AL Mensile di informazione degli Architetti Lombardi numero 5 Maggio 2002
Editoriale di Stefano Castiglioni
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Linee Guida per la riforma urbanistica regionale Regione Lombardia. Direzione Territorio e Urbanistica
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Atti del Convegno del 14 dicembre 2001 promosso dalla Consulta Regionale Lombarda degli Ordini degli Architetti Introduzione di Emiliano Campari Presentazione di Claudio Maffiolini Primo modulo I princìpi delle linee guida coordinatore: Claudio Baracca relatori: Gianni Beltrame, Maria Cristina Treu, Gianni Verga Secondo modulo I livelli di pianificazione coordinatore: Stefano Castiglioni relatori: Angelo Bugatti, Luigi Mazza Terzo modulo Il piano dei servizi - Gli standard coordinatore: Marco Engel relatori: Giulia Rota, Enrico Maria Tacchi Quarto modulo Perequazione, concertazione, partecipazione, sostenibilità coordinatore: Gianfredo Mazzotta relatori: Giuseppe Sala, Piero Torretta
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Direttore: Maurizio Carones Comitato editoriale: Consulta Regionale Lombarda degli Ordini degli Architetti
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Redazione: Igor Maglica (caporedattore) Roberta Castiglioni, Martina Landsberger Segreteria: Augusta Campo Direzione e Redazione: via Solferino, 19 - 20121 Milano tel. 0229002165 - Fax 0263618903 e-mail Redazione: redazione.al@flashnet.it Progetto grafico: Gregorietti Associati Servizio Editoriale e Stampa: Alberto Greco Editore srl Viale Carlo Espinasse 141, 20156 Milano Tel. 02 300391 r.a. - Fax 02 30039300 e-mail: age@gruppodg.com Impaginazione Chiara Giuliani
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Atti del convegno del 5 dicembre 2001 promosso dall’Ordine degli Architetti di Bergamo relatori: Achille Bonardi, Fernando de Francesco, Mario Rossetti, Alessandra Cingoli, Giuliano Lorenzi, Silvio Albini, Antonio Purcaro, Daniele Ravagnani, Gianvittorio Vitali, Sergio Sottocornola, Ettore Tacchini, Alessandro Moneta, Roberto Ghidotti, Claudio Re, Luigi Nappo, Felice Sonzogni
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Contributi per la riforma della legge urbanistica regionale a cura di Massimo Giuliani, INU Lombardia interventi di: Fausto Curti, Gianni Beltrame, Laura Pogliani, Piergiorgio Vitillo, Michele Monte, Piero Ranzani
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Contributi tematici Polis onlus, Gruppo di Studio sul Territorio Legambiente: Maria Carla Baroni, Gianni Beltrame, Maria Campidoglio, Fausto Colombo, Piero De Amicis, Mario Morganti, Stefano Nespor, Pierluigi Roccatagliata, Elio Tarulli; Giulio Ponti
Fotolito Marf-Progetto Fotolito, Milano Stampa Diffusioni Grafiche, Villanova m.fto (AL) Rivista mensile: Spedizione in a.p.- 45% art. 2 comma 20/b Legge 662/96 - Filiale di Milano. Autorizzazione Tribunale Civile n° 27 del 20.1.71 Distribuzione a livello nazionale La rivista viene spedita gratuitamente a tutti gli architetti iscritti agli Albi della Lombardia che aderiscono alla Consulta Tiratura: 23.400 copie Per un disguido tecnico nel numero di aprile non compare la didascalia della foto di copertina, che riportiamo qui di seguito: Enrico Peressutti, Lodovico Belgiojoso, Ernesto Nathan Rogers, Gian Luigi Banfi nel loro studio di via Borgonuovo a Milano, fine anni Trenta (Archivio Julia Banfi). Gli articoli pubblicati esprimono solo l’opinione dell’autore e non impegnano la Consulta Regionale Lombarda degli Ordini degli Architetti né la redazione di AL
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Sommario
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Consulta Regionale Lombarda degli Ordini degli Architetti consulta.al@flashnet.it Presidente: Stefano Castiglioni; Vice Presidente: Daniela Volpi; Vice Presidente: Giuseppe Rossi; Segretario: Carlo Varoli; Tesoriere: Umberto Baratto; Consiglieri: Achille Bonardi, Marco Bosi, Franco Butti, Sergio Cavalieri, Simone Cola, Ferruccio Favaron Ordine di Bergamo, tel. 035 219705 http://www.bg.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettibergamo@archiworld.it Informazioni utenti: infobergamo@archiworld.it Presidente: Achille Bonardi; Vice Presidente: Paola Frigeni; Segretario: Italo Scaravaggi; Tesoriere: Fernando De Francesco; Consiglieri: Barbara Asperti, Giovanni N. Cividini, Antonio Cortinovis, Silvano Martinelli, Roberto Sacchi (Termine del mandato: 18.3.03) Ordine di Brescia, tel. 030 3751883 http://www.bs.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettibrescia@archiworld.it Informazioni utenti: infobrescia@archiworld.it Presidente: Paolo Ventura; Vice Presidente: Roberto Nalli; Segretario: Gianfranco Camadini; Tesoriere: Luigi Scanzi; Consiglieri: Umberto Baratto, Gaetano Bertolazzi, Laura Dalé, Guido Dallamano, Paola E. Faroni, Franco Maffeis, Daniela Marini, Mario Mento, Aurelio Micheli, Claudio Nodari, Patrizia Scamoni (Termine del mandato: 2.10.02) Ordine di Como, tel. 031 269800 http://www.co.archiworld.it Presidenza e segreteria: architetticomo@archiworld.it Informazioni utenti: infocomo@archiworld.it Presidente: Franco Butti; Vice Presidente: Gianfranco Bellesini; Segretario: Franco Andreu; Tesoriere: Gianfranco Bellesini; Consiglieri: Marco Brambilla, Giovanni Cavalleri, Gianfredo Mazzotta, Marco Ortalli, Michele Pierpaoli, Corrado Tagliabue (Termine del mandato: 13.6.03) Ordine di Cremona, tel. 0372 535411 http://www.cr.archiworld.it Presidenza e segreteria: architetticremona@archiworld.it Informazioni utenti: infocremona@archiworld.it Presidente: Emiliano Campari; Vice Presidente: Carlo Varoli; Segretario: Massimo Masotti; Tesoriere: Federico Pesadori; Consiglieri: Edoardo Casadei, Luigi Fabbri, Federica Fappani (Termine del mandato: 1.8.03) Ordine di Lecco, tel. 0341 287130 http://www.lc.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettilecco@archiworld.it Informazioni utenti: infolecco@archiworld. Presidente: Ferruccio Favaron; Vice Presidente: Elio Mauri; Segretario: Arnaldo Rosini; Tesoriere: Alfredo Combi; Consiglieri: Davide Bergna, Carmen Carabus, Massimo Dell’Oro, Gerolamo Ferrario, Massimo Mazzoleni (Termine del mandato: 15.2.03) Ordine di Lodi, tel. 0371 430643 http://www.lo.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettilodi@archiworld.it Informazioni utenti: infolodi@archiworld.it Presidente: Vincenzo Puglielli; Segretario: Paolo Camera; Tesoriere: Cesare Senzalari; Consiglieri: Samuele Arrighi, Patrizia A. Legnani, Erminio A. Muzzi, Giuseppe Rossi (Termine del mandato: 10.7.03) Ordine di Mantova, tel. 0376 328087 http://www.mn.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettimantova@archiworld.it Informazioni utenti: infomantova@archiworld.it Presidente: Sergio Cavalieri; Segretario: Manuela Novellini; Tesoriere: Michele Annaloro; Consiglieri: Francesco Cappa, Cristiano Guarnieri, Paolo Tacci, Manolo Terranova (Termine del mandato: 25.5.03) Ordine di Milano, tel. 02 625341 http://www.ordinearchitetti.mi.it Presidenza e segreteria: architettimilano@archiworld.it Informazioni utenti: infomilano@archiworld.it Presidente: Daniela Volpi; Vice Presidente: Ugo Rivolta; Segretario: Valeria Bottelli; Tesoriere: Annalisa Scandroglio; Consiglieri: Giulio Barazzetta, Maurizio Carones, Arturo Cecchini, Valeria Cosmelli, Adalberto Del Bo, Marco Engel, Marco Ferreri, Jacopo Gardella, Emilio Pizzi, Franco Raggi, Luca Ranza (Termine del mandato: 15.10.01) Ordine di Pavia, tel 0382 27287 http://www.pv.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettipavia@archiworld.it Informazioni utenti: infopavia@archiworld.it Presidente: Marco Bosi; Vice Presidente: Lorenzo Agnes; Segretario: Quintino G. Cerutti; Tesoriere: Aldo Lorini; Consiglieri: Anna Brizzi, Gianni M. Colosetti, Maura Lenti, Paolo Marchesi, Giorgio Tognon (Termine del mandato: 2.10.03) Ordine di Sondrio, tel. 0342 514864 http://www.so.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettisondrio@archiworld.it Informazioni utenti: infosondrio@archiworld.it Presidente: Simone Cola; Segretario: Fabio Della Torre; Tesoriere: Giuseppe Sgrò; Consiglieri: Giampiero Fascendini, Giuseppe Galimberti, Francesco Lazzari, Giovanni Vanoi (Termine del mandato: 19.2.03) Ordine di Varese, tel. 0332 812601 http://www.va.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettivarese@archiworld.it Informazioni utenti: infovarese@archiworld.it Presidente: Stefano Castiglioni; Segretario: Riccardo Papa; Tesoriere: Pietro Minoli; Consiglieri: Claudio Baracca, Enrico Berté, Maria Chiara Bianchi, Antonio Bistoletti, Emanuele Brazzelli, Claudio Castiglioni, Orazio Cavallo, Gabriele Filippini, Giovanni B. Gallazzi, Laura Gianetti, Matteo Sacchetti, Giuseppe Speroni (Termine del mandato: 3.7.03)
Stefano Castiglioni Presidente Consulta Regionale Lombarda (da febbraio 2002)
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Editoriale
Il documento “Linee guida per la riforma urbanistica regionale” rappresenta, dopo la promulgazione della L.R. n° 51/75, la prima vera opportunità di dibattito a tutto campo e di riflessione generale: - per superare le rigidità dei tradizionali modelli di pianificazione; - per trasformare i processi di governo del territorio; - per ridefinire le relazioni tra piano e progetto; - per riconfigurare i rapporti tra piano locale e generale; - per garantire un corretto distinguo tra diritti e interessi dei cittadini. Per oltre 25 anni infatti le Amministrazioni Regionali avevano preferito considerare intangibili i contenuti della L.R. n. 51/75, senza neppure tentare adeguamenti minimali (per quanto necessari ed evidenti): si pensi esemplificativamente al calcolo della capacità insediativa del P.R.G. con gli abitanti assimilati a vani (100 m/ab.), già eccessivo negli anni ’70, con un evidente sovradimensionamento degli standard, particolarmente macroscopico per quelli scolastici, e la creazione di un vasto inutilizzato demanio pubblico piuttosto che di effettivi “servizi”. Accantonando quindi (si spera!) una volta per tutte la prassi criticabile e nel contempo opportuna di “leggi deroghe/tampone” quali la L.R. n. 292/84 (Verga), la L.R. n. 23/90 (Adamoli), cosi come la recente L.R. n. 23/97, è finalmente maturata la consapevolezza della necessità di attuare una riforma complessiva della legislazione del territorio mirata alla redazione di un testo unico dell’urbanistica regionale. In proposito si tratterà di dar vita a uno strumento normativo che dovrà tener conto di un contesto territoriale non solo radicalmente mutato rispetto a pochi decenni or sono, ma anche caratterizzato da una progressiva accelerazione dello stesso processo di modificazione. Si è infatti oggi di fronte a un modello di città che appare più che mai specchio di differenze, disomogeneità e contraddizioni che invece di identificarsi quale espressione di obbiettivi comuni tende ad assumere i connotati di un prodotto di consumo. Se da un lato la tematica, così come posta, si presenta indubbiamernte stimolante, lusingando l’istintiva vocazione di urbanisti e architetti a dilatare il dibattito oltre misura (prefigurando nuovi modelli metropolitani e/o l’idea stessa di “città futura”), dall’altro occorre piuttosto (come il presente convegno ha evidenziato) delimitare concretamente gli obbiettivi primari e i nodi essenziali su cui costruire e varare a tempi brevi un articolato normativo idoneo a consentire sperimentazioni diffuse ed esiti concreti su scala locale che resta poi, come sempre, il livello determinante e protagonista della pianificazione. Fondamentale al riguardo sarà l’accantonamento sia dei tradizionali criteri repressivi/penalizzanti propri dell’attuale legislazione urbanistica sia di irrealistici programmi ipergarantisti per quanto attiene perequazioni e compensazioni, quanto piuttosto l’adozione di un sistema di incentivi, di fattori di trascinamento idonei a diffondere in modo generalizzato e condiviso il più fertile e il meno consumistico degli investimenti sul lungo periodo: recuperare e tutelare insieme l’ambiente, riprogettare il territorio (oggi relegato in una sorta di “status quo” e di prudente “congelamento”), nel senso più completo del termine senza i tatticismi e gli schematismi che hanno contribuito a trasformare l’urbanistica in una sorta di disciplina “virtuale”, se non inattendibile.
Linee guida per la riforma urbanistica regionale
Linee Guida
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Regione Lombardia, Direzione Territorio e Urbanistica Gruppo di lavoro interdisciplinare per l’elaborazione del Testo Unico della normativa urbanistica regionale in sostituzione e modifica della disciplina vigente Presidente: Alessandro Moneta (Assessore al Territorio e Urbanistica) Componenti esterni: Antonino Brambilla Angelo Bugatti Lucia D’Ettorre Gaetano Lisciandra Massimo Giuliani Giuseppe Sala Lanfranco Senn M. Cristina Treu Gianni Verga Componenti interni: Michele Presbitero Mario Rossetti Giulia Clotilde Rota Alberto De Luigi Anna Bonomo Segretario: Giovanni Leo
Introduzione Nel corso degli ultimi anni, la Regione Lombardia ha avviato un processo di modernizzazione della obsoleta normativa urbanistica risalente alla metà degli anni Settanta. Il metodo seguito è stato quello di evitare la riformulazione integrale della l.r. 51/75 e di procedere per singoli settori con specifiche leggi, quali ad esempio la l.r. 23/97, la l.r 9/99, la l.r. 22/99 e la recente l.r. 1/01, tutte ispirate ad un medesimo criterio di semplificazione e di decentramento. Si tratta ora di completare il processo di riforma urbanistica per dotare la Regione Lombardia di un nuovo impianto normativo sistemico che adegui il governo del territorio alle nuove esigenze di sviluppo della società lombarda. Nel luglio 2000 è stato costituito un Gruppo di lavoro interdisciplinare, composto da esperti nelle diverse materie incidenti sul territorio, con l’obiettivo di elaborare la riforma della legge urbanistica e la contestuale stesura di un Testo Unico della materia, e, quindi, arrivare all’unificazione di tutte le norme urbanistico - edilizie, attualmente sparse in numerose leggi di settore. Detto Gruppo ha licenziato lo scorso 6 luglio le linee guida della riforma urbanistica regionale nelle quali vengono enunciati i princìpi e i contenuti della nuova legge urbanistica. Le linee guida costituiscono la base della riforma urbanistica regionale e, soprattutto, rappresentano l’occasione per avviare un confronto con gli Enti Locali, gli Ordini professionali e le associazioni economico - sociali, al fi-
ne di raccogliere suggerimenti e contributi e, quindi, di conseguire il più ampio consenso sulle scelte e i princìpi in esse indicati. L’Assessore al Territorio e Urbanistica Alessandro Moneta
Premessa Esigenze alla base della riforma Le norme sulla pianificazione territoriale e urbana (regionale, provinciale e comunale), sono oggetto di particolare attenzione da parte degli amministratori locali e nazionali, tenuto conto del complesso e spesso contraddittorio insieme di regole e norme che hanno effetti diretti e indiretti sul territorio. Molte regioni hanno già cominciato a dotarsi di nuove leggi urbanistiche in attuazione dei princìpi di semplificazione, di sussidiarietà e di cooperazione fra i diversi livelli e soggetti istituzionali, in modo da assicurare alla pianificazione territoriale forme e modalità atte a favorire una gestione del territorio più efficace e più sostenibile. Per la Lombardia è oramai diventato irrinunciabile dotarsi di un nuovo impianto normativo. La redazione di un nuovo testo della disciplina urbanistica promossa dalla Regione Lombardia si inserisce nel contesto di rinnovamento più generale e diffuso e tiene conto di aspetti normativi previgenti che meritano di essere recuperati, mantenuti e/o modificati e integrati. Si pensi ad esempio alla centralità della programmazione rispetto alla pianificazione, già contenuta nella normativa quadro regionale, dove risulta anche fissato il concetto per cui la “pianificazione”, a livello regionale, si esprime prevalentemente come insieme di opzioni strategiche fondamentali (indirizzi di sviluppo economico, localizzazione di infrastrutture primarie, elementi di tutela ambientale e paesistica), piuttosto che come puntuale disciplina normativa del governo del territorio. All’applicazione (di fatto mancata) delle normative previgenti non è stato d’aiuto l’equivoco terminologico della nozione di piano, comportante la presenza di regolamentazioni pervasive e onnicomprensive, impossibili ad un livello macroterritoriale. Molte sono le leggi che a livello regionale hanno già espresso il nuovo orientamento dell’urbanistica e che hanno affermato il metodo della concertazione sugli obiettivi e della cooperazione sulle scelte programmatiche e di intervento, tra più livelli di piano e tra i diversi soggetti, pubblici e privati. La conferma di questo nuo-
vo orientamento è la elaborazione di programmi complessi volti a superare l’estrema rigidità del piano tradizionale, propendendo verso forme di negoziazione e di confronto fra più soggetti mediante procedure di interazione tra attori pubblici e privati, su interventi integrati e valutati rispetto ad obiettivi strategici, a regole di lunga durata e a criteri dettati dalla specificità delle situazioni locali. La Regione Lombardia, raccogliendo tutti gli spunti utili derivanti dall’esperienza di gestione delle precedenti normative e valorizzando la normativa di più recente produzione, si fa portatrice della esigenza di riforma, elaborando una proposta che risponde a istanze di sistematicità e di rinnovamento. A questo fine, la Regione Lombardia intende esercitare le proprie competenze in materia di programmazione territoriale, ridefinendo obiettivi, contenuti e procedure di attuazione della strumentazione di piano a livello regionale, provinciale e comunale. Per quanto riguarda gli strumenti di pianificazione territoriale in fase di elaborazione e adottati in conformità alla normativa vigente, la nuova legislazione prevederà norme transitorie che consentano il completamento e/o l’adeguamento di tali documenti di pianificazione territoriale nel rispetto del lavoro amministrativo e di piano già attivato e/o concluso. Procedura di formazione della riforma Per dare avvio alla fase della stesura del testo normativo, si ritiene necessario proporre prioritariamente un insieme di obiettivi e di princìpi orientati a definire contenuti e livelli degli strumenti di programmazione e di piano che saranno sottoposti a una serie di confronti nelle sedi istituzionali e con le associa-
zioni di categoria e culturali. Questa fase rappresenta un momento essenziale del lavoro per la ridefinizione disciplinare degli strumenti, delle procedure di approvazione e di valutazione. Definizioni generali Si intende per: Territorio: è lo spazio che contiene in forma interrelata l’insieme dei fattori fisico-naturali, sociali ed economici, nonchè dei sistemi infrastrutturali e insediativi. Programmazione: è l’atto che coordina ed orienta plurimi centri di spesa in funzione di finalità ed obiettivi di sviluppo predeterminati; è il riferimento logico e giuridico della pianificazione; esprime gli obiettivi degli atti di gestione del territorio rispetto ai quali sono possibili plurime modalità di attuazione alternative; utilizza metodi e strumenti diversi. Pianificazione territoriale: è l’atto che rappresenta le ricadute sul territorio delle scelte di programmazione in rapporto alle risorse economiche e territoriali disponibili. La pianificazione territoriale rappresenta elementi stabili quando evidenzia gli effetti ritenuti essenziali e immodificabili sul territorio (invarianti di sistema e di compatibilità); rappresenta opzioni attuative specifiche con contenuti ritenuti variabili quando evidenzia alternative ugualmente valide per il conseguimento degli obiettivi programmatici. Progettazione urbanistica: è l’atto che affronta le condizioni di conservazione, trasformabilità e rinnovo del territorio per spazi e tempi definiti. Pianificazione settoriale: è lo strumento preordinato ad affrontare e risolvere problemi e interventi specifici e deve pertanto correlarsi interattivamente con la pianificazione territoriale.
1. Obiettivi della legge urbanistica Promuovere lo sviluppo sociale, economico e culturale delle comunità locali e della comunità lombarda nel suo complesso compatibilmente con l’equilibrato uso del territorio, la salvaguardia dell’ambiente e l’uso appropriato di ogni tipo di risorsa. Garantire che i processi di trasformazione e sviluppo siano compatibili con la sicurezza dai rischi naturali e tecnologici, nonché con la salubrità e l’igiene degli insediamenti umani. Favorire le forme di riutilizzazione del patrimonio immobiliare edificato per non compromettere il suolo libero e in particolare quello ad alta produttività agricola, nonché favorire le scelte localizzative congruenti con il sistema infrastrutturale esistente e di progetto. Potenziare e sviluppare il sistema infrastrutturale privilegiando quello esistente ai fini di garantire la
dotazione di infrastrutture e di servizi a sostegno della mobilità rispetto alle prestazioni richieste dagli insediamenti esistenti ed alle prospettive di sviluppo. Stimolare i processi di partecipazione alla definizione dei contenuti della programmazione e della pianificazione territoriale, ai fini della condivisione delle scelte sul territorio attraverso le molte forme degli strumenti di negoziazione. Garantire l’equità economica e sociale attraverso l’uso di sistemi perequativi e compensativi (di perequazione economica, di sostenibilità sociale, ecc.). Favorire il processo di autodeterminazione (Comunale e Provinciale) attraverso l’attribuzione di competenze definite, univoche e non frazionate fra i diversi livelli istituzionali, che tuttavia si devono confrontare ed integrare in forza del principio
• nel suo complesso (vasta scala, ambiente fisico-naturale, economico e sociale); • alle singole parti (contesti territoriali e urbani, storico-culturali, morfologici e paesaggisti); • agli elementi costitutivi (edifici, spazi urbani, infrastrutture e paesaggio). Valorizzare i beni architettonici, monumentali, di valore storico tipologico, tramite utilizzazioni funzionali e interventi che favoriscano la presenza di persone e di attività compatibili con i caratteri del contesto territoriale.
2. Princìpi generali Sostenibilità Uno dei temi irrisolti della società contemporanea è quello del contemperamento tra le esigenze dello sviluppo e quelle della tutela del territorio, e quindi del rapporto fra le forme dello sviluppo e l’utilizzo delle risorse, spesso rinnovabili in tempi e modi molto più lenti della velocità di consumo. La sostenibilità dello sviluppo, presupposto ormai di qualunque forma di programmazione a livello europeo diventa in tal senso impegno e obiettivo verso il quale tendere, perseguibile mediante politiche che richiedono una sempre maggiore integrazione fra le scelte e le azioni proprie delle istituzioni che si occupano di ambiente e quelle delle istituzioni che si occupano di politiche territoriali, cercando di superare la dicotomia fra competenze e finalità solo apparentemente così diverse. La sostenibilità è anche un presupposto e un obiettivo fondamentale di carattere economico e sociale, fattori questi, senza i quali difficilmente si può ipotizzare di conseguire la sostenibilità ambientale in termini più generali. La declinazione del principio della sostenibilità dovrà pertanto comprendere l’insieme dei seguenti attributi: • Ambientale. Si assume come presupposto di ogni trasformazione la tutela della identità culturale dell’ambiente e la conservazione e riproducibilità delle risorse territoriali e fisico-naturali. • Sociale. La sostenibilità sociale delle trasformazioni è intesa come espressione dell’obiettivo di equità sociale e di occasioni di sviluppo per tutti i cittadini della Regione, da perseguire nel prefigurare i futuri assetti territoriali. • Economica. Le scelte di natura territoriale devono essere economicamente sostenibili e compatibili con il quadro delle risorse e devono essere valutate in rapporto ai costi-benefici e agli effetti indotti sul sistema economico-produttivo. Sussidiarietà • Orizzontale: rapporto pubblico - privato. Il riconoscimento e la valorizzazione dell’apporto che la società può fornire alla definizione, non-
ché all’attuazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile del territorio, rappresentano il dato fondante e maggiormente innovativo della complessiva evoluzione dell’ordinamento urbanistico: esso comporta l’abbandono della pretesa di esclusività, in capo all’autorità pubblica, della potestà di individuare tali obiettivi e modalità di sviluppo. Nessuna seria riforma della legislazione urbanistica può quindi prescindere dal principio di sussidiarietà in senso orizzontale, inteso come criterio di distribuzione del potere, dei ruoli e delle competenze fra la pubblica amministrazione ed il cittadino e/o le sue organizzazioni, criterio orientato in modo da privilegiare la libertà e la responsabilità soggettiva. Da tale principio deriva l’affermazione dell’autonomia e della responsabilità anche del privato come elementi ineliminabili del sistema urbanistico, ai fini di uno sviluppo qualitativo delle risorse e dei servizi, da valutarsi dinamicamente e dialetticamente fra pubblico e privato, sulla base delle molteplici esigenze generali, sociali, imprenditoriali ed economiche. Corollario è il ruolo prevalente di promozione e propulsione che l’Ente pubblico è chiamato a svolgere nelle odierne e complesse strutture socio economiche. L’Amministrazione pubblica, infatti, si configura come soggetto investito di responsabilità di indirizzo, di coordinamento, di incentivazione e di monitoraggio per la valutazione degli effetti delle iniziative. Le attribuzioni pubbliche di intervento diretto (attività esecutiva) e di regolazione puntuale degli interventi (attività normativa) dovranno attenersi al principio del minimo mezzo. Nell’esercizio di tali competenze l’Amministrazione pubblica dovrà adottare modalità non invasive, limitando l’esercizio delle proprie attribuzioni agli elementi indispensabili per l’osservanza di esigenze (soprattutto di tutela) essenziali ed ineliminabili. • Verticale: rapporti tra le istituzioni. La Regione e le Province sono i soggetti cui competono la program-
mazione degli interventi a sostegno dello sviluppo, la promozione e la verifica della sostenibilità territoriale e ambientale, per gli aspetti di carattere vincolante (le invarianti) e per le scelte infrastrutturali e localizzative strategiche a livello sia sovraregionale e regionale che interprovinciale e sovracomunale. La gestione dei processi di trasformazione e la verifica delle relative ricadute sono da considerare strutturalmente di competenza delle comunità locali, senza con ciò escludere la necessità di una partecipazione di dette comunità alle scelte di programmazione regionali e provinciali. Nella definizione di sussidiarietà è insito il principio secondo il quale è l’Ente più prossimo all’ambito e all’oggetto dell’intervento che deve assumersi l’onere della decisione e della gestione dell’intervento stesso. Allo stesso modo gli altri Enti territoriali devono assumersi la responsabilità di garantire l’adempimento delle proprie attribuzioni, soprattutto se queste sono necessarie per garantire l’efficacia delle funzioni e delle scelte altrui, ferme restando le rispettive autonomie e responsabilità. In applicazione del principio costituzionale della primaria spettanza ai Comuni della attività amministrativa, si prevede pertanto l’attribuzione ad essi della generalità delle funzioni amministrative, con l’eccezione, tassativamente indicata, di quelle di rilevanza regionale e provinciale, con la ridefinizione dei riscontri di conformità evitando forme latenti di controllo, e con l’evidenziazione dei livelli prestazionali da rispettare. Perequazione/Compensazione/Sostituzione Lo scopo è quello di tentare di colmare e/o di integrare/modificare, per quello che è possibile al legislatore regionale, sia il vuoto normativo riguardante il regime dei suoli e derivante dalle sentenze della Corte Costituzionale n. 5/1968 e n. 179/1999, sia i princìpi generali e i nuovi criteri contenuti nelle più recenti formulazioni legislative e regolamentari (i Testi Unici approvati dal Consiglio dei Ministri in data 24 e 31 maggio 2001) anche prevedendo la possibilità di sperimentare più modelli e più forme di perequazione, di compensazione e di sostituzione. A tal fine l’individuazione di criteri perequativi, compensativi e sostitutivi, congruenti con le competenze degli strumenti di pianificazione territoriale, può contribuire a garantire l’equità economica e sociale tra i diversi percorsi di sviluppo dei sistemi territoriali e urbani (l’equità nella differenza) e la compensazione, o eventualmente la sostituzione, delle risorse fisico - naturali consumate e/o soppresse da scelte e da interventi infrastrutturali e insediativi. La prospettiva è che gli atti di programmazione e di pianificazione territoriale possano avvalersi di: • a. strumenti e criteri compensa-
tivi/sostitutivi laddove soprattutto, a livello di area vasta, possano essere individuate nei confronti della programmazione nazionale, interregionale e infraregionale, esigenze di riequilibrio economico, sociale e ambientale. • b. strumenti e criteri perequativi, laddove a livello locale, possono essere individuati in relazione a progetti di trasformazione di parti di città e/o di sistemi infrastrutturali e paesistico ambientali, esigenze di equilibrare le disparità di trattamento tra soggetti interessati da diverse previsioni insediative e vincolistiche. Cooperazione Il modello di gerarchizzazione nei rapporti tra i livelli di piano, deve essere superato a favore di modalità di relazioni, talvolta verticali, ma anche orizzontali e intersettoriali nel rispetto del ruolo e delle competenze di ogni livello e di ogni settore, con una visione fortemente concertativa e collaborativa. La valutazione dei costi, delle opportunità e degli impatti deve consentire il passaggio dal concetto di verifica come conformità delle scelte a quello di verifica come congruità dei risultati attesi. Flessibilità L’adattabilità degli strumenti di pianificazione territoriale è da intendersi come esigenza di verifica e confronto fra i diversi strumenti, fra gli strumenti e il territorio e fra gli strumenti, gli obiettivi e le opportunità, in un quadro dinamico di reciproca influenza. Ciò naturalmente non esclude, ma anzi presuppone, che vengano fissati, ad ogni livello, elementi strutturali condivisi (le invarianti), come presupposti di base per i successivi processi pianificatori. Tali elementi strutturali rappresentano gli elementi fondamentali di riferimento, e possono essere modificati col supporto di forme di monitoraggio che restituiscano le dinamiche in corso ed evidenzino eventuali nuove esigenze e/o opportunità debitamente motivate e valutate. Partecipazione In considerazione dei princìpi di sussidiarietà e di cooperazione nella formazione delle decisioni, che caratterizzano la pianificazione del territorio, oltre alla fase di pubblicizzazione delle scelte assume un ruolo fondamentale la partecipazione dei soggetti interessati sin dalla fase di definizione degli obiettivi. Un percorso partecipato dovrà inoltre costituire, nel coinvolgimento dei soggetti privati, un contributo di verifica della fattibilità e praticabilità dei processi di trasformazione. Monitoraggio L’esigenza di adeguare e verificare sempre la rispondenza delle previsioni di piano nel loro contenuto e nella loro applicazione agli obiettivi fissati, comporta che nell’ambito della nuova legge urbanistica, il monitoraggio assuma, infatti, un ruolo determinante. Il monitoraggio è per-
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Linee Guida
di una autonomia responsabile. Garantire l’adattabilità degli strumenti urbanistici rispetto ai cambiamenti e/o al maturare di nuove esigenze sociali, culturali ed economiche delle comunità locali attraverso procedure e tempi certi. Favorire forme di collaborazione tra istituzioni e privati nella progettazione e nella realizzazione di ogni intervento di trasformazione territoriale ai fini di garantire l’espressione della creatività e dell’intrapresa economica. Favorire la qualità degli interventi rispetto al territorio:
Linee Guida
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tanto un momento fondamentale di verifica della congruità e praticabilità degli obiettivi, rapportando questi ultimi alla loro traduzione nella continua attività di pianificazione e gestione del territorio. A tal fine è da considerare essenziale la costituzione di strutture permanenti di verifica e di osservazione delle dinamiche sociali territoriali e ambientali che pongano costantemente in relazione le scelte effettuate e gli esiti raggiunti con quelli enunciati attraverso piani e politiche. Tali strutture dovranno essere orientate a costruire un sistema di conoscenza relativamente autonomo rispetto a piani e progetti, integrato attraverso il contributo di più competenze, aperto e interattivo, implementabile nel tempo da parte dei diversi livelli e soggetti attuatori di piani e di progetti. Inoltre i risultati dell’attività di monitoraggio possono verificare la validità dell’impostazione e dei contenuti della nuova legge urbanistica. Interesse generale e interesse pubblico Nell’odierno contesto dei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione, informato al principio di sussidiarietà, assume valore fondante (delle scelte e delle valutazioni) la nozione di interesse generale. Tale interesse non costituisce un dato astratto, definibile a priori o precostituito, né coincide necessariamente con l’interesse della Pubblica Amministrazione.
Nella materia territoriale, deve intendersi come interesse generale l’assetto che, in base alle condizioni, anche temporali, del contesto dato, meglio corrisponde a criteri di efficienza territoriale, sviluppo sostenibile, maggiore offerta di spazi e servizi, miglioramento della qualità della vita individuale e sociale della comunità. In tale processo di valutazione, che deve contemplare pariteticamente le opportunità e le iniziative dell’operatore privato come di quello pubblico, l’identificazione degli interventi corrispondenti all’interesse generale può non essere unanimamente condivisa: essenziale è, però, che detto processo si fondi sull’esame razionale, comparato, esplicito e motivato di opzioni, istanze e ipotesi promosse da soggetti diversi. L’interesse pubblico è nozione che, nell’ambito del più ampio concetto d’interesse generale, identifica quelle attività ed iniziative che, all’esito del processo di valutazione e sintesi di cui sopra, vengono riconosciute come necessariamente pertinenti all’azione di un ente pubblico, quale condizione per il loro svolgimento con caratteristiche coerenti all’obiettivo a tali attività assegnato. Le attività di interesse pubblico sono anch’esse gestibili da soggetti privati, i quali però, in tal caso, agiranno quali delegati o sostituti dell’ente pubblico, con conseguente assoggettamento della loro attività al sistema di regole proprio dell’attività amministrativa.
3. Contenuti principali della riforma Premessa La Regione ha competenze normative, finanziarie e programmatorie e di coordinamento. L’attività regionale si sviluppa per programmi e piani. È un ruolo di particolare importanza, tanto più affermandosi il principio del federalismo. In questo senso, si configura un nuovo e più complesso ruolo dell’Ente Regionale e dei suoi apparati tecnici, ai quali dovrà essere affidata la funzione e l’impegno di svolgere e aggiornare in modo costante, ricognizioni e ricerche relative allo stato del territorio e delle sue trasformazioni (si pensi alla Carta Tecnica, allo stato della pianificazione, a studi e ricerche sullo stato dell’ambiente, al rapporto con il quadro programmatico di livello nazionale ed europeo). La Regione, nell’esercizio della sua potestà legislativa esclusiva o concorrente, ha delegato e delega agli altri Enti specifiche competenze di carattere territoriale e sviluppa con propria legge le modalità di rapporto con gli Enti locali. Nello stesso tempo opera per definire gli aspetti del suo rapporto con lo Stato nelle materie concorrenti. In sede internazionale e in particolare comunitaria, la dimensio-
ne regionale è considerata frequentemente interlocutrice privilegiata per l’articolazione di strategie di sviluppo territoriale, in virtù della capacità di dialogo che istituzionalmente essa esercita con tutti gli Enti che operano sul territorio, dalla Comunità Europea ai Comuni. Pertanto la Regione può e deve promuovere nei confronti dello Stato iniziative e proposte affinché siano accolte le istanze delle proprie specificità territoriali. Resta strettamente attinente alle competenze regionali la formazione di indirizzi, linee guida che individuino princìpi, contenuti fondamentali e specifiche modalità procedurali, cui gli altri soggetti pubblici o privati dovranno ispirarsi nell’esercizio delle rispettive competenze e iniziative. Lo scopo di tale attività dovrà essere quello di individuare princìpi guida validi su tutto il territorio della Lombardia, pur nel rispetto delle diverse prerogative provinciali e comunali. Natura dei Piani e rapporto fra i diversi livelli di Piano I nuovi piani sempre più si connotano come sintesi interpretative delle realtà territoriali, ambientali, econo-
miche e sociali: essi dovranno pertanto tendere a prefigurare scelte, da definire e concertare, con margini di adattabilità diversificati in relazione alla natura e alle caratteristiche delle scelte stesse. In coerenza con i princìpi già enunciati, il piano dovrà adottare il metodo della copianificazione e concertazione, evidenziando la correlazione tra le scelte di programmazione e quelle di pianificazione territoriale. Dal punto di vista dei contenuti, esso dovrà: • esplicitare gli obiettivi che si pone definendone gli orizzonti temporali; • rappresentare una sintesi interpretativa del territorio e delle sue dinamiche; • fornire gli elementi del sistema conoscitivo per la valutabilità delle scelte strategiche e puntuali; • consentire la valutazione delle eventuali opzioni alternative evidenziando le priorità e la quantificazione delle azioni di perequazione, compensazione/sostituzione necessarie; • evidenziare i contenuti impegnativi intesi come elementi di salvaguardia non negoziabili; • esplicitare le risorse attivabili, valutandone la congruità rispetto ad obiettivi e priorità di intervento. Assume particolare importanza la definizione del rapporto che dovrà intercorrere fra gli Enti e fra i rispettivi piani. Superando la concezione della pianificazione gerarchica si propongono nuove modalità di relazione che sostanzino la natura delle procedure del confronto e della valutazione. Pertanto, si propone una nuova tipologia di rapporto che preveda l’anticipazione del confronto tra gli Enti sin dalla fase di definizione degli obiettivi, finalizzandolo alla ricerca delle compatibilità tra le rispettive scelte territoriali. Ulteriore elemento innovativo è il mutuo riconoscimento degli effetti di modifica e adeguamento che potranno derivare dal confronto: non solo dal livello superiore verso il livello inferiore, ma anche viceversa. In particolare, il piano comunale, che dovrà costituire un momento di approfondimento delle problematiche locali e delle proprie strategie generali di sviluppo, potrà indurre, sulla base di motivazioni confrontabili, ad una revisione delle scelte di livello superiore. Perché tale confronto sia praticabile ed efficace, assume particolare valore la possibilità di condivisione di dati e informazioni fra i diversi Enti e relativi piani, anche e soprattutto attraverso la predisposizione di Sistemi informativi condivisi dei quali la Regione in prima istanza si farà carico, attivando, promuovendo e incentivando l’elaborazione e la messa a sistema degli elementi di conoscenza e delle loro modalità di rilevamento e di gestione. Ciò presuppone la revisione della macchina amministrativa, a volte strutturalmente inadeguata a
rispondere alle nuove esigenze che l’impostazione di lavoro fin qui prefigurata sottende. In sintesi ogni atto di pianificazione territoriale è per sua natura strumento trasversale, che incide sulla programmazione di settore e, a sua volta, ne subisce le incidenze. Si tratta di un aspetto di particolare complessità, evidente se si considera, da un lato, la moltiplicazione degli strumenti di settore aventi incidenza territoriale diretta o indiretta (ad esempio: per il Comune: Programma triennale oo.pp., Piano urbano del traffico, ecc.; per la Provincia: Piano delle cave, Piano dello smaltimento dei rifiuti, ecc.; per la Regione: Piano dei trasporti, Piano della sanità, programmazione del settore commerciale, ecc.); dall’altro, la spettanza di alcuni di tali strumenti di settore alle competenze di Enti diversi da quelli investiti di poteri di pianificazione territoriale (ad esempio: Enel, Anas, F.S., ecc.) Si propone, conseguentemente, di adottare anche nel rapporto tra gli strumenti territoriali e la programmazione di settore, sia nell’ambito dello stesso Ente che nel rapporto tra Enti diversi, quella medesima metodologia di confronto e partecipazione, sin dalla definizione degli obiettivi, che si è affermata come essenziale nel rapporto tra i diversi livelli di piano territoriali. Tale metodo comporta: • l’utilizzo di un sistema di dati e informazioni condiviso, quale base per l’elaborazione delle rispettive scelte e il confronto tra di esse; • l’attenzione, nella elaborazione della programmazione di settore, alla verifica delle ricadute e degli effetti delle proprie scelte rispetto ai contenuti della pianificazione territoriale, nei suoi diversi livelli, e viceversa; • l’attivazione ai fini dell’elaborazione degli strumenti, sia territoriale che di settore, di tavoli di confronto per l’individuazione delle compatibilità reciproche. Contenuti e criteri della valutazione In un sistema di pianificazione strategico e dinamico, come quello che viene a configurarsi con l’impostazione presentata, diviene essenziale che gli Enti investiti di compiti di programmazione e di gestione siano in grado di effettuare valutazioni concretamente funzionali alla formazione di una decisione nel merito, piuttosto che, come invece tradizionalmente intese, attente esclusivamente a verifiche di conformità formali. Si deve affermare un modello di valutazione che non si limiti alla verifica della coerenza e compatibilità delle decisioni proposte rispetto agli atti di pianificazione territoriale sovraordinati, ma che, entrando nel merito delle scelte, ne indaghi le ricadute concrete ed effettive, in termini di impatto sul territorio, rapporto costi/benefici, inferenze sul sistema dei vincoli fisici, ecc.
Le forme della partecipazione Una attenzione rinnovata, nella forma e nella sostanza, dovrà essere dedicata alla partecipazione al processo di formazione del piano ed alla definizione delle scelte.
Uno degli obiettivi della nuova legge dovrà pertanto riguardare la regolamentazione delle nuove forme di partecipazione che dovranno configurarsi come coinvolgimento il più possibile allargato di soggetti pubblici e privati interessati. La partecipazione dei soggetti alla formazione e alla gestione del piano, fa si che i nuovi strumenti, così come vengono a configurarsi, non potranno che essere fortemente interrelati a tutte le opzioni di trasformazione e di sviluppo espresse dalla società. Per raccogliere in modo proficuo le opportunità offerte dalla iniziativa dei singoli soggetti, oltre che per favorire una loro partecipazione alla formazione del piano, lo stesso dovrà essere concepito come struttura aperta, dotato di una griglia di opzioni che consenta, ai soggetti interessati, di misurarsi su istanze chiare e definite in un quadro di cooperazioni reciproche. L’interpretazione dei bisogni e delle aspirazioni locali prefigurano la crescita di nuove professionalità e di nuove tecniche di comuncazione. A tal fine la nuova legge urbanistica della Lombardia individua i meccanismi per la traduzione delle istanze e degli interessi locali in un piano flessibile e in continua evoluzione. La regolamentazione di tali percorsi partecipativi dovrà, altresì, garantire l’esigenza concorrente ed altrettanto essenziale dell’efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa, responsabilizzando i soggetti portatori di interessi diversi ad un uso non dilatorio né strumentale delle proprie potestà partecipative. La flessibilità del Piano. Formati e strumenti L’argomento della flessibilità del piano è già stato affrontato in diversi passaggi del presente documento, che ne hanno evidenziato soprattutto la funzione di criterio ispiratore dei rapporti, tra i diversi soggetti, esprimenti diversi atti, diverse opzioni che interagiscono sul territorio. In tal senso, sintetizzando quanto esposto in precedenza, la flessibilità è: • rapporto di sussidiarietà e di cooperazione tra soggetti pubblici e privati; • criterio di impostazione dei rapporti tra i diversi livelli e strumenti di piano; • concreto rapporto tra alternative, valutazioni e contrattazione delle scelte. Preme qui sottolineare, però, che un’impostazione in senso flessibile dei predetti rapporti non è neppure ipotizzabile se, prima ancora, non siano natura, struttura e contenuti del piano, ad assumere come criterio e ispirazione fondante quello dell’adattabilità delle scelte. È forse opportuno rimarcare ulteriormente che un piano flessibile non è un piano neutro, ma è strumento privo di elementi di irragionevole e astratta rigidità, ca-
pace di trovare in sé i componenti per conservare, ed anzi implementare, la propria aderenza all’evoluzione delle realtà territoriali, economiche e sociali che deve indirizzare. Il piano assume, così, il carattere di un processo ciclico che, rispetto agli obiettivi strategici e in raffronto alle invarianti strutturali, valuta e adegua, in itinere, gli strumenti operativi. In un piano siffatto, le varianti non costituiranno né bruschi strappi rispetto agli indirizzi precedenti, né semplici prese d’atto di una diversa scelta, anche se opportuna; quanto, invece, progressivo e continuo adeguamento allo sviluppo del territorio, nel quadro di un sistema di valori e di indirizzi di lunga durata. Per conseguire tale diverso, e innovativo, tipo di efficacia, il piano deve presentare una struttura che contenga il momento: • della dichiarazione delle strategie e degli obiettivi; • dell’individuazione delle componenti strutturanti il piano; • dell’operatività, contenente scelte puntuali. Un piano così concepito è costituito dai seguenti elaborati principali: • un documento di ricognizione, che sintetizzi le indicazioni derivanti dagli ulteriori livelli di piano, nonché dai piani di settore, desumendone le invarianti strutturali (territoriali e ambientali); • un documento di obiettivi e di indirizzi, che delinei il ruolo del territorio considerato, nel quadro delle sue aspettative, anche temporali, di sviluppo, definendo le programmazioni conseguenti. Tale documento deve, tra l’altro, indicare e motivare la compatibilità delle scelte con i piani di settore, tenendo naturalmente conto delle sequenza temporale di adozione dei diversi strumenti; • uno o più strumenti operativi, da approvarsi con autonoma procedura, aventi valenza “progettuale”: tematica, per le materie, ad esempio, degli usi del suolo, della capacità insediativa, del centro storico e della valorizzazione dei caratteri morfologici-insediativi, del paesaggio e del verde, ecc. programmatico-attuativa, come nel caso dei programmi di riqualificazione urbana, dei diversi tipi di piani attuativi, ecc. programmatico-partecipativa, come nel caso dell’attuazione delle agenda 21, dei contratti di quartiere, dei piani d’area, ecc. Fermi restando i caratteri comuni della descritta struttura, è peraltro evidente che ciascuna delle componenti indicate avrà contenuti specifici differenziati, in rapporto alle diverse finalità e competenze dei vari livelli e tipi di piano, tenendo inoltre conto dei peculiari caratteri (opportunità, limiti, livello di polarità urbana, ecc. dei contesti trattati. In ogni caso, i contenuti fondamentali da esplicitare sono i seguenti:
• elementi di coerenziazione delle scelte (in rapporto agli ulteriori livelli di piano e ai piani di settore) soprattutto per quanto concerne le invarianti strutturali (territoriali ed ambientali); • sistema delle informazioni e delle valutazioni sullo stato di fatto assunte a base delle decisioni (sistema delle conoscenze); • strumenti perequativi (in tutte le forme possibili) di cui ci si intende avvalere; • criteri prestazionali, indicati per la misurazione delle aspettative di efficienza ed efficacia territoriale ed ambientale, da utilizzarsi in sede di valutazione delle scelte e di assunzione delle decisioni; tra questi, dovranno essere considerati sia gli standard ambientali (il cui ambito territoriale di riferimento è, peraltro, a geometria variabile, cioè è fortemente differenziato per ciascun fattore ambientale da considerare, non è determinabile in assoluto e prescinde dai confini amministrativi), sia gli standard urbanistici e di qualità, da programmare e da valutare. Osservatorio permanente e sistema informativo territoriale Il nuovo modello di pianificazione territoriale può trovare efficace attuazione soltanto attraverso un sistema informativo capace di assicurare un flusso dinamico e costante di dati e di informazioni tra tutti i soggetti coinvolti. Si tratta pertanto di procedere, d’intesa con Province e Comuni, ad una riorganizzazione funzionale dei rispettivi programmi e compiti specifici per certificare le conoscenze, per assicurare l’effettiva possibilità di scambio e di condivisione degli archivi e per disporre di garanzie in merito alla qualità delle informazioni rese disponibili. A tal fine è essenziale la condivisione di specifici criteri e standard operativi, nonché la costituzione di un osservatorio permanente cui affidare compiti di regia organizzativa e di monitoraggio. Affinché le valutazioni possano fondarsi sempre su una lettura aggiornata del territorio e delle sue dinamiche, l’osservazione degli effetti reali delle previsioni, la valutazione della qualità dei risultati rispetto alle scelte e la messa a sistema delle informazioni dovranno essere supportate da una conoscenza commisurata alla complessità dei fenomeni. La disciplina dell’urbanistica e della pianificazione territoriale dovrà formulare approcci, strumenti, indicatori, con l’obiettivo di commisurare l’efficacia delle scelte urbanistiche. Un sistema informativo aggiornato ed efficace risulterà, inoltre, strumentale all’aggiornamento del Piano Territoriale Regionale, per il quale saranno previste scadenze di verifica dei contenuti, in rapporto alle iniziative regionali attivate, agli elementi intervenuti, all’evoluzione del quadro program-
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Linee Guida
Tale schema metodologico deve essere impiegato per ogni momento di valutazione sia nel rapporto tra Enti, sia nel rapporto tra Ente e soggetti privati. Questo modello valutativo potrà essere concretamente utilizzato in quanto si verifichino due necessarie precondizioni. In primo luogo la condivisione delle conoscenze: le amministrazioni e i soggetti impegnati in procedimenti e azioni pianificatorie dovranno poter contare (e contestualmente misurarsi) su un patrimonio conoscitivo condiviso, costituito da un sistema di analisi aggiornato e finalizzato alla costruzione di una sintesi valutativa dello stato di fatto del territorio e delle principali relazioni e dinamiche che ne caratterizzano il rapporto con il contesto di riferimento. La formazione di tale patrimonio conoscitivo comune può senz’altro facilitare, in prospettiva, l’individuazione di obiettivi e priorità di azione condivisi, e può favorire altresì nell’ambito della dimensione regionale logiche di maggiore integrazione tra i diversi momenti ed episodi della pianificazione territoriale. In secondo luogo, l’adozione di criteri valutativi esplicitati ex ante: in una fase di radicale trasformazione del ruolo della pubblica amministrazione nella promozione e nella gestione delle politiche territoriali e urbane, la capacità di valutazione e di negoziazione degli interventi dipende in larga parte dalla possibilità di fare ricorso a tecniche valutative che fondino la loro efficacia sull’applicazione di criteri, parametri e indicatori e sulla effettiva capacità di soddisfare l’interesse generale. A tal fine, i nuovi processi di pianificazione e programmazione dovranno essere affiancati da metodologie atte a tradurre ed esprimere: • i fini e i fabbisogni espressi e vagliati dalla comunità e dal complesso di attori che la costituiscono, dalle strutture tecnico-politiche che la rappresentano e dalle istituzioni locali; • gli effetti sociali ed economici presumibilmente derivanti dalle trasformazioni previste; • la capacità delle trasformazioni previste di conseguire un miglioramento della qualità dello spazio fisico, tenuto conto dei valori simbolici, estetici e collettivi nei quali la comunità si riconosce; • gli effetti delle trasformazioni previste sul bilancio complessivo delle risorse in gioco, perseguendo una coniugazione positiva tra modelli di sviluppo e sostenibilità ambientale, con ciò, di fatto, rispondendo all’esigenza di introdurre la valutazione ambientale strategica finalizzata alla sostenibilità delle scelte di piani e programmi.
matorio comunale e provinciale. Sarebbe auspicabile prevedere la coincidenza di dette scadenze con la predisposizione del Documento di Programmazione Economico Finanziaria (D.P.E.F.R.), al fine di considerare gli assestamenti
delle previsioni finanziarie regionali in relazione agli effetti che esse producono sui programmi e i progetti contenuti nel Piano Territoriale Regionale, consentendo con ciò idonee revisioni e articolazioni delle strategie.
