad attività permanenti e ergonomicamente specializzate, a una nuova generazione di luoghi “a bassa identità funzionale”, ma proprio per questo disponibili a rispondere positivamente a molte e diverse domande d’uso. La logica dei computer dunque sta acquistando una dimensione più generale, che riguarda anche l’assetto degli spazi urbani, che come le strumentazioni elettroniche non hanno una sola funzione, ma sono piuttosto dei “funzionoidi” che rispondono a tante funzioni quante sono necessità dell’operatore. Questa trasformazione non riguarda soltanto i luoghi di
lavoro, ma corrisponde a una sorta di assetto spontaneo della città contemporanea, dove all’inizio del XXI secolo assistiamo a una sorta di rivoluzione funzionale di tutto il patrimonio immobiliare, che senza produrre effetti esterni vistosi, viene utilizzato in maniera sempre più liberalizzata: si abita in ufficio, si lavora in casa, si fanno università nelle fabbriche, musei nei gasometri, gallerie d’arte nei magazzini, garage nelle chiese, fino a produrre una sorta di disassamento generale della città rispetto a se stessa e alle sue funzioni previste. Nell’epoca della globalizzazione e dell’informatizzazione del lavoro, la città contemporanea ha sempre urgenza di ri-funzionalizzare se stessa per adattarsi a necessità non previste, seguendo una energia evolutiva interna che le permette di gestire in maniera positiva il suo stato di crisi permanente. Il Laboratorium di cui Hans Obrist e Barbara Vanderlinden parlano è dunque un luogo apparentemente “indeterminato e opaco” (cioè fuori dalla tradizione illuminista), destinato a una attività lavorativa in termini totali e non specializzati, quindi creativa, scientifica, espositiva o teatrale, dove il lavoro non è più produzione, ma informazione, gestione e elaborazione di innovazione.
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Stabilimento Meccanico Ansaldo di Sampierdarena, Genova, navata macchine utensili, 1960.
Un luogo quindi neo-classico perché pre-moderno (non specializzato), basilicale, incubetor di infiniti genomi operativi. In certo senso esso corrisponde ai luoghi di una nuova modernità; una modernità debole e diffusa che non cerca più, come nel XX secolo, soluzioni definitive da raggiungere attraverso progetti forti e concentrati; essa opera al contrario attraverso dispositivi reversibili, modelli incompleti, strutture elastiche che le permettono di affrontare senza fratture il continuo cambiamento degli assetti sociali e tecnologici, prodotti dall’innovazione ininterrotta che la nostra società progettante esprime. Il basso livello di identità dei luoghi di lavoro deriva anche dal fatto che essi esistono solo come nodi (link) di una rete, come siti che appartengono a territori informatici illimitati e inesplorabili: i loro confini diventano quindi sfumati, immateriali, segmenti di una realtà globalizzata che ne disperde gli elementi di unicità, in un oceano sconosciuto di relazioni operative. L’epoca informatica non riguarda semplicemente l’avvento di nuovi strumenti di lavoro, ma riguarda la condizione esistenziale dell’uomo
contemporaneo, e comporta una modificazione profonda dell’identità dei luoghi e degli spazi. L’architettura moderna è nata nell’epoca della meccanica, una tecnologia basata sullo spostamento dei corpi, sulle costruzioni di grandi circuiti figurativi, sul rumore prodotto dallo stress degli ingranaggi: essa trova grande difficoltà a rinnovarsi in questo contesto così diverso, dove non sono i corpi a spostarsi ma le informazioni, dove i luoghi perdono identità e diventano interscambiabili, dove la tecnologia, simile alla fisiologia umana, opera nel più assoluto silenzio. Non si tratta più una realtà figurativa, ma di una modernità diversa, più immateriale che compositiva. Le frontiere della ricerca e della sperimentazione nel progetto, cominciano dall’infinitamente piccolo, dal marginale, dai sotto-sistemi e dalle micro-strutture quotidiane, non più dai mega-progetti generali. La città sembra diventare oggi un unico grande tessuto operativo che attraversa le scatole dell’architettura, per creare una semiosfera fatta di esperienze, sensazioni e informazioni; dove il progetto deve rifondarsi senza produrre rigidità e confini invalicabili.
Vittorio Gregotti M. C. Dall’85 Lei si è occupato della trasformazione degli stabilimenti Pirelli alla Bicocca, uno dei grandi insediamenti industriali dei primi del ’900. Un luogo deputato quasi esclusivamente al lavoro (denominato Quartiere Industriale Nord Milano) è diventato una parte di città in cui sono presenti varie funzioni: residenza, teatro, ecc. Il progetto Bicocca ha avuto in un certo senso un ruolo inaugurale nelle trasformazioni nelle grandi aree urbane dismesse dall’industria. A vent’anni di distanza dall’inizio di questa trasformazione che considerazioni è possibile fare sui suoi risultati? V. G. Vi sono due diverse risposte. La prima riguarda gli effetti sulla vita collettiva dell’area e del suo intorno. Molte iniziative si sono sviluppate nelle aree circostanti quale effetto delle funzioni di eccellenza insediate. All’interno dell’area l’effetto di mescolanza funzionale e sociale sta ottenendo i risultati previsti, così come le capacità attrattive delle funzioni importanti insediate (università, teatro, sedi di grandi aziende, e in futuro l’insediamento dell’Ospedale Besta) hanno a pieno titolo inserito l’area Bicocca tra i protagonisti dell’area milanese. In tutto questo ha giocato anche il suo ruolo territoriale: la collocazione nel nord Milano. Alcune realizzazioni sono in ritardo rispetto alle previsioni: prima di tutto i servizi commerciali, solo ora in corso di realizzazione, che sono troppo deboli e non sufficientemente distribuiti. È naturalmente doloroso constatare che l’incapacità di previsione degli organi istituzionali abbiano provocato una crisi di gestione del Teatro degli Arcimboldi che aveva dimostrato negli anni scorsi tutta la sua capacità di conquista del nuovo pubblico e di servire il bacino del nord Milano. Il sistema dei trasporti pubblici e della viabilità stradale sono insufficienti e incompleti e dovranno fare i conti con gli interrogativi posti dal futuro sviluppo dell’area Ansaldo a nord dell’area Bicocca e dell’incerto destino delle sue aree. La nostra impazienza è sempre delusa dalla lentezza della crescita del verde. La possibilità di percorrenza pubblica degli spazi è stata mantenuta anche se le sistemazioni a terra sono lontane dall’essere compiute. La seconda risposta riguarda la nostra disciplina: la Bicocca come esperimento concreto di disegno urbano unitario e riconoscibile e per questo aperto all’immaginazione sociale e capace di resistere al tempo. Un’architettura del progetto come dialogo strutturale con il contesto e la sua storia, l’importanza dello spa-
zio tra le cose come architettura e dei princìpi di organicità, semplicità e ordine in quanto modo in cui le cose si rivelano alla nostra percezione. Una presa di posizione contro l’architettura della città come scenografia urbana o come collezione di oggetti di design ingranditi. M. C. In questi decenni le città hanno avuto, e in parte hanno, un’occasione di poter fare grandi progetti a partire dalle quantità rilevanti di superficie di cui disponevano le industrie divenute aree libere a proprietà ancora indivisa. A suo giudizio, le città stanno sfruttando bene quest’occasione, forse irripetibile nella struttura consolidata della città, sempre più frammentata in proprietà che rendono molto difficili le trasformazioni? L’amministrazione pubblica riesce a svolgere un ruolo nella definizione di spazi, funzioni e usi collettivi? V. G. Credo che in generale l’occasione storica di questi ultimi trent’anni di riutilizzazione delle aree infrastrutturali, di servizi e industriali dismesse sia stata in Europa (salvo rari casi) male utilizzata, cioè mal connessa a ipotesi complessive di modificazione, che l’ideologia della deregolazione ha rifiutato. In Italia forse solo la città di Roma che, dopo più di quarant’anni ha un piano, è stata capace di formulare ipotesi organiche per la riqualificazione delle periferie, come quella delle nuove centralità. M. C. Nei centri urbani si assiste a un ritorno della residenza e dei servizi in luogo delle industrie e a una periferizzazione dei centri commerciali che si costruiscono su aree libere ai margini della città. Non sembra, ancora una volta, mutate le funzioni, un tradizionale modello d’espansione urbana guidato da meccanismi di mercato fondiario? La pianificazione riesce a guidare tali fenomeni, o come spesso è accaduto, sono le contingenze e le opportunità che determinano le scelte di piano? V. G. L’urbanistica contrattata oscilla in modo pericoloso verso un’urbanistica degli interessi privati (come dimostra il caso dell’area centrale dell’ex Fiera), anziché costituirsi come rafforzamento dell’indispensabile collaborazione tra pubblico e privato. Ma questo, si sa, è possibile sulla base della costituzione di un’idea comune dell’interesse collettivo e di una sua politica, cose che, nella condizione odierna, sembrano lontane.
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Tre domande a…
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Bergamo a cura di Antonio Cortinovis e Gabrio Rossi
I nuovi luoghi di lavoro Addio vecchio, amato e polveroso studio di architettura. Lì accantonati, disegni, carte diverse, lucidi arrotolati sul tavolo del tecnigrafo (quasi sempre inutilizzato), macchina da scrivere, telefono: addio. Oggi lo studio di architettura, quello dei Muzio, degli Alpago Novello, di Bergonzo, di Angelini che ho avuto modo di conoscere, non ha più ragione di esistere. Dall’interno di una veloce e ovattata macchina, durante viaggi interminabili tra un cantiere e l’altro, tra un incontro in comune o nelle aule dell’università e un aperitivo, si può fare di tutto. Basta avere un buon telefonino con vivavoce e via… l’ufficio è così ridotto al minimo: un computer che dialoga col mondo, un sistema di stampa informatizzato, i disegni escono già eseguiti, bianco su nero, nero su bianco, colorati. Ecco, questi sono i nuovi luoghi di lavoro, dove si sviluppano le nuove attività dell’ingegno. Ma a dire il vero, questi problemi erano già stati affrontati negli anni ottanta del secolo scorso, quando veniva messo in discussione l’ufficio tradizionale, quello della sedia girevole, delle scrivanie Olivetti e della segretaria scosciata. Riviste come “Habitat Ufficio”, al tempo leader di pensiero nel settore della progettazione degli spazi di lavoro interni, aveva anticipato come l’informatica, allora all’inizio, avrebbe cambiato radicalmente il modo di lavorare. Anche negli anni Trenta, sempre del Novecento, numerosi architetti si cimentarono con i nuovi luoghi lavorativi, come quelli degli open space, eliminando barriere, creando con l’architettura razionale la cosiddetta “casa di vetro”, applicata soprattutto alla realizzazione degli edifici di regime, come le “case del fascio”, che dovevano essere accessibili a tutti (forse troppo utopicamente) sia fisicamente che visivamente, in un rapporto diretto tra popolo e potere gerarchico e viceversa. Ma questo è storia. Il problema vero è che quando i “nuovi luoghi di lavoro” assumono valenze ambigue per ribaltare in modo sotterraneo i valori del lavoro e della professionalità, allora le problematiche cambiano. Mi riferisco in particolare agli impieghi subordinati, momentanei, a tempo determinato, che sempre più costituiscono l’unica via di uscita dal parcheggio d’impiego delle nuove generazioni di architetti, a causa anche della professione stessa, che è stata volutamente parcellizzata in innumerevoli sottoprodotti specialistici fatti passare per “ assestamento di mercato”. Perciò ad una ad una “nuova professionalità” corrisponde un “nuovo posto di lavoro” non più immagine di chi lo
Visita al cantiere del “kilometro rosso”.
frequenta, plasmato dalle scelte culturali degli operatori (e penso con nostalgia agli atelier di Giò Ponti o dei BBPR), ma spazio labile, inesistente, amorfo. Bianchi pannelli su bianche pareti, dove addirittura magari il cuore principale e propulsore dell’attività batte lontano, negli uffici di un’impresa o nel caveau di una banca. Ormai è risaputo che dietro ai grandi progetti, la creatività pura è solo una “scusante” a volte ideologica e, perché no, speculativa; ma questo lo possiamo anche accettare perché è naturale che esista il giusto profitto come le giuste idee ed entrambi possano convivere. Oggi le grandi operazioni urbane, i grandi interventi architettonici hanno ormai più cuori e più cervelli. Qui si progetta, lì si eseguono i disegni, da un’altra parte le strutture e tutto viene poi confezionato in un altro posto ancora (è il mondo della globalizzazione, non dimentichiamolo!). Lo stilema, l’obsoleto “segno geniale”, il particolare è sparito. Anzi, sembrava sparito, perché per fortuna qualche noto collega lo conserva ancora e lo mette a disposizione della comunità tutta. Parlo dell’ormai famoso “kilometro rosso” di Jean Nouvel che accompagnerà per un tratto l’autostrada Milano-Bergamo, quella stessa che fu concepita nel 1925 come banco di prova per le rosse Alfa Romeo, seconda autostrada d’Italia dopo la Milano-Varese. Presentato due anni fa alla Biennale di Venezia, supportato da una mostra nella nostra città, questo “kilometro rosso” è la forma finale portata alle estreme conseguenze di quella ambiguità guittonesca di cui prima parlavo. Non entro nel merito delle scelte progettuali, ma di quelle culturali, sì. Vediamole insieme: • “kilometro rosso” come diaframma che nasconde qualcosa (cattiva coscienza?), quando l’architettura vera invece deve essere manifesta; • “kilometro rosso” che interviene in modo inopportuno, mutando il rapporto col “paesaggio interiorizzato” nel tempo da ognuno di noi verso la propria terra; • “kilometro rosso” che diventa metafora (leggi meglio specchietto per le allodole) per il rilancio occupazionale di una zona che non aveva altro bisogno che di una razionalizzazione dell’esistente; • “kilometro rosso” volano verso “nuovi luoghi di lavoro” come Polo Tecnologico avanzato, o banale trasferimento di attività industriali già presenti sul territorio? (leggi comune piano di lottizzazione d’area) La “vera architettura” di un tempo, quella del nostro straordinario paesaggio lombardo, “bello come il suo nobile sangue” di manzoniana memoria, era la linea di orizzonte fatta di filari di pioppi, di gelsi, di salici, di platani, di siepi mortella, barriere di “kilometri verdi” che nulla avevano da nascondere! Ma ormai questi sono i tempi, quelli dei “nuovi luoghi di lavoro”. Eugenio Guglielmi
Vedute del progetto.
a cura di Laura Dalè e Paola Tonelli
Musil: Museo dell’Industria e del Lavoro “Eugenio Battisti” Nell’ottobre 2005, è stato presentato a Brescia, il progetto per la realizzazione del Museo dell’Industria e del Lavoro “Eugenio Battisti” che aspira a divenire il più importante museo europeo dedicato all’industrializzazione. Gli obiettivi di questo museo sono il documentare lo sviluppo dell’industria italiana dal decollo della rivoluzione industriale agli esiti odierni, impiegando un patrimonio di macchine, oggetti, documenti e conoscenze per una presentazione dei momenti fondamentali della storia del Novecento italiano. Si vuole costituire un’unica istituzione permanente per la raccolta dei dati relativi al patrimonio archeologico industriale lombardo e nazionale, che si occupi anche della loro interpretazione e restituzione alla collettività, e che sia strumento di definizione della identità locale e territoriale. Verranno erogati inoltre servizi relativamente alle azioni di comunicazione e promozione del patrimonio storico-industriale, in una strategia di incentivazione dei nuovi fenomeni di industrial tourism. Numerosi sono i soggetti coinvolti in questo intervento, oltre al Comune di Brescia, la Regione, la Provincia, i comuni di Cedegolo e Rodengo Saiano, la Comunità Montana di Valle Camonica, l’Università degli studi di Brescia, l’A.S.M. Brescia S.p.a., con l’adesione dell’associazione Museo dell’Industria e del Lavoro “E. Battisti”, della fondazione Civiltà Bresciana e della Fondazione Luigi Micheletti. Si costituirà infatti una struttura museale policentrica, diffusa sul territorio: in via San Bartolomeo, con l’arricchimento, ammodernamento e adeguamento agli standard museali regionali del Museo del Ferro, dove è presente il corredo completo della fucina dismessa, a Cedegolo con il recupero della centrale Enel dismessa e sua riconversione in Museo dell’Energia Idroelettrica di Valle Camonica, a Rodengo Saiano, con l’allestimento in un ex supermercato, contiguo ad una grande struttura commerciale (Franciacorta Outlet Village), di un magazzino, che assumerà la denominazione di “Città delle Macchine”, che diventerà la struttura principale del sistema museale per la gestione della collezione di macchinari, e sarà l’unico caso in Italia di collocazione di una struttura museale nel contesto di una struttura commerciale di massa. Il nucleo centrale di tutto il sistema, il Museo dell’Industria e del Lavoro “Eugenio Battisti” troverà collocazione nell’area industriale dismessa di Brescia denominata Comparto Milano, e più precisamente nell’immobile ex stabilimento Tempini, e ad esso si affiancherà una biblioteca moderna, integrata con il Museo e con il Sistema Bibliotecario di Brescia. Il progetto per la trasformazione dello stabilimento Tempini, costituito da strutture industriali edificate in epoca diversa
con differenti tipologie costruttive, è degli architetti berlinesi Klaus Schuwerk e Jan Kleihues, vincitori del concorso a procedura ristretta, bandito dal Comune di Brescia nel 2003. Richiamiamo qui brevemente la filosofia di progetto espressa nella relazione di concorso: “un metodo specificamente industriale, quello della serialità, utilizzato per la produzione di oggetti d’uso, nel progetto viene ereditato e adottato, ribaltandone il senso, per raggiungere un fine antitetico: realizzare spazi della “memoria culturale”. Quello che nella fabbrica aveva logica di pura utilità, conferisce al museo valore di permanenza. Da questa contraddizione tra la natura non permanente dell‘industrializzazione (la logica dell’utilità e dell’usa e getta) e quella permanente dell‘istituzione museale si sviluppa la logica del progetto. Nella torre, cui non corrisponde alcuna funzione specifica, impensabile nella logica utilitaristica dell‘industria, questo tema acquisisce la maggiore densità (Heidegger ha evidenziato che il termine Dichtung indica sia poesia che densità). Quindi la torre ha un valore simbolico, ma è anche un segnale della presenza del museo a scala urbanistica (un segnale ed un punto di riferimento anche di notte, essendo illuminata dall’interno) e luogo privilegiato di lettura della città; essa – come si vede nel modello – costituisce il terminale visivo dello spazio lineare tra laminatoio e museo e ne evidenzia l’ingresso per chi lo raggiunge a piedi dal centro della città. La scelta non semplice di collocare l‘ingresso principale al museo sul fronte meridionale della fabbrica discende dal fatto che sia il trasporto pubblico che i mezzi privati (auto e pullman turistici) raggiungono l’area soprattutto da questo lato. Questa è anche una scelta di natura architettonica: il museo è pensato come un sistema di hall lineari che si sviluppa lungo l’intero edificio, consentendone una lettura in successione. Il primo tratto della hall lineare, che parte dall’atrio d‘ingresso, è uno spazio interno dal quale si accede all‘auditorium e alla sala di lettura del museo che si salda con la corte d’acqua, posta tra la fabbrica e il recinto cimiteriale. L’ultimo tratto è una stoà che media il rapporto tra lo spazio delle esposizioni permanenti e la piazza lineare, come luogo di contemplazione in contrasto a quello della concentrazione dello spazio museale. Per la parte esistente sono previsti, oltre al restauro delle strutture, pochi interventi tesi a rafforzare il carattere e le suggestioni dell’esistente: il ripristino dei lucernari, integrati da frangisole per garantire il controllo della radiazione solare; la realizzazione del piano ammezzato della biblioteca, con struttura in acciaio, utilizzato nel suo più semplice aspetto industriale; la messa in opera di una pavimentazione di tipo industriale a getto di cemento e resina, con alte caratteristiche di resistenza; il recupero del paramento murario in mattoni che chiude ad est la biblioteca. I laboratori del museo sono stati collocati nello spazio dell’esposizione permanente in un volume vetrato, come in una teca, attraverso il quale è possibile osservare il lavoro di manutenzione e restauro delle macchine, ed eventualmente anche accedervi. P. T.
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Brescia
Area Ticosa (fonte: Comune di Como, sezione Urbanistica).
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Como
un’opera di “maquillage” attraverso un disegno più strutturale che dovrà essere condiviso da tutte le parti sociali.
a cura di Roberta Fasola
Attualmente sembra che Como stia puntando anche su iniziative di tipo edilizio. Come si relaziona questo alla crisi economica che ha investito la nostra città? Il P.R.G. privilegia la rendita fondiaria: con il passaggio di un comparto da industriale a residenziale o commerciale e con ovvia acquisizione economica di valore, si incentiva automaticamente l’abbandono di queste strutture, ed è innegabile che questo si ripercuota nella crisi dell’economia di questa città: il commercio non produce, infatti, reddito, ma trasforma reddito. Como ha vissuto in questi anni una grande crescita edilizia (forse meno da parte di investitori singoli e più da parte di grandi investitori; es. i fondi pensione) anche se qualche volta, forse troppe, con una limitata qualità del prodotto.
Si è deciso di incontrare l’assessore Giuseppe Santangelo, responsabile all’Urbanistica e Politiche del Territorio del Comune di Como, per accogliere il punto di vista di un’amministrazione sulle tematiche aperte dalla trasformazione del lavoro, che ha fortemente investito la nostra città in questi ultimi decenni e della sua influenza sulla trasformazione delle aree urbane, nonché ascoltare le strategie ipotizzate per affrontare in maniera economicamente costruttiva la situazione che si è venuta creando relativamente sia ai luoghi del lavoro in senso “fisico” che sociologico.
Intervista a Giuseppe Santangelo Come ha influito la crisi del tessile e la conseguente trasformazione del luogo di lavoro sulle aree urbane? Attualmente cosa certa è la presenza di una scarsa chiarezza negli orientamenti: Como, infatti, è passata dall’essere “città della seta” ad una realtà altra scarsamente definita, anche se non si può parlare di una decentralizzazione dell’azienda a favore del lavoro a casa (fenomeno quest’ultimo, che è esistito da sempre, grazie all’imprenditoria minuta); piuttosto si potrebbe parlare del problema dello svuotamento dei luoghi di produzione, i quali non possono più essere riutilizzati come nuove realtà industriali a seguito dei problemi ad essi legati dell’inquinamento sia di tipo acustico che materico degli scarti. Come il P.R.G. ha tentato di venire in aiuto a questo problema? Il P.R.G. ha voluto dare una forte spinta alla trasformazione di queste aree, anche se la sola pianificazione urbanistica non è in grado di fornire una risposta totalmente risolutiva in questo senso. La questione, infatti, è che per definire il progetto urbano è necessario individuare gli imprenditori che vi concorrono e che siano in grado di stabilire quelli che potrebbero essere i futuri scenari professionali. Una certa risposta sembrerebbe essere fornita dal turismo, ma questo non può essere l’unica fonte di reddito: anche a Venezia (città indubbiamente più turistica di Como) la struttura economica è stata supportata dall’industria chimica. Il turismo, da solo, non è assolutamente in grado di sostituire il tessile, occorre non trascurare altre opportunità, quali potrebbero essere l’Università o il sistema del trasporto merci. Da qui un ulteriore quesito: programmare migliori e/o nuovi sistemi infrastrutturali o orientarsi verso un produttivo terziario o quaternario che operi più in rete e meno sulle strade? Risposta non semplice da trovarsi anche se è certo che è necessario individuare imprenditori che siano in grado di partecipare economicamente alla città del futuro, reimpostando
L’ormai nota questione legata all’area della Ticosa potrebbe fornire un’ulteriore risposta in questa direzione? Volendo l’area Ticosa potrebbe essere ancora utilizzata come produttivo. Nel tempo, questa zona, da periferica è diventata semi-centrale. Si potrebbe pensare ad un produttivo ad alto contenuto tecnologico e basso impatto ambientale, acustico ed urbanistico, anche se il fatto di trovarsi collocata lontano dalle vie di trasporto più comuni (autostrade e ferrovie) è causa di non pochi problemi: le grosse società prediligono ovviamente luoghi di lavoro magari meno suggestivi, ma sicuramente più comodi da raggiungere. Da qui la volontà di integrare l’area maggiormente col tessuto urbano attraverso l’ipotesi di interramento di via Grandi, il recupero del percorso storico pedonale tra via Milano, Santa Chiara ed il Cimitero Monumentale. È un tentativo di creare un secondo polo di attrazione a supporto del Duomo e del Centro Storico, non creando un centro commerciale, ma sviluppando temi che siano in grado di definire un nuovo spazio urbano integrato e al tempo stesso autonomo. Un’altra area che mi sembrerebbe interessante recuperare alla città potrebbe essere quella occupata dal comparto delle Caserme... Sicuramente, anche se non sarà facilmente messa a disposizione all’uso pubblico. Potrebbe però suggerire qualche iniziativa interessante: laboratori per l’Università e la ricerca con le residenze ad esse collegate, nuove sedi per la Guardia di Finanza, l’Inail, per diventare una sorta di polo di terziario pubblico della città che ora trova collocazioni decentrate e non sempre idonee. Lei ha parlato di Ticosa quale un “secondo Centro Storico”, a supporto di quello vero. Se e come si può auspicare anche una trasformazione della struttura economica di quest’ultimo? La rivalorizzazione del Centro Storico non può che passare attraverso una riflessione sui prezzi di mercato degli immo-
Veduta dell’interno del nuovo Palazzo del Commercio.
R. F.
Lecco a cura di M. Elisabetta Ripamonti
I luoghi di lavoro, anche nella provincia di Lecco, si sono trasformati notevolmente negli ultimi anni, portando ad una modifica anche nella struttura del territorio. Spesso le aree produttive dismesse sono divenute nuovi ambiti residenziali, oppure sono state destinate ad altre funzioni. Ricordiamo, solo per citarne alcune, l’area dell’ex-Caleotto che ha visto la realizzazione del centro Le Meridiane di Renzo Piano, quella dell’ex-Piccola Velocità che sarà sede del nuovo Politecnico, l’area ex-Faini che diverrà un nuovo centro espositivo museale. In provincia molti edifici destinati in passato all’attività agricola hanno una nuova funzione residenziale. In città si è assistito ad una modifica radicale del concetto di lavoro i cui luoghi sono divenuti, a volte, immateriali causando lo svuotamento di palazzi, precedentemente destinati ad uffici. L’esempio di Palazzo Falck, illustrato in questa sede dalla progettista, arch. Virginia Tentori che ringrazio per la disponibilità, rappresenta un riuscito esempio di riutilizzo e trasformazione di questi luoghi di lavoro a Lecco. M. E. R.