4. Contenuti dei documenti di pianificazione
Linee Guida
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Premessa La nuova legge urbanistica, nel quadro dei princìpi enunciati, dovrà identificare il ruolo che spetta alla regione e agli altri Enti territoriali nel campo della programmazione/pianificazione territoriale e urbana precisando innanzitutto i compiti che dovranno attenere all’Ente regionale nell’assumere scelte ed indirizzi di azioni e di interventi nel rispetto degli obiettivi di sostenibilità (ambientale, economica e sociale) e dei princìpi di sussidiarietà e di cooperazione. La prima riflessione riguarda la tipologia di piano di cui la Regione intende dotarsi. Si tratta di un punto essenziale, strettamente interrelato con le forme dell’esercizio pianificatorio, che l’Ente regionale intende perseguire, ma anche con i contenuti e con le modalità di formazione e di vigenza degli strumenti di pianificazione degli altri Enti territoriali, province e comuni. Maggiore sarà l’autonomia e la responsabilità nelle scelte degli Enti Locali, in un sistema pianificatorio integrato e flessibile, maggiore dovrà essere la capacità di analisi e di valutazione delle dinamiche che insistono sul territorio e sull’impatto che queste e le scelte adottate esercitano sul territorio stesso. Si tratta di identificare un sistema e un regime pianificatorio di non facile attuazione, che implica un cambiamento culturale che permetta di rappresentare e di comunicare una lettura del territorio e delle reti di città davvero integrata e che, a sua volta, si fondi su un sistema di conoscenza, di dati e di informazioni, condiviso e aggiornato. L’interpretazione dei bisogni e delle aspirazioni locali, l’individuazione delle opportunità e delle necessità che consentono lo sviluppo locale richiedono un nuovo ruolo da parte delle strutture tecniche degli Enti Locali e della Regione. Infatti, alla maggior autonomia di scelta e di giudizio degli Enti Locali e all’esigenza di formulazione di una visione strategica regionale, dovrà corrispondere una capacità di valutazione e di interpretazione delle dinamiche che insistono sul territorio oltre che dell’impatto che esse esercitano sul territorio stesso. Un salto di livello che implica anche una crescita culturale e professionale delle strutture degli Enti. Occorrerà, a tal fine, individuare un percorso formativo che sia in grado di assicurare la necessaria professionalità interdisciplinare: in que-
sto percorso, fondamentale dovrà essere il coinvolgimento delle Università per definire i necessari apporti culturali e professionali. Si individuano di seguito i contenuti fondamentali di ogni strumento di pianificazione territoriale. Il Piano Territoriale Regionale Il Piano Territoriale Regionale si configura come documento di inquadramento. Esso è un sistema complesso che fornisce il quadro strategico degli scenari di programmazione valutati in rapporto allo stato del territorio, agli obiettivi individuati ed ai possibili impatti che le previsioni possono determinare. Tale documento deve tener conto degli strumenti di programmazione e di pianificazione territoriale degli altri livelli di governo del territorio, nonché degli strumenti di programmazione di settore. Il nuovo strumento regionale sarà indirizzato in modo da esprimere la sua valenza di strumento conoscitivo (insieme ordinato dello stato e delle dinamiche del territorio e delle scelte territoriali derivanti dalla programmazione regionale, generale e di settore) e orientativo (insieme di indirizzi per la programmazione di livello regionale settoriale, provinciale e comunale). Il Piano Territoriale Regionale: • a. si esprime attraverso politiche e direttive mediante forme di incentivazione e di disincentivazione; • b. esplica effetti orientativi e di indirizzo con diversi gradi di prescrittività in rapporto al tipo di scelte e al grado di maturazione delle stesse; • c. può attivare salvaguardie e strumenti di programmazione negoziata per le scelte di esclusiva competenza regionale, verificate le indicazioni sovraregionali e gli orientamenti infraregionali; • d. si attua attraverso la verifica della compatibilità delle indicazioni di programma (PRS), l’individuazione delle scelte prioritarie e delle rispettive ricadute territoriali (salvaguardie), la verifica della fattibilità dei progetti con i soggetti interessati entro tempi definiti, decorsi i quali potranno operare interventi sostitutivi. Come sopra evidenziato, la legge urbanistica regionale espliciterà i modelli di azione cui si farà riferimento (concertazione, attuazione consorziata, meccanismi di compensazione sovracomunale, rinvio a specifici programmi d’area sul modello del Piano Malpensa). Il Piano Territoriale Regionale do-
vrà, inoltre, verificare la sostenibilità finanziaria delle proprie indicazioni e dovrà essere corredato di previsioni di tipo economico e finanziario, a tal fine necessarie. Il Piano Territoriale Provinciale Fatto salvo il regime transitorio la programmazione territoriale provinciale si assumerà una sostanziale continuità con i contenuti e le modalità di approvazione ed attuazione del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale indicati nella L.R. 1/2000. Il Piano Territoriale Provinciale si articola in un Documento di Inquadramento e nel Piano di Coordinamento. È un sistema complesso che fornisce il quadro strategico degli scenari di programmazione valutati in rapporto allo stato del territorio, agli obiettivi individuati ed ai possibili impatti che le previsioni possono determinare. Tale documento deve tener conto degli strumenti di programmazione e di pianificazione territoriale degli altri livelli di governo del territorio, nonché degli strumenti di programmazione di settore. Il Documento di Inquadramento: • 1. esprime obiettivi e politiche di sviluppo e di valorizzazione delle risorse del proprio territorio e, in quanto tale, costituisce riferimento per i piani di settore di propria competenza provinciale; • 2. individua i sistemi ambientali, insediativi e infrastrutturali, anche in rapporto alle esigenze dei Comuni e degli Enti sovracomunali operanti sul proprio territorio; • 3. recepisce le scelte e governa le ricadute delle politiche regionali e delle indicazioni del Piano Territoriale Regionale in rapporto alle specificità del proprio territorio; • 4. nel caso della Provincia di Milano, individua obiettivi, politiche e sistemi funzionali e organizzativi coerenti con la dimensione metropolitana. Il Piano di Coordinamento: • 1. individua e localizza le scelte e gli interventi di competenza provinciale e di quelle che ricadono sui sistemi ambientali, insediativi e infrastrutturali; • 2. disciplina con diversi livelli di prescrittività le scelte e la localizzazione degli interventi; • 3. indica indirizzi di tutela con prescrittività di diverso livello di vincolabilità, in quanto assume valenza paesistica; • 4. può individuare, in accordo con i comuni interessati, ambiti per i quali il Piano Territoriale Provinciale costituisce il documento di inquadramento di livello comunale. Il Piano Regolatore Comunale Il Piano Regolatore Comunale si articola nel Documento di Inquadramento, nel Documento di Piano Urbanistico e nella Normativa Tecnica. È un sistema complesso che fornisce il quadro strategico degli scenari di programmazione valutati con riferimento allo stato del
territorio e ai possibili effetti che le previsioni possono determinare rispetto agli obiettivi individuati. Tale documento deve tener conto degli strumenti di programmazione e di pianificazione territoriale degli altri livelli di governo del territorio, nonché degli strumenti di programmazione e di piano di settore di livello comunale. Il nuovo Piano Regolatore Comunale sarà indirizzato in modo da esprimere la sua valenza: • conoscitiva (di ricognizione delle previsioni di programmazione a scala sovracomunale e delle prescrizioni incidenti sul proprio territorio, nonché dei caratteri del territorio comunale nei suoi diversi aspetti morfologici, storicoculturali, fisico-naturali, infrastrutturali, economici e sociali); • orientativa, per gli aspetti di programmazione del proprio sviluppo nel contesto territoriale più ampio e con riferimento al piano delle opere pubbliche, del traffico e dei parcheggi, dei servizi urbani e della valorizzazione delle risorse; • prescrittiva per le scelte di programmazione individuate come prioritarie per gli investimenti pubblici e per i criteri insediativi finalizzati a garantire la qualità urbana e ambientale. Il Documento di Inquadramento: • esprime le politiche di sviluppo, di valorizzazione delle risorse del territorio comunale e di erogazione di servizi da garantire alla comunità locale; • interloquisce con le scelte territoriali regionali e provinciali e degli altri enti che operano sul territorio, recependone gli indirizzi, le prescrizioni o proponendo modifiche motivate; • individua invarianti infrastrutturali, insediative e ambientali, integrando e/o modificando motivatamente quelle indicate dagli altri livelli di governo; • indica gli indirizzi prioritari di intervento in rapporto al sistema dei piani tematici e settoriali locali (piano del traffico, del rumore, ecc.) e in rapporto alle possibilità di investimento. Il Documento di Piano Urbanistico: • identifica gli assetti urbani, individuando le aree consolidate, di trasformazione, di espansione e quelle inedificabili; • localizza le priorità di intervento di interesse pubblico (infrastrutturali, di riqualificazione) compatibili con le risorse attivabili; • specifica i criteri di coerenziazione con le scelte dei piani tematici, di settori e locali (piano del traffico, del rumore, ecc. e con gli interventi privati. Le Norme Tecniche: • definiscono le norme per gli interventi nelle aree consolidate; • stabiliscono i criteri morfologici e prestazionali per gli interventi nelle aree di trasformazione e di espansione; • esplicitano metodi e regole (i valori soglia e i valori guida) per la valutazione degli interventi; • disciplinano le aree inedificabili.
Atti del Convegno
Emiliano Campari Presidente della Consulta (da gennaio 2000 a febbraio 2002)
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Atti del Convegno
Le Linee Guida per la riforma urbanistica riconoscono l’indifferibilità della dotazione di un nuovo impianto normativo. L’intenzione della Regione è di completare il processo di riforma urbanistica dopo le varie leggi di semplificazione e di decentramento per singoli settori, dotandola di un nuovo impianto normativo sistematico che adegui il governo del territorio alle nuove esigenze di sviluppo. La Consulta regionale lombarda degli Ordini degli architetti ha accolto con favore l’apertura di un confronto ai vari livelli istituzionali, professionali e sociali. La Consulta ravvisa la necessità di ricondurre sollecitamente ad un articolato normativo i princìpi ed i contenuti delle linee guida, integrati dai contributi che potranno pervenire dall’avviata fase di confronto. La Regione Lombardia ha presentato le proprie Linee Guida il 30 novembre scorso con la partecipazione dei propri esperti, alla presenza di tutte le categorie tecniche, amministrative ed economiche interessate a questa normativa. Oggi, a soli 15 giorni di distanza, con questo Convegno la categoria degli architetti vuol favorire un costruttivo dialogo con la Direzione regionale Territorio ed Urbanistica in vista di ulteriori contatti e approfondimenti. Si auspica che l’adozione del Testo Unico metta fine alla pericolosa utilizzazione “self service” del disorganico apparato legislativo attuale da parte di Amministrazioni troppo disinvolte. Si spera e si confida che il nuovo impianto normativo presenti precisi collegamenti con le leggi nazionali di settore al fine di attenuare o evitare possibili contraddizioni operative, anche alla luce delle nuove funzioni in materia urbanistica e territoriale, alle quali le Regioni sono state delegate dalla riforma costituzionale da poco approvata. Una raccomandazione si richiede alla Regione: l’immediatezza dell’operatività del Testo Unico evitando promulgazioni parziali e dilazionate e fissando precisi criteri per la fase transitoria. La Consulta lombarda degli Ordini degli architetti sin da oggi dichiara la più ampia disponibilità a collaborare con la Regione Lombardia, mettendo a disposizione il patrimonio culturale e professionale degli architetti lombardi, interessati in prima persona ad applicare i dettami di questo prossimo nuovo Testo Unico. I lavori e le risultanze di questo Convegno verranno raccolti e fatti pervenire a tutti gli interessati e, in modo particolare, agli enti regionali preposti. Voglio ricordare nuovamente che la Commissione Urbanistica della Consulta che, con il Direttivo della Consulta, è stata promotrice di questo Convegno, rimane a disposizione della Direzione regionale Territorio e Urbanistica per gli ulteriori contatti ed approfondimenti. Chiedo ai responsabili della Regione, se possibile, che prima della stesura definitiva del Testo Unico lo facciano pervenire alla Consulta lombarda - e così a tutte le categorie interessate - affinché si possa esprimere un meditato parere.
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Consulta Regionale Lombarda degli Ordini degli architetti Convegno
Atti del Convegno
Urbanistica in Lombardia: contributo degli Architetti al Testo unico e prospettive future Le linee guida per la riforma urbanistica regionale Milano, 14 dicembre 2001 1° modulo 2° modulo 3° modulo 4° modulo
I princìpi delle Linee guida I livelli di pianificazione Il Piano dei servizi – gli Standard Perequazione, Concertazione, Partecipazione, Sostenibilità
Un particolare ringraziamento della Consulta: • a Claudio Maffiolini e Paolo Gatti, delegati alla preparazione e all’organizzazione del Convegno; • a Claudio Baracca, Stefano Castiglioni, Marco Engel e Gianfredo Mazzotta, coordinatori dei 4 moduli; • ai membri delle Commissioni Urbanistiche che hanno contribuito alla stesura dei documenti di analisi e critica delle Leggi Regionali in materia urbanistica, a supporto del Convegno:
Ordine architetti di Brescia Claudio Nodari
Ordine architetti di Lodi Erminio Muzzi
Ordine architetti di Como Doriam Battaglia Bruno Borghesani Franco Butti Silvano Cavalleri Giovanni Franchi Lorenzo Lupi Gianfredo Mazzotta Marco Ortalli Enzo Rho GiuseppeTettamanti Gabriele Vaccarella Emanuela Venegoni
Ordine architetti di Mantova Francesco Cappa Paolo Tacci
Ordine architetti di Lecco Maria Cristina Brivio Massimo Dell’Oro Silvio Delsante Ferruccio Favaron Anselmo Gallucci Massimo Marazzi Aldo Marchi Elio Mauri
Ordine architetti di Sondrio Aurelio Benetti Giovanni Bettini Simone Cola Giuseppe Galimberti Giampaolo Rinaldi Graziano Tonini Giovanni Vanoi
Ordine architetti di Milano Franco Aprà Marco Engel Edoardo Marini Ermanno Ranzani Ordine architetti di Pavia Giulio Junco Simona Pizzocaro
Ordine architetti di Varese Claudio Baracca Marco Bianchi Emanuele Brazzelli Patrizia Buzzi Gabriele Filippini Laura Gianetti Matteo Sacchetti Paolo Scapolo
Claudio Maffiolini co-coordinatore del Convegno Nota: gli interventi “a braccio”, desunti dalla registrazione su nastro, sono stati sintetizzati, ove possibile, pur mantenendone rigorosamente i contenuti, in modo da fornire una ricostruzione veritiera dell’evento.
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Atti del Convegno
Ricco di sollecitazioni e di interessanti spunti di riflessione si è rivelato il Convegno del 14 dicembre 2001, organizzato dalla Consulta Lombarda degli Ordini degli architetti per approfondire i contenuti delle Linee Guida emanate dalla Regione in vista della prospettata riforma urbanistica. La lettura degli interventi consentirà di ripercorrere tutti gli argomenti che erano stati messi in agenda con l’intento di aprire un primo confronto con l’organismo regionale. Le quattro fasi in cui si è articolato il Convegno hanno focalizzato i temi principali contenuti nelle Linee Guida, evidenziando i dubbi interpretativi e la necessità di ulteriori approfondimenti, prima del passaggio all’articolato legislativo. Constatato che sui princìpi generali non può esserci che assenso e convergenza, si è evidenziata la difficoltà della loro applicazione concreta negli strumenti operativi. A titolo esemplificativo, si richiamano alcune parole-chiave, di cui si è fatto ampio uso. • Responsabilizzazione. L’idea della Regione è di affidare alla responsabilità delle Amministrazioni locali la programmazione e la pianificazione del territorio, liberando i Piani Regolatori dalle verifiche aritmetiche tradizionali, ma puntando sulla necessità di strumenti efficaci, strettamente collegati alle risorse economiche a disposizione. Si è obiettato che la genericità delle indicazioni e la mancanza di controlli potranno portare a risultati o virtuosi o perversi, con un elevato divario tra Comune e Comune. • Sussidiarietà. Si condivide il disegno strategico di coinvolgere nell’operatività pubblica l’intervento privato (sussidiarietà orizzontale) e ad attuare un corretto rapporto tra le Istituzioni di diverso livello (sussidiarietà verticale); ma è stato evidenziato il pericolo che la sussidiarietà diventi un unico processo di delega ai Comuni. Per contro, è stata prospettata l’ipotesi di affidare esclusivamente al Comune l’esercizio delle regole urbanistiche, nelle quali debbano confluire le strategie di più elevato livello (Provincia e Regione) dopo i necessari confronti e le verifiche di coerenza. • Invarianti. Sono gli elementi strutturali condivisi che si pongono come presupposti di base per ogni processo pianificatorio. Si è posto il dubbio che tali elementi fondamentali di riferimento da “invarianti” possano diventare “varianti”. In rapporto - come dichiarato nelle Linee Guida - a “eventuali nuove esigenze e/o opportunità debitamente motivate e valutate”. • Qualità degli standards. È stata valutata con interesse la rinuncia ad un puntuale calcolo delle aree da vincolare “sulla carta” senza presumibili possibilità di acquisizione. Altrettanto interessante l’estensione del concetto di standard a servizi che comportano interventi finanziari anche in assenza di aree, come l’assistenza domiciliare agli anziani. Il nodo della questione è l’effettiva verifica della reale congruità della dotazione di servizi, non essendo stato esplicitato un nuovo strumento di misura alternativo a quello tradizionale del conteggio delle aree vincolate. Questi, e molti altri, sono stati gli spunti di dibattito, tutti meritevoli di approfondimento. La Consulta, con la pubblicazione delle Linee Guida e degli Atti del Convegno, intende offrire agli architetti lombardi, agli operatori regionali, agli amministratori locali l’opportunità di valutare le considerazioni espresse e di concorrere - mediante ulteriori momenti di confronto stimolante - ad una sinergia in grado di alimentare fruttuosamente l’operazione finale di redazione del testo legislativo.
Primo modulo I princìpi delle Linee Guida
Atti del Convegno
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Coordinatore: architetto Claudio Baracca Relatori: • Prof. Maria Cristina Treu, Prorettore del Politecnico di Milano, membro della Commissione Regionale per la revisione della normativa urbanistica; • Prof. Gianni Beltrame, docente di Urbanistica al Politecnico di Milano, ha svolto un ruolo di rilievo nella redazione della Legge Regionale Urbanistica n. 51/1975; • Ing. Gianni Verga, Assessore al Territorio del Comune di Milano Le domande che sono state proposte ai Relatori sono: • L’enunciazione di “princìpi”, anche se astrattamente condivisibili, non porta necessariamente ad un corrispondente esito positivo della legge. Non è più corretto desumere dall’efficacia dell’articolato legislativo il rispetto o meno dei princìpi che si dichiara di perseguire? • Se si ritiene di seguire la via dell’enunciazione di princìpi posti a base della legge, non sarebbe più opportuno darne maggiore specificazione, in modo da indirizzare effettivamente - e non in forma generica ed indeterminata - il futuro articolato legislativo? • Esiste coerenza tra i princìpi espressi dalle Linee Guida, l’evoluzione generale della disciplina e gli orientamenti per la riforma della legislazione nazionale urbanistica? • Si possono ritenere corrette ed esaustive le “definizioni” prospettate dalle Linee Guida o è necessario un completamento ed una più articolata specificazione? • Le Linee guida sembrano prestarsi ad interpretazioni di diverso genere: la prima di riduzione del ruolo del piano regolatore; la seconda invece che sembra riportare il piano con nuova veste e funzione, al centro del dibattito urbanistico. Quale sarà, rispetto a questo tema, lo spirito al quale sarà informata la futura riorganizzazione della materia urbanistica regionale? • A questo proposito il rapporto con la L.R. 51/1975 è riconducibile ad una completa rielaborazione o a un aggiornamento della normativa attuale? • Nei princìpi, posti a fondamento della riorganizzazione delle norme in materia urbanistica regionale, è individuabile una “gerarchia” o “prevalenza” di alcuni rispetto ad altri? Maria Cristina Treu Cercherò di seguire le domande che sono state proposte, motivando quello che possiamo ritrovare in parte nelle Linee Guida per la riforma, frutto di una discussione piuttosto articolata tra gli esperti che hanno lavorato al testo; precisando che si riuscirà ad entrare nel merito solo di alcuni aspetti e che, comunque, molto lavoro di confronto e di approfondimento ci aspetterà nelle fasi successive del dibattito.
Prima di entrare nel merito della prima domanda, vorrei richiamare una frase del testo relativo al primo modulo, che sostiene la possibilità di arrivare ad una discussione partendo dai documenti di indirizzo, e che conclude con questa espressione: “riabilitando la dimensione tecnicodisciplinare nel processo di formazione e di elaborazione delle regole”. Riprendo questo aspetto perché ritengo che la riabilitazione e la necessità di riflettere - dopo 50 anni di urbanistica in Italia - sulla dimensione tecnico-disciplinare non sia cosa né scontata né semplice. Inoltre ritengo sia molto importante, rispetto alla discussione ed alla stessa possibilità di esercizio della professione nei vari ambiti, introdurre elementi di chiarimento rispetto alla confusione che spesso si verifica tra ruolo politico e ruolo tecnico. Altrettanto importante è verificare la possibilità di elevare il livello del confronto ed il livello delle alternative di scelta urbanistica, rivalutando la dimensione tecnica della disciplina. Negli ultimi anni non ci sono state solo le leggi sul riordino delle autonomie locali, ma anche assegnazioni di competenze ai Comuni, alle Province, alle Regioni. Assegnazioni che richiedono di riabilitare e responsabilizzare alcune competenze tecnico-scientifiche. Pensiamo, per esempio, agli sportelli unici di più recente istituzione, ma anche a tutta la tematica ambientale e del paesaggio che non è possibile affrontare con le consuete competenze tradizionali, esercitate negli ultimi cinquant’anni in un contesto sicuramente diverso e in continua evoluzione. Credo che riprendere questo argomento serva per affrontare la prima questione: è interessante e giusto partire dai princìpi e poi pensare all’articolato della legge? E perché si è pensato di procedere in questo modo? La fiducia (o la possibilità) di modificare il modo di fare urbanistica non si esaurisce nella traduzione in princìpi più o meno chiari, corretti e ordinati; e neanche in quanto riusciremo a chiarire poi, nell’articolato legislativo. Credo che andare verso la direzione di un’evoluzione della nostra professionalità comporti anche un mutamento culturale profondo; e credo che questi momenti di confronto siano utili, come è utile il Piano, non solo dal punto di vista di ciò che decide, ma perché si presenta spesso come strumento di conoscenza e di formazione. Ritengo quindi che sia stato giusto partire dalla presentazione di linee guida generali, e che il successivo articolato legislativo possa essere costruito attraverso un’agenda di confronti e non presentato già confezionato. Del resto i princìpi non sono solo quelli riportati nel capitolo dei princìpi generali; ma poi si possono ritrovare in tutto il percorso delle Linee Guida, attraverso alcuni richiami. Nella redazione delle Linee Guida, siamo partiti dal principio della sostenibilità, declinato secondo vari aspetti: ambientale, sociale, economico. La sostenibilità fa da sfondo prioritario ad una serie di scelte, e la sua artico-
mente. Anche in questo caso credo che ci si avvicini a quanto è stato discusso a livello nazionale. Nel rapporto poi tra sussidiarietà verticale ed orizzontale non si è data per ora prevalenza a un tipo o ad un altro: anche in questo caso vorremmo ampliare il ragionamento e verificare come, attraverso alcuni casi e alcune pratiche, questi princìpi si possano concretizzare. In termini generali potrei concludere che l’ottica sottesa è di tipo sistemico, per cui tutti i princìpi valgono, in misura maggiore o minore, in funzione del contesto e degli obiettivi. Quindi, nell’attuale momento di trasformazione, una graduatoria va trovata, non tanto nell’assunzione di regole fisse, ma piuttosto nel rispetto di alcuni princìpi e criteri e, successivamente, nel fare. Certamente non è un percorso semplice perché si svolge sostanzialmente nell’incertezza. D’altra parte, chi esercita la professione si è accorto che oggi nessuna operazione professionale è oggetto di una delega chiara e che la stessa delega ed i problemi che si affrontano nel redigere il Piano sono oggetto di negoziazione dall’inizio alla fine. Le definizioni sono chiare o no? Secondo qualcuno degli esperti con i quali stiamo lavorando alla redazione delle Linee Guida, dovremmo fornire altre definizioni perché uno dei termini di maggiore complessità nell’agire professionale oggi è la confusione del linguaggio: infatti alcuni termini presentano più valenze e vengono usati in modo profondamente diverso. A questo livello del dibattito le definizioni proposte ci sembrano chiare soprattutto nella distinzione tra programmazione territoriale e pianificazione territoriale. Su questa distinzione abbiamo avuto lunghi confronti e ci siamo resi conto di come le due definizioni vengano usate spesso come sinonimo. Noi pensiamo invece che la programmazione e la pianificazione siano due attività né buone né cattive, di per sé né positive né negative ma che occorra porre attenzione alle relazioni tra programmazione e pianificazione. Da questo punto di vista l’esito può essere molto virtuoso o molto perverso. Per esempio, la distinzione dei termini è servita a chiarire che un Piano, se non ha una relazione virtuosa con le scelte di investimento e di programmazione, si limita ad essere una bella tavola, una bella descrizione, o un’argomentazione delle scelte senza concrete conseguenze. Deve far riflettere molto la sentenza del TAR relativa al Piano di Brescia perché sottolinea come le relazioni generali siano estremamente importanti e debbano motivare molto bene non solo le scelte, ma anche le normative tecniche, che sono un aspetto integrante del Piano. Se non verifichiamo questi orientamenti della pianificazione con una progressione di scelte programmatorie, non riusciremo a orientare gli investimenti e a creare nuove opportunità. Passare dal Piano “che azzona” - come sempre più spesso si sostiene - ad un Piano che crea e mette in evidenza le opportunità di investimento, si-
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lazione conferisce un’accezione particolare al termine ambiente, che meglio comprenderemo valutando la differenza - anche rispetto alle modificazioni dell’articolo 117 della Costituzione - tra territorio, ambiente e paesaggio. Non è un caso che questo punto sia stato affrontato per primo, anche se è forse vero che nelle Linee Guida non si evidenzino bene le gerarchie, ad esempio tra i diversi livelli di Piano. È però chiarita sicuramente la gerarchia tra interesse generale e interesse pubblico, questione sulla quale vale la pena di aprire il confronto. Il secondo chiarimento che viene richiesto è quale rapporto ci sia tra le ipotesi, intorno alle quali stiamo costruendo la legge regionale, e quanto è già stato discusso e chiarito anche a livello nazionale. Nei princìpi generali non si è parlato solo di “perequazione”, ma anche di “compensazione” e di “sostituzione”. Perché? Una delle ipotesi di lavoro è che rispetto alla perequazione si definisca meglio, nell’articolato, la ricerca di motivazioni e di normative in grado di chiarire il trattamento di diversi soggetti all’interno di un’area definita. In questo caso la perequazione si avvicina certamente molto a quello che è stato discusso a livello nazionale. Resta il dubbio se questo tipo di perequazione possa essere limitato ai termini di perequazione economica o se, con qualche sfumatura sociale, possa essere generalizzato a livello sovralocale. A questa scala preferiremmo parlare di compensazione per non caricare il Piano - inteso sempre nella definizione che noi diamo, cioè di strumento che rappresenta la ricaduta di alcune scelte sul territorio, sul governo dell’uso dei suoli - di tutte le aspettative, di tutti gli obblighi. Credo che una serie di compensazioni possano essere ritrovate a livello più generale e che quando nel Piano entrano pesantemente i discorsi della sostenibilità economica, ambientale e sociale, accanto al Piano si possano anche sviluppare e correlare altri tipi di politiche: quella dei servizi sociali, quella delle attività finalizzate allo sviluppo dell’occupazione, dai patti territoriali ad altre questioni. Quindi, la compensazione apre uno scenario, un ventaglio di opportunità che, a parere di alcuni, appartengono a quello spettro più ampio di governo del territorio di cui non deve farsi carico totalmente il Piano, il quale - pur essendo uno strumento che contribuisce al governo del territorio - sicuramente non ha tutti gli obblighi né le possibilità di risolvere quei problemi che in buona parte non gli appartengono o che appartengono ad altri tipi di decisioni. Abbiamo infine parlato di sostituzione, uno strumento forse meno complesso, ma sicuramente aperto alla possibilità di trovare soluzioni in direzione dalla perequazione, sia puntuale sia più allargata. Pratiche che avvengono a livello europeo, laddove per sostituzione si intende la possibilità di compensare alcuni effetti o consumi di risorse provocati da un intervento, riproponendoli anche in luoghi più lontani, meno collegati diretta-
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gnifica ancora una volta tenere ben distinte le proiezioni che il Piano può dare come forma di conoscenza da quelle che sono, invece, le vere opportunità che può creare, perché gli investimenti arrivino e perché, attraverso un apparato normativo, questi diano luogo ad una città più bella o di maggior qualità. Quindi ritengo che sulle definizioni si possa lavorare ancora molto per precisarle ed aggiungerne di nuove, soprattutto approfondendo maggiormente gli aspetti che riguardano i contenuti ed i livelli dei Piani. Una questione particolarmente importante attiene alla centralità o meno del P.R.G. Da questo punto di vista pensiamo sia necessario riorganizzare l’intera materia legislativa, secondo il contesto nuovo in cui ci troviamo, riportando l’unità normativa lungo due linee generali. Un binario dovrebbe produrre un articolato legislativo abbastanza snello sui principi e sulle clausole generali. Per chi ha pratica di legislazione e di giurisprudenza credo che questo termine chiarisca che il futuro testo legislativo, da questo punto di vista, non dovrebbe contenere parametri o dettagli eccessivi. Utile sarebbe anche seguire il dibattito a livello nazionale ed aprire un confronto con altre Regioni, per cercare di trovare dei punti di condivisione. Questo obiettivo troverà concretizzazione in uno dei prossimi incontri in agenda, che prevede un confronto con esperti di altre Regioni. L’altro binario è quello, invece, di un testo unico con regolamenti e allegati che dovrebbero integrare la normativa con la funzione di orientare (e non imbrigliare) la prassi. Infine, vorrei richiamare la vostra attenzione sul principio della flessibilità, di cui prima non ho parlato. Anche su questo aspetto sono molte le questioni da approfondire, soprattutto per cercare di renderle così chiare, in modo da evitare equivoci. Per alcuni di noi, la flessibilità, parlando di testo attuativo o di quella parte dell’articolato legislativo che dovrà avere una valenza più applicativa, corrisponde ad uno sforzo per segnalare la possibilità che alcuni parametri possano essere in qualche modo modulati, valutati attraverso quello strumento concettuale di contestualizzazione delle scelte, secondo il quale gli standard non possono avere lo stesso peso in qualsiasi contesto. E questo vale non solo per lo standard che siamo abituati a pensare, ma soprattutto per gli standard ambientali, come ad esempio quelli che prescrivono le soglie di inquinamento dell’acqua e dell’aria, che prescrivono distanze minime da alcune attività che sono sorgente di inquinamento o sorgente di rischio rilevante, ecc. Tutti questi standard sono il risultato di una profonda riflessione di natura scientifica, ma nel momento in cui si confrontano con la realtà devono fare i conti con il contesto e con una verifica anche della loro applicabilità sociale, per esempio rispetto all’occupazione, o ai processi di innovazione che avvengono all’interno delle aziende e delle attività. Per cui i 300 metri di distanza da un’attività nociva possono anche cambiare in funzione dei processi tecnologici che coinvolgono quell’attività; la distanza di 150 metri dalle sponde di un fiume può essere in certi casi eccessiva, mentre in altri casi è troppo modesta. Eccessiva quando, per esempio, la sponda è costruita; mentre può essere esigua in prossimità di zone coinvolte in movimenti di tipo franoso. Quindi la centralità del Piano dovrà essere garantita non tanto dal fatto di essere conforme ad un dettato normativo, ma dovrà essere conquistata in una pratica che si rifà a norme generali e ne motiva le applicazioni, documentandole e orientandole anche attraverso gli strumenti tecnici. Una centralità che, a mio avviso, si con-
quista nel fare, con una buona pratica, attraverso strumenti apparentemente più disinvolti, ma molto più responsabilizzanti le competenze tecnico-professionali. Tornando al primo concetto relativo alla gerarchia dei princìpi, accennavo prima che proprio in virtù della sussidiarietà non si è pensato ad una gerarchia di piani, ma ad una gerarchia delle scelte, effettuate in base alla loro rilevanza, rispetto all’interesse generale. Quindi l’interesse di una scelta che coinvolge una Regione o più Regioni certamente è prevalente rispetto ad altre scelte che presentano un interesse più locale. Questo tuttavia non significa che la scelta di interesse superiore (predisposta, pensata, gestita e attuata) non debba confrontarsi con la specificità dei territori, degli ambienti, dei sistemi sociali che incontra nel suo percorso. L’interesse di scala superiore diventa comunque prevalente e certamente urgente rispetto ad una gamma di opzioni e di
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Lecco, lungolago (foto: Marco Introini).
scenari di scelta che sicuramente influiranno su tutti i livelli di pianificazione. E questo proprio perché il Piano, di fatto, se non si confronta con le grandi scelte di investimento, non può aspirare ad avere un’efficacia effettiva. Da questo punto di vista noi possiamo immaginare che la vera prevalenza, la vera priorità, sia la possibilità di costruire una specie di griglia di grandi scelte, anche attraverso il sistema dei piani settoriali, che diventino una sorta di “invarianti”, ma che lascino all’interno delle loro maglie una serie di spazi operativi variabili. Gianni Beltrame Dopo l’accanito e lungo lavoro di smantellamento e di smembramento, a spizzichi e bocconi, della sua prima legislazione urbanistica, sostanzialmente terminato con la l. r. 1/2001, la Regione Lombardia si trova oggi nella condizione e nella necessità di dover iniziare a costruire
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o ricostruire sopra queste macerie un proprio quadro legislativo urbanistico organico e rinnovato. Le Linee guida per la riforma urbanistica regionale recentemente presentate dalla Direzione Territorio e Urbanistica dovrebbero fornire le linee, gli indirizzi e i contenuti di questo lavoro di ricostruzione cui si attribuisce, con una certa ambizione, la qualifica di “riforma”. Ma mentre smantellare e distruggere, specie se animati e sostenuti da una furia e da una logica tutta rivolta a favorire il privato, i costruttori privati, il lasciar fare, il fare per fare, il fare più metri cubi, lo “sviluppismo” e ogni altro cattivo istinto antipianificatorio, risulta molto facile, riedificare e ricostruire risulta molto più difficile. Ed anzi impossibile se una qualsiasi idea o linea di riforma sembra proprio non essere ancora maturata. Non basta infatti elencare, definire (c’è anche un glossarietto) ed allineare una serie di “Princìpi generali”, i più ovvi, condivisi, condivisibili e di moda (perequazione, flessibilità, sussidiarietà, sostenibilità, partecipazione, ecc.) per ottenere e delineare un quadro strategico di riforma. I princìpi generali sono: • Sostenibilità (ambientale, sociale, economica); • Sussidiarietà (verticale e orizzontale); • Perequazione/compensazione/sostituzione; • Cooperazione; • Flessibilità; • Partecipazione; • Monitoraggio; • Interesse generale e interesse pubblico. Non è che questa elencazione o accostamento di “princìpi” sia sufficiente per dare contenuto, configurare o delineare una linea di riforma. Anche se la Regione riscontrasse un consenso unanime su questi “princìpi” ai quali potremmo aggiungere anche quello, indiscutibile, ma altrettanto superfluo come quello di “volere bene alle mamme” - non ricaverebbe alcuna indicazione e alcuno stimolo sui contenuti e sulla linea di ricerca della auspicata riforma. Anche perché: • 1. si tratta per lo più di princìpi generali che riguardano concetti e obiettivi che potremmo definire “Costituzionali” o di “buona amministrazione” e che comunque riguardano più il modo di amministrare e non il modo di fare pianificazione territoriale o urbanistica; • 2. si tratta di princìpi generali tra loro anche molto “disomogenei” per finalità, dimensione e natura del problema, non sommabili, non automaticamente accostabili; • 3. non si tratta di princìpi generali di natura e ordine propriamente o specificamente urbanistico-territoriale; • 4. dal loro semplice accostamento o dal loro eventuale mixaggio (ma quale?) potrebbero discendere infinite linee di proposta e di riforma, con esiti e contenuti anche molto differenti. È indiscutibile il fatto che ogni qualsiasi proposta di riforma urbanistica dovrebbe essere riscontrata e vagliata su questi princìpi generali: ma è anche altrettanto vero che partendo solo da questi princìpi non è possibile dedurre di quale proposta di riforma si stia parlando. La mancanza di reali proposte e precisi indirizzi rende così difficile dare contributi o giudizi utili e precisi. Quattro altre critiche di fondo vanno avanzate a questo documento di introduzione al dibattito: • 1. il documento tace ogni riferimento e ogni valutazione e considerazione critica sullo stato della legislazione urbanistica lombarda (sia quella che residua, ma che è pur sempre in vigore, sia quella nuova di recente emanazione ed entrata in funzione, ad esempio la l.r. 9/99 o la 1/2000) e sulla sua applicazione: sulla pianifi-
cazione (in atto e in corso, ai diversi livelli) e sulla gestione urbanistico-territoriale-ambientale (in atto e in corso, ai diversi livelli). Nuoce indubbiamente al dibattito che si apre il fatto che non si configuri e descriva un quadro complessivo, non si parli e non si valuti criticamente quello che rimane in vita del passato o che è stato recentemente introdotto da nuove leggi in corso di prima attuazione (si vedano, ad esempio, i piani territoriali provinciali) e che, soprattutto, continua e deve operare ancora nel presente. Anche perché una certa attività urbanistica è, bene o male, ancora in atto ed impegna ancora e impegnerà per i prossimi anni il lavoro degli enti locali e di tutta la Regione. Ed è evidente che questa complessiva realtà non può essere trascurata, dimenticata e valutata criticamente, anche e soprattutto, davanti a una prospettiva di riforma. (Un “libro bianco su questo argomento sarebbe quanto mai opportuno). • 2. non a caso questa lacuna impedisce anche di capire quale sia il senso e la reale portata di quello che il testo propone quando parla di un non ben definito e valutabile “regime transitorio” che, come sembra di poter dedurre dal termine, dovrebbe mantenere in vita, anche se transitoriamente, qualche cosa che appartiene o che deriva dal passato o dal presente. • 3. manca una analisi e una valutazione critica di quello che è oggi l’assetto territoriale e ambientale complessivo della Lombardia che aiuti a valutare e conoscere le principali “criticità” sulle quali si intende puntare l’attenzione e l’intervento della riforma. La Lombardia contiene al proprio interno un’area metropolitana come quella di Milano che è indiscutibilmente un’area insostenibile dal punto di vista ambientale e socio-economico. E la stessa Regione è sicuramente classificabile tra le meno sostenibili d’Italia. Ma di tutto questo non se ne parla. • 4. manca il tema del paesaggio sul quale finalmente la Regione Lombardia ha recentemente dimostrato di voler intervenire con decisione e impegno. Alcune considerazioni sulla portata dei “Princìpi generali”: • Si veda, ad esempio, il principio della “sostenibilità”, che dovrebbe oggi, alla luce della cultura ambientalista più matura, essere posto al centro e a discrimine di ogni strategia e scelta di sviluppo. Il tema è però trattato secondo una definizione così lasca e generica - e assolutamente priva di criteri di valutazione e di misura - da poter considerare, alla fine, qualsiasi trasformazione tanto sostenibile quanto insostenibile. Sin che non si definiscono parametri, indici per valutare la sostenibilità di un intervento di trasformazione territoriale, ogni appello alla sostenibilità rischia di essere inutile e di lasciare il tempo che trova. Bisogna rispondere alle domande: chi la misura, chi la valuta, chi e come si decide che una trasformazione territoriale è sostenibile? • E si veda anche la debolezza della definizione di “Interesse generale e interesse pubblico” per la valutazione del quale “si deve contemplare pariteticamente le opportunità e le iniziative dell’operatore privato come di quello pubblico”!! (Linee guida per la riforma urbanistica regionale, p. 8); • E un interrogativo non da poco: può la legislazione regionale affrontare con qualche possibilità (e quale? e in che misura?) il nodo della “perequazione” toccando questa materia una questione di sostanziale competenza statale? Le proposte sulla natura dei piani e sul rapporto tra i diversi livelli di piano ricalcano invece le idee - condivisibili e ormai consolidate - proposte dal disegno di legge nazionale proposto dall’INU, anche se nel testo regionale i contenuti di questi appaiono poco definiti e chiariti. Per quanto riguarda la pianificazione alla scala comu-
Gianni Verga Mi sembra che questa occasione stia dimostrando, a quindici giorni dalla presentazione delle Linee Guida che si è svolta al Politecnico, che il dibattito sulla riforma urbanistica regionale è avviato. Si discute sulle questioni di sostanza, sui princìpi informatori sui quali è giusto confrontarsi, anche perché non è vero che sui princìpi siamo sempre tutti d’accordo. Gianni Beltrame ha fatto bene ad entrare in modo pesante sulla vicenda. D’altronde, come ha detto l’assessore Moneta al Politecnico, l’obiettivo è che si tratti di una riforma sostanziale, piena, ampiamente condivisa, ma non necessariamente condivisa da tutti perché, altrimenti, sarebbe equivoca. Ed io condivido profondamente questa considerazione. Lo dico come persona che ha partecipato a costruire queste linee fino alla fine, ma che oggi è ancora più interessata a che diventino subito legge e che non sia necessario un anno di tempo, come è nei programmi, per renderle vigenti a tutti gli effetti, per poterne fruire da amministratore locale a pieno titolo. I princìpi sono importanti e me ne sono convinto sempre di più, soprattutto nelle esperienze dirette a livello regionale: la nostra Regione è così articolata e diversa nel suo territorio che è giusto indicare i principi perché il modo per trasferirli nelle differenti realtà è sicuramente diverso. Diverso per aree territoriali, per i contenuti strutturali delle singole aree, per la loro estrazione e vocazione. I 1546 comuni della Lombardia sono molto differenziati e proprio la legge 51, rispetto alla dimensione comunale, fa riferimento ad un’entità totalmente astratta. Infatti i confini amministrativi non derivano sempre da caratteri significativi sul piano territoriale: e quando si considera in termini di dimensione il territorio su cui rapportare i servizi, compiamo spesso operazioni di tipo aritmetico che nulla hanno a che vedere con il buonsenso del governo del territorio. Non esiste un’automatica relazione tra la dimensione di un Comune e la popolazione insediata, con le sue caratteristiche generali. Eppure la pratica urbanistica vissuta dal Decreto Interministeriale del ’68 e poi dalla legge del ’75 ha imposto questa operazione aritmetica che non garantisce ricadute a livello di buon governo del territorio. È un problema analogo che si pone quando nei regolamenti edilizi vengono introdotte regole così pre-
gnanti che il ruolo dell’architetto o dell’ingegnere, in termini di creatività progettuale, non può più essere esercitata. Il tema è importante: dare princìpi significa poi poterli perseguire, cercare di raggiungere quegli obiettivi attraverso modi diversi. In Olanda la questione è stata superata già diversi decenni fa quando si disse, con un’affermazione molto sintetica, che le regole per raggiungere un principio nella grande metropoli sono esattamente il contrario di quelle necessarie per raggiungerlo nella piccola comunità. E se penso all’esperienza che vivo a Milano, ma che ho vissuto anche nel comprensorio, mi rendo conto che questa affermazione molto sintetica è tremendamente vera. Perché ci sono nella città di Milano delle potenzialità enormi che hanno bisogno di strutture, di modelli operativi, di condizioni di gestione totalmente diversi da qualunque altro dei 1545 comuni della Lombardia; i quali, del resto, tra di loro sono altrettanto diversi così come sono diverse le province. Tra l’altro qui non è stato ricordato ma probabilmente è un punto di merito del lavoro che fece Gianni Beltrame nel ’75 - il collegamento della legge 51 alla legge 52, non avvenuto a caso in un momento nel quale si cominciava a definire un modo per raggiungere degli obiettivi e, cioè, ritagliare il territorio per brani omogenei (che poi lo fossero davvero o no è cosa di cui possiamo sempre discutere). C’era una concezione assolutamente sbagliata nella vicenda del comprensorio ed era quella meramente organizzativa. L’assemblea del comprensorio di Milano era costituita da 500 persone: e questo non si è rivelato un vero livello di democrazia, perché l’assemblearismo non può esserne considerata l’espressione. E difatti il comprensorio fallì. Purtroppo, perché si riproporrà comunque il tema di governare per omogeneità, proprio per raggiungere gli obiettivi indicati nei princìpi. Ma voglio affrontare rapidamente anche gli altri argomenti. Ritengo fondamentale il concetto della perequazione, che è quello più difficile da realizzare attraverso la legislazione regionale, proprio perché deve misurarsi con una serie di problemi come i regimi fiscali che non sono strettamente di competenza della Regione. Tant’è che, per realizzare un disegno di carattere territoriale, urbanistico o addirittura edilizio, occorre che la trama delle competenze fiscali non finisca per costringere o danneggiare il disegno strategico del Piano. La modificazione del titolo quinto della Costituzione, che assegna competenze totali alle Regioni e competenze importanti ai livelli amministrativi di Comuni e Province in materia di territorio e lavori pubblici, sicuramente non consente di operare compiutamente proprio per la carenza di possibilità d’azione sul piano fiscale. È un tema ancora molto aperto, sul quale c’è necessità di confronto sul piano politico, se si vuole che al termine di autonomia possa corrispondere il termine di responsabilità, la sola condizione che politicamente garantisce la stessa autonomia. L’altra questione molto delicata, che questa riforma costituzionale ha indicato ma deve essere normata, è la distinzione tra ambiente e territorio perché la competenza sull’ambiente resta in capo allo Stato, mentre il territorio è governato dalle Regioni e dai Comuni: è quindi più che mai decisivo fare chiarezza su questa distinzione per riuscire a realizzare un quadro gestionale in qualche modo coerente. Gianni Beltrame ha parlato di princìpi di buona amministrazione. Magari! Speriamo! Sarebbe ora! Perché il problema non è fare il Piano: il Piano è solamente il passaggio per realizzare gli interventi. Oggi usciamo
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nale si opta per una distinzione e una diversificazione - molto logica e concettualmente ormai acquisita - tra il momento strategico del piano e il momento operativo e attuativo. Si prevede un’articolazione in tre documenti: 1. Documento di inquadramento (con valore di livello strategico e strutturale); 2. Documento di piano urbanistico (con valore di livello operativo e attuativo); 3. Norme tecniche. • Che rapporto c’è tra il primo e secondo livello? • Occorrerebbe definirli, distinguerli e separarli con chiarezza. • Se non si riesce a stabilirne correttamente la linea di demarcazione se ne mette in forse la specificità. • Occorrerebbe una sperimentazione. • Come va nelle altre Regioni? • Occorrono nuovi livelli di preparazione. Urbanistica anno zero, dunque, sia per il passato (che pare non ci sia più, nemmeno per le sue forme residue) che per il presente (che non si vuole guardare, che non si vuole descrivere e valutare) che per il futuro (che non si sa ancora prospettare). Ma forse è proprio questo che si vuole…
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da 25 o 30 anni di pratica nella quale l’importante era varare un Piano, a prescindere dal fatto che poi si riuscissero a realizzarne le previsioni. Quindi bisogna concepire dall’inizio i Piani per organizzare gli interventi, perché il problema è di trasformare, di rimodellare e di raggiungere gli obiettivi che sono indicati. Se l’obiettivo fosse ancora quello di costruire tante carte, sarebbe meglio non farne più nessuna, visto che ce ne sono troppe. Anzi, mi piacerebbe che questa nuova legge urbanistica regionale avesse come articolo finale quello della legge illuminante del 1865, la prima che in qualche modo ha prodotto un effetto sul territorio, che dice: “Tutte le norme, tutte le regole e tutte le leggi in contrasto con questa sono abrogate”. E forse è il primo punto sul quale dobbiamo lavorare: la nuova legge, quando ci sarà, dovrà abrogare tutto quello che è incompatibile con i suoi disposti. Perché oggi - ed è il punto più delicato sul quale mi trovo in difficoltà come amministratore a Milano - sono co-
stretto a viaggiare su due treni in marcia. Uno, quello che trasporta la legislazione del ’42, il decreto del ‘68, la legge 51 regionale, che hanno uno schema concettuale omogeneo. L’altro, quello che trasporta tutte le nuove leggi regionali, a partire da quella disposta dal mio assessorato quindici anni fa, per arrivare alla 9/1999 ed alla legislazione nazionale. Sono treni su binari diversi e convivere amministrativamente con due impostazioni legislative, che corrispondono ad impostazioni politiche e culturali differenti, è molto difficile. Anche perché non disponiamo di operatori immediatamente capaci di sviluppare queste politiche, in quanto la stessa classe professionale richiede tempo per modificarsi ed adeguarsi ai nuovi modelli. Una trasformazione non si realizza per decreto, ma avviene se i professionisti sono in grado di sviluppare nuove competenze e stare nel tempo. Una breve riflessione sulla questione delle definizioni e della sussidiarietà. Delle definizioni, come ha già det-
Bergamo, piazza del Duomo (foto: Marco Introini).
Claudio Baracca Abbiamo ascoltato le considerazioni che sono emerse ed anche le diverse posizioni. Mi pare che tutti i relatori non abbiano espresso pregiudiziali rispetto all’enunciazione dei princìpi contenuti nelle Linee Guida: intanto perché, come diceva Cristina Treu, sono elemento portante del processo avviato ed impongono anche un diverso atteggiamento culturale e di responsabilità delle competenze disciplinari. Gianni Beltrame, che sembra pensarla molto diversamente, sui princìpi riconosce giustamente che le enunciazioni, in linea generale, sono condivisibili. Il problema è quindi collocato altrove: il quadro dei princìpi così come enunciati consente di apportare contributi alla riforma urbanistica oppure no? Si tratta quindi di princìpi di buona amministrazione e non di pianificazione territoriale? L’altra posizione, di Cristina Treu e soprattutto di Gianni Verga, è che da questi princìpi partono le possibili-
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to la professoressa Treu, adoperiamoci per trovare le formulazioni più convincenti, ma che poi siano uguali per tutti. Quando si parla di Piano, che il Piano sia inteso nello stesso modo; lo stesso per il programma e per le altre classificazioni. Un passaggio sulla sussidiarietà. Questo termine raccoglie tutto lo spirito del diverso rapporto che ci deve essere, rispetto al passato, tra pubblico e privato posti sullo stesso piano. Perché il pubblico deve avere la capacità di essere autorevole e non autoritario. D’altronde il primo momento di seria declinazione del concetto di sussidiarietà, checché se ne dica, lo si trova solo in un’enciclica, che è la Quadragesimo anno, con una definizione precisissima. Sussidiarietà non è soltanto mettere insieme in un’architettura di competenze i ruoli tra Comune, Provincia, Regione, Stato e quant’altro. Sussidiarietà è il corretto rapporto tra il pubblico e il privato, la capacità di essere così autorevoli da parte del livello pubblico da saper indicare, coinvolgere e far condividere al privato i propri obiettivi. Questo è il tema vero, certamente difficile, che può effettivamente incidere nella capacità di riaggregazione e di riappartenenza di una comunità al proprio territorio. In questo quadro, allora, anche il discorso della sostenibilità diventa più possibile, più ragionevolmente praticabile. Ieri ero presente a Barcellona, dove si è discusso su quanto si è sviluppato con le Olimpiadi del ’92. La macchina amministrativa non si è fermata e ha prodotto interventi enormi anche successivamente. È stata lanciata l’operazione Forum della cultura 2004 con interventi che complessivamente avranno una dimensione doppia rispetto a quelli delle Olimpiadi. Il tutto peraltro ancorato al concetto della sostenibilità, declinato in una serie di approfondimenti, di passaggi e di compatibilità doverose. Ne sono uscito entusiasta, perché ho colto il gusto di progettare, di pensare in grande, di lavorare in collaborazione all’interno di un Convegno-seminario di 150 operatori nel quale si mettevano a confronto le esperienze di altri Paesi (Germania, Svezia, Francia e, per quello che è stato possibile, Italia). Ma soprattutto interessante è stato il rapporto con gli operatori economici, istituzionali, culturali della realtà di Barcellona che erano lì per condividere il progetto di questa città per i prossimi tre o quattro anni. Nuova scadenza: 2004 Forum delle culture. Credo che anche noi dovremo cominciare a darci delle scadenze reali perché oltre alla questione delle risorse e dei programmi, anche il problema dei tempi non può più essere indifferente.