La riconversione funzionale del palazzo Falck Palazzo Falck, insieme al teatro della società ed alla sede della Banca Popolare di Lecco, costituisce un brano significativo della città, la piazza Garibaldi, in quanto partecipa in forma significativa alla costruzione dello spazio architettonico. Nato nei primissimi anni del ’900 quale sede della Banca di Lecco, poi diventato sede della Banca d’Italia, presenta una storia ricca di trasformazioni funzionali.
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Se la sede della Banca, nata nel 1901, interessava solo il piano terra insieme ad alcune “botteghe”, destinando i piani superiori a residenza, la prima trasformazione ha riguardato la collocazione della biblioteca comunale e dell’Assessorato all’Istruzione e Cultura, insieme alle sedi di associazioni di volontariato, per conoscere, infine, una chiusura totale durata circa vent’anni che ha preceduto il restauro del quale mi sono occupata. Oggi, dopo un iter procedurale iniziato nel 2001 e un cantiere di 15 mesi, si ripresenta completamente rinnovato alla città quale Palazzo del Commercio, sede rappresentativa dell’Unione commercianti della provincia di Lecco. ll progetto di restauro porta in sé la consapevolezza di un intervento in un luogo carico di memoria, nel quale l’edificio si relaziona sia con il contesto urbano, ma anche, soprattutto, con il suo impianto interno, caratterizzato dal continuo succedersi di un ambiente con l’altro, ruotando attorno al nucleo centrale, oggi reception al piano terra e cortile a cielo aperto al primo piano. Il primo tema affrontato con la committenza, dopo il lungo iter che ha preceduto l’acquisto trattandosi di immobile vincolato dal Ministero per i Beni Culturali, ha riguardato il metodo di intervento. La committenza è stata coinvolta nella progettazione esecutiva al fine di garantire la consapevolezza di alcune scelte compiute per realizzare un intervento capace di adattare le proprie esigenze funzionali ai limiti dettati dalla conformazione particolare dell’edificio. Infatti, le esigenze dell’Unione Commercianti in termini di spazio mal si coniugavano con l’impianto tipologico presente; pertanto si è analizzato il rapporto da instaurare tra edificio e progetto, con un percorso che ha portato alla consapevolezza che il valore dell’edificio era dettato anche dal suo essere nato per funzioni diverse. La riconversione funzionale doveva interagire con alcuni vincoli distributivi interni in un rapporto di reciproco dialogo e trasformazione, senza diventare elemento conflittuale per la riuscita di un buon progetto. Il restauro che ne è scaturito ha portato al mantenimento dell’impianto tipologico nelle sue linee essenziali, nonché all’adeguamento tecnologico-impiantistico reso possibile senza eccessivi disagi dalle ampie dimensioni degli ambienti. Sebbene sarebbe risultato più facile ed economico procedere con la demolizione delle strutture orizzontali, che avrebbe portato ad un incremento delle superfici (avendo la struttura esistente altezze interne pari a 6,00 m al piano terra e 4,60 m
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bili, magari con la dotazione di nuovi posti auto pertinenziati alle unità residenziali. Purtroppo sussiste il problema del P.R.G. non validato dalla Regione per le zone A1: si vuole una maggiore definizione dei criteri di intervento (catalogazione degli edifici con fotografie e schede); l’integrazione di norme progettuali più precise; si richiede un piano del colore. Sulla questione dei luoghi di lavoro all’interno del comparto storico non c’è la possibilità di inserire grandi insediamenti produttivi ma, tuttavia, sussiste la volontà di riportare la residenza al suo interno. Bisogna riportare l’anima (la gente) alla città; oltre al bello da vedere ci deve essere altro: bisogna andare oltre il concetto di centro commerciale.
Insediamento logistico nel lodigiano.
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al primo piano) la committenza ha dimostrato un elevato grado di sensibilità culturale, sposando la proposta di attenersi all’involucro già dato, sacrificando le proprie esigenze funzionali e aumentando i costi complessivi da sostenere. La struttura portante dei solai, rivelatasi nel corso delle operazioni di restauro a tratti in precarie condizioni di stabilità, è stata consolidata utilizzando diverse tecnologie avanzate: bande in fibra di carbonio, travi in acciaio, travi in cemento armato. Il tutto mantenendo rigorosamente in essere i pre-esistenti solai. Tutti i piani sono stati forniti di impianto di riscaldamento e condizionamento, realizzato a soffitto al fine di mantenere i pavimenti esistenti. I pavimenti interni in legno, i portoni d’ingresso, alcune tipologie di porte interne sono stati recuperati. Nel corso del restauro è stato rinvenuto un affresco all’interno della sala principale al piano terra, nata come Sala del Consiglio, rimasto nascosto per decenni dalla successiva posa di un solaio in travetti. Gli ambienti interni sono sostanzialmente dedicati ai diversi settori funzionali nei quali è suddivisa un’associazione di categoria, posizionando ai piani inferiori gli uffici di maggior frequentazione, al primo piano il settore direzionale unitamente alla sede del fondo di garanzia al credito ed all’ultimo piano la zona destinata alla formazione dei propri iscritti. L’architettura interna ha consentito di introdurre degli elementi progettuali nuovi. Tra questi, la grande reception al piano terra realizzata in marmo bianco venatino, che diventa un pozzo di luce visibile anche dall’esterno della piazza principale. Al primo piano è stata realizzata una parete inclinata che collega la zona ascensore con la parte direzionale, con l’obiettivo di esaltare la prospettiva visiva, contrastando per forma e colore con le parti pre-esistenti. E tanti altri elementi minori che, risolvendo problematiche puntuali, sono diventati occasioni per re-inventare gli ambienti mantenendo l’identità complessiva dell’edificio. Virginia Tentori
Lodi a cura di Antonino Negrini
L’architetto Gio Gozzi, ha già trattato in passato per “AL” il tema delle periferie, quello del sistema universitario lombardo e quello dell’acqua e territorio. Ringrazio il collega per questo nuovo interessante contributo.
La trasformazione del territorio nel lodigiano I luoghi del lavoro sono anche immagine ed espressione dell’economia di un paese e, come pochi altri, sono in grado
di incidere sulla caratterizzazione di un territorio. I luoghi del lavoro sono espressione di un’economia e di una società. È così che l’Italia agricola del 1800 trovava espressione nel lodigiano attraverso le grandi cascine, alcune di dimensioni tali da fare comune a sé, nella delimitazione dei poderi tramite la piantata padana, nelle grandi distese coltivate. Il 1900, periodo di metamorfosi verso una prima industrializzazione, ha segnato il modificarsi dell’immagine delle città, dove i confini urbani, spesso ancora dentro la cerchia delle vecchie mura, o comunque dei limiti storici dell’abitato, cedono ai grandi complessi industriali. Nascono le periferie, cambia l’economia, muta l’immagine del territorio. I luoghi del lavoro segnano un nuovo paesaggio.Cambiamenti sostanziali ed epocali, ma diluiti in molti anni, al passo degli uomini che li attuavano, così da venire visti, compresi, assimilati, senza traumi o cesure drastiche col passato. Forse è stata più problematica la repentina scomparsa di un paesaggio industriale urbano, consumatasi in pochi decenni, lasciando ampie zone dismesse all’interno del tessuto cittadino. A Lodi possiamo citare vaste aree quali l’ABB, la Pharmagel, i magazzini generali, le officine Rasini, il Consorzio Agrario, il mangimificio Ferrari, il linificio e altri; purtroppo tutte occasioni perse, perché in quasi tutti i casi, la riconversione si è attuata tramite la demolizione degli edifici esistenti e la realizzazione di nuovi, a destinazione residenziale e commerciale, perdendo l’opportunità di sfruttare quelle aree, generalmente strategiche per posizione e dimensione, per attuare una progettualità che tenesse conto delle esigenze e dello sviluppo del territorio. In altre città si è puntato, tramite convenzioni tra pubblico e privato, alla realizzazione anche di servizi per la collettività, di terziario avanzato che potesse creare sviluppo, di interventi che, pur salvaguardando l’interesse privato, fossero anche di beneficio alla comunità locale. Lodi purtroppo paga in questo una mentalità piccola piccola, dove i progetti si valutano nella loro immediatezza e non sul lungo periodo, operando speculazioni edilizie di basso cabotaggio. Negli ultimi dieci anni però, abbiamo assistito ad un nuovo radicale mutamento del paesaggio lodigiano, ancor più forte se pensiamo che si è attuato in un lasso di tempo breve e con interventi invasivi oltre il limite dell’accettazione. Caratterizzante di quest’ultimo decennio è poi la velocità con cui si attuano mutamenti anche radicali (dell’economia, degli usi e costumi, del paesaggio, ecc.), dove essi vengono consumati, prima ancora di essere compresi ed assimilati, lasciandoci talvolta impotenti ed incapaci di reagire. E così che, abbandonate le cascine e dismesse le fabbriche è ora il tempo della logistica, cresciuta senza regole, su estensioni immense, con collocazioni discutibili, anche in paesi o frazioni, dove l’intervento realizzato ha raddoppiato la superficie del comune! Essa è purtroppo segno di un’economia malata, dove il proliferare dei capannoni della logistica altro non dice se non che l’Italia è un paese che non produce più, ma un paese che compra all’estero
Gio Gozzi
Mantova a cura di Sergio Cavalieri
I luoghi del lavoro mantovano L’analisi dello stato contemporaneo dello sviluppo e della crescita delle città ci restituisce un’immagine sfaccettata,
prevalgono logiche discontinue e inarticolate: è il modello policentrico. Le città si costruiscono come costellazioni di attrattori, che sono riferibili tanto a criteri di crescita della città tradizionale, quanto ai modelli decentralizzati e anisotropi della città contemporanea. La struttura urbana che ne deriva si basa su una topografia sregolata, capace di ri-orientarsi continuamente in funzione dei flussi mutevoli che, alternativamente, la struttura stessa si trova nella necessità di captare. Dal punto di vista della progettazione urbana l’interpretazione di questi sistemi complessi fa riferimento ad un approccio che si confronta simultaneamente con le relazioni e le reti, tanto nella loro caratteristica di terminali locali, quanto nella loro dipendenza da network ramificati. È come se la periferia si fosse avvicinata al cuore antico delle città e le proprietà rintracciabili, un tempo, nel centro storico, si fossero sparse nei grandi contenitori privati e collettivi suburbani. Eppure, paradossalmente, queste nuove realtà in cui si travasano alcune proprietà della vita sociale un tempo appartenenti esclusivamente alla città compatta, arrivano a costituire nuove forme di identità, un volano di nuove energie, che, raccolte lungo le grandi arterie di scorrimento veloce, sono in seguito rimesse in circolo anche all’interno della città compatta. Si potrebbe dire che oggi si lavora ovunque. Ben lungi dalle esasperazioni di questi scenari offerti dalle città metropolitane, piuttosto che vocatamente industriali, le stesse logiche stanno investendo anche la tranquilla provincialità di operose cittadine di pianura come Mantova. Diviene spontaneo, allora, interrogarsi su come cambiano i modi di vivere, di spostarsi, di comunicare e di relazionarsi in un territorio che mantiene, forte, la sua vocazione prettamente agricola e zootecnica, inglobando fiorenti attività industriali e manifatturiere. Negli stessi luoghi di una volta, ma in modi e forme differenti. La colonizzazione di vaste porzioni di territorio negli immediati pressi dei centri urbani da parte di attività commerciali e terziarie ha solo in parte trasformato i modi di occupare il territorio, individuando, fisicamente, nuove cittadelle operaie, nelle quale si trasferiscono decine di operatori negli orari di apertura, ma che poi si svuotano, poichè l’integrazione con la residenza è praticamente assente. Ne emerge un sistema di spostamenti continui sul territorio per raggiungere luoghi che danno o consumano lavoro. Gli stessi territori attraversati, dalle campagne coltivate alle espansioni residenziali, possono essere considerati luoghi che danno o consumano lavoro, basti pensare alla quantità di personale impiegato nell’agricoltura, nel terziario avanzato, nell’assistenza domiciliare, nell’home office, ecc. In un proliferare di forme differenti di impiego che sottendono un insieme di relazioni sociali e interpersonali, fisiche, se possibile. È forse questo il dato che contraddistingue maggiormente il lavoro e le sue dinamiche in provincia. La velocità relativa degli spostamenti, rispetto alle aree metropolitane, permette la raggiungibilità e la fruibilità di luoghi e
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e ha necessità di immagazzinare e distribuire. È un cambiamento epocale dell’economia. Se quindi le cascine e le fabbriche erano i luoghi del lavoro, la logistica ne è l’opposto: essa è l’immagine di un’economia che non c’è, di un lavoro che non esiste, dove anche gli addetti del settore sono pochissimi (per un impianto di logistica di 50.000 mq vi sono circa una decina tra impiegati e magazzinieri). In compenso la logistica ha invaso tutto il territorio lodigiano, un po’ per la collocazione strategica – baricentrico tra le province di Milano, Pavia, Piacenza, Bergamo, Brescia, Cremona, a cavallo di due reti autostradali e una ferroviaria – un po’ perché la bassa densità edilizia permette una discreta velocità nei collegamenti un po’ perché i terreni costano meno che in altre zone della fascia milanese e un po’ perché la piccola dimensione dei comuni, fa sì che diventi facile contrattare con gli amministratori locali, abbagliati da oneri di urbanizzazione, da promesse mai mantenute di occupazione e da interessi che saranno di tutti, fuorché della collettività, i cambiamenti di destinazione di terreni agricoli in edificabili. È così che, se fino a qualche anno fa si poteva viaggiare nella campagna lodigiana e percepire gli agglomerati urbani nella loro dimensione e identità, orientandosi attraverso l’alternarsi di campagna e centri abitati, ora, su alcune aste viarie, si è attuato uno sfrangiamento dei confini comunali, dove i capannoni della logistica hanno unito i paesi formando nuovi paesi senza abitanti, allungati lungo le strade. Una volta il lodigiano era solito pubblicizzarsi nei cartelloni dell’APT come il territorio dei colori. Ora, ammesso che questi colori ci siano ancora, chi riesce più a vederli? Ha senso spendere il nostro territorio, ricco di storia, tradizioni, valori agricoli e paesaggistici, per diventare un grande magazzino? E a fronte di cosa? Pochi se non nessun posto di lavoro, problemi viabilistici, inquinamento dell’aria (il lodigiano detiene il record nazionale dei tumori), delle reti idriche, compromissione del territorio rurale (non si è mai verificato che un territorio edificato, una volta dismesso, fosse riconvertito all’uso agricolo). Occorre un momento di riflessione per valutare e decidere cosa vogliamo fare di questo nostro territorio.
Veduta dell’area delle cartiere Burgo.
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spazi, come il centro storico, o gli uffici pubblici, che sarebbero altrimenti difficilmente raggiungibili, o che, come nel caso dei servizi al cittadino, potrebbero oggi essere fruiti per esempio via web. È forse per questo motivo che l’atmosfera provinciale di città come Mantova può essere in parte ricondotta proprio a questo tipo di dinamiche. I tempi e i luoghi del lavoro si combinano ancora con i tempi e i luoghi della socialità, il lavoro domiciliare, qui più che altrove, stenta a decollare, le possibilità di incontro e di contatto si moltiplicano. Emblematico di questo stile di vita è il rito che la città consuma, a dispetto del tempo che passa e delle tecnologie, ogni giovedì, giorno in cui le vie del centro storico si animano con il mercato, mentre alla Borsa Merci, preferibilmente de visu, si svolgono le contrattazioni e le quotazioni dei generi agroalimentari. S. C.
Aree industriali e città Ragionare intorno al concetto di “luogo di lavoro” in questi anni, sembra in prima battuta un esercizio apparentemente retorico: tutti gli indicatori macro-economici sembrano infatti delineare come nel nostro paese il “lavoro”, o meglio l’offerta di lavoro, stia sempre più riducendosi, a causa delle rilocalizzazioni industriali in altri paesi dove le condizioni socio-economiche sono molto più favorevoli per gli imprenditori italiani. Anche la dismissione di vecchi luoghi di lavoro non determina in modo automatico lo spostamento dell’attività in uno spazio più esterno, più facile da raggiungere, ma spesso solo una riconversione (commerciale o residenziale) dell’area, a seconda degli interessi che muovono gli operatori immobiliari. In questo caso l’area dismessa (il vecchio luogo di lavoro) costituisce per gli operatori coinvolti mero capitale immobiliare da pesare sulla convenienza economica dell’investimento. Le grandi trasformazioni urbane sulla città di Mantova non sono più, da qualche tempo, caratterizzate dal tema del lavoro, ma molto spesso dai princìpi della speculazione edilizia residenziale, e soprattutto dalla fondazione/costruzione di “luoghi di consumo”. Mai come negli ultimi anni, infatti, sono sorti attorno alla città, centri commerciali, ipermercati, cinema multisala, città della moda, ecc… nuove funzioni urbane destinate a cambiare irreversibilmente il paesaggio urbano. Queste particolari funzioni, sia nell’immaginario collettivo, che dal punto di vista economico, hanno guidato le principali trasformazioni urbane, divenendo nuovi poli di attrazione per lo sviluppo di aree residenziali o di aree per insediamenti pubblici, fino al punto di costituire dei punti fissi verso i quali orientare addirittura la programmazione delle infrastrutture, ecc.
In questo scenario non esistono insediamenti produttivi tali da catalizzare lo sviluppo di un territorio in modo analogo a quanto poteva avvenire ad esempio negli anni cinquanta con la costruzione di una fabbrica. Questo non significa che non si costruiscano più luoghi o zone urbane destinate esclusivamente al mondo del lavoro e della produzione. Anche nell’hinterland della città di Mantova fioriscono lottizzazioni artigianali e nuove aree industriali, spesso ubicate in corrispondenza degli snodi delle infrastrutture di trasporto principali. Quali elementi di qualità ritroviamo in questi nuovi insediamenti? La maggior parte dei piani di lottizzazione destinati alle attività produttive purtroppo continuano ad essere concepiti esclusivamente secondo logiche di consumo (in questo caso di una risorsa sempre più costosa: il terreno fabbricabile), senza nessun ragionamento sulla qualità dell’ambiente urbano che sono destinati a produrre. Il principio che informa tali progetti si fonda su strategie commerciali che hanno come unico obiettivo la vendita alle migliori condizioni di “lotti di terreno fabbricabile”, cercando di ridurre a zero il costo di tutto ciò che non è direttamente vendibile (la strada, il parcheggio, il verde...). Lo spazio urbano che ne emerge appare totalmente anonimo, e l’unico valore riconosciuto dagli attori economici coinvolti risiede in caratteristiche posizionali quali l’ubicazione, la lunghezza del fronte strada, la superficie, la prossimità/disponibilità di servizi... I parametri esclusivamente quantitativi che sono alla base del progetto delle nuove lottizzazioni contribuiscono a riproporre una spazialità piatta, dove l’iterazione costante di alcune caratteristiche dominanti li configura come “non luoghi” nel senso più negativo del termine. Queste nuove aree non diventano un pezzo di città, ma rimangono distretti produttivi piccoli o grandi, sempre uguali a se stessi, dove la ricerca urbanistica e architettonica è bloccata dalla necessità di realizzare sempre lo stesso modello insediativo. Il panorama urbano di questi luoghi appare desolato, costante e precisa traduzione sul terreno di aridi standard volumetrici, quasi mai di un progetto urbanistico vero e proprio, di un idea di città. In questo scenario urbano è paradossale la presenza dello spazio collettivo pubblico (quando non è eliminato dalla possibile monetizzazione), uno spazio ridotto alla presenza di strade, verdi e parcheggi senza qualità, superfici urbane residuali, nel senso che quasi sempre appaiono come un “resto” urbano dato dalla differenza matematica tra la superficie territoriale e la somma delle superfici fondiarie vendibili. Nadir Tarana
Milano
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Esiste un nuovo modo di lavorare e di produrre? È interessante per noi progettisti indagare in che modo Milano e la sua provincia in questi anni testimoniano come questa evoluzione coinvolge nuove forme di sviluppo economico; quali nuove categorie di occupati vanno costituendosi; come la trasformazione economica venga influenzata, o influenzi i manufatti che accolgono il lavoro e, di conseguenza, l’ambiente. Intorno a Milano e in città le aree industriali dismesse sono numerose. Questa situazione provoca un impatto notevole rispetto al livello occupazionale e all’abbandono fisico e ambientale; inoltre costringe i territori interessati a un’inerzia funzionale a causa dei vincoli pianificatori di salvaguardia che sono stati imposti su di essi. L’insediamento dell’ex Alfa Romeo di Arese è stata una delle più grandi testimonianze europee della grandiosità di un sistema tecnologico e produttivo; oggi lo è per l’immensità della superficie, ormai semiabbandonata, che con difficoltà si riesce a riconvertire. Lo stabilimento occupava un tempo alcune decine di migliaia di maestranze: oggi le poche centinaia di lavoratori che vi si recano giornalmente possono disporre di spazi di ampiezza smisurata, cosicchè nei capannoni e nei palazzi per uffici l’ambiente e il modo di lavorare è cambiato radicalmente e, in un’atmosfera di tristezza e precarietà, convivono più imprese, dedite non più alla produzione automobilistica, ma a differenti attività di servizio, frutto della “riconversione”. Il quartiere milanese della Bovisa, industrialmente dismesso da tempo e parzialmente rioccupato e rivivificato dalle strutture del Politecnico, stenta a ricostruirsi un’identità, valida in ogni giorno della settimana, che sia alternativa al carattere residenziale e produttivo di un tempo. La riconversione delle aree Falck e Breda a Sesto San Giovanni, forte di uno studio pianificatorio e di un’agenzia di sviluppo, che ha consorziato gli interessi proprietari e quelli dei comuni della conurbazione milanese, influenzati da quella sorte economica, procede invece con alcuni risultati. A questo proposito, abbiamo raccolto il contributo di uno dei funzionari tecnici dell’Agenzia di Sviluppo Milano Metropoli (ex Nord Milano - Asnm), che spiega i temi tecnico progettuali che vanno affrontati per la riconversione degli stabilimenti e dello studio Boeri, vengono presentati i progetti realizzati sul tema dei cosidetti “incubatori di nuove imprese”. R. G.
Allestimenti e grafica interna.
Pianta del Falck MAGE.
Nuovi distretti produttivi Falck-Concordia e Breda-Cimimontubi L’evoluzione del mondo produttivo ha introdotto nuovi modi di lavorare e di produrre che devono rispecchiarsi anche nella progettazione degli stessi stabilimenti produttivi, inserendo importanti modificazioni nel modo di realizzare l’involucro soprattutto in senso tecnologico, affrontando i temi della cablabilità, del comfort (soprattutto quello estivo che assume nuova rilevanza), queste richieste di prestazioni coinvolge anche tutta la componente accessoria che, in un’ottica di progettazione integrata, segue logiche prestazionali generali dell’edificio. In questa logica gli interventi di reindustrializzazione, realizzati dalla Milano Metropoli Agenzia di Sviluppo nelle aree ex industriali Falck e Breda di Sesto San Giovanni, che si sono concretizzati nella realizzazione dei distretti produttivi FalckConcordia e Breda-Cimimontubi, seguono proprio canoni innovativi tecnologici e di sostenibilità ambientale. Inoltre, questi interventi, per la problematicità di degrado ambientale, tipica di queste aree, sono stati realizzati con particolare cura sia per quanto riguarda le bonifiche ambientali dei terreni, che per la realizzazione edilizia. • Uno degli elementi più significativi è stata la realizzazione di cunicoli tecnologici (tunnel sotterranei per posizionare tutti gli impianti tecnologici facilmente ispezionabili); • nella progettazione interna degli spazi si è tenuto conto
FORUM ORDINI
a cura di Roberto Gamba
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anche dell’orientamento sull’asse est-ovest degli uffici per favorire l’illuminazione naturale; • per venire incontro alle differenti tipologie aziendali e alle esigenze di flessibilità necessarie anche per un’eventuale alternanza nel tempo delle aziende insediate, sono stati introdotti nella progettazione diversi elementi flessibili, quali la riproposizione della tipologia edilizia pluripiano e la modularità degli spazi interni e degli impianti; • altro elemento importante per il risparmio dell’uso del suolo è la realizzazione (nel distretto Falck) di parcheggi ubicati sotto la parte di edificio destinato ad ufficio, evitando l’occupazione dell’area esterna.
riguarda e ruota attorno alle relazioni tra “spazi privati” e “spazi collettivi”. Nei due incubatori progettati, alcune attività, macchinari e servizi che spesso si trovano confinati all’interno dei singoli uffici (fotocopiatrici, stampanti, aule didattiche, aule internet, sale riunioni e sale conferenze), sono raggruppati in appositi e definiti luoghi e condivisi da tutti gli “abitanti” del complesso. In contiguità con gli atri di ingresso, alle estremità dei corpi di fabbrica, o in posizione baricentrica lungo i corridoi, si aprono spazi “collettivi”, organizzati e flessibili ai differenti usi, sia dal punto di vista spaziale che impiantistico.