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tà di raggiungere gli obiettivi per strade che possono essere anche diverse. Quindi, tutto sommato, una ricerca della contestualizzazione nella loro applicazione, in base alle specifiche situazioni. Sono due opinioni sulle quali richiederei a tutti una breve replica, per vedere se si sia sviluppato qualche elemento di convergenza o di ulteriore riflessione. Credo comunque che, di fondo, esista una questione di fiducia, o di sfiducia, nella classe amministrativa, nella classe tecnica e anche negli operatori. Si tratta di decidere se delegare una sorta di contrattazione su questo tipo di questioni, se contestualizzare rispetto a realtà specifiche l’applicazione dei princìpi, con meccanismi e parametri che possono essere anche molto diversi di volta in volta. Su questo punto sembra emergere un duplice atteggiamento tra chi ritiene che, in fondo, i tempi e gli attori potenziali del processo siano maturi e chi preferisce mantenere le garanzie derivanti da un controllo più rigido. Sul tema è interessante anche la considerazione di Gianni Verga che sostiene come un’acquisita autorevolezza del pubblico ed una nuova visione degli operatori, soprattutto professionali, siano la chiave per risolvere questa situazione. Infine un’ultima questione: tutti concordano sul fatto che per alcuni princìpi, come la perequazione, si prospettino tempi diversi di carattere legislativo, oltre a problemi di competenze tra Regione e Stato. Come si organizzano i tempi istituzionali e politici diversi nei quali presumibilmente verrà affrontato questo problema? Che modello di organizzazione di tempi, risorse e competenze si può ipotizzare per rendere realizzabile il nuovo assetto generale proposto dalle Linee Guida? Maria Cristina Treu Riprenderei la frase finale dell’assessore Verga: il Piano serve per sé stesso oppure per creare opportunità e spingere gli investimenti? Sono convintissima che il Piano, soprattutto oggi, con tutte le problematiche di intrecci normativi e nonostante il riordino che potremmo fare, non costituisce un prodotto finito di per sé. È un prodotto che si costruisce nel divenire, rispetto a linee generali. Riguardo alla domanda che poneva Gianni Beltrame all’inizio: “a che punto del processo di Piano è posta la valutazione?”, vorrei rilevare che la valutazione non è uno strumento di verifica aritmetica, né la verifica del sistema informativo che, ovviamente, non è oggettivo ed è relativamente autonomo dal Piano. Spero anche che non saremo più costretti a rifare tutte le analisi ogni volta che si rende necessaria qualche rielaborazione del Piano. Dovrebbe configurarsi una diversa strumentazione di conoscenza attraverso la quale il pubblico raggiunge un’autorevolezza, perché presta un servizio essenziale, arrivando a certificare alcune forme di conoscenza, alcuni indici, alcuni indicatori, raccogliendo le informazioni che possono venire dal campo scientifico piuttosto che dalle esperienze amministrative. Se il Piano sarà realizzato in questi termini e se la valutazione tenderà a risolvere i problemi, a non creare macchine aritmetiche o automaticamente valutative, saremo di fronte ad un cambiamento anche dell’impostazione della normativa, che dovrebbe essere divisa per clausole generali. Mentre il riordino legislativo si dovrà concretizzare in un apparato strumentale dove tutti (amministratori pubblici, professionisti, docenti, eccetera) diventino responsabili di quello che sostengono, senza l’alibi di parametri inviolabili, definiti a priori.
Gianni Beltrame Il testo che ci è stato presentato, attraverso l’elencazione dei princìpi guida, non ci consente di trarre una conclusione univoca e chiara. La discussione ha sollecitato già molte risposte che non sono scritte nel testo: ad esempio quanto sostenuto dall’ingegner Verga sulla perequazione è da condividere, ma non risulta così chiaramente nel testo che abbiamo a disposizione. Per questo mi sembra utile avanzare una proposta: se la Regione intende dialogare con il mondo dei tecnici, degli operatori, dei ricercatori e degli esperti, e se da questo mondo vuole ricevere sollecitazioni e proposte, allora c’è bisogno di altre tappe prima che venga steso il testo definitivo. Questo primo confronto, a mio parere, con alcuni limiti, ha dimostrato che si possono compiere passi avanti. Propongo che anche la Consulta degli Architetti della Lombardia richieda questa procedura alla Regione e che da questo primo testo iniziale non si passi direttamente al testo definitivo, ma si arrivi con altre consultazioni su un testo sempre più precisato, sempre più definito. Il progressivo approfondimento del dibattito, nei termini che deciderà la Regione, è la garanzia della possibilità di dare forza e positività a questo dialogo. Gianni Verga Non voglio sostituirmi alla Regione circa gli esiti di questa proposta. Però, prendendo atto dello schema che Gianni Beltrame propone, cioè il passaggio da aspetti generali ad aspetti sempre più definiti, mi sembra di tornare indietro, alla legge 51, al Piano territoriale regionale, ecc. Scatole cinesi: alla fine non si realizza nulla. Condivido, del primo intervento di Gianni Beltrame, che i Comuni siano stati gli unici ad arrangiarsi a fare qualcosa, qualcosa anche di molto meritorio. Il nuovo approccio è tuttavia contenuto in un concetto che nelle Linee Guida è ripetutamente posto, quello della co-partecipazione della pianificazione. Si definisce bene, nelle Linee Guida, che ogni livello avrà le sue competenze di pianificazione, di governo, di cura, e che questi livelli dovranno prevedere momenti di copartecipazione, momenti quindi di verifica. Pochi giorni fa ho svolto il primo incontro con l’assessore Regionale e l’assessore Provinciale e abbiamo chiarito i reciproci obiettivi dei prossimi mesi. Ritengo che questo sia il momento reale di co-pianificazione e co-partecipazione. Altra nota che voglio portare all’attenzione è che nella realtà e nell’esperienza di Milano, sto vivendo con grande interesse e, in qualche modo con grande entusiasmo, il lavoro legato alla redazione del documento di inquadramento ex lege 9/99. Non voglio semplificare eccessivamente, ma se il documento di Piano avesse contenuti simili, avremmo già risolto gran parte dei nostri problemi. I termini di coerenza delle diverse proposte possono del resto essere valutati con grandissima professionalità a livello delle burocrazie, dei nuclei di valutazione e anche attraverso le riflessioni di Giunta, Commissione e Consiglio, non mortificando, quindi, nessuno dei livelli di approfondimento disciplinare, professionale, operativo e politico-culturale. Ce la si può fare? Credo di sì, anche perché in quasi tutte le altre esperienze che si stanno sviluppando nelle realtà più evolute della pianificazione europea ci si è avviati su questa linea, dimostrando come si riescano a realizzare profondi interventi di riqualificazione del territorio grazie a linee simili a queste.
Secondo modulo I livelli di pianificazione
Relatori: • Prof. Angelo Bugatti, Docente di Composizione Architettonica Urbana, Università degli Studi di Pavia; • Prof. Luigi Mazza, Docente di Tecnica Urbanistica al Politecnico di Milano Le domande che sono state proposte ai Relatori sono: • Essendo acquisito l’abbandono del criterio di subordinazione gerarchica, come avverrà l’interazione tra diversi strumenti da contesti territoriali vasti a entità più particolari e ridotte e, soprattutto, tra piani con competenze/finalità diverse e specifiche? Chi in sostanza effettuerà il controllo di detti strumenti? • Quali cioè saranno gli strumenti operativi per garantire i princìpi di: sostenibilità, flessibilità, partecipazione, monitoraggio, interesse generale pubblico? • Come fissare i termini di validità e scadenza di strumenti che non possono certo oggi restare in vigore “sine die”, trasformandosi in remore e impedimenti a scelte necessarie, tempestive o solo successive? • Il raccordo con il complesso corpus legislativo del territorio e i differenti strumenti attualmente in vigore sono, “sic et simpliciter”, riconducibili e liquidabili con il rimando a un capitolo di articoli transativi? In particolare quale sarà il destino della L.R. n. 23/97 e della L. 267/2000 (sulle aree metropolitane)? Stefano Castiglioni L’intenzione degli architetti lombardi, nell’organizzare questo Convegno, non è stata tanto quella di reiterare la presentazione delle Leggi Guida, ma quella di aprire uno sguardo al di là dell’orizzonte e, quindi, tentare una comprensione dei passi successivi. In questo senso, la distinzione in quattro moduli non è tanto funzionale al testo e non ha una ragione strettamente riferita allo stesso, ma è orientata ad identificare quattro problematiche che successivamente si porranno quando nascerà l’esigenza di entrare nel merito dell’articolato normativo. Anche perché la distinzione tra quest’ultimo ed i princìpi è sicuramente strumentale: semmai è necessaria sin d’ora una visione anche sui termini applicativi, sui passi successivi di questo impegno legislativo: e proprio il tema dei livelli di pianificazione si pone come uno dei nodi chiave che la Regione dovrà affrontare. Vi è stata evoluzione, in questi anni, da un’urbanistica relativamente semplice da attuare - si fa per dire, ma comunque fondata su riferimenti certi e specifici - ad una configurazione sempre più complessa. Del resto è evidente che sicuramente non si tratta di una “disciplina esatta”. Ripercorrendo in termini sistematici l’evoluzione avvenuta al riguardo nell’ultimo cinquantennio, si osserva come i livelli di pianificazione previsti dalla legge urbani-
stica nazionale nell’iniziale stesura del 1942 fossero strettamente concepiti a cascata, secondo una sequenza essenziale e gerarchica P.T.C. * > P.R.G./P.d.F. * > P.P. * > N.O.** (* strumenti di gestione pubblica; ** strumenti di gestione privata) Al ruolo del Piano Territoriale di coordinamento (Regionale o Provinciale) erano quindi subordinati i Piani Regolatori Generali o i più semplificati Programmi di Fabbricazione, da cui derivavano poi i Piani Particolareggiati e, in subordine, i Nulla Osta edilizi. In realtà per 25 anni (fino alla legge 765/1967) il territorio è stato regolato unicamente con P.R.G. e N.O. (fatta salva l’esperienza episodica e marginale dei Piani di Zona di cui alla Legge 167/1962). Con la legge 765, il ruolo del Piano Particolareggiato formalmente sempre in vigore, ma con applicazione più che sporadica - è stato sostituito dai Piani di Lottizzazione e successivamente dai Piani di Recupero (con la legge 457/1978). Si trattava di un modello di gestione territoriale apparentemente semplice che: • introduceva la nozione di piano attuativo con una casistica più articolata; • affidava un ruolo di protagonista della pianificazione al committente privato; • sostituiva il Nulla Osta con la Concessione Edilizia onerosa (tramite la legge 10/1977) secondo una articolazione che potremmo così schematizzare: P.T.C. * > P.R.G. * > P.L.*/** > C.E. (* di gestione pubblica; ** di gestione privata) In realtà, si avviava invece una proliferazione specialistica di settore con una casistica estremamente complessa e variegata: Piani urbanistici generali • P.R.G. (piano regolatore generale di cui all’art. 7 della Legge 1150/1942) • P.R.G.I. (piano regolatore generale intercomunale cui all’art. 12 della Legge 1150/1942) • P.d.F. (programma di fabbricazione di cui agli art. 3334 della Legge 1150/1942) • P.d.F.I. (programma di fabbricazione intercomunale di cui alla circolare 616/1978) Piani territoriali • P.T.R. (piani territoriali di coordinamento di cui agli art. 5-6 della Legge 1150/1942) • P.T.P. (piani territoriali paesistici già ex art. 5 della Legge 1497/1939 [protezione delle bellezze naturali] poi ex art. 1 bis della Legge 431/1985 [Legge Galasso] ed ora ex art. 149 della Legge 490/99 [testo unico beni culturali e ambientali]) • P.C.M. ([piani dei comprensori montani] ex art. 1 della Legge 1102/1971 [norme per lo sviluppo della mon-
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Coordinatore: architetto Stefano Castiglioni
tagna] e ex art. 29 della Legge 142/1990 (ordinamento delle autonomie locali) sostituito da art. 20 D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 [testo unico autonomie locali]) • P.T.C.P. (piano territoriale di coordinamento provinciale ex art.15 della Legge 142/1990) • P.T.A.M. (piano territoriale delle aree metropolitane ex art. 19 della Legge 142/1990, ora art. 22-23 D.Lgs. 267/2000)
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Piani urbanistici attuativi • P.P. (piani particolareggiati ex art. 13 della Legge 1150/1942) • P.Z. (piani di zona per edilizia economico-popolare ex art. 9 della Legge 167/1962) • P.I.P. (piani di insediamenti produttivi ex art. 27 della Legge 865/1971 - Legge della casa)
• P.L. (piani di lottizzazione ex art. 8 della Legge 765/1967 - Legge ponte) • P.L.U. (piani di lottizzazione d’ufficio ex art. 8 della Legge 765/1967) • P.R. (piani di recupero ex art. 28-30 della Legge 457/1978 - norme per edilizia residenziale) Quella sopra esposta resta per altro una elencazione riduttiva e incompleta della dilatazione di strumenti tanto abnorme quanto soggetta a rapida obsolescenza e disuso. Successivamente poi una nuova generazione di regole regionali in materia urbanistica ha innovato ulteriormente quanto profondamente i contenuti dando luogo a un sistema differenziato da regione a regione e altresì soggetto a ulteriore rapida evoluzione:
Il documento fondamentale della programmazione regionale
Il programma regionale di sviluppo individua il modello di sviluppo regionale nel quale vengono definiti: gli obiettivi dello sviluppo socio-economico della regione; le strategie da adottare per il loro conseguimento, l’uso razionale e ordinato del territorio.
I piani di indirizzo generale. L’affollamento dei piani regionali
A partire dai primi anni ‘90 sono stati introdotti Piani Regionali orientati verso contenuti di indirizzi, criteri, proposte progettuali al fine di ricercare una integrazione con la pianificazione paesistica e con le altre forme di pianificazione regionale. Queste le principali tipologie: piani territoriali regionali (Emilia Romagna, Liguria, Piemonte, Friuli Venezia Giulia), piano territoriale regionale di coordinamento (Veneto), piani urbanistici territoriali (Umbria e Puglia), piano di inquadramento territoriale (Marche), piani di indirizzo territoriale (Toscana). Più recentemente sono stati introdotti il quadro di riferimento provinciale (Abruzzo), il quadro di riferimento territoriale edilizio (Lazio) e il documento di indirizzo per lo sviluppo territoriale (Lombardia), che segna la volontà di superare l’uso di strumenti legati riguardante gli usi del suolo a favore di documenti più agili, di inserimento. Piani paesistici (legge “Galasso” art. 1bis legge 43/1985) che hanno dato un notevole impulso alla politica regionale nel campo della protezione della natura; in diversi casi dettano le linee strategiche della tutela in quanto spetta alle Province la redazione dei piani territoriali di coordinamento con valenza paesistica. Piani regionali dei trasporti che hanno acquisito importanza strategica anche a seguito del trasferimento dallo Stato alle Regioni dei poteri in materia di programmazione e gestione dei trasporti e della viabilità di rilevanza non nazionale (attuazione degli articoli 117 e 118 della Costituzione). Piani e politiche per il commercio (regolamentati ora da D.lgs 114/1998 di attuazione del processo di decentramento avviato con la Legge 59/1997. Il settore ambientale è caratterizzato da una ricca produzione normativa alla quale corrisponde però una lenta attuazione dell’azione pianificatoria. Queste le principali tipologie dei piani ambientali: piano regionale delle attività estrattive, piano per la gestione dei rifiuti, piano dei parchi regionali, piano energetico regionale, piano di gestione delle risorse idriche, piano di risanamento atmosferico. Piani territoriali di coordinamento (P.t.c.) (art. 45 Legge 142/1990) che hanno il compito di determinare gli indirizzi generali di assetto del territorio provinciale e i criteri per la elaborazione del P.R.G. Piani urbani del traffico (P.u.t.) piani di risanamento acustico (P.u.m.) piano dei tempi degli orari Agenda XXI Locale (strumento di coordinamento per dare attuazione a obiettivi di sostenibilità messi a punto dall’EARIH Summit di Rio nel 1992). Programmi integrati (ex art. 18 Legge 203/1991) “Lotta procedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata”, programmi integrati di intervento, programmi di recupero urbano, programmi di riqualificazione urbana (P.r.u.), programmi di riqualificazione urbana per lo sviluppo sostenibile (P.r.u.s.s.t.), contratti di quartiere.
Piani regionali di area vasta
Piani ambientali a livello regionale
La pianificazione provinciale Piani comunali di settore
Programmi complessi
(Da “Il Sole 24 Ore” del 29.10.2001)
Ma il problema fondamentale resta l’impatto che fatti nuovi e, soprattutto, progetti di macro-urbanistica hanno avuto con tale sistema legislativo: un esempio evidente è stata la vicenda di Malpensa. Quando si è posta l’esigenza di creare questo Hub previsto dai programmi europei, non si è potuto che emanare un provvedimento legislativo ad hoc che superasse di colpo tutta la strumentazione presente, per quanto ormai vasta e articolata, e che superasse ex abrupto il gap tra strumenti e realtà/campo di applicazione. Se il fenomeno Malpensa appartiene ormai al passato, sotto il profilo urbanistico, un altro problema, già all’orizzonte e con un peso ed un impatto equivalente, è sicuramente quello dell’alta velocità e dei collegamenti transalpini. Proprio per evitare ancora una volta che nascano poi delle leggi speciali regionali che deroghino dagli strumenti vigenti per disciplinare le implicazioni territoriali di programmi di vasta scala, il problema dei livelli di pianificazione va affrontato quanto prima. Prima di porre quesiti specifici, vale la pena di introdurre un quesito a carattere generale. La L.R. 51/75, applicando a livello regionale i contenuti della legge 765/67, si è posta come la legge direttrice di tutta la legislazione territoriale lombarda, con il pregio di essere di semplice applicazione e basata su parametri certi; certamente oggi si vive una condizione urbanistica non proprio di confusione ma certo di difficoltà di relazione. Quindi, uno dei nodi principali è proprio la crisi della subordinazione o della gerarchizzazione dei livelli di pianificazione: tra urbanistica locale e generale non può esservi una relazione soltanto demandata alla concertazione, o al ruolo di commissario ad acta, anche perché se il controllo degli strumenti non viene affrontato, possono nascere situazioni di disomogeneità. Certamente occorre comunque codificare le modalità di passaggio dei tre livelli, regionale, provinciale, e comunale. Per la verità, al problema era stata data già una prima sistematizzazione dalla legge 1/2000, non a sufficienza considerata da architetti e urbanisti, trattandosi di una normativa orientata - più che all’assetto del territorio - a precisare le competenze degli enti di governo. Tuttavia il controllo degli strumenti e la gestione
della concertazione costituiscono sicuramente un nodo principale. Soprattutto due aspetti hanno costituito i fattori di crisi della precedente legislazione: i tempi ed i finanziamenti. L’urbanistica dei decenni precedenti si è infatti posta in termini di scenario senza termini, scadenze, rinnovi. Esisteva una contraddizione tra il piano regolatore con validità decennale (che poi in realtà non era tale!) e gli altri piani (provinciale e regionale di coordinamento) dotati di durata illimitata, tutti in ogni caso disconnessi dai documenti di programmazione propriamente economica. Infine, resta il problema del raccordo con la legislazione esistente. È possibile pensare di arrivare ad un nuovo articolato semplicemente con un capitolo di normativa transativa? Esistono poi interrogativi specifici: quale sarà la collocazione del piano paesistico, che si è proposto un po’ come una meteora? Sarà uno strumento parallelo a sè stante o si scinderà anch’esso in tre livelli? Sempre per il piano ambientale saranno possibili concertazione e flessibilità, oppure lo stesso si configurerà piuttosto come un sistema di riferimenti invarianti, e non negoziabili? Come interrelare i rapporti sia in senso verticale, sia in senso orizzontale tra diversi piani regolatori o tra diversi piani provinciali? Si porrà una riformulazione della legge 1/2000, per conciliare il sistema delle autonomie locali con le procedure di approvazione? Come evitare il rischio reale che una normativa del territorio meno essenziale e schematica generi un contenzioso amministrativo gigantesco? Già oggi si è visto che sussiste una sorta di proporzione per cui ad un aumento geometrico del numero degli strumenti urbanisti consegue un aumento esponenziale del contenzioso presso i tribunali amministrativi, dato che è sicuramente irrealistico ipotizzare applicazione di strumenti con concomitante consenso. In realtà, l’urbanistica e i livelli di pianificazione sono destinati a restare un terreno di scontro prima che di concertazione. Angelo Bugatti Queste Linee Guida, esito del lavoro di una commissione costituita da esperti e da tecnici regionali, hanno come obiettivo quello della chiarezza delle procedure e degli strumenti. Forse parrà strano, ma questo è l’obiettivo che si pone la nuova legge urbanistica: chiarezza delle competenze, dei ruoli, dei tempi. Quindi, i diversi strumenti nei tre gradi che sono previsti (livello regionale, provinciale, comunale) sono stati dibattuti e, naturalmente, la discussione è appena cominciata. Il piano provinciale deve occuparsi dei sistemi ambientali, insediativi, funzionali e di tutto quello che non compete ai Comuni, definendo così progetti di propria competenza e non solo, come posto dalla legge 1/2000, indicazioni di massima. Il fatto che il P.T.C.P. di Milano individui per la Tangenziale esterna Est una fascia vaga, non giova a nessuno. I P.T.C.P. devono assumersi invece responsabilità per localizzare gli interventi di competenza provinciale; devono inoltre definire i sistemi ambientali, insediativi, funzionali, con la normativa relativa. Detto questo, il Piano regolatore comunale si configura come l’anello principale su cui impostare il controllo urbanistico. A parere di alcuni membri della Commissione, resta ancora molto da dibattere sul P.R.G., e in proposito sono state interessanti anche le osservazioni poste da Gianni Beltrame. Le leggi in materia emanate dalle altre Regioni, come la disgraziata Legge 5 della Toscana, la Legge della Basilicata e quella dell’Emilia Romagna, risultano ineffica-
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La “galassia” di cui sopra è rimasta tuttavia per lo più una selezione di opportunità di governo ed intervento sul territorio piuttosto che concreta operatività, dato che negli ultimi anni strumenti marginali al P.R.G. (quelli già definiti “programmi complessi”) sono stati i veri protagonisti delle scelte strategiche e di rinnovo delle città: • A.P. (Accordi di programma) ex art. 34 D.Lgs. 15/08/2000 n. 267; • P.R.U. (programmi di riqualificazione urbana) ex art. 2 della Legge 179/92 e D.M. 21/12/94; • P.I.I. (programmi integrati di intervento) ex art. 16 Legge Botta-Ferrarini n. 179/92 e poi L.R n. 9//99; • P.R.U.S.S.T. (programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio) ex D.M. 8/10/98) o di “programmazione negoziata”. Il quadro sopra esposto esemplifica in maniera schematica la gamma e l’entità a tutto campo degli strumenti che, via via, sono proliferati. Oltre ai documenti di programmazione regionale si sono avuti in parallelo piani di indirizzo regionale, piani di vasta area. A questi ultimi vanno ricondotti anche i piani per il commercio: proprio in Lombardia la legge 14/99 ha infatti puntualizzato questo aspetto. Ci si limita poi a rammentare, senza soffermarsi, la pianificazione ambientale (piano paesistico regionale), i piani di settore ed i programmi complessi.
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ci a causa dell’assenza di tempi realizzativi e della loro farraginosità, dovuta al fatto che ripropongono in sostanza il meccanismo dei Piani regolatori così come lo sono stati fino ad ora. È oggetto di dibattito aperto se al P.R.G. debba competere di essere un documento unico, un documento di indirizzo e di inquadramento. Il Piano regolatore infatti o è il documento di inquadramento che può essere sapientemente articolato, come quello di Milano elaborato da Mazza, oppure può essere più semplice perché la realtà dei 1546 Comuni lombardi è molto diversa: in ogni caso resta un documento unico, in cui vi sono le invarianti strutturali che il Comune rileva come tali nel proprio territorio. Può essere un assetto morfologico, un fontanile, un castello o una casa di rilevante valore architettonico. Nel documento del Piano sono specificati i vincoli sovraordinali e tutto quello che in questo documento il Comune ritiene che debba essere strategicamente posto come proprio programma di governo.
Tutto questo si interseca con il Piano dei servizi e con il Piano triennale delle opere pubbliche. Questi tre documenti costituiscono il documento di Piano regolatore. A questo dovrebbero seguire poi i Piani attuativi e i Piani di settore. Per questi la vera difficoltà è l’integrazione con il Piano generale. Ma di quest’ultimo credo che debba essere sottolineata la prevalenza, dato che è evidente che il Piano regolatore generale, comunale, contiene le condizioni di trasformabilità del territorio e tutti gli elementi che sono stategici e che poi vengono sviluppati nel piano di settore. È uno schema forse troppo semplice; però è un punto di partenza da cui iniziare per evitare che la nuova legge non resti fumosa. In merito vi è stato un ampio dibattito, tuttora aperto. L’interesse pubblico generale è la sostanza del documento di inquadramento del Piano regolatore generale. Nessuno strumento urbanistico può sostituire una mancanza di idea di città: se questa manca, possiamo inventarci il Piano operativo, il Piano strutturale, il re-
Varese, piazza Montegrappa (foto: Marco Introini).
strutto il suolo, non funzionano. Può apparire facile valutare un Piano sulla base dei numeri del P.T.C. della Provincia di Milano, ma lo spirito della legge, è un’altra cosa: il Comune si deve assumere la responsabilità di decidere il proprio destino nell’ambito, ovviamente, del Piano provinciale.
golamento urbanistico, ecc., ma in realtà non c’è niente. Si vuole con questo strumento consentire l’espressione massima dell’idea di città, tant’è che si parla di assetti morfologici, di valutazioni ambientali rivoluzionando la concezione dell’ambiente, di reti di impianti, di carico urbanistico e di carico ambientale. Tutto ciò è una sorta di rivoluzione nostra ed anche dei singoli enti preposti a questi Piani, perché emerge subito il serio discorso posto da Gianni Beltrame. Chi valuta? Non c’è più la conformità, c’è la compatibilità (relazionata con i Piani di grado subordinato). E proprio la compatibilità delle scelte urbanistiche coincide con la responsabilità del Comune. Cioè la valutazione dell’espansione, del recupero, della conservazione (fatte salve tutte le leggi di protezione, ecc.) deve necessariamente essere responsabilità del Comune. Qui - bisogna dirlo a chiare lettere - i meccanismi con gli indici, i parametri numerici che premiano i Comuni che hanno meno consumo di suolo, riportandoli a quelli che hanno più di-
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Luigi Mazza Credo che il nostro dibattito stia incontrando qualche difficoltà di natura lessicale. Usiamo le stesse parole con significati diversi. Due rapidi esempi. Usiamo la parola “piano” senza chiarire se intendiamo un piano in cui sono mescolate componenti regolative e strategiche come nel piano urbanistico tradizionale, o se intendiamo un piano di indirizzo in cui, almeno teoricamente, la componente regolativa è esclusa come nei documenti di inquadramento. Un altro esempio. Nel documento di cui stiamo discutendo, alla voce interesse generale e interesse pubblico, è data una definizione che mi lascia quanto meno perplesso, mentre condivido del tutto la definizione di interesse generale come progetto politico, data ora da Bugatti. Si tratta, credo, dell’unica definizione umanamente possibile di interesse generale, poiché l’interesse generale non è un oggetto naturale - una pietra in cui possiamo inciampare camminando -, ma, in una prospettiva democratica, è il risultato di un accordo e di un progetto politico, ed è tanto più generale quanto più è esteso l’accordo su cui è fondato, tanto meno generale quanto più questo accordo è minoritario. Credo che il documento ponga più di un problema lessicale e che ognuno di questi problemi rifletta un nodo concettuale irrisolto, non si tratta di semplici questioni terminologiche. Ad esempio, il documento utilizza l’espressione “invarianti strutturali”, espressione un po’ misteriosa, quasi mitica - anzi, per esser preciso, metafisica - e pertanto, per me, fonte di una certa preoccupazione (anche perché temo che l’unica forma di invariante strutturale sia la morte, e non credo che si voglia fare riferimento a questa forma estrema di equilibrio). L’origine di questo termine non è recente e, malgrado le sue definizioni siano diverse e sempre ambigue, l’uso è frequente in letteratura, e talora anche nei testi legislativi. Credo, pertanto, necessario chiarirne il significato; nel farlo penso sia opportuno tener conto che dobbiamo darne una definizione compatibile con il sapere di una corporazione tecnica (e non mistica). Venendo al dunque, ho già avuto modo di sostenere altrove che nel disegno di un sistema di pianificazione degli usi del suolo - e, quindi, nel disegno di una legge che lo istituisce e che lo regola - intervengono tre componenti a cui corrispondono tre tipi di problemi essenziali. Un primo tipo di problemi è di carattere costituzionale, in quanto non c’è strumento urbanistico di sorta che non regoli dei diritti d’uso della proprietà, ed è questo un tema costituzionale. A questo tipo di problemi si associano problemi tecnico-giuridici di due ordini: problemi di pianificazione e problemi di governo. I problemi di pianificazione ci riguardano direttamente come esperti, o presunti esperti, del settore. I problemi di governo ci riguardano perché sono strettamente intrecciati con il sistema di pianificazione - al punto che alcuni modelli di sistema di pianificazione disegnano delle simmetrie, in qualche misura arbitrarie, tra articolazione dei livelli di governo e tipologie di piano. Il problema che ho chiamato costituzionale non riguarda la natura della proprietà del suolo, ma da chi
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e come i diritti d’uso del suolo vengono amministrati e regolati: chi definisce quali siano questi diritti, come questi diritti possano essere utilizzati, come e da chi possano essere variati e attraverso quali strumenti. Uno dei caratteri patologici del sistema di pianificazione attuale è l’inflazione dei piani, e ciascuno di essi - dal piano paesistico appena richiamato, ai piani nuovissimi introdotti nell’ultimo decennio - definisce a suo modo dei diritti d’uso del suolo. Si determina così quello che è stato definito un “doppio regime”, per cui accanto al piano regolatore - che tradizionalmente era l’unico strumento in grado di definire i diritti d’uso del suolo si sono aggiunti altri piani, con una complicazione e talora confusione giuridica e amministrativa preoccupante, che si ripercuote in modo negativo sulla nostra immagine e credibilità professionale e sociale. Il problema è, dunque, chi amministra i diritti d’uso del suolo e come li amministra, ricordando che l’amministrazione dei diritti d’uso del suolo non è indolore, ogni scelta urbanistica produce degli interessi soccombenti. La soluzione non può essere in senso stretto la perequazione - a tutti gli stessi diritti -, un’aspirazione eccessiva, anzi un’astrazione dal momento che stiamo parlando dei diritti legati ad una risorsa scarsa e non riproducibile. Se una vera perequazione non è possibile, è però possibile e, ritengo, moralmente necessario, considerare seriamente l’introduzione di una compensazione degli interessi soccombenti, siano essi individuali o collettivi. Di fronte ad una scelta urbanistica che ha conseguenze negative, non importa se l’interesse soccombente è quello di un cittadino o di un Comune, in entrambi i casi deve essere compensato. Tutto il discorso del documento del regionale fa riferimento al tema della sussidiarietà, soprattutto al tema della sussidiarietà orizzontale rivolta a permettere a ciascuno di esprimere nel quadro della legge la sua individualità e la sua creatività sociale. Nel caso dell’urbanistica è necessario non dimenticare mai che ogni scelta, ogni opzione, comporta un’opportunità di espansione a cui di necessità corrisponde una forzata e spesso maggiore esclusione. Ogni luogo può essere usato una sola volta, e nel momento in cui ne dispongo l’uso, escludo tutti gli altri dallo stesso uso e l’esclusione è ancora più esclusiva, scusate il bisticcio, quanto più un luogo è unico e irripetibile. È una caratteristica dura e, in certi gradi, molto sgradevole dei tipi di opzioni e di scelte a cui è chiamata ogni decisione urbanistica. Il risultato è che la sussidiarietà orizzontale trova un suo limite invalicabile nel fatto che le opzioni disponibili non sono opzionabili da tutti nello stesso modo. Da questo punto di vista ritengo sia una vera illusione pensare che sia lo Stato ad impedire lo sviluppo della sussidiarietà orizzontale e che basterebbe ridurre l’intervento dello Stato, disporre di uno stato minimo, per dare alla società il modo di esprimersi e svilupparsi al massimo delle sue potenzialità. Ci sono molte ragioni per chiedere una riduzione e un contenimento dell’intervento dello Stato come lo abbiamo conosciuto nel secolo che si è appena concluso, ma non dobbiamo illuderci che questo apra le porte ad una illimitata sussidiarietà orizzontale. Soprattutto in urbanistica le opzioni disponibili sono sempre in minor numero e nella maggior parte dei casi sono ormai prodotte da processi di sostituzione e ristrutturazione; se non vogliamo che le opportunità delle opzioni disponibili siano sacrificate da processi di espansione di pochi che diventano l’esclusione di molti, o addirittura da reciproci processi di esclusione, è necessario creare delle suture tra le opzioni, creare un disegno condiviso e solidale che compensi le
scelte, che renda le esclusioni funzionali e accettabili. In breve, è difficile mantenere in vita un processo di sussidiarietà orizzontale se non è accompagnato da un processo di solidarietà che sia di solidarietà istituzionale, che, in altri termini, coinvolga il governo della comunità. Occorre un progetto collettivo che riconduca le opzioni disponibili e che possiamo creare, ad un disegno di insieme, le coordini in uno schema che restituisca un senso collettivo all’esercizio della libertà individuale d’uso del territorio, perché questa è la condizione necessaria perché qualche forma di libertà individuale possa essere esercitata pienamente. Il problema è come giungere a questo risultato. Nessuno sembra disporre oggi di una soluzione soddisfacente per sciogliere la contraddizione tra sussidiarietà e solidarietà istituzionale, ma ciò non ci esime dall’affrontare il problema con le capacità di cui disponiamo, l’importante è non negare che il problema esiste e che un tentativo di soluzione non è ulteriormente rinviabile. Se veniamo ora al tipo di problemi che ho definito tecnici, devo confessare che non capisco la discussione sui princìpi, così come è stata posta. Ho capito le osservazioni di Gianni Beltrame e le risposte che gli sono state date, ma ho trovato la questione dei princìpi, molto astratta. Ciò che non trovo astratto e di cui, al contrario, sento molto il bisogno è disporre di un modello di funzionamento del sistema di pianificazione degli usi del suolo per valutare come operino al suo interno princìpi di sussidiarietà e solidarietà. Con modello intendo una descrizione e qualificazione delle componenti del sistema, ovvero dei soggetti che agiscono sul territorio e le loro interazioni con il processo di piano, nonché il numero, il carattere e i contenuti degli strumenti di pianificazione, la loro reciproca interazione e così via. Da un punto di vista strettamente tecnico urbanistico - e non sociologico, antropologico, economico o altro - le componenti del sistema sono da sempre tre: le strategie, i progetti e le regole. Tutti i nodi di disegno del sistema ruotano intorno a queste tre componenti che erano le componenti di sistema nell’Ottocento, lo sono state nel Novecento, e lo sono ancora oggi. In breve, le strategie sono fondamentalmente programmi politici, visioni, scommesse con il futuro che si traducono in immagini, modelli di organizzazione spaziale; i progetti sono definibili come proposte, individuali o collettive, di trasformazione; le regole sono i vincoli che ci diamo per orientare e definire le nostre azioni di trasformazione. Pertanto le strategie hanno un contenuto soprattutto politico, i progetti soprattutto tecnico, le regole soprattutto tecnico-giuridico. Un modello di sistema di pianificazione dipende da come organizziamo le relazioni delle tre componenti, sia da un punto di vista verticale - tra i diversi livelli di pianificazione -, sia da un punto di vista orizzontale - all’interno dello stesso livello di pianificazione. I problemi costituzionali e tecnici hanno una loro chiara autonomia e separatezza, ciò nonostante all’interno del sistema di pianificazione si associano, si mescolano e interagiscono in modo tale che non è facile separarli analiticamente ed è difficile separarli nelle pratiche. Con questa consapevolezza il modello di sistema che propongo è caratterizzato dal tentativo di non mescolare le tre componenti in un tutto in cui perdano la loro distinta riconoscibilità. Nel modello ad ogni componente corrisponde uno strumento specifico. Ad esempio, protagoniste del Documento di Inquadramento sono le strategie. I progetti, pubblici o privati, non sono compresi nel Documento di Inquadramento. Infine, le regole hanno da un lato il ruolo di garantire i diritti d’uso del suo-
lo esistenti, dall’altro quello di ordinare la trasformazione ordinaria e straordinaria e la conservazione necessaria perché la città viva. Quindi, le regole sono un sistema di garanzia dei sistemi esistenti; ma non sono solo questo, sono il primo termine di riferimento per verificare il valore di una proposta di trasformazione. Se una proposta è approvata, lo è perché non produce (troppi) danni ai diritti esistenti, ed è soprattutto coerente con le strategie di trasformazione. In sintesi, il modello si regge intorno a tre cardini: • le strategie, che traducono spazialmente le nostre visioni, le nostre speranze, i nostri desideri, le nostre scommesse;
Ciò non vuol dire che il governo locale disponga di una sorta di diritto di veto nei confronti dei livelli di governo superiore, ma che tra i diversi livelli di governo intercorra un continuo confronto e conflitto sulle scelte spaziali che trasformano il territorio e che l’esito di questi processi decisionali si traduca in progetti che, una volta concordati, vengano registrati a livello locale, dove si assume che la conoscenza e il controllo territoriale sia maggiore e maggiore la sensibilità per interpretare e tener conto delle reazioni degli abitanti ai progetti di trasformazione. Il modello prevede una sorta di processo continuo, un’interazione circolare tra i livelli di governo alla ricerca di compatibilità e coerenza tra le ri-
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Mantova, piazza Mantegna (foto: Marco Introini).
• le regole, che rappresentano e difendono il presente per trasferirlo nel futuro delle trasformazioni; • i progetti, che introducono le trasformazioni coerenti con le strategie e secondo l’ordinamento delle regole. Nel momento in cui un progetto è approvato, le regole - ovvero i nuovi diritti - che il progetto ha definito entrano a far parte del sistema generale delle regole. Una delle condizioni per il funzionamento di un modello di questo genere è pertanto che esista un solo livello regolamentare. Ad esempio, l’unico livello di governo capace di definire le regole dovrebbe essere il Comune, perché il più “vicino” ai luoghi che i progetti trasformano, mentre Provincia e Regione - e lo stesso governo centrale - interagiscono con il Comune proponendo le loro strategie e i loro progetti, che diventano regole quando vengono incorporati nelle regole comunali. Nel modello proposto i livelli di pianificazione sono tre (più il livello centrale), ma solo uno, quello comunale, ridefinisce e controlla i diritti costituzionali d’uso del suolo.
spettive strategie, e di coerenza dei progetti approvati con le strategie decise e con le regole esistenti. Le strategie per definizioni sono programmi generali che per precisarsi e attuarsi necessitano dei progetti; il disegno dei progetti permette a sua volta di verificare se e come le strategie possano essere attuate o se debbano, almeno in parte, essere modificate. Il modello tende ad una forte semplificazione del sistema. Conferisce alla località il controllo del suo territorio, come costituzionalmente le spetta, e costringe gli altri livelli di governo ad interagire con la località per sviluppare le loro strategie e i loro progetti in un continuo confronto che costruisce un consenso secondo un processo di sussidiarietà verticale, in cui decisivo è il controllo delle risorse finanziarie. Il modello conferisce potere alle località - potere di cui peraltro più confusamente già dispongono - e può risultare pertanto tendenzialmente conservativo, perché le località tendono ad esprimere politiche d’uso del suolo sempre più conservatrici.
L’assegnare un giusto potere alle comunità locali non vuol dire che le comunità lo useranno sempre nel modo giusto, tra potere e giustizia non ci sono rapporti necessari di solidarietà. È possibile che le politiche delle comunità locali siano talora ispirate da un egoismo che all’esterno sembrerà insopportabile; bisogna peraltro tener presente che comportamenti quasi inspiegabili delle comunità locali sono spesso la reazione a comportamenti elusivi, ambigui e insolventi dei livelli di governo superiori. Un esempio, la questione di Malpensa, una vicenda che si è trascinata per oltre vent’anni, tra rimandi, mezze bugie, bugie intere, cinismi, incompetenza e così via, in assenza di un piano completo che da subito, nei limiti del pos-
di suoli liberi nel territorio comunale, di destinarne una quota agli usi di carattere regionale e intercomunale, e di classificare le aree comprese in quella quota secondo le caratteristiche indicate in (b) e di metterle a disposizione delle domande d’uso regionali e intercomunali. I Comuni che non dispongono di aree libere o che non ritengono di poterne mettere a disposizione una quota per gli usi regionali e intercomunali, contribuiscono con risorse finanziarie a costituire un fondo regionale che serve ad indennizzare i Comuni che, avendo messo a disposizione delle aree, se le vedono richieste per ospitarvi usi regionali o intercomunali. Si possono immaginare altre forme, più o meno sofisticate, per giungere alla com-
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Cremona, piazza Sant’Antonio (foto: Marco Introini).
sibile, mettesse in chiaro vantaggi e svantaggi, quali fossero gli interessi soccombenti e perché, e predisponesse adeguate compensazioni reali e simboliche. Si torna così al tema della compensazione, senza affrontare questo tema una svolta nell’amministrazione dell’urbanistica è impossibile, ed è impossibile procedere come si è fatto sinora; non è accettabile, ad esempio, come invece tuttora succede, che un Comune pretenda di esportare i suoi rifiuti oltre i suoi confini senza compensazioni adeguate per il ricevente. Le compensazioni interistituzionali non sono un processo irrealizzabile, ad esempio, potrebbero avvenire secondo una procedura, garantita a livello regionale, in cui i governi provinciali e regionale: • a - indicano quali sono le domande d’uso del suolo regionali e intercomunali per servizi di carattere collettivo o altro (parchi, ospedali, zone ferroviarie, discariche, ecc.); • b - definiscono le caratteristiche essenziali delle aree da destinare a ciascuno degli usi del suolo indicati nel punto precedente (a); • c - chiedono a ciascun Comune, che disponga ancora
pensazione degli interessi collettivi soccombenti, l’importante è che una riforma della legislazione urbanistica non si sottragga a questa necessità, altrimenti la parola sussidiarietà rimane una parola vuota, e alla fine prevarranno la paralisi delle decisioni o le ragioni dei più forti. In un modello in cui il livello comunale è il solo livello in cui si definiscono le regole d’uso del suolo e gli altri livelli sono dei livelli strategici, ci si deve chiedere qual’è il ruolo dei piani settoriali, ad esempio, dei piani paesistici. Nel modello proposto i piani di settore diventano allegati tecnici delle strategie provinciali e regionali o dei documenti di inquadramento comunali. In altre parole, l’autorevolezza dei piani di settore non è più affidata al potere della legge - in quanto allegati di documenti programmatici che hanno valore politico e non posseggono cogenza giuridica - ma alla forza delle argomentazioni, quindi alla bontà dei loro contenuti tecnici, alla forza di convincimento che essi posseggono nei confronti degli altri attori istituzionali e non. Se crediamo alla sussidiarietà e al dialogo, gli argomenti per la soluzione di un conflitto
Stefano Castiglioni I due relatori sono entrati nello spirito di questo convegno che è quello, appunto, di non limitarsi ad illustrare
un testo, ma di esporre considerazioni in termini di approfondimento e nel contempo problematiche. È sicuramente necessario, seppur difficile, affrontare il passaggio all’articolato con un atteggiamento estremamente aperto, attento anche ad aspetti dilatati e non settoriali e non limitati alla premura di ottenere un esito a tempi brevi. Vale la pena sottolineare alcuni punti fermi emersi dagli interventi: la centralità della pianificazione comunale, e come la presenza di tre livelli, lasci ed identifichi sempre quale momento rilevante proprio il Piano regolatore comunale. L’altro aspetto che sottolineo è sicuramente quello del progetto: lo scopo ultimo di un Piano è anche quello di migliorare la qualità dell’habitat, la qualità dell’ambiente. Se si perde di vista questo in un sistema perfetto, forse si è mancato tutto. Mazza ha invece inteso offrire una visione d’assieme, una sistematizzazione di un quadro difficile. In questi anni si è visto che a livello nazionale e anche a livello regionale gli strumenti urbanistici sono proliferati con una gamma estesa di opzioni e di alternative, cui un’amministrazione attinge sulla base di esigenze tattiche e di valutazioni soggettive. Valga in proposito l’esempio della L.R. 23/97, nata con ottimi intenti, ma poi ripiegata a ruolo di legge deroga; spesso usata per situazioni di compromesso, oppure per aggiustamenti di ridotta portata, e che ha tra l’altro ha consentito di rimandare sine die revisioni di P.R.G. di più ampio respiro. Pure da approfondire e normare resta l’ambito delle aree metropolitane, previste prima dalla legge 142/90, poi dalla 267/2000 per le quali - al presentarsi di difficoltà di comprensione ma anche di interessi divergenti - si determinava uno stato di stallo dato che il meccanismo stesso di gestione, insito in questi strumenti, è tale che, senza il completo consenso, non resta che fermarsi e sospendere ogni atto gestionale. Pensare che le regole del territorio siano attivate con la concertazione, il consenso, la disponibilità, l’adesione alla sussidiarietà è estremamente difficile. Il rischio è che il vero strumento di controllo diventi la magistratura amministrativa. Il rischio della sussidiarietà è che i Comuni minori effettuino scelte senza una visione ampia, di relazione, territoriale. I confini comunali infatti non sono confini reali: sorti in maniera molto casuale, molto spesso inglobano delle realtà complesse debordanti in altre municipalità. Quindi, non appare affatto semplice il problema di come attuare questo coordinamento, questo controllo, tra Piani regolatori di Comuni confinanti e tra ambiti di Province contermini. Angelo Bugatti Un altro argomento del livello provinciale e dei livelli sovraordinati è questo rapporto con alcune porzioni del territorio, per esempio con i parchi. A mio parere i parchi come enti territoriali non devono più esistere, ma devono essere compresi nel piano generale della provincia. Il livello provinciale effettivamente è un argomento molto delicato e ci saranno altre occasioni per ragionare sul rapporto con i progetti a livello locale. La legge 23/97 è destinata a scomparire: stiamo cercando di fare un testo unico, una regolamentazione generale di tutto quanto riguarda l’urbanistica e il territorio per cui la 23 sarà abrogata. L’area metropolitana è un problema che esiste, ma non è stato ancora affrontato con compiutezza perché il livello che esiste oggi, cui noi facciamo riferimento, è la Provincia. Tuttavia, devo dire che nel documento - forse non emerge - ci sono i piani di area. Questi rapporti fra piani d’area e livello regionale, vanno comunque ancora definiti.
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non sono solo le possibili compensazioni finanziarie, ma anche le buone ragioni che si è in grado di portare a sostegno di una politica controversa. Si tratta di convincere l’attore istituzionale, coinvolto da una decisione, e i suoi elettori che la decisione persegue un interesse generale e che pertanto va sostenuta compensando adeguatamente le conseguenze negative che essa potrà comportare per alcuni interessi, individuali e collettivi. Solo scegliendo il livello locale come unico livello regolativo, è possibile ripulire il campo dalle stratificazioni e dalle incongruenze normative e affidare al confronto e al dialogo politico il compito di sciogliere i nodi che rendono difficile il processo decisionale, purché sia disponibile un disegno generale condiviso in cui le località possano cogliere il senso delle decisioni che le coinvolgono, vedere riconosciuto il merito delle scelte che compiono o accettano, e compensati gli eventuali costi. Non è un’ipotesi astratta, passando ad un campo diverso dal nostro, si è visto, ad esempio, in occasione dell’adesione all’Europa, pochi, soprattutto tra gli esperti, avrebbero scommesso sulla nostra capacità di farcela; il merito di Ciampi e Prodi fu non solo di crederci, ma di convincerci a credere con loro e a pagare il prezzo necessario pur di non mancare l’obiettivo. Le comunità locali sono egoiste quando non vedono una proposta politica generale per cui valga la pena di rischiare e di pagare un prezzo, un traguardo che giustifichi mobilitazione e sacrifici. In un sistema di pianificazione semplificato, se una proposta politica è chiara e convincente, è più facile che possa essere comunicata e percepita, e possibilmente sostenuta. La proposta, in conclusione, è che a livello regionale qualunque documento di pianificazione abbia valore politico, e anche i documenti tecnici non abbiano cogenza giuridica. I piani regionali e provinciali, generali e di settore, devono tradursi in regole solo al livello comunale, quando il processo circolare di interazione tra i livelli di governo ha raggiunto un accordo soddisfacente. Con il processo di decentramento le Province acquistano un nuovo ruolo urbanistico; una volta erano solo l’anello di una catena gerarchica formale che non intaccava sostanzialmente l’autonomia e il potere dei Comuni anche piccoli. Devoluzione e sussidiarietà avvicinano le responsabilità di governo alla base e le responsabilità sono prese più sul serio, le Province incominciano ad esercitare il loro ruolo nei confronti dei piani locali, il problema è come lo esercitano. È importante che non si mettano a disegnare i loro piani come se fossero grandi piani regolatori per pretendere che i Comuni si adeguino ai loro disegni; i Comuni, al contrario hanno bisogno di quadri di riferimento che li aiutino a vedere e comprendere oltre i loro confini comunali per meglio decidere all’interno del loro territorio. Semplificare il sistema vuol dire assegnare alle Province un ruolo di coordinamento e di articolazione del processo di pianificazione comunale in tavoli intercomunali. Sentendo il discorso dell’assessore Verga, non mi pare che una semplificazione del sistema sia in contraddizione con le proposte del documento regionale. Se leggo il documento scritto ho qualche difficoltà. Anche ascoltando Bugatti trovo argomenti che è facile condividere, ma che nel documento scritto non appaiono. Può darsi che sia soprattutto un problema lessicale, che basti precisare meglio concetti e termini da parte di noi tutti, in ogni caso sarebbe utile, secondo l’auspicio di Beltrame, di avere più occasioni di confronto per capire meglio quali siano i punti d’accordo, e quali eventualmente quelli di dissenso.
Terzo modulo Il Piano dei Servizi - Gli Standard
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Coordinatore: architetto Marco Engel Relatori: • Arch. Giulia Rota, dirigente presso la Direzione Territorio e Urbanistica della Regione Lombardia • Prof. Enrico Maria Tacchi, docente presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università Cattolica di Milano Le domande che sono state proposte ai relatori sono: • Quale sarà il ruolo del Piano dei Servizi nella nuova legge urbanistica regionale: occuperà la posizione centrale attribuitagli dalla legislazione vigente o sarà riportato al livello di altri piani di settore?
• Il Piano dei Servizi avrà solo valore di strumento di pianificazione o potrà avere valore di programma degli investimenti che l’Amministrazione intende realizzare nei servizi pubblici? • La costruzione e la gestione del Piano dei Servizi pongono nuovi problemi di coordinamento sia orizzontalmente, con altri piani di settore, sia verticalmente, con la pianificazione dei servizi di livello sovracomunale. Di quali strumenti nuovi sarà necessario dotarsi per evitare contraddizioni e sovrapposizioni? • A quali nuovi bisogni sociali oggi devono rispondere i servizi pubblici e quali nuove unità di misura bisognerà inventare per valutarne l’adeguatezza e l’efficacia?