Lella Bigatti Milano Metropoli Agenzia di Sviluppo
Boeri Studio
Tre progetti a Sesto San Giovanni Tre interventi sono stati condotti da Boeri Studio (Stefano Boeri, Gianandrea Barreca, Giovanni La Varra) sulle aree di tre edifici industriali dismessi dell’acciaieria Falck di Sesto San Giovanni. Il programma di rinnovamento (1998) è stato commissionato da ASNM (Agenzia Sviluppo Nord Milano, ora Milano Metropoli). Gli spogliatoi di una fabbrica e i “magazzini generali”, sono stati convertiti a nuove funzioni: due BIC (Business Innovation Centre, centro di innovazione degli affari) e un museo dell’industria e delle nuove tecnologie di comunicazione visiva (Falck MAGE). Il BIC Falck, progetto-pilota dell’intervento complessivo, (importo euro 1.800.000 – 2.360 mq) è un incubatore per lo sviluppo di piccole aziende: dal 2001 una trentina di imprese sono ospitate in lotti da 50-150 mq l’una. La nuova facciata, un volume vetrato ed una pensilina a sbalzo, segnalano sulla superficie dell’edificio la posizione del nuovo spazio di incontro. Il BIC Breda ha una dimensione maggiore: 4.600 mq (importo euro 4.500.000), al fine di alloggiare 60 tra aziende e compagnie. Attenzione è stata posta alla flessibilità degli spazi, alla realizzazione ed organizzazione dei servizi comuni (sale riunione, spazi ricerca, biblioteca) e all’equipaggiamento degli impianti di multimedia (collegamenti satellitari, librerie informatiche, teleconferenze). Falck MAGE è il nome del progetto di recupero dei vecchi “magazzini generali” dell’area dell’acciaieria Falck (4.500 mq su due piani). L’edificio è stato rinnovato e convertito in parte a museo dell’industria e delle nuove tecnologie di comunicazione visiva, mentre alcuni spazi espositivi verranno messi a disposizione delle piccole imprese ospitate nel BIC adiacente. Il committente è stato il Comune di Milano; la superficie di 4.500 mq per un importo di euro 3.500.000. In generale, il progetto architettonico, relativo allo studio degli spazi interni di un moderno incubatore di imprese,
Pavia a cura di Vittorio Prina
Limitando l’ambito a nuovi luoghi di lavoro non virtuali in Pavia, è doveroso un breve cenno ad uno degli esempi più eclatanti, costituito dal proliferare di centri commerciali e simili lungo la direttrice sud. Una delle cause di questo stato delle cose è stato sicuramente il protrarsi per decenni della redazione di un nuovo piano regolatore. Inizialmente solo il tratto di statale in uscita da Pavia era interessato da un susseguirsi di squallidi contenitori di depositi, sedi artigianali o commerciali, svariate concessionarie di autoveicoli, stazioni di lavaggio auto, benzinai, finanche ristoranti e hotel… disposti con assoluta casualità e caratterizzati dai linguaggi più diversi, definiti comunque dal criterio della maggior visibilità commerciale e dotazione di parcheggi, cloni in tono minore della periferia urbana statunitense. In seguito sono stati edificati i primi centri commerciali nel tratto corrispondente al Comune di Cava Manara. Recentemente nel territorio del Comune di San Martino Siccomario, sempre a ridosso della statale e principalmente attorno alla grande rotatoria corrispondente all’innesto con la tangenziale ovest, sono sorti o stanno sorgendo ulteriori grandi centri. L’estensione di questi ultimi è tale da essere organizzata come una vera e propria porzione urbana organizzata con una rete di percorsi in forma di strade, gallerie e piazzette, e dotata di bar, ristoranti ed altro, similmente all’esempio del grande polo commerciale situato al termine di questo asse sud nel comune di Montebello della Battaglia. La loro posizione costituisce sempre un punto nodale dal punto di vista viabilistico e quindi commerciale. I cittadini ormai frequentano questi centri non solo per acquisti ma anche per pranzare, cenare o usufruire di intrattenimenti vari, trascorrendo in questi luoghi caotici
23 intere giornate. Questi centri comunque sono molto frequentati e questo impone il dovere di analizzare, o perlomeno riflettere su questo fenomeno, figlio di una società che privilegia una insensata corsa alla produzione e al consumo invece che alla qualità dei servizi. D’altro canto il nuovo piano regolatore ha dato avvio alla progettazione di importanti per estensione, quantità volumetrica e qualità nodale della posizione aree industriali dismesse che, se realizzate, sicuramente determineranno un notevole mutamento delle condizioni di vita in Pavia. A questo proposito pubblichiamo un breve stralcio della relazione redatta dall’architetto Luciano Bravi, responsabile dell’Ufficio Accordi di Programma e PII del Settore Urbanistica, Ufficio Tecnico del Comune di Pavia, che sintetizza le intenzioni relative alle proposte di trasformazione delle citate aree industriali dismesse. V. P.
Le aree dismesse e lo sviluppo sostenibile della città di Pavia Le strategie del nuovo Piano Regolatore Generale non sono rivolte principalmente all’espansione urbana o al mero recupero e conservazione del patrimonio abitativo esistente, ma si fanno carico del problema della trasformazione urbana data la disponibilità di aree di notevole consistenza e di collocazione strategica provenienti dalle dismissioni industriali e dalle dismissioni demaniali. La trasformazione delle aree dismesse verrebbe attuata mediante un criterio uniforme che prevede l’applicazione di un indice edificatorio moderato, tale da consentire l’acquisizione di un consistente territorio pubblico (minimo 50%) da destinare a verde, spazi pubblici e infrastrutture necessarie ad una città moderna e di qualità. Sulle aree private è prevista la collocazione mista ed equilibrata di destinazioni d’uso produttive, terziario-direzionali e residenziali. La trasformazione delle aree dismesse consente anche di migliorare la dotazione e l’efficienza delle infrastrutture viabilistiche della città. Il Piano Regolatore Generale individua, con apposite schede normative, 12 aree di trasformazione, di cui 9 riguardano aree dismesse: L’area ex SNIA, l’area dello scalo ferroviario di via Francesco Rismondi, l’area ex NECA, l’area militare di via Tasso, l’area del Gasometro di via Cesare Correnti, l’area di via dei Mille in corso di attuazione, l’area dell’ex Landini in via dei Mille, l’area di via Ferrini, l’area dell’ex Gasometro di via Case Basse (…).
I Programmi Integrati di Intervento e le aree dismesse Vengono di seguito elencati gli obiettivi individuati dal Documento d’Inquadramento ed altri parametri di qualità, applicati nelle istruttorie dei PII, suddivisi nelle tre componenti previste dallo sviluppo sostenibile: sviluppo economico, equità sociale e tutela ambientale. Obiettivi e benefici economici: • realizzazione di strutture per lo sviluppo quale il Parco Tecnologico, con conseguenti ricadute in termini di sviluppo della ricerca scientifica e d’impresa; • incremento del lavoro e del mercato edilizio; • attuazione effettiva di maggiori opere pubbliche a carico del privato, senza gravare sul bilancio pubblico; • risparmio di risorse, da parte dell’Amministrazione, con manutenzioni a carico del privato delle opere pubbliche in cessione; • risparmio di risorse, da parte dell’Amministrazione, per opere d’uso pubblico gestite dal privato. Obiettivi e benefici sociali: • realizzazione di edilizia residenziale pubblica o edilizia convenzionata rivolta ai ceti medio-bassi; • realizzazione attrezzature essenziali per la città quali il centro congressi, il nuovo centro espositivo, auditorium, centri di aggregazione giovanile, aree attrezzate per manifestazioni all’aperto, strutture sportive di quartiere; • realizzazione di strutture e iniziative a sostegno dell’occupazione; • realizzazione di servizi di quartiere e alla persona (attività commerciali di piccola dimensione, attività per la ristorazione e pubblici esercizi; uffici privati e pubblici; attività congressuali, associative e espositive; attività artigianali di servizio). Obiettivi e benefici ambientali: • realizzazione di essenziali infrastrutture per una più razionale mobilità cittadina; • valorizzazione e riqualificazione ambientale di aree pregiate; • valorizzazione degli spazi pubblici delle periferie soggette a carenza di servizi o soggette a degrado; • promozione della qualità architettonica e prestazionale degli edifici e valorizzazione di aree o complessi di carattere storico e monumentale; • riqualificazione ed eventuale bonifica delle aree industriali dismesse; • risparmio energetico e di risorse ambientali; • miglioramento ambientale complessivo: qualità e quantità di verde, di alberature, di permeabilità dei suoli, di piste ciclabili ed in generale di inserimento nella pianificazione e programmi di indicazioni di qualità ambientale. Luciano Bravi
FORUM ORDINI
Vedute esterna ed interna dell’ex area industriale Fonderie NECA a Pavia.
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Lavorare nelle arti Il grande tema del lavoro, con i mutamenti sociali e tecnologici che ad esso procedono pari passo, può divenire filtro privilegiato di lettura delle opere d’arte del ’900. Viceversa lo sguardo degli artisti sul soggetto lavoro può essere un modo per rac-
contare le vicende della modernità, o meglio della condizione umana nella società industriale e post – industriale. Questi i presupposti della mostra “Tempo moderno, 1906 – 2006. Lavoro, macchine e automazione nelle arti”, che si terrà al Palazzo Ducale di Genova dal 13 aprile al 31 luglio 2006, in occasione delle celebrazioni per il centenario della costituzione della CGIL. L’itinerario è costituito da dipinti, sculture, disegni, fotografie, manifesti, video che, partendo da una sezione introduttiva sul realismo europeo di fine ’800, raccontano come il “tempo moderno” del ritmo della macchina abbia investito l’arte, arricchendola di contenuti e modificandone a più riprese le forme espressive. C’è quindi il linguaggio delle Avanguardie, che corrisponde ai caratteri dell’industrializzazione, rappresentato fra le altre da opere di Balla, Boccioni, Depero. Seguono gli sperimentalismi del Bauhaus, il meccanicismo di Lèger, l’irrisione dada e surrealista, l’eroismo del realismo socialista, che esprimono la progressiva fascinazione per gli ingranaggi e il passaggio da essere umano a “essere macchina”. Ad opere di Guttuso e Pizzinato è invece affidato il compito di narrare il dopoguerra italiano, dove si sigla una sostanziale frattura della ricerca visiva, con il passaggio alla matrice realista. Per poi arrivare ai
nostri giorni, con la smaterializzazione del lavoro e l’attenzione indagativa sui meccanismi di sfruttamento e di esclusione dalla società, passando attraverso la crisi degli anni ’60 e ’70, che si concretizza con la rappresentazione della produzione attraverso i suoi scarti decontestualizzati. Il percorso è curato da Germano Celant, che torna a collaborare con Palazzo Ducale dopo il successo di “Arti & Architettura”, che consacrò, nell’anno della cultura, la vocazione all’indagine artistica contemporanea nel capoluogo ligure, che questa esposizione prosegue e rilancia. Già caratteristica interessante della precedente mostra, anche qui il materiale audiovisivo avrà un ruolo preponderante e di guida. Articolati in montaggi vi saranno, infatti, documenti delle ricerche visive futuriste, fino ad arrivare al cinema indipendente statunitense di questi anni, passando per Lang, Chaplin, Monicelli, Wenders e la videoarte degli anni ’70. Caterina Lazzari
25 anni di ISAD
Fondato a Milano nel 1980, l’Istituto Superiore di Architettura e Design festeggia 25 anni di attività. Da giugno a novembre, un susseguirsi di manifestazioni per celebrare l’evento: mostre, conferenze, dibattiti, incontri, che hanno visto la partecipazione di aziende, giornalisti, critici e progettisti del settore. L’ISAD ha voluto ripercorrere gli anni della sua storia rileggendo l’ultimo quarto di secolo del design italiano. La mostra “1980.2005 Design,
Firms, Products. Il design degli anni ’80 e del 2000” (25 ottobre – 18 novembre 2005), ha esposto con un bell’allestimento significativi oggetti di questi due periodi prodotti da Abet Laminati, Alessi, Cappellini, Cassina, Fontana, Arte, Luceplan, Luxottica, Rossi di Albizate, Spazio 900 e Venni. Il mese di novembre, riservato agli incontri con esponenti dell’architettura e del design italiani, è stato lanciato dall’incontro con gli ex-allievi della scuola, dal titolo “tell me a story” (25 ottobre). Sono seguite le conferenze “architects and designers work” (22 novembre), “La fotografia dell’architetttura e del design in Italia dagli anni ’80 ad oggi” (23 novembre) e il dibattito “Interiors made in Italy. Il progetto d’interni in Italia dagli anni ’80 ad oggi” (29 novembre). Situata nello spazio ex-industriale di via Balduccio da Pisa 16 a Milano, con i suoi corsi, gli atelier e gli eventi, l’ISAD offre un percorso formativo qualificato, con docenti rappresentativi dell’ambito professionale. Irina Casali
Milanocontemporanea Dal 14 al 23 ottobre Milano è stata teatro di oltre novanta eventi “artistici” diversi. Milanocontemporanea è stata voluta dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano in concomitanza con la Giornata del Contemporaneo, promossa a livello nazionale da AMACI – Associazione Musei d’Arte Contemporanea Italiani – e dalla DARC – Direzione Generale
per l’Architettura e l’Arte Contemporanee del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Mostre, installazioni, video, spettacoli teatrali e performance, concerti, letture, si sono alternati in tutta la città, in luoghi tradizionalmente predisposti per questo genere di eventi e in altri meno usuali. Tredici di questi appuntamenti sono stati organizzati dall’Assessorato alla Cultura: la mostra Aperto per Lavori in Corso al PAC, il concerto Drawing Jazz al teatro Dal Verme (nella fotografia: Alex Pinna e Paolo Fresu, “Drawing Jazz”, P.A.F. e Alex Pinna in “Jazz in’t”, Rocca di Vignola 2005. Fotografia di Alessandro Provolo. Courtesy Ciocca Arte Contemporanea), la prima uscita pubblica della Casa della Poesia alla Palazzina Liberty, una “maratona letteraria” con musiche e testi a Palazzo Sormani e alcuni itinerari bibliografici sulle arti in alcune delle biblioteche rionali, uno spettacolo di teatro d’avanguardia al teatro Litta e una performance intitolata The Room alla Rotonda della Besana, e ancora una video-installazione allo studio Superpiù, proiezioni di videodanza contemporanea con artisti che hanno interagito dal vivo all’Ottagono della Galleria e, infine, tre incontri con filosofi, artisti, manager, scrittori, architetti, scienziati, designer, economisti e politici sul tempo della contemporaneità. Presentando l’evento l’Assessore alla Cultura Stefano Zecchi scrive che: “Nella sua storia Milano ha anticipato idee, mode, tendenze che nel tempo si sarebbero diffuse in Italia e, spesso, in Europa. La città deve continuare ad essere fedele a questa sua vocazione: non essere soltanto vetrina per esporre cose d’altri, ma centro produttivo dell’innovazione e delle sperimentazione, della ricerca e della contemporaneità”. Questi i presupposti del programma. Martina Landsberger
L’evento “Architettura, Arte e Scenografia”, tenuto al Teatro S. Carlo di Napoli nell’ottobre degli “Annali dell’Architettura e delle Città”, cui hanno partecipato, oltre ai rappresentanti delle istituzioni locali, il preside della Facoltà di Architettura di Napoli, Benedetto Gravagnuolo, Alfonso Gambardella, Mario Botta e Flavio Caroli, costituisce un’occasione di riflessione sul prolifico rapporto tra arte e rappresentazione e sull’opportunità di non trascurare la ricerca di un’adeguata architettura per il teatro contemporaneo. È stato sottolineato da Botta, che ha presentato il progetto per la Scala di Milano, lo stretto rapporto tra architettura e sce-
nografia, evidenziando come nell’800 la riforma wagneriana e la sostituzione dei fondali dipinti con scene tridimensionali, abbiano comportato lo sfondamento del palco e l’aumento del volume della torre scenica. Il sovrintendente Lanza Tomasi ha motivato la scelta del lirico di coniugare l’opera alle scene di artisti contemporanei come Paladino, Pomodoro, Kiefer (nell’immagine: A. Kiefer scenografia per l’Elektra di Strauss, stagione lirica ’03 – ’04, foto di Luciano Romano, per gentile concessione dell’Archivio del Teatro S. Carlo di Napoli), Paolini, o di affidare a registi come Martone le opere di Mozart, denunciando l’aspirazione a riattualizzare quel fertile rapporto tra arti musicali, drammaturgiche e figurative che ha costituito il fondamento della rivoluzione teatrale operata dalle avanguardie nei primi anni del ’900. Sulla stessa linea Caroli ha ricostruito come il teatro sia stato laboratorio delle arti, dove la collaborazione tra artisti quali Diaghilev, Cocteau e Picasso, o
l’innovazione delle composizioni sonore di Kandinskj, si sono fondate sulla critica al teatro di tradizione e sulla ricerca di un più attivo rapporto con gli spettatori. Nonostante notevoli proposte sull’architettura del teatro rispondenti a concezioni avanguardiste, come il Totaltheater di Gropius, il ’900 non ha prodotto una forma resistente di edificio teatrale, pertanto l’ultima tipologia ad essere riconosciuta dall’immaginario collettivo è quella sette-ottocentesca. La battuta d’arresto della ricerca si riscontra nella costruzione di edifici che riprendono il tipo del teatro di tradizione, magari confezionato con nuovissimi apparati tecnologici, o nel puntare esclusivamente sull’adeguamento tecnico, e talvolta linguistico, degli antichi teatri o di edifici industriali dismessi. Emblematica appare la vicenda della ricostruzione della Fenice di Venezia, riduttivamente sintetizzata con il vecchio slogan “com’era, dov’era”, dove i presupposti della lunga ricerca di Aldo Rossi si manifestano soprattutto nelle parti introduttive, come ridotti e sale prova, senza modificare sostanzialmente la configurazione della sala, che torna ad essere lo spazio dell’illusione. Concetta Montella
Un nuovo parco per le incisioni rupestri Con il dono di far fremere ogni idea, Emmanuel Anati sogna un sistema fatto di giovani pieni di immaginazione, più che di burocrati ed istituzioni, che, oltre a commemorare “i morti”, aiutino “i vivi” a produrre cultura. Archeologo di statura internazionale, ha peregrinato con le sue spedizioni in tutto il mondo alla ricerca delle prime tracce lasciate dall’uomo nella storia, fino a stabilirsi nel 1956 a Capo di Ponte (BS), per
immergersi con ardore nei misteri di un antico popolo delle Alpi. Camuni “gentes alpinae devictae”, avevano scritto i Romani sul trofeo eretto a ricordo dei popoli vinti a La Turbie, in Francia, al loro passaggio verso le Gallie. La Val Camonica era stata infatti conquistata nel 16 a.C. Ma, a parte questa iscrizione, nulla viene tramandato per circa 2.000 anni. La riscoperta dei Camuni è una delle grandi avventure archeologiche del ’900: 10 millenni di storia in una piccola valle alpina nel cuore dell’Europa coprono un periodo lunghissimo che va dall’arrivo delle prime bande di cacciatori nomadi, penetrati nella regione subito dopo il ritiro dei ghiacci, ai primi tentativi di domesticazione della natura, fino alla formazione di una società stratificata ad economia diversificata. Dichiarata dall’UNESCO nel ’79 Patrimonio dell’Umanità, la Val Camonica, con oltre 300.000 grafemi incisi sulle rocce con continuità unica, è il maggiore sito di arte rupestre che si conosca in Europa. Pochi altri siti, inoltre, possono vantare una ricerca ininterrotta da più di 40 anni come quella svolta del Centro Camuno di Studi Preistorici, fondato da Anati, i cui ultimi, intensi, studi sono sfociati nell’apertura del nuovo Parco Archeologico Comunale di SeradinaBedolina a Capo di Ponte (progetto dell’arch. T. Cittadini). Scene di caccia, arature rituali, oranti, dischi solari, ecc.: credenze, usi e costumi che questo antico popolo ha affidato al supporto naturale della pietra, conferendo alle immagini il tempo minerale della conservazione. Spicca, in area Bedolina, una composizione geometrica di 36 figure quadrangolari collegate da linee: interpretata come mappa topografica, è uno stilema che occupa una parte notevole dell’iconografia rupestre camuna, testimonianza di alcune fra le più antiche rappresentazioni planimetriche dell’umanità. Pittogrammi e ideogrammi “scorrono” di roccia in roccia componendo le pagine di un libro di pietra lasciato aperto in una valle lombarda, su cui è scritto un capi-
tolo fondamentale della storia dell’uomo e delle origini della nostra civiltà.
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Sonia Milone
Itinerari all’Ambrosiana Com’era Milano nel XVIII sec.? Quali erano le sue strade, i suoi edifici, i suoi teatri? E gli italiani come si presentavano agli occhi dei numerosissimi stranieri che visitavano il nostro Paese? Le pagine dei diari del Fondo Luigi Vittorio Fossati-Bellani rispondono a questi e a tanti altri interrogativi. Il fondo è una delle più grandi raccolte di diari di viaggio in Italia ed è consultabile presso la Biblioteca Ambrosiana, cui venne donato nel 1958; vi si contano 5189 testi raggruppati attorno a specifici argomenti: viaggi in paesi diversi (1-177); viaggi in Italia (282643); viaggi a Roma (144-1607); viaggi nelle diverse regioni d’Italia (occupano tutto il secondo volume 1608-3453 e parte del terzo 3454-4159); viaggi a Malta e in Corsica (4160-4168); libri di argomento artistico (4169-5189). Nella sala lettura dell’Ambrosiana, calati in un religioso silenzio, i lettori, attraverso le pagine ruvide e porose di questi diari settecenteschi, si ritrovano immersi in una nuova dimensione in cui prendono vita personaggi e aneddoti che appartengono al passato, ma che la forza evocatrice della scrittura rende eterni e ognuno, attraverso degli itinerari mentali legati ad interessi personali, può vivere l’esperienza quasi reale di vedere palazzi, strade, case, di ascoltare musica o di assistere ad una rappresentazione teatrale di quel secolo che ha visto l’Italia meta preferita di tanti viaggi. Consultazioni presso Biblioteca Ambrosiana, Piazza Pio XI, 2, a Milano, dal lunedì al venerdì, dalle ore 9.30 alle ore 17.00. Elisabetta Bariola
OSSERVATORIO ARGOMENTI
“Architettura, Arte e Scenografia”
a cura di Antonio Borghi
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Intervista a Enzo Mari Enzo Mari è una figura imponente del design contemporaneo per lo spessore della sua attività professionale, la chiarezza dei suoi assunti teorici, la coerenza del suo percorso di ricerca artistica e infine anche per la sua mole corporea. Ciononostante la sua arma più efficace è la sensibilità nella paziente ricerca della forma, minuziosamente descritta nei suoi saggi. Nel 2001 esce Progetto e passione (Bollati Boringhieri) dove lei affronta con grande lucidità il tema del lavoro di progettazione. Come nasce l’idea di questo libro? Quand’ero giovane, pensavo che le forme che realizzavo potessero comunicare almeno a livello elitario i significati che rappresentavano... Ben presto mi sono reso conto che rimanevano mute nel contesto della totale ridondanza che permea
anche a livello accademico tutto ciò che si fa oggi. Nel mondo del progetto della forma plastica sembrano oggi perse totalmente quelle coordinate fondamentali rilevabili nell’opera di tutti i grandi artefici. Le stesse coordinate che vengono riconosciute e mantenute oggi da coloro che producono le forme letterarie e quelle musicali. La mia scrittura non nasce da una formazione accademica, ma dalla pratica della ricerca progettuale e da quella della sperimentazione didattica. Ho descritto solo quanto ho potuto sperimentare decine di volte e prima di metterlo nero su bianco ho verificato se quanto pensavo corrispondeva a ciò che pensavano o pensano tutti coloro che, indipendentemente dalle poetiche, sono riconosciuti universalmente come maestri della forma plastica. Quindi si sarà interrogato anche sul ruolo del designer o dell’architetto nella nostra società. Se vivessimo in una società perfetta dove ognuno svolge al meglio il suo compito e le leggi vengono rispettate, gli architetti verrebbero chiamati solo per le loro specifiche competenze ovvero garantire la qualità formale del progetto. Il nostro pensiero è basato sulla conoscenza delle parole... e le parole si conoscono solo a condizione di conoscerne la storia. L’Architettura fa parte dei più grandi valori di ogni civiltà. Le grandi architetture sono tra i simboli più importanti di qualsiasi società... da Stonehenge all’antico Egitto, dall’antica Grecia all’Impero Romano. Tanto è vero che ancora oggi siamo in grado di riconoscere il significato di questi monumenti attraverso il loro linguaggio formale. Questi capolavori ancora oggi non cessano di trasmettere i valori che testimoniano, alla stregua delle sacre scritture. Per questo in molte civiltà antiche l’architetto era sacerdote, colui che rappresentava Dio. Come si è persa la coscienza del ruolo centrale della forma in architettura? Che responsabilità ha, ad esempio, l’insegnamento? Buona parte dell’insegnamento è penoso. La complessità tec-
nologica e quella del mercato portano ad una frammentazione del sapere, lo inquinano, finendo col porre la tecnologia e i bisogni così come sono quali unici valori. Tanto più ingannevoli quando si dà per scontata una libertà acritica di ogni sedicente poetica. È come se in una facoltà di medicina insegnassero anche santoni e chiromanti. Sono consapevole della complessità tecnologica e del grande numero che invade tutto, ma non è tollerabile che l’insegnamento principe, quello di come ci si addestra a realizzare forme non banali, venga completamente eluso. Cosa vorrebbe dire tornare a insegnare la giusta forma? Nei primi anni della mia carriera la parola forma mi spaventava un po’ perché la confondevo con formalismo, una cosa che appare come forma, ma non lo è. Poi ho capito che non c’è differenza tra la forma e il suo significato, la sua sostanza, come dicevano i greci. Questo è evidente negli episodi di qualità massima, e la forma oltretutto è sempre simbolica. Nella pratica corrente invece si assume una forma e la si ripete scolasticamente in ogni contesto e situazione, come facevano i neoclassici. Oppure ci si serve di tutti i codici formali esistenti imitandoli senza capirli e sovrapponendoli senza criterio. Il ritorno alla vera forma equivale ad affermare il primato del progetto. I suoi progetti sono “forme vere”? E se lo sono, cosa intendono comunicare? Quando parlo con gli studenti dico che la forma è giusta quando essa è. Le forme che sembrano qualche altra cosa sono sempre sbagliate. La trave a doppio T o la lampada di Edison sono forme giuste nate direttamente dallo sviluppo tecnologico. Lo stesso vale per gli artisti: se prendiamo uno schizzo di Picasso e lo analizziamo a fondo, scopriamo che ogni suo dettaglio non avrebbe potuto essere altrimenti, anche se è uno schizzo. Perfino le colature del pennello hanno un senso e non le puoi modificare (ho provato a farlo). I miei lavori comunicano genericamente essenzialità ed ele-
ganza, ma questo non mi soddisfa molto. Quando lavoro conosco la storia di ogni oggetto e le migliaia di forme assunte da quello stesso oggetto in precedenza, espressioni della progettualità delle varie società. Quasi sempre mi viene chiesto di progettarne uno di forma diversa, il che è quasi impossibile. Gran parte delle cose che progetto non le posso realizzare perché non si distinguono a sufficienza da quelle presenti sul mercato. Ci racconta come nasce un suo progetto? Io progetto per negazione. Se qualcuno mi chiede di progettare qualcosa, normalmente perdo un paio di giorni a cercare di convincerlo che la sua richiesta è sbagliata. Dopo di che comincio a pensare a quell’oggetto e i primi due o tre giorni li passo a pensare e disegnare, consumando un sacco di carta, da solo o con qualche giovane progettista che mi aiuta. Stenografo tutte le idee con parole e schizzetti, diagrammi eccetera. Anche le idee che non si potranno mai realizzare. La prima fase di lavoro consiste dunque nel mettere tanti punti di domanda e aggiungere qualche idea. Dopo qualche giorno devo comunque andare avanti... Inizia così un lungo processo di ricerca e sperimentazione che non avrebbe mai fine. La realtà mi costringe a scegliere ciò che tra le diverse prospettive di indagine mi sembra la più adatta a quel contesto produttivo. Grazie a questo modo di progettare una elìte di persone riconosce gli oggetti che produco come “puliti”, eleganti, solo perché sono quasi riuscito ad eliminare gran parte della ridondanza. Di fronte all’orrore che dilaga mi rimane almeno la ricerca di un minimo di dignità. Chi ha generato questo orrore? Nel momento in cui il bene di consumo viene generalizzato anche l’arte diventa bene di consumo e alcuni artisti si ribellano al dover produrre delle imitazioni superficiali delle opere antiche. Nasce così un’avanguardia politicizzata che si scaglia contro il sistema dominante, un gruppo di quattro o cin-
Leggendo il suo libro ho notato pochissimi riferimenti ad altre figure contemporanee o moderne. Ci sono progettisti ai quali lei fa riferimento, dai quali ha imparato qualcosa? Avevo letto i classici a dieci anni perché in una casa poverissima non si poteva acquistare un giornale e tanto meno un giornalino per ragazzi. Dovetti iniziare prestissimo a lavorare ed ero costretto ad accettare qualsiasi lavoro... ogni volta dovevo inventarmi come poterlo fare. Oggi c’era da imbiancare un muro, domani bisognava dipingere l’insegna per il vinaio. Il problema era: come si fa? Che cosa è essenziale? Questo è stato il mio addestramento e mi è servito moltissimo. A diciotto anni, con qualche soldo in tasca, volevo comunque completare i miei studi. Per l’università occorreva la licenza liceale, mentre per l’accademia non serviva e per di più era vicino a casa. Mi iscrivo e vado alla cattedra di pittura, dove mi mandano via dopo una settimana perché faccio delle domande. Non capisco la ritualità della figura dell’artista. Giro tutte le cattedre e continuo a pormi domande... come si fa l’arte. Vinco una piccola borsa di studio e vado a studiare Giotto e Piero Della Francesca. Resto due o tre mesi a guardare gli affreschi nella Cappella degli Scrovegni, ma non li guardo come un collezionista o un amatore che gode della loro bellezza. Guardo per capire come si fa, per capire la loro intensità. Ad un certo punto riesco a capire la loro grande tensione e questi sono i miei
maestri. Così ho fatto durante tutta la mia vita. Negli ultimi anni mi interessa molto Bosch, come ho amato Michelangelo Buonarroti o Michelangelo Merisi. Per contrasto mi interessano molto le scienze della natura, anche se ho capito quasi subito che l’arte della forma non è riconducibile mai a processi di tipo razionale. Il dominio dell’arte è basato sull’intensità, per analogia anche quello della scienza... solo nel momento dell’intuizione. Passiamo dalla teoria alla pratica e all’attualità. Cosa pensa di Milano capitale del design? Oggi è diventata una brutta città. La città è fatta dai cittadini e gli edifici sono le insegne della loro cultura. Quando guardo la Milano contemporanea resto interdetto: mi sembra di vivere in un luogo di zombie. Tranne pochissimi edifici tra quelli moderni, tutte le forme esprimono ignoranza o tracotanza... o il loro insieme. Naturalmente esistono persone per bene che vivono disperatamente nella loro alienazione, ma sono poche e la nostra città lo testimonia chiaramente. Anche se vado a Lisbona o a Barcellona non vedo grandi architetture, ma almeno trovo una diversa vitalità e partecipazione. Lamentiamo da anni un grave ritardo rispetto ai paesi coi quali eravamo abituati a confrontarci, con il risultato che sempre più lavori vengono dati a professionisti stranieri ritenuti più bravi ed affidabili. È davvero così? La ragione è semplice: gli amministratori sono prevalentemente ignoranti di ciò che è l’Architettura. Al fine di evitare discussioni, ahimè spesso inconcludenti, pensano di tacitarle chiamando qualsiasi star pubblicizzata, indipendentemente dal suo valore. Le star, i grandi studi, sono sostanzialmente vetrinisti. Rispetto moltissimo la condizione dei vetrinisti, quegli operatori che con alcuni spilli tra le labbra dispongono tessuti o gonnelle in una vetrina per favorirne la vendita. Rispetto molto meno un famoso architetto che fa la stessa operazione per favorire la
vendita di un appartamento o per inneggiare l’edificio di una multinazionale (…) Sono appena tornato da Chicago, dove sono andato per la prima volta. È una bellissima città. A parte gli edifici di Mies, ciò che più mi ha colpito è stata la sopraelevata che, direi, permea, attraversandola sinuosamente, tutta la città. Senza alcun tipo di formalismo le travi a doppio T, anche di legno, sono utilizzate liberamente, come se non vi fosse un progetto sulla carta. Le loro giunzioni, i basamenti... con i bulloni a vista hanno la qualità dell’Eretteo. Dove la forma corrisponde all’onestà del lavoro e della vita.