Il Piano dei servizi nella pianificazione urbanistica comunale Il ruolo occupato dal Piano dei Servizi nel testo delle Linee Guida appare meno rilevante di quanto ci si sarebbe potuti aspettare dalla lettura delle ultime disposizioni legislative ed in particolare dalla LR 1/2001, Questa legge infatti attribuisce al Piano dei Servizi un ruolo di assoluto rilievo, anche se la determinazione dei contenuti di questo nuovo strumento di piano è demandata a successive più specifiche disposizioni a fronte delle quali potrebbe apparire più chiara la sua futura collocazione nella nuova legge urbanistica. Da tale considerazione discendono alcuni quesiti, che rappresentano altrettanti temi di discussione: • Centralità del piano dei Servizi nell’elaborazione dello strumento urbanistico comunale Si tratta di chiarire se il Piano dei Servizi, essendo un contenuto obbligatorio del P.R.G., debba, oppure semplicemente possa, rappresentare l’ossatura attorno alla quale organizzare le scelte di piano, operando al contempo come parametro di valutazione delle scelte localizzative e come programma di intervento relativo ai settori direttamente posti in capo all’Amministrazione Comunale. • Variabilità del piano dei Servizi Nella prospettiva sopra delineata il Piano dei Servizi costituisce sì l’ossatura portante di gran parte delle scelte di Piano, ma in qualità di strumento di programmazione dell’intervento pubblico - o anche dell’intervento privato in settori di interesse pubblico - deve essere facilmente modificabile in relazione al mutare della percezione dei bisogni e della valutazione della disponibilità delle risorse. Come sono conciliabili queste esigenze apparentemente contrapposte e quali effetti può avere la soluzione di questa contraddizione sulla costruzione del P.R.G.? • Rapporto fra il Piano dei Servizi ed altri strumenti di pianificazione di settore Il Piano dei Servizi arriverà inevitabilmente ad occuparsi di settori fin qui rimasti ai margini della pianificazione urbanistica, quali l’assistenza, le attività culturali, ecc. L’estensione del campo dei contenuti della pianificazione complica i problemi di coordinamento intersettoriale - o meglio interdisciplinare - che già attualmente rappresentano uno dei nodi cruciali della costruzione dei nuovi strumenti urbanistici comunali. Quali nuovi strumenti di coordinamento si possono individuare e quale ruolo sarà assegnato al Piano dei Servizi nella gerarchia dei contenuti del P.R.G.? • Lo “standard” urbanistico Forse lo stesso termine di “standard”, cioè il parametro quantitativo di misurazione del livello di accettabilità/qualità della organizzazione urbana, risulta obsoleto a fronte delle ultime innovazioni legislative ed in particolare dell’introduzione del Piano dei Servizi. È lecito domandarsi se uno strumento di misura sia ancora desiderabile e possibile oppure con quale altro strumento di altrettanto semplice applicazione questa forma di misurazione possa essere sostituita?
l’armatura urbana, che potrebbe costituire una delle invarianti del P.R.G. comunale, più volte richiamate nel testo delle Linee Guida. A margine del quesito proposto andrebbe sviluppata un’ulteriore riflessione riguardo alla scala comunale del Piano dei Servizi. Vi sarebbe da osservare che questa comporta un atteggiamento parziale nei confronti del tema: gran parte del tema dei servizi pubblici, o privati di interesse pubblico, hanno natura, dimensioni ed utenza di riferimento che non possono essere contenuti all’interno del ristretto ambito dei confini comunali, forse con la sola eccezione del Comune di Milano. Il secondo quesito che riguarda il Piano dei Servizi richiama alla memoria uno strumento della programmazione urbanistica che appare ormai dimenticato: il Programma Pluriennale di Attuazione e insieme il tema della flessibilità di tale programmazione: condizione indispensabile ad assecondare le alterne fortune delle risorse economiche delle amministrazioni locali. Una condizione di flessibilità che deve consentire adattamenti frequenti, proprio come accadeva con l’aggiornamento del Programma Pluriennale di Attuazione in corrispondenza della deliberazione del bilancio comunale. Anche se è innegabile che il P.P.A. è stato utilizzato in passato assai più come strumento di definitivo consolidamento delle scelte di Piano che come strumento di reale programmazione dello sviluppo urbano, e quindi del sistema delle attrezzature pubbliche, nondimeno l’esigenza di tale programmazione si deve considerare superata o irrilevante. La prassi adottata dalle amministrazioni locali dalla seconda metà degli anni ‘80 ha ridotto al ruolo di puro accessorio formale uno strumento che avrebbe dovuto invece rappresentare, nelle intenzioni del legislatore, la sede naturale del bilancio delle scelte di piano: il momento della dimostrazione della compatibilità economica delle intenzioni di intervento sulla città dell’amministrazione e la verifica della coerenza dell’investimento pubblico con le risorse generate dallo stesso processo di crescita della città innescato dal P.R.G. La programmazione appare come uno dei contenuti essenziali del Piano dei Servizi se questo è inteso anche come strumento operativo nel quale si rappresenta una parte consistente del programma di governo di una amministrazione comunale. Chiarezza delle scelte di programma e necessaria flessibilità operativa appaiono come due termini per nulla antitetici dell’applicazione del Piano dei Servizi, la cui antinomia attende ancora una soluzione adeguata nella normativa regionale. Molti dei servizi pubblici, di competenza dell’amministrazione pubblica, sono oggetto di pianificazioni specifiche, per esempio il sistema sanitario, quello scolastico e in determinati casi anche il sistema delle aree verdi. Vi possono essere poi attrezzature o servizi di uso e interesse pubblico realizzati da operatori privati; anzi, tale opportunità viene esplicitamente favorita
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Marco Engel Il terzo modulo si occupa del Piano dei Servizi, un argomento di grande importanza che non appare citato nel testo delle Linee Guida forse perché essendo contemplato dalla legislazione vigente non si è ritenuto necessario richiamarne il valore e i contenuti già sufficientemente evidenti. Si tratterebbe, in questo caso, di un atteggiamento insieme coerente e inadeguato. Coerente perché il Piano dei servizi è un’acquisizione recente della legislazione regionale lombarda. Infatti, la legge che lo prevede come documento obbligatorio del P.R.G. comunale porta la data di questo stesso anno, 2001. Si tratta quindi di uno strumento la cui definizione appare, nel tempo, molto vicina nonostante sia presente nel dibattito urbanistico da alcuni decenni. Ripercorrendo il dibattito suscitato nel ‘75 attorno alla legge urbanistica regionale già si trovano ampie tracce del problema della pianificazione e della programmazione dei servizi pubblici. Del resto lo stesso piano dei servizi era a quel tempo uno strumento abbastanza frequentemente utilizzato dalle amministrazioni pubbliche. Lo stesso Comune di Milano aveva prodotto un suo piano dei servizi prima di arrivare alla redazione del P.R.G. del ’76. Ma non era stato l’unico. Molti Comuni della Lombardia hanno fatto ricorso a questo strumento principalmente per due motivi: da un lato l’esigenza di una programmazione ragionata dell’intervento pubblico in un momento ancora di grande carenza delle attrezzature urbane e di grande urgenza della risposta ai fabbisogni pregressi di servizi pubblici come di abitazioni; dall’altra la necessità di produrre in tempi brevi, più brevi di quelli che sarebbero stati necessari alla redazione del P.R.G. Si trattava quindi di un’anticipazione strumentale del P.R.G. volta a vincolare le aree necessarie a soddisfare quei fabbisogni, rinviandone la più attenta valutazione alla redazione del progetto generale di organizzazione della città, il P.R.G. appunto. A distanza di 25 anni si torna sulla questione del Piano dei Servizi, al quale viene ora attribuito un valore formale, di contenuto essenziale del P.R.G.; ciò nonostante non è richiamato all’interno del testo delle Linee Guida. La prima domanda che nasce spontaneamente da tale omissione è se sia nel frattempo intervenuta una diversa valutazione del ruolo e del valore del Piano dei Servizi rispetto a quella che sembrerebbe sottendere il testo della legge 1/2001. In altri termini, si tratta di confermare se il Piano dei Servizi debba occupare una posizione centrale nella redazione dei nuovi strumenti urbanistici comunali oppure se debba essere considerato alla stregua dei molti piani di settore che affollano attualmente il campo della pianificazione. Si tratta in definitiva di dichiararne la portata e la collocazione gerarchica in relazione agli altri temi della pianificazione ed in particolare in relazione agli obiettivi di costruzione del-
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dalle più recenti disposizioni legislative nazionali e regionali. Quindi, anche per il Piano dei Servizi, così come per la pianificazione generale, si pone un problema di coordinamento e di coerenze fra intenzioni, settori, e interessi, anche di natura economica, diversi e potenzialmente contraddittori. Si pone, inoltre, un problema evidente di coordinamento fra scale decisionali differenti, poiché i servizi da pianificare sono solamente in piccola parte posti in capo all’amministrazione comunale. Infatti gran parte del sistema dei servizi continuerà ad essere oggetto di piani e programmi di livello provinciale se non addirittura regionale, ciò che appare del tutto naturale se si considerano le dimensioni medie dei comuni della Lombardia. È quindi necessario individuare strumenti di governo di questa complessità, in grado sia di evitare conflitti e sprechi sia di controllare le ricadute territoriali delle scelte operate attraverso la pianificazione dei servizi pubbli-
ci: ricadute che saranno invece, queste sì, di diretta competenza delle amministrazioni comunali. Da ultimo è inevitabile affrontare una questione che appare centrale trattando del Piano dei Servizi, anche se non è necessariamente quella di maggior rilievo: la questione degli “standards” urbanistici, una questione che da sola meriterebbe una giornata di discussione e della quale vale la pena di affrontare almeno il nodo centrale. Questa brutta parola inglese, “standard”, è ormai così tenacemente radicata nel linguaggio degli urbanisti da impedirci di inventarne una migliore e soprattutto maggiormente idonea a rappresentare una situazione radicalmente mutata rispetto a quella alla quale eravamo abituati solamente fino pochi anni fa. Infatti la parola “standard” dovrebbe identificare una misura fissa di riferimento mentre oggi sappiamo che tale misura può variare anche significativamente in relazione
Brescia, via San Faustino (foto: Marco Introini).
Enrico Maria Tacchi Il primo quesito riguarda la cosiddetta “centralità” del Piano dei Servizi. Si tratta di un quesito che certamente non si propone oggi per la prima volta. Ci si è domandati infatti già in passato quanto fosse centrale il P.R.G., domanda che mi pare valida perché, se facciamo nostra una logica di tipo sistemico, è chiaro allora che i sistemi vengono volta a volta definiti a seconda del punto di vista e dell’interesse dell’osservatore: la complessità dei problemi che devono essere affrontati può essere in qualche modo ridefinita a seconda degli attori e dello spazio che essi riescono a ritagliarsi in una dinamica di relazione. In questa logica, si può provocatoriamente affermare che l’interesse per la “centralità” del P.R.G. o per quella del Piano dei Servizi in quanto tale può essere meno che nulla. Ciò che dobbiamo cercare di capire è come diversi livelli, diversi settori di programmazione e di pianificazione, possano interagire. Se in una logica di sistema tutto è centrale e al tempo stesso tutto è periferico, il problema è trovare delle forme di armonizzazione non solo fra gli strumenti della pianificazione urbanistica ma anche con altri strumenti di pianificazione elaborati in altra sede, in primo luogo con gli strumenti di programmazione economica. Quando ci si domanda se il Piano dei Servizi avrà solo valore di strumento di pianificazione o potrà avere anche valore di programma degli investimenti, io immagino una netta contrapposizione di idee: tra chi sostiene che l’urbanistica debba avere una sua autonomia concreta, e chi, partendo da un punto di vista più economico-amministrativo, afferma invece che la pia-
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a una molteplicità di fattori sia interni, relativi alla natura e alla qualità del servizio, sia esterni, relativi alla struttura urbana di riferimento. Inoltre, fra le attrezzature pubbliche o di interesse pubblico è oggi possibile contemplare un ampio ventaglio di funzioni sia pubbliche che private e una grande varietà di situazioni che, pur rientrando in generale nel campo dei servizi ai cittadini, in passato non avrebbero trovato una collocazione appropriata (attrezzature sportive di uso pubblico, attrezzature inerenti la sanità, la sicurezza, l’istruzione, ecc.). Il nodo della questione dello “standard” scaturisce dalla sua stessa definizione: come si verificherà in futuro la congruità reale della dotazione di servizi ed attrezzature pubbliche avendo rinunciato a limitarsi alla sua verifica formale, semplicemente praticata attraverso la formula del conteggio delle aree vincolate? Di quale nuovo strumento di misura potremo dotarci, che sia altrettanto facile da usarsi sia nella redazione dei piani urbanistici che nella loro verifica? In ultimo il Piano dei Servizi porta alla luce una questione sulla quale da tempo fra i professionisti del settore si discute, quella delle competenze disciplinari e della crescente varietà delle competenze che è necessario far intervenire nella costruzione del Piano. Il Piano dei Servizi è, infatti, un’altra delle materie per affrontare le quali le competenze dell’architetto appaiono insufficienti se non addirittura marginali. Se da una parte il Piano dei Servizi avrà un indiscutibile contenuto progettuale, di progetto della città, dei suoi servizi e dei suoi spazi, è altrettanto evidente che la valutazione dei comportamenti sociali, delle aspettative e, in definitiva, dei bisogni reali dei cittadini può essere solo in parte affidata alla figura dell’architetto urbanista e richiede la partecipazione di altre culture: la sociologica, la giuridica, l’economica, la gestionale ed anche la politica.
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nificazione territoriale non possa estendere oltre misura la propria competenza, ma dovrà piuttosto tenere conto delle opportunità e dei vincoli economici, come per esempio quelli finanziari di bilancio. Credo che l’esperienza dia ragione al mio assunto un po’ provocatorio, nel senso che dal punto di vista della resa dei servizi, dal punto di vista delle realizzazioni è importante soprattutto che le cose vengano fatte e vengano fatte bene. In questo campo, con ogni probabilità, oltre alla competenza del ricercatore sociale è utile la competenza del giurista, che riesce a congegnare gli strumenti attuativi in grado di raggiungere gli obiettivi prefissati. In questo modo credo che il ruolo del Piano dei Servizi, rispetto ad altri strumenti di pianificazione, possa essere collocato prevalentemente all’interno degli strumenti di pianificazione strettamente urbanistica, tra i quali possiamo leggere quasi un gioco di reciproca erosione, al punto che un ipotetico sostenitore del Piano dei Servizi potrebbe immedesimarsi nel ruolo fino a farlo diventare quello che tradizionalmente si chiamava P.R.G. Dal momento che i servizi sono così importanti da far sì che la società di oggi sia chiamata società dei servizi (anche se, con ogni probabilità, si allude a qualche cosa di più ampio rispetto ai servizi di cui stiamo trattando), potrebbe anche apparire giustificata questa possibilità di prevalenza del Piano dei Servizi. Altri, invece, potrebbero sostenere che il Piano dei Servizi debba rimanere strumento esclusivo di regolazione di interventi specifici, che possono essere previsti accanto ad altri interventi, propri di altri strumenti di regolazione, perché ci sarà sempre uno strumento sovraordinato (in particolare il P.R.G.) che avrà la funzione di mettere insieme i vari pezzi come in un mosaico ben combinato, fino a raggiungere una loro coerente integrazione. Un ragionamento sul Piano dei Servizi può essere ulteriormente sviluppato considerando poi il rapporto fra pianificazione di livello locale e sovracomunale. Il Piano dei Servizi tende a considerare solo alcuni tipi di servizi (soprattutto se vengono poi tradotti in standard attraverso parametri) che, si potrebbe dire, sono un po’ come l’aspirina, nel senso che non fanno male a nessuno. A chi fa male un po’ di verde? A chi fa male un po’ di parcheggi? O le scuole primarie? Sono servizi che vanno bene dovunque. D’altra parte, la legislazione ha preso atto di queste cose: se osservate la normativa vi rendete conto che alcune cose non sono previste per i Comuni di dimensione inferiore ai 3000 abitanti; altre, invece, devono essere previste per i Comuni superiori ai 20.000 abitanti; quindi, vi è una scala di disposizioni che dovrebbero andare bene in tutti i casi. Quello che però non si riesce bene a mettere a fuoco e a coordinare è la gestione di queste diverse realtà, che richiederebbero ognuna una sua perimetrazione, un ambito territoriale particolare, che tenga conto dei poteri amministrativi concreti distribuiti sul territorio, ovvero delle sedi reali di decisione. A questo punto, suggerisco di usare una parola che non so se sia particolarmente felice, ma che spero sia quanto meno suggestiva: “distrettualizzazione”. Uso questo termine perché il “distretto” non è, a rigore, un ente amministrativo tipicamente italiano, mentre in altri Paesi esistono i distretti con compiti amministrativi. Eppure, tutti noi abbiamo sentito parlare di “distretti”: dai distretti telefonici, al distretto di polizia, ai distretti scolastici, ai distretti sanitari. Questo termine generico, certamente sostituibile con un sinonimo, sta insomma ad indicare che sarebbe utile individuare dei livelli di pianificazione sufficientemente grandi, e ad un tempo
sufficientemente piccoli, tali da poter garantire maggiore spessore e maggiore pregnanza alla determinazione dei servizi necessari. Ancora, qualche osservazione a proposito degli standard. Nella prassi mi sembra che la pianificazione dei servizi spesso venga identificata tout-court con un sistema di standards. Già questo assunto appare discutibile ma, se vogliamo accettarlo, dobbiamo riconoscere che ricorre periodicamente l’idea di intendere queste misure non solo in quanto puramente quantitative ma anche, almeno in parte, qualitative. Bisogna ancora una volta osservare che la controversia fra parametri quantitativi e qualitativi può apparire oziosa perché le quantità, almeno nell’applicazione pratica, si riferiscono sempre a qualche cosa d’altro. La quantificazione non è applicata al vuoto: nel caso specifico è applicata a realtà espresse in metri quadrati, che riguardano il verde, i parcheggi, le attrezzature sportive, le scuole, ecc. Ma tutte queste sono qualità, tanto è vero che non appare possibile, se non con l’artificio della misurazione in metri quadri, ricondurre le une alle altre. Non posso sostenere che una città ben dotata di un certo tipo di servizio, magari in misura superiore allo stretto fabbisogno, possa fare a meno di altri. Ecco un primo motivo per sostenere che la qualità è in qualche modo implicita nella visione di standard che abbiamo oggi. La seconda questione, invece, è essenzialmente metodologica: come viene valutata la qualità? Mi viene in mente un saggio di un urbanista e sociologo milanese, Roberto Guiducci, intitolato: Le quantità della qualità della vita. Al di là dei contenuti del saggio, credo sia indicativo come anche un ragionamento per sua natura qualitativo, come la qualità della vita, possa essere meglio circoscritto se vengono individuati dei parametri, degli indicatori che in questo caso, se ci piace, possiamo chiamare standard. È per questi motivi che, in qualche modo, è giusto difendere lo standard come misura quantitativa, proprio perché permette di agire con maggiore precisione e di rendersi conto meglio dei fenomeni. C’è, invece, un’altra caratteristica dello standard che, forse, andrebbe controllata meglio. Non è detto che questa misura quantitativa, questo parametro, debba necessariamente coincidere con una prescrizione. Fissare un valore di soglia non corrisponde esattamente al fissare una normativa. In alcuni casi, per esempio in campo ambientale, questa coincidenza appare talmente logica da essere quasi doverosa. Le soglie di attenzione o di allarme per l’inquinamento atmosferico sono giustamente identificate con valori che non dovrebbero essere superati, perché rappresentano un pericolo. In altri casi invece la misura deve essere filtrata attraverso una valutazione positiva o negativa, tanto da prestarsi a considerazioni contrastanti che invitano a comportamenti opposti, come suggerisce ancora un esempio in campo ambientale: il numero delle automobili per abitante, che in Lombardia può avvicinarsi al rapporto di uno a uno. Sotto il profilo ecologico, questo indice viene utilizzato come un indicatore di pressione sull’ambiente, quindi va tenuto sotto controllo e possibilmente ridotto. Da qui discendono tante questioni pratiche delle quali si discute in questi giorni: ad esempio, a Milano si entra in automobile o no? Sotto il profilo economico al contrario, soprattutto nelle statistiche internazionali, il medesimo indice di diffusione dell’automobile viene utilizzato come un indicatore di sviluppo: tendenzialmente, tanto più cresce meglio è. Allora, il nodo del problema mi sembra essere questo: calcoliamo bene quante sono le automo-
tra parte, perché escludere che anche da un uso accorto della leva economica possa derivare un contributo per trovare qualche soluzione? Giulia Rota Alla domanda sul perché non si trovi parola del Piano dei Servizi all’interno delle Linee Guida, la risposta è molto semplice: in effetti questo è già contenuto nella legge 1/2001, una legge estremamente recente, una legge che contiene grandi novità, fra queste appunto il Piano dei Servizi. La Regione si è impegnata a scrivere i criteri per la redazione del Piano dei Servizi ed è già in ritardo rispetto ai tempi fissati; si è quindi dato per scontato che la Regione si esprimesse sul Piano dei Servizi attraverso questo documento. Indubbiamente, all’interno di questa nuova legge ci sono alcune indicazioni che hanno creato qualche problema. Ve ne cito ad esempio uno, la conferma dello “standard” di 26,5 mq/abitante cui siamo abituati, pur cambiando le modalità di computo, e la prescrizione che la metà di tale superficie debba essere destinata a verde. Chiaramente si tratta di una legge vista dal centro della Lombardia, dal cuore dell’area metropolitana. Evidentemente, quando la si cala in un Comune montano chiedere che il 50% del suo “standard” sia destinato a verde pone qualche problema. Quindi, nei criteri, abbiamo dovuto trovare anche delle modalità per aggiustare il tiro, pur rimanendo all’interno della legge. A questo punto preferirei partire dalla domanda se sia ancora valido lo standard urbanistico come parametro di misurazione del livello di qualità urbana o se sia, invece, da considerare obsoleto. Negli ultimi anni si è evidenziato che uno “standard”, inteso come parametro di valutazione quantitativa senza una valutazione qualitativa del servizio offerto e senza affrontare la problematica dell’attuazione, ha comportato un decadimento della qualità dei Piani, soprattutto negli ultimi tempi e soprattutto in rapporto al sistema di calcolo della capacità insediativa che non era più rapportata ai reali modelli insediativi. Nel tentare di dare una veste giuridicamente corretta al Piano - vincolando le aree che assolvevano lo standard rapportato a questa capacità insediativa distorta - sono state bloccate aree che non sono state mai scelte secondo una reale esigenza di Piano anche perché era irrealistico pensare che potessero essere effettivamente acquisite e destinate alle attrezzature pubbliche. Questo è stato un motivo di dequalificazione del progetto di piano. D’altronde la società si è evoluta negli ultimi anni diversificandosi fortemente: oggi abbiamo numerosissimi nuclei familiari ma con caratteristiche ed esigenze diversissime rispetto al momento in cui lo standard è nato. Quello era un periodo in cui l’Italia aveva un modello familiare consolidato ed esigenze abbastanza generalizzabili. Oggi questo tipo di risposta ai bisogni sociali non è più possibile perché si rivolge ad un’utenza che ha mille modi di valutare la qualità della vita e le sue specifiche esigenze. Oggi cambia completamente l’ottica generale: il problema è passare da uno standard inteso come minimo vitale, quale ha avuto senso negli anni della ricostruzione, e come strumento per salvaguardare aree da destinare ai servizi sottraendole all’edificazione, a uno standard visto come obiettivo differenziato per particolari segmenti sociali. Mi sembra si tratti di una questione molto importante su cui riflettere perché utile a capire come rapportarsi al Piano dei Servizi. Lo standard, nel momento in cui conquista il significato di obiettivo, non è più un elemento neutro ma diventa oggetto di dis-
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bili e quanti gli abitanti, ma il risultato del calcolo, l’indicazione numerica, non è deve necessariamente essere interpretato allo stesso modo quando si passi alle disposizioni normative. Ovviamente il ragionamento ha valore relativo, contiene una forzatura che può indurre al paradosso, se troppo si asseconda la tendenza ad applicare la misurazione alle qualità. Come molti avranno immaginato, il principale strumento unificatore da discutere è il denaro, con una chiara allusione in urbanistica alle procedure di monetizzazione, compensazione e quant’altro. La nascita della moneta si giustifica storicamente proprio come un meccanismo di semplificazione non solo contabile ma anche di ragione di scambio. Nessuna quantità di pane potrà mai sostituire realmente il latte e viceversa, ma un chilo di pane può costare all’incirca quanto due litri di latte. Il valore monetario della transazione fa perdere, dunque, il carattere qualitativo: quando dico tot euro, non capisco più se sono riferiti al pane o al latte. Attenzione, questo passaggio non è, per così dire, innocente: e non solo sotto il profilo filosofico, per cui vi sono valori così importanti che non hanno prezzo, ma anche sotto il profilo pratico. Pensiamo, per esempio, ai consumi energetici. C’è un principio, internazionalmente sancito assieme a quello della sostenibilità ambientale, che recita: “Chi inquina paga”. Si deve allora ritenere che chi paga possa inquinare? In conclusione, che cosa ci si può attendere da una legge riepilogativa di tutti questi fattori di complessità? Facciamo riferimento ai nuovi bisogni sociali. Se chiamate un ricercatore sociale, vi dirà che le parole d’ordine oggi maggiormente smerciabili sono quelle della globalizzazione, della virtualizzazione. Tempi duri per chi cerca di far insistere ogni realtà su di uno specifico territorio, perché certe cose perdono di pregnanza territoriale. Pensiamo alle nostre città, a come si sono trasformate. Noi possiamo vedere edifici che erano stati progettati, all’origine, come edifici per abitazione ed oggi sono occupati da uffici. La stessa legge regionale che introduce il Piano dei Servizi tratta di questi cambiamenti di destinazione d’uso, ma tale attenzione viene in qualche modo a manifestare il fatto che si assiste ad una certa “deterritorializzazione” o “delocalizzazione”. Dobbiamo allora ritenere che il radicamento territoriale non sia più importante, oppure lo sia meno di prima? Non è questa la mia sensazione. Sono anzi convinto che il territorio abbia tuttora un’importanza enorme, soprattutto quando si passa dalla dimensione fisica dello spazio a quella più sociale del luogo, cioè dell’ambiente vissuto, in cui la comunità sviluppa i suoi riti, le sue attività produttive, le sue relazioni. L’antropologo Marc Augé a questo proposito ha coniato un neologismo, i non-luoghi, intendendo con ciò gli spazi fisici che non hanno la capacità di costituire un legame simbolico con le comunità che li praticano. Sono convinto che l’importanza dei luoghi riconduca il discorso al territorio per una strada un po’ diversa rispetto a quella dei parametri; forse consentendo anche al denaro, che prima abbiamo discusso criticamente, di tornare di aiuto nella valorizzazione degli spazi perché diventino luoghi. Ricordo la vecchia normativa che prevedeva, nel caso di costruzione di opere pubbliche, l’obbligo di destinare una certa percentuale della spesa ad abbellimenti. Ecco un caso in cui un dato qualitativo, un dato essenzialmente estetico si ripropone attraverso quella che abbiamo definito come la quintessenza della perdita di qualità: il denaro. Sarà questa l’unica unità di misura? Io non lo spero, anzi credo che sia molto pericoloso, per i rischi che abbiamo osservato quando si traduce tutto in euro. D’al-
cussione, entra nell’ambito della scelta politica e del contratto tra una comunità locale e la propria amministrazione. In questo modo cambia completamente la modalità con la quale deve essere affrontato il problema. Questo atteggiamento si può riscontrare in molte parti della recente legislazione. Nel momento in cui viene stipulato un patto, vuol dire che questo deve precorrere le scelte sul territorio, cioè si deve prima discutere il disegno strategico e passare quindi alle scelte di pianificazione. Tanto nella legge 1/2000 che nella legge 1/2001 è prevista una consultazione prima del Piano il cui significato è proprio esporre preventivamente lo schema strategico e su questo aprire il con-
soprattutto nelle realtà urbane, una quota della popolazione si serve della scuola privata parificata. Quindi, praticamente, non grava sul fabbisogno. La legge parla specificamente di servizio pubblico di interesse generale; quindi non più di standard, ma di servizio reale. Servizio a questo punto è una nozione molto generale, che potrà comprendere funzioni gestite in parte dalla mano pubblica e in parte dal privato: in ogni caso dovremo riconoscere che non necessariamente laddove c’è servizio c’è standard. Si tratta di lasciare a un’Amministrazione la libertà di decidere che cos’è standard e che cosa no: ciò permette di essere più dinamici nello sviluppo del Piano.
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Sondrio, via Trento (foto: Marco Introini).
fronto ai vari livelli, con le varie rappresentanze dei cittadini arrivando a definire uno schema di Piano in cui ovviamente ci siano alcune opzioni strategiche, quelle di disegno generale, e una serie di indicazioni che si possano aggiustare nel tempo. Questo cambia completamente l’impostazione del Piano: non è che non abbia più senso fissare dei parametri per i servizi, quello che cambia completamente nella legge è la distinzione delle quantità dei servizi. Le precedenti legislazioni determinavano quantità differenti per i diversi tipi di servizi: 4,5 mq per l’istruzione, 15 mq per il verde, 3 mq per i parcheggi, e così via. La nuova legge mantiene la metà degli standard a verde ma, facendo saltare il meccanismo della ripartizione, impone ai singoli Comuni di valutare, attraverso un’analisi locale, a quali servizi debbano assolvere, sia perché in parte, probabilmente, li hanno già, sia perché alcuni servizi possono essere, allo stato attuale, offerti dai privati. Tipico è l’esempio della scuola. Lo standard precedente imponeva comunque la verifica di uno standard scolastico, quando sappiamo benissimo che,
Ci siamo chiesti se anche la stessa rete di viabilità, e una serie di servizi tecnologici possano essere considerati standard a tutti gli effetti. La risposta, almeno per il momento, è che le tradizionali urbanizzazioni primarie sono in un certo senso connaturate all’insediamento. Laddove, invece, queste opere possono modificare un certo livello di qualità, si potrebbe anche valutarne l’introduzione in uno standard di tipo qualitativo. Questa impostazione emerge abbastanza chiaramente nella gestione dei Programmi Integrati di Intervento dove la soluzione di alcuni problemi di carattere infrastrutturale potrebbe rappresentare il principale motivo di interesse generale che viene proposto all’Amministrazione. L’altro aspetto fortemente innovativo è che si parla ancora di servizio e di computo dello standard: cioè si adotta sempre il parametro dello standard ma la scelta della modalità per il suo raggiungimento è lasciata all’Amministrazione. È chiaro che in questo modo si sposta l’attenzione sull’assunzione di responsabilità: sarà l’Amministrazione a dover dimostrare all’interno
del Piano come conteggiare lo standard e quale livello di valore attribuirgli. Alcune nuove libertà sono già contenute nella legge che afferma, ad esempio, che si può considerare nel calcolo dello standard la superficie lorda di pavimento. Infatti, quello che era improprio fino a oggi è che una scuola a un piano valesse come una scuola a tre piani. Dal punto di vista dell’area occupata poteva essere la stessa cosa ma, indubbiamente, si trattava di livelli di servizio differenti. Dall’altro lato, con questo nuovo tipo di parametrazione si apre la possibilità, come nel caso del verde, di introdurre un correttivo alla stessa misurazione parametrica a seconda del livello di attrezzatura; infatti sappia-
controllo. Bisognerà allora trovare una modalità di parametrazione del costo del servizio in rapporto al servizio alternativo che sarebbe erogato in casa di riposo. Si apre, allora, tutta una gamma di possibilità. È ovvio che sono necessari dei controlli, soprattutto nel momento in cui il servizio può essere erogato dal privato in sostituzione del servizio pubblico. Ma qui si parla di possibili convenzioni, accreditamenti, e già il Piano dei Servizi dovrebbe contenere le convenzioni tipo, le modalità per fare intervenire il privato. Sembra dunque sostenibile che il Piano dei Servizi possa effettivamente essere la struttura portante del P.R.G., in grado di graduare gli interventi pubblici in un arco temporale
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Como, piazza Verdi (foto: Marco Introini).
mo che il livello di attrezzatura comporta anche un incremento dei costi successivi alla realizzazione dell’attrezzatura (livelli di manutenzione, per esempio) e comunque assolve al fabbisogno in un modo diverso. Un conto è un’area semplicemente sistemata a prato, un conto è un parco pubblico; un conto è un campo attrezzato, un altro un impianto sportivo. In precedenza erano tutti considerati alla stessa stregua in ragione dell’area disponibile; oggi si può riconoscere un valore diverso in relazione anche all’investimento deciso dall’Amministrazione che coincide con una scelta di qualità. Inoltre, la legge introduce un’ulteriore distinzione fra costo dell’opera e costo del servizio, il che significa cominciare a separare il discorso dell’erogazione del servizio dal fatto che questo servizio abbia una struttura edificata vera e propria. Si pensi, ad esempio, all’assistenza agli anziani o ai bambini piccoli, alla possibilità di consentire l’apertura di micro-nidi familiari o di assistenze domiciliari all’anziano che, invece di essere portato in casa di riposo, viene mantenuto nella propria abitazione attraverso una serie di sistemi di
attendibile e ciò anche in considerazione del fatto che oggi i vincoli urbanistici valgono cinque anni. Dopo cinque anni, se decadono, l’Amministrazione non li può più riproporre e deve anzi proporre scelte che siano attuabili. Diversamente non avrà più alcuna reale possibilità di difesa in sede di contenzioso. A questo punto si scopre la dimensione temporale del Piano. Noi che disponiamo di un osservatorio privilegiato, vediamo che non esistono più grandi piani di espansione: nel complesso, abbiamo P.R.G. di riduzione. L’ossatura dei servizi proposta a una popolazione può diventare quindi anche il parametro di selezione degli interventi. L’Amministrazione decide di provvedere nel quinquennio a determinati servizi e favorisce determinate localizzazioni rispetto ad altre, oppure favorisce quelle localizzazioni che in cambio potranno portare a opere di urbanizzazione e servizi interessanti perché prioritari in una determinata area. Ecco ribaltata la modalità di approccio alla pianificazione, perché opera per risultati, per obiettivi e attraverso una risposta articolata a fabbisogni differenziati.
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Ci domandiamo se il Piano dei Servizi possa essere effettivamente modificabile. Nella misura in cui si tratta di uno schema rapportato fortemente alla programmazione deve essere continuamente aggiornabile e verificabile anche in relazione ai problemi dell’attuazione. Oggi si ragiona di reti di servizi. Conseguentemente l’analisi di base su cui si fonda la dotazione di servizi deve essere posta sotto osservazione per cogliere gli effetti che comportano le strutture inserite; è quindi necessario disporre di uno strumento molto dinamico. Quello che consigliamo è che il Piano dei Servizi non produca importanti ricadute vincolistiche in P.R.G. se non per le aree sulle quali si è assolutamente sicuri di intervenire. Per il resto si dovrà adottare un disegno di prospettiva rispetto al quale l’attuazione procederà sulla base delle disponibilità e delle opportunità anche manifestate dai privati. S’introduce così una nuova complessità disciplinare. Abbiamo assistito negli ultimi anni al fatto che l’approccio al governo del territorio diventava sempre più difficile dovendo tenere conto di fattori diversissimi, con la conseguenza di produrre una grande varietà di piani settoriali, non sempre positiva. Forse il nuovo approccio non può essere di tipo interdisciplinare, ma deve essere piuttosto un approccio infradisciplinare in cui i vari settori dell’Amministrazione si confrontano e, a partire da vari punti di vista, arrivano a definire i servizi prioritari e i progetti migliori. Non sempre quello che viene da un approccio infradisciplinare ha delle ricadute di tipo territoriale. Un caso tipico è quello del piano del traffico, che tutti ben conosciamo, o del piano dei parcheggi: piani che in taluni casi comportano la realizzazione di strutture e in altri semplicemente cartelli, divieti o modalità di gestione della mobilità e della sosta. Marco Engel Almeno due sono, a mio parere, le questioni che meritano qualche approfondimento. La prima riguarda ancora lo standard. Abbiamo sentito parlare di una sempre maggiore complessità della materia dei servizi pubblici. Questa riguarda tanto i servizi misurabili, cioè quelli che occupano una certa quantità di superficie, che una grande quantità di attrezzature pubbliche che non sono assolutamente misurabili in termini di superficie. Questi non sono computabili in metri quadrati ma sono di grandissimo valore, soprattutto in una società come la nostra, che ha un pronunciato processo di invecchiamento e che quindi necessita di una quantità di interventi di assistenza diffusi sul territorio. È vero allora che fino ad oggi l’unica misura inventata è quella del denaro. E non è una misura nuova neanche in materia urbanistica perché ci sono già diverse leggi, ultima la 9/99, che usano precisamente questo parametro come misura dello “standard”. Ma siamo proprio sicuri che non esistano altri strumenti di valutazione a cui sia possibile fare riferimento? Oppure, in quale direzione sarebbe possibile lavorare per inventarne uno? O infine, il metro quadro ha ancora qualche valore all’interno di questo ragionamento? Questa è una delle questioni sulle quali forse sarebbe opportuno tornare, anche in relazione all’approfondimento delle aspettative di questa nostra società urbana nei confronti delle attrezzature propriamente dette. È vero che queste ormai tendono a costituire un ventaglio estremamente più diversificato di quello del passato; forse all’interno di questo ventaglio ci sono ancora possibilità per ragionare attorno a parametri che non siano esclusivamente monetari. Dall’altra parte si apre un problema, più di politica amministrativa che non di tecnica urbanistica, che riguar-
da la realizzazione e la gestione dello “standard”, così come previsto dalla legge urbanistica regionale. È il problema dell’obsolescenza non tanto del concetto dello “standard” quanto dei meccanismi di produzione e gestione dei servizi pubblici all’interno della corrente pianificazione urbanistica e questo principalmente per il mancato riconoscimento dell’inattuabilità della grande maggioranza delle individuazioni. Questa impiego distorto dello “standard” ha avuto un effetto collaterale rilevante. Anzitutto è stato spesso utilizzato a livelli molto superiori ai minimi inderogabili prescritti dalla legge. Ricordo un periodo, ormai lontano, nel quale le Amministrazioni facevano a gara per dimostrare la dotazione nel proprio P.R.G. di una quota quanto più elevata possibile rispetto ai minimi, assumendo questa a testimonianza della grande qualità del P.R.G. adottato. Questa relativa esagerazione dell’impiego dello “standard” ha avuto un effetto non disprezzabile di contenimento dell’edificazione, soprattutto nel cuore dell’area metropolitana. In questa condizione lo strumento dello “standard”, usato in maniera esagerata, è stato uno dei pochi strumenti di contenimento dell’esplosione edilizia dell’area metropolitana; uno strumento di cui ancora oggi, nonostante la rincorsa della pianificazione di livello provinciale, non è stato trovato un sostituto. Lo “standard”, quindi, ha avuto un effetto collaterale di qualità nel senso di limitare l’occupazione del territorio da parte dell’edificazione; ma questo uso improprio dello “standard” è forse giusto che venga abbandonato. Forse uno dei valori principali dell’introduzione del Piano dei Servizi è proprio quello di ricondurre l’idea dello “standard” alla sua finalità propria: cioè all’individuazione delle attrezzature pubbliche da destinare al benessere della cittadinanza. Enrico Maria Tacchi I servizi possono avere una dimensione importante sotto il profilo territoriale e possono anche non averla. Se ce l’hanno, allora la domanda circa l’attribuzione di valore deve essere così riformulata: si può fare riferimento al territorio con qualcosa di diverso dall’unità di superficie? Se si può, allora si può anche cambiare lo standard. Se invece non è possibile, allora bisogna mantenerlo. Se la stessa domanda esorbita dalla dimensione della pianificazione territoriale, allora si deve dire che abbiamo sentito parlare di altri criteri di misurazione che sono, in particolare, cari agli economisti. Per esempio: i servizi possono essere valutati in funzione della loro efficacia, cercando di misurare gli obiettivi raggiunti rispetto agli obiettivi attesi. Possono essere misurati in base alla loro efficienza, quindi all’uso delle risorse fatto in relazione ai risultati, ai tempi di realizzazione e quant’altro. Possono essere valutati in base alla loro economicità, quindi in funzione di ciò che si può ottenere di meglio potendo contare su diversi soggetti erogatori, come si tende a fare con l’ottica della sussidiarietà, anche se di questo concetto penso che ultimamente si sia fatto qualche uso piuttosto improprio. È necessario affrontare questi temi, in particolare se si sostiene che i servizi di tipo sanitario debbano essere inclusi nel piano. I servizi di tipo sanitario infatti hanno indubbiamente un impatto territoriale, perché gli ospedali esistono in contesti precisi; e lo stesso vale per i servizi socio-assistenziali, quelli scolastici e così pure per i servizi per il tempo libero o quelli sportivi. E si potrebbe proseguire. Ma la dizione precisa di servizi pubblici di interesse generale, che è stata qui utilizzata, a questo punto deve essere vista in una prospettiva che comprende non solo il pubblico e il privato ma anche altre realtà
Giulia Rota La legge è piuttosto chiara ove stabilisce che il Piano dei Servizi deve documentare lo stato dei servizi di interesse pubblico esistenti in base al grado di fruibilità e di accessibilità che viene assicurata ai cittadini per garantirne l’utilizzo. Il grado di fruibilità e di accessibilità non sono due dimensioni che, in genere, si misurano con unità di spazio e di superficie. Inoltre la legge dice che il Piano dei Servizi deve precisare, nel rispetto delle previsioni del programma regionale di sviluppo, le scelte relative alla politica dei servizi di interesse pubblico, o gene-
rale, da realizzare nel periodo di operatività del P.R.G., dimostrandone l’idoneo livello qualitativo nonché un adeguato livello di accessibilità, fruibilità e fattibilità. La fattibilità è un elemento molto importante per evitare ciò che è sempre accaduto: e cioè che gli standards siano un’individuazione generica di piano, tanto che in presenza di un’esigenza specifica, questa trova una localizzazione in base ad un proprio progetto che può risultare anche abbastanza casuale rispetto alle definizioni di piano. Se consideriamo l’estrema diversificazione della società, dobbiamo riconoscere che le modalità di analisi dei dati, che sono ancora impostati in maniera tradizionale, non sono più in grado di restituirci una lettura precisa della realtà. È essenziale introdurre strumenti di indagine per campioni, per capire quali sono le reali esigenze. Inoltre si deve sviluppare una capacità interpretativa nuova perché è anche vero che non sempre la popolazione è pienamente cosciente dei propri bisogni. È questa una strada dalla quale non si può più prescindere perché, altrimenti, la risposta sarà assolutamente inappropriata alla complessità sociale. Quanto alla questione della qualità, questa oggi non si pone più in maniera problematica come nel passato. La qualità è un’esigenza ormai anche di mercato ed è quindi probabilmente giunto il momento del salto di qualità. Questa situazione appare con particolare evidenza nella programmazione integrata di intervento. Mentre prima eravamo abituati ad una verifica formale dell’applicazione della norma, che dava certezza agli attori pubblici e privati, oggi parte della verifica delle proposte di pianificazione è affidata alla sensibilità, alla capacità di contrattazione, alla capacità di stimare correttamente anche i valori economici delle proposte. È al tavolo della contrattazione che deve essere trovata una posizione di equilibrio. È ovvio che in una contrattazione comunque una posizione di equilibrio deve essere raggiunta, altrimenti uno degli attori abbandona il tavolo e interrompe la trattativa. È anche necessario avere molto chiaro che cosa voglia dire interesse generale. Stiamo cercando di elaborare strumenti di valutazione non solamente economica, ma di tipo globale per i quali diventa molto importante che un Comune sappia leggere la propria collocazione in un ambito territoriale più vasto. Infine, alcune osservazioni sulle attrezzature che servono più Comuni e che quindi possono essere computate in quota parte dall’uno o dall’altro. Nella legge viene completamente rivista la collocazione dei cosiddetti standards sovracomunali individuati presso Comuni che, avendo capacità insediativa inferiore a 20.000 abitanti, precedentemente non li potevano computare in alcun modo. Si è cercato di rendere un po’ più realistico tutto quello che non era più in sintonia con la realtà. Tutte queste innovazioni sono ora lasciate alla responsabilità delle singole Amministrazioni e si deve tenere conto che le nuove leggi riducono progressivamente le funzioni di controllo. Addirittura i P.R.G. verranno prodotti ed approvati dalle Amministrazioni comunali. Qualche rischio, però, si correrà. Come dimostra la nostra esperienza di osservatorio sull’uso dei nuovi strumenti di piano, siamo in presenza di un diffuso desiderio di crescita. Il fatto di non dover più ricorrere a parametri formali, cioè di non dovere più raccontare bugie colossali per pervenire all’approvazione di un Piano, fa sì che il Comune possa più realisticamente affrontare la propria realtà. Proprio per questo motivo lo sforzo della Regione è quello di stabilire delle linee di indirizzo, di principio, all’interno delle quali ciascuno possa trovare la giusta collocazione.
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emergenti ed in particolare quelle del terzo settore, ovvero quella serie di soggetti erogatori di “servizi per il pubblico” che si fa fatica a ricondurre in maniera rigida nel vecchio schema Stato-mercato e che hanno assunto ultimamente una valenza ampia. Bisogna poi considerare che alcune necessità sono certamente emergenti. È stato citato il problema della dimensione delle famiglie, ossia delle famiglie che non diminuiscono in termini di numero sul territorio, ma che diminuiscono come numero dei componenti all’interno delle famiglie stesse. È stato pubblicato da poco dall’ISTAT il nuovo Rapporto sull’Italia e ancora si assiste, nonostante una certa stazionarietà delle nascite, a un’ulteriore diminuzione del numero medio dei componenti della famiglia. Questo crea problemi che hanno dei riflessi di tipo territoriale. Il problema degli anziani è pure stato citato. Si potrebbe poi fare riferimento ai servizi per i minori e a quello che è connesso a tutte queste dinamiche di natura demografica. È abbastanza evidente che avere un’età molto prolungata, quindi il vantaggio di un’aspettativa di vita media più lunga, comporta anche il fatto di non arrivare sempre all’età avanzata in condizioni eccellenti dal punto di vista psicofisico. Quindi, la dimensione dei servizi sanitari e socio-assistenziali tende a crescere soprattutto per gli anziani, ma tende a crescere anche nelle altre fasce di età per la richiesta di servizi culturali più sofisticati, di servizi ricreativi e quant’altro. Allora sarà difficile che una programmazione e pianificazione integrata dei servizi di questa entità possa essere svolta in una sola prospettiva disciplinare. È vero che la prospettiva disciplinare dell’architetto è per sua natura sincretica, cioè fa uso di diversi saperi, di diverse discipline, però è anche probabile che altre competenze debbano essere inserite. Non immagino come tutto questo possa trovare una traduzione nella normativa: per questo compito occorrono competenze anche di tipo giuridico, che traducano i principi generali in qualcosa di concretamente attuabile. Anche riguardo all’aspetto della monetizzazione, ossia della standardizzazione operata attraverso il denaro, posso solo ribadire che su questo ci sono studi abbondanti. Alcuni di questi risalgono all’inizio del Novecento, penso in particolare a Georg Simmel e ai suoi studi sulla filosofia del denaro. Sono studi ben noti agli scienziati sociali, che non hanno difficoltà a dimostrare come il denaro, una volta che è diventato fattore di unificazione e quindi ha portato la qualità ad essere continuamente quantificata, diventa esso stesso un particolare bene e, quindi, può assumere un valore simbolico. Il denaro assume così una propria simbologia: sebbene sia la realtà più concreta che si possa immaginare, perde la propria materialità. È chiaro oggi che i flussi finanziari, in una società globalizzata, avvengono via computer senza che si sposti uno spillo; il denaro può diventare così estremamente astratto, sebbene gli effetti del suo uso rimangano estremamente concreti.
Quarto modulo Perequazione, concertazione, partecipazione, sostenibilità
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Coordinatore: architetto Gianfredo Mazzotta Relatori: • Avv. Giuseppe Sala, esperto di Diritto Urbanistico • Dott. Piero Torretta, Presidente Assimpredil Ai Relatori sono state proposte le seguenti domande: • Sostenibilità Il concetto di sostenibilità appare ancora privo di una strutturazione tale da poter prefigurare “ricadute” reali sugli strumenti di pianificazione. Vista la tendenza attuale delle diverse discipline regionali degli ultimi anni, che incominciano a delineare le prime forme di integrazione nei processi di pianificazione delle verifiche di compatibilità urbanistico-ambientale, sembrerebbe utile che anche il nuovo articolato normativo lombardo definisse indirizzi, regole, suggerimenti in materia. L’assessorato regionale cosa pensa dunque di predisporre in questo senso? • Paesaggio Il tema del paesaggio, che si lega con quello dello sviluppo sostenibile, sembra essere stato trattato marginalmente all’interno del documento regionale. Sarebbe dunque utile che in questa sede venisse esplicitato in modo chiaro il rapporto tra il futuro testo di legge e gli strumenti di controllo e salvaguardia del paesaggio oltre che i rapporti e le interazioni con la normativa del Piano Territoriale Paesistico Regionale. • Perequazione Le Linee Guida Regionali prefigurano l’introduzione di criteri perequativi non soltanto per quanto riguarda il livello locale (P.R.G.) ma anche per gli strumenti di pianificazione d’area vasta. Si tratta dunque di definire due aspetti importanti. In primo luogo cosa significa per la cogenza e la “forma” stessa dei piani di scala sovracomunale l’introduzione di criteri perequativi e questi ultimi a chi si rivolgono e in che forma (vincoli, direttive, indirizzi); in secondo luogo se la Regione pensa di definire criteri operativi che possano costituire dei modelli disciplinari per gli operatori del settore o invece definire solamente indirizzi guida per i nuovi piani urbani. • Valutazione dei P.R.G. Le Linee Guida dovrebbero anticipare, anche se in modo sintetico, i criteri che la Regione pensa di attuare per la valutazione dei P.R.G. Sarebbe quindi utile in questa sede provare a delineare un primo profilo delle metodologie e delle regole che l’assessorato pensa di predisporre per dare attuazione al “modello valutativo” accennato dalle Linee Guida. • Partecipazione Dare maggiore forza e valore al momento partecipativo dei diversi attori pubblici e privati durante la fase di predisposizione dei differenti piani per aumentare il “valore” del piano e diminuire i contrasti e osservazioni ex post. Per ottenere ciò quale modello partecipativo la Regione intende adottare, ma, soprattutto, come si concilia la flessibilità dei diversi livelli di pianificazione con la regolamentazione del processo partecipativo?