Come definirebbe la sua poetica? Avendo ben chiaro come nasce il manierismo dell’avanguardia, sapendo che per collaborare alla catena di montaggio della merce basta essere specializzato nel fare determinate cose (cose di gomma colorate, cose ispirate alla cultura tantra, o cose banali e mal fatte, ad esempio) ho deciso di non elaborare un linguaggio riconoscibile. E cosa faccio? Quando mi chiedono un progetto mi limito a mettere i puntini sulle i e ad eliminare tutto ciò che è ridondante. Non so se questo sia riconoscibile come poetica, ma certamente non produco oggetti formalmente simili tra loro.
Allora le opere più belle nascono senza progetto? A mio parere il progetto di architettura, di design, di una ricerca scientifica o di un’opera d’arte hanno una sostanza comune. Il problema del progetto è il problema del valore di riferimento nel contesto della ridondanza totale, nel vuoto di cultura generale. La disperazione dei pochissimi artisti viventi è che il valore di riferimento della nostra cultura è il kitsch: la cultura dell’ignoranza. Questa è la chiave di lettura di alcuni oggetti d’arte: la disperazione.
Nel suo mondo c’è spazio per le nuove tecnologie e la globalizzazione? La tecnologia è importante ed è necessario padroneggiarla, come Michelangelo conosceva le proprietà del marmo e la tecnica dell’affresco, ma non è certo lì che risiedeva la sua arte. Centomila anni fa si faceva ricerca sulla selce. Dalle miniere questo prezioso materiale veniva esportato in regioni lontane e per il suo approvvigionamento si scatenavano guerre. Se fino al paleolitico si cercava di ricavare da un blocco di pietra l’oggetto desiderato, nel neolitico le schegge di selce prodotte battendo due pietre una contro l’altra venivano assemblate in oggetti da taglio di varia natura con resine ed altri leganti, con un enorme risparmio di materiale. Questa è stata ricerca tecnologica. Troppo spesso il progettista di oggi fa ricerca tecnologica sulle Pagine Gialle, alla ricerca delle ultime novità. Il mercato globale è lo sfruttamento globale. Ciò che ieri si produceva in Europa a un certo costo oggi viene prodotto in Cina dove un operaio costa un euro al giorno. Si pone il problema della riconversione delle nostre fabbriche... ma in cosa? Gli imprenditori veri, quelli che sanno inventare un’industria, nascono dalla cultura artigiana basata sulla circolarità complessiva del produrre e non sulla sua frammentazione. Se in occidente spariranno gli artigiani, sparirà il terreno dal quale, talvolta, emerge un bravo imprenditore. L’occidente sta programmando la propria morte.
Per spiegare l’essenza dell’arte lei ricorre ad una strana equazione: 1+1= 3. Da sempre quell’uno in più è l’essenza dell’arte. Nell’alto medioevo, attorno all’anno mille, si discuteva se fosse legittimo o meno rappresentare il divino e una delle risposte a queste domande era che la bellezza di una forma deriva dalla trascendenza. Una forma che risponde solamente a bisogni banali è banale. Anche per questo sostengo che l’arte non possa essere insegnata: si possono insegnare artifici e tecniche, ma non l’arte. L’arte non è altro che una forma della ricerca di ciò che trascende la quotidianità. Oggi sento dire che l’arte è pura ricerca, che l’arte è gioco o chissà che altro, mentre l’arte non è altro che la più alta forma di espressione umana volta alla rappresentazione di ciò che non può essere rappresentato.
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que precursori dotati di grandi capacità e determinazione, eredi diretti dei maestri dell’antichità. Questi artisti producono nuove opere, fatte coi biglietti del tram o con segni del pennello, ottenendo una grande carica espressiva. D’altra parte queste opere risultano formalmente insolite e per questo vengono fatte proprie dal meccanismo di produzione delle merci. Da allora, da circa cento anni, una massa di manieristi dell’avanguardia sostiene che il fare l’arte sia l’inventare la forma nuova e così siamo arrivati all’imbecillità della ricerca del diverso.
a cura di Roberto Gamba
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Sistemazione della piazza Roma a Berbenno (Bg) L’Amministrazione Comunale con questo concorso di progettazione intende sistemare la piazza Roma al fine di recuperarvi una maggiore identità, attraverso interventi che ne valorizzino le caratteristiche storiche ed urbane e che ne favoriscano l’utilizzo per le funzioni primarie della vita cittadina e per le funzioni legate all’afflusso di turisti nella stagione estiva. Ne ha affidato il coordinamento organizzativo a Matteo Calvi. Il bando dichiarava anche l’intenzione di affidare l’incarico per la progettazione definitiva ed esecutiva delle due piazze, all’autore della migliore proposta, ma l’esecuzione dei lavori è ancora vincolata all’ottenimento di co-finanziamento pubblico
(spesa prevista euro 600.000). Tema è pertanto la riqualificazione urbana, mediante soluzioni che prevedano studio della viabilità e possibile pedonalizzazione; la realizzazione di un parcheggio interrato; aree per il mercato settimanale, spettacoli culturali, eventi legati all’attività dell’oratorio parrocchiale; studio dell’arredo urbano, della segnaletica, dell’illuminazione. Erano richieste due tavole in formato A0. La commissione giudicatrice, presieduta da Maria Antonietta Crippa, era composta dal sindaco Alessandro Pellegrini, Claudio Salvi, Achille Bonardi, Antonio Cortinovis. Attribuiti premi di euro 5.000, euro 3.500, euro 2.500 e altri due premi di euro 1.000.
1° classificato (foto 1-2) Marco Tromba (Genova)
di progetto viene proposta l’individuazione di uno spazio a vocazione religiosa, costituito dal nuovo sagrato e dalla definizione dello spazio antistante la parrocchia, che viene attrezzato per la possibilità di ospitare manifestazioni sia culturali che ludico-sportive. Entrambi questi spazi sono racchiusi da un filtro verde, che delimita uno spazio più contenuto, nel quale si evoca un senso d’interno in cui camminare o sostare, e da uno spazio più estroverso costituito dal belvedere, vero balcone panoramico della valle.
Si è inteso articolare il progetto mettendo a misura lo spazio, troppo indifferenziato; suddividendolo in ambiti che ne favorissero la fruizione, attraverso la creazione di un’unica zona pedonale in cui poter riconoscere aree con diversa vocazione. La sede carrabile è stata spinta al margine inferiore della superficie di intervento e la sosta viene esclusivamente permessa nel parcheggio interrato. Nella suddivisione degli ambiti
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2° classificato (foto 3-4) Michele Locatelli (Bergamo), Stefano Berlendis, Ermes Invernizzi, Fulvio Papponetti Il progetto prevede la pedonalizzazione dell’area circostante la chiesa e lo spostamento dell’attuale sedime stradale. Tra le diverse e possibili posizioni della strada carraia è stata scelta quella che valorizza in maggior misura sia la terrazza belvedere, sia il sagrato della chiesa e contemporaneamente consente una viabilità maggiormente fluida. Un parcheggio completamente interrato di una quarantina di posti auto è posizionato al lato della chiesa, con accesso nei pressi delle mura dei giardini pub-
blici e non interferisce nel rapporto chiesa-piazza-paesaggio. La piazza dell’oratorio, che si piega con una lieve rampa per andare a prendere il livello del parco giochi, unisce il tutto in una sorta di concatenazione di spazi e di eventi. La navata della chiesa trova la propria continuazione nella pensilina del belvedere che mette in comunicazione diretta edificio sacro e ambiente aperto e rende manifesta – ad una scala differente – la presenza del nuovo centro di Berbenno. Il sistema di illuminazione è semplice e unifica in una unica unità ambientale la nuova piazza, pur diversificando le soluzioni illuminotecniche adottate in funzione delle diverse opportunità.
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Il progetto prevede l’eliminazione del traffico veicolare dal piano del sagrato, la ridefinizione della viabilità e la riqualificazione estetica e funzionale della piazza e del balcone verso valle. In questo senso, è stato pensato un nuovo disegno per la pavimentazione – concepito per assi e campi, serie e variazioni – con la definizione di spazi verdi, sedute panoramiche e l’introduzione del dinamismo e della sensorialità dell’elemento acqua, tramite due vasche ai lati della scalinata centrale.
Il punto panoramico sulla punta del promontorio verso valle diverrà pedonale e la formazione di un parcheggio interrato da 40 posti risolverà la presenza delle auto in sosta nell’area di progetto. L’attraversamento stradale avverrà su un passaggio rialzato alla stessa quota del marciapiede, fiancheggiato da due fasce di raccordo in pietra locale, per sottolineare il collegamento tra i due livelli della piazza. Il progetto dell’illuminazione riguarderà innanzitutto la valorizzazione della facciata della Chiesa, punto di riferimento per l’intorno, e del corridoio ideale che porta dalla scalinata principale al suo ingresso.
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La viabilità, l’arredo, la disposizione e l’individuazione dei parcheggi nell’area del centro storico di Dairago (Mi) Le proposte progettuali dovevano prevedere soluzioni per la viabilità (sensi unici, piste ciclabili, divieti di accesso, abbattimento di barriere architettoniche), per l’arredo urbano (panchine, aree a verde, balconi fioriti e isole floreali, illuminazione specifica, materiale per le strade), per la migliore utilizzazione degli attuali parcheggi e/o l’individuazione di nuovi. Inoltre, si doveva tenere conto del patrimonio storico-culturale e sociale del territorio, le cui caratteristiche si evincono dal Piano del centro storico, approvato nel 2002, dai documenti storici, dai vari monumenti e dalla presenza di murales sulle facciate di diverse abitazioni. Il tetto di spesa stabilito dall’amministrazione comunale per la realizzazione delle opere ammontava a euro 250.000. Erano richieste due tavole in formato A1, contenenti una planimetria in
scala 1:500; rappresentazioni, in pianta o sezione; vedute prospettiche, sezioni, dettagli di arredi e manufatti. Quali giurati sono stati nominati: il Sindaco Rosangela Olgiati e Giuseppe Cornelio Olgiati, Ausilia Sora, Carlo Maria Barlocco, Pier Angelo Paganini, Pinuccio Colombo, Renzo Provasi, Giancarlo Siddi, Giovanni Matteo Mai, Dario Vanetti, Romano Olgiati, Gian Mario Vitali, Antonio Barlocco, Luigia Paganini, supplente Maria Carla Mocchetti, Sergio La Scala, Ernesto Santorio, supplente Paolo Raimondi, Riccardo Pedroni, Lino Tosetti, Davide Barlocco, Fabio Pozzoni. Il concorso si è concluso senza graduatoria di merito e senza il vincitore, per la mancanza di progetti idonei. Pertanto sono stati erogati 4 rimborsi spese di euro 1.000 ognuno, tra i progetti ritenuti meritevoli.
segnalazione ex aequo (foto 1-2) Valeria Lidonnici (Parabiago, Mi), Luca Bosetti
stinti ognuno da un differente tono monocromo. In tal modo, resa ogni funzione chiaramente leggibile; si evidenzia e si gerarchizza il sistema di rapporti tra la strada principale, i vicoli, gli spazi pubblici e i parcheggi. L’area d’intervento è limitata a due assi principali, via XXV aprile e via Garibaldi, su cui si innesta il sistema dei percorsi pedonali primari, secondari e scolastici. Lungo gli assi principali, si sviluppano 3 aree pubbliche, che danno un preciso ritmo spaziale alle vie.
Su ispirazione di un dipinto di Paul Klee (Strade primarie e strade secondarie, 1929), è stata disegnata una sistemazione dal forte richiamo pittorico, che riscopre il colore, come elemento fondante della composizione. La pavimentazione del percorso carrabile è policroma, dai toni caldi e tipici della cultura lombarda, a differenza dei percorsi pedonali, dei parcheggi e degli spazi di sosta, contraddi-
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OSSERVATORIO CONCORSI
3° classificato (foto 5-6) Carlo Moscatelli (Cantù, Co), Matteo Moscatelli, Francesco Marelli
tà di ridistribuire equamente gli spazi tra abitanti, veicoli e parcheggi delle auto, coniugando necessità funzionali ed estetiche e consentendo ai pedoni un percorso continuo e senza interruzioni. Sono state create piazzole di sosta, in corrispondenza dei punti
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più significativi del centro storico, come gli edifici del ’500 (Palazzo Camoon) e dell’800 (Torre Lampugnani) e dei murales. L’intervento ha rivisto la viabilità veicolare, rendendo senso unico diverse vie e ridistribuendo i parcheggi.
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segnalazione ex aequo (foto 3) Pier Alberto Ferrè (Milano), Carolina Francesca Rozzoni, Angelo Biraghi, Mauro Morelli, Linda Morelli, Sara Salvemini Vengono proposti e rivalutati gli elementi classici degli spazi aperti: le alberature ed il frutteto, l’acqua, il portico, l’esedra, le vedute, i manufatti di arredo, l’illuminazione, le pavimentazioni. La nuova piazza, liberata dalle autovetture, viene ridisegnata; per ottenere un’atmosfera maggiormente tranquilla, distaccata
dal traffico e dal rumore, viene proposto un filare di ciliegi da fiore lungo la strada. La pavimentazione disegna un rettangolo, sullo spazio libero, in modo semplice. L’acqua della fontana è un invaso circolare con acqua a sfioro, che ricorderà, nella posizione e nella forma, la demolita torre dell’acqua. Lungo il lato est della nuova piazza il progetto propone un nuovo limite, mediante un’edicola e la risalita dal parcheggio interrato trasposizione dell’esedra e del pergolato classico.
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segnalazione ex aequo (foto 5) Giorgio Burragato (Milano) collaboratore: Marzia Sirtoli Lungo la via XXV Aprile, asse urbano principale, il traffico automobilistico viene limitato al solo raggiungimento delle residenze. La viabilità automobilistica si organizza per sensi unici che prediligono i sensi di marcia in uscita dal centro. Le vie che portano alle residenze formano, insieme alle corti interne, il sistema secondario della viabilità, con accesso riservato e limitato.
Il disegno delle pavimentazioni deve differenziare, segnare, segnalare i diversi tipi di viabilità, attraverso il segno, il colore, la finitura, il pattern. Si è creata una sorta di dorsale a “spina di pesce” che fa da elemento di continuità, costante e adattabile ai diversi contesti. Il progetto dell’arredo si è soffermato su tre elementi: le sedute, la luce, il verde. Il verde, per evocare le origini rurali del luogo, prorompe improvvisamente dalle pavimentazioni in aiuole sparse e casuali.
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segnalazione ex aequo (foto 4) Giovanna Flamini (Gorla Minore, Va) Dall’analisi della situazione viabilistica e pedonale è emersa
una diffusa difficoltà a riconoscere nel centro storico spazi significativi per la sosta e l’incontro degli abitanti. L’ipotesi progettuale ha quindi considerato prioritaria la necessi-
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Ai concorrenti era richiesta una proposta progettuale che permetta di sistemare la zona del centro storico in via Mazzini e nel vicolo Casari, in continuità con i lavori eseguiti negli anni passati. Particolare attenzione doveva essere posta alla valorizzazione, animazione urbana dell’area e al miglioramento ambientale del contesto urbanistico storico. Doveva essere concepita una nuova pavimentazione; la siste-
mazione delle reti tecnologiche interrate; studiata la migliore collocazione del monumento ai Caduti. L’ammontare della spesa prevista per i lavori è di circa euro 250.000. La giuria era costituita da Giovanni Paolo Federici, Ruggero Bontempi, Mario Gheza, Pietro Gaudenzi. Al vincitore è andato un premio di euro 2.500, al 2° classificato euro 1.500, al 3° classificato euro 1.000.
1° classificato (foto 1-2) Giovan Maria Germano Mazzoli (Astrio, Bs), Pietro Giovanni Mazzoli
incontro e di socializzazione. Dal punto di vista architettonico rappresenta un basamento, un prolungamento del sagrato della chiesa, una traslazione in avanti dell’abside, realizzato con materiali che ricalcano la tradizione della Valle Camonica. Il disegno è stato definito partendo da una precisa griglia modulare, che nasce da un quarto della larghezza del retro della chiesa che si affaccia sulla piazza. Sono inseriti degli alberi per creare un fondo scenico per chi proviene da via Mazzini. Il monumento è stato ricollocato nell’area del sagrato della chiesa di S. Paolo.
Dal punto di vista architettonico, la scelta è stata quella di concepire la piazza su tre livelli, sia dal punto di vista funzionale ed “emozionale” che dal punto di vista altimetrico. Il livello zero è destinato alla mobilità delle macchine e delle persone. Le corsie delle macchine sono infatti state delimitate dal disegno della pavimentazione e da paletti dissuasori autoilluminanti. Il livello + 0,45 m è lo spazio di 1
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2° classificato (foto 3-4) Dario Gheza (Esine, Bs), Giuliana Camossi, Alessandro Stofler Un progetto di riqualificazione ambientale può partire dalla individuazione dei materiali più adatti a ridare all’ambiente lo “spirito” dei luoghi originari. L’obiettivo è di far emergere alcune qualità del luogo, esprimendo in un certo senso la volontà di “completare” l’intervento iniziato con la demolizione della chiesa del ’400 e la costruzione della nuova chiesa nel 1691. 3
3° classificato (foto 5) Cristina Guerinoni (Milano), Andrea Giuliani, Paolo Belotti L’obiettivo di “ri-qualificare” una porzione del nucleo storico di Esine, consiste nel recupero dell’identità perduta dei luoghi, originariamente spazi di aggregazione e di scambio sociale, oggi meri canali di traffico veicolare. Il progetto prevede la nuova pavimentazione lapidea (granito grigio della Vallecamonica e cubetti di porfido rosso) dei percorsi stradali e nuova illuminazione, con la trasformazione dell’attuale
Il progetto propone la realizzazione di uno spazio nuovo, separato dalla strada, che consenta momenti di aggregazione sociale, diventando continuità con il sagrato. La stele collocata sul muro dell’abside e i “menhir” in granito eretti a delimitare lo spazio del nuovo monumento, costituiscono un insieme integrato alla piazza e esprimono un modo nuovo di “ricordare”. La collocazione di una fontana in granito ed il pergolato in legno completano, anche dal punto di vista simbolico l’intervento. 4
parcheggio in “piazza”, inteso come luogo urbano deputato all’aggregazione della comunità. Il disegno del suolo definisce una “misura” a scala umana, con maglia regolare parallela alla giacitura della chiesa parrocchiale ed interferita da radiali spiccanti dall’abside, emergenza architettonica caratterizzante il luogo urbano, rafforzata nella sua evidenza da una vasca d’acqua, con illuminazione ad immersione e sedute perimetrali, punto focale verso cui converge lo sguardo di chi transita lungo la via Mazzini.