• Monitoraggio La riforma urbanistica in atto dovrebbe concretamente costruire un sistema tecnico e finanziario di reale sostegno ai Comuni, in modo particolare a quelli “minori”, per permettere l’attuazione e la gestione corrente del nuovo modello di piano che si sta prefigurando. Quindi l’assessorato in quest’ottica ha già pensato di impegnare speciali capitoli di spesa del bilancio regionale o pensa ad altre forme di sostegno? • Monitoraggio La prefigurata costituzione di strutture permanenti di verifica non sembra sufficientemente articolata e definita. L’assunto che preannuncia che tali strutture dovranno essere “autonome rispetto a piani e progetti” sembra poco chiaro. Sarebbe molto utile in questa sede provare a dipanare questi dubbi. Gianfredo Mazzotta Questo quarto modulo si caratterizza per la complessità dei temi in discussione - sostenibilità, paesaggio, perequazione e partecipazione - data dalla presa di coscienza che tali argomenti sono “trasversali” all’intero impianto metodologico delle Linee Guida regionali. Infatti, parlare di sostenibilità delle trasformazioni urbanistiche significa considerare tutti gli aspetti che compongono l’argomento, dai fattori territoriali di pianificazione urbanistica agli aspetti economici relativi ai costi sociali delle opere e ai costi finanziari di chi intende realizzare queste opere, ai carichi ambientali che si produrranno sul paesaggio, alle necessità in termini di servizi derivante da tali trasformazioni, agli aspetti sociali indotti. Fattori, quindi, che sono già stati trattati dai precedenti moduli, ma che in questo specifico contesto vengono analizzati e discussi nella veste di temi cardine per l’impianto generale, non solo come temi di settore e con un taglio di tipo pragmatico. Il modulo, attraverso le domande predisposte, cercherà di indagare le ricadute “reali” e quotidiane, nel fare dell’urbanistica, dei princìpi e delle proposte delineate dalle Linee Guida regionali. In merito alla “trasversalità” di temi come la sostenibilità e il paesaggio, mi sembra che le Linee Guida regionali non pongano molta attenzione riguardo a questo argomento, ma che invece pongano l’accento soprattutto sulla separazione della sostenibilità ambientale e di un secondo tipo di sostenibilità. Rispetto a quanto formulato nelle Linee Guida regionali risulta importante, quindi premettere e sottolineare, che non si può pensare che possa esistere una distinzione tra sostenibilità urbanistica e sostenibilità ambientale. Infatti, non si tratta di integrare gli aspetti urbanistici con quelli ecologici, perché già per loro natura sono collegati. Migliorare la qualità dell’ambiente urbano dipende dalle condizioni della trasformazione, misurabili sulla qualità delle tre fondamentali risorse ambientali, aria, acqua, suolo, fattori primari e guida anche per la disciplina urbanistica. La trasformazione degli as-
Giuseppe Sala Ho molto apprezzato il fatto che siano state proposte sette domande, che per comodità di risposta ho pensato di tradurre in sette schede, redatte attingendo, anche ampiamente, a quello che sul piano economico aveva preparato il professor Senn per il suo previsto intervento. Quindi ho cercato di coniugare insieme agli aspetti di settore specifici anche gli aspetti economici. • 1. Qual è il quadro normativo in cui ci muoviamo? Il quadro normativo che disciplina la materia urbanistica è decisamente mutato rispetto a quello in essere alla impostazione della L.R. 51/75. La Legge Costituzionale n. 3, entrata in vigore 18.11.01, all’art. 117 della Costituzione assegna allo Stato la competenza esclusiva in tema di tutela dell’ambiente, mentre considera materia di legislazione concorrente il governo del territorio e la valorizzazione dei beni culturali. Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata allo Stato. È necessario perciò che la Regione Lombardia definisca
chiaramente il campo di sua competenza - il governo del territorio - se si vuole evitare una conflittualità tra Regione e Stato, con conseguente danno per l’attività della Regione nei confronti degli Enti Locali ai quali l’art. 118 della Costituzione attribuisce le funzioni amministrative, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Si tratta quindi di coniugare questi tre princìpi per definire la sostenibilità del governo del territorio. Un’impostazione meno gerarchica può individuarsi nel progetto di legge della Regione Veneto, ma comunque senza la chiara definizione dei poteri la riforma normativa regionale potrebbe diventare una semplice rivisitazione e non una innovazione. La legge contiene una formulazione alquanto innovativa rispetto alla tradizionale gerarchia Stato, Regione, Provincia, Comune: prevede di iniziare ad operare per competenze parallele o coordinate o sussidiarie. Credo che il nuovo modo in cui si deve concepire la legge regionale lombarda debba tener conto necessariamente di questi fatti. E ciò che ho sentito prima a proposito del paesaggio ne è la conferma. • 2. Cos’è il paesaggio? Dove mai c’è il paesaggio? Cos’è il paesaggio, costituzionalmente parlando? La legge costituzionale parla di ambiente e territorio. Il paesaggio dove sta: nell’ambiente o nel territorio? O è un tertium genus? Domande sicuramente impegnative. Corollario e conseguenza del chiarimento dei poteri della Regione sono le precise definizioni di: ambiente - territorio - paesaggio. È il paesaggio un tertium genus, oppure si colloca indifferentemente all’interno delle prime due materie? Il T.U. 490/99 sulla tutela dei beni ambientali e culturali considera il paesaggio elemento per l’impostazione della tutela: - titolo II, Beni Paesaggistici e Ambientali; - art. 146, Beni tutelati per legge in ragione del loro interesse paesaggistico; - art. 149, Piani territoriali paesistici; - art.150, Coordinamento della disciplina urbanistica. Le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda i valori ambientali con finalità di orientamento, della pianificazione paesistica. Il paesaggio così inteso è quindi un bene culturale e determina i valori ambientali da tutelare in determinate situazioni o aspetti. Il Codice Penale all’art. 734 considera il reato di deturpazione o distruzione di bellezze naturali, ma non le definisce, rinviando alla speciale protezione dell’Autorità (ora il D.L.vo 490/99). La L.R. 18/97 subdelega ai Comuni le competenze delegate dallo Stato alla Regione in materia di danno ambientale, come indicato all’art. 4 - irrogazioni delle sanzioni amministrative di cui all’art. 15 della L. 1497/39. Se si raffrontano tra loro le norme di cui sopra, si può concludere che sotto questo aspetto ambiente e paesaggio sono la stessa cosa? L’art. 117 della Costituzione nel testo entrato in vigore 118/11/01 precisa ancora che
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sunti concettuali in pratica urbanistica quotidiana rappresenta la vera sfida che la nuova legge lombarda deve affrontare. Come già ribadito nei moduli precedenti la sostenibilità deve portare alla costruzione di una qualità ambientale generale. Altro argomento fondamentale, trascurato dalle Linee Guida, pur comprendendo il carattere esemplificativo e sommario del testo regionale, è il tema del paesaggio. L’argomento risulta oltremodo marginale anche rispetto al lavoro che la Regione ha fatto in questi anni sul tema del paesaggio. Non ultimo l’approvazione del Piano Regionale Territoriale Paesistico (P.T.P.R.) che, invece, influenza in maniera generale tutta la strumentazione urbanistica dei vari livelli di pianificazione. Il documento delle Linee Guida dovrebbe assumere come “momento iniziale” per la costruzione di un percorso metodologico, per la costruzione di un nuovo impianto normativo il “concetto di paesaggio”. Vale a dire che esiste un bisogno di costruire, come diceva giustamente il professor Mazza nel suo intervento, un lessico comune per capire cosa intendiamo con paesaggio e cosa intendiamo con sostenibilità, e le relazioni che tra esse intercorrono o che la disciplina e poi la norma vogliono “costruire” o salvaguardare. Questo convegno intende dunque porsi nel dibattito sulle Linee Guida in forma chiaramente critica ma anche propositiva e costruttiva nei confonti della Regione. Al contempo esso deve anche servire a noi architetti, per innescare un serio esame di coscienza, per capire cosa facciamo noi “quotidianamente” per la qualità dei nostri progetti e di conseguenza, per la sostenibilità che noi proponiamo ai nostri interlocutori, i cittadini e le amministrazioni pubbliche.
“spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”. Se il paesaggio non attiene all’ambiente, ma fa parte del territorio o costituisce una materia a sé stante, la potestà legislativa spetta alla Regione. Per un corretto governo del territorio, la Regione deve quindi definire con lo Stato questo aspetto pregiudiziale e poi chiarire il termine “paesaggio” nel contesto dei piani paesistici e di quella normativa che si riconnette alla L.R. 1/00, ad esempio i piani regionali e provinciali a valenza paesistica. • 3. Una terza domanda riguarda il concetto della perequazione.
le è proprio compito della Regione intervenire non solo con il criterio normativo, ma anche con la parte economica e finanziaria perché, altrimenti non sarebbe sufficiente, intanto perché non si può moltiplicare all’infinito la disponibilità volumetrica, ma anche perché in molte circostanze è più opportuno dare altre forme di incentivazione rispetto a quelle che non sono solamente volumetriche. Il principio di perequazione è affermato dall’art. 118 della Costituzione e si applica sia a livello locale, ma particolarmente nell’ambito sovracomunale. La perequazione può avvenire mediante l’indice diffuso nei Piani Attuativi, ma anche mediante sistemi compensativi che si
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Milano, piazzale Sempione (foto: Marco Introini).
Il concetto di perequazione è un altro di quei bei discorsi che si continuano a fare. Si è tentato di attuare la perequazione, si è cominciato ad attuarla, pensando a indici territoriali diffusi. Si è determinato nei piani attuativi che non è attribuito l’indice come indice sulla singola area, ma come indice del comparto, come indice dell’ambito soggetto a piano attuativo. Questo però non è sufficiente. Se dobbiamo andare verso la concretizzazione di un concetto di perequazione effettivo, bisogna che ci sia anche una disponibilità dei mezzi finanziari o delle iniziative che accompagnano la perequazione. La perequazione può avvenire non soltanto perché tutti hanno lo stesso indice volumetrico, ma può avvenire anche perché si può dare luogo a fatti compensativi laddove, ad esempio, nell’ambito di un territorio incidono molto ampiamente e molto pesantemente vincoli di tutela o situazioni oggettive o grandi infrastrutture o regole che rendono più facile la realizzazione di interventi di utilizzazione del territorio in altri Comuni. Quindi, la perequazione resta un concetto molto vasto sul qua-
ricollegano a grandi infrastrutture o vincoli di salvaguardia territoriale (ambiente e paesaggio, una volta definito cosa si intenda per paesaggio). La perequazione non può essere solo in termini volumetrici, ma deve esprimersi anche mediante disponibilità di risorse economiche. La Regione non può limitarsi a modelli disciplinari, ma deve fornire linee guida per i nuovi piani urbani, con l’indicazione delle disponibilità finanziarie che accompagnano le linee guida in funzione degli obiettivi che si vogliono conseguire. Si può, in tal modo, superare il problema degli espropri e della indennizzabilità dei vincoli di cui alla sentenza n. 179/99 della Corte Costituzionale. Non a caso l’entrata in vigore del Testo Unico sugli espropri è stata prorogata dal 1/1/02 al 30/6/2002 in forza del D.L. 23/11/01 n. 411, pubblicato sulla G.U. del 26.11.01 n. 275, per permettere al Governo di apportare modifiche anche in relazione alle recenti sentenze in data 2/8/01 rese dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sulla applicazione dell’art. 1 del Protocollo Addizionale n. 1 della convenzione 20/3/52 sui diritti dell’uomo, in tema di
delle Amministrazioni pubbliche e dei soggetti privati consente maggiore efficienza nell’iter decisionale; la riduzione di vincoli finanziari; risparmi di risorse per l’accresciuta efficienza; necessità di approfondire i nessi tra attività di costruzione e gestione (es. Palazzo Congressi dato in concessione). • 5. La partecipazione. Il principio della partecipazione si desume dagli artt. 117 e 118 della Costituzione, nonché dalle ulteriori modifiche della Costituzione apportate dalla Legge Costituzionale n. 3/01. Sono ormai sviluppati i concetti introdotti dalla L. 241/90 e sue modifiche che si articolano nella pianificazione attuativa con i nuovi istituti dei P.I.I. - P.R.U. e P.R.U.S.S.T. Ancora è da considerare la L.R. 1/00 con i suoi dettami di pubblicità a priori. Determinate le invarianti, la pianificazione può articolarsi valutando gli apporti contributivi prima della approvazione dei piani, ma poi anche come flessibilità in conseguenza dell’evolversi del sistema socio-economico. Tipico esempio è la modificazione dell’attività produttiva, sia come fenomeno delle aree industriali dismesse, sia come definizione di industria produttiva di beni e di servizi. La definizione di industria data dall’art. 17 del D.Lvo 112/98, ripresa dalla L.R. 1/00 vede specificazione innovative con il D.P.R. 447/98 e ancor più con il D.P.R. 440/00. La trasformazione dell’attività produttiva, con la conseguente incidenza sul territorio, vede come causa di effetti altrettanto rilevanti le prescrizioni riguardanti le aziende a rischio di incidente rilevante. Il D.M. 9/5/01 commisura distanze delle altre funzioni e delle infrastrutture tali da sovvertire l’assetto urbanistico dei P.R.G. di Comuni di grande e media dimensione demografica. Anche gli insediamenti produttivi agricoli, in particolare modo gli allevamenti di bestiame, pongono problemi di distanze in relazione agli odori ed agli scarichi che possono compromettere o rendere difficile il corretto sviluppo del territorio. Non è quindi da scartare la concertazione con realtà ed attività presenti sul territorio che si intendono regolare e potenziare, così come la flessibilità per affrontare fenomeni di rapida evoluzione o che non si erano previsti o disciplinati al momento della formazione dello strumento urbanistico. Un Comune può determinare la sua trasformazione in relazione a nuove forme di attività, a nuove infrastrutture intervenute o per effetto di risorse prima non conosciute o sottovalutate. La Regione e la Provincia non possono imporre regole rigide di limitazione dell’autonomia locale, ma verificare quali norme debbano essere rispettate perché determinate per la salvaguardia di interessi prioritari o di carattere sovracommunale e lasciare nel rimanente contesto concertazione e flessibilità. La concertazione fra Enti mira poi alla verifica delle “invarianti” che in parte sono connesse a fatti oggettivi la collocazione del territorio rispetto alla situazione idrogeologica, climatica, di attitudine, di accessibilità, ed in parte connesse a valutazioni della comunità degli individui - ambiente, ecologia, paesaggio, qualità della vita. Anche in ordine alle “invarianti” può verificarsi una flessibilità di valutazioni nella successione temporale. I princìpi della nuova legge urbanistica che si ritiene utile prendere in considerazione perché suscitano interessanti problematiche economiche sono quelli: della sostenibilità, della sussidiarietà, della flessibilità. Questi princìpi consentono un nuovo governo del territorio, una governance “partecipata” del territorio. Per efficacia ci si riferisce agli esiti che la pianificazione ha sullo sviluppo economico di un certo territorio e sul miglioramento della qualità della vita dei suoi cittadini.
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rispetto del diritto di proprietà. Inoltre, è da sottolineare come il T.U. sugli espropri abbia previsto - all’art. 58 - l’abrogazione degli artt. 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23 della L.U. 1150/1942, cioè la sezione seconda che prevede la disciplina dei Piani Particolareggiati e la sezione terza portante norme per l’attuazione dei P.R.G., ivi compresi i comparti edificatori. Si avrebbe così un vuoto legislativo proprio in ordine a uno degli strumenti di perequazione attualmente vigenti: il comparto edificatorio. Il legislatore nazionale avverte la necessità di sostituirlo con altri strumenti più adeguati; il legislatore regionale deve provvedere a dare attuazione al principio nell’ambito del governo del territorio. • 4. Cosa intendete come principio di sussidiarietà? E, quindi, come si mette in pratica questa sussidiarietà, che, poi, si sposa con quello che abbiamo detto, con la perequazione? Le linee guida pongono un metodo valutativo che deve essere discusso e analizzato anche alla luce del principio di sussidiarietà enunciato dalla sentenza n. 179/99 della Corte Costituzionale e chiaramente ribadito nell’art. 118 della Costituzione, ove si afferma che “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Stabilito quindi cosa si intenda per interesse generale e determinate le “invarianti” che derivano da vincoli non di competenza regionale, da previsioni sovracomunali particolarmente per le grandi infrastrutture e per obiettivi di programmi da sviluppare sul territorio, si articola il piano comunale che opera le scelte prestazionali in relazione alla natura e caratteristiche del territorio ed ai condizionamenti che incidono sul territorio. Ovviamente, la scelta prestazionale implica anche una conoscenza degli effetti che possono derivare ai territori confinanti e la connessione delle infrastrutture esistenti e/o da programmare. La Regione, a tale riguardo, può svolgere attività di indirizzo e di coordinamento e può svolgere funzione di riequilibrio mediante la perequazione. Le regole richiedono una delicata analisi delle competenze che la Costituzione attribuisce ai singoli soggetti Stato - Regioni - Province (Città Metropolitane) - Comuni, onde non creare meccanismi, censurabili di legittimità, come ad esempio recentemente avvenuto con il P.R.G. di Brescia, annullato con due sentenze del TAR Lombardia, sezione distaccata di Brescia, in data 20/11/01, perché la suddivisione della città in sistemi e sottosistemi non è pienamente assimilabile alla zonizzazione richiesta dalla Legge Urbanistica in quanto il territorio non viene suddiviso per zone omogenee, di cui all’art. 7 della L.U.N. e degli artt. 7, 8 e 9 del D.M. 2/4/68 n. 1444 ed alla L.R. 51/75. Compete, perciò, al legislatore regionale di correlare la nuova disciplina alla normativa nazionale vigente o se questa non costituisca norme di principio immodificabili con Legge Regionale, incidere anzitutto sul contenuto del D.M. 1444/68 e dare così ai Comuni strumenti agibili e concretamente utilizzabili. A tal fine sono da considerare: • sussidiarietà/efficacia: il principio della sussidiarietà consente di moltiplicare le risorse disponibili per lo sviluppo coinvolgendo anche privati (sussidiarietà orizzontale) e diversi livelli di Ammnistrazioni nell’attuazione degli interventi. Occorre valutare quanto valga il contributo aggiuntivo delle nuove risorse mobilitate coinvolgendo questi nuovi soggetti per decidere “chi conviene che faccia che cosa”. • sussidiarietà/efficienza: la razionalizzazione nella distribuzione delle competenze e dei ruoli ai diversi livelli
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Per efficienza ci si riferisce alla necessità di una riorganizzazione dell’uso delle risorse umane, economiche, territoriali e temporali nel processo di pianificazione. Per equità, ci si riferisce agli effetti ridistribuiti - del reddito, della ricchezza e del benessere - che ogni processo di pianificazione può generare sia in modo virtuoso che in modo “viziato”. Anche la flessibilità si riconnette all’efficacia. Una maggiore flessibilità nel processo di pianificazione conduce ad un’attuazione degli interventi in tempi più brevi (e il tempo ha valore). Tuttavia, è opportuno valutare che se con maggiore flessibilità nella pianificazione si generano incompatibilità e iniquità, occorre prevedere anche maggiori costi di aggiustamento, riconversione, riqualificazione e conseguenti “risarcimenti”. • Flessibilità/efficienza: il nesso virtuoso tra questo principio e questo risultato va valutato in termini essenzialmente finanziari, connessi al non immobilizzo delle risorse territoriali, ambientali; un indicatore della virtuosità di questo nesso, in termini di efficienza, è legato all’imprenditorialità che la flessibilità può generare (es. gare di progettazione). • Cooperazione-negoziazione/efficacia: sono associati questi due princìpi - uno esplicito e l’altro implicito - perché non c’è cooperazione senza che questa generi “scambio” tra interessi. • Cooperazione orizzontale e verticale: se si coopera (tra Amministrazioni, tra privati, tra Amministrazioni e privati) è più facile ridurre le diseconomie di duplicazione (sprechi, es. due impianti limitrofi); e conseguire economie di scopo (realizzare interventi che non si sarebbero realizzati da soli) e quindi maggiore efficacia. Non si possono tuttavia dimenticare i costi di transazione (o di negoziazione). • Cooperazione-negoziazione/efficienza: se si coopera si possono conseguire economie di scala (di dimensione), realizzando piani e interventi a costi medi più bassi (per utenti). • Cooperazione-negoziazione/equità: “last but not least” (perché più innovativo). Cooperando e negoziando si chiariscono gli “scambi” da attuare tra interessi potenzialmente divergenti e si possono valutare le ragioni economiche di scambio. Questo consente di simulare e introdurre misure anche sperimentali di compensazione e sostituzione. • 6. La componente finanziaria. La componente finanziaria e l’organizzazione della struttura tecnica sono indispensabili per giungere a una efficace impostazione e gestione della nuova disciplina urbanistica. Del resto già la L.R. 2/00 di modifiche ed integrazioni a disposizioni legislative inerenti l’assetto istituzionale, gli strumenti finanziari e le procedure organizzative della Regione prevede norme specifiche per il piano territoriale d’Area Malpensa, contributi per la locazione, programma annuale di semplificazione e delegificazione della normativa regionale. Così come la Regione si fa carico del Servizio Sanitario Regionale e la sua integrazione con le attività dei servizi sociali, deve farsi carico dei mezzi necessari per il governo del territorio. Non si può infatti introdurre i princìpi della perequazione e della sussidiarietà senza che vi sia disponibilità di risorse finanziarie per la loro applicazione. Anche la concertazione può avere necessità di disponibilità finanziarie che possono integrare gli interventi del capitale privato. Gli Accordi di Programma e le stesse Società di Trasformazione Urbana (STU) anticipano questa forma di sviluppo coordinato. Le competenze tecniche possono articolarsi per integrazione o per sussidiarietà. Lo Sportello Unico consortile previsto dal D.Lvo 112/98, così come le forme di aggregazione consortile previste dalla L. 142/90, sostituita dal T.U. 267/00, sono esempi settoriali che devono
trovare ampia applicazione nel contesto del governo del territorio, tenuta presente la dimensione demografica modesta della maggioranza dei 1546 Comuni lombardi. È attività precipuamente demandata alla Regione che può avvalersi dell’opera delle Province. A tal fine la validità economica cerca di rendere possibile il nesso corretto tra princìpi e risultati: • sostenibilità/efficacia: la problematica economica all’applicazione di questo principio in ordine all’efficacia della pianificazione consiste essenzialmente: nella valutazione dell’impatto economico che un piano o un intervento urbanistico genera sul territorio di riferimento (analisi costi-benefici) e nella valutazione, comparata nel tempo, delle risorse da impiegare per ottenere un obiettivo di pianificazione o trasformazione del territorio (es. infrastrutture per l’accessibilità, oggi o domani); • sostenibilità/equità: l’esempio più classico è quello di interventi urbanistici che generino esternalità negative per taluni e positive per altri; o esternalità positive oggi e negative domani. Il problema economico è quello di valutare queste esternalità per introdurre misure di perequazione o compensazione spaziali e/o temporali. • 7. Il monitoraggio. Non serve creare una nuova struttura di controllo. Occorre mettere a disposizione dei Comuni, in modo particolare dei Comuni di minore dimensione demografica, un servizio di informazione e di raccolta dati che possa dare il quadro conoscitivo del territorio comunale in tutti i suoi aspetti. Deve essere un’informazione esaustiva ed oggettiva, non finalizzata alla redazione dello strumento urbanistico. In essa devono confluire anche programmi e progetti che già abbiano formato oggetto di strumenti decisori, che abbiano conseguito finanziamenti e che abbiano incidenza sul territorio del Comune interessato all’informazione. Il Comune deve cioè poter rifluire sul Tecnico incaricato del Piano Urbanistico del territorio comunale tutte le notizie e i dati che incidono sul territorio comunale, le “invarianti” ed altri vincoli o norme ricadenti sul territorio comunale. È uno dei punti sui quali la Regione in sede di audizione dei Comuni, maggiori o minori, ha insistito per avere la loro collaborazione nell’impostazione di questa struttura di monitoraggio che può tradursi in servizio a rete per facilità di consultazione. La nuova disciplina regionale potrà funzionare in quanto il sistema di informazione è bene funzionante. Ecco, queste sono le domande, queste sono le risposte. Si tratterà di tradurle in fatti concreti. Piero Torretta L’avvocato Sala ha risposto ai molti quesiti posti e quindi mi assolve dall’obbligo di fare altrettanto. Anche perché, sinceramente, sarei in difficoltà, considerato che il mio ruolo non è quello di fornire giustificazione o spiegazione ai contenuti di provvedimenti di natura legislativa, ma quello di operatore e, quindi, attuatore delle disposizioni. Le considerazioni che svolgerò sono riferite a tutto ciò che viene dopo la trasformazione delle linee guida in pianificazione, cioè tutto ciò che concerne la strumentazione attuativa. Come è possibile dire se è facile, o meno, trovare accordo, intesa, sulle linee guida? Se sulle linee guida c’è accordo, vediamo di capire se c’è altrettanto accordo sullo strumento che poi, di fatto, alle linee guida dà attuazione. Lo strumento che viene dopo la pianificazione e cioè la strumentazione attuativa. Le preoccupazioni che abbiamo come operatori riguardano l’impatto che la pianificazione ha dal punto di vista economico sul prodotto. Quindi, parlerò di ciò che mi compete, cioè prevalentemente della parte del prodotto
so avvengono prima e, avvenendo prima, la permanenza di un rischio, cioè una mancanza di certezza sul valore che è collegato alla destinazione che la pianificazione attribuisce è un’incertezza tale per cui spesso, all’interno di questi elementi, si annidano delle condizioni che creano problematicità nell’attuazione. Forse sarebbe opportuno ribaltare il principio. Ho sentito prima citare la sentenza della Corte costituzionale che ha dato un limite alla durata del vincolo. C’è da chiedersi se non sarebbe opportuno definire un limite alla durata della prescrizione, definendo però che al limite corrisponda anche un diritto, cioè la prescrizione deve essere attuata entro un certo termine. Se non l’attui entro quel termine vi è possibilità di modificarla nel contenuto, anzi c’è la certezza di modificarla nel contenuto. Fino a quel termine però il diritto è certo. Questo darebbe certezza, ma soprattutto la definizione di un termine di scadenza sarebbe utile anche per immettere sul mercato le opportunità che spesso vengono mantenute nel portafoglio. Gli effetti di questo atteggiamento sono deleteri per il mercato perché, di fatto, lo privano della possibilità di avere delle opportunità che, all’interno della pianificazione corretta, sono state puntualmente definite. Sulla certezza ci sono altri aspetti, e lo dico anche con un tono polemico riferito al modo con il quale recentemente il TAR Lombardia sta approcciando una legge della Regione, quella dei sottotetti. Non ne ho certezza, però mi dicono che vi sia una nuova sentenza che interferisce sulla legittimità dell’applicazione della legge. La Regione è stata, recentemente, costretta a intervenire con un provvedimento legislativo per fare chiarezza su alcuni concetti. Che si fosse d’accordo o meno, il TAR aveva dato un’applicazione restrittiva. Pare che ce ne sia un’altra che limiti l’applicazione della legge alle concessioni singole e che, quindi, in quanto vi si vede una distorsione sul principio dello standard ne esclude l’applicazione nei piani attuativi. Ci si dimentica che nella pianificazione esistono degli elementi di carattere sostanziale ed elementi di carattere convenzionale. La legge 1 ha definito un diverso meccanismo di computo dello standard secondo il quale oggi, nell’ambito degli interventi residenziali, il computo deve essere fatto su 150 mc e non su 100. È chiaro che per i piani approvati precedentemente il rapporto è talmente capiente da ricomprendere anche un eventuale aumento insediativo determinato dall’utilizzazione dei sottotetti a fini abitativi. La decisione del TAR, però, è un elemento di incertezza. Questa situazione per la quale l’operatore è in continuo stato di confusione, di fatto, non agevola, non favorisce l’operatività. Un altro aspetto è di natura fiscale: non è possibile pensare di parlare di pianificazione e di territorio senza affrontare il problema fiscale. Pensate che cosa ha significato, e cosa significa ancora oggi, ad esempio, la differenza del sistema fiscale nei trasferimenti. Se un bene è di proprietà di un soggetto fisico si applica una tassa non detraibile, l’imposta di registro. Se un bene è di proprietà di un soggetto giuridico, si applica un’imposta detraibile, l’I.V.A. Ciò significa che il medesimo bene ha un valore diverso in quanto la detraibilità o la non detraibilità costituisce un onere differente per chi l’acquista. Il Parlamento, con la Finanziaria dell’anno scorso, ha finalmente introdotto una norma che riduce l’imposta di registro sui trasferimenti di aree all’interno dei piani attuativi regolarmente approvati. Questo è un passo avanti che però fa sì, che tutti i trasferimenti che avvengono prima della sottoscrizione della convenzione siano sottoposti ancora alla precedente tassazione. Non si riesce a trovare una soluzione, non si riesce a far capire come,
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edilizio, di tutti quegli aspetti che attengono alla trasformazione del territorio, finalizzata alla soddisfazione di un bene che transita attraverso il mercato privato. Ho individuato una serie di problemi sui quali voglio fare qualche considerazione. Il primo è riferito alla semplicità della strumentazione. Faccio un riferimento non polemico a due fatti specifici, ad uno dei quali la Regione Lombardia ha tentato di dare risposta con la legge 1/2000. Per ben due volte il Governo della passata legislatura ha respinto il provvedimento e la Regione è stata costretta a modificarlo. Mi riferisco alla competenza sull’approvazione dei piani attuativi quando questi non comportino varianti sostanziali (parte del problema di cui sopra), competenza che era prevista in capo alla Giunta e che, invece, ancora oggi tocca ai Consigli comunali. In termini di tempo per la trasformazione della pianificazione in operatività è chiaro che si tratta di un rallentamento. Molto probabilmente è il frutto di una vecchia cultura che ritiene che ogni passo della trasformazione debba essere sottoposto a un controllo politico. Se questa è una cultura superata, chiediamo fermamente che la Regione reintervenga con un provvedimento, anche perché, se non lo fa, lo farà il Parlamento. Sarebbe improprio che dopo la definizione della competenza esclusiva alle Regioni, il Parlamento (che un O.d.G. su questo aspetto l’ha già approvato) legiferasse su un aspetto di questo genere. È una sollecitazione puntuale, speriamo che la Regione risponda. Altrettanto puntuale e sempre riferito alla strumentazione attuativa è il problema delle maggioranze per l’approvazione dei piani attuativi: la maggior parte dei piani attuativi prevedono la necessità di un’adesione totalitaria, (l’unanimità dei proprietari). Questo è un terribile vincolo sia per i tempi di presentazione che di approvazione ma soprattutto per gli aspetti speculativi che questo comporta. Spesso stare o essere ultimi significa rivendicare o riconoscere alla propria parte (magari anche marginale) del bene interessato alla trasformazione un valore esasperato. La possibilità di condizionare la realizzazione di un intervento fa sì che l’ultimo che arriva alla fine ottenga un vantaggio esagerato, condizionando e penalizzando in termini di tempo la realizzazione di una prescrizione del piano. La risposta è molto semplice, è quella di prevedere che la presentazione e l’approvazione sia possibile a fronte di una maggioranza qualificata e che, poi, sempre nell’ambito della tutela dei diritti, vengano attivati degli strumenti di tipo costrittivo nei confronti di coloro che non aderiscono. Il riconoscere a una proprietà il valore di mercato non significa prevaricarla, ma porre in ogni caso le condizioni di prevalenza di un interesse, l’interesse collettivo alla trasformazione del territorio, rispetto all’interesse di conservazione di una parte di proprietà privata (qualsiasi sia la ragione legata a questo interesse di conservazione). Il secondo aspetto riguarda la certezza della pianificazione. Quando parlo di certezza, parlo del principio dell’affidabilità. Ho letto recentemente una sentenza del TAR Lazio, all’interno della quale si dice che il principio dell’affidabilità può essere riconosciuto solo quando un piano attuativo è stato convenzionato, non quando un piano attutivo è previsto all’interno del P.R.G. generale. Capite che, nell’ottica dell’operatore, considerato che la trasformazione del territorio ha una serie di passaggi, più o meno brevi (quasi sempre c’è un primo passaggio che è dalla proprietà primaria al promotore se il promotore è il realizzatore, o dal promotore al realizzatore quando la funzione della promozione e della realizzazione sono diversificate), non sempre questi passaggi avvengono dopo la sottoscrizione della convenzione, anzi spes-
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di fatto, questo non sia solamente un impedimento, un vincolo per il mercato, ma anche di per sé un impedimento e un vincolo alla trasparenza, infatti sia colui che cede che colui che compera ha lo stesso interesse a evadere, a eludere. Chi cede, in quanto sottrae alla tassazione della plusvalenza, chi acquista, in quanto paga di meno sull’imposta di trasferimento. Si tratta di una stupidità propria del sistema legislativo. Il legislatore non può affrontare questi argomenti esclusivamente nel momento dell’elaborazione della finanziaria e nella finanziaria la cui unica preoccupazione è il mito della copertura. L’inesistenza della copertura, di fatto, rende impossibile la modificazione di un sistema fiscale. Un altro aspetto altrettanto penalizzante - lo dicevo già prima - riguarda la plusvalenza. Le plusvalenze immobiliari sono tassate diversamente dalle plusvalenze mobiliari. Diversamente e in modo pesante e penalizzante. La finanziaria di quest’anno prevede un meccanismo agevolativo della rivalutazione di circa il 4%, limitata però a un periodo di sei mesi. Lo Stato, che deve fare cassa, ha trovato una nicchia all’interno della quale ricuperare risorse. In realtà le plusvalenze derivanti dal maggior valore delle aree dovrebbero essere concepite nell’ambito di una diversa logica della strumentazione fiscale: il fisco concepito come strumento di sviluppo e non come strumento di prelievo. Per quanto poco ne possa sapere io, in Europa spesso si è utilizzato lo strumento fiscale in termini di incentivazione e di disincentivazione, in alternativa al vincolo. Anziché porre il vincolo, utilizzo l’incentivo e disincentivo. Se nell’ambito della mia pianificazione ritengo che determinate attività debbano essere localizzate in un certo ambito del territorio utilizzo lo strumento dell’incentivazione; se invece non voglio che vengano localizzate in quell’ambito utilizzo lo strumento della disincentivazione fiscale, un principio applicabile ai trasferimenti delle aree, ai trasferimenti dei beni e ai redditi prodotti. La riforma costituzionale attribuisce agli enti locali competenze in materia fiscale, ma non conferisce la capacità legislativa di definire quali siano i beni e quali siano i modi con cui esercitare questa competenza. I Comuni oggi non hanno competenza da questo punto di vista, se non nell’applicazione delle imposte che sono definite dal livello centrale nell’ambito dei limiti delle oscillazioni attribuite, ma non per la gestione del territorio bensì in sostituzione dei trasferimenti correnti. Una considerazione sugli aspetti economico-industriali. Si tratta di una considerazione difficile - spero di riuscire ad essere sufficientemente chiaro - legata al concetto secondo il quale un’area ha un valore intrinseco normalmente commisurato alla sua utilità. Il valore dell’area è sottoposto a crescita incrementativa sulla base di una serie di elementi: la prima è implicita, la localizzazione, che può essere propria (quella di una particolare posizione paesaggistica favorevole per cui, da un punto di vista turistico, un’area può essere più appetibile di un’altra), oppure quella conseguente al modo con cui, complessivamente, il territorio si attrezza. Un’area più attrezzata vale più di un’area meno attrezzata. All’attrezzatura di un’area concorrono, o possono concorrere, risorse private e pubbliche. Prevalentemente concorrono le risorse pubbliche. Qui, a mio avviso, si innesta il problema relativo al modo di gestire il plusvalore determinato dal valore incrementativo dato dalla maggiore attrezzatura dell’area. Il valore dell’area, però, è legato anche ad un aspetto di fattibilità. Fattibilità intesa nel senso di possibilità di trasformarla, quindi utilizzarla, in un tempo più breve. Sulla fattibilità incide la modalità con cui viene gestito il processo economico e industria-
le. Oggi, lo schema classico del processo economico e industriale del prodotto edilizio prevede un proprietario, che normalmente si libera del bene ottimizzando la propria posizione prima dell’avvio della trasformazione, un promotore che può essere promotore puro - come si dice tecnicamente - o un promotore imprenditore. Il promotore puro completa la sua funzione nel momento in cui definisce i contenuti di trasformazione e cede la gestione a un terzo, il realizzatore, che interviene sul bene e realizza quanto è previsto. Ci sono due aspetti: il primo, questo meccanismo allontana l’esigenza dell’utente dalle conoscenze di colui che partecipa alla definizione della trasformazione, perché normalmente è il promotore che partecipa con l’amministrazione alla definizione dei contenuti della trasformazione ed il promotore puro non è a contatto con l’utenza. A contatto con l’utenza è colui che ha un rapporto commerciale con essa, il realizzatore. Questa distanza del promotore dall’utenza può creare dei problemi relativamente alla definizione dei contenuti delle scelte urbanistiche operative, sia in termini qualitativi che in termini quantitativi. Possono sembrare delle banalità ma, se il promotore ha come obiettivo esclusivo di valorizzare, di ottimizzare la
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Lodi, piazza della Vittoria (foto: Marco Introini).
propria posizione, è chiaro che tenderà a metterci il più possibile, perché non ha il problema della collocazione del prodotto, problema di cui si occuperà un altro. Se queste figure, invece, fossero coincidenti, è chiaro che la valutazione potrebbe essere più agevole. È inutile ammassare volumi, prevedere destinazioni, se poi non si vende; è meglio allora contenere le quantità in quanto si ottiene un prodotto di maggiore qualità, di maggiore vendibilità. La seconda considerazione è legata al problema del processo industriale. Più passaggi significano non solamente un aumento del costo, ma una diversa distribuzione del valore aggiunto. Se considerate il mercato oggi, l’incidenza dell’area sul prodotto finito varia da un 20% a un 60 o 70%, cioè l’area incide su un prodotto edilizio per questi rapporti percentuali. Ora capite che, se la qualità è anche contenuta nel prodotto, se il valore aggiunto che è disponibile per chi realizza il prodotto è sempre minore (in quanto è sempre maggiore il valore aggiunto che viene riconosciuto al fattore area, cioè a un elemento che viene prima della produzione, una materia prima che non è modificabile, che non è evolvibile) e minore è il valore aggiunto che viene riconosciuto al tra-
sformatore, meno risorse sono disponibili per una teorica ricerca di innovazioni. Non si tratta solo di una rivendicazione di un ruolo diverso per i costruttori, ma di una sollecitazione a una riflessione su un meccanismo che esclude dalle responsabilità del processo costruttivo i soggetti che nella filiera della trasformazione stanno prima della produzione a cui è invece riconosciuta la maggior quota di valore aggiunto dell’operazione. Il proprietario ed il promotore infatti mantengono un obbligo di solidarietà solo nei confronti delle previsioni delle convenzioni attuative, ma nessun obbligo di responsabilità invece nei confronti del prodotto finale. Sarebbe necessaria qualche riflessione su come perfe-
nità, tendenzialmente, sono inferiori alla domanda. La realtà è diversa. Sappiamo che la maggior parte delle situazioni, la sommatoria delle potenzialità della pianificazione, sono esuberanti rispetto alla domanda. Lo squilibrio è un effetto della disinformazione. Se tutte le informazioni fossero gestite in un modo univoco, molto probabilmente perseguiremmo due obiettivi: il primo, dare al pianificatore informazioni più puntuali; il secondo, dare al mercato una possibilità di scelta che prescinda o sia meno dipendente dall’intermediazione. Noi abbiamo fatto una bellissima esperienza - purtroppo bloccata da quattro mesi - con il Comune di Milano, l’Urban explorer. Questa esperienza si è evoluta nel si-
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Pavia, piazza del Duomo (foto: Marco Introini).
zionare questo processo facendo estendere la responsabilità del promotore, verso l’attività del realizzatore, oppure estendendo l’attività del realizzatore a quella del promotore. Un’ultima considerazione sul monitoraggio. Il monitoraggio ha due funzioni. La funzione di far circolare o organizzare le informazioni per consentire di meglio pianificare e la funzione, molto importante per gli operatori, di ridurre il potere dell’intermediazione. Oggi, le informazioni sulle potenzialità di trasformazione del territorio sono come segretate. Sono informazioni difficilissime da governare a sistema. Neppure la Regione ha una gestione complessiva dell’informazione e questo fa sì che il mercato non abbia le necessarie informazioni territoriali. Ci si basa sull’opportunità per come viene presentato dalla intermediazione, e questo significa che esiste un rapporto sbilanciato tra domanda e offerta. Chi offre un’opportunità è più forte di chi la compera in quanto le opportu-
stema informativo territoriale del Comune di Milano. Da un punto di vista dell’informazione della pianificazione, ci sono all’interno di questo strumento cose semplici che consentono di capire come la sovrapposizione delle informazioni, l’anagrafe, la residenza, il patrimonio pubblico, ad esempio, consenta al Comune di Milano di conoscere qual’è il livello di copertura di certi bisogni con riferimento ai servizi che oggi il territorio offre. È possibile attribuire a quella domanda una capacità di soddisfazione in ambito territoriale, cosa che prima era data dalla risultanza di una serie di sovrapposizioni di informazioni che provenivano da una molteplicità di uffici. Il prodotto c’è, è ripetibile su tutte le realtà territoriali. Chiudo polemicamente se mi consentite, su due aspetti per i quali noi operatori ci troviamo in difficoltà rispetto ad alcune posizioni degli architetti. La prima riguarda il ricorso sul bando della Scala cui ha fatto seguito la sentenza della Corte di Giustizia della Comunità e per cui
Gianfredo Mazzotta Due considerazioni, che meritano un approfondimento, emergono dai discorsi dei relatori. Queste riguardano soprattutto i temi della semplificazione degli strumenti urbanistici attuativi, temi che si legano al discorso della flessibilità e la questione della sussidiarietà. La prima domanda è la seguente: come si concilia la flessibilità, con la partecipazione e con la necessità di dare una serie, seppur minima, di regole comuni, a tutti i diversi attori in gioco? Partendo da una considerazione dell’avvocato Sala, e cioè, che la regione Lombardia è composta da piccoli Comuni e da realtà territoriali sicuramente molto complesse per la loro struttura morfologica, nasce la seconda domanda: la flessibilità non dovrebbe essere comunque accompagnata da regole flessibili, ma che comunque fissino delle invarianti che permetteranno poi, a chi opera nei piccoli Comuni, di non interpretare le indicazioni regionali, ma di avere basi comuni? La seconda considerazione riguarda ancora i piccoli Comuni e si lega a un’esperienza “problematica”, quella dell’attuazione della legge regionale 18/97, della difficoltà d’applicazione del principio di sussidiarietà, soprattutto, per quanto riguarda gli aspetti ambientali, cioè il passaggio di competenze dalla Regione ad Amministrazioni comunali che, con tutta la buona volontà, mancano di strumentazione e risorse. Per concludere mi preme sottolineare come oltre alle risposte date, l’avvocato Sala abbia rimandato alla esaustiva soluzione dei problemi sollevati con la volontà di continuare un percorso iniziato in questo convegno, per affinare e integrare il documento regionale. Perciò mi sembra interessante rilanciare quello che è stato detto dal professor Beltrame: l’opportunità di non far morire oggi le domande, le proposte emerse, ma di ritrovarci in un momento intermedio di verifica, prima della defini-
zione finale della legge, per capire e “controllare” il recepimento delle istanze oggi sollevate. Per chiudere mi sembra importante ribadire che questo Convegno è nato dagli Ordini, da tutti gli Ordini della Lombardia che hanno creduto di voler e di dover dare un contributo forte per il rinnovamento della disciplina e per far sentire la propria presenza sui temi che più interessano la nostra professione. Per questo motivo tale manifestazione ha un duplice valore, di contributo verso la Regione per una migliore definizione della legge urbanistica, più vicina alle esigenze di chi opera. In secondo luogo rappresenta il valore del gruppo, di chi crede che unendosi si possa realmente agire per cambiare le cose. Giuseppe Sala Vorrei riprendere alcune considerazioni che ho ascoltato con molto interesse. Il dottor Torretta ha posto l’accento su fatti che per la maggior parte dipendono dalla competenza statale: ad esempio, l’approvazione di piani attuativi all’opera della Giunta regionale o della Giunta comunale anziché ad opera del Consiglio comunale in quanto la Giunta delibera a conferma del P.R.G. Questo, secondo la legislazione statale, è uno dei princìpi dell’autonomia e, quindi, bisogna che sia disciplinato come ha fatto il Testo Unico sugli enti locali 267. Pare che adesso si stia raggiungendo la soluzione, ma questa non può essere solamente di carattere nazionale. Parimenti è da dire per la D.I.A. che può essere disciplinata dalla Regione. Quanto, invece, agli altri due aspetti (la semplificazione fa parte anche di questo): i piccoli Comuni che la legge regionale 18/97 ha gravato di compiti ma non di finanze, come fanno? La risposta è stata data. Giustamente la Regione ha coinvolto esperienze diverse per studiare questa nuova legge e ha ascoltato gli economisti che, chiaramente, indicano che non si possono dare compiti senza mezzi finanziari. Non si possono enunciare princìpi della perequazione, della flessibilità, senza attribuire risorse. La convinzione regionale è che si debba farlo e lo stesso Assessore Moneta ha indicato che tutti devono concorrere ad aiutare a formare questa legge. Si tratta di un’occasione storicamente particolare. Certo, io considero gli aspetti giuridici, altri vedono l’aspetto tecnico, altri vedono l’aspetto economico. Gli architetti considerano le norme come progettisti; i costruttori le considerano come operatori. Vediamo se insieme riusciamo a trovare il cemento comune per lavorare a realizzare questa nuova struttura legislativa. Piero Torretta Condivido quanto ha detto l’avvocato Sala. Ritengo che sia un’occasione, un’occasione storica, non casuale. Ormai di riforme in Regione Lombardia ne parliamo da vent’anni. Siamo andati avanti a piccoli passi. Devo ritenere che molti dei provvedimenti succedutisi negli ultimi dieci anni sono stati finalizzati alla semplificazione, a migliorare l’efficacia degli interventi. Di fatto, arriviamo oggi alla consapevolezza del superamento della vecchia concezione di piano. Questo è il vero problema. Oggi la presentazione da parte della Regione di linee guida ne è, di fatto, la sintesi. È chiaro che non dobbiamo cadere da un eccessivo regime vincolistico a uno di liberalizzazione. Dobbiamo trovare un giusto equilibrio, all’interno del quale penso che i contributi e le esperienze di tutti noi siano fondamentali. Auspico che la Regione, come del resto ha più volte annunciato, utilizzi le sollecitazioni e i contributi degli operatori per costruire un sistema normativo che sia più corrispondente alle esigenze di istituzione del territorio.
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ormai il legislatore sta cercando una soluzione. Non entro nel merito del principio, ma sulle conseguenze. Di fatto, oggi il richiamo della Comunità all’applicazione delle direttive fa sì che all’interno di piani attuativi opere di urbanizzazione a scomputo di valore unitario superiore a 5 milioni di Ecu non siano più eseguibili direttamente dall’operatore ma debbano essere realizzate sulla base di concorso pubblico. Con tutti i problemi che ne conseguono, non perché il concorso pubblico non sia una strada ma perché, purtroppo, il concorso pubblico è un modo con il quale non si arriva a uno stato di qualità. È stupido obbligarci, all’interno di iniziative che nulla hanno a che fare con il pubblico, ad adottare strumenti che apportano al sistema pubblico le loro cose peggiori. Se non si riesce nell’ambito del sistema pubblico, con le regole vigenti, a rispondere alle esigenze della collettività, cioè a fare opere di qualità nei tempi stabiliti, ci sarà una ragione. Non può essere solamente colpa delle imprese. La ragione sta nelle regole, in un sistema di regole che, persegue, o privilegia, prevalentemente l’aspetto formale rispetto a quello sostanziale. Il secondo aspetto riguarda l’appalto integrato. Noi abbiamo una posizione, gli architetti ne hanno un’altra. Io non capisco la perplessità o la preoccupazione di dover lavorare per conto delle imprese anziché lavorare per conto della Pubblica Amministrazione. I progetti si devono fare sia nell’appalto integrato che nell’appalto normale. Cambiano i riferimenti. Nell’appalto integrato l’interlocutore è il mondo imprenditoriale. Nell’appalto normale l’interlocutore è la Pubblica Amministrazione. Io sinceramente, dovendo scegliere oggi, sceglierei un rapporto con un committente privato piuttosto che con la Pubblica Amministrazione.
Atti del Convegno di Bergamo Linee guida per la riforma urbanistica regionale
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Il Convegno “Linee guida per la riforma urbanistica regionale”, promosso dall’Ordine degli Architetti della Provicia di Bergamo, si è svolto a Bergamo il 5 dicembre 2001 Sono intervenuti: • arch. Achille Bonardi, Presidente Ordine degli Architetti della Provincia di Bergamo • arch. Fernando de Francesco, Responsabile Commissione Urbanistica dell’Ordine degli Architetti della Provincia di Bergamo • ing. Mario Rossetti, Dirigente Assessorato Urbanistica e Territorio Regione Lombardia • dott.ssa Alessandra Cingoli, Funzionario Struttura Giuridico Territoriale. Direzione Territorio Regione Lombardia • ing. Giuliano Lorenzi, Dirigente del Settore Politiche del Territorio della Provincia di Bergamo • dott. Silvio Albini, Vicepresidente dell’Unione degli Industriali della Provincia di Bergamo • dott. Antonio Purcaro, Rappresentante Unione Nazionale Segretari Comunali e Provinciali. Unione di Bergamo • dott. Daniele Ravagnani, Presidente dell’Ordine dei Geologi della Lombardia • geom. Gianvittorio Vitali, Presidente del Collegio dei Geometri della Provincia di Bergamo • ing. Sergio Sottocornola, Rappresentante dell’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Bergamo • avv. Ettore Tacchini, Presidente dell’Ordine degli Avvocati della Provincia di Bergamo • dott. Alessandro Moneta, Assessore al Territorio e Urbanistica della Regione Lombardia • dott. Roberto Ghidotti, Rappresentante Associazione Esercenti e Commercianti della Provincia di Bergamo • dott. Claudio Re, Funzionario della Confesercenti della Provincia di Bergamo • dott. Luigi Nappo, Assessore all’Urbanistica del Comune di Bergamo • arch. Felice Sonzogni, Assessore al Territorio, Trasporti e Infrastrutture della Provincia di Bergamo Achille Bonardi Il convegno, che gode del patrocinio della Regione Lombardia, della Provincia e del Comune di Bergamo, è stato organizzato con un duplice obiettivo: il primo è approfondire, grazie all’intervento dei relatori, le linee guida della riforma urbanistica regionale e il secondo offrire l’opportunità sia al mondo professionale che imprenditoriale di fornire suggerimenti e proposte affinché sia raggiunto il più ampio consenso sulle scelte che la riforma urbanistica regionale andrà ad attuare. Ritengo che quest’incontro rappresenti un’occasione di importanza peculiare per tutti gli oratori del settore poiché in Lombardia, con l’introduzione della riforma urbanistica regionale, si prevede la redazione di un nuovo testo unico relativamente a tale disciplina. Avverrà un cambiamento sostanziale sia di normativa che di prassi che di consuetudine,
un cambiamento di indirizzo, che per dare nuovi frutti, ha bisogno sin d’ora di una serie di adeguate misure aggiuntive anche culturali nei confronti degli amministratori locali, dei professionisti e degli imprenditori. Grazie alla collaborazione prestata da partner d’eccezione qual’è la Regione Lombardia sarà possibile realizzare, a conclusione di questa giornata, una tavola rotonda finalizzata a meglio individuare le problematiche legate alla tutela, alla valorizzazione e alla gestione del territorio anche attraverso una sempre più graduale interazione e coinvolgimento delle istituzioni locali per rispondere in termini reali alle esigenze di cambiamento che la nostra società richiede. Augurandomi che questo convegno costituisca preludio a ulteriori momenti di dialogo e confronto, ringrazio tutti voi per la partecipazione. Fernando de Francesco Vorrei illustrare innanzi tutto il senso del Convegno che intende proporre, sintetizzando, ciò che ci si aspetta sia inserito in ciò che sarà questa nuova riforma. La Regione Lombardia si accinge a compiere questo rilevante sforzo di produzione legislativa dopo oltre 26 anni dalla promulgazione della sua prima legge urbanistica. Il compito che attende il legislatore regionale non si presenta certamente facile. Non sappiamo, al momento, se si intende operare attraverso la divulgazione di un testo unico oppure soltanto con una nuova disciplina urbanistica che assorba alcune scelte significative del passato, sia pure recente. È nostra opinione che questo primo incontro sulle linee guida non debba essere fine a se stesso, ma debba proseguire nel tempo. Anche in questo lasso di tempo sarà essenziale che le aggregazioni che abbiamo ritenuto opportuno invitare a questo incontro, continuino a fornire alla Regione ulteriori approfondimenti e contributi, relativamente alle linee guida che, obiettivamente, ad una prima lettura, possono anche risultare, per alcuni, generiche, ma che nella loro sostanza contengono una grossa peculiarità poiché esse stesse possono essere approfondite, ampliate e specificate. Io penso che tutti coloro che operano a diverso titolo sul territorio e che oggi ho l’opportunità di ringraziare per la loro presenza e fattiva partecipazione, sappiano ormai che cosa significa produrre uno strumento urbanistico. Uno strumento di pianificazione territoriale equivale alla realizzazione di una serie di piccoli miracoli, considerando, tra l’altro, che oltre alle difficoltà intrinseche dovute alla vera e propria programmazione è necessario confrontarsi anche con le regole dettate dalla giustizia amministrativa, e in qualche caso, anche con la stessa giustizia ordinaria, capaci, a posteriori, di vanificare, in tutto o in parte, il lavoro svolto da progettisti, dai dirigenti pubblici, dagli amministratori e dagli stessi rappresentanti eletti dai cittadini che agiscono nei Consigli Comunali. Un esempio emblematico, di là dalla miriade di casi citabili, è rappresentato dal fatto che nelle nostre realtà montane, l’esigua consistenza di alcune entità amministrative comporta
approccio alle problematiche insite nella programmazione del territorio e della produzione della strumentazione urbanistica. Traspare, infatti, in tutte le sue accezioni che la nuova normativa si indirizzerà verso coloro che saranno capaci di ridisegnare, modellare e modificare il territorio non più come semplici progettisti, bensì quali programmatori. È questa centralità, più volte ribadita, della programmazione che, ritengo, rappresenterà la chiave di volta che dovrà presiedere ad ogni azione volta attuare qualsiasi intervento da realizzare sul territorio, al fine di valutarne, a priori, la sua sostenibilità. Senza questa grande novità, penso, non avrebbe alcun senso parlare di piano dei servizi, non avrebbe alcun senso parlare di partecipazione, di programmazioni ai vari livelli e di invariabili, così come sono individuate nelle linee guida. Queste invariabili, ove venissero ancora una volta considerate e valutate concettualmente secondo la vecchia concezione, rappresenterebbero veri e propri vincoli calati sul territorio, ma se queste, saranno valutate a partire dal nuovo concetto di “realtà programmatoria”, rappresenteranno veri e propri momenti di concertazione attuati da tutti coloro, operatori pubblici e/o privati, che saranno interessati all’individuazione di obiettivi comuni da perseguire entro termini certi. Appare quindi estremamente chiaro che il problema, posto in questi termini, non tratterà più l’imposizione di azioni vincolanti, bensì la ricerca di concordi azioni da attuare sul territorio per perseguire traguardi da raggiungere progressivamente nell’ambito di un quadro di riferimento più vasto di programmazione armonica e perequata del territorio. La Commissione Urbanistica del nostro Ordine, sia pure in tempi ristretti, ha cercato di produrre un documento che farà parte delle comunicazioni da inviare alla Regione e a tutti coloro che riterranno di essere interessati all’approfondimento ulteriore di queste tematiche e di cui mi accingo a dare lettura. Ordine degli Architetti della Provincia di Bergamo Commissione Urbanistica La Regione Lombardia ha operato in questi ultimi anni un’indubbia e significativa accelerazione nel campo della produzione legislativa relativa alla gestione del territorio. È solo il caso di ricordare, a puro titolo esemplificativo e non esaustivo, le varie leggi di subdelega di funzioni amministrative che spaziano dalla gestione delle cave e discariche alla tutela del paesaggio, dalla regolamentazione edilizia degli interventi relativi all’isolamento termico dei fabbricati esistenti alla regolamentazione degli interventi di recupero dei sottotetti, dall’individuazione dei criteri per la redazione dei Regolamenti Edilizi (con produzione anche di un testo tipo) alla totale gestione delle procedure approvative dei vari strumenti urbanistici a livello locale, per non parlare della innovativa L.R. 22/99 che ha portato una vera e propria rivoluzione procedurale relativamente all’uso della D.I.A. oltre che introdurre innovative norme in materia di parcheggi. La vera svolta innovativa, a parere della Commissione Ur-
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che i legami familiari e la conseguente incompatibilità derivata, può determinare l’impossibilità di produrre qualsiasi strumento di disciplina urbanistica del territorio, stante le vecchie leggi, tuttora vigenti; in questo caso trattasi delle norme che disciplinano i vincoli di parentela così come previste dalla legge comunale e provinciale che, in taluni casi, possono inficiare qualsivoglia sforzo di tipo programmatorio. È altresì noto a tutti come i più recenti pronunciamenti del TAR, del Consiglio di Stato e della stessa Corte di Cassazione, abbiano messo in discussione alcune certezze normative, soprattutto relative al territorio lombardo, che ormai erano entrate a far parte del nostro usuale repertorio operativo e procedurale. La Regione Lombardia ha saputo rispondere tempestivamente con provvedimenti legislativi di interpretazione autentica delle norme in questione, ma questa non credo possa sempre essere la soluzione idonea per risolvere i problemi che attengono i rapporti Stato–Regione. Guardo, quindi, con preoccupazione a questo stato di cose poiché esse rappresentano ulteriori “intoppi” alla funzionalità della legislazione non solo vigente, ma anche in fieri. Bisognerà riflettere con estrema attenzione sulle conseguenze dell’ultima riforma costituzionale in tema, ad esempio, di eliminazione del controllo governativo. Questo vasto campo, rimasto libero, abbiamo costatato come sia stato oggetto di immediata e facile occupazione da parte della magistratura amministrativa ed in qualche caso anche da quella ordinaria. Sotto il profilo eminentemente normativo abbiamo notato, in questi ultimi anni, un’inversione di tendenza nella produzione legislativa regionale. Alcuni poteri ed alcune funzioni amministrative sono state delegate a seguito dell’entrata in vigore di normative aventi per oggetto il decentramento. C’è stato un vero e proprio salto di qualità dovuto soprattutto alla possibilità di produzione diretta da parte degli stessi Comuni di propri atti pianificatori perfetti, tali cioè di essere idonei a produrre, in sede locale, l’approvazione di alcuni fatti importanti sia in termini di modificazioni di strumentazione urbanistica attuativa, sia di programmazione generale, a mezzo di varianti parziali. Ritengo che la discussione sui contenuti di queste linee guida rappresenti un momento estremamente importante poiché dalla loro lettura traspare la volontà di instaurare un nuovo modo di porci rispetto alla politica del territorio; traspare, in altri termini, la necessità che anche noi, che operiamo costantemente sul territorio, ci si ponga il problema di un necessario cambiamento operativo. Dobbiamo fare un esame di coscienza e verificare se effettivamente fino ad oggi noi abbiamo agito in termini corretti sul territorio o quanto meno se fino ad oggi abbiamo operato per garantire che il territorio possa ancora costituire oggetto di “eredità” futura. In alcuni casi, lo dobbiamo riconoscere con franchezza, abbiamo agito dissennatamente tant’è che abbiamo letteralmente dilapidato questo bene irriproducibile. Le linee guida oggi ci propongono un diverso metodo di
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banistica dell’Ordine degli Architetti della provincia di Bergamo, è avvenuta con l’entrata in vigore della L.R. 9/99 con la quale la Regione ha innescato un processo culturale irreversibile nel concepire gli interventi sul territorio legati alla programmazione degli stessi nel tempo ricercando, contestualmente, le giuste e dovute garanzie realizzative. È stata la fine della demonizzazione dell’urbanistica contrattata che ha lasciato il posto al più corretto concetto di urbanistica concordata in relazione agli specifici ed originali ruoli svolti in piena ed assoluta autonomia dall’Ente Pubblico e dall’Operatore Privato (che, tra l’altro, non risulta più depositario di un diritto ad edificare in virtù di un’opportuna rappresentazione grafica di piano, bensì deve “guadagnarsela”, concertandola con la Pubblica Amministrazione) per il raggiungimento di fini comuni. Ciò che è stato colto dalla lettura delle Linee guida per la riforma urbanistica regionale è la convinzione che anche il tempo dell’urbanistica concordata volga al termine per far nascere una nuova stagione: quella della concertazione urbanistica territoriale. Concertazione che non può che essere la logica conseguenza della centralità che il documento assegna, privilegiandolo, al momento programmatorio rispetto a quello pianificatorio. Il processo di modernizzazione finora seguito dalla Regione Lombardia per aggiornare la sua ultra venticinquennale normativa urbanistica, pur apprezzabile dal punto di vista dello sforzo profuso, ha, in qualche caso, creato scompensi e disomogeneità complessive nel corpus normativo che necessitano di un generale riallineamento attraverso l’emanazione di una nuova normativa organica, complessiva ed unica. Alla pianificazione territoriale, in generale ed allo stesso P.R.G., in particolare, è mancato quel carattere e quella valenza di natura programmatoria, legata ad obiettivi e tempi realizzativi certi, mentre si è avuta la presunzione di pianificare sempre in modo omnicomprensivo o comunque in assenza di linee guida generali a livello sovracomunale e spesso, anche comunale. Riteniamo importante la distinzione che appare nel documento regionale tra il concetto di “programmazione“ e quello di “pianificazione”; la prima quale riferimento principale e come punto di partenza dei conseguenti atti pianificatori, la seconda, con la sua articolazione nei diversi livelli di dettaglio, (territoriale, urbanistica generale e/o attuativa, settoriale), come rappresentazione delle scelte programmatiche ricadenti sul territorio. Appare correttamente applicato il concetto di sussidiarietà sia orizzontale sia verticale nella sua finalizzazione a garanzia della corretta identificazione del grado di sostenibilità delle scelte pianificatorie al fine di governare altrettanto correttamente le modificazioni indotte sul territorio e sul tessuto sociale ed economico. Da ciò l’auspicio che sia contemperata nel suo giusto valore l’esigenza di instaurare metodologie di confronto e partecipazione sin dalla fase di definizione degli obiettivi generali (fase programmatoria) al fine di valutare, verificare e con gli opportuni eventuali correttivi, conseguire la compatibilità fra le scelte territoriali da attuare ai vari livelli di pianificazione. Partecipazione che deve vedere gli Enti sovracomunali, Regione e Provincia capaci di svolgere i rispettivi ruoli guida e di coordinamento finalmente liberati dall’imposizione di scelte preordinate, bensì capaci di mediare e superare, anche perequandone oneri ed onori, gli immancabili localismi che le invariabili programmatorie fatalmente proiettano sul territorio. Rispetto all’obiettivo indicato nel documento, che si condivide, di favorire le forme di riutilizzo del patrimonio immobiliare edificato, per non compromettere il suolo libero o il patrimonio agricolo, potranno essere studiate forme incentivanti atte a promuovere il recupero edilizio del tipo: • stabilire sgravi fiscali o riduzione degli oneri di urbanizzazione
da versare nell’ambito degli interventi di recupero soggetti a concessione onerosa, per quanto concerne l’azione dei privati; • garantire maggiori possibilità di contribuzione regionale per i lavori pubblici comunali volti al recupero di aree già urbanizzate, anche a scapito di quelli indirizzati all’urbanizzazione di aree libere. Appare necessario sempre più favorire (se non addirittura pretendere) la formazione di strumenti urbanistici effettivamente perequativi, che propugnino modelli di perequazione, compensazione e sostituzione. Sinora solo alcuni P.R.G. comunali hanno sperimentato questa strada in poche realtà avanzate: ora, in concomitanza con l’emanazione del Testo unico sugli espropri (vigente dal prossimo 1°gennaio) e con le nuove indicazioni normative relative alla necessità di indennizzare i privati in caso di reiterazione dei vincoli preordinati all’esproprio, appare prioritario stabilire norme che distribuiscano da una parte i diritti volumetrici e dall’altra il peso dei servizi pubblici e delle urbanizzazioni, necessarie d’altronde a garantire la qualità degli insediamenti previsti, in modo equo e bilanciato tra tutti i proprietari delle aree. La conseguenza della mancanza di una nuova generazione di Piani così concepiti, porterà le Amministrazioni Comunali a dover sopportare fra qualche anno (e forse anche prima) oneri economici rilevanti, probabilmente in molti casi non affrontabili a causa delle sempre più ridotte capacità di spesa dell’Ente Locale, oppure saranno impossibilitate a programmare e pianificare un equilibrato ed armonico sviluppo urbanistico del proprio territorio. Forme nuove di perequazione potrebbero prevedersi nel contempo dagli organismi sovracomunali, per compensare ad esempio quei Comuni che, in certi casi, subiscono scelte localizzative di carattere territoriale, oggi imposte senza che gli stessi ne traggano particolari vantaggi o addirittura scelte foriere di soli svantaggi, come quando si progettano e si realizzano importanti infrastrutture che non sempre offrono vantaggi diretti in modo omogeneo a tutte le collettività locali (si pensi ai traffici indotti creati dall’insediamento di una grande struttura di vendita o a certe infrastrutture che pur attraversando un territorio comunale, senza il benché minimo interscabio con lo stesso, lo penalizzano senza offrire contropartite; in questi casi si potrebbe pensare a contribuzioni economiche o garantire la realizzazione di opere pubbliche necessarie alla collettività, o al potenziamento di quelle eventualmente entrate in crisi). Basterà per raggiungere un tale obiettivo che anche la programmazione territoriale sovracomunale si doti di un Piano dei servizi? Se sapremo voltare pagina in sede di programmazione e partecipazione la risposta non potrà che essere positiva. Per monitorare le ricadute della programmazione generale e dei diversi livelli di pianificazione, appare strategico ed essenziale individuare strutture e modalità di verifica delle dinamiche sociali e territoriali, efficaci e garanti della partecipazione dal basso delle scelte anche macroterritoriali. Le forme di partecipazione devono essere sperimentate sempre più, monitorate costantemente ed affinate nel tempo, configurandosi come coinvolgimento il più allargato possibile di soggetti pubblici e privati. Dette forme di partecipazione ed il nuovo modello di pianificazione devono legarsi ad un sistema informativo sempre più strutturato nelle diverse realtà e nel suo insieme come rete di flusso costante di dati ed informazioni fra tutti i soggetti coinvolti nella gestione del territorio (Comune, Provincia, Regione) per consentire una costante verifica della stessa e, nel caso, una flessibile correzione programmatoria. La partecipazione e la concertazione sulle scelte non può più giustificare nel futuro la debolezza ed in alcuni casi, l’assenza degli organismi sovracomunali (Regione e Provincia) nel ruolo di guida delle linee di sviluppo economico e territoriale. Sarà essenziale provvedere a predisporre ed approvare i
Mario Rossetti Intendo iniziare il mio intervento cercando di spiegare il metodo adottato dalla Regione nell’affrontare la revisione della normativa urbanistica. Al momento dell’insediamento della giunta è stato costituito un gruppo di lavoro perché ritenevamo si dovessero rivedere le leggi che intervenivano per parti sul corpo della legislazione urbanistica regionale. Era arrivato il momento di affrontare una ricomposizione della normativa anche a fronte delle esperienze maturate dall’applicazione di queste leggi. La commissione si è innanzitutto occupata del dibattito culturale in corso nel paese. Ricordo che è da anni che si parla della riforma urbanistica nazionale. L’Istituto Nazionale di Urbanistica, anni fa, aveva fatto una proposta che alcune regioni avevano adottato. Il dibattito stentava a prendere consistenza infatti molti ritenevano l’urbanistica una disciplina superata, inutile e dannosa. Ci siamo chiesti se si trattasse di un problema di normativa e se fosse necessaria un’ulteriore semplificazione. Come Regione avevamo già proposto il trasferimento per delega di alcune competenze cosa consentita istituzionalmente. Ci siamo allora chiesti cosa stesse producendo questa esperienza, se ci fosse la necessità di semplificare ulteriormente la normativa. Da questo momento abbiamo cominciato a confrontarci con questa commissione interdisciplinare composta da pianificatori, ingegneri, architetti e avvocati e, su mia personale insistenza, da una persona esperta in economia del territorio, competenza ancora poco accettata ma il cui coinvolgimento riteniamo fondamentale. Abbiamo cercato di capire se la disciplina fosse ancora quella di anni fa o se ci fosse stata una necessità di ripensamento e, se questo ripensamento fosse già in atto. Da ciò è nata l’idea di proporre al dibattito professionale e culturale del mondo accademico, degli operatori e delle istituzioni in genere, una riflessione relativa agli aspetti disciplinari della materia. La legge 51 è stata un’ottima legge. Alcuni si sono scandalizzati per il fatto che si volesse porre mano a una revisione della legge 51, per quei tempi molto avanzata. Confrontandoci siamo arrivati a ritenere che è opportuno comprendere cosa devono contenere gli strumenti individuati e come devono essere fatti, come garantire la partecipazione di tutti, dell’operatore privato come pure dei cittadini. Ma veniamo al nostro tema specifico. La riforma prevede delle competenze per il governo del territorio. Il problema, a questo punto, non è più l’urbanistica ma il governo del territorio. Su di esso intervengono, volenti o nolenti, le istituzioni a diversi livelli, con diverse competenze tutte necessarie a garantire lo sviluppo delle comunità locali. Occorre un ente che possa pianificare, programmare e realizzare i servizi e le infrastrutture necessarie allo svolgimento delle relazioni che intercorrono tra le diverse comunità. Una Regione ha il compito di garantire a tutta la sua comunità la salvaguardia dei sistemi territoriali-ambientali e nello stesso tempo ha un preciso ruolo all’interno dello stato e ancor più dell’unione europea. Credo che sia impensabile, per il comune e la città di Milano, governare da soli una competizione in-
terna al sistema europeo e internazionale. C’è bisogno della collaborazione di tutte le comunità e di un ente garante. Il governo del territorio è da una parte un problema istituzionale, e dall’altra un problema di valutazione dei programmi e dei piani di espansione. Esso si occupa del “cosa fare”, di come produrre lo sviluppo, come rapportarlo all’ambiente complessivo, come garantire sostenibilità a ciò che viene proposto. Tutto questo ci ha fatto ritenere che non si stesse vivendo un momento di normale individuazione di nuove norme, ma che occorresse un confronto sui princìpi fondanti la materia che potesse portare all’individuazione degli strumenti adeguati a garantire il raggiungimento di determinati obiettivi. Da qui la ragione di presentarsi con un volumetto sintetico che riteniamo sia comprensivo degli elementi a fondamento della riforma disciplinare e che consentono una via al dibattito. Volevamo dare avvio al dibattito e riteniamo che lo scopo si stia raggiungendo. Abbiamo realizzato una serie di incontri: un convegno il 30 novembre, oggi a Bergamo e un convegno della consulta degli architetti il 14. Vogliamo capire, con le nostre amministrazioni, con i comuni e le province che stanno svolgendo questa esperienza per la prima volta, quali sono i problemi per comprendere come meglio si possa rispondere con la normativa. A questo fine ci siamo incontrati con le province e con i comuni di una certa dimensione che hanno particolari problemi, con comuni medi e con comuni piccoli perché i contenuti degli strumenti per la programmazione di tipo territoriale devono potersi diversificare a seconda delle dimensioni del comune. Non è pensabile che comuni piccoli debbano proporre, come sta avvenendo in alcune regioni, due livelli, o addirittura tre, di piano. È il caso di dialogare con le province per vedere che quadro di riferimento adottare. Serve fare un piano che coinvolga l’universo del territorio comunale, grande o piccolo che sia, oppure è fondamentale cominciare a fissare un patto sociale istituzionale, verticale ma anche orizzontale? Cosa dobbiamo salvaguardare? Non sto parlando ovviamente della casetta o delle esigenze locali, ma di fatti significativi che trainano lo sviluppo di un determinato territorio: non solo di quel comune, ma anche di comuni molto più grandi. Vengo alla legge 9, una legge che ha introdotto una rivoluzione culturale nell’approccio a questa materia, non tanto per la normativa che semplifica, ma per ciò che riguarda il ruolo del privato. Questo è un argomento che non è mai stato sottolineato, ma che ritengo essere l’essenza della legge. La legge 9 sostiene che su un’area di particolare degrado, un’area dismessa, situata nel cuore della città il privato non gode di alcun diritto, nel senso che non gli si riconosce niente. Il privato deve concertare con l’amministrazione pubblica, con la comunità. La legge 9 riconosce non da subito un diritto d’uso del territorio, ma dopo una concertazione con l’amministrazione pubblica. Certo all’interno di un quadro trasparente e programmatico, l’amministrazione deve, per forza di cose, sapere dove vuole andare, dove vuole portare la comunità e il tipo di comunità che vuole avere; questo passaggio è fondamentale. Ci siamo chiesti se fosse possibile generalizzare un concetto di questa natura e in caso affermativo quali fossero gli strumenti necessari. Da qui nasce il contenuto di queste poche pagine che vi sono state presentate. Esse danno una possibile risposta ai contenuti nuovi degli strumenti, al fine di poter gestire un’urbanistica di tipo concertale. Da ciò una forte rilevanza dell’aspetto programmatorio anche da parte degli enti locali. Il tutto non deve essere visto come un semplice disegno su carta, ma in quanto valutazione delle reali capacità e dei problemi di un territorio per poter far si che l’amministrazione offra un quadro di certezze e assuma impegni precisi nei confronti del privato. Vengono individuati gli strumenti con dei contenuti minimi, ma soprattutto viene impostato il concetto di flessibilità e dinamicità della pianificazione e della programmazione. Flessibilità perché essa richiama un’ipotesi di annullamento delle regole.
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Piani sovracomunali previsti e mettere in campo una fattiva opera di coordinamento e programmazione capace di superare eventuali localismi per realizzare senza indugi tutte quelle opere d’interesse pubblico ritenute essenziali allo sviluppo regionale e provinciale costituenti, altresì, la griglia infrastrutturale di supporto alla pianificazione comunale. Allo stato dell’arte non ci è dato sapere se si tratterà di un Testo Unico frutto di collage di norme esistenti o di una nuova legge capace di assorbire le scelte del passato; con tutta probabilità, viste le innovazioni che traspaiono dalle linee guida, il nostro auspicio è che veda la luce un qualche cosa che non sia né l’uno, né l’altro caso, poiché dovrà essere, senza dubbio, qualcosa di nuovo.
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In un’ipotesi di questa natura le regole sono diverse, ma è necessario dare loro certezza. Sottolineo l’aspetto relativo alla dinamicità degli strumenti, che significa poterli adeguare in tempi reali a fronte di nuove opportunità, ma anche la valutazione e la misurazione ex-ante dell’opportunità e delle proposte fatte. Le proposte devono essere valutate nella loro sostenibilità economica, ambientale e sociale. L’obiettivo che ci poniamo è arrivare alle norme in tempi anche rapidissimi approfondendo l’approccio alla materia. La pianificazione territoriale ha un ruolo forte perché consente di istituire un patto all’interno dell’ente proponente, e tra gli enti, un patto che consente di dire alla comunità qual è il quadro entro cui ci si vuole muovere, quali sono le certezze offerte, cosa s’intende sottrarre a una possibile trasformazione. La pianificazione territoriale è l’unico strumento in grado di offrire questa certezza. Le amministrazioni e le istituzioni devono poter dialogare a tutela del piano territoriale, sia esso provinciale che regionale. Dal dibattito è emersa la necessità di una pianificazione di tipo territoriale regionale, come previsto dalla 51, che non si è mai riusciti a realizzare. La pianificazione territoriale consente l’intervento di tutte le istituzioni proprio perché si tratta di un accordo, un patto territoriale e sociale, che permette all’amministrazione locale di pianificare e programmare le proprie trasformazioni con la garanzia che i problemi creati al di fuori del proprio comune siano governati da qualcuno altro. Su ciò è essenziale che ci sia il confronto e la disponibilità: i conflitti si gestiscono e si cerca di trovarne la soluzione. Con questo non voglio dire che la soluzione sarà automatica, è impensabile! ma è necessario che una volta trovata venga considerata come un impegno di tipo strategico. Si tratta di una garanzia per il privato in quanto saranno l’amministrazione e le istituzioni a garantirgli un certo tipo di servizio. Molte delle attività economiche che stanno nascendo chiedono qualità urbana e territoriale. Anche questo è un impegno fondamentale da garantire. Riassumendo: sono fondamentali la pianificazione territoriale e la concertazione, la collaborazione tra gli enti e le amministrazioni che necessitano di condivisione di dati e metodi. Pertanto occorre che ci sia informazione e che questo tipo di rapporto venga garantito in tempi reali. Abbiamo individuato un termine: “l’osservatorio territoriale”, con cui si intende indicare la necessità di sistemi informativi inerenti a ciò che avviene sul territorio, ciò che si sta programmando e che si sta realizzando. Avere un linguaggio comune diventa, allora, fondamentale e soprattutto diventa fondamentale mettere a disposizione non solo delle istituzioni, ma di tutti, i dati, i metodi perché il confronto possa essere trasparente e possa consentire alla comunità di valutare le opportunità, le negatività e le possibilità di attenuazione degli aspetti negativi. Ogni trasformazione ovviamente crea qualche problema. Per governare il territorio occorre individuare le soluzioni migliori. Alessandra Cingoli Sono qui per illustrare i contenuti dell’intervento della dott.ssa Anna Bonomo che purtroppo oggi non è presente. L’intervento si intitola: Testo Unico dell’edilizia e potestà legislativa concorrente delle Regioni. Iniziamo col dire che questo testo unico, così criticato da più parti, potrebbe apparire come una nota positiva nel panorama della legislazione in materia urbanistico-edilizia. Di fatto esso riordina tale materia. Tutti noi sappiamo che la normativa statale attualmente vigente è estremamente difficile da gestire, in quanto estesa e frammentaria. Questo testo potrebbe comportare per l’operatore una semplificazione, una facilitazione, in quanto tutte le regole sono contenute in un solo documento. Di fatto la prima impressione si dissolve a fronte delle problematiche create dallo stesso testo unico. All’articolo 2 comma 1 noi leggiamo infatti che le disposizioni anche di dettaglio attuative dei
princìpi introdotti dal testo unico operano direttamente nei riguardi delle regioni a statuto ordinario fino a quando esse non si adegueranno ai princìpi medesimi. Questo significa che il testo unico pone la necessità di un adeguamento. Questo è sottolineato anche dal comma precedente dello stesso articolo nel quale leggiamo: le regioni esercitano una potestà legislativa concorrente in materia edilizia nel rispetto dei princìpi fondamentali della legislazione statale desumibili dalle disposizioni del testo unico. E qui nasce il grande problema: che cosa sono questi princìpi fondamentali? C’è stata una grande difficoltà ad enucleare e specificare l’azione da quando sono state istituite le regioni. La stessa corte costituzionale a riguardo non ci offre interpretazioni chiare. Dichiara, infatti nella sentenza 482 del ‘95, che non tutte le disposizioni di compiuto tenore letterale costituiscono princìpi della legislazione dello Stato, ma solo i nuclei essenziali del contenuto normativo che tali disposizioni esprimono per i princìpi enunciati e da essi desumibili. Quindi, come vediamo, questa interpretazione non è di grande aiuto. Che cosa scaturisce da questa problematica? Il fatto che, indubbiamente in sede di adeguamento della legislazione regionale, vi saranno dei punti di contrasto tra la legislazione regionale e la legislazione statale che renderanno difficile la combinata applicazione dei due livelli di normativa da parte dell’operatore, con conseguente sconcerto e disagio di questi ultimi. Da che cosa deriva questa conflittualità che si crea tra discipline? Deriva dai caratteri di concorrenzialità della legislazione regionale rispetto a quella statale. Come ben sappiamo l’articolo 117 della costituzione aveva affermato il principio della concorrenzialità, naturalmente uso la parola principio in un’accezione diversa da quella usata per i princìpi fondamentali. Questo principio è stato ripreso e ribadito nella recente legge di riforma costituzionale in quanto come tutti sapete l’articolo 3, nel riformulare l’articolo 117 della costituzione, distingue tra potestà legislativa esclusiva dello Stato e potestà legislativa concorrente della Regione e potestà legislativa esclusiva residuale delle regioni in tutte le materie per cui lo Stato non ha competenza esclusiva. Dunque, ribadito questo concetto, si crea una zona di incertezza per l’operatore in cui campeggia la materia urbanistica ed edilizia che potrebbe rientrare, sicuramente a buon diritto, nella categoria del governo del territorio. Dunque essendo le materie del testo unico, molto varie e numerose, ne discende che c’è il rischio che la Regione attui i princìpi fondamentali cercando di interpretare quale possa essere questa nozione attraverso una legislazione di settore estremamente fitta e frammentaria che può vanificare le finalità di unificazione normativa cui tutto sommato ha teso il testo unico sull’edilizia. Da ciò l’ambizione di racchiudere in un unico atto di adeguamento la legge costituita dalla legge regionale in corso di redazione nella quale si aspira a elaborare tutta la disciplina relativa agli interventi urbanistico-edilizi e, così facendo, a perseguire quegli obiettivi di semplificazione normativa e di unitarietà di riferimento normativo presenti nel testo unico. Questo lavoro si svolgerà cercando di salvare nel testo unico quelle parti che sono tutt’ora di competenza statale, ad esempio la parte sanzionatoria. In questa maniera si ritiene che con due testi unici verrà ulteriormente semplificata la vita all’operatore del diritto e agli altri operatori del settore. Giuliano Lorenzi Parto da alcune valutazioni desunte dal rapporto dell’Ocse sulla Provincia di Bergamo recentemente pubblicato. L’Ocse dice, dal punto di vista della destinazione d’uso del suolo e delle infrastrutture, che la Provincia di Bergamo è vittima del proprio successo. La massiccia crescita economica degli ultimi decenni e l’incontrollata espansione urbana e industriale che ne sono conseguite, hanno provocato l’eccesso d’uso del suolo, un considerevole sviluppo urbano incontrollato e forti pressioni sull’ambiente. Dice ancora che il miglioramento delle infrastrutture di trasporto e della pianificazione territoriale sono un problema aperto della Provincia. La capacità de-
mento della concezione della pianificazione gerarchica: si deve privilegiare il confronto anticipato nella fase di valutazione degli obiettivi e favorire la partecipazione e la cooperazione degli attori. Il processo diventa quindi di co-pianificazione attuato nelle diverse fasi, nella fase di formazione del piano territoriale e di salvaguardia nella formazione del P.R.G. e nelle varianti al P.R.G. Nella formazione del piano territoriale di coordinamento provinciale c’è uno stretto rapporto tra il soggetto Provincia e gli altri enti territoriali in quanto, come dice la Legge 1, il piano è predisposto in base alle proposte dei Comuni, degli Enti locali, naturalmente in coerenza con le linee generali di assetto del territorio regionale. Il piano, qualora debba prevedere ulteriori contenuti, deve essere predisposto, previa intesa con i Comuni interessati; non c’è alcuna imposizione, invece, deve essere ricercato il confronto e l’accordo. La Provincia deve assicurare il confronto con i Comuni, con le Comunità montane e gli altri Enti locali attraverso appositi strumenti di concertazione. Per quanto riguarda la salvaguardia, dalla data di pubblicazione sul B.U.R.L. della delibera di adozione del piano territoriale e quindi per un periodo massimo di due anni, è vietata la realizzazione di interventi in contrasto con le previsioni del piano territoriale. Nella formazione del P.R.G., la stessa cosa vale anche per le varianti, deve esserci una consultazione preliminare della Provincia e della Regione anche tramite conferenza dei servizi e una volta predisposto il piano, concordati quindi a monte gli obiettivi e le scelte prioritarie, il Comune auto approva il P.R.G. previo parere della Provincia. Il parere della Provincia riguarda esclusivamente la compatibilità del P.R.G. con le previsioni di carattere sovracomunale contenute nel piano territoriale. Con le varianti al piano territoriale, che si possono adottare ogni qualvolta si renda necessario, si applica la stessa procedura di approvazione del piano territoriale. Lo strumento deve essere flessibile. Il meccanismo di approvazione, e quindi la ripetizione dell’iter, come previsto dalla Legge 1, sarebbe abbastanza gravoso e pesante, ma è prevista anche la possibilità che si possa non ricorrere a questa procedura più gravosa, prevedendo nel piano territoriale il rinvio a forme di concertazione successiva. Nella fase di gestione del piano territoriale, ma anche per il P.R.G. vale la stessa cosa, lo strumento di pianificazione, perché possa esplicare positivi effetti, deve essere accompagnato da azioni concertate anche nella fase attuativa. La Provincia è oggi impegnata nella predisposizione del piano territoriale provinciale; ormai sono completate le analisi preliminari e le valutazioni dei possibili obiettivi e delle strategie. Nei prossimi giorni sarà avviato il confronto con gli Enti locali sugli obiettivi e strategie di sviluppo per il nostro territorio per poi iniziare la valutazione del preliminare di piano. Silvio Albini Sono qui come rappresentante dell’industria che delle leggi urbanistiche è sicuramente uno dei principali destinatari. L’industria che ogni giorno deve fare i conti con l’alta densità del territorio, la scarsità di comunicazioni, l’industria che inevitabilmente subisce vincoli e sconta una pesante inadeguatezza delle norme e, quando si verifica, la cattiva pianificazione. Sono deficit importanti perché a Bergamo l’industria produce il 50% della ricchezza, garantisce oltre la metà dei posti di lavoro. Una densità produttiva che è quattro volte maggiore a quella della media nazionale e il doppio di quella lombarda. Bergamo è una delle prime province industriali in Italia, e seconda regione d’Europa per tasso di importazione del settore secondario. Negli ultimi anni sono stati fatti molti passi avanti verso la semplificazione delle procedure. Ci sono stati alcuni interventi con una ricaduta positiva, come la Legge 23, altri in-
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gli attori locali di condividere gli obiettivi e le strategie di sviluppo e di agire in maniera coordinata è limitata. La Provincia di Bergamo ha però l’opportunità di restare ancora per lungo tempo una delle prime province italiane. L’evoluzione dell’assetto insediativo del nostro territorio si evidenzia per i seguenti caratteri, non omogenei su tutto il territorio: dispersione insediativa in ambiti più o meno vasti, diluizione lungo gli assi stradali, fenomeni di evidente conurbazione e saldatura lungo le principali direttrici, marginalizzazione delle aeree agricole residue, eccessiva frammentazione degli interventi non collegati tra loro con interposti spazi edificati di varia forma e ampiezza. Siamo in presenza di fenomeni anche di disordine urbanistico per cui aumentano gli spostamenti, c’è un uso intensivo dell’auto e dell’autocarro per il trasporto delle merci. C’è la difficoltà del trasporto pubblico a soddisfare la domanda. C’è la tendenza a localizzare nuovi insediamenti lungo i maggiori assi della nuova rete infrastrutturale. Le ulteriori politiche urbanistiche di sviluppo sono utilizzate per reperire risorse necessarie a soddisfare il fabbisogno pregresso di servizi e infrastrutture. Una considerazione particolare va fatta per i centri commerciali. La loro collocazione è avvenuta spesso in assenza di una corretta valutazione delle relazioni con gli insediamenti urbani sovracomunali, del contesto ambientale e dei sistemi di mobilità, considerando soprattutto i vantaggi del singolo Comune. Le criticità che si evidenziano sono, in primo luogo, la mancanza di un quadro di riferimento programmatico; c’è l’impotenza nella gestione di problematiche che sono risolvibili solo a una scala più ampia di quella comunale; c’è spesso conflittualità e non coordinamento tra Comuni; le aree agricole sono spesso indicate come riserva territoriale per futuri sviluppi insediativi e, aggiungiamo anche, che c’è un mancato coordinamento delle infrastrutture di mobilità a fronte della nuova domanda prodotta dall’espansione. Riteniamo che il piano territoriale di coordinamento provinciale possa costituire un elemento di avanzamento della programmazione e pianificazione a livello territoriale. Il Piano territoriale è lo strumento per il governo del territorio ed è un atto di programmazione generale con valenza paesistico-ambientale. Faccio riferimento alla Legge Regionale 1, perché è quella oggi in vigore e quella che siamo tenuti a osservare, i cui princìpi sono peraltro riconfermati nelle linee guida per la riforma urbanistica. Gli scopi del piano territoriale devono essere: di coordinare l’individuazione di obiettivi generali relativi all’assetto e alla tutela del territorio provinciale, definire le politiche, le misure e gli interventi di competenza provinciale, definire gli indirizzi strategici di assetto del territorio a livello sovracomunale con particolare riferimento al quadro delle infrastrutture, agli aspetti di salvaguardia paesistico-ambientale, all’assetto idrico, idro-geologico e forestale. Deve anche individuare le aree per specifici fabbisogni non risolvibili su scala comunale e naturalmente avviare processi di valorizzazione del territorio. Con quali modalità? Una pianificazione rigida e solo di tipo normativo non è più in grado di rispondere alla realtà in rapido cambiamento. È necessario definire quindi le nuove strategie di assetto del territorio basate su obiettivi di sviluppo comuni a lungo termine, sull’integrazione strategica e su un ampio consenso. Quali sono questi obiettivi di sviluppo a lungo termine? Sostanzialmente quelli indicati dallo schema di sviluppo spaziale europeo di Postdam ‘99, cioè lo sviluppo equilibrato, policentrico, un nuovo rapporto tra città e campagna e, noi aggiungiamo, anche tra montagna e pianura, una parità di accesso alle infrastrutture, la conservazione e valorizzazione del patrimonio naturale e culturale. Quali devono essere i rapporti tra il piano territoriale di coordinamento provinciale e la pianificazione comunale? Devono essere basati su princìpi innovativi che sono il supera-
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vece sono stati meno efficaci e mi riferisco allo sportello unico che ancora non opera per le resistenze e le difficoltà di attuazione che spesso hanno molti Comuni e, in generale, enti pubblici che non hanno ancora capito quanto il decentramento sia un processo irreversibile (...). Per quello che è dato di conoscere sembra che le linee guida della nuova riforma urbanistica vadano nella giusta direzione, verso un decentramento controllato. A nostro avviso sono soprattutto apprezzabili: • la scelta di abbandonare la pianificazione per vincoli, per puntare a quella per obiettivi; • la decisione di coinvolgere i privati già nel momento della pianificazione, soprattutto nell’attuazione dei progetti; • l’obiettivo della massima possibile sussidiarietà; • il progetto di una pianificazione come punto d’incontro fra istanze dal basso ed orientamenti strategici regionali, fra azione pubblica e interessi privati; • infine, fondamentale per noi, la volontà di aggiungere flessibilità alla pianificazione. Ci possono essere diversi rischi: il localismo in quanto elemento di troppa discrezionalità; le inevitabili difficoltà di concertazione (concertazione come traguardo da raggiungere progressivamente, questa è buona concertazione). Sono necessarie due scelte strategiche: la chiara definizione dei poteri e delle competenze e, quando necessario, un’estensione ai princìpi di sussidiarietà anche dal basso verso l’alto. La delimitazione dei confini della discrezionalità con il rispetto dei diritti degli enti locali, con la definizione dei criteri oggettivi ed univoci e con l’assunzione delle buone pratiche o norme tipo che Regione e Provincia dovranno predisporre ognuna per le proprie aree di competenza. Riteniamo che nelle linee guida presentate questi intenti siano effettivamente riscontrabili. Dobbiamo solo augurarci che non si perdano nel percorso legislativo. Lo dico pensando al piano paesistico che ci dà qualche preoccupazione. Il piano paesistico, attualmente in discussione, non è sempre coerente con tali scelte. Vengo a qualche elemento del piano di coordinamento provinciale consegnato questa settimana alla Provincia. Per quanto riguarda la nostra Provincia abbiamo studiato la dinamica insediativa sul territorio negli ultimi quindici anni. Abbiamo svolto un’indagine diretta sui rapporti tra industria e territorio in particolare abbiamo studiato quelle che riteniamo le imprese virtuose, quelle che non hanno un rapporto conflittuale con il territorio. Abbiamo tentato una sintesi dei fabbisogni con l’obiettivo della sostenibilità. Abbiamo cercato di individuare gli interventi necessari per conservare la fonte della nostra ricchezza nell’ambito delle tendenze di trasformazione da far emergere. C’è un ricambio di nuove imprese, una tendenza alla crescita dimensionale delle imprese sia nelle industrie nuove che in quelle consolidate, caratteristica della nostra Provincia. Abbiamo individuato quattro emergenze. Le risorse territoriali di cui disponiamo sono scarse e vi è competizione crescente fra gli usi del suolo che devono essere razionalizzati attraverso un migliore rapporto qualitativo e quantitativo fra domanda e offerta, soprattutto se non dimentichiamo che a Bergamo si costruisce il doppio della media nazionale e parecchio più che nella stessa Regione Lombardia, quindi c’è competizione sull’uso del suolo. Altre emergenze sono: una sensibile tendenza alla pianurizzazione, cioè a scendere dalla montagna verso la pianura, la modifica della tipologia della domanda industriale. Vi è una grande dilatazione degli spazi per gli uffici e questo è anche effetto della crisi della mobilità che vediamo tutti i giorni, con l’aggravante che le possibilità di ampliamento nelle sedi esistenti sono limitate. In ogni caso la quantità di spazio utilizzato dalle imprese tende a crescere nel tempo, questo è fisiologico. Vi è poi un forte patrimonio industriale dismesso
che trova difficoltà a rientrare sul mercato, mentre c’è una forte pressione di nuove imprese in cerca di spazio. Abbiamo formulato alcune proposte. La pianificazione delle aree industriali di espansione deve essere di competenza provinciale. In questo senso è molto apprezzabile l’affermazione contenuta nelle linee guida, secondo cui la Provincia può individuare, in accordo con i comuni, interessanti ambiti di cui il piano territoriale costituisce il documento di inquadramento di livello comunale. Una scelta che consente di economizzare il territorio, di progettare meglio l’offerta in termini di localizzazione e di ridurre il fabbisogno di nuove aree industriali. La Provincia e la Regione devono indicare le norme tipo per le aree industriali, dove prevedere fasce di rispetto e una reciproca protezione dei diversi usi del suolo nonché le buone pratiche per la progettazione delle zone industriali. Nella logica della flessibilità, della concertazione, del rapporto pubblico privato, contenuto nelle linee guida, è necessario preparare gli strumenti per la progettazione di aree su commessa destinate ad ospitare industrie di alto contenuto tecnologico che sono una risorsa per il futuro dell’occupazione e dell’innovazione. Ritorno ancora sull’importanza del funzionamento dello sportello unico, per ridurre i costi amministrativi spropositati e dare finalmente al meglio una politica di marketing territoriale. Poi ci sono altre esigenze: garantire l’unitarietà della pianificazione della grande Bergamo che in effetti è il principale motore di trasformazione del territorio della nostra Provincia, decidere la modifica degli standard urbanistici in funzione dei nuovi modelli insediativi, favorire il riuso dei siti dismessi, che purtroppo per il 50% nel medio periodo non vengono riutilizzati. Concludo sottolineando positivamente che le necessità evidenziate nel nostro studio e nelle nostre proposte si ritrovano e sono coerenti con le linee guida di riforma urbanistica di cui oggi stiamo parlando. Antonio Purcaro Senza avere la pretesa di fare una lezione di diritto costituzionale, anche perché non ne avremmo il tempo, vorrei ripercorrere i tratti essenziali che riguardano la riforma costituzionale che in questi giorni ha preso avvio. Infatti, la riforma urbanistica regionale si inserisce in un contesto che si è modificato radicalmente; quindi è opportuno capirne il percorso. La modifica del nostro assetto istituzionale parte nel ‘97 con la legge delega n. 59 con cui il parlamento ha delegato il governo a modificare l’assetto amministrativo dello Stato a costituzione invariata. Con la legge 59 si è deciso di riservare allo Stato una serie di competenze in ambito amministrativo individuandole in tutte quelle funzioni che non fossero espressamente riservate al raccordo Regioni-Enti locali. Questo disegno, contenuto nella legge delega, ha preso forma e sostanza con l’approvazione del decreto legislativo 112, con il quale concretamente si è stabilito il nucleo forte delle competenze amministrative riservate allo Stato (tutto ciò che in quell’elenco non è indicato è attribuito alle regioni e agli enti locali). Evidentemente il decreto 112 non era ancora completo perché il trasferimento al comparto delle autonomie locali avveniva in blocco. Occorreva che ogni Regione, nel proprio ambito, definisse cosa rimaneva a livello centrale del capoluogo di Regione e cosa invece veniva trasferito a livello comunale e provinciale. La Lombardia con la legge 1 del 5 gennaio 2000 ha dato attuazione a questa disposizione trasferendo per esempio alle province il compito di verificare la programmazione urbanistica comunale in riferimento alla conformità, alle norme del piano territoriale di coordinamento provinciale. È evidente che questa norma, con riferimento al nostro territorio, non è ancora completamente vigente: parte della Province lombarde non hanno ancora approvato, in via definitiva il piano territoriale di coordinamento
Oggi, perché questa riforma non sia congelata, la Regione deve desumere i princìpi dalla normativa statale esistente in materia e quindi dal testo unico dell’edilizia appena pubblicato, quello delle espropriazioni, e la legge Merloni sui lavori pubblici; da questa normativa la Regione per legiferare dovrà, con una difficile opera di interpretazione, estrarre, ricavare, i princìpi fondamentali. Operazione non facile, posto che nei due testi unici, edilizia ed espropriazioni, che tra l’altro non sono ancora immediatamente operativi, e nella legge Merloni non è contenuta un’indicazione chiara di quello che deve essere il princìpio e cosa invece possa essere quindi derogato per essere disciplinato dalla legge regionale. Questo passaggio è molto delicato in quanto una non corretta definizione dei princìpi può portare a un contenzioso a livello costituzionale con ripercussioni anche pratiche per gli operatori del settore, per i cittadini e per le imprese. L’altra considerazione è che rimanendo la materia “dell’ambiente” fuori dall’ambito regionale (la tutela dell’ambiente è rimessa alla competenza statale), una legge urbanistica regionale che abbia la presunzione di comprendere la disciplina di tutti gli strumenti di governo del territorio sarebbe fortemente limitata considerati i riflessi di notevole rilevanza della normativa paesistica sulla gestione del territorio. C’è però da sottolineare la possibilità di superamento di questa separazione di materie, in quanto la Costituzione stessa prevede, all’articolo 116, che, fermo restando quell’elenco di 17 materie riservate allo Stato, tra le quali l’ambiente, la Regione, con un procedimento molto complesso (in quanto ci deve essere una convergenza tra Stato e Regione), può chiedere allo Stato che parte di queste materie, in particolare la tutela dell’ambiente, vengano spostate dal primo elenco di materie riservate alla competenza esclusiva dello Stato nell’ambito della potestà legislativa concorrente. Sono le Regioni a dover farsi parte attiva in questo senso. Non solo, l’articolo 116 consente anche la possibilità per le Regioni di chiedere che le altre 20 materie riservate alla potestà concorrente siano trasferite alla potestà esclusiva della Regione: si viene disegnando un regionalismo variabile dove non tutte le Regioni avranno gli stessi poteri. Oggi eravamo abituati a due categorie: le Regioni a statuto speciale, che avevano una potestà molto più ampia e le Regioni ordinarie, che avevano il più ristretto ambito della potestà legislativa concorrente. Da oggi la Regione Lombardia e altre regioni potranno vedere ampliato il proprio spazio di intervento in quanto oltre ad avere quello che la Costituzione ha loro attribuito, la potestà legislativa generale, potrà anche far proprie tutte le altre 20 materie originariamente riservate alla potestà concorrente e quindi vedere ampliata la propria possibilità di normazione. Fra le materie che la Regione potrebbe interamente portare dal centro alla periferia, c’è il governo del territorio, materia ad oggi soggetta ai princìpi dello Stato. La norma attuativa della Regione può essere interamente definita in ambito regionale e quindi, così come l’ambiente può essere esportato dalla fonte normativa statale a quella regionale, anche l’intera materia del governo del territorio può essere definita a livello regionale. Saranno le singole regioni a decidere in che direzione andare, decidere la propria possibilità di incidere sul territorio con strumenti il più possibile definiti e ragionati a livello locale. Innova, inoltre, la Costituzione l’attribuzione, in via generale, delle funzioni amministrative ai Comuni: così come si è attribuita alle Regioni la potestà di fare leggi, si è attribuita in via generale ai Comuni l’esercizio delle funzioni amministrative. È evidente che questa attribuzione risponde a tre princìpi: al principio di sussidiarietà, al principio di differenziazione e al principio di adeguatezza, dove per adeguatezza si intende il fatto che il trasferimento di funzioni avviene in ambiti ottimali di governo. Adeguatezza vuol dire che così come le funzioni devono essere esercitate a livello di ambito ottimale, anche gli ambiti ottimali devono avere strumenti adeguati per rispondere alle esigenze di governo del territorio. Sussidiarietà, principio in virtù del quale le decisioni devono essere prese in ambito più
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provinciale. Di conseguenza gli effetti, in termini di snellimento, li vedremo più avanti quando sarà operativo questo strumento urbanistico di rilievo provinciale. Ciò nonostante, il percorso non si è fermato: prima si è proceduto a modificare l’assetto amministrativo poi, a costituzione invariata, si è cercato di attribuire sempre maggiori competenze a province e comuni. Il Parlamento è riuscito a fine della XIII legislatura ad attuare anche la riforma della Costituzione. Non ci si è limitati ad un ampio decentramento amministrativo, ampliando le funzione dal centro alla periferia, ma si è fatto di più, si è approvata la modifica della Costituzione con la quale si è spostato dal centro alla periferia anche il potere legislativo. È evidente, che pur avendo la norma giuridica il carattere della generalità e dell’astrattezza, sicuramente è più aderente alle esigenze del territorio la norma concepita a livello regionale, rispetto ad una norma che omogeneamente viene concepita in ambito centrale. Le differenziazioni dei territori delle regioni italiane sono tali da richiedere, in ambiti specifici, una diversa normativa con una maggiore aderenza alle esigenze rappresentate nei diversi territori. La riforma approvata è complessa. Viene riscritto completamente l’articolo 117 della nostra Costituzione. Prima la potestà legislativa (fino all’8 novembre 2001) era attribuita in via generale allo Stato, ed erano riservate alle regioni a statuto ordinario una serie di materie nelle quali esse potevano legiferare dopo che lo Stato avesse definito i princìpi fondamentali, i quali, in concreto, si potevano rinvenire anche nella legislazione esistente. Tra l’elenco delle materie rimesse alla potestà legislativa concorrente Stato-Regione, elenco non particolarmente vasto, era indicata “l’urbanistica”, “la viabilità”, “gli acquedotti”, “i lavori pubblici”, materie individuate in maniera puntuale e coincidenti con strumenti di gestione del territorio. Lo Stato, titolare della potestà legislativa generale, poteva dettare una normativa urbanistica uniforme a livello nazionale. Adesso il quadro cambia. Dal 9 novembre abbiamo tre situazioni differenti anche se ne esiste una quarta che a molti ancora sfugge. C’è un catalogo di materie, sono 17, in cui lo Stato ha competenza legislativa esclusiva; tra queste 17 materie l’ultima indicata con la lettera f), è rappresentata dalla “tutela dell’ambiente”, che dunque ad oggi è rimessa alla competenza esclusiva dello Stato. Sappiamo che l’ambiente ha un notevole impatto sulla disciplina del territorio. Poi c’è un altro catalogo di materie, sono 20, in cui la legislazione è concorrente, ovvero lo Stato e il parlamento centrale di Roma fissano i princìpi, poi le assemblee regionali definiscono il corpo della materia in termini più puntuali e di dettaglio. Tutto quello che non è indicato dal comma 3, dell’art. 117 rientra nella competenza della Regione. Se prima la potestà legislativa era in via generale dello Stato, adesso la potestà legislativa è in via generale delle regioni: le 17 materie del comma primo sono riservate allo Stato, le 20 materie del comma 2, sono attribuite alla Regione, che, prima di legiferare, deve aspettare che lo Stato stabilisca i princìpi. Tra queste 20 materie c’è il “governo del territorio”. Come si diceva prima, il legislatore utilizza due termini differenti. Prima della riforma il legislatore parlava di “urbanistica”, di “acquedotti”, di “lavori pubblici di interesse regionale”, di “cave”, adesso invece la dizione è completamente differente e si parla di “governo del territorio”. È evidente che “governo del territorio” è una dizione molto ampia. Cosa si intende di preciso non è ancora dato sapere. Evidentemente molto conterà la giurisprudenza costituzionale che indicherà agli operatori l’esatta accezione del termine. Ad oggi possiamo dire che il governo del territorio sicuramente può comprendere “l’edilizia pubblica e privata”, quindi anche i lavori pubblici e le opere di urbanizzazione. Sicuramente può comprendere anche le “espropriazioni” e quindi “l’urbanistica”; le espropriazioni e l’edilizia fanno parte del governo del territorio quindi in queste materie la Regione, fermo restando i limiti dei princìpi dello Stato, può già da oggi legiferare.
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vicino al cittadino, sempre che l’ambito più vicino al cittadino sia in grado di adoperarsi. Questo vuol dire che i Comuni devono essere posti in grado, dalla Regione, di avere anche strumenti finanziari idonei che consentano di fare una corretta programmazione del territorio, sia per poter dar corso alle previsioni di piano, sia per poter dotarsi di strumenti urbanistici. La riforma della Costituzione incide su chi deve dettare le regole in materia di governo del territorio, ed incide anche sul sistema dei controlli. Dal 9 di novembre è cessata ogni forma di controllo dello Stato sulla Regione e delle regioni sugli enti locali. La legge regionale, una volta approvata dal consiglio regionale e promulgata dal presidente, non deve aspettare il visto dal commissario di governo. Ricordiamo le ultime riforme in ambito urbanistico: oggi, una volta che la legge regionale viene approvata è subito operativa. È anche vero che il governo ha perso il potere di poter verificare, prima che la legge sia operativa, la conformità con i princìpi nazionali. Per contemperare questa modifica si è inserita la previsione per lo Stato, entro sessanta giorni dalla pubblicazione nel bollettino ufficiale delle regioni della legge stessa, di chiedere, qualora si evidenzi nella legge un contrasto con le norme costituzionali, l’intervento della Corte costituzionale. Anche la Regione, su un piano di parità, una volta che lo Stato abbia approvato una legge e questa sia stata pubblicata sulla gazzetta ufficiale, nei sessanta giorni successivi alla pubblicazione, può chiedere alla Corte costituzionale di intervenire, qualora ritenga che la legge sia lesiva delle prerogative dei poteri e delle funzioni della Regione stessa. Si spera che questo meccanismo sia comunque tale da evitare di creare situazioni conflittuali. È evidente che una sentenza costituzionale di annullamento intervenuta dopo che la legge è già in vigore produce sicuramente degli effetti non indifferenti nella sua attuazione pratica e nel suo riscontro con i cittadini. Dal 9 novembre non esiste più il controllo preventivo di legittimità sugli atti degli Enti locali: una volta che i Consigli comunali hanno deliberato, la deliberazione produce effetti immediati, senza dover attendere alcun tipo di controllo. Il rischio è che la carenza di sistema dei controlli, dello Stato sulla Regione, e della Regione nei confronti degli Enti locali, da parte delle regioni produca un’espansione eccessiva dell’intervento della magistratura amministrativa. Occorre evitare quindi che eventuali contrasti o difficoltà di interpretazione della norma vengano poi definiti dall’intervento della magistratura che pur incidendo sui casi particolari non sempre risolve i problemi di interpretazione generale. Di conseguenza è opportuno che le norme vengano formulate in maniera chiara, che vengano attivati i necessari strumenti di analisi dell’impatto della regolamentazione e di analisi tecnico-normativa e prima che la legge venga definita e pubblicata si faccia un’analisi di come questa s’inserisce nel contesto legislativo preesistente e nell’ordinamento giuridico vigente per evitare problemi legati all’interpretazione. C’è bisogno non certo di circolari ma di leggi chiare. Meglio che la legge sia chiara e definisca in maniera esaustiva il suo contenuto, piuttosto che ricorrere a circolari che si susseguono contraddittorie, senza avere la capacità e la forza dell’interpretazione autentica della legge. L’analisi tecnico-normativa della legge che s’intende approvare deve essere anche analisi dell’impatto della regolamentazione. Occorre verificare, prima che la legge venga posta in essere, i costi che derivano dalla sua applicazione alle imprese, ai cittadini e all’amministrazione pubblica. Prima di promulgare le leggi chiediamoci se i comuni e le province sono in grado di recepirle e applicarle e con quali costi, e se le imprese sono in grado di dare concreta attuazione alla previsione normativa. Vi è un’altra importante questione. Affinché la programmazione urbanistica dei comuni sia svolta in maniera più serena e pacata possibile, deve essere data una definizione normativa chiara a quella che è la conseguenza della sentenza della Corte costituzionale n. 169/99 che prevede che nei comuni, che nella loro attività di programmazione rei-
terino un vincolo urbanistico, debbano ristorare il privato. Non si capisce questo ristoro come debba quantificarsi e in che termini debba essere riconosciuto al privato. Così è importante che nella nuova normativa urbanistica si trovino strumenti di perequazione, di compensazione, laddove si arrivi a una attività di programmazione urbanistica concertata con i privati. Del resto la legge 241 del ‘90 ha introdotto in ambito amministrativo il principio della partecipazione del cittadino alle scelte della pubblica amministrazione. È opportuno porre anche l’accento sull’importanza che assume, nell’ambito locale, la programmazione, dal momento che il nuovo P.R.G. comunale, così com’è concepito dalla legge 1 del 2001, prevede uno sdoppiamento fra quelle che sono le indicazioni concrete di piano e il piano dei servizi, ovvero l’elenco di dotazioni che il Comune deve garantire con adeguati livelli di opere di urbanizzazione alla propria collettività. Perché il piano dei servizi sia coerente è opportuno che venga raccordato alla programmazione urbanistica e alle indicazioni del programma dei lavori pubblici che ogni amministrazione si deve dare. È evidente che bisogna evitare un eccesso nel sovradimensionamento degli standard del P.R.G. anche perché tra aree da ristorare e opere da realizzare il piano deve essere sostenibile, anche dal punto di vista finanziario. Occorre passare da una concezione quantitativa degli standard ad una concezione qualitativa. Il mondo delle Autonomie locali, gli operatori del settore, attendono quindi che la Regione, nel porre mano alla stesura del testo unico dell’urbanistica, possa e sappia, approfittando del favorevole clima costituzionale, recato dalla legge di riforma, elaborare a vantaggio della collettività della Lombardia, dei cittadini e delle imprese, un testo in grado di garantire al territorio ed alla società, uno coerente modello di sviluppo sostenibile.