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31 OSSERVATORIO CONCORSI
Valorizzazione urbanistica della via Mazzini, vicolo Casari e la zona del monumento ai Caduti a Esine (Bs)
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Pezzi d’Italia Lodovico Meneghetti Parole in rete. Interventi in Eddyburg, giornale di urbanistica politica e altre cose Libreria Clup, Milano, 2005 pp. 204, € 11,00 Il volume raccoglie 58 articoli del professore di urbanistica, architetto e designer Lodovico Meneghetti, apparsi sul sito Eddyburg in un periodo che va dal giugno 2002 (con “Venezia Venezia”), al marzo 2005 (con “Addio Professori”). Polemiche, critiche, ma anche appelli e lettere indirizzate ad amici, colleghi, personaggi pubblici, tutti centrati su temi di attualità politica, urbanistica e architettura. Internet, moderno “cortile” – come lo definisce l’autore –, agorà in cui è possibile discutere, confrontarsi: questo libro dà una prova di come il sito virtuale possa sostituire il luogo fisico dell’incontro; lo scambio d’idee è alla ricerca di forme inedite. Meneghetti, originale interprete di un’antica pratica filosofica, chiede un dialogo e, sebbene trovi più silenzi che risposte, non sembra perdere quel senso di fiducia nell’amicizia quale terreno comune del confronto, che è alla base della capacità di accogliere con lealtà, senza sottrarsi, anche le questioni scomode. Diretto e frontale, l’urbanista fa nomi e cognomi, non “risparmia” nessuno, tuttavia non è sterile polemica la sua, piuttosto un sentito prendere parte, nel doppio senso di schierarsi e di “mettersi in mezzo”. L’accorata difesa del paesaggio italiano violato ed offeso da troppo tempo, fatta da Meneghetti nel nome del bello e del sentimento estetico, s’associa in queste pagine ad una profonda indignazione, che è forse il primo sentimento etico; un omaggio al kalos kai agatos degli antichi Greci, per i quali ciò che è bello è inevitabilmente anche buono. Leggendo Parole in rete risuona in mente il brano di De Gregori, Pezzi; ne danno ragione la struttura frammentaria del libro, che evoca il nome dell’album, e il riferimento d’entrambe le opere al “Bel Paese” distrutto. Sdegno e nostalgia per un’Italia che non c’è più. Meneghetti foto-
grafa un Paese smembrato dalla costruzione selvaggia, supina a logiche e poteri che esulano o prescindono dagli interessi propri della comunità e della stessa architettura. L’urbanista denuncia, con casi concreti, abusi e soprusi di amministrazioni e governi, senza dimenticare il ruolo della persone singole, cui spetta sempre la decisione attuativa, segno che ciascuno può ed è tenuto a compiere la propria parte. Un canto accorato alla responsabilità civile, degli architetti in primo luogo, ma che avvicina anche chi ne è estraneo ai valori alti di una disciplina così importante per tutti. Irina Casali
Libertà o vincolo Giorgio Pigafetta Architettura dell’imitazione. Teoria dell’arte e architettura fra XV e XX secolo Alinea, Firenze, 2005 pp. 166, € 16,00 A partire dalla rivoluzione culturale romantica, che mette al centro del processo di produzione artistica i concetti di “espressività”, “creatività”, “originalità”, inizia la rimozione della “dottrina mimetica” dal panorama europeo dell’arte. Il risultato ultimo è nel rifiuto di qualsiasi riferimento ad un orizzonte segnico già dato e nella ricerca esasperata di “forme sempre diverse ed irripetibili” nell’età contemporanea. La dottrina mimetica, nei confini sfrangiati della sua fortuna storica, ha avuto come presupposto essenziale l’essere dell’opera imitazione di qualcosa. La natura, la storia, gli stili, etc. Comportando così un piano di giudizio condiviso tra autore e fruitore, ed indirizzando e fondando la legittimità del fare artistico. Quella così definita è la dottrina che, secondo l’autore, informa di sé la cultura occidentale per millenni, costituendosi dunque condizione sine qua non per poter guardare alla storia artistica passata, ma anche orizzonte valutativo ancora vitale per riconsiderare quella presente. Definiti i presupposti, il testo si articola come una serie di “lezioni”, che percorrono i cardini teorici del rapporto mimetico uomo-modello
nei suoi momenti fondativi, passando dall’analisi delle arti in genere, per stringere poi l’obiettivo sull’architettura, che a tale rapporto ha fornito infinite soluzioni formali e che in tale rapporto ha trovato a lungo ragione costituiva. A partire dal mondo classico, in cui la mimetica viene intesa come poiesis, forma attiva della conoscenza, passando per il Rinascimento, in cui la fortuna della dottrina raggiunge il suo apice, fino ad arrivare all’estetica hegeliana, con il ribaltamento del primato di detenzione della bellezza a totale favore dell’opera d’arte “che manifesta pienamente quel carattere infinito e libero dello spirito”. Il valore dell’indagine, al di là dell’interesse storico-filosofico, credo sia nel toccare, da un punto di vista parziale e ben dichiarato, un problema dal carattere generale, ineludibile per chiunque operi nella disciplina architettonica oggi: il rapporto tra vincolo e libertà! Caterina Lazzari
Milano: evoluzione o involuzione? Sebastiano Brandolini Milano. Nuova architettura Skira, Milano, 2005 pp. 216, € 26,00 La denuncia di un’incessante accumulazione di grandi progetti di trasformazione urbana promossi da forti gruppi immobiliari e spesso firmati da esponenti dello star system internazionale e, in misura minore, nazionale (con le
note polemiche che questo squilibrio ha recentemente suscitato), nasce dalla riflessione circa lo squilibrato rapporto di forze fra pubblico e privato che attualmente guida la trasformazione di porzioni significative e strategiche del tessuto insediativo di molte città italiane. In questo contesto, Milano costituisce probabilmente un caso esemplare poiché sembra già evidenziare gli esiti possibili di un modello di decisione centrato sulla contrattazione. Negli ultimi due decenni si sono infatti sperimentate diverse innovazioni procedurali di flessibilizzazione del piano e sono stati proposti molti grandi progetti di riuso e riqualificazione: alcuni già realizzati, altri in dirittura di arrivo, molti ancora all’esame degli uffici (110 proposte per un totale di 4 milioni di mq). Ma come è cambiata Milano nella stagione della deregolamentazione? Il volume di Sebastiano Brandolini ce ne fornisce alcuni segnali. Esso costituisce un utilissimo contributo conoscitivo, che si offre ad un pubblico ampio, non solo di specialisti, e che consente di apprezzare gli esiti del processo evolutivo (o forse involutivo) del capoluogo lombardo: si tratta, infatti, di una ricognizione attenta dei progetti milanesi, in cui prevale la documentazione iconografica. Poiché è un volume di immagini più che di approfondite riflessioni analitiche o partigiane, lascia molti gradi di libertà per valutare le direzioni verso cui sta orientandosi il cambiamento. L’apparato delle illustrazioni mostra infatti, articolando la città per grandi ambiti geografici (Centro, Nord, Est, Sud, Ovest), le occasioni e gli oggetti della nuova architettura urbana: grandi progetti di riuso di aree dismesse via inserimento di attività pregiate; multisale cinematografiche;
Sara Gilardelli
Viste assonometriche Massimo Scolari Il disegno obliquo. Una storia dell’antiprospettiva Marsilio, Venezia, 2005 pp. 348, € 24,00 Il libro, presentato da un’efficace introduzione di James S. Ackerman, è una raccolta di scritti, alcuni inediti, che in circa venti
anni Massimo Scolari ha dedicato alla rappresentazione. Ogni scritto, riletto in questo insieme sistematico, manifesta il suo essere parte di un pensiero complessivo che l’autore declina in forme differenti, attraverso la sua attività di teorico, di pittore, di scultore, di architetto e di docente. Tutti gli scritti, così come tutte queste attività, sono
espressione di un pensiero molto alto sul rapporto fra forma, progetto e rappresentazione. Pensiero costruito su studi approfonditi, di cui ogni saggio presente nel libro è chiara testimonianza attraverso il ricchissimo apparato di note, sorta di testo parallelo – integrato da immagini ad esso direttamente riferite – e tutto da indagare nella catena indefinita di rimandi conseguenti alla quantità di riferimenti proposti. Il libro – come indica il sottotitolo “una storia dell’antiprospettiva” – è pervaso da una sorta di posizione “ideologica” nei confronti dell’assonometria, di cui Scolari è noto studioso, considerata come rappresentazione altamente architettonica in cui la strumentalità è propria e riconoscibile. In opposizione alla prospettiva quale strumento imitativo della vista umana, l’assonometria è qui intesa come specifica modalità tecnica per disegnare gli oggetti in tre dimensioni e di cui, attraverso i riferimenti alla storia dell’arte occidentale, è possibile argomentare il primato. Un atteggiamento utile a riflettere sulle tendenze attuali che sembrano considerare la rappresentazione tridimensionale – facilitata dall’uso dei calcolatori elettronici – come un sempre più capace strumento di riprodurre una realtà “virtuale”, in ogni caso attraverso l’uso “illusionistico” della prospettiva. Il testo, attraverso i vari scritti, afferma invece con forza e chiarezza come ogni rappresentazione, rispondendo a particolari e determinate esigenze, sia strumento di un preciso programma, ogni volta da ridefinire. La conoscenza di questi aspetti “simbolici” è quindi necessaria per comprendere in che modo e per quali ragioni stiamo facendo un certo disegno e quindi un certo progetto. Maurizio Carones
Lo stile milanese della Monzini Rosanna Monzini La casa “alla milanese” Abitare Segesta, Milano, 2005 pp. 144, € 21,00
“La casa alla milanese”, titolo dell’elegante volume edito da Abitare – Segesta, fa subito pensare ad un ambiente cordiale, sereno, famigliare; e ricordandoci frasi a tutti note, come “risotto” o “cotoletta alla milanese”, ci introduce in un clima semplice, accogliente, domestico. Rosanna Monzini, che di questi ambienti è l’abile progettista, ci dà un ottimo esempio della sua capacità di comporre gli spazi e della sua attenzione nell’eseguire i dettagli. Come nel titolo del libro, così nel titolo dei vari capitoli che lo compongono, vi sono espressioni inconsuete, curiose, accattivanti: “gli anni dietro le quinte” fanno pensare ad una attesa trepida prima di entrare in scena; “la stanza delle scale” ci rimanda a locali dotati di una propria personalità; “progetti silenziosi” suggeriscono ore di studio solitario e intenso, oppure, da parte della protagonista, una presenza discreta, riservata, poco appariscente. Nel libro le immagini sono molte e varie, i commenti istruttivi e sintetici, l’introduzione, scritta da Annamaria Scevola, è chiara ed essenziale ed ha il pregio di evitare parole enfatiche ed astruse. Tutto ciò denota attenzione e rispetto per il lettore, desiderio di documentarlo senza annoiarlo, di interessarlo senza indottrinarlo. Attraverso i progetti esaminati – dalla mansarda di via Leopardi
alla Casa M. o la Casa R., dalla Casa di Angera al condominio in Engadina, fino alla piccola Cantina nel Canton Ticino – si avverte nella cifra stilistica della Monzini una spiccata propensione per l’eclettismo; un’abile capacità di assimilare e riproporre, in situazioni nuove, forme e modi del passato; stilemi e figure di un tempo trascorso, a volte ormai lontano, a volte molto più recente. L’abilità, anzi la disinvoltura, con cui vengono usati ed accostati tra loro materiali da costruzione tradizionali (mattoni, legno, pietra) e prodotti edilizi più moderni (acciaio, vetro, cementi speciali) lascia stupiti e nello stesso tempo ammirati. Ciò che accomuna le diverse opere, anche se spesso molto dissimili fra loro, non è tanto la fedeltà ad uno stesso “codice di linguaggio”, come dice un capitolo del libro, quanto la costante presenza di un’aura, di un clima, di una atmosfera: o meglio di uno spirito famigliare, domestico, ospitale che tuttavia non indulge mai al folklore o al sentimentalismo. Farebbe piacere essere ospiti in una casa progettata da Rosanna Monzini, dove sotto tanta discrezione si intuisce tanto decoro, un riserbo ed uno stile, è il caso di dirlo, tutto “milanese”. Jacopo Gardella
33 OSSERVATORIO LIBRI
sedi di rappresentanza di banche; grandi funzioni urbane per la cultura, il governo pubblico, le esposizioni commerciali etc. È vero che l’itinerario fotografico è dedicato esclusivamente ai progetti notevoli (e non agli autentici “orrori edilizi” prodotti dalla deregulation alla milanese, quali ad esempio molti recuperi di sottotetti), tuttavia, dopo aver percorso questo itinerario progettuale si ricava un’inquietante impressione di fondo: che restino inespressi, al di là di alcune felici eccezioni, un’idea complessiva e un progetto coerente di città. Come anche l’autore (e il prefatore, Enrico Ragazzoni) sottolineano nei sintetici testi di commento, sembrano restare irrisolti a Milano molti nodi problematici in merito al progetto complessivo di città che, per singole addizioni, si sta realizzando: sulla sua vivibilità, sulla sua sostenibilità, sulla sua equità, sull’impatto al già congestionato sistema della mobilità che il formidabile sovraccarico di progetti potrà determinare.
a cura di Sonia Milone
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Chiarezza e semplicità Heinrich Tessenow: la ricchezza della semplicità. Disegni dell’archivio della Kunstbibliotek di Berlino Parma, Voltoni del Guazzatoio 19 settembre – 9 ottobre 2005 “(…) se ciò che è semplice non sempre è il meglio, il meglio è sempre semplice (…) Non è detto che ciò che normalmente consideriamo chiaro debba essere semplice; sta di fatto però che la semplicità favorisce
la chiarezza (…) A volte si tende a identificare la semplicità con la povertà; è vero invece che esse non hanno praticamente nulla in comune. Infatti, la semplicità cui aspiriamo può rappresentare la più grande ricchezza, così come la varietà di cui disponiamo può rivelarsi la più grande povertà”. La piccola, ma estremamente ricca e preziosa mostra sull’opera di Heinrich Tessenow organizzata dal Festival dell’Architettura di Parma, si apre con questa citazione tratta dal libro più importante del maestro tedesco, Osservazioni elementari sul costruire. In queste parole è racchiusa tutta la sua ricerca e queste parole spiegano anche la scelta di rappresentare e documentare con la sua opera il tema “Ricchezza e povertà” di cui si è occupato la seconda edizione del Festival. Disegni originali, alcuni inediti, provenienti dagli archivi della Kunstbibliotek di Berlino, riproduzioni fotografiche di materiale relativo a progetti e realizzazioni di edifici pubblici, per lo più scuole, oggi perduti, e modelli, sono stati scelti con l’obiettivo di mettere in luce quanto la
ricerca di forme semplici e di altrettanto semplici tipologie costruttive abbia permesso a Tessenow di realizzare edifici assolutamente “condivisibili” e rappresentativi. In questa ricerca non esistono differenze fra la progettazione di una piccola casa per un artista oppure quella della grande piscina coperta di Berlino. In entrambi i casi ciò che interessa a Tessenow è la definizione del carattere dell’edificio di cui si sta occupando. La casa per artista costruita nel bosco appare allora come una
sorta di archetipo, la casa per eccellenza, definita da un tetto importante e da una parete in legno in cui si aprono porte e finestre necessarie. Il carattere della piscina, invece, è determinato dalla scelta di costruire un grande recinto vetrato (vetro che definisce anche la copertura a cassettoni del soffitto) permettendo all’utente di nuotare per così dire en plein air. Una sequenza di fotografie, realizzate appositamente per quest’occasione da Marco Introini, ripercorre gli edifici ancora esistenti, e documenta, in alcuni casi, le loro trasformazioni. Martina Landsberger
Disegni dell’architettura italiana Disegni di architettura. Cinque storie italiane Milano, Fondazione Piero Portaluppi via Morozzo della Rocca, 5 29 settembre – 22 dicembre 2005
La Fondazione Piero Portaluppi – negli spazi molto belli nei quali lavorava l’architetto milanese, oggi sede, oltre che della stessa fondazione, di mostre ed iniziative sull’architettura – raccoglie da vari archivi, a cura di Tito Canella, Massimo Martignoni e Luca Molinari, alcuni disegni di Carlo Aymonino, Guido Canella, Gianluigi Gabetti e Aimaro Isola, Paolo Portoghesi e Aldo Rossi. Coincide con questa esposizione l’uscita, nella collana Disegni e Schizzi di Federico Motta Editore, del volume Guido Canella. Disegni 1955 – 2005. La stessa collana aveva negli scorsi anni già pubblicato in altri volumi anche i disegni degli altri protagonisti della mostra. Visti insieme, i lavori esposti costituiscono veramente – come recita il sottotitolo – una manifestazione di cinque storie italiane. Tutti i protagonisti, nati fra il 1925 e il 1931, hanno infatti segnato profondamente la storia dell’architettura, non solamente italiana, della seconda metà del Novecento e le tavole esposte, nelle diversità evidenti, anche nel modo stesso in cui il disegno e lo schizzo sono praticati, contribuiscono a sottolineare tale importanza. Ruolo che passa anche attraverso l’elaborazione teorica di un rapporto molto preciso fra progetto e disegno che, se da una parte si esprime a volte nello schizzo estemporaneo, dall’altra porta a ridisegnare la città, a rilevarla e a rappresentarla per capirne le forme e ricavare da queste gli elementi fondativi del progetto. Quindi un disegno architettonico, urbano, interamente progettuale. Così come, nel 1976, ben spiega Rossi nella celeberrima tavola della
Città analoga quando, richiamando i “capricci” di Canaletto, disegna una fantasia architettonica interamente dotata di valore programmatico. Allo stesso modo, Aymonino in una tavola del 1985, esposta nella mostra, citando a sua volta una veduta di Canaletto del Bacino di San Marco, inserisce nel disegno di Venezia il suo progetto di torre, il Teatro del Mondo di Rossi ed altre architetture ancora. Come in un moto continuo, l’architettura definisce i suoi percorsi, densi di memoria, attraverso disegni che hanno sempre uno stretto ed inevitabile rapporto con il progetto. Maurizio Carones
Neoprimitivismo urbano: i graffiti di Haring The Keith Haring show Milano, Palazzo della Triennale viale Alemagna 6 28 settembre – 29 gennaio 2006 Fonte di turbamento per gli architetti, oggetto di studio per i sociologi, forma di reato per la polizia, i graffiti nascono in America come fenomeno delle minoranze etniche e delle classi emarginate che, servendosi delle stesse forme stereotipate della società di massa, creano un codice sovversivo immesso come un virus nel cuore della città, sul muro di un edificio, per sabotare gli imperialismi linguistici del potere. Un’ornamentazione selvaggia aggredisce l’architettura e i (non) luoghi della modernità, intaccando la nozio-
to in supporto, lungo la creazione di un linguaggio che trae dalla “street culture” della New York dei primi anni ’80 il suo humus più fecondo, a cui aggiunge spunti derivati dall’arte primitiva. I suoi graffiti hanno fatto esplodere l’arte da manifestazione tutta interna ai perimetri ufficiali dei musei a fenomeno capace di invadere i muri della strada, facendola irrompere direttamente nel centro della società urbana. L’artista ha codificato un’originale e modernissima scrittura per immagini, il cui alfabeto è dato da pochi, essenziali pittogrammi e simboli che combinati insieme vanno ad affollare campi vitali di figurazione che, spesso, esplodono nella denuncia politica delle repressioni etniche e sessuali. Non più immagini, dunque, ma tracciati schematici che, oscillando fra l’icona e l’idea, ritrovano ideografie primordiali e rigettano ogni quadro di contenimento per darsi ad un’espansione infinita (overall). Il graffitismo infatti non ammette limiti, investe qualsiasi oggetto: il corpo umano, i tessuti, le superfici interne ed esterne (murali), o le anfore, dove il grafismo pare ritrovare i ritmi fluenti e il segno
perpetuamente filante della grande pittura vascolare delle aree del Mediterraneo, ridivenendo ornamento pregno di un valore sacrale, come in tutte le culture primitive. Sonia Milone
Ridolfi: fuori dai luoghi comuni Mario Ridolfi architetto Roma, Accademia Nazionale di San Luca, Istituto Nazionale per la Grafica piazza dell’Accademia di San Luca 77 4 ottobre – 7 dicembre 2005 Intenso e curioso il percorso professionale di Mario Ridolfi, uno che pensava con la matita in mano e che non ha avuto paura di nutrire la speculazione intellettuale con i piatti robusti della realtà del fare. Sempre un passo di lato rispetto alla cultura mainstream, si è guadagnato nel tempo la rispettosa emarginazione che tocca spesso a chi non è facilmente inscrivibile in qualche semplificazione critica, salvo poi essere recuperato in tempi di vacche magre teorico-editoriali. Difficile, dunque, affrontare il tema Ridolfi cercando di aggirare la compassionevole e frusta etichetta dell’architetto-artigiano, padre guardiano di un’etica del buon costruire del tempo che fu. È pur vero che le strepitose tavole disegnate a mano e fitte di ogni particolare e annotazione insistono in quella direzione e da sole basterebbero, prese a caso, ad offrire un gustoso intrattenimento. Tuttavia l’archivio Ridolfi-Frankl è pur generoso di materiali che reclamano finalmente un’adeguata divulgazione e una revisione critica in grado di strappare l’opera di Ridolfi alle angustie dei luoghi comuni (vedi alle voci: “neorealismo”, “scuola romana”, etc.). Basti pensare, per esempio, ad
alcuni progetti giovanili, come la torre dei ristoranti e i progetti per chiese, all’edificio delle poste a piazza Bologna, ed ancora a progetti più recenti, come quello per l’hotel Agip a Settebagni (che non sorprendentemente ritorna sul tema accennato dalla torre dei ristoranti), per trovare il filo di una ricerca originale ed energica, padrona delle tecniche, ma non per questo subalterna ad esse, ricca di idiomi, ma non asservita a un linguaggio, che avrebbe potuto facilmente costituire il nerbo di una via italiana, insieme ad altri come Scarpa, Michelucci, Libera, Moretti, o tanti altri cosiddetti “minori”, alla modernità che con troppa fretta si è voluto rinnegare. Venga perciò questa mostra, a cura di Enrico Valeriani, e ne vengano ancora altre, a recuperare e riordinare quello straordinario patrimonio che attende negli archivi. Filippo Lambertucci
Sillabario di un classicista impolitico L’eclettismo della ragione. Vita e opere di Antonio Cassi Ramelli Milano, Palazzo della Ragione piazza dei Mercanti 20 settembre – 16 ottobre 2005 Il Palazzo della Ragione di Milano ha ospitato una vasta esposizione monografica, curata da Elisabetta Susani, con il titolo “L’eclettismo della ragione”, dedicata ad Antonio Cassi Ramelli, uno degli ultimi protagonisti della stagione del Classicismo novecentesco milanese. Dotato di un buon talento grafico, Cassi, dopo la laurea (1927) al Politecnico di Moretti, Portaluppi e Muzio, si era cimentato nel Luna Park del Lido di Venezia ed era poi giunto, per incarico diretto, sulla soglia del conflitto, alle ricostruzioni dei teatri milanesi Lirico ed Olimpia. Alla ripresa la serie delle ricostruzioni si ampliava con la Sede della Società del Giardino, con le due Sale d’Oro e d’Argento, con il Palazzo Perego e con la casa Morardet. Accanto a questi dialoghi con l’antico, Cassi impo-
stava, separatamente, un suo rapporto con il moderno, con realizzazioni per il terziario, la sede Aem, il garage delle Nazioni, con allestimenti d’interni, i milanesissimi bar pasticceria Alemagna, i posti telefonici Stipel, e con veri e propri stabilimenti industriali: Alemagna e le filiali Alfa Romeo del Portello (con una curiosa citazione della Torre Velasca nell’impalcato dell’insegna), di Padova, Torino, Bari. In campo universitario, seguendo Portaluppi, Cassi, divenuto prima professore di Caratteri degli edifici, con Logica e realtà degli edifici e Sillabario di architettura e con la serie Documenti di Architettura, approdava, poi, alla cattedra di Composizione. La sua dialettica antico-moderno, ricostruzioni “classiche” e nuovo linguaggio per l’industria, subì un arresto improvviso, quando, impegnato, dal 1960, nella costruzione della sede della Snia Viscosa, nelle forme di un incerto neopalladianesimo, venne contestato pesantemente (1963) dagli studenti nei metodi didattici e negli esiti architettonici e si dimise. Era la fine di un’epoca, nella costruzione urbana, negli studi. Il catalogo ospita numerosi saggi, documentando con precisione la sua opera. Le foto di Gabriele Basilico, in mostra e nel catalogo, sono uno straordinario saggio di fotografia, che riporta, oltre ogni possibile discorso, ogni assenza o omissione ideologica, alla realtà di quell’architettura milanese. Stefano Cusatelli
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ne di decoro, di igiene, di asettica neutralità programmata da una società tecnologicamente sofisticata. Anche Keith Haring inizia la sua attività dalle superfici della metropolitana, ma non viene dal “basso” come gli altri anonimi autori di graffiti, ha una solida formazione artistica, ma con questi condivide la dimensione urbana come “natura seconda”, muri e palazzi come orizzonte più prossimo. La pratica nomade del suo dipingere lo conduce di stazione in stazione, di suppor-
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Alcune opere milanesi di Eugenio Gentili Tedeschi di Andrea Savio
Eugenio Gentili Tedeschi nasce nel 1916 a Torino. Si laurea in Architettura al Politecnico di Torino nel 1939; dal 1941 al ’43 è a Milano a fare apprendistato nello studio di Gio Ponti. Nello stesso periodo studia pittura nello studio di Felice Casorati fino al 1941. Gli anni della formazione sono quelli dell’affermazione del Razio-
nalismo e dell’architettura moderna in Italia. Sono gli anni di “Casabella”, di Pagano e di Persico. “Profezia dell’Architettura” è la conferenza che Edoardo Persico tiene a Torino nel gennaio del 1935 e che rappresenta una sorta di imprinting nella formazione razionalista di Gentili. Sono anni di grande fermento, dedicati a seguire quanto si sta compiendo in Europa nell’ambito della modernità e del Razionalismo. Sono anche gli anni del fascismo e delle leggi razziali che Gentili Tedeschi e la sua famiglia sono costretti, come tutti gli Ebrei, a subire. Partecipa alla Resistenza combattendo con i partigiani in Valle d’Aosta e viene anche incarcerato ad Aosta per qualche mese. Nell’inverno del 1944-45, sfuggendo ai rastrellamenti dei nazisti attraversa le Alpi e giunge in Francia da dove, grazie alle forze alleate, viene condotto a Roma. Con Calcaprina, Muratori, Radiconcini, Ridolfi, Tedeschi e Bruno Zevi, lavora alla fondazione e alla pubblicazione della rivista “Metron”, la prima rivista d’architettura ad essere pubblicata in Italia dopo la liberazione. A Roma aderisce all’APAO (Associazione Per l’Architettura Organica) fondata da Bruno Zevi. Pochi mesi dopo la liberazione
torna a Milano con il compito di contattare alcuni architetti per informarli e coinvolgerli nella pubblicazione di “Metron”. Nel 1946 apre lo studio professionale a Milano. Nello stesso anno viene cooptato nel MSA (Movimento di Studi per l’Architettura), associazione culturale di stampo razionalista: Gentili Tedeschi è l’unico architetto in Italia ad aver aderito sia all’APAO che al MSA. Il primo importante lavoro svolto a Milano è la ricostruzione della Sinagoga di via Guastalla. Il concorso a inviti per la ricostruzione del Tempio – distrutto nel corso dei bombardamenti del 1943 – è vinto a pari merito con l’arch. M. D’Urbino. L’opera viene realizzata negli anni 1951-53 sotto la direzione dei lavori di Gentili. Chiamato da Piero Bottoni, collabora con incarichi di varia responsabilità alla VIII, IX e X Triennale, dove per molti anni è membro del Comitato direttivo del Centro Studi. L’attività di docenza universitaria di Gentili Tedeschi comincia nel 1955 a Venezia come assistente ai corsi di Albini, Gardella e Belgioioso. Consegue la Libera Docenza nel 1959 e collabora al corso di Arredamento tenuto da Albini. Sempre a Venezia, insegna Storia dell’Industria all’interno del corso superiore di Disegno industriale. Prosegue l’attività accademica presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano: dal 1964 è professore incaricato di Composizione Architettonica, mentre nel 1981 diventa professore ordinario di Composizione architettonica. Parallelamente all’attività didattica, Gentili Tedeschi pubblica un consistente numero di saggi: Elementi di Architettura, Tamburini, Milano, 1965; I componenti della progettazione, Franco Angeli, Milano, 1980; Uno spazio per l’architettura Franco Angeli, Milano, 1982; (con AA.VV.) La cultura del progetto, Clup, Milano, 1985; Milano, i segni della storia, Alinea, Firenze, 1988; Il Design: un approccio metodologico, Città Studi, Milano, 1992; (con G. Denti) Le Corbusier a Villa Adriana, Alinea, Firenze, 1999. Dal 1961 – anno di nascita della rivista – e per i successivi vent’anni Gentili Tedeschi collabora alla direzione di “Abitare” con la fondatrice Piera Peroni e, successivamente, con Franca Santi.
L’attività professionale prosegue con alcuni progetti importanti per Milano. Nel 1953, insieme a Minoletti, vince il 1° premio ex aequo al concorso per la sistemazione edilizia e urbanistica della Stazione Centrale FF.SS. Nel 1957, il gruppo di Milano (composto da Gentili Tedeschi, Minoletti e Tevarotto) ed il gruppo di Roma (costituito da Bonamico, F. e G. Gigli e Janicelli) vincono il 1° premio ex aequo al concorso per la Stazione ferroviaria di Porta Garibaldi, la cui costruzione verrà ultimata nel 1963. Del 1957 è anche il progetto del 1
Quartiere per i dipendenti della società Pirelli a Cinisello Balsamo. Si tratta di un complesso residenziale, interno al piano INA-Casa, con edifici lineari a tre piani e tre torri multipiano. Nel 1959 progetta e realizza (ultimato nel 1961) lo stabilimento Italfarmaco in viale Fulvio Testi a Milano. Lungo la nuova arteria di traffico creata con il PRG del 1953 si snoda il complesso formato da corpi lineari multipiano, comprendenti reparti di produzione, laboratori di ricerca, magazzini, uffici direzionali e amministrativi, servizi tecnici e per il personale. L’opera è insignita del premio dell’Istituto Nazionale di Architettura (INARCH) per la Lombardia nel 1963. Sempre nel 1959, la Comunità ebraica di Milano lo incarica per la progettazione e direzione lavori dell’Istituto A. da Fano in via Sally Mayer. Si tratta di un vasto complesso scolastico omnicomprensivo che ospita scuola materna, elementare, media ed i licei oltre a tre palestre, una mensa, laboratori scientifici ed aule specializzate. L’edificio è realizzato negli anni 1961-62. Nel 1967 Gentili Tedeschi, insieme a Francesco Gnecchi-Ruscone, progetta e realizza un condominio di sette piani in viale Elvezia affacciato sul parco Sempione e
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sull’Arena. L’edificio, realizzato nel 1968-70, è caratterizzato dal rivestimento in lastre di silipol color mattone e dagli ampi terrazzi che marcano i due angoli del blocco sul lato del parco. Un’architettura “pulita” e scevra dagli stilemi dell’epoca che, in una zona urbana di rilevante valore ambientale, conserva, a quasi quarant’anni dalla costruzione un’immagine di rara eleganza e sobrietà. Un’altra opera per la Comunità ebraica di Milano, realizzato da Gentili in via Montecuccoli, verso la metà degli anni ’80, è rappresentata dal Centro comunitario e Sinagoga NOAM. Si tratta di un complesso dalle dimensioni compatte, ma di rilevante qualità rappresentativa. Alla metà degli anni ’80, su incarico dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, insieme agli architetti Cannetta e Spinelli, progetta i Laboratori Acceleratori Superconduttività Applicata (LASA). L’edificio che ospita un ciclotrone medico sorge a Segrate ed è costituito da una grande hall tecnologica con annessi spazi per l’impiantistica e il governo delle apparecchiature (studi, laboratori, biblioteca e aule). Nel 1985 progetta, insieme all’arch. Spinelli, su incarico dell’Università degli Studi di Milano, il Laboratorio Interdisciplinare di Tecnologie Avanzate (LITA). Si tratta di un altro edificio destinato ala ricerca scientifica, a poca distanza dal precedente. Nel 1989 viene costituito lo Studio E. Gentili Tedeschi, G. Calzà, A. Savio – Architetti Associati. Nel 1991, il progetto dello Studio associato partecipa al Concorso internazionale per l’area Garibaldi-Repubblica ricevendo una delle 20 segnalazioni. Verso la fine degli anni ’90 lo studio ha l’occasione di misurarsi su
1. Concorso per la sistemazione edilizia e urbanistica della Stazione Centrale di Milano. 2. Stabilimento Italfarmaco, Milano. 3. Casa di riposo per anziani della Comunità ebraica, Milano.
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di un tema specialistico e di grande attualità: il progetto di ristrutturazione di sale cinematografiche. Alcune sale storiche di Milano, come il Ducale, l’Excelsior e Mignon, e l’Arcobaleno, attraverso interventi che interessano in modo significativo le strutture portanti, sono trasformate in Multisala. L’attività professionale di Gentili Tedeschi non è mai disgiunta dall’impegno culturale: una volta conclusa l’esperienza didattica al Politecnico, si dedica con grande entusiasmo alle attività di un gruppo di lavoro che opera sul tema della storia dell’ebraismo all’interno della cultura moderna e contemporanea. Gentili è eletto presidente del “Nuovo Convegno” nel 1992 e guiderà il circolo culturale per più di dieci anni. Gli ultimi anni della sua attività professionale lo vedono impegnato in diversi progetti realizzati al di fuori dell’ambito milanese. Alcune opere sono state costruite a Riva del Garda e nella regione Trentino, dove lo studio associato ha un’altra sede; o, a Pavia, dove Gentili, su incarico dell’Università, svolse diversi interventi di restauro e ampliamento del complesso monumentale “ex Orfanotrofio San Felice” (Facoltà di Scienze Economiche e di Filosofia) oltre che il restauro della ex chiesa San Felice (IX sec.). Uno degli ultimi lavori di Gentili a Milano, è stato il progetto per la nuova Casa di riposo per anziani della Comunità ebraica. Si tratta di un progetto molto “travagliato”: iniziato nel 1992, ottiene la concessione edilizia nel 2000; i lavori di costruzione sono finalmente iniziati a luglio di quest’anno sotto la D.L. di A. Savio. L’edificio sorgerà in un’area a lato del complesso delle Scuole ebraiche di via Sally Mayer. Eugenio Gentili Tedeschi muore il 14 aprile scorso.
di lampadari sospesi sopra la Tevà. La Sinagoga è lo spazio di incontro e di riunione dei fedeli ma è anche il luogo della tradizione e della memoria. Qui l’architetto ha voluto “storicizzare” il momento della distruzione – lacerante metafora dello sterminio – come parte della vita del Tempio, lasciando staccato e al rustico, con i vecchi mattoni a vista, il muro interno superstite della facciata beltramiana. Ac-
rivestimento usato per il Duomo. Anche la definizione dei dettagli è densa di richiami colti, come nel caso delle finestre laterali, di forma stretta e allungata, che danno ampia luminosità all’interno, velata ma dichiarata citazione della Mole di Torino, opera dell’Antonelli, a cui Gentili Tedeschi attribuisce il merito di aver saputo esprimere, nella cupola quadrata, una geniale sintesi dello spazio sinagogale e della
matrice geometrica della città. Alla Biennale di Venezia del 1992 il progetto della Sinagoga di Via Guastalla viene esposto alla Mostra Lo spazio sacro nell’architettura moderna. Nel 1996-97 l’edificio è stato oggetto di un intervento di ristrutturazione che ha riguardato principalmente l’interno, ridisegnato da P. Pinto e G. Alhadeff. Le significative modifiche apportate all’architettura originaria non ne rispettano appieno le indicazioni ed i caratteri, e sono state oggetto di discussioni soprattutto a causa del grande valore simbolico del manufatto. 2. Stazione ferroviaria di Porta Garibaldi, 1957-63 Milano “Il problema dell’arretramento della vecchia stazione di Milano Porta Nuova risale all’epoca in cui, abolita la vecchia cintura ferroviaria della città, è stato trovato tra le Ferrovie dello Stato ed il Comune di Milano un accordo per localizzare i nuovi impianti circa un chilometro a monte di quelli vecchi, ad una quota sensibilmente inferiore a quella del piano stradale urbano. (…). Sulla base di questo programma è stato indetto un concorso (1957), che ha visto vincitori ex aequo un gruppo di architetti milanesi, composto da Eugenio Gentili Tedeschi, Giulio Minoletti e Mario Tevarotto, ed uno di architetti romani, costituito da Sergio Bonamico, Franco e Guido Gigli e Dante Janicelli. Dall’unione dei due gruppi è nato il progetto finale della Stazione, che ha assunto il nuovo nome di Porta Garibaldi, mentre la sistemazione urbanistica della zona, che pure era stata oggetto del concorso, è stata definita a cura del Comune. Il nuovo fabbricato viaggiatori assolve a due compiti fondamentali: il primo è quello di interscambio fra la città e le linee ferroviarie, il secondo è il collegamento tra il livello del piazzale della stazione e quello di una nuova piazza sopraelevata, ricavata sulla copertura dei binari di transito. Tale collegamento avviene tramite una “strada” pedonale coperta e fiancheggiata da negozi, che corre al piano superiore del fab-
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Gentili Tedeschi ottiene l’incarico per la Sinagoga a seguito di un concorso ad inviti, indetto dalla Comunità Ebraica nel 1946, riservato a professionisti ebrei, per la ricostruzione del precedente edificio, opera di Luca Beltrami, quasi completamente distrutto nei bombardamenti della seconda guerra mondiale. Egli infatti vince il primo premio ex aequo con Manfredo D’Urbino, ma le linee progettuali rispettate sono quelle indicate da lui, che si incarica anche della direzione dei lavori. Il progetto, elaborato all’indomani della tragedia che ha colpito l’ebraismo europeo con la Shoà, è il ripensamento di uno spazio sacro di alto valore simbolico, svincolato da qualunque riferimento stilistico appartenente alla tradizione. Viene rispettato l’impianto basilicale di Beltrami, ma affermata la centralità della lettura come fuoco della composizione spaziale. Centralità rafforzata dalla presenza di una cupola a base quadrata e di quattro gran-
canto a questo muro sono state ricomposte le vecchie lapidi a ricordo della costruzione del Tempio: cioè i due momenti estremi della vita di questo monumento. Il progetto per il Tempio è un complesso e raffinato dialogo tra i valori alti della tradizione ebraica e la cultura moderna espressa secondo i vocaboli della poetica razionalista. Le linee semplici ed essenziali caratterizzano in senso moderno la composizione: le travi di sostegno della copertura sono lasciate a vista, i pilastri che sostengono il matroneo sono concepiti come appoggi “a bilanciere” e realizzati in forma esile con granito rosa di Baveno e cuscinetti a rullo di acciaio inox alle estremità (lo studio delle strutture è stato svolto dall’ing. Ruggero Rossi). La scelta di alcune finiture si rivolge a materiali preziosi e di prestigio capaci di farsi portatori di segni del luogo in cui la Sinagoga sorge: segni non banali, riferiti a modelli “alti” del fare. Ne è esempio il largo impiego di marmo di Candoglia, utilizzato in forma di sottili lastre a tamponamento dei parapetti, con il richiamo esplicito al materiale di
1. Sinagoga, 1951-53 Milano, via della Guastalla 19
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bricato viaggiatori, e che ad una estremità è servita da un gruppo di scale fisse e mobili, mentre all’altra sbocca sulla nuova piazza. (…). Nel sotterraneo corre un passaggio longitudinale, esso pure fiancheggiato da negozi e vetrine, che disimpegna i binari di transito e che dà accesso direttamente alla futura stazione della metropolitana. Il carattere fondamentale dell’edificio è quello di essere un’architettura in ferro, nella quale non è stato concepito alcun dualismo fra struttura ed architettura, l’una essendo totalmente integrata nell’altra. Da ciò l’essenzialità delle soluzioni adottate, con le grandi travi continue a parete piena prolungate al di là degli appoggi, a formare due sbalzi uguali di 24 metri, come copertura della galleria delle carrozze e della galleria di testa: gli elementi di completamento tengono rigoroso conto di questa condizione di base e si sviluppano come coerente integrazione di una moderna costruzione metallica.” tratto da “Lotus”, n. 1, 1964/65 3. Istituto “A. da Fano”, 1959-62 Milano, via Sally Mayer 2 L’istituto ospita le scuole della Comunità Ebraica ed è situato nel-
la periferia Nord Ovest della città. I temi affrontati nella progettazione sono molteplici: si tratta di un complesso che ospita i diversi livelli scolastici, dalla materna alle elementari, dalle medie ai licei e che impone dunque una articolata distribuzione delle diverse funzioni e degli spazi di servizio. La provenienza straniera di buona parte della scolaresca suggerisce a Gentili di privilegiare gli spazi destinati alle attività collettive in modo da favorire l’incontro tra i diversi gruppi di giovani. Le potenziali evoluzioni della tecnica didattica consigliano inoltre di studiare soluzioni distributive flessibili e capaci di adattarsi ai futuri sviluppi organizzativi delle scuole. L’edificio, alto due, tre piani fuori terra, si articola su due lati del perimetro del lotto in modo da avere lo spazio verde al centro dell’organismo: le aule e le zone di lunga permanenza affacciano sul giardino mentre verso strada prospettano spazi comuni, disimpegni e servizi. Per le molteplici attività ospitate nel complesso scolastico, l’edificio è dotato di più ingressi. Le facciate sono caratterizzate dalla trama di pilastri e travi lasciati a vista, dai tamponamenti di mattone, dal vetrocemento e dai serramenti di alluminio naturale: il vocabolario espressivo utilizzato da Gentili
richiama il progetto, coevo, per l’Italfarmaco e segnala un rigore linguistico che nulla concede a formalismi di sorta. In corrispondenza dell’atrio d’ingresso delle scuole medie, su via Sally Mayer, è stata realizzata una parete di calcestruzzo a vista: un bassorilievo giocato sul quadrato, di varie dimensioni e profondità, il cui valore plastico varia con la diversa incidenza della luce al trascorrere delle ore e delle stagioni. Non c’è simbolismo nè citazione: si tratta di un oggetto poetico capace di evocare interpretazioni molteplici legate all’esperienza di ciascuno – una funzione di “immagine-ricordo” capace di imprimersi nella memoria. 4. LASA (Laboratorio Acceleratori Superconduttività Applicata), 1983-87 Segrate (Mi), via Cervi 201
Costruito per l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare in un’area adiacente al Parco Lambro di proprietà dell’Università Statale di Milano, questo complesso edilizio fu voluto dall’allora direttore dell’Istituto, Prof. Resmini, al fine di creare una sede adatta alla costruzione di un grande ciclotrone superconduttore per la ricerca scientifica. Il centro si compone di quattro corpi accostati di dimensioni ed altezze molto diverse, tra cui la palazzina a pianta quadrata destinata agli uffici, il grande capannone del ciclotrone con le aree di controllo, la centrale impianti e l’officina. La sottolineatura dei grandi cavalletti in cemento armato che nel
capannone dovevano assorbire la poderosa spinta del carro ponte, diventa l’elemento espressivo dell’intero complesso e ne esalta il carattere tecnologico. Il respiro che si legge all’interno della palazzina uffici a pianta quadrata, dove gli ambienti collegati da una balconata affacciano sull’atrio d’ingresso, è dovuto agli spazi a tutta altezza ed alla grande luce che, generata dalle vetrate inclinate, pervade gli ambienti. Esternamente, il cemento armato si accompagna alle pareti in lastre di vetro riflettente che, all’intersezione delle facciate inclinate, moltiplicano gli effetti spaziali. Le inclinazioni della matrice progettuale si ritrovano anche nella definizione dei percorsi e delle aree esterne, dando luogo ad un effetto di grande coerenza d’insieme.
5. Centro Comunitario e Sinagoga NOAM, 1986 Milano, via Montecuccoli 27 Destinato ad una comunità originaria della Persia, insediata da vari anni a Milano, questo edificio comprende una Sinagoga ed una sala per attività sociali, oltre ai necessari servizi. Il progetto è stato concepito come un piccolo insieme di moduli, piuttosto un “pezzo di paese” che un singolo blocco unitario: gli elementi che lo compongono hanno le cadenze articolate di una cortina edilizia formata per accostamento di oggetti aventi la medesima matrice, ma non per questo una rigida continuità di dimensionamento nel-
6. LITA (Laboratorio Interdisciplinare di Tecnologie Avanzate), 1987-95 Segrate (Mi), via Cervi 93 Costruito per l’Università degli Studi di Milano nell’area adiacente a quella del LASA, è un complesso edilizio di 24.000 mq destinato alla ricerca universitaria ed alla didattica nell’ambito delle tecnologie bio-mediche. È costituito da una torre la cui pianta risulta dall’intersezione di due triangoli, da un corpo basso sviluppato intorno ad un patio anch’esso di forma triangolare, e da corpi complementari in parte interrati per le centrali impianti, garage e laboratori speciali. Nella torre si trovano laboratori e studi, mentre nei corpi bassi sono concentrate le funzioni comuni: aula magna, self-service, biblioteca. Queste funzioni, con forte valore di aggregazione per l’intero complesso, affacciano sul patio centrale, dove il gioco di riflessione delle vetrate ricompone un quadrato virtuale. Il cotto lombardo che, dall’atrio d’ingresso, si estende nel patio e nella terrazza superiore, unifica gli spazi e li connota come tradizionalmente universitari. Scale esterne mettono in collegamento la copertura del corpo basso e la corte interna con l’area circostante a verde, configurando un unico spazio articolato e dinamico. I due complessi LASA e LITA, insistendo sulla stessa area, pur se sorti a qualche anno di distanza l’uno dall’altro, costitui-
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ribassati, strade interne, fino a disegnare una sorta di paesaggio urbano complesso, di fabbricati, percorsi e giardini, tutti pensati fin nei dettagli per essere abitati ed usati da persone. Nei lunghi anni di cantiere che la costruzione dei due edifici ha richiesto, principale preoccupazione di Gentili era difendere il progetto in corso d’opera dalla minaccia costante dei “brutti particolari”, disegnando assolutamente tutto, prima con i suoi schizzi a matita in cantiere, piante e sezioni quotate e praticamente esecutive, poi in studio, rivedendo, correggendo, disegnando ancora. Importante era mantenere il controllo del progetto nel suo insieme, senza permettere che le infinite varianti ne intaccassero la natura, proteggerlo dalle scelte apparentemente poco importanti, dalla fretta del committente, dalle esigenze del cantiere, dall’incuria degli impiantisti (temuta più di ogni altra cosa), affinché dall’ingresso principale all’ultimo dei pozzetti della fognatura, ogni dettaglio fosse espressione di quella poetica dell’architettura in cui ha sempre creduto. Con incrollabile fede nelle alte funzioni sociali e culturali del progetto architettonico come strumento per incidere sulla realtà e trasformarla in meglio, Gentili ha affrontato la sfida di questi edifici dalle specifiche tecnologiche così complesse e aride, cercando di esprimerne l’anima e farne luoghi dell’esperienza umana, non solo spazi geometricamente definiti.
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le varie fronti su strada e su corte. Nell’ovvio rifiuto di qualsiasi assonanza stilistica con la cultura formale dell’area di origine dei committenti, se ne è tuttavia voluto tenere conto, cercando piuttosto di cogliere la struttura dell’immagine, per tentare di esprimerla attraverso un linguaggio assolutamente rigoroso e aderente alle linee del Moderno. Struttura che è stata identificata essenzialmente in una forte intensità di segni: tale concetto si ritrova soprattutto nella sistemazione interna della Sinagoga, nei rivestimenti delle pareti in mosaico vetroso a toni di azzurro, trapuntati da tessere d’oro, nel contorno del fondale, nelle lampade formate dalla composizione di semplici angolari metallici, ecc. Importanza particolare è stata assegnata alle funzioni del colore e della luce: la sinagoga è tutta giocata sul bianco, l’azzurro e l’oro, che si ritrovano nel pavimento di granito del Labrador, nella zoccolatura di legno laccato, nei parapetti di marmo bianco e nei già citati rivestimenti. Le vetrate del rosone e del lucernario concludono lo svolgimento del tema, improntato ad un’atmosfera di gioiosa vitalità. Identico gioco cromatico si ritrova all’esterno con i rivestimenti ceramici bianchi ed i frangisole in cemento verniciato in vari toni di azzurro. Alla Biennale di Venezia del 1992 il progetto del Centro Comunitario e Sinagoga NOAM viene esposto alla Mostra Lo spazio sacro nell’architettura moderna
scono un unico polo tecnologico universitario, immediatamente riconoscibile come un insieme unitario per la logica rigorosa dei tagli spaziali e l’accostamento tra il cemento armato e le pareti vetrate. Per Gentili, i legami visibili e non visibili tra i due edifici erano profondi, ed i motivi progettuali ispiratori nascevano dalla stessa matrice filosofica e dalla stessa concezione di vita e d’uso degli spazi. Il complesso del LASA dichiara fin da subito la sua natura articolata, attraverso il contrasto dei volumi fortemente differenziati del capannone e della palazzina laboratori, uffici, mentre il LITA si presenta come più inaccessibile e rigoroso nelle facciate perfettamente a filo e negli spigoli vivi dei triangoli che lo compongono. Ma i richiami, le assonanze tra i due sono costanti e continui. Lo stesso elemento architettonico della diagonale, che nel LASA nasce da un’esigenza strutturale e poi si riverbera nell’inclinazione della palazzina uffici, diventa nel LITA il vincolo planimetrico, fino a suggerirne la forma. Gentili aveva disegnato la giacitura del LITA nel terreno proseguendo la proiezione della diagonale che nasce dallo spigolo interno del LASA., a sottolineare il legame ideale tra i due complessi. Come il LASA esprime al suo interno una tipologia a corte, nella quale tutti gli uffici affacciano su di un atrio centrale a tutta altezza che si configura come una sorta di cortile interno fortemente aggregante, così il LITA ha nel patio esterno che collega le aule con il self-service e lo spazio a verde, il suo “cuore caldo”, un luogo di incontro e socializzazione che bilancia la marcata connotazione tecnologica dell’edificio. Nei fabbricati alti, l’uso di una pavimentazione di colore diverso ad ogni piano facilita l’orientamento immediato e vivacizza ambienti a forte impatto tecnologico, accomunando i due edifici in una scelta che privilegia la vivibilità interna. La ricerca minuziosa della luce per ogni ambiente, anche tecnico, destinato alla permanenza di persone, è stata perseguita dal progettista con costanza, a costo di invenzioni faticose di giardini in pendenza, piazzali di accesso
a cura di Walter Fumagalli
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Gli interventi di recupero in Lombardia Il processo di riconversione che da anni, a livello nazionale e regionale, sta coinvolgendo e in buona parte sconvolgendo il mondo produttivo, ha profonde ricadute anche sul patrimonio edilizio delle nostre città, ed in certi casi arriva a modificare radicalmente il panorama urbano. Allorquando piani regolatori sintonizzati ancora su una realtà superata dai fatti rendono impossibile dare il via ad un processo di radicale sostituzione del tessuto edificato preesistente, gli operatori sono costretti a recuperare i fabbricati produttivi per tentare di riconvertirli ad usi compatibili con le richieste del mercato. Circa trent’anni fa il legislatore statale ha deciso di uniformare su tutto il territorio nazionale le definizioni degli interventi di recupero degli edifici esistenti, introducendo l’Articolo 31 della Legge 5 agosto 1978 n. 457 e stabilendo che le disposizioni in esso contenute sarebbero prevalse sulle previsioni degli strumenti urbanistici comunali e dei regolamenti edilizi. Successivamente il citato Articolo 31 è stato trasfuso (non senza modifiche) nell’Articolo 3 del D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380. In Lombardia, però, la materia è oggi regolata dall’Articolo 27 della Legge Regionale 11 marzo 2005 n. 12, il quale ha a sua volta innovato il testo dell’Articolo 3 poc’anzi richiamato, stabilendo al contempo che nella nostra regione esso non può più avere applicazione (Articolo 103 della Legge Regionale n. 12/2005). Prima di esaminare il testo del citato Articolo 27 va ricordato che l’Articolo 117 della Costituzione, dopo aver inserito il “governo del territorio” tra le materie “di legislazione concorrente”, precisa che “nelle materie di legislazione concorrente spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”. In sintonia con questa regola, l’Articolo 2 del D.P.R. n. 380/2001 dispo-
ne che “le regioni esercitano la potestà legislativa concorrente in materia edilizia nel rispetto dei princìpi fondamentali della legislazione statale desumibili dalle disposizioni contenute nel testo unico”. Pertanto la normativa regionale in tema di “governo del territorio” può considerarsi costituzionalmente legittima, solo se sia rispettosa dei “princìpi fondamentali” dettati in materia dalla legge statale. Ovviamente ogni volta il problema (non sempre facile da risolvere) è quello di stabilire se una certa disposizione statale configuri o meno un “principio fondamentale”, e quindi se la disciplina regionale debba necessariamente uniformarsi ad essa. Per quanto riguarda l’Articolo 3 del D.P.R. n. 380/2001, si può ritenere che non tutte le definizioni in esso contenute costituiscano “princìpi fondamentali”, ma alcune probabilmente sì, ed a queste ultime devono necessariamente uniformarsi le norme regionali, le quali vanno quindi interpretate in modo coerente con tali princìpi pena la loro illegittimità costituzionale. L’Articolo 27 della Legge Regionale n. 12/2005 riproduce la tradizionale ripartizione che la legge statale prevede fin dal 1978 (manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia), ma rispetto alla normativa statale le definizioni regionali presentano diversi elementi di novità, sui quali è bene soffermare l’attenzione. La manutenzione ordinaria La prima parte della lettera “a” dell’Articolo 27 non presenta differenze rispetto alla corrispondente lettera dell’Articolo 3 del D.P.R. n. 380/2001, mentre la seconda parte risulta totalmente nuova, laddove ammette espressamente anche “l’impiego di materiali diversi, purché i predetti materiali risultino compatibili con le norme e i regolamenti comunali vigenti”. Secondo questa norma, la manutenzione ordinaria può comportare anche la sostituzione dei materiali preesistenti con materiali differenti
senza che per questo l’intervento “slitti” in una diversa categoria, e quando ciò accade essa deve essere rispettosa delle normative locali che regolano la materia. Ma secondo un’interpretazione letterale della norma regionale, allorquando tali normative non vengono rispettate l’intervento non potrebbe più essere qualificato come manutenzione ordinaria, ma verrebbe a configurare una diversa tipologia di intervento. Questo interpretazione, però, francamente non convince. Considerato infatti che la qualificazione di un intervento di recupero non può dipendere dalla disciplina locale relativa ai materiali utilizzabili in una certa zona, sembra più sensato ritenere che, nel caso di mancato rispetto di tale disciplina, l’opera vada comunque qualificata come manutenzione ordinaria, ma non possa essere eseguita proprio a causa di tale contrasto. Fermo restando quanto sopra, le innovazioni introdotte dalla legge regionale non paiono in contrasto con i “principi fondamentali” desumibili dalla normativa statale, ma sembrano anzi una specificazione di tale normativa, perfettamente in linea con la regola dettata dall’Articolo 117 della Costituzione. La manutenzione straordinaria Considerevolmente diversa è la definizione fornita dalla lettera “b” dell’Articolo 27, rispetto a quella contenuta nella legge statale. Gli elementi di novità sono molteplici: • per la prima volta la manutenzione straordinaria viene fatta coincidere anche con il “consolidamento” di parti degli edifici esistenti; • per la prima volta viene esplicitamente enunciata la regola fattasi largo man mano nella prassi amministrativa, secondo cui con la manutenzione straordinaria si può anche modificare l’assetto distributivo interno a singole unità immobiliari; • viene soppressa la limitazione tradizionalmente prevista dalla legislazione statale, per cui la manutenzione straordinaria non può alterare “i volumi e le superfici delle singole unità
cludere che in Lombardia la modifica della destinazione d’uso preesistente continui ad essere esclusa dal concetto di manutenzione straordinaria. Il restauro ed il risanamento conservativo Salvo un richiamo all’obiettivo di “recuperare” l’organismo edilizio preesistente, la definizione contenuta nell’Articolo 27 della Legge Regionale riproduce pedissequamente quella riportata nell’Articolo 3 della Legge Statale, e quindi dal punto di vista che qui interessa non genera problematiche di sorta. La ristrutturazione edilizia Il tema della ristrutturazione edilizia presenta una certa complessità solo per quanto riguarda gli interventi di demolizione e ricostruzione, giacché per il resto la definizione regionale è identica a quella statale. Vigente ancora l’Articolo 31 della Legge n. 457/1978, i giudici amministrativi avevano elaborato la teoria secondo cui la ristrutturazione edilizia comprendeva anche la demolizione e la fedele ricostruzione degli edifici esistenti. Forzando più del lecito le maglie della Legge, l’Articolo 66 del Regolamento edilizio di Milano aveva tentato di estendere il concetto di ristrutturazione edilizia fino a comprendervi “la demolizione e ricostruzione, parziale o totale, dei fabbricati nel rispetto della consistenza volumetrica di quelli preesistenti”, a prescindere dalla fedele riproduzione della sagoma degli stessi. In realtà questo tentativo non ha avuto grande fortuna dal punto di vista giuridico, giacché il Consiglio di Stato, come se la norma regolamentare neppure esistesse, ha definito come nuova costruzione un intervento consistente nella demolizione di un capannone produttivo ad un piano e nella conseguente costruzione di un edificio residenziale di sette piani, “ancorché e stranamente definito di ristrutturazione” dal comune (Consiglio di Stato, Sezione II, 30 giugno 2004 n. 1366/03). Nel frattempo, comunque, era entrato
in vigore il D.P.R. n. 380/2001 che, nel testo modificato dall’Articolo 1 del Decreto Legislativo 27 dicembre 2002 n. 301, aveva recepito l’insegnamento della magistratura amministrativa, qualificando espressamente come ristrutturazione edilizia anche gli interventi “consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente”. Oggi l’Articolo 27 della Legge Regionale n. 12/2005 riconduce nella ristrutturazione edilizia anche gli interventi “consistenti nella demolizione e ricostruzione parziale o totale nel rispetto della volumetria preesistente”, e quindi lascia spazio alla tesi per cui, non essendo stata menzionata la sagoma preesistente, sia possibile costruire un fabbricato completamente diverso da quello demolito, purché dotato della medesima volumetria. Al di là di una certa somiglianza riscontrabile tra l’Articolo 27 della Legge Regionale e l’Articolo 66 del Regolamento edilizio di Milano (ma il resto dei due articoli è completamente diverso, il che concorre ad attribuire alle norme in esame significati assai differenti), questa tesi non convince per almeno due ragioni. Anzitutto, l’uso del termine “ricostruzione” (e non “costruzione”) lascia intendere che il nuovo edificio debba essere simile a quello demolito; secondariamente, sarebbe senz’altro criticabile dal punto di vista costituzionale una norma regionale che qualificasse come ristrutturazione, un intervento che in ogni altra regione configura una nuova costruzione vera e propria, con conseguente possibilità di derogare agli indici di fabbricabilità previsti dai piani regolatori. Sembra quindi che la norma regionale vada correttamente interpretata nel senso che anche in Lombardia la demolizione e ricostruzione di un edificio possa essere qualificata come ristrutturazione edilizia, solo laddove il nuovo fabbricato possieda una sagoma, se non perfettamente identica, almeno molto simile a quella dell’edificio demolito. W. F.