Riforma del titolo V della Costituzione della Repubblica e potere legislativo delle Regioni a statuto ordinario Art. 117 - Formulazione precedente alla riforma Potestà legislativa dello Stato - Ogni materia, non soggette a potestà legislativa concorrente; - Statuti regionali Potestà legislativa concorrente Stato/Regione 1. Ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi dipendenti dalla regione; 2. circoscrizioni comunali; 3. polizia locale, urbana e rurale; 4. fiere e mercati; 5. beneficenza pubblica ed assistenza sanitaria ed ospedaliera; 6. istruzione artigiana e professionale e assistenza scolastica; 7. musei e biblioteche di enti locali; 8. urbanistica; 9. turismo ed industria alberghiera; 10. tranvie e linee automobilistiche d’interesse regionale; 11. viabilità, acquedotti e lavori pubblici di interesse regionale; 12. navigazione e porti lacuali; 13. acque minerali e termali; 14. cave e torbiere; 15. caccia; 16. pesca nelle acque interne; 17. agricoltura e foreste; 18. artigianato; altre materie indicate da leggi costituzionali. Potestà legislativa della Regione Le leggi dello Stato possono demandare alla Regione il potere di emanare norme per la loro attuazione.
Legislazione esclusiva dello Stato a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l’Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea; b) immigrazione; c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose; d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi; e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; perequazione delle risorse finanziarie; f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo; g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali; h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale; i) cittadinanza, stato civile e anagrafi; l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa; m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; n) norme generali sull’istruzione; o) previdenza sociale; p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane; q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale; r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale; opere dell’ingegno; s) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Legislazione concorrente Stato/Regione 1. rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; 2. commercio con l’estero; 3. tutela e sicurezza del lavoro; 4. istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; 5. professioni; 6. ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; 7. tutela della salute; 8. alimentazione; 9. ordinamento sportivo; 10. protezione civile; 11. governo del territorio; 12. porti e aeroporti civili; 13. grandi reti di trasporto e di navigazione; 14. ordinamento della comunicazione; 15. produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; 16. previdenza complementare e integrativa; 17. armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; 18. valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; 19. casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; 20. enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Legislazione della Regione - Statuto regionale; - Ogni materia, non soggette a potestà legislativa concorrente e non rimessa alla legislazione esclusiva dello Stato.
Art. 117 - Massima espansione possibile del potere legislativo delle Regioni Legislazione esclusiva dello Stato a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l’Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea; b) immigrazione; c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose; d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi; e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; perequazione delle risorse finanziarie; f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo; g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali; h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale; i) cittadinanza, stato civile e anagrafi; l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale (ad esclusione della giustizia di pace); giustizia amministrativa; m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; o) previdenza sociale; p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane; q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale; r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale; opere dell’ingegno. Legislazione concorrente Stato/Regione Legislazione della Regione - Statuto regionale; - Ogni materia, non soggette a potestà legislativa esclusiva dello Stato.
Daniele Ravagnani La voce dei geologi non può essere secondaria quando si parla di programmazione, di pianificazione e di gestione del territorio. Per noi geologi il territorio, come credo anche per la maggioranza dei cittadini, è prima di tutto un’entità fisica complessa, non solo una mappa; non è un concetto politico amministrativo; è soprattutto il terreno su cui camminiamo, l’acqua che beviamo, dove fondiamo le nostre case, le nostre aziende. Il territorio è fatto di monti, di pianure e contrariamente a quanto ci appare quando corriamo nel traffico della città verso i nostri luoghi di lavoro, non è una cosa morta. Il territorio, inteso come entità geologica, è vivo. È un qualche cosa in evoluzione, è diverso, cambia da zona a zona. Non si può trattare il territorio di montagna come il territorio di pianura. Il territorio è modificabile ma spesso bisogna stare attenti perché non è riproducibile, non è rinnovabile. Dalla sua vita dipende la nostra vita. Dobbiamo quindi stare molto attenti. Penso al suolo, penso alle risorse lapidee, alla pietra che l’uomo ha sempre usato da migliaia di anni, penso all’acqua. Questa proposta di riforma urbanistica, che io credo sia molto valida perché si tenta di fare ordine in una materia
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estremamente importante, nasce da esigenze forti, giunte, forse, dopo decenni di azioni ispirate qualche volta dall’inesperienza, qualche volta dal disinteresse, qualche volta dalla sregolatezza o, com’è ovvio, dalla speculazione, qualche volta da visioni particolaristiche sulla gestione del territorio. Forse questa nuova legge urbanistica giungerà un po’ tardi quando sono già state occupate le golene, quando sono già stati occupati alvei quando sono già state invase zone umide, boschi, conoidi. Questo è il problema, il territorio sta per finire ed è già occupato, è già stato utilizzato molte volte al di sopra delle sue possibilità. D’altra parte questa proposta giunge nel momento in cui la nostra sensibilità riguardo all’ambiente sta maturando. Da molte parti si tenta di occupare ambiti di territorio sempre più marginali, sempre più difficili, sempre più pericolosi, altre volte si cerca di attentare ad angoli di territorio vitali per un riequilibrio delle risorse senza le quali non si può stare. Penso ancora all’acqua, sia come risorsa insostituibile, sia come motore del processo di evoluzione geologico del territorio, qualche volta in senso positivo, qualche volta in senso negativo. Per questi motivi per esempio chi fa pianificazione territoriale sa che è nata la legge regionale 41 del 1997 che obbliga e detta criteri per prevenire il rischio geologico mediante la pianificazione territoriale locale. Per questi motivi è nata l’autorità di bacino del Po che ha dato origine al piano di assetto idrogeologico, il famigerato P.A.I. Per questi motivi anche a livello nazionale si è dovuto giungere alla legge cosiddetta Sarno. Per questo la Regione Lombardia, con nostra grande soddisfazione, sta spingendo e sta recuperando il ritardo sul programma di conoscenza del territorio e del rischio geologico attraverso documenti riassuntivi, censimenti, pubblicazioni di strumenti conoscitivi che saranno messi a disposizione di tutti. A nostro avviso queste sono prerogative della comunità. Il privato, al quale è giusto attribuire responsabilità, non potrà mai averne sulla gestione dell’ambiente che è un bene collettivo. Possono esserci sinergie ma le scelte sull’ambiente non possono altro che essere della comunità perché richiedono una visione d’insieme. Avete sentito negli interventi precedenti quanto il particolare possa essere fuorviante, d’altra parte un’approfondita visione dell’ambiente è richiesta. Questa deve partire da conoscenze dettagliate sul terreno fatte a livello di P.R.G., fatte a scala comunale per salire verso l’alto e comporre un quadro d’insieme finalmente efficace e completo. Io credo che il punto sia che ci dobbiamo porre, già oggi, l’obiettivo di definire i limiti oltre i quali si deve porre fine all’espansione e trovare altre strade. Dobbiamo lavorare insieme perché il dualismo ambiente-politiche territoriali per certi aspetti può essere perverso. Lavorare insieme da subito, non come spesso mi è successo nella pratica professionale, mettere insieme i rispettivi lavori alla fine, perché ci è richiesto da una legge. Lavorare insieme è il nostro obiettivo, perché non possiamo lavorare senza conoscerci senza discutere dei rispettivi punti di vista senza produrre uno sforzo veramente sinergico di conoscenza prima che di programmazione. Gianvittorio Vitali La Regione Lombardia, con il documento presentato e posto in discussione, ha ritenuto proporre le linee guida per la riforma urbanistica regionale, predisposte per l’elaborazione del testo unico della normativa regionale in sostituzione e modifica della disciplina vigente, così da ricevere nel confronto con le parti sociali condivisione sui princìpi e sulle finalità perseguite o perseguibili, ancor prima di definire l’articolato normativo di riforma della legislazione. A base della ricercata ri-
forma normativa la contraddittorietà di regole e norme in vigore hanno avuto ed hanno effetti diretti e/o indiretti, non sempre positivi, sul governo, sulla gestione e sullo sviluppo del territorio. A base della ricercata riforma vi è la constatazione che la pianificazione urbanistica prodotta è risultata sempre più lontana dall’essere il necessario riferimento per la gestione e tutela del territorio. Si sono sprecate energie e intelligenze, si sono dette tante parole, tante norme, tanti piani, si sono spesi tanti soldi, ma si sono disattese tante aspettative dei cittadini, per produrre solo sigle per ogni ipotesi di strumenti urbanistici, che quando predisposti, sono risultati gli uni contraddittori rispetto agli altri e a volte sono finiti nel cassetto. Basta sfogliare un manuale di urbanistica per restare sconvolti da norme contraddittorie, da sigle illeggibili, da competenze attribuite e negate, dall’arrogante supponenza di coloro che, nel proporre e dettare regole, hanno dato il segno di non conoscere le realtà territoriali, le finalità normative, le esigenze e aspirazioni dei cittadini. In urbanistica si è proceduto redigendo ed approvando P.R.G. generali da non attuare, tanto che opportunamente sono stati predisposti per successive pianificazioni di dettaglio, che opportunamente sono state disattese da ulteriori piani di settore o di specie, che ancora, normalmente, sono per lo più risultati in contrasto con i precedenti e altrettanto inattuabili: il tutto accompagnato da norme sempre più cervellotiche, scoordinate e incomprensibili che hanno consentito di perpetuare la continua compromissione del territorio. Un testo legislativo unico e chiaro per il governo del territorio è una necessità fondamentale, non più procrastinabile. Ma la legge da sola non può avere poteri di salvaguardia, di tutela, di garanzia di ordinato sviluppo del territorio, se non è accompagnata dalla responsabilità degli operatori che agiscono sul territorio, siano essi privati cittadini o le loro istituzioni. La legge tende a disciplinare i comportamenti e i fenomeni, ma è il cittadino che in piena responsabilità, con le istituzioni democratiche, si dà la legge e la applica nell’interesse di tutti. Appare corretto e condiviso che il legislatore della Lombardia, prima di porre mano all’articolato, abbia voluto confrontarsi con i cittadini nelle loro formazioni sociali, culturali, produttive e professionali, sui princìpi che s’intendono affermare e gli obiettivi, i metodi e le procedure che s’intendono perseguire con la legge, che sarà tanto più efficace quanto più compresa e condivisa. Ma preliminarmente occorre porre attenzione sull’impianto che si vuol dare alla legge. Occorre definire lo scopo e il fine della legge, i soggetti destinatari e attuatori, l’oggetto che s’intende disciplinare. Per essere capita e condivisa la legge deve essere semplice, comprensibile, univocamente interpretabile, così da poter essere correttamente applicabile dal cittadino ancor prima che dagli apparati decisionali e burocratici che hanno il compito di gestire i fatti e gli eventi disciplinati dalla legge nell’interesse di tutti. La legge non deve essere fatta da addetti ai lavori per addetti ai lavori ma dal cittadino per il cittadino. Queste brevi riflessioni possono apparire delle ovvietà, ma deve essere riconosciuto che se si avverte la necessità impellente di riordinare e riscrivere, in un testo unico, la legislazione in materia di governo del territorio, significa che le leggi in vigore per come sono state scritte, per come sono state interpretate, per come sono state applicate non hanno consentito al cittadino e alle loro istituzioni la tutela e la salvaguardia del territorio, bene irripetibile e purtroppo esauribile. Per le leggi urbanistiche il primo grosso equivoco viene probabilmente dal fatto che si chiamino appunto “urbanistiche”, senza alcuna definizione dell’urbanistica. Gli stessi cultori dell’urbanistica, dati i prodotti e i risultati ottenuti, si sono chiesti se essa, così concepita e attuata, non sia da definire morta. La contrapposizione tra urbanistica e architettura è nota. Ambedue ambiscono a essere egemoni, a rivestire un ruo-
confusione come l’ha creata in passato l’indefinita e indefinibile urbanistica omnicomprensiva. Si vuole intendere forse che la progettazione urbanistica debba essere il processo di attuazione della programmazione e della pianificazione? E allora perché non si considera quale processo di attuazione di programmazione e pianificazione la progettazione architettonica, la progettazione del verde, la progettazione delle infrastrutture e dei servizi, la progettazione industriale, la progettazione agricola e tutte le progettazioni settoriali? Si vuole forse intendere che la progettazione urbanistica è interdisciplinare e omnicomprensiva, quindi unica in grado di coordinare e disciplinare le progettazioni settoriali? Se così fosse si intende forse riconoscere l’urbanista quale soggetto unico della programmazione e della pianificazione, unico competente in materia, con tutti gli effetti conseguenti che annullano la valenza di altri soggetti? Ma può essere ancora condivisibile detta tesi, anche alla luce dei risultati che l’urbanistica e gli urbanisti hanno prodotto? In quanto geometri dovremmo essere contenti per l’impostazione che traspare, perché siamo gli unici tecnici in Italia con formazione scolastica interdisciplinare e polivalenza professionale. Ma i geometri che non possono sentirsi omniscenti e come tali unici depositari del verbo non sono disponibili a che altri si arroghino tale diritto o che le leggi attribuiscano tali competenze solo ad alcuni soggetti non ben identificati dal percorso formativo e professionale. Certo formazione e competenza devono essere riconosciuti dalle leggi, ma non dovrebbero esser sanciti dalle leggi. Occorre abbandonare il dirigismo della legge, che nel nostro ordinamento disciplina, vorrebbe disciplinare tutto, anche a mezzo di incomprensibili, impropri e inefficaci parametri numerici, per cui le città sono più o meno vivibili solo in funzione del rispetto della legge omnidisciplinante ai risultati che abbiamo sotto gli occhi. Occorre che la legge sia espressione della cultura del cittadino e affondi il suo dettato nella responsabilità del cittadino, nella sua conoscenza, nella sua capacità di programmare il futuro, nel suo sapere e nel suo saper fare attraverso le istituzioni democratiche, nell’interesse di tutti e non certo nei privilegi che troppo spesso la legge assegna a taluni. Per tornare più propriamente al tema ci auguriamo: che sparisca dal dettato legislativo il concetto di progettazione urbanistica che si sovrappone ai processi di gestione e tutela del territorio; che la legge regionale che intende disciplinare il Governo del territorio non sottintenda e favorisca privilegi professionali, ma identifichi i soggetti preposti all’attuazione della legge in coloro che sanno e che sanno fare, senza privilegi di sorta. Non si deve verificare, com’è avvenuto in un passato abbastanza recente, che la Regione Lombardia, per tendere a garantire preparazione specifica nell’ambito delle Commissioni edilizie inserisca per legge nelle stesse commissioni gli esperti del paesaggio, ritenendo per tali le persone che hanno frequentato appositi corsi tenuti dalla Regione stessa (...). I soggetti responsabili del governo del territorio devono essere chiaramente individuati e definiti dalla legge, sia pur nel principio della sussidiarietà. Il termine sussidiarietà non diventi motivo di confusione tra soggetti e ruoli! Se, come riteniamo, il soggetto primario destinatario e attuatore del governo del territorio è da ritenere il cittadino singolo e nelle sue istituzioni democratiche, non può essere che quando il consiglio comunale decide di modificare il P.R.G., per destinare un’area agricola a verde sportivo, possa procedere solo se il grafico che rappresenta tale decisione è prodotto da un urbanista sottraendo così il potere decisionale allo stesso consiglio comunale. Questi fatti sono avvenuti, ora non c’è più il comitato di controllo, ma i fatti restano perché gli amministratori e i responsabili degli uffici tecnici, nella preoccupazione della possibile illegittimità dell’atto deliberante, ritengono doversi
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lo omnicomprensivo. Mentre si può dire che il prodotto dell’architettura, tangibile e sotto gli occhi di tutti, è valutabile positivamente o negativamente nel tempo, il prodotto urbanistico invece lo si può verificare solo dopo che sia intervenuta l’opera architettonica. Le parole spese per la ricerca della definizione dell’urbanistica e dell’urbanista non hanno portato a una definizione condivisa nemmeno tra gli addetti ai lavori, tanto da indurre il legislatore italiano a togliere il vocabolo “urbanistica” dalla Costituzione italiana per sostituirlo con i termini “governo del territorio” di più facile comprensione. Con questa modifica della Costituzione si è certamente compiuto un piccolissimo passo verso la chiarezza, l’interpretabilità e l’applicazione della norma. Forse, seguendo il novello dettato costituzionale, sarebbe stato meglio proporsi linee guida per la riforma delle leggi che disciplinano il governo del territorio, così che tutti comprendano di quale materia si vuol trattare, anziché proporsi linee guida per la riforma urbanistica regionale, perpetuando il concetto di urbanistica senza individuarne la definizione. Così come sarebbe meglio che, a seguito della modifica della Costituzione, l’assessorato regionale anziché esser denominato “al territorio e all’urbanistica” venisse denominato Assessorato al governo del territorio o anche semplicemente al territorio. Lo stesso dicasi per tutti gli assessorati provinciali, comunali e gli apparati dei loro uffici tecnici che dovrebbero veder bandire dalla propria denominazioni il termine urbanistico sia al fine di evitare duplicazioni di ruoli e dei conseguenti centri di potere, sia di escludere il conflitto di competenze sempre più manifesto nell’incertezza dei ruoli. Se ciò avvenisse si darebbe il segnale concreto che si intende giungere alla chiarezza, caratteristica fondamentale e primaria di ogni legge. Chiarezza, linguaggio comprensibile, sistematicità della materia trattata nell’articolato, nel favorire univocità di interpretazione e di applicazione, consentono di raggiungere gli obiettivi che si perseguono con la legge. L’articolato non è pronto, perché giustamente si ritiene prioritario fissare i princìpi, gli obiettivi che s’intendono raggiungere. Proponendosi di redigere un testo unico che disciplina il governo del territorio, almeno un articolo doveva esser pronto: l’articolo che, nell’individuare tutte le norme esistenti che regolano la materia, ne sancisca la totale abrogazione. Di certo non si fa chiarezza né intervento sistematico quando si legifera, come ha fatto il legislatore italiano, con il testo unico del giugno scorso sulle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia. Con detto testo unico si scrivono 138 articoli per abrogarne una cinquantina sparsi in 12 leggi che per altro restano in vigore, impegnando così, chi voglia conoscere l’intera normativa, a un continuo rinvio a leggi diverse. Ciò certamente non facilita nè la conoscenza della legge nè la corretta interpretazione e applicazione, nè una crescita culturale per il paese. Quando si producono leggi in questo modo si allontana il cittadino, e si da spazio alle più ampie storture interpretative e applicative. Ci si deve augurare che la Regione Lombardia non segua quell’impianto legislativo e abbia il coraggio di abrogare tutte le leggi esistenti nel settore, per poi magari riscriverle con le stesse parole nel nuovo testo, che possa definirsi unico, proprio perché non deve concedere rinvii a norme già dettate e mantenute in vigore, da ricercarsi altrove. L’impianto legislativo deve fissare e definire scopi, soggetti ed oggetti. In tema di definizioni, le linee guida in esame propongono la definizione del territorio, della programmazione, della pianificazione territoriale, della pianificazione settoriale e della progettazione urbanistica ritenendo quest’ultima l’atto che affronta le condizioni di conservazione, trasformabilità e rinnovo del territorio per spazi e tempi definiti. Mentre le prime quattro definizioni, sia pur nella loro sintesi, ci riportano all’oggetto (il territorio), agli obiettivi e ai mezzi (la programmazione), agli strumenti (la pianificazione), la definizione di progettazione urbanistica crea solo
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proteggere da coinvolgimenti di responsabilità e così si spogliano della responsabilità e competenza in materia, riducendo il potere del consiglio comunale al subordine del potere di chi firma il foglio di carta, indipendentemente dai suoi contenuti. Non può essere che l’intervento di ristrutturazione edilizia, ma anche solo di semplice manutenzione straordinaria, quando riguardi un edificio compreso in un comparto di recupero non possa esser progettato da un tecnico, considerato non abilitato ad atti urbanistici, ancorché sia abilitato alla progettazione degli interventi edilizi proposti e attuabili in linea con la pianificazione e con la programmazione. Non può essere che la legge consenta di ritenere inidoneo un tecnico alla redazione di un piano di lottizzazione, nelle maglie di una pianificazione generale, quando lo stesso tecnico sia idoneo alla progettazione di tutte le opere edilizie realizzabili nello stesso ambito. La legge non può affidare il risultato ad aspetti formali, ma deve tendere a valorizzare gli aspetti sostanziali, che sono quelli che caratterizzano gli eventi nel territorio. Si giudichino i progetti non chi li firma. Non può essere, che la legge attribuisca privilegi e per questo è necessario individuare chiaramente i soggetti operatori, i loro ruoli e le loro interrelazioni. Per queste ragioni, che sono motivi di chiarezza interpretativa ed applicativa delle norme, si ritiene che ogni riferimento all’urbanistica e agli urbanisti non debba trovare collocazione nella legge di riforma per il governo del territorio. Riaffermati i princìpi della chiarezza del linguaggio e dell’impianto del testo normativo, della univocità interpretativa, che si ottengono solo con l’abrogazione di tutte le norme ora in vigore, appare condivisibile che la legge si ancori ed affermi i princìpi della sostenibilità, della sussidiarietà, della perequazione dell’efficacia, dell’efficienza, della compensazione, della sostituzione, della cooperazione, della negoziazione, della flessibilità, del monitoraggio dell’interesse generale e pubblico, il tutto nella trasparenza della partecipazione democratica, nei criteri di valutazione funzionali e non in semplici verifiche di conformità formali affidati alla responsabilità dei soggetti che operano ed agiscono sul territorio, guidati dalla condivisione delle conoscenze. Ci si rende conto che trasferire detti princìpi nell’articolato è compito arduo, ma ci auguriamo che possa avvenire e saremo disponibili in ogni occasione a fornire il nostro contributo. Sia consentito un breve accenno sul principio della negoziazione trasparente, ritenuta opportuna per il raggiungimento dell’obiettivo sostenibile di interesse generale e di interesse pubblico, perseguito nella cooperazione, nella partecipazione, nella sussidiarietà di soggetti pubblici e privati. La negoziazione tra pubblico e pubblico e tra pubblico e privato, non sempre trasparente e palese, è sempre stata dominante nei processi attuativi di interventi nel territorio, anche e soprattutto, per la difficoltà interpretativa delle norme, confuse e contraddittorie, che spesso hanno portato a discrezionalità interpretative degli addetti, sia in sede autorizzativa che in sede di vigilanza. Per evitare questi effetti distorcenti si raccomanda un testo legislativo semplice, inequivocabile. Infine sul fatto che la legge debba favorire la condivisione delle conoscenze, pare apprezzabile il riferimento all’osservatorio permanente e al sistema informativo territoriale coordinato avviato da ogni ente locale del sistema cartografico e di garanzie del continuo e puntuale aggiornamento. Sotto il profilo delle indispensabili conoscenze non può tuttavia essere trascurata e ignorata la situazione del catasto, che lo Stato vuol continuare a egemonizzare. Appare necessario che la Regione, le Province i Comuni si attivino concretamente per la gestione del catasto. La legge che si prefigge di regolamentare il governo del territorio, non può ignorare la situazione del catasto che è indispensabile elemento di conoscenza dei valori da programmare e pianificare. Senza conoscere il territorio non si può pensare di pro-
grammare il futuro e pianificare l’attuale, come tanti hanno avuto la pretesa di fare per produrre lo scempio che riscontriamo e che, come per alcuni è facile dire, è il frutto delle incapacità progettuali dei geometri. Sergio Sottocornola Ricordo che circa un anno fa l’Assessore presentò a Bergamo la nuova legge sui programmi integrati di intervento. Allora, gli domandammo se e, in quali tempi, fosse prevista la presentazione di una nuova organica legge urbanistica regionale perché, quei provvedimenti prendevano senso, a nostro avviso, solo in rapporto a una riforma complessiva del quadro urbanistico di riferimento. In quella sede, l’Assessore aveva promesso che della legge si sarebbero occupati nella legislatura successiva o comunque a breve. E questo è avvenuto. Quindi noi non siamo di certo tra coloro che avanzano riserve in ordine al processo di produzione di norma, anzi riteniamo che i tempi potessero essere anticipati. Oggi per altro ci troviamo all’interno di un quadro istituzionale complessivo in via di aggiornamento e questo aggiunge ulteriori motivazioni e contenuti alla costruenda riforma urbanistica regionale. Molti sono i temi e le questioni sollevate, in buona misura riconducibili alle parole chiave utilizzate nelle linee guida: • sostenibilità; • organicità (in rapporto a flessibilità e mobilità); • sussidiarietà (come processo interattivo tra soggetti, di partecipazione diffusa, di co-pianificazione e monitoraggio partecipato). Si tratta di categorie molto interessanti sulle rilevanza delle quali si registra una quasi unanimità di principio. Questo per un verso è un fatto incoraggiante, ma che dà anche adito a legittime perplessità sugli esiti reali, perplessità fondate sullo scarto tra aspettative future e dato attuale, non confortante. Allora è opportuno chiedersi: quali sono i meccanismi e i soggetti che possono far sì che nei fatti questi princìpi guida modifichino la realtà? Come queste parole chiave possano tradursi in dati reali? In questa sede, data anche la limitatezza del tempo a disposizione, vorrei in particolare proporre alcune considerazioni sul concetto di flessibilità. Il principio di flessibilità ha accompagnato molte delle iniziative legislative della Regione Lombardia degli ultimi anni. Si tratta di una flessibilità messa in campo con la dichiarata intenzione di rompere o correggere un quadro legislativo/operativo dell’urbanistica ritenuto rigido e non più adeguato alle dinamiche in atto. Quindi, in qualche modo, una flessibilità di emergenza, fatta per rimediare a un modo di pianificare che si riteneva di dover superare. Si può discutere e si discute su quali siano stati gli effetti di questa “iniezione” di operatività (la legge sui sottotetti è un chiaro esempio della flessibilità e delle sue possibili patologie) ma in generale non è appunto questo il tipo di flessibilità che ci attendiamo da una nuova legge quadro, per un nuovo modo di operare in campo urbanistico. La flessibilità auspicabile ha presupposti diversi, più interessanti. Per essere più precisi, non è nemmeno di per sé il principio di flessibilità che ci pare debba catturare l’attenzione, ma piuttosto il principio del giusto nesso tra flessibilità e organicità, tra flessibilità e partecipazione/informazione. Nell’incrocio di queste categorie può fondarsi la garanzia che il processo sia di tipo evolutivo. In questo anche sta, parallelamente, uno degli aspetti fondanti l’urbanistica stessa in quanto lo studio e la pianificazione del territorio hanno come peculiarità quella di affrontare sistemi complessi: complessi oggi in modo nuovo. Da qui la necessità di un rapporto interattivo, dialettico, tra flessibilità, organicità, strutturalità. In questo ordine di idee volevo richiamare all’attenzione un utile spunto derivato dai princìpi della ecologia del paesag-
coordinamento e di elementi di continuità. Da diverse fonti, da tanti organi, arrivano iniziative e dati parziali. Sarebbe utile, oltre che un importante segnale, uno sforzo per raccordare obiettivi, acquisizione dati, comunicazione. Ettore Tacchini A quasi sessant’anni dall’entrata in vigore della legge urbanistica possiamo affermare che è sostanzialmente mancata la pianificazione sovracomunale come strumento di governo del territorio. Le conseguenze di questa assenza si sono imposte all’attenzione di tutti quando sono state previste delle infrastrutture e servizi di interesse sovracomunale che hanno dato luogo a una miriade di ricorsi o quando alcuni comuni hanno compiuto scelte pianificatorie con effetti sovracomunali. È evidente che la pianificazione territoriale e la pianificazione urbana sono due cose diverse e che mentre la seconda spetta ai comuni, la prima esige un intervento sovraccomunale dal momento che attiene alla disciplina del territorio. La proposta di riforma giustamente prefigura i rapporti tra i vari livelli di pianificazione. Viene superata la concezione gerarchica dei rapporti tra gli enti, in favore di un sistema che prevede la partecipazione degli stessi a partire da un confronto anticipato sugli obiettivi. A questo proposito va osservato che fino ad oggi il principio della co-decisione, in se stesso positivo, ha determinato spesso incertezze e conflitti di competenza che hanno finito per allungare i tempi del procedimento al punto che alcuni piani hanno riguardato più il passato che il futuro. D’altra parte le osservazioni a progetti già elaborati sono state spesso oggetto di contenzioso. L’istituto della conferenza dei servizi resta dunque lo strumento migliore ai fini della composizione di interessi differenziati quali quelli in gioco. È però opportuno stabilire criteri chiari, di valenza gerarchica tra le prescrizioni che incidono sul territorio così da evitare incertezze e potenziali conflitti. Il P.R.G. che era visto come deus ex machina risolutore di tutti problemi, ormai ha certamente fatto il suo tempo. L’urbanistica, ha detto qualcuno, deve stabilire le compatibilità ambientali e non fare programmazione socio-economica. Un P.R.G. che pretende di risolvere in via preventiva e una volta per tutte i problemi del territorio dimostra i suoi limiti tanto che la potestà pianificatoria dei comuni è oggi sostanzialmente erosa da soggetti privati che in maggiore sintonia con il mercato presentano progetti di intervento che non trovano riscontro nel P.R.G. e che sono comunque rispondenti alle domande della collettività. Sotto questo profilo la legge regionale 23 del ‘97 costituisce uno strumento che assicura la necessaria flessibilità allo strumento urbanistico ma che nello stesso tempo rischia di dare luogo a varianti estranee all’assetto voluto dal piano portando a una sommatoria di interventi disomogenei e improvvisati. Da qui la necessità di una riforma che ridisciplinando il contenuto e le finalità del P.R.G. garantisca la flessibilità in un quadro di chiari obiettivi strategici e di invarianti strutturali territoriali e ambientali. Diversamente si corre il rischio che si determini un rovesciamento di ruoli: fare l’urbanistica attraverso l’edilizia. Sotto un altro punto di vista è sempre più avvertita l’esigenza di forme di perequazione tra i proprietari delle aree in forme di collaborazione tra pubblico e privato per evitare previsioni astratte spesso inutili di standard urbanistici. Vi sono dei nodi che devono essere risolti. Innanzitutto il rapporto tra la legislazione statale e quella regionale. Il nuovo articolo 117 della costituzione conserva nell’ambito della legislazione concorrente dello Stato il governo del territorio. Da qui l’impossibilità di prescindere da princìpi generali dettati dalla legislazione nazionale. Queste competenze centrali esistono in tutti i paesi europei e sarebbe del tutto ragionevole pensare di lasciare alle singole leggi regionali l’onere della riforma urbanistica. D’altra parte i soggetti privati e il comune hanno bisogno di operare secondo regole certe. La soluzione dello iure contendo è pericolosa come dimostra la recente sentenza del T.A.R. di Brescia che ha an-
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gio, scienza che, come noto, affronta i problemi delle relazioni in sistemi complessi, a varia scala. Uno dei princìpi base dell’ecologia del paesaggio sostiene che ciò che tale disciplina indaga ed afferma è valido a qualsiasi scala (nel piccolo habitat come nei grandi sistemi ambientali) purché si ottemperi ad una condizione: che nelle valutazioni si tengano presenti i rapporti di contiguità con gli ambiti a scala superiore ed inferiore. Si deve in altri termini prestare la dovuta attenzione ai rapporti sottostanti e sovrastanti. In questo senso l’urbanistica ha necessità di un’ecologia dell’urbanistica stessa. Tanto più in una fase come quella attuale in cui non si tratta tanto di fondare nuovi “paesaggi” ma di riqualificare e ricucire quelli già sedimentati. L’urbanistica oggi, ancor più di ieri, esiste solo se è in grado di determinare, occupandosi di un certo ambito (tematico e spaziale), connessioni adeguate con gli ambiti contigui. Da questa attitudine e questa pratica nascono anche la capacità e l’abitudine a dialogare (altrimenti che rimane del principio di sussidiarietà?). Pensiamo questo in rapporto, ad esempio, a ciò che fa un Comune, questo soggetto cardine dell’azione urbanistica. Il singolo Comune si colloca in questo atteggiamento nel momento in cui prende in considerazione e riflette sul rapporto che intercorre fra i suoi spazi abitati, per funzioni insediative ed attività di vario genere, le strutture per la mobilità, gli spazi agricoli, gli spazi della naturalità, ecc. Mettere a fuoco le relazioni tra questi ambiti porta a stabilire quali livelli di equilibrio e di interazione si hanno e in che modo si possano modificare in meglio. Partendo da questa attenzione per le relazioni in casa propria il Comune potrà costituirsi come soggetto interessato a rapportarsi con relazioni analoghe a scala più ampia, sovracomunale. Se una comunità locale si pone in condizione di interpretare in modo non superficiale ed occasionale la sua realtà propria, si attrezza anche culturalmente e psicologicamente a mettersi in relazione con una realtà più ampia. La necessità di prendere in considerazione non solo tante singole questioni, ma l’intreccio in cui si collocano, rinvia, come logica conseguenza, alla questione dei rapporti di interdisciplinarietà (questo è evidenziato nella bozza di legge in cui si afferma appunto che le competenze in urbanistica vanno viste in chiave interdisciplinare). Ma capire come possano e debbano interagire le competenze non è semplice. Le strutture universitarie stanno facendo passi in questa direzione. Le strutture professionali meno. Però sono chiamate anche loro a un rinnovamento, a presentarsi sempre di più nei confronti della comunità come garanti di una prestazione di servizio all’altezza delle questioni poste. All’atto pratico manca un sistema di riferimento culturale, universitario e professionale, che permetta di mettere a fuoco l’interdisciplinarietà esercitata a livello di interazione sul campo. Perché il vero valore aggiunto dell’interdisciplinarietà è camminare insieme sul campo, ognuno con la propria competenza specifica, incrementandola appunto del valore aggiunto che nasce dall’interazione con quella degli altri per arrivare a risultati finali che saranno ben diversi da quelli a cui sarebbero giunte più visioni singole accostate ma prodotte singolarmente. In campo professionale non si è molto avanti nelle formazione delle modalità e delle competenze atte a garantire questo processo. È auspicabile che possa venir incentivato da un organico quadro di iniziative (corsi di formazione, occasioni di aggiornamento, ecc.) appunto improntate in modo interdisciplinare. Un’ultima cosa, per segnalare l’importanza di quanto attiene informazione e documentazione. La sensazione ricorrente è quella di trovarsi spesso di fronte a sistemi informativi scollegati e occasionali, con il rischio di ripartire ogni volta dal punto di partenza, in mancanza di
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nullato il suo P.R.G. per aver previsto l’azzonamento secondo i criteri della legge 1150 del ‘42. La legge regionale 1 del 2001 ha previsto dagli standard privati e disposto che essi concorrano al soddisfacimento della dotazione degli standard prescritta dalla legge previa approvazione del piano dei servizi. Si tratta di uno strumento di programmazione che esige la ricognizione e la previsione in un determinato periodo dei servizi necessari o utili alla collettività, ma che rischia di produrre effetti potenzialmente configgenti con la ratio della norma. In ogni caso il piano dei servizi se non può e non deve costituire un espediente per modificare il piano in funzione di visioni apparenti non può neppure tradursi in uno strumento di astratta e preventiva programmazione di tutti i servizi alla collettività, pena la riproposizione dei limiti del vecchio P.R.G. Resta poi il problema della compatibilità della norma regionale con la legislazione statale, anche se a ben vedere l’articolo 3 del decreto ministeriale 1444/68 attuativo dell’articolo 17 della legge 765/67, cita sia gli spazi pubblici che gli spazi riservati alle attività collettive. Nella proposta di riforma regionale non sembrano considerati a pieno titolo gli accordi pubblico-privato. La cosiddetta urbanistica contrattata è una realtà che non può più essere né demonizzata né ignorata. Piuttosto il citato principio di sussidiarietà e quello di trasparenza dell’azione amministrativa impongono una disciplina. L’accordo pubblico-privato circa il contenuto del provvedimento amministrativo è del resto previsto in via generale all’articolo 11 della legge 241 del ‘90. Un esempio di disciplina del fenomeno è offerto dalla legge regionale 20 del 2000 dell’Emilia Romagna, la quale prevede che gli enti locali possano concludere accordi con i privati per assumere nella pianificazione proposte di progetti e iniziative di rilevante interesse per la comunità locale. La Lombardia, con la legge regionale 9 nel ‘99, ha previsto una riduzione dell’accordo pubblico-privato limitando l’intesa allo standard qualitativo nell’ambito del programma integrato di intervento. Si ripropongono per lo standard qualitativo problemi già visti a proposito degli standard privati, mentre non è chiaro se lo standard qualitativo sia oltre che sostitutivo della cessione delle aree anche scomputabile come qualsiasi infrastruttura pubblica dagli oneri di urbanizzazione secondaria per l’edificazione nell’ambito del programma integrato di intervento. Parrebbe di sì, perché non avrebbe senso, una volta qualificata l’opera come standard qualitativo, distinguere tra la dotazione di spazi pubblici o di uso pubblico e gli oneri di urbanizzazione secondaria. La legge regionale però, prevede soltanto lo standard qualitativo in sostituzione della cessione delle aree. Gli standard privati propongono anche il problema dell’uso di beni e servizi privati senza preventiva gara, ma tramite un conflitto con la disciplina comunitaria per gli appalti ai servizi pubblici. L’allarme per così dire viene dalla corte di giustizia europea che con sentenza del luglio 2001 ha censurato la normativa italiana che consente la realizzazione diretta di opere di urbanizzazione da parte del privato titolare o della concessione edilizia a scomputo del contributo di concessione come violazione della normativa comunitaria per gli appalti pubblici. Quanto poi alla destinazione d’uso (zonizzazione) essa costituisce ancora oggi l’elemento essenziale del P.R.G. sulla base del disposto dall’articolo 7 n. 2 della legge urbanistica istitutiva nel ‘42 nel suo duplice aspetto funzionale e strutturale. Elemento diretto ad assicurare uniformità di disciplina del territorio nel senso di prevedere regole omogenee e non capricciose per aree omogenee del territorio. La liberalizzazione dei mutamenti di destinazione d’uso, che certamente si imponeva a fronte del costante indirizzo giurisprudenziale secondo cui non c’è mutamento di destinazione urbanisticamente rilevante in assenza di opere edilizie, comporterà tuttavia problemi non indifferenti ai comuni che non hanno ancora adeguato lo strumento urbanistico alle disposizioni della legge regionale n. 1 del 2001 e facilmente riporterà la pratica della cosiddetta “politica del carciofo”.
Infine un accenno ad un problema non urbanistico, ma di grande attualità, la D.I.A. A prescindere dalla questione se trattasi di istituto compatibile o meno con la legge nazionale, la questione che si pone in concreto è la sua qualificazione giuridica in quanto istituto mutuato dall’articolo 20, ovvero dall’articolo 19 della legge 241/90. Nel primo caso sulla denuncia si forma il silenzio assenso, nel secondo caso la denuncia costituisce soltanto una comunicazione dell’inizio di un’attività a fronte della quale il silenzio osservato dalla pubblica amministrazione costituisce un mero comportamento. La diversa qualificazione della D.I.A. ha effetti poi sulle modalità di tutela dei terzi. Il silenzio rifiuto è impugnabile dal giudice amministrativo che con il suo annullamento può ordinare all’amministrazione quali interventi assumere in forza della nuova legge 205/2000 sul processo amministrativo. Se invece si tratta di un mero comportamento dell’amministrazione il giudice potrà soltanto accertare se tale comportamento sia o meno illegittimo. Alessandro Moneta Rispondo innanzitutto al presidente dell’Ordine degli Avvocati. Non è stato bocciato il P.R.G. di Brescia; è stata bocciata la città di Brescia, l’amministrazione comunale di Brescia, è una cosa diversa. Non stiamo parlando di un P.R.G. approvato e poi bocciato dal TAR, ma di P.R.G. adottato dall’Amministrazione comunale ma mai valutato dalla Regione Lombardia sotto l’aspetto della legittimità. Quando si dice: “bocciato un P.R.G.” si pensa che siano bocciati tutti i livelli che sono coinvolti nell’iter di approvazione. Il piano di Brescia non è arrivato in Regione. Non posso immaginare che la bocciatura del piano di Brescia debba necessariamente equivalere alla bocciatura del P.R.G. di Bergamo, che invece è stato approvato. Il rappresentante degli Ingegneri mi ricordava che quando ho presentato i programmi integrati di intervento ho proposto in tempi brevi la riforma urbanistica. La riforma non ha potuto arrivare prima perché io allora non ero assessore all’urbanistica. Non abbiamo perso tempo, lo dico perché voglio essere preciso. Nominato nel giugno del 2000, nel luglio del 2000, esattamente dopo 23 giorni ho costituito un gruppo altamente qualificato che ha lavorato sulle linee guida. Avevamo detto che avremmo prodotto le linee guida entro il 30 giugno del 2001. Entro il 30 giugno del 2001 le linee guida sono uscite. Stiamo dicendo che vogliamo portare a compimento l’articolato con il concorso di tutti entro il 30 giugno del 2002 e possibilmente entro il 30 dicembre del 2002 la riforma sotto forma di testo unico. Oggi però lo scenario è diverso e ci fa piacere. La modifica del titolo V della costituzione non è un fatto squisitamente tecnico-giuridico-legislativo, rivoluziona il mondo ma non solo l’urbanistica, rivoluziona alcuni concetti culturali. Sapete cosa vuol dire non avere il controllo di legittimità da parte del governo? Vi faccio un esempio. Si è parlato della super D.I.A., della legge di riqualificazione dei centri storici assieme alla legge sul cambio di destinazione d’uso (si tratta di una legge unica). Quella legge era stata proposta alla fine della legislatura scorsa; siamo riusciti ad ottenerla, approvata dal Consiglio dei Ministri,esattamente dopo venti mesi. Un altro esempio. Ho approvato tre settimane fa in consiglio regionale, con strumento legislativo, l’interpretazione autentica dell’esistenza dei sottotetti e della D.I.A. Questo cosa significa? Nell’immaginario collettivo di alcuni docenti universitari, in materia fortemente radicati sul sistema delle regole prima ancora che sul sistema della responsabilità, si immagina che siamo nella grande fase della deregolarizzazione, non ammettendo che possano e debbano esistere regole. Il concetto di responsabilità è un concetto molto forte perché nasce dal fatto che il primo cittadino, il presidente della Provincia, il presidente della Regione è elemento di sintesi nell’interesse della comunità. Noi ci confrontiamo per la capacità
so in articulo mortis, approva il testo unico sull’edilizia. Non si è capito un altro concetto: pubblico e privato insieme stabiliscono le regole del gioco. Abbiamo approvato il piano paesistico. L’uso del territorio deve essere davvero equilibrato e noi di questo siamo convinti. Uso equilibrato del territorio, non certo seguendo la legge nazionale cui noi facciamo riferimento perché la legge nazionale dell’urbanistica risale al 1942 ed era ed è impostata secondo i modelli di forte sviluppo territoriale. Oggi noi non siamo più in queste condizioni. Oggi siamo nella condizione culturale esattamente opposta che è quella del recupero di ciò che già esiste. Le linee guida nascono quindi da una situazione culturale diversa. Questo non significa che non vogliamo confrontarci, non saremmo qui. Noi vogliamo aprire un confronto costante con le istituzioni, le province, i comuni, ma anche con gli ordini professionali, con le associazioni di categoria perché siamo consapevoli dell’importanza di arrivare a un prodotto il più possibile condiviso. Ripeto, non unanimamente condiviso, ma il più possibile condiviso. Queste linee guida sono il punto di partenza, non di arrivo. Un’ultima riflessione sulle invarianti, un punto determinante. La flessibilità, se noi dovessimo rappresentarla idealmente, coincide con le invarianti. Questo vale per il piano territoriale regionale come dovrebbe valere per il piano territoriale di coordinamento provinciale perché se noi non prevediamo le invarianti e non vogliamo la flessibilità fra trent’anni saremo ancora qui a parlare di Brebemi e pedemontana. Noi abbiamo stabilito un principio secondo cui l’opera deve essere approvata all’unanimità perché ha un’incidenza evidente sulla pianificazione territoriale. Allora le invarianti diventano un elemento significativo. Oggi stiamo cercando di potenziare in modo significativo l’est della Lombardia attraverso la riqualificazione di Orio al Serio, attraverso l’altro polo di Montichiari, ma sono operazioni destinate a partire soltanto quando ci sarà un effettivo recupero del deficit infrastrutturale. Mi auguro di poter vedere quanto prima il piano territoriale di coordinamento di Bergamo, perché il compito nostro è quello di creare il dialogo tra i diversi piani di coordinamento provinciale. Il piano territoriale regionale deve far dialogare questi strumenti così come farà dialogare i confini delle regioni che ci circondano. Uno sforzo davvero significativo e importante che non vogliamo fare da soli, ma in concertazione. Roberto Ghidotti Mi permetto di dire che la riforma urbanistica deve essere scritta con un linguaggio comprensibile, perché una legislazione urbanistica deve essere capita anche dal semplice cittadino. Dico questo perché quando facevo l’amministratore comunale, quando si parlava di P.R.G. o P.L, chi non era tecnico era sempre tagliato fuori. Crediamo che su questa riforma regionale ci debba essere una condivisione anche da parte delle associazioni di categoria perché lo sviluppo del territorio deve essere armonico. È troppo facile scaricare sugli altri comuni tutti gli aggravi e tutti i vari costi sociali mentre il comune interessato incamera gli oneri di urbanizzazione, ma delega altrove i problemi di viabilità, di parcheggio. Noi vediamo con molto interesse il ruolo della Provincia. Le amministrazioni comunali devono incominciare a discutere il problema della riqualificazione dei centri storici per quanto riguarda le attività commerciali. Speriamo che la Provincia acquisisca il ruolo di governare insieme alle associazioni di categoria. Noi siamo disponibili ad affrontare questi dibattiti e, se ne avremo la possibilità, a dare indicazioni. Credo che questo possa essere utile soprattutto perché ci sta a cuore la rivitalizzazione del centro storico, dei comuni e soprattutto la vivibilità della realtà comunale. Claudio Re La Confesercenti è molto interessata ai temi proposti da questo Convegno perché la legislazione del settore commercia-
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che abbiamo di assumerci le responsabilità. Sono stufo di sentirmi dire che si fa abuso della legge 23. La legge 23 è un’ottima legge che è stata applicata in 4750 casi in Regione Lombardia e dato che i comuni sono 1546 vuol dire che è stata applicata più volte in ogni comune. Ciò non toglie che qualche sindaco abbia abusato del proprio potere. Risponda al tribunale amministrativo regionale se l’errore è di tipo amministrativo, risponda alla procura della Repubblica se si tratta di reato penale. Ma non si può dire che una legge stravolge certi princìpi perché qualcuno l’ha male applicata. Il concetto generale è che una legge è buona quando è bene interpretata e quindi ben applicata. Un’ottima legge male interpretata e male applicata inevitabilmente diventa una pessima legge e si ritorna al discorso sulla responsabilità che è strettamente collegata al discorso della sussidiarietà. Fino a ieri faceva comodo dire: tutto ciò che subiamo, lo subiamo perché Roma decide. Oggi diciamo: Roma smetta di fare quello che può fare la Regione. La Regione smetta di fare quel che deve fare la Provincia. E aggiungiamo: non faccia la Provincia ciò che può fare il comune. Questo è il vero concetto di sussidiarietà. C’è un concetto di sussidiarietà orizzontale che risponde al principio: non facciano le istituzioni tutto ciò che può fare il privato. Anche questo ci riporta ad un effettivo concetto di responsabilità. Se non riusciamo ad intendere il nuovo filone culturale in cui ci muoviamo deformiamo il nostro pensiero rispetto a qualunque tipo di legislazione di settore o generale. Infatti, si parte da un presupposto culturale alternativo. Il sistema di prima si reggeva su un elemento essenziale: la comodità. Era un sistema comodo: io propongo, tu verifichi, l’altro livello dice la sua, l’ultimo livello approva; io, che sono il livello primo o intermedio mi sento libero perché c’è qualcuno sopra di me che decide. Questo vale per le istituzioni, ma vale anche per gli ordini professionali perché la responsabilità rispetto alla crescita del territorio non è solo del sindaco è anche di chi esercita una professione fortemente incidente sul territorio. Quando vedo le brutte periferie di alcune città, quando vedo che non c’è uno slancio forte per realizzare prodotti forse criticabili ma innovativi nel campo della qualità, non posso dare la colpa al solo sindaco perché si tratta di un concorso di fattori e di colpe che sommandosi producono risultati negativi. La qualità non si impone per legge. La qualità la si vede dal progetto, dall’intelligenza, dalla capacità che si ha nel rapportarsi al territorio. Noi abbiamo sempre detto che le nostre leggi di settore nascono dal presupposto che il territorio è un bene irriproducibile e la sua irriproducibilità ci pone ancora una volta di fronte a una maggiore responsabilità, perché quando io sbaglio a programmare il territorio, è la collettività che viene chiamata nel suo insieme a porvi rimedio. Ecco perché il passaggio di qualità a cui mi riferivo è prima di tutto di tipo culturale. Se non riusciamo a capire che il mondo sta cambiando rispetto alle scelte fatte, non riusciamo a capire se le scelte sono giuste o sbagliate. Non posso sentirmi dire che c’è poca concertazione negli strumenti legislativi. La facciamo con una legge quindi in modo trasparente. Lo facciamo perché siamo convinti che il privato non sia il soggetto finale di una catena. Il privato deve concorrere a programmare il territorio, deve essere co-attore con l’amministrazione o con il governo locale. Questa è la regola dei programmi integrati di intervento. Oggi, in questi scenari che stanno fortemente cambiando, c’è tutto un mondo da verificare, da scoprire, o quanto meno da analizzare. Vuol dire che tutto ciò che riguarda la legislazione viene dato alle regioni purché queste, legiferando, rispettino i princìpi fondamentali dettati dallo Stato. Quindi bisogna riscrivere i princìpi fondamentali. La prima considerazione che mi viene in mente mette in evidenza un contrasto pesante del governo uscente rispetto a certe scelte. Da una parte si promuove un referendum confermativo sulle scelte in materia federalista, dall’altra il governo stes-
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le che prima disciplinava la materia intervenendo soprattutto sugli aspetti amministrativi, dal 1998 ha invece spostato il campo di intervento sul terreno più squisitamente urbanistico e quindi la pianificazione commerciale del settore è oggi parte della programmazione urbanistica più generale. I problemi che qui sono stati posti di una maggiore flessibilità, di una maggiore agibilità degli strumenti urbanistici comunali, di una definizione migliore dei ruoli e delle competenze dei vari livelli istituzionali vengono quotidianamente vissuti dai nostri associati. Crediamo quindi che, per la definizione di un nuovo modo di operare e di intervenire su questa materia, debba essere attuata un’ampia consultazione in modo da arrivare a provvedimenti che tengano conto anche delle esigenze degli operatori dei diversi settori economici che nella comunità operano e vivono. In questo senso volevo accennare ad alcuni problemi che oggi riscontriamo. Stiamo discutendo in Regione, in questi giorni, una serie di domande di apertura di nuove grandi strutture di vendita in provincia di Bergamo. La materia è disciplinata, a livello nazionale, dal decreto Legislativo n. 114/1998, da cui discendono, a livello regionale, la legge n. 14/1999 e il Regolamento n. 3/2000. Ora, mentre condividiamo l’intervento della Regione laddove definisce criteri di indirizzo generale per i Comuni che devono adeguare alla nuova legislazione di settore i propri strumenti urbanistici e per le Province che devono procedere all’approvazione dei Piani Territoriali di Coordinamento, diamo invece un giudizio fortemente negativo sulla parte della legislazione in cui la Regione interviene direttamente sulle specifiche realtà territoriali. Ad esempio, si vanno ad individuare delle unità territoriali che dovrebbero essere da un punto di vista socio-economico omogenee e che dovrebbero costituire bacini di utenza commerciali, che evidenziano uno stridente contrasto con le situazioni reali presenti sul territorio. Un altro aspetto critico riguarda l’istituzione dei cosiddetti automatismi, cioè dei casi in cui il parere positivo del rappresentante della Regione costituisce un atto dovuto. Proprio ieri in Conferenza dei servizi, in Regione, è stato dato un parere favorevole al trasferimento di una grande struttura di vendita da Vaprio d’Adda a Curno. Trattandosi di comuni che, incomprensibilmente, sono compresi nella stessa unità territoriale, il rappresentante della Regione ha dovuto esprimere il proprio parere favorevole all’accoglimento della domanda determinandone così l’approvazione nonostante il parere contrario della Provincia. Credo che chiunque abbia presente la differenza tra le due realtà comunali e i problemi che la spropositata concentrazione di grandi strutture già in essere nel Comune di Curno comporta. Ritengo quindi che sia bene che la Regione mantenga il proprio intervento legislativo su di un piano di definizione di un quadro normativo generale, individuando metodologie e procedure operative astenendosi però dall’entrare nel merito di scelte che attengono alla specificità del territorio senza acquisire come riferimento gli orientamenti espressi dai Comuni e soprattutto dalle Province. Sul problema della definizione di un equilibrio nella presenza sul territorio delle diverse forme distributive ed in particolare di quello tra centri commerciali esterni al tessuto urbano e centri commerciali naturali fortemente integrati nei quartieri e nelle frazioni, nei paesi e nelle città, noi scontiamo il fatto che gli oneri di urbanizzazione per l’insediamento delle attività commerciali sono quelli più gratificanti per le amministrazioni comunali. Esse, quindi, sono molto sensibili alle pressioni delle società che realizzano grandi strutture di vendita. Prima Ghidotti faceva presente che molto spesso i problemi generati da questi insediamenti ricadono sull’assetto generale del territorio e soprattutto sui comuni vicini. In questo senso noi contiamo molto sul ruolo che potrà svolgere la Provincia. Infatti essa è certamente un Ente che cono-
sce il territorio, lo dimostra quotidianamente anche nelle riunioni di conferenza dei servizi, è al di sopra delle parti in quanto non incamera oneri di urbanizzazione ed ha già una serie di competenze importanti relative alla viabilità, all’ambiente, ecc. Abbiamo apprezzato che la Giunta Provinciale abbia recentemente approvato un documento di indirizzi, su queste problematiche, alle Amministrazioni Comunali ed auspichiamo anche che ci sia un pieno coinvolgimento, anche della Confesercenti, nella definizione delle scelte e degli obiettivi del Piano Territoriale di Coordinamento perché questo sarà poi lo strumento importante per affrontare nel modo giusto le problematiche che ci stanno a cuore. Credo anche che la Provincia possa svolgere un ruolo importante per quanto riguarda l’altro settore che rappresentiamo, quello del turismo. La realtà bergamasca ha parti importanti di territorio che hanno nel turismo l’unica possibilità di sviluppo. Lo sviluppo turistico di un’area è fortemente legato alla qualità e all’organizzazione del territorio. Io credo che, in questo senso, debba essere fatto un salto di qualità nell’intervento sulle aree a vocazione turistica per far sì che riescano ad inserirsi nel mercato del settore offrendo un’offerta fortemente caratterizzata che le distingua dalle altre realtà concorrenti. È necessario quindi un coordinamento degli interventi delle Amministrazioni Comunali delle aree omogenee che solo la Provincia in collaborazione con le Comunità Montane, laddove vi sono, può realizzare. Un ultimo aspetto che volevo toccare riguarda la pianificazione a livello comunale. Questa prevede per gli urbanisti alcune scadenze che sono estremamente importanti e attuali, visto anche il ritardo con cui le amministrazioni comunali stanno provvedendo agli adempimenti di legge. Già prima parlavo degli adeguamenti del P.R.G. alla nuova legislazione sul commercio. Io credo che ci debba essere un momento di riflessione che consenta a tutti di cogliere a pieno quale debba essere il ruolo e la funzione del sistema commerciale e dei servizi nell’ambito delle città. I nostri centri urbani vivono oggi una situazione di profonda crisi. Come Confesercenti abbiamo fatto recentemente alcune indagini sulla popolazione da cui emergono puntualmente problemi di qualità urbana, di traffico, di accessibilità, di sicurezza. Sono convinto che un paese o una città siano tanto più vivibili quante più risposte alle proprie esigenze la gente riesce a trovare sul loro territorio e quindi, se riusciamo a cogliere a pieno il potenziale ruolo delle attività commerciali e di servizio all’interno del tessuto urbano e ad assimilarne le logiche di sviluppo, riusciremo a dare un contributo importante per garantire una maggiore vivibilità dei nostri paesi e delle nostre città. Come Confesercenti, stiamo cercando di portare avanti alcune “esperienze pilota” su alcuni quartieri della città, con particolari metodologie di intervento che tendono ad analizzare gli aspetti che possono concorrere a elevarne il livello di vivibilità, racchiudendoli in modo organico in un unico progetto. È chiaro che la nostra proposta è di metodo e, quindi, il contributo e il supporto di urbanisti, sociologi, esperti socio-economici, operatori sociali e culturali e quant’altro, sono estremamente importanti. Quindi, per quanto di vostro interesse, saremmo ben felici di poter trovare con l’Ordine degli Architetti degli ulteriori momenti di approfondimento e di collaborazione. Luigi Nappo Ho già detto anche in Regione, portando l’esperienza del Comune di Bergamo, che la pianificazione classica ha svolto una funzione importante negli anni passati però resta in contrasto stridente con le esigenze dei comuni e con le esigenze dei cittadini.
problemi. Mi aspetto che da qui al mese di giugno, fra la Regione e la Provincia, si trovi il peso giusto del livello di programmazione, con il massimo coordinamento fra i vari enti. Felice Sonzogni Certamente governare il territorio è l’obiettivo al quale tutti dobbiamo tendere. Lo dobbiamo programmare cercando di porci in relazione con le condizioni attuali consapevoli però delle mutazioni che sono in corso per garantire l’elaborazione di una prospettiva di questo nostro territorio che sia capace di far convergere su di sé tutte le sensibilità e gli interessi che oggi sono state sottolineate. È indubbio che spetta soprattutto alle istituzioni, la Regione, la Provincia, i Comuni, il comune capoluogo in particolare, recuperare quel rapporto fiduciario nei confronti della comunità perché si possa arrivare alla definizione del piano territoriale entro qualche mese. Sapete bene che per la predisposizione del piano territoriale ormai tutta la fase di analisi e di conoscenza del territorio si è sostanzialmente conclusa. La conoscenza più approfondita ci ha permesso di capire quali possono essere le prospettive. D’ora in avanti sappiamo bene cosa ci troviamo davanti: come sta cambiando la società, come stiamo cambiando noi, quindi non possiamo più accontentarci di guardare la quotidianità ma dobbiamo capire che se vogliamo intercettare le evoluzioni e non vogliamo essere sempre in ritardo è necessario uno sforzo aggiuntivo: buttarci in avanti perché governare significa anche organizzare azioni che si collocano in una prospettiva temporale. Abbiamo però degli elementi positivi a nostro favore come comunità bergamasca. Tutta una serie di questioni che riguardano l’impianto, l’orditura sulla quale fare appoggiare le politiche di prospettiva sono abbastanza delineate. È ormai definito il grande sistema autostradale, lo schema della viabilità, aeroportuale, il sistema ferroviario, lo schema per il riordino del trasporto delle merci. Sapete che abbiamo promosso con un’iniziativa della Provincia, con il comune di Bergamo, un progetto importante di tramvia. Tutti questi elementi saranno alla fine il sistema infrastrutturale sul quale appoggiare queste politiche di prospettiva. Il territorio bergamasco sta diventando sempre più un’area di grande interesse perché si prefigura come una sorta di nuova centralità infrastrutturata del territorio lombardo. Ma ci sono anche aspetti critici. Solo per titoli: un’incompleta strategia di riferimento regionale; un territorio fortemente urbanizzato e ancora in forte crescita; una parte del territorio presenta una progressiva saturazione degli spazi; c’è un’eccessiva settorialità; c’è una politica urbanistica di tipo municipale; ancora non siamo riusciti a costruire condivisioni e forse saremo incapaci di crearne una globale. D’altro canto oggi si dibatteva sulla prospettiva della riforma urbanistica; io credo che se si volesse sintetizzare si dovrebbe dire che il processo devoluto in corso è talmente rapido che in questa crescita ha scardinato tutti i sistemi e le modalità di governo del territorio. Ciò che dobbiamo prefigurare per il dopo non può essere sicuramente riconducibile alle procedure precedenti. Ha ragione l’assessore Moneta quando dice: o ci mettiamo in sintonia con questa nuova condizione e sosteniamo culturalmente delle prospettive diverse oppure non ce la faremo mai a dare una risposta globale ad ogni atto che riguarda il governo del territorio. Rischieremo sempre di finire con una risposta che sarà insufficiente. Si è dibattuto sulla necessità, che ovviamente condividiamo, di procedere con una capacità di progettazione integrata. Ormai credo che tutti siamo sufficientemente consapevoli e maturi per dichiarare che c’è tutta l’attenzione necessaria perché questi progetti siano sviluppati in termini di ecologia urbana. Oggi a tutti noi che operiamo nelle istituzioni è richiesto di muoverci con slancio. Fatti importanti stanno accadendo sul nostro territorio; cerchiamo di recuperare il senso del nostro impegno per prefigurare una dimensione moderna, di grande qualità della nostra Provincia. Con il piano territoriale cercheremo di ritrovare questo consenso complessivo.
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Convegno di Bergamo
Il P.R.G. di Bergamo ha avuto un iter dal ‘92 al 2000. Questo la dice lunga sulla sua praticabilità in futuro. Quando per ridisegnare la proposta ci vogliono otto anni, vuol dire che a stento ce la fanno due amministrazioni il che confligge non solo con l’interesse dei Comuni, ma con quello dei cittadini e degli operatori. La città nel frattempo evolve. Pensate alla realtà delle aree dismesse. Bergamo era una città, negli anni ‘60, ‘70 con grandi aree industriali, adesso sono tutte sparite. È già stata rimarcata l’importanza della programmazione. L’importanza della programmazione nasce anche con l’attuale “legge dei Comuni”, dove si attribuisce ai sindaci il dovere di redigere il programma dell’amministrazione che si articola su due settori: programma per il territorio e programma dei servizi per le persone. Il programma del territorio a sua volta si articola in due sottosistemi: programma delle opere pubbliche, attraverso i cosiddetti lavori pubblici e programma che viene realizzato attraverso le scelte attuative del P.R.G. Noi abbiamo avuto in questi anni delle leggi che ci hanno favorito come amministrazione. Non dobbiamo lamentarci della legge Merloni. Dobbiamo dire che ci sono leggi che ci agevolano, una di queste è la legge 9 del ‘99 sui programmi integrati di intervento, la legge 23, la legge n. 1 del 2001 che consentono alle amministrazioni comunali di inquadrare i momenti di attuazione del P.R.G. all’interno del programma amministrativo comunale, cioè si può gestire il P.R.G. secondo le priorità politiche che l’amministrazione intende portare avanti. All’interno di questo un ruolo importante lo può giocare il privato. Il ruolo del privato è quello di prendere conoscenza del piano delle opere pubbliche, del P.R.G. e farsi portatore di proposte che si inquadrino negli obiettivi dell’amministrazione comunale. Il punto di equilibrio non deve essere il punto di massimo ricavo o di massima utilità per il privato, ma deve essere un equilibrio tra l’interesse primario della collettività e l’aspettativa economica che il privato deve portare a casa. Per fare ciò occorre un cambiamento culturale da parte dell’amministrazione e dei funzionari. Quindi, il privato può concorrere alla realizzazione del programma pubblico in maniera operativa, ma soprattutto in maniera trasparente. Noi abbiamo avviato in città dei programmi integrati di intervento per recuperare aree dismesse importanti con il concorso del privato che interviene in luogo del Comune nella realizzazione delle opere pubbliche. Tutto quello che concordiamo con il privato non solo lo portiamo in Consiglio comunale, ma lo pubblichiamo su Internet. Altro elemento è quello delle procedure. Io sono convinto che accorciare le procedure e rendere i tempi certi sarà il vero bonus che potrà avere l’operatore. Dobbiamo lavorare nell’ottica che un piano di recupero, un programma integrato di intervento condiviso è un fatto positivo per la città se approvato in tempi ragionevoli. Se invece è cattivo va bocciato immediatamente. Occorre una concertazione tra i vari livelli istituzionali, quindi una concertazione in verticale. Noi attualmente, in quanto Comune capoluogo ci siamo addossati delle responsabilità rispetto al territorio cittadino. In assenza di piano territoriale abbiamo dovuto procedere come Comune dotato di massima autonomia, cosa che non deve essere. Abbiamo deciso per l’ospedale nuovo, la fiera, la tangenziale est, cioè per strutture che hanno una dimensione sovracomunale. La possibilità di non pesare sul territorio cittadino, ormai saturo, ma di andare a pianificare l’ipotesi di localizzazione su altre realtà del territorio provinciale non l’abbiamo potuta verificare. Il piano territoriale di coordinamento è importante. Non aspettiamo certamente la modifica legislativa per muoverci. Ma l’aspetto di concertazione va anche oltre l’aspetto urbanistico, cioè l’aspetto urbanistico si trascina anche altri
Contributi per la riforma della legge urbanistica regionale. Il dibattto promosso dall’INU Lombardia
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A seguito della pubblicazione da parte della Regione Lombardia delle Linee Guida per la riforma urbanistica regionale, l’INU Lombardia ha attivato e promosso diversi momenti di pubblico confronto e discussione sui temi della ridefinizione del sistema delle regole e degli strumenti per il governo del territorio. Come noto le caratteristiche del nostro Istituto, che raccoglie segmenti qualificati del mondo della professione, della ricerca e della pubblica amministrazione, stimolano da sempre una particolare attenzione e sensibilità nei confronti del “sistema delle regole” e della riforma degli strumenti che supportano le pratiche urbanistiche, finalizzata all’aggiornamento disciplinare e al recupero di efficacia e autorevolezza del metodo della pianificazione e della programmazione del territorio, dei suoi usi, delle sue risorse (1). È stato quindi strutturato un percorso di ricerca e approfondimenti tematici, finalizzato attraverso lo svolgimento di un ciclo di tre seminari dedicati: • ai contenuti e alle articolazioni operative che, in un aggiornata lettura dei fenomeni urbani e insediativi nonché delle mutate condizioni che caratterizzano i profili della pubblica amministrazione, dovrebbero sostanziare e l’azione programmatoria e di gestione del territorio dei comuni (La pianificazione urbanistica di livello comunale); • all’approfondimento del significato operativo e delle possibili declinazioni disciplinari dei temi della concertazione, della sussidiarietà e della copianificazione, nella diversificazione dei contenuti (e nella conformazione dei relativi strumenti) che dovranno caratterizzare i diversi livelli della pianificazione regionale, territoriale e urbanistica (La trama dei rapporti tra istituzioni e strumenti di pianificazione); • alla verifica e al monitoraggio delle pratiche urbanistiche e di pianificazione territoriale e regionale, derivate e indotte dalla sperimentazione e attuazione delle più recenti leggi regionali in Emilia Romagna, Toscana e Basilicata (Un nuovo processo di pianificazione. Leggi regionali a confronto). Al di là degli aspetti di merito legati alle specificità e alle criticità proprie di ciascuno dei temi generali che articolano il percorso di discussione e approfondimento impostato, l’obiettivo prioritario verso il quale tendere nel disegnare con la nuova L.U.R. un sistema di pianificazione efficace, autorevole e adeguato rispetto al territorio e alle dinamiche insediative che caratterizzano l’attuale ciclo storico, coincide nella necessità di garantire all’urbanistica e alle sue pratiche, reali capacità di governo del territorio. Rispetto al complesso sistema di regole che costituiscono le coordinate tecnico-operative e disciplinari alle quali relazionare i processi di trasformazione, uso, valorizzazione e tutela del territorio, la comunità lombarda nelle sue diverse articolazioni istituzionali, amministrative, civili, tecniche - richiede:
• un progetto di sviluppo e di gestione delle relazioni tra i diversi attori che intervengono nella costruzione e nella gestione degli assetti urbani, territoriali, ambientali; • filiere e macchine operative semplici, non contraddittorie, in grado di gestire processi e conseguire obiettivi complessi; • la capacità di accompagnare in tempo reale le trasformazioni sociali e le relative ricadute territoriali. In funzione di questo tema-obiettivo di sfondo, le chiavi di lettura e integrazione delle diverse proposte e dei diversi contributi che seguono, si definiscono attraverso la declinazione di tre fattori: • il tema del tempo; • il tema della valutazione; • il tema relativo all’organicità e alla armonizzazione dell’azione amministrativa. Rispetto al tema dei “tempi della pianificazione”, l’attuale tendenza mostra una situazione assolutamente insostenibile. Mediamente l’istruttoria per la formazione, redazione, approvazione di un piano regolatore dura 6 anni; se poi consideriamo città di medie dimensioni e comuni capoluogo questo termine è fatalmente destinato a mutare facendo slittare la durata dell’intera procedura anche fino a 10 anni. È evidente che legare i processi di trasformazione e di governo del territorio ad un procedimento che dura così a lungo e che risulta completamente avulso dalle logiche temporali nelle quali si sviluppano e mutano i contesti problematici e i quadri di governo dell’azione amministrativa, rischia di inficiare le capacità strumentali e l’autorevolezza del Piano e dello stesso metodo del pianificare. Il nuovo disegno di legge non potrà non affrontare questo tema (rispetto al quale per la verità sono molto più sensibili gli amministratori che gli urbanisti), magari sviluppando e declinando rispetto alle specificità della Lombardia quel modello già presente nella proposta di riforma INU della legge urbanistica nazionale, che prevedeva la distinzione tra momenti “operativi” e “strutturali o strategici” della pianificazione di livello comunale. Sul tema in generale della “valutazione” si è in questi ultimi anni molto scritto, ricercato e sperimentato. I livelli di sedimentazione di questo lavoro nel corpo normativo sono tuttavia ancora poco incidenti e poco consolidati (2). Nel momento in cui le pratiche urbanistiche tendono a modificare in modo consistente i propri orizzonti operativi e le logiche di formazione delle scelte di previsione, sapere valutare incidenza, portata, caratteristiche delle trasformazioni del territorio (alle diverse scale e livelli di contenuto), costituisce il carattere distintivo dell’azione di governo e gestione urbanistica e territoriale. La valutazione della sostenibilità, dei contenuti strategici, della compatibilità urbanistica, delle caratteristiche qualitative, di piani, programmi, politiche e progetti ur-
nuti operativi ed attuativi del piano mediante approfondimenti dedicati al tema dei tempi e criteri della riqualificazione urbana (Massimo Giuliani), agli assetti morfologici e qualità della città e dello spazio pubblico (Piergiorgio Vitillo), agli aspetti perequativi e di compensazione ambientale nella trasformazione e nella riqualificazione urbana (Laura Pogliani). La terza parte della riflessione è stata successivamente dedicata all’approfondimento del tema dell’integrazione amministrativa dei diversi momenti della pianificazione specialistica con ricadute territoriali e nell’ambito delle politiche urbane, attraverso la verifica delle possibili declinazioni e legami operativi tra pianificazione urbanistica e piano dei servizi (Michele Monte) e la proposta di criteri di organizzazione e armonizzazione dell’intervento pubblico rispetto ai temi delle infrastrutture per la mobilità, il sistema delle reti tecnologiche, le politiche per il verde. Di seguito si riportano stralci e sintesi degli interventi prodotti in occasione del seminario. Per necessità di spazio, la sintesi riporta per lo più gli aspetti propositivi dei singoli contributi, semplificando e omettendo parte delle argomentazioni e delle riflessioni di carattere metodologico. Massimo Giuliani Note: 1. A questo proposito si citano le esperienze legate alla proposta di riforma della legge quadro per l’urbanistica e il territorio (1995) che proponeva tra l’altro la separazione dei diversi momenti della pianificazione (strutturale/strategico, operativo/piano del sindaco) e che successivamente è stata assunta nei diversi disegni di leggi presentati al parlamento da varie forze politiche; nonché le elaborazioni che hanno caratterizzato l’ultimo Congresso Nazionale, dedicate al ruolo e all’interazione delle Politiche Urbane con i processi che caratterizzano la pianificazione tradizionale e i suoi strumenti. 2. Si pensi per esempio all’efficacia dell’uso della V.I.A. o all’elevato tasso di discrezionalità presente nella valutazione della compatibilità paesistica degli interventi presente nel quadro vigente regionale.
Quadri di assetto e progetti urbani Il titolo “Quadri di assetto e progetti urbani” sottolinea una polarità netta tra quadro e azione, cioè tra la necessità di disporre di schemi di riferimento d’assieme per selezionare gli interventi, e la necessità di accelerare la messa in opera dei progetti di qualità. A partire dal riconoscimento di questa dualità irriducibile risulta più agevole costruire un sistema di pianificazione locale insieme snello e incisivo. Nel solco della linea di riforma tracciata dall’INU, propongo di assumere “la durata”, lo specifico orizzonte temporale dello strumento, come criterio discriminante • tra i materiali che appartengono al quadro: di lungo
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bani deve essere ancorata a un sistema condiviso nei suoi elementi di metodo, se si vuole dare all’azione di governo del territorio (e ai soggetti che a diverso livello la interpretano) quegli elementi di autorevolezza e capacità di negoziazione e indirizzo dei tempi, delle priorità e delle scelte di pianificazione, trasformazione e intervento sul territorio e sull’ambiente. La terza chiave di lettura del quadro problematico, relativa alla necessità di armonizzare l’azione amministrativa sul territorio, impone un elevato salto di qualità rispetto alle pratiche attuali. Le tendenze in atto, con la ricerca di forme che in funzione dell’applicazione dei princìpi di sussidiarietà e copianificazione sviluppano nuovi atteggiamenti cooperativi fra diversi soggetti della pianificazione, in qualche modo forniscono una prima ma ancora insufficiente risposta alla questione. Passare dalla pianificazione urbanistica o territoriale al “governo del territorio” impone una trasformazione degli abituali scenari di intervento che vedono l’attuazione dell’azione amministrativa con ricadute sul territorio caratterizzata da elementi di contradditorietà, frammentazione, sprechi e mancanza di collegamento. Rispetto a questo quadro di problematiche e questioni di prospettiva, il dibattito avviato dall’INU Lombardia sta costruendo delle prime e parziali risposte. In alcuni casi con delle vere e proprie proposte, in altri in termini problematici mettendo a fuoco e sollevando gli elementi di criticità che attualmente limitano l’efficacia della pianificazione, rispetto ai quali sviluppare ragionamenti che possono arricchire il percorso di formazione della nuova legge urbanistica regionale. Al momento attuale i risultati della discussione si limitano al tema del livello di pianificazione comunale (seminario svoltosi a Milano presso l’Ordine degli Architetti il 21 marzo scorso), di cui di seguito si sintetizzano alcuni contributi. La discussione su questo livello è stata articolata in tre momenti distinti che hanno affrontato in ordine: • gli aspetti strategici e di programmazione generale; • regolamentazione degli usi del suolo e disciplina della città consolidata; • contenuti urbanistici della pianificazione e integrazione dell’attività amministrativa. Nella prima parte del lavoro l’obbiettivo ricercato era quello di definire i caratteri ed i contenuti che dovrebbero sostanziare il momento strutturale o strategico del piano, attraverso l’identificazione dei profili e strumentali della programmazione (Fortunato Pagano), l’evidenziazione tra scelte di assetto generale e attuazione delle politiche urbane (Fausto Curti), il rapporto tra ipotesi strutturali, assetti generali e politiche ambientali (Gianni Beltrame). La seconda parte della riflessione è stata orientata alla definizione dei profili, delle problematiche e dei conte-
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periodo e di vasta scala (che svolge una funzione descrittiva, diagnostica, scenariale); • e i materiali che appartengono all’agenda delle iniziative da realizzare a breve (che svolge una funzione programmatica e promozionale). Questo non vuol dire che lo scenario sia perpetuo e il progetto contingente. Un progetto cospicuo può alterare lo scenario, ma la distinzione rende leggibile (e normabile) il processo di retro-azione tra i due livelli. È inoltre ragionevole supporre che la descrizione del luogo e la ratifica degli obiettivi condivisi della comunità debba risultare più stabile delle priorità politiche di un’amministrazione o delle scelte di convenienza degli operatori. Da questo punto di vista, pare che l’articolazione del P.R.G. nei tre documenti previsti dalle Linee Guida per la Riforma Urbanistica Regionale (pp. 37-38) lasci piuttosto incerta la distinzione tra quanto serve a costruire un quadro di riferimento duraturo e quanto serve ad agevolare la selezione e la messa a sistema delle cose da fare a breve. In base all’ipotesi duale formulata (che riprende l’antico modello di pianificazione a scansione mista di Etzioni) si suggeriscono pochi aggiustamenti. Segnatamente nella ridefinizione: • A. Documento di inquadramento urbanistico; e • B. Documento di programma urbanistico (o Piano Operativo, come nella dizione dell’INU). Il sottolineare che il Documento di inquadramento è un testo urbanistico serve a ribadire che esso può enumerare liste impegnative di obiettivi (come nel documento milanese o nel piano strategico torinese), ma deve anche delineare un esplicito scenario di assetto spaziale (come nell’ipotesi del Piano Strutturale dell’INU). La strategia di trasformazione risulta sempre incardinata nel quadro urbanistico d’assieme, che costituisce la base di calcolo del costo-opportunità degli interventi in programma. Le coalizioni si costituiscono a partire dalla terra, dalla posizione entro lo spazio e il mercato urbano, piuttosto che in rapporto ad edificanti obiettivi di sviluppo armonico. La denominazione Documento di programma urbanistico (o Piano Operativo) serve a sottolineare che il documento ha la funzione di raccolta, rassegna e selezione dei progetti e delle politiche che operatori diversi si impegnano a realizzare nell’arco del quinquennio, cui il governo locale restituisce coerenza con una congrua prioritarizzazione degli investimenti pubblici in servizi, infrastrutture, dotazioni ambientali. Assetti urbani e le tipologie di aree hanno molto a che fare con le invarianti insediative, infrastrutturali e ambientali. Gli indirizi prioritari di intervento in rapporto ai piani tematici e settoriali dovrebbero essere invece spostati nel Documento di Programma), perché è parte del programma di governo della municipalità. Questo modesto esercizio di riordino consente in primo luogo di dare maggiore chiarezza e semplicità all’impalcatura delle Norme Tecniche: • distinguendo tra norme che disciplinano l’assetto (cioè che delimitano o caratterizzano i tipi di aree: consolidate, di trasformazione, di espansione, inedificabili; che identificano le invarianti infrastrutturali, insediative e ambientali; che orientano le modalità di interlocuzione con le scelte territoriali di altri livelli di governo ecc.), • e norme che disciplinano la procedura per l’istruttoria dei progetti, la valutazione della loro compatibilità cumulata, la negoziazione delle compensazioni. Con qualche ambizione in più, altri materiali disposti dalla legislazione regionale e statale potrebbero consolidare il contenuto dei due documenti.
Nel Documento di inquadramento urbanistico, la prevista classificazione del territorio urbano per tipi di aree (consolidate, di trasformazione, di espansione, inedificabili) potrebbe accompagnarsi alla predisposizione del Piano dei servizi, con cui avviare una puntuale ricognizione della domanda sociale nelle diverse aree urbane, e dislocare l’offerta tenendo conto del mosaico delle micro-zone catastali. Tenore dei servizi offerti, valori immobiliari locali e attese di gettito municipale sono ancora mondi separati, ma con la crescente autonomia finanziaria dei Comuni bisognerà cominciare a trattarli congiuntamente (come si è proposto nel Documento di Inquadramento di Pavia, 1999). A questo livello può venire istituito un rapporto rendicontabile tra valorizzazione immobiliare dovuta alle spese pubbliche vive e incidenza dei prelievi sulla proprietà immobiliare, che toccano in modo diffuso e ricorrente il principale bene patrimoniale delle famiglie. Nel Documento di Programma l’insieme di politiche e progetti decisi in sede locale, o stimolati da bandi regionali, nazionali o comunitari, potrebbe comporsi col Programma Triennale delle Opere Pubbliche e con l’attuazione della parte (considerata) prioritaria del Piano dei servizi. Questo può facilitare un rapporto più congruo tra insieme degli interventi ammessi, costi pubblici indotti, compensazioni negoziate e oneri di miglioria urbanistica, che questa volta toccano non l’estesa platea dei proprietari immobiliari bensì la cerchia dei promotori immobiliari (e in seconda istanza dei potenziali acquirenti). La chiara distinzione tra i due livelli (complessivo e puntuale) di costruzione del piano consente anche di meglio delimitare il campo di applicazione della valutazione di fattibilità economica di piani e progetti, cui giustamente le “Linee Guida” attribuiscono un ruolo centrale nella logica dell’urbanistica concertata. Ma - come si diceva - per valutare i progetti urbani (sia da parte pubblica che da parte privata) è necessario disporre: • di quadri descrittivi affidabili, che consentano di apprezzare l’adattamento tra progetto e contesto, che è il contenuto essenziale dell’istruttoria pubblica dei Programmi integrati di intervento; • e di quadri dichiarativi delle intenzioni pubbliche di equipaggiamento territoriale, che (più della regolazione minuta degli usi del suolo) costituiscono termine di riferimento necessario per valutare le alternative localizzative da parte degli operatori. A questo scopo il Documento di inquadramento non può limitarsi ad elencare un insieme di obiettivi de-spazializzati, ma dovrà predisporre: • a. una descrizione solida, condivisa e aggiornabile dell’ambiente urbano, sulle cui basi procedere a simulazione degli impatti delle diverse opzioni di progetto; • b. per le diverse parti urbane esso dovrà fornire una stima della capacità di carico residua del sistema infrastrutturale ed ambientale, onde consentire una corretta imputazione dei costi della sua ricostituzione man mano che viene erosa dai nuovi interventi. Se si può infatti accogliere la tesi - implicita nelle “Linee Guida” - che la sostenibilità urbana può essere rigenerata con opere e politiche pubbliche si tratta di stabilire chi se ne fa carico, se la collettività tutta o coloro che fruiscono in via diretta; • c. infine, dovrà distinguere (come è previsto nelle “Linee Guida”) tra parti urbane consolidate, modificabili per interventi di routine in base a concessione o D.I.A.; parti urbane di trasformazione: modificabili con Programmi complessi variamente convenzionati; aree di tutela o inedificabili.
Fausto Curti
Il nuovo Piano Regolatore “strategico”: il ruolo delle politiche e delle strumentazioni ambientali Nella prima parte del contributo sono svolte alcune considerazioni preliminari in relazione alla definizione della natura e dei criteri metodologici che sottintendono lo “sdoppiamento” del piano regolatore, così come configurato e motivato nella proposta INU del 1995. Successivamente vengono avanzate alcune riflessioni sulle novità e sulle possibili difficoltà e mistificazioni indotte dal passaggio da una pianificazione tradizionale, ormai consolidata nella prassi, alle nuove modalità di pianificazione strategica proposte.
Il ruolo delle politiche e delle strumentazioni ambientali nel piano comunale strategico (PCS) La visione dei compiti ambientali originalmente affidati al PTCP dal disegno INU e cioè quella di definire i “vincoli permanenti e direttamente cogenti in attuazione alle L. 431/85, 183/89 e 439/91” appariva inizialmente già limitata e un poco riduttiva. La legislazione regionale successiva mostra una evoluzione e un arricchimento notevoli rispetto a questo punto di partenza anche in ragione di spinte esterne (comunitarie e leggi nazionali di settore). Non deve sembrare inutile ribadire che le scelte ambientali, proprio per la loro natura di elementi strutturali, invarianti e di tempo lungo necessarie per gli sviluppi sostenibili, debbano entrare per la massima parte possibile tra i contenuti obbligatori del piano strutturale. L’arricchimento è avvenuto mediante lo sviluppo di alcuni temi e di alcuni strumenti che ormai hanno enormemente dilatato e sviluppato il tema e il campo: • il tema-obiettivo dello sviluppo sostenibile; • lo strumento della VALSAT e della VIA; • lo sviluppo dei sistemi informativi ambientali e territoriali e le carte regionali dei suoli volte a formare quadri conoscitivi e/o valutativi comuni per tutti i livelli di pianificazione; • la dilatazione delle competenze paesistiche ed ambientali della pianificazione territoriale provinciale ed il riversamento di queste sulla pianificazione comunale; • lo sviluppo della legislazione ambientale di settore; • il dilatarsi delle tecniche di valutazione applicate all’ambiente; • l’azione comunitaria complessiva e specifica del “Quadro d’azione per uno sviluppo urbano sostenibile nell’Unione Europea”; • il diffondersi delle Agende 21 e della Carta di Aalborg. Ad arricchire la tematica ambientale ha contribuito soprattutto l’introduzione, non presente nello schema INU, del tema dello “sviluppo sostenibile”. A questo riguardo ha giocato un ruolo importante d’avanguardia la L.r. 5/95 della Regione Toscana “Norme per il governo del territorio” che afferma, già a partire dall’art. 1, la propria scelta di fondo per uno sviluppo sostenibile. L’ambiente non sta tutto nel controllo dei suoli, non è riducibile solo al controllo delle destinazioni dei suoli. Specie se si parla di sviluppo sostenibile, non racchiudibile e non riducibile alle sole politiche di land-use. Un piano strategico che assuma l’obiettivo dello sviluppo sostenibile non può definirsi e nemmeno configurarsi come piano di mero controllo dell’uso e delle destinazioni dei suoli. Purtroppo si sta diffondendo l’illusione che esista una via e una soluzione urbanistica allo sviluppo sostenibile. Sul tema dello sviluppo sostenibile, ormai affrontato, almeno a parole, da tutte le leggi regionali, occorre ripetere alcune considerazioni più volte fatte. La Regione Lombardia nelle sue “Linee guida per la riforma urbanistica regionale” pone l’obiettivo della “sostenibilità” tra i suoi princìpi fondamentali ma che non fa ancora nulla né per definirne con esattezza il concetto né i modi, e soprattutto non propone criteri, misure, parametri e indici per poterla meglio definire, riconoscere e misurare, e definire cosa è sostenibile e cosa non è. In Lombardia, ad esempio, il PTCP della Provincia di Milano propone finalmente l’uso di alcuni indicatori di sostenibilità (art. 86). È questo un fatto positivo e bisogna darne atto. Bisogna però anche dire che gli indicatori adottati e proposti suscitano molti dubbi. Innanzitutto non entrano e non colgono nel pieno il nodo della sostenibilità. Gli indicatori ambientali proposti sono invece più che altro indicatori di buon comportamento urbanistico-ambientale che, solo molto alla lontana e molto indiretta-
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Quel che preme sottolineare è che la classificazione degli ambiti urbani assoggettati a diversi regimi normativi può legittimare il ricorso a diversi regimi fiscali, sicché: • gli interventi edilizi minori, realizzati nell’edificato nel rispetto del piano, che tendono a fruire del capitale fisso sociale già ammortizzato, contribuiranno in proporzione ai costi medi di rinnovo delle dotazioni esistenti (cioè coi vigenti oneri di urbanizzazione, magari meglio proporzionati ai costi); • mentre i maggiori P.I.I., contribuiranno in rapporto ai costi marginali di attrezzamento urbano; cioè in base a specifici “oneri di impatto” valutati di volta in volta e certificati dalla commissione di valutazione; • mentre nelle aree di tutela, i costi privati della mancata crescita potranno essere mitigati con Tdr (all’americana anziché alla spagnola) e i costi pubblici (dell’eventuale acquisto di diritti edificatori, Pdr) dovranno essere condivisi tra i comuni cointeressati. La condizione perché sia accettabile questa forma di esazione differenziata è che le entrate siano re-impiegate per realizzare a tempo debito le opere pubbliche dichiarate, e in caso contrario ne sia previsto il rimborso sul modello statunitense delle impact fees. Un ultimo aspetto che merita richiamare, e che non ha invece alcuna menzione nelle “Linee guida”, è il rapporto tra procedura di valutazione e gara tra progetti alternativi. Se i diritti edificatori non sono assegnati a priori col piano generale degli usi del suolo, ma sono attribuiti discrezionalmente dalla municipalità ai promotori quando vengono presentati progetti fattibili (nel P.O. come nel progetto di riforma dell’INU; o coi P.I.I., come disposto dalla legge lombarda), per giustificare la scelta e le eventuali esclusioni bisogna far ricorso a procedure concorsuali. Queste possono assumere la forma di asta per l’assegnazione di diritti edificatori contingentati (come proposto in un non recente lavoro di L. Mazza, che ha autorevoli precedenti in Curry e ancora prima in K. Lynch); oppure la forma - ben più sperimentata - di gara per la scelta del miglior partner privato, almeno quando esiste compartecipazione pubblica (e in particolare per progetti sul suolo demaniale). In conclusione il depotenziamento del piano (implicito nelle “Linee Guida” e sperimentato nel Documento di inquadramento milanese) risulta condivisibile purché surrogato da una procedura istruttoria unificata che consenta la valutazione comparativa dei progetti proposti e la loro selezione attraverso gare opportunamente allestite.
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mente, toccano o sfiorano il nodo della sostenibilità. Finalmente la Regione Emilia Romagna respinge l’equivalenza, che purtroppo si sta diffondendo, della identità e della sostituibilità tra “valutazione di compatibilità” e “valutazione di sostenibilità” degli interventi. Oggi è entrata finalmente in scena la VAS “Valutazione ambientale strategica” che in Emilia Romagna prende il nome di VALSAT “Valutazione di sostenibilità ambientale e territoriale” ma che è in sostanza la stessa cosa. Essa prende origine dalla Direttiva comunitaria 2001/42/CE del 27 giugno 2001. È una direttiva molto recente e ancora in fase di sperimentazione e di messa a punto. La VAS può essere definita come “un processo sistematico inteso a valutare le conseguenze sul piano ambientale delle azioni proposte - politiche, piani o iniziative nell’ambito di programmi - ai fini di garantire che tali conseguenze siano incluse a tutti gli effetti e affrontate in modo adeguato fin dalle prime fasi del processo decisionale, sullo stesso piano delle considerazioni di ordine economico e sociale”. Finalità dunque della VAS è la verifica della rispondenza dei piani e dei programmi (di sviluppo e operativi) con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile, verificandone il complessivo impatto ambientale, ovvero la diretta incidenza sulla qualità dell’ambiente. Uno scenario di valutazione, quindi, nel quale la valutazione strategica assolve al compito di verificare la coerenza delle proposte programmatiche e pianificatorie con gli obiettivi di sostenibilità dello sviluppo, definendo priorità di intervento e criteri di insediamento in grado di minimizzare gli impatti a livello strategico. Un ruolo importante e per certi aspetti innovativo lo stanno assumendo gli sviluppi dei sistemi informativi/valutativi ambientali. Non si tratta tanto della diffusione e della messa in comune di basi informatizzate e di SIT, sempre più ricchi e complessi, quanto nella tendenza a mettere in comune, ad omogeneizzare, informazioni preverificate e prevalutate anche a fini pianificatori e concertativi, da introdurre nelle procedure di piano. A questo proposito appare interessante, anche se può suscitare qualche perplessità, il tentativo promosso dalla Regione Basilicata (L.r. 23/99 “Tutela governo ed uso del territorio”, art. 10). La legge regionale prevede l’elaborazione di una “Carta regionale dei suoli” (non ancora redatta, in verità) che dovrebbe diventare una “carta della trasformabilità dell’intero territorio regionale, contenente cioè una griglia di riferimento già valutata che predefinisce “i livelli di trasformabilità” di tutti i suoli e di tutti i “sistemi” che compongono il territorio regionale, definendo e perimetrando i diversi “regimi di intervento” consentibili. Sembra di intravedere una specie di ricerca a priori, esercitata dal livello regionale, della dimostrabilità e della oggettività delle scelte di trasformazione/conservazione/tutela. Metodologia che potrebbe diventare troppo invadente. Qualche cosa di analogo alla ambigua carta delle “vocazioni” che purtroppo la Provincia di Milano vuole tentare col suo Piano. Gianni Beltrame
Aspetti perequativi e di compensazione ambientale nella trasformazione e nella riqualificazione urbana Due sono le tematiche affrontate in questo contributo al Seminario, entrambe annunciate dal titolo: • la dimensione perequativa e di compensazione ambientale nelle nuove forme di pianificazione comunale prefigurate dalla proposta di riforma INU;
• l’ambito di applicazione del meccanismo perequativo nel tessuto urbano. La scelta perequativa è di tipo progettuale, assume connotati squisitamente urbanistici, e non presenta aspirazioni di equità totale e perfetta fra tutti i proprietari di aree, ma, piuttosto, produce effetti compensativi, riferiti agli ambiti di progetto, e consente l’acquisizione all’ente pubblico di una quota di aree di dimensione consistente, superiore ai minimi previsti per legge. Le pratiche negoziali, che rientrano nel ridisegno profondo del ruolo attuale della pubblica amministrazione, possono inoltre agganciare al meccanismo perequativo sia la realizzazione di opere di interesse generale, eventualmente a scomputo oneri, sia nuove modalità di attribuzione di edificabilità pubblica. In quest’ultimo caso i diritti volumetrici possono essere applicati alle aree già di proprietà pubblica eventualmente coinvolte nella trasformazione, ovvero possono essere legati a forme di premialità per quegli interventi privati che incentivano l’integrazione di funzioni multiple, agevolando, ad esempio, la realizzazione di quote di residenza “sociale”. La prima riflessione riguarda la necessità di individuare alcune regole attraverso le quali avviare la concertazione pubblico privato finalizzata al riuso. Proprio la dimensione consistente delle aree in gioco, nel loro complesso, deve indurre l’Amministrazione comunale a predisporre un Piano Strutturale che fornisca le linee guida per l’intervento sulle aree da perequare, tenendo conto di alcuni criteri enunciati all’inizio del presente contributo e caratteristici di un approccio perequativo ragionevole. Inoltre, nel Piano Strutturale possono essere stabilite le regole finalizzate a promuovere la sostenibilità ambientale e territoriale delle trasformazioni, così da assicurare la contestuale realizzazione di dotazioni ecologiche (standard ambientali), di spazi di rigenerazione e compensazione ambientale, nonché di interventi di mitigazione degli impatti negativi. La seconda riflessione riguarda la consapevolezza dello sforzo innovativo e progettuale richiesto per dare forma urbana all’insieme di interventi che si potranno avviare. Proprio le caratteristiche di frammentazione e disomogeneità delle aree libere già urbanizzate, intercluse, di estensione spesso limitata se prese singolarmente, richiedono una diversa forma di attenzione negli strumenti di piano. Al Piano strutturale può essere demandata, sia l’individuazione sia l’attribuzione di un’edificabilità diffusa e perequata all’insieme dei comparti edificabili che il Piano dovrà coordinare perché non necessariamente contigui, in quanto generati principalmente dalla sommatoria delle aree ex standard. In alcuni casi è del tutto comprensibile che il Piano determini ragionevolmente la concentrazione volumetrica su quelle aree che, a motivo della loro collocazione strategica e ad alta accessibilità rispetto al sistema infrastrutturale, sono in grado di accogliere una consistente edificabilità, rappresentata dalla sommatoria dei diritti volumetrici maturati in loco e da quelli provenienti da altri comparti. Fatte salve queste eventualità, non è a livello del Piano Strutturale che si dovrà predefinire la distinzione tra le aree di origine e quelle di destinazione dei volumi edificabili, ma piuttosto in sede di Piano Operativo, quando le esigenze concrete solleciteranno la decisione effettiva in merito alle aree su cui intervenire, anche al fine di coordinare i progetti per favorire la concentrazione e compattazione delle aree a standard. È necessario che la selezione sia effettuata sulla base di criteri valutativi definiti ex ante e tali da prevedere la disponibilità a negoziare le compensazioni in opere, suolo e prestazioni (standard qualitativi) all’interno di un programma operativo, predisposto dall’Amministrazione comunale (come il Piano dei Servizi) che definisca le priorità di intervento, determinate in ragione delle risorse disponibili o acquisibili. In generale, è importante sottolineare che l’intreccio dei
Laura Pogliani
Assetti morfologici, qualità della città e dello spazio pubblico. Appunti per la discussione Aspetti morfologici e piano Definire poche regole semplici: La morfologia e la forma urbana hanno un duplice sbocco: la città esistente e le sue trasformazioni diffuse; la nuova città e le trasformazioni intensive, relative ai luoghi maggiormente significativi. Per quanto riguarda la città esistente (i “diritti esistenti”) la morfologia può stare nella fase della regolamentazione urbanistica-edilizia, che alcune leggi regionali recenti hanno reso autonoma e indipendente rispetto alla stessa fase strutturale del piano. Il piano potrà indagare e fornire le regole prestazionali, che orientino, suggeriscono ma non preordinino, appunto le qualità prestazionali, i requisiti; mettendo in campo ragionamenti sulle qualità attese, non sui modi per ottenerla, tipici del progetto di architettura. Per quanto riguarda le grandi trasformazioni urbane (le “certezze ipotetiche”), la morfologia deve stare nella fase del “progetto urbano”. Le linee guida del progetto urbano dovranno fornire riferimenti per la progettazione in grado di garantire la coerenza e la qualità della città futura, costruita da molteplici e differenti attori. Elemento non secondario è infine la necessità di ricorrere per le più significative trasformazioni urbane a pratiche concorsuali, di valutazione e di selezione dei progetti, anche sulla base dei connotati funzionali, morfologici e tipologici dei progetti. La qualità della città e dello spazio pubblico Anche in questo caso, tre sembrano i punti utili per un approfondimento della discussione: il rapporto fra la qualità urbana e la qualità architettonica; l’importanza della tecnica; il ruolo del progetto di suolo. • Qualità urbana, qualità architettonica La qualità delle città che amiamo è fatta di un connubio sapiente di qualità urbanistica e di qualità architettonica. La qualità urbanistica sta nella qualità dei tessuti urbani, nell’equilibrato rapporto fra servizi e insediamenti, nella diffusione del verde (pubblico e privato) all’interno della città, nell’efficienza dei sistemi infrastrutturali a rete (con particolare riferimento alla mobilità collettiva). Molte volte la buona qualità urbanistica riesce ad assorbire e a mitigare mediocri o cattive architetture, come alcune esperienze di città europee dimostrano. La qualità del progetto architettonico sta semplicemente e banalmente nel progetto di architettura. Non possiamo e non dob-
biamo pensare di migliorare la cultura e la sensibilità del progetto attraverso le norme del piano: questo è stato l’errore più grave commesso nel disegno dei piani. • L’importanza della tecnica La tecnica del progetto urbano non è più oggetto di attenzione all’interno della nostra cultura e dei nostri insegnamenti: il dimensionamento e le caratteristiche di un marciapiede, l’alberature di un viale urbano, la conoscenza del funzionamento delle reti tecnologiche del sottosuolo (la caditoia, il chiusino, il tombino) e del soprassuolo (il palo dell’illuminazione pubblica o di sostegno dell’elettrificazione, l’aiuola verde). Lo spazio urbano è oggi nel migliore dei casi banalmente arredato mentre andrebbe profondamente ristrutturato, mettendo in campo questioni come il regime di proprietà dei suoli, la viabilità e il traffico, l’accessibilità, la continuità degli spazi pedonali e ciclabili e dei sistemi urbani, l’illuminazione, ecc. Gli stessi uffici tecnici comunali sono stati smantellati, anche nelle grandi città, e siamo costretti a rimpiangere la sana ingegneria ottocentesca, tanto criticata e vituperata, fatta di conoscenza sapiente di tecniche progettuali, anche elementari, che oggi non si tramandano più e che nessuno insegna. • Il ruolo del progetto di suolo Con “progetto di suolo” si può individare in senso stretto un insieme di operazioni attinenti la sistemazione a terra, della quota “zero” della città, che identificano una trama capace di dare senso a ciò che spesso - lo spazio aperto, comunque questo venga definito - è stato considerato residuale. In maniera semplice ed operativa sono individuabili due regimi operativi possibili per la costruzione del progetto di suolo: dentro agli “ambiti di trasformazione” (nel progetto urbano) e all’interno dei piani e dei progetti dell’Amministrazione pubblica. Dentro gli ambiti di trasformazione, ad attuazione privata, sulla base delle regole pubbliche. Il progetto di suolo potrebbe in questo caso configurarsi come il possibile quadro di riferimento tipologico e morfologico per il piano triennale delle opere pubbliche. Piergiorgio Vitillo
Dalla previsione degli standard al Piano dei Servizi: appunti sulla formazione del nuovo piano urbanistico L’aspetto di grande interesse dell’applicazione della legge 1/2001 si riscontra nell’introduzione del Piano dei Servizi, successivamente meglio precisato nei suoi contenuti dalla relativa circolare di criteri di indirizzo per la sua formazione. In sintesi, questo strumento operativo che viene proposto come un elaborato del P.R.G. si propone di: • determinare la dimensione del complessivo sistema dell’offerta dei servizi; • di individuare nelle previsioni la tipologia dei servizi ed i soggetti gestori degli stessi; • di determinare le aree da assoggettare a standard; • di determinare criteri e standard prestazionali; • di prevedere criteri di uso e fruibilità. Senza dubbio, l’introduzione di questo strumento costituisce un notevole salto di qualità rispetto alle pratiche abituali, elevando la pianificazione di quote importanti di elementi che costituiscono caratteri rilevanti della “qualità urbana” e della “città pubblica” da un livello di mera previsione e localizzazione dagli esiti incerti verso un piano-programma corredato da ipotesi fortemente caratterizzate dal punto di vista gestionale.
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due livelli di piano (strutturale ed operativo) può assegnare un ruolo incisivo all’Amministrazione Comunale per quanto riguarda la definizione delle linee guida di assetto del territorio, di qualità dei progetti, di individuazione dei servizi pubblici e di uso pubblico, alle quali (linee guida) gli operatori privati contribuiscono nella misura in cui le proposte sono compatibili con il quadro generale. In sostanza, rinnovare gli strumenti urbanistici può risultare efficace se consente all’Amministrazione Comunale di assumere un atteggiamento propositivo in grado di orientare e, laddove opportuno, limitare la progettualità privata, cioè se le proposte pubbliche anticipano quelle private, e non se agiscono sotto forma di risposta tentativa, o, peggio, di acquiescenza alle operazioni casuali, discontinue e speculative, prive di ricadute in termini di interesse collettivo.
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Formazione del Piano dei servizi e integrazione con la pianificazione urbanistica In relazione a queste problematiche, la coerente attuazione della nuova legge regionale 1/2001 sembrerebbe dare delle risposte interessanti. Ad esempio, la progettazione complessiva del sistema di offerta dei servizi e della individuazione dei criteri generali per il suo funzionamento e consolidamento, impone - se non altro per questioni di buon senso - la ricerca di un legame con gli elementi di programmazione generale di diversi settori dell’azione amministrativa che caratterizza il profilo dell’ente locale. La legge cita alcuni casi rispetto ai quali l’interazione delle progettazioni specialistiche va non solo ricercata ma anche verificata (Piano