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immobiliari”, e si prevede invece che essa possa comportare “la trasformazione di una singola unità immobiliare in due o più unità immobiliari, o l’aggregazione di due o più unità immobiliari in una unità immobiliare”; • viene altresì soppressa la limitazione secondo cui la manutenzione straordinaria non può comportare “modifiche delle destinazioni d’uso”, ma nulla si stabilisce esplicitamente al riguardo. Per quanto riguarda le innovazioni di cui alle lettere “a” e “b”, non pare che la norma regionale possa essere criticata dal punto di vista costituzionale, trattandosi di novità che non appaiono in contrasto con i princìpi desumibili dalla disciplina statale. Anche l’innovazione di cui alla lettera “c” appare coerente con i princìpi desumibili dalla normativa statale, purché venga interpretata in maniera rigorosa: deve trattarsi, cioè, di opere consistenti nella trasformazione di una sola unità immobiliare in due o più unità immobiliari, o nell’aggregazione di due o più unità immobiliari in una sola unità immobiliare, cioè di un intervento che non arrivi a configurare quell’“insieme sistematico di opere” che, secondo la disciplina statale e regionale, caratterizza il restauro, il risanamento conservativo e la ristrutturazione edilizia. L’innovazione di cui alla lettera “d” invece, laddove venisse interpretata nel senso che la manutenzione straordinaria può comportare anche la modifica della destinazione d’uso preesistente, potrebbe essere considerata di dubbia costituzionalità: sembra difficile, infatti, negare alla regola contraria enunciata dalla normativa statale la qualifica di “principio fondamentale”. In proposito, va peraltro rilevato che la modifica della destinazione d’uso non rientra fra le operazioni che l’Articolo 27 in esame annovera espressamente nel concetto di manutenzione straordinaria, e che anzi tale modifica è ricondotta dalla normativa stessa nel concetto di restauro e risanamento conservativo. Considerato quanto sopra, anche allo scopo di non incappare in un’eccezione di illegittimità costituzionale della disciplina regionale sembra logico con-
a cura di Emilio Pizzi e Claudio Sangiorgi
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Serramenti in pvc: nuove frontiere applicative I serramenti in pvc sono apparsi per la prima volta sul mercato tedesco negli anni ’50, ma la loro diffusione, paradossalmente, in virtù delle caratteristiche di bassa conducibilità termica del loro principale materiale costitutivo, ha conosciuto una significativa accelerazione solo a partire dal 1973, in corrispondenza della crisi petrolifera mondiale che condusse i principali Paesi occidentali al varo delle politiche di austerity e di contenimento degli sprechi e dei consumi energetici. A questa prima e fondamentale caratteristica, il pvc associa, inoltre, quali propri punti di forza prestazionali, l’assenza di manutenzione, l’elevata formabilità, l’ottima stabilità dimensionale, la tenuta alle intemperie e, quindi, una complessiva buona durata della vita utile dei manufatti con esso realizzati. Test compiuti dopo 15 anni su serramenti posti in opera, in condizioni normali di esercizio, hanno evidenziato, infatti, il pieno mantenimento della funzionalità degli infissi, con alterazioni limitate a un esiguo spessore superficiale (circa 150 micron) e con, quale unica conseguenza, per i profilati colorati (non apprezzabile per quelli bianchi), una leggera scoloritura delle superfici esposte all’azione degli agenti atmosferici. D’altra parte, da quegli storici esempi targati anni ’50, di strada ne è stata fatta parecchia. I primi profili, riguardati oggi, condividono il sapore di artigianale e malinconica essenzialità dei ferrofinestra: le linee squadrate, le guarnizioni di colore nero indipendentemente dalla tinta del serramento, la minima articolazione delle camere interne della sezione, cui si associava una non sempre perfetta tenuta statica del sistema (nonostante i profilati metallici di rinforzo inseriti al suo interno) e l’estremamente contenuta gamma cromatica dei colori, destinati oltretutto a sbiadirsi; sono tutti fattori che spiegano il perché dell’immagine di pro-
dotto “povero” che, a lungo, ha accompagnato il serramento in pvc, ostacolandone le fortune presso il grande pubblico. In realtà, molti dei problemi verificatisi in passato nell’uso degli infissi in materiale plastico e dei conseguenti pregiudizi formatisi circa il loro impiego, da parte di imprese e professionisti, risiedevano nel fatto che nessun polimero (e il pvc in particolare) è definito nelle sue proprietà se si prescinde dagli aspetti formulativi, cioè dai tipi e dalle quantità di additivi che si vanno ad aggiungere alla materia prima modificandone profondamente la natura, anche quando le caratteristiche esteriori possono apparire le medesime. Larga parte degli iniziali insuccessi applicativi del cloruro di polivinile sono proprio da imputare alla non corretta considerazione di questi aspetti da parte delle ditte produttrici che, a fronte di un esito finale, in termini di immagine, identico, hanno preferito ricorrere a formulazioni di prezzo più conveniente, ma di minor garanzia prestazionale. Da qui, ancora oggi, la necessità di impiegare manufatti prodotti con materiale formulato all’origine direttamente dal produttore, caratterizzati e certificati in funzione della specifica tipologia di impiego, oppure di richiedere al tra-
Esempio di sezione infisso (Fonte Veka).
sformatore una documentazione di rispondenza alle norme UNI relative all’utilizzo stesso. Ma la qualità di un serramento in pvc non si misura solo da quella del polimero di partenza. Un infisso in pvc, infatti, è in realtà un ottimo esempio di sistema composito, le cui alte prestazioni sono il frutto della sinergica collaborazione di un articolato complesso di materiali e componenti sfruttati, ciascuno, per le proprie migliori caratteristiche prestazionali: il pvc rigido per i profili, l’alluminio dei rivestimenti esterni (nei nuovi sistemi pvc-alluminio) per la protezione dagli agenti atmosferici, l’acciaio degli irrigidimenti per i rinforzi che conferiscono stabilità dimensionale all’insieme. A questi principali, si aggiungono l’Epdm e i materiali termoplastici per le guarnizioni di battuta, ancora l’acciaio e l’alluminio per la ferramenta e il vetro dei vetrocamera. Due soprattutto gli aspetti su cui maggiormente si è concentrata la ricerca in questi ultimi anni: il colore e il design di prodotto. Per quanto attiene il colore, oltre che il ricorso a pigmenti più stabili, la produzione ha individuato, con buoni frutti, nuove e alternative strade che vanno dal rivestimento con pellicole acriliche (ovvero con fogli multistrato
e architettoniche e delle proporzioni. In effetti, l’orientamento della cultura della Conservazione dei manufatti di pregio storico-artistico, di cui le Sovrintendenze sono portatrici, si è indirizzato negli ultimi decenni verso un atteggiamento di estrema intransigenza nella tutela della cultura materiale stratificatasi, nel tempo, nei singoli elementi degli organismi architettonici, risultando, invece, incline a privilegiare addizioni e integrazioni ai corpi storici esplicitamente dichiarate, per forme e materiali, nella loro contemporaneità. Da qui, paradossalmente, un’apertura verso i nuovi materiali, quali l’alluminio e il pvc, allorquando questi affinino (come hanno fatto in questi ultimi anni) il loro disegno e la loro “misura” e non, come a lungo frainteso, allorché si cimentino con mimetiche imitazioni delle soluzioni in uso nell’edilizia storica. Il problema, in altri termini, non è quello di avere un serramento in pvc simil-legno, quanto di poter disporre di profili la cui sezione e le cui proporzioni siano piena espressione di un’identità coerente di progetto-processo-prodotto per lo specifico materiale impiegato, con un manufatto finale caratterizzato da un’immagine di massima economia formale, tratto tipico del design contemporaneo. Diverso, invece, il discorso nel caso del recupero su edifici di edilizia corrente, allorché gli interventi perdano le stigmate del restauro per registrarsi sul tono medio della manutenzione straordinaria. In tal caso, infatti, la apparente uniformità delle finiture e di elementi quali i serramenti, anche se eseguiti in tempi e con materiali diversi, concorre a quell’immagine di ordinato decoro urbano che è il più modesto, ma non per questo meno importante, traguardo del normale tessuto edificato. Con l’importante aggiunta che, spesso, l’imitazione di toni e sfumature delle diverse essenze di legno è l’unico strumento per poter superare l’altrimenti ostativo dettato dei regolamenti condominiali (in materia di variazioni estetiche della facciata). E questi princìpi possono valere anche per quei centri storici che, pur privi di
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Esempio di sezione infisso (Fonte Finstral).
rilevanti caratteri monumentali, abbiano proprio nel concerto di tipi, colori, ordini, il loro tratto distintivo, tanto che, per esempio, nella redazione delle norme tecniche del Piano del colore di Verbania, alla voce “Serramenti”, si dice esplicitamente: “nel caso di impiego di infissi in alluminio o pvc, questi sono ammissibili purché riprendano le sagome tradizionali ed i colori del piano rispetto ai concetti di equivalenza formale e cromatica”. Fra le ultime realizzazioni, che testimoniano delle possibili e crescenti fortune dei serramenti in pvc anche in contesti vincolati di pregio storicoarchitettonico, sono senz’altro da annoverarsi l’intervento di restauro del Convento del Monte Carmelo a Loano (Savona), la ristrutturazione di Palazzo Multedo a Savona e il recupero del faro di Livorno. Per informazioni di maggior dettaglio un utile centro di documentazione e informazione è attivo presso PVCforum (www.pvcforum.it), con sede a Milano e membro del network europeo dei pvc forum collegati con Ecvm (European Council of Vinyl Manufacturers), l’associazione europea dei produttori di pvc. Carla Icardi e Claudio Sangiorgi
PROFESSIONE NORMATIVE E TECNICHE
di circa 200 micron di spessore, costituiti da un film di pvc – colorato con pigmenti stabili alla luce – sul quale è stata applicata una pellicola di polimetilmetacrilato trasparente, estremamente resistente agli agenti atmosferici e alle radiazioni ultraviolette), alla coestrusione (in cui lo strato coestruso con il profilo in pvc è sempre in PMMA), alla verniciatura (mediante speciali vernici poliuretaniche con l’aggiunta di additivi anti-UV e antigraffio). Per non parlare delle più recenti finiture a imitazione delle venature del legno. Relativamente alla questione estetica, invece, gli sforzi si sono soprattutto concentrati sul disegno dei profili, per abbandonarne l’iniziale rigida e squadrata sezione, e sulle dimensioni in vista di questi, con nuovi sistemi di incollaggio del vetro direttamente all’anta che permettono di occultarne completamente la vista dall’esterno. Progressi, quelli riportati in entrambi i campi, che hanno permesso agli infissi in pvc di vedersi aprire le porte, a un loro uso, anche negli interventi di recupero, ove sinora più difficilmente avevano trovato applicazione. L’utilizzo del serramento in pvc in contesti ambientali di pregio (per esempio nei centri storici) è stato, infatti, per anni osteggiato, al pari di quello degli infissi in alluminio, da sovrintendenze ed uffici tecnici, maggiormente favorevoli al legno o all’acciaio, laddove si rendesse necessaria una sostituzione o un’integrazione del sistema finestra in tali ambiti. Un atteggiamento di chiusura molto spesso, tuttavia, non compreso nelle sue reali ragioni dagli stessi produttori, inclini a intendere i dinieghi ricevuti come espressione di un giudizio preconcetto riferito al materiale toutcourt e non, come nella realtà, una giusta perplessità rispetto a elementi non ancora pienamente maturi sul piano dell’immagine (disegno, dimensioni e spessori dei profili; gamma e qualità delle colorazioni di finitura; ferramenta e dispositivi di chiusura...) e, pertanto, spesso incapaci di inserirsi in un contesto urbano fortemente caratterizzato sul piano delle line-
a cura di Manuela Oglialoro e Camillo Onorato
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Legge G.U. n. 173 del 27.7.2005 Serie generale Determinazione 13 aprile 2005 Criteri che le SOA debbono seguire al fine del rilascio della attestazione di qualificazione nella categoria specializzata OS18 (Determinazione n. 4/2005) La Unioncamere ha presentato nota all’Autorità per la Vigilanza sui Lavori pubblici in cui si indica che in seguito all’emanazione della Determinazione n. 14/2004 relativa ai criteri che le SOA debbono seguire al fine del rilascio dell’attestazione di qualificazione nella categoria specializzata OS18 (produzione in stabilimento e il montaggio in opera di strutture in acciaio e di facciate continue costituite da telai metallici ed elementi modulari in vetro o altro materiale), le Camere di Commercio hanno ricevuto dalle imprese edili la richiesta di annotazione nel REA del titolo inerente la disponibilità dello stabilimento. Le Camere di Commercio hanno stabilito che, in base al D.P.R n. 581/1995 circa il riordinamento delle Camere di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura, non rientra l’obbligo, per le imprese che comunicano l’apertura delle unità locali anche presso uno stabilimento, l’esibizione di documentazione probatoria del titolo di possesso o di utilizzo della sede di tali unità locali. La Derminazione n. 14/2004 viene pertanto abrogata dalla presente determinazione che fissa i criteri al fine del rilascio dell’attestazione di qualificazione nella categoria specializzata OS18. G.U. n. 173 del 27.7.2005 Serie generale Determinazione 9 giugno 2005 Frazionamento ed accorpamento di appalti di lavori pubblici (Determinazione n. 5/2005) L’Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici ha ricevuto numerose segnalazioni relative ad appalti per la cui esecuzione le stazioni appaltanti hanno previsto una suddivisione in più parti da affidare separatamente, individuati come lotti o stralci, spesso appartenenti a una singola categoria di opere, generale o specializzata. Si è posto il problema della possibile elusione delle norme poste a garanzia della concorrenza anche con riferimento all’ipotesi inversa dell’accorpamento di più appalti di lavori al fine dell’affidamento al c.d. general contractor. Tali frazionamenti e accor-
pamenti di appalti di lavori pubblici, in relazione all’affidamento e all’esecuzione delle opere, necessitano indicazioni nel merito, oggetto della presente determinazione. G.U. n. 178 del 2.8.2005 Serie generale Decreto 27 luglio 2005 Norma concernente il regolamento d’attuazione della Legge 9 gennaio 1991, n. 10 (Articolo 4, commi 1 e 2), recante: “Norme per l’attuazione del Piano energetico nazionale in materia di uso razionale dell’energia, di risparmio energetico e di sviluppo delle fonti rinnovabili di energia” Il decreto all’Art 1 definisce i criteri generali tecnico-costruttivi e le tipologie per l’edilizia sovvenzionata e convenzionata nonché per l’edilizia pubblica e privata, anche riguardo alla ristrutturazione degli edifici esistenti, al fine di favorire e incentivare l’uso razionale dell’energia, il contenimento dei consumi di energia nella produzione o nell’utilizzo dei manufatti. Il decreto si applica agli edifici di nuova costruzione e a quelli esistenti oggetto di ristrutturazioni importanti, dotati di impianti di riscaldamento e/o climatizzazione. L’Art. 2 sancisce gli obblighi dei comuni. In tal senso i comuni uniformano i regolamenti edilizi di loro competenza alle prescrizioni di cui al Decreto. Per comuni superiori a 50.000 ab., in sede di redazione degli strumenti urbanistici o di revisione generale, si procede all’individuazione e alla localizzazione delle eventuali fonti rinnovabili di energia, presenti o ipotizzabili sul territorio comunale, prevedendone il massimo utilizzo. I comuni sono tenuti a incentivare economicamente la progettazione e la costruzione di edifici energeticamente efficienti. L’Art. 3 stabilisce i requisiti di risparmio energetico per edifici di nuova costruzione. Gli Artt. 4 e 5 precisano la definizione degli indicatori prestazionali per edifici nuovi e relativi limiti ammissibili. L’Art. 6 tratta delle verifiche termoigrometriche, l’Art. 7 delle misure dei consumi di energia estivi, l’Art. 8 dei requisiti di risparmio energetico per edifici da ristrutturare, l’Art. 9 altre prescrizioni. G.U. n. 178 del 2.8.2005 Serie generale Decreto 12 luglio 2005 Elenco riepilogativo di norme armonizzate concernenti l’attuazione della Direttiva 89/106/CE relativa ai prodotti da costruzione, pubblicate dalla Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee dal 26 giugno 2001 al 26 ottobre 2004
Il Direttore Generale dello Sviluppo Produttivo e Competitività decreta che ai sensi dell’Art. 1, comma 4, del D.P.R. 21 aprile 1993, n. 246, è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana l’elenco riepilogativo delle norme nazionali che traspongono le norme armonizzate europee concernenti i materiali da costruzione, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee dal 23 gennaio al 26 ottobre 2004. G.U. n. 180 del 4.8.2005 Serie generale Decreto 22 luglio 2005 Tasso di interesse sui mutui della cassa depositi e prestiti, ai sensi della Legge 18 dicembre 1986, n. 891, recante disposizioni per l’acquisto da parte dei lavoratori dipendenti della prima casa di abitazione L’Art. 1 decreta che a decorrere dal 1° gennaio 2005 il tasso di interesse da applicare per il calcolo della rata massima di cui all’Art. 2 comma 1 e 3, e all’Art. 5 comma 1, e all’Art. 7 comma 3, della Legge 18 dicembre 1986, n. 891, è determinato nella misura del 3,00 %. L’Art. 2 stabilisce che per le estinzioni anticipate, a partire dalla data di pubblicazione del presente decreto, il residuo debito viene rimborsato al tasso previsto dall’Art. 1. B.U.R.L. 2° Suppl. straordinario al n. 35 del 1 settembre 2005 D.g.r.n 20 luglio 2005 – n. 8/374 Approvazione del Piano Territoriale di Coordinamento del Parco Regionale Spina Verde di Como, ai sensi dell’Art. 19 della L.R. 86/83 e successive modifiche ed integrazioni Obiettivo 9.6.1 “Pianificazione delle aree protette” La giunta regionale delibera di approvare il Piano Territoriale di Coordinamento del Parco Regionale Spina verde di Como costituito da: norme tecniche d’attuazione; articolazione del territorio; accessibilità, percorsi, sentieri, unità di passaggio. C. O.
Stampa Ambiente Il verde vuole nuovi professionisti. Un monitoraggio Isfol individua otto aree chiave e 38 profili strategici (da “Il Sole 24 Ore” del 10.10.05)
Appalti VIA, il tetto alle compensazioni non vale per opere ambientali (da “Edilizia e Territorio” Commenti e Norme n. 38/2005) Il Decreto 189/2005 interviene anche sulla procedura di VIA. Viene imposto un limite del 5% alle opere di mitigazione dell’impatto territoriale e sociale. Il tetto non vale per i lavori compensativi richiesti dalla commissione speciale per la valutazione d’impatto sulle grandi opere. Definito anche l’iter per la convocazione e la gestione della conferenza di servizi consultiva. Direttive Ue, guida alle norme applicabili subito, anche senza il recepimento italiano (da “Edilizia e Territorio” Commenti e Norme n. 39/2005) Il 31 gennaio 2006 scade il termine previsto per il recepimento della direttiva Ue 2004/18 sugli appalti. Difficile applicare alcune norme innovative della direttiva appalti quali il dialogo competitivo e le centrali d’acquisto. Occorre attendere le scelte del legislatore italiano. La procedura negoziata è più elastica nella nuova versione, ma in Italia incontra il limite delle restrizioni imposte dalla Legge Merloni. Architettura Concorsi, boom anche dai privati (da “Edilizia e Territorio” del 10-15.10.05) I privati credono nei concorsi. Si moltiplicano le competizioni di architettura promosse da operatori immobiliari. Dopo la Romanina di Scalpellini che ha appena
affidato l’incarico a Salgano e dopo la vittoria di Open Buiding Research per Milano Fiori 2000, anche Pirelli Real Estate, Fondiaria Ligresti, General Properties, Hines e il gruppo Gd lanciano concorsi per scegliere i progettisti per ridisegnare le aree.
sottoposti a ristrutturazione integrale. Il decreto prevede un doppio regime transitorio. Fino al 2006 si potranno rispettare criteri più morbidi. Dal 2009 i limiti di trasmittanza saranno più severi.
Milano
Parcella solo dopo l’arrivo dei fondi, ma la PA deve adoperarsi per ottenerli (da “Edilizia e Territorio” Commenti e Norme n. 38/2005) Secondo le Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza del 19.9.2005 n. 18450, è valida la clausola con cui un ente subordina il pagamento del progettista allo stanziamento dei fondi per realizzare l’opera. Il risarcimento spetta solo se si dimostra che l’amministrazione ha agito in malafede, non facendo tutto il necessario per ottenere l’erogazione dello stanziamento previsto per la realizzazione dei lavori.
Milano ferma il degrado in periferia. Le aree da recuperare sono Gratosoglio, Mazzini, Molise, Calvairate, Ponte Lambro e San Siro (da “Edilizia e Territorio” del 10-15.10.05) Cinque contratti di quartiere per un totale di oltre 245 milioni di €. È stato approvato dalla Giunta la delibera relativa alla progettazione di un maxi intervento. Le aree interessate vedranno interventi di manutenzione straordinaria e ristrutturazione di edifici e opere infrastrutturali come il riordino della viabilità, il verde, la risistemazione delle piazze. Normative Certificazione energetica, troppo bassi i livelli di isolamento degli edifici (da “Edilizia e Territorio” Commenti e Norme n. 39/2005) Anche dopo il D.Lgs 192/2005 i livelli previsti restano inferiori a quelli d’altri paesi mediterranei. La certificazione energetica potrebbe spingere il costruttore a investire di più. In Italia si isolano poco le case, molto meno che nel resto d’Europa e addirittura meno che in Grecia e in Turchia. L’isolamento termico delle case sarebbe una risposta adeguata alla necessità della riduzione delle emissioni inquinanti prevista dal protocollo di Kyoto. Abbiamo la possibilità di intervenire su un patrimonio di ben 26 milioni di alloggi. Il consumo complessivo in questo settore è quasi il 40% del consumo totale di energia primaria. Lotta allo spreco energetico. Per i nuovi edifici consumi da certificare entro un anno (da “Edilizia e Territorio” Commenti e Norme n. 39/2005) Il Decreto Legislativo 192/2005, “Attuazione della Direttiva 2002/91/CE relativa al rendimento energetico nell’edilizia”, concede un anno di tempo per rispettare l’obbligo di certificare i consumi di energia sia nei nuovi immobili che in quelli
Professione
Restauro L’autorità segnala al Parlamento la confusione di norme e decreti sulla qualificazione (da “Edilizia e Territorio” del 10-15.10.05) L’Autorità di Vigilanza sui lavori pubblici lancia un allarme: manca una disciplina sulla qualificazione negli appalti di lavori concernenti i beni culturali. La continua sovrapposizione di nuovi provvedimenti ha portato ad una situazione di incertezza su quali siano i requisiti “speciali e aggiuntivi” da richiedere alle imprese e ai restauratori che vogliono abilitarsi nelle categorie del restauro di beni immobili, beni mobili e superfici decorate e scavi archeologici. Urbanistica Urbanistica, convenzioni libere (da “Edilizia e Territorio” del 26.9 – 1.10.05) Con due Decisioni del 28 luglio 2005, n. 4014 e 4015, la quarta sezione del Consiglio di Stato ha nuovamente affrontato il tema delle convenzioni urbanistiche, confermandone la natura giuridica di strumenti negoziali, contro i quali il privato può attivare i soli rimedi previsti dall’ordinamento per l’invalidità dei contratti di diritto privato. M. O.
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È in aumento la richiesta di esperti nei diversi ambiti legati allo sviluppo sostenibile. È quanto emerge dal monitoraggio dei dati Istat eseguito dall’Isfol che ha constatato come nell’arco di un decennio gli occupati nel settore ambientale siano passati dai 264.000 del ‘93 ai 311.000 del 2003, con una crescita del 18%. Le aree strategiche di sviluppo o quelle che possono essere le professioni del futuro sono: architettura a basso impatto ambientale, acquicoltura ecompatibile e di qualità, agricoltura biologica, biotecnologie sostenibili, difesa del suolo e utilizzazione delle acque, aree protette e turismo sostenibile, energie rinnovabili, gestione integrata dei rifiuti urbani.
INFORMAZIONE DAGLI ORDINI
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Ordine di Bergamo tel. 035 219705 www.bg.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettibergamo@archiworld.it Informazioni utenti: infobergamo@archiworld.it Ordine di Brescia tel. 030 3751883 www.bs.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettibrescia@archiworld.it Informazioni utenti: infobrescia@archiworld.it Ordine di Como tel. 031 269800 www.co.archiworld.it Presidenza e segreteria: architetticomo@archiworld.it Informazioni utenti: infocomo@archiworld.it Ordine di Cremona tel. 0372 535411 www.architetticr.it Presidenza e segreteria: segreteria@architetticr.it Ordine di Lecco tel. 0341 287130 www.lc.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettilecco@archiworld.it Informazioni utenti: infolecco@archiworld.it Ordine di Lodi tel. 0371 430643 www.lo.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettilodi@archiworld.it Informazioni utenti: infolodi@archiworld.it Ordine di Mantova tel. 0376 328087 www.mn.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettimantova@archiworld.it Informazioni utenti: infomantova@archiworld.it Ordine di Milano tel. 02 625341 www.ordinearchitetti.mi.it Presidenza: consiglio@ordinearchitetti.mi.it Informazioni utenti: segreteria@ordinearchitetti.mi.it Ordine di Pavia tel. 0382 27287 www.pv.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettipavia@archiworld.it Informazioni utenti: infopavia@archiworld.it Ordine di Sondrio tel. 0342 514864 www.so.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettisondrio@archiworld.it Informazioni utenti: infosondrio@archiworld.it Ordine di Varese tel. 0332 812601 www.va.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettivarese@archiworld.it Informazioni utenti: infovarese@archiworld.it
È costituito l’Ordine degli Architetti della Provincia di Monza e della Brianza Il Ministro della Giustizia, visto l’art. 1 dei R.D. 23 ottobre 1925, 2537; vista l’istanza per la costituzione dell’Ordine degli Architetti della provincia di Monza e della Brianza, presentata da un gruppo di Architetti residenti nella provincia di Monza e della Brianza, istituita con la legge 11 giugno 2004, n. 146; visto che risulta realizzato il presupposto richiesto dall’art. 1 del citato R.D. per la costituzione dí un nuovo Ordine professionale retto da un Consiglio; vista la nota in data 15 settembre 2005 con la quale il Consiglio Nazionale degli Architetti esprime parere favorevole alla costituzione dell’Ordine degli Architetti della provincia di Monza e della Brianza; ritenuto dunque di dover costituire il nuovo Ordine degli
Milano
a cura di Laura Truzzi Designazioni • COMUNE DI VAREDO: richiesta di segnalazione professionisti per istituzione della Commissione del paesaggio ai sensi della L.R. 12/2005. Si sorteggiano e si approvano i seguenti nominativi: Luca BERGO, Davide LORENZONI, Francesco STUCCHI. • IMMOBILIARE P.M.D.F.di P. Miranda & C. di MONZA: richiesta terna per collaudo di opere in c.a. relative alla ristrutturazione di un fabbricato residenziale in Comune di Monza – via A. da Brescia. Si sorteggiano e si approvano i seguenti nominativi: Antonio ALBERICI, Gennaro BARATTA, Giancarlo COLOMBO. • IMPRESA COSTRUZIONE F.lli CAGLIO di Verano Brianza: richiesta terna per collaudo di opere in c.a. relative alla realizzazione di una palazzina ad uso civile abitazione costituita da un piano interrato e da due piani fuori terra più sottotetto in Comune di Verano Brianza – via Achille Grandi. Si sorteggiano e
Architetti della provincia di Monza e della Brianza; vista la terna di nominativi indicati dal Consiglio Nazionale per la scelta dei Commissario Straordinario; attesa la necessità di provvedere alla nomina di un Commissario Straordinario con l’incarico di procedere alla prima formazione dell’Albo ed alla convocazione dell’assemblea per l’elezione del Consiglio; decreta: è costituito l’Ordine degli Architetti della Provincia di Monza e della Brianza. L’arch. Ferruccio Favaron (…) è nominato Commissario Straordinario con l’incarico di provvedere alla prima formazione dell’Albo ed alla convocazione dell’assemblea per l’elezione del Consiglio, entro 120 giorni dalla notifica del presente decreto. Roma, 5 ottobre 2005 si approvano i seguenti nominativi: Lionello BOLGIANI, Vittorio DE MICHELI, Luciano DE SANCTIS. • COLLEGIO ARBITRALE di MILANO: richiesta di “terzo arbitro” per Arbitrato avv. Luca Santa Maria/ arch. Claudio Cattaneo. Si sorteggia e si approva il seguente nominativo: Andrea BARBATO. • COED SRL di Milano: richiesta di nomina arbitro per cantiere di via Podgora 32, Paderno Dugnano – Recupero sottotetto ai fini abitativi. Si sorteggia e si approva il seguente nominativo: Silvia Beatrice AJELLO. • IMPRESA AZ-BA Srl di Lazzate: richiesta terna per collaudo di opere in c.a. relative ad un edificio plurifamiliare a due piani fuori terra, sito nel Comune di Lentate sul Seveso – via Manzoni 96. Si sorteggiano e si approvano i seguenti nominativi: Virginio BALZAROTTI, Pierangelo Fausto CAVAZZA, Aldo FRIGERIO. • ISTITUTO GFP GALIMBERTI: Richiesta designazione esperti per prove di accertamento finale dei corsi “Operatore arredamento CAD – 2a. Si sorteggia e si approva il seguente nominativo: Claudio GASPARINI.
Serate • Una casa per i libri. Stato di avanzamento lavori del progetto per la biblioteca europea 26 settembre 2005 Hanno partecipato, oltre al progettista Peter Wilson: Antonio Borghi, Antonio Padova Schioppa, Franco Raggi, Cino Zucchi Importante serata per documentare un episodio di architettura milanese nato dal concorso vinto dallo studio Bolles+Wilson di Münster con Alterstudio Partners. La BEIC (Biblioteca Europea di Informazione e Cultura), che sorgerà su un’area di 26.700 mq dall’ex stazione di Porta Vittoria a viale Umbria e via Monte Ortigara, sarà tra i più importanti poli culturali dell’Europa del Sud. Un breve intervento di Antonio Padova Schioppa, presidente della Fondazione BEIC, ci aggiorna sullo stato attuale dell’iter progettuale e realizzativo che ha visto approvare il progetto preliminare nel marzo scorso, che prevede di approvare il progetto definitivo – in fase di stesura – nel novembre 2005 e la conclusione del progetto esecutivo nel giugno 2006; mentre i tempi di realizzazione dipenderanno dai finanziamenti. Sicuramente la Fondazione BEIC si è posta un traguardo e una sfida: apertura nel 2011 (per il festeggiamento dei 150 anni dell’Unità d’Italia) e creare la più grande biblioteca interdisciplinare a scaffale aperto. Per il progettista Peter Wilson la nave della progettazione è sulla giusta rotta e sta navigando alla giusta velocità… mostrando le immagini dei suoi bellissimi schizzi di progetto, racconta al pubblico alcuni dati (80.000 mq di superficie costruita, 90.000 documenti negli scaffali aperti, 50.000 audiovisivi, 3.000 periodici) di una biblioteca che sta facendo un grosso passo avanti nella digitalizzazione, alcune sensazioni (per lui la BEIC è un sogno diventato realtà) e alcune scelte progettuali: grande considerazione del contesto e grande importanza alla sezione dell’edificio per meglio comprendere le complicate interconnessioni tra gli spazi. Wilson non manca di citare i riferimenti storici e i riferimenti (per similitudini e differenze) ad altri suoi pro-
• Milano com’è e come sarà 4. La trasformazione dell’area ex Fiera Campionaria: un tema urbano 20 ottobre 2005 Ha presentato: Giulio Barazzetta Hanno partecipato: Alessandro Balducci, Ugo De Bernardi, Francesco Dal Co, Marco Engel, Vittorio Magnago Lampugnani A due anni di distanza dal primo incontro all’Ordine sulle imponenti trasformazioni edilizie in corso d’opera a Milano, il dibattito è proseguito con quarto appuntamento sul progetto sull’area dell’ex Fiera. Come i precedenti incontri su Milano com’è e come sarà, anche questa serata si è svolta in un clima di grande partecipazione e con notevole presenza di pubblico, anche perché oggi si può iniziare a tirare le somme su ciò che sta effettivamente avvenendo a Milano da circa dieci anni a questa parte dove si è adottato lo slogan dell’”uso pubblico dell’interesse privato”.
Essenza della serata è la presentazione delle tavole di progetto, finalmente visibili dopo l’approvazione da parte della Giunta Comunale del Programma Integrato di Intervento (P.I.I.), avvenuta lo scorso 6 settembre, che avvia la realizzazione del progetto Citylife, vincitore della Gara nel luglio 2004. L’attuale progetto approvato occupa un’area leggermente superiore a quella prevista in sede di gara arrivando ad inglobare anche il velodromo Vigorelli. Il consigliere dell’Ordine Giulio Barazzetta apre la serata ponendo alcune domande ai relatori: “si può ancora parlare di qualità urbana nel momento in cui non ci sono più gli indici urbanistici che hanno accompagnato la contemporanea prassi urbanistica?” E ancora: “il tessuto della residenza è rimasto il modello per la costruzione della città?” e infine: “come ci dobbiamo muovere noi architetti?” Per poter rispondere a queste domande inizia l’ing. De Bernardi, Amministratore Delegato di Citylife, presentando le tavole di progetto, il percorso della gara della Fondazione Fiera, alcuni dati dimensionali e le previsioni per la durata dei lavori: aprile 2006 inizio – 2014 fine lavori. Alessandro Balducci, direttore del Dipartimento di Pianificazione del Politecnico di Milano, sottolinea due aspetti sottesi all’intervento: l’aspetto di processo e l’aspetto urbanistico. Un processo iniziato già negli anni ’80 e approdato al 199394 con un Accordo di programma tra Fiera e i comuni di Rho e Pero che prevedeva già un potenziamento immediato dell’area fieristica al Portello. Secondo Vittorio Magnago Lampugnani, ex direttore di “Domus”, il progetto in questione è tra i più ambiziosi tra quelli in atto a Milano. Dopo aver sottolineato la positività del concorso internazionale bandito dalla Fondazione Fiera, secondo lui, infatti, l’intervento tenta di creare un “iperluogo” ricucendo la città storica. Magnago Lampugnani sottolinea anche due problemi: uno rappresentato dalla torri (pochissimi i tentativi a Milano per realizzare ed integrare degli edifici a torre) e l’altro è quello dell’eliminazione del traffico veicolare in superficie (il traffico è
stato spostato nel sottosuolo) che secondo lui è una strada di progetto non praticabile. Positivo il giudizio di Francesco Dal Co per il quale l’intervento, se ben gestito, può essere un esperimento da portare avanti mentre invita a sospendere il giudizio in attesa della realizzazione. Dal Co sottolinea l’importanza che il committente metta in gioco se stesso e fa il paragone con le costruzioni della Tour Eiffel a Parigi e del Rockfeller Center a New York: contestate prima, elette a simbolo cittadino dopo. Le torri del progetto Citylife rappresentano oggi una chance per l’avanzamento della cultura architettonica. Critici verso il progetto sono stati quasi tutti gli interventi del pubblico per il quale i cittadini non sono stati sufficientemente coinvolti, sono state disattese le promesse di risarcimento in termini di funzioni pubbliche promesso nell’Accordo di programma del 1994; l’Ordine degli Architetti ha permesso che venissero “privatizzate” le scelte progettuali architettoniche e, secondo Lanata di Pirelli Real Estate, è stata evidenziata la totale incapacità degli architetti italiani a redigere un masterplan. Risponde Vittorio Magnago Lampugnani citando Adolf Loos: “ogni città ha gli architetti che si merita” chiedendo più attenzione verso la ricerca. Chiude la serata Marco Engel, consigliere dell’Ordine, con una sintesi per punti: straordinarietà del progetto (il primo dell’era Albertini) che sposta i pesi della centralità al di fuori della cerchia dei Navigli, necessità di dotarci di nuovi strumenti urbanistici rispetto al passato dove la contrattazione era basata sulla quantità, definitiva rinuncia del progetto alla ricostruzione della maglia della città e al suo ruolo unificatore.
Rassegna under 40 Come molti sapranno, il Consiglio Direttivo della Consulta Lombarda degli Architetti ha bandito la I° “Rassegna lombarda di architettura under 40. Nuove proposte di architettura”, con lo scopo di valorizzare giovani talenti orientati alla progettazione. Interessato a partecipare con
un mio lavoro, sono incappato in una norma del Regolamento che, aldilà della mia non fondamentale presenza, mi sembra importante segnalare. Secondo l’Art. 4 è vietato partecipare alla selezione non solo, come ragionevole, se collaboratori di un componente della Giuria, ma anche se semplicemente collaboratori di un membro del proprio consiglio provinciale. Tra l’altro, in risposta a un mio quesito è stato ribadito che per “collaboratore” si intende “colui che abbia avuto rapporti di lavoro di qualsiasi natura con un componente delle Giuria o un Consigliere dell’Ordine negli anni 2003-05.” Si deduce il timore che i Consiglieri in questione potrebbero fare pressione sulla Giuria per promuovere questo o quel progetto redatto da colleghi con i quali abbiano avuto rapporti di collaborazione professionale. La cosa sembra francamente sbalorditiva e, mi si scusi, più legata a una forma di paranoia che a esigenze di trasparenza concorsuale. A maggior ragione all’interno di un’iniziativa con chiare finalità culturali, senza premi o incarichi in palio, e in cui l’interesse prevalente dovrebbe essere quello di coinvolgere il maggior numero possibile di progettisti. Mi chiedo, tra l’altro, quanti colleghi saranno di fatto esclusi all’interno delle province di minori dimensioni, dove senz’altro le sovrapposizioni tra pratica professionale e incarichi negli Ordini sono più frequenti che a Milano. L’ossessiva ricerca della trasparenza attraverso strumenti formali mi pare abbia mietuto un’altra vittima. Senza peraltro garantire alcunché: paradossalmente potrà iscriversi l’amico d’infanzia di un membro della Giuria, ma non un progettista che, come nel mio caso, ha lavorato su un progetto insieme a un Consigliere dell’Ordine, che con la Giuria stessa non dovrebbe avere nulla a che fare. La prossima volta propongo l’inserimento nel bando anche delle clausole “non essere amico di ...” e “non aver mai parlato con ...”. Oppure, meglio ancora: non essere architetto. Paolo Ranci Ortigosa Milano, 24 ottobre 2005
47 INFORMAZIONE LETTERE
getti, sintetizza la pianta dell’edificio come un grande container centrale e due bracci di lettura, a destra e sinistra, per integrare l’edificio nella città, e fa una parentesi sulla particolarità delle strutture (con interasse da 20 m). Cino Zucchi, architetto e membro della giuria del concorso, scorre i tre aspetti del giudizio: l’aspetto urbano, l’edificio bifacciale, il linguaggio e il valore ironico del progetto. Secondo Zucchi, Wilson ha saputo ben interpretare il ruolo di straniero che tenta di leggere la città e il suo ambiente con uno sguardo all’Europa in trasformazione. Wilson rispecchia l’ottimismo di Gio Ponti. Antonio Borghi, consigliere dell’Ordine, ringrazia Peter Wilson per aver comunicato l’architettura della BEIC con immagini, foto, schizzi dandoci l’emozione della qualità degli spazi. Non mancano le domande del pubblico che si chiede come si possa creare lo spazio individuale, idoneo alla lettura e allo studio, in una biblioteca con 10.000 visitatori al giorno. Wilson risponde che “non ci saranno spazi individuali, ma differenze di spazi” e, prendendo spunto da Steven Holl ed Ettore Sottsass, che “la biblioteca non avrà l’aspetto di una biblioteca, ma darà l’impressione di esserlo”.
A cura di Carlo Lanza (Commissione Tariffe dell’Ordine di Milano)
Variazione Indice Istat per l’adeguamento dei compensi Dicembre
Nota L’adeguamento dei compensi per le tariffe 1) e 2) si applica ogni volta che la variazione dell’indice, rispetto a quello di base, supera il 10%. Le percentuali devono essere tonde di 10 in 10 (come evidenziato)
1495,58
G.U. n° 163 del 13.07.1996 ISTITUTO NAZIONALE DI STATISTICA
1) Tariffa Urbanistica. Circolare Minist. n° 6679 1.12.1969 Base dell'indice-novembre 1969:100 Anno 2002 2003 2004 2005
48
Febbraio Marzo Aprile 1470 1467,96 1471,72 1475,49 1510 1504,37 1509,40 1511,91 1540 1537,02 1538,28 1542,04 1560 1555,86 1560,88 1563,39 1568,42
Maggio
Giugno 1480 1478,00 1480,51
1481,77
1513,16 1514,42
1518,19
1544,56 1548,32 1570 1570.93 1573,44
1549,58
2) Tariffa P.P.A. (in vigore dal novembre 1978) Anno 2002 2003
INDICI E TASSI
Gennaio 1460 1462,93 1500 1501,86 1530 1532,00
2004 2005
dicembre 1978:100,72
Luglio
Agosto
Settembre Ottobre
Novembre Dicembre
509,35
511,52
512,39
512,82
513,69
514,56
515,86
517,17
517,60
522,38
523,25
523,69
524,12
525,43
526,29
527,60
528,03
529,34
529,34
532,38
533,68
534,55
535,86
536,29
537,16
537,16
537,16
538,46
538,46
541,07
542,81
543,68
544,55
545,85
546,72
547,16
508,04 520 520,64 531,94 540 540,20
Febbraio 114,97 117,46 119,28
Marzo 115,35 117,56 119,48
Aprile 115,54 117,85 119,86
anno 1995: base 100 Maggio 115,64 118,04 120,05
Giugno 115,73 118,33 120,24
Luglio 116,02 118,42 120,53
4) Legge 10/91 (Tariffa Consulta Regionale Lombarda) 5) Pratiche catastali (Tariffa Consulta Regionale Lombarda)
anno 2000: base 100
Anno 2003 2004 2005
Giugno 106,34 108,73 110,49
Gennaio 105,46 107,58 109,25
Febbraio 105,64 107,93 109,61
Marzo 105,99 108,02 109,78
Aprile 106,17 108,28 110,14
Maggio 106,26 108,46 110,31
Luglio 106,61 108,81 110,75
6) Collaudi statici (Tariffa Consulta Regionale Lombarda)
anno 1999: base 100
Anno 2003 2004 2005
Giugno 111,46 113,95 115,80
Luglio 111,73 114,04 116,08
2005 112,12
Gennaio 110,53 112,75 114,51
Febbraio 110,72 113,12 114,87
Marzo 111,09 113,21 115,06
Aprile 111,27 113,49 115,43
Maggio 111,36 113,67 115,61
7) Tariffa Antincendio (Tariffa Ordine Architetti Milano) Indice da applicare per l’anno
2001 103,07
1996 105,55
2003 108,23
2004 110,40
1997 108,33
1998 110,08
1999 111,52
1998 101,81
1999 103,04
Settembre Ottobre 116,50 116,60 118,61 118,61 120,82
2000 105,51
2000 113,89
Agosto 106,79 108,99 110,93
Settembre Ottobre 107,05 107,14 108,99 108,99 111,02
2002 111,12
Novembre Dicembre 107,40 107,40 109,25 109,25
gennaio 1999: 108,20 Agosto 111,92 114,23 116,26
Settembre Ottobre 112,19 112,29 114,23 114,23 116,35
Novembre Dicembre 112,56 112,56 114,51 114,51
gennaio 2001: 110,50
novembre 1995: 110,60 2001 117,39
2002 120,07
2003 123,27
2004 116,34
2005 118,15
anno 1997: base 100
2001 108,65
Novembre Dicembre 116,89 116,89 118,90 118,90
dicembre 2000: 113,40
anno 1995: base 100
9) Tariffa pratiche catastali (Tariffa Ordine Architetti Milano) Indice da applicare per l’anno
giugno 1996: 104,20 Agosto 116,21 118,61 120,72
anno 2001: base 100
2002 105,42
8) Tariffa Dlgs 626/94 (Tariffa CNA) Indice da applicare per l’anno
1555,86
Giugno
506,30
Gennaio 114,77 117,08 118,90
1529,48
novembre 1978: base 100
3) Legge 10/91 (Tariffa Ordine Architetti Milano) Anno 2003 2004 2005
Settembre Ottobre Novembre 1490 1484,28 1486,79 1490,56 1494,33 1520 1520,70 1524,46 1525,72 1529,49 1550 1552,09 1552,09 1552,09 1555,86 1580 1579,72 1580,97
Maggio
Febbraio Marzo
538,46
1577,21
Agosto
Aprile 510 510,65
Gennaio
519,78 530 530,21
Luglio
2003 113,87
2004 125,74
2005 127,70
febbraio 1997: 105,20
Interessi per ritardato pagamento
Con riferimento all’art. 9 della Tariffa professionale legge 2.03.49 n° 143, ripubblichiamo l’elenco, a partire dal 1994, dei Provvedimenti della Banca d’Italia che fissano i tassi ufficiali di sconto annuali per i singoli periodi ai quali devono essere ragguagliati gli interessi dovuti ai professionisti a norma del succitato articolo 9 della Tariffa.
Provv. della Banca d’Italia (G.U. 5.9.2000 n° 207) dal 6.9.2000 Provv. della Banca d’Italia (G.U. 10.10.2000 n° 237) dal 11.10.2000 Provv. della Banca d’Italia (G.U. 15.5.2001 n° 111) dal 15.5.2001 Provv. della Banca d’Italia (G.U. 3.9.2001 n° 204) dal 5.9.2001 Provv. della Banca d’Italia (G.U. 18.9.2001 n° 217) dal 19.9.2001 Provv. della Banca d’Italia (G.U. 14.11.2001 n° 265) dal 14.11.2001 Provv. della Banca d’Italia (G.U. 6.12.2002 n° 290) dal 11.12.2002 Provv. della Banca d'Italia (G.U. 12.3.2003 n° 59) dal 12.3.2003 Provv. della Banca d'Italia (G.U. 9.6.2003 n° 131) dal 9.6.2003
4,50% 4,75% 4,50% 4,25% 3,75% 3,25% 2,75% 2,50% 2,00%
Con riferimento all’art. 5, comma 2 del Decreto Legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, pubblichiamo i Provvedimenti del Ministro dell’Economia che fissano il “Saggio degli interessi da applicare a favore del creditore nei casi di ritardo nei pagamenti nelle transazioni commerciali” al quale devono essere ragguagliati gli interessi dovuti ai professionisti a norma del succitato Decreto.
Comunicato (G.U. 10.2.2003 n° 33) dal 1.7.2002 al 31.12.2002 dal 1.1.2003 al 30.6.2003
3,35% +7 2,85% +7
Comunicato (G.U. 12.7.2003 n° 160) dal 1.7.2003 al 31.12.2003
2,10% +7
Comunicato (G.U. 15.1.2004 n° 11)
10,35% 9,85% 9,10%
Comunicato (G.U. 9.7.2004 n° 159) dal 1.7.2004 al 31.12.2004
2,01% +7
Comunicato (G.U. 8.1.2005 n° 5) dal 1.1.2005 al 30.6.2005
2,09% +7
Comunicato (G.U. 28.7.2005 n° 174)
dal 1.1.2004 al 30.6.2004 2,02% +7 9,02% dal 1.7.2005 al 31.12.2005 Per valori precedenti, consultare il sito internet o richiederli alla segreteria del proprio Ordine.
2,05% +7
9,01%
9,09% 9,05%
Indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, relativo al mese di giugno 1996 che si pubblica ai sensi dell’art. 81 della legge 27 luglio 1978, n° 392, sulla diiplina delle locazioni di immobili urbani. 1) Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1979 è risultato pari a 114,7 (centoquattordicivirgolasette). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1980 è risultato pari a 138,4 (centotrentottovirgolaquattro). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1981 è risultato pari a 166,9 (centosessantaseivirgolanove). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1982, è risultato pari a 192,3 (centonovantaduevirgolatre). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1983 è risultato pari a 222,9 (duecentoventiduevirgolanove). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1984 è risultato pari a 247,8 (duecentoquarantasettevirgolaotto). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1985 è risultato pari a 269,4 (duecentosessantanovevirgolaquattro). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1986 è risultato pari a 286,3 (duecentottantaseivirgolatre). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1987 è risultato pari a 298,1 (duecentonovantottovirgolauno). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1988 è risultatopari a 312,7 (trecentododicivirgolasette). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1989 è risultato pari a 334,5 (trecentotrentaquattrovirgolacinque). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1990 è risultato pari a 353,2 (trecentocinquantatrevirgoladue). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1991 è risultato pari a 377,7 (trecentosettantasettevirgolasette). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1992 è risultato pari a 398,4 (trecentonovantottovirgolaquattro). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1993 è risultato pari a 415,2 (quattrocentoquindicivirgoladue). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1994 è risultato pari a 430,7 (quattrocentotrentavirgolasette). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1995 è risultato pari a 455,8 (quattrocentocinquantacinquevirgolaotto). Ai sensi dell’Art. 1 della Legge 25 luglio 1984, n° 377, per gli immobili adibiti ad uso di abita-zione, l’aggiornamento del canone di locazione di cui all’Art. 24 della Legge n° 392/1978, relativo al 1984, non si applica; pertanto, la variazione percentuale dell’indice dal giugno 1978 al giugno 1995, agli effetti predetti, risulta pari a più 310,1. Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1996 è risultato pari a 473,7 (quattrocentosettantatrevirgolasette). Ai sensi dell’Art. 1 della Legge 25 luglio 1984, n° 377, per gli immobili adibiti ad uso di abitazione, l’aggiornamento del canone di locazione di cui all’Art. 24 della Legge n° 392/1978, relativo al1984, non si applica; pertanto, la variazione percentuale dell’indice dal giugno 1978 al giugno 1996, agli effetti predetti, risulta pari a più 326,2. 2) La variazione percentuale dell’indice del mese di maggio 1996 rispetto a maggio 1995 risulta pari a più 4,3 (quattrovirgolatre). La variazione percentuale dell’indice del mese di giugno 1996 rispetto a giugno1995 risulta pari a più 3,9 (trevirgolanove). Applicazione Legge 415/98 Agli effetti dell’applicazione della Legge 415/98 si segnala che il valore attuale di 200.000 Euro corrisponde a Lit. 394.466.400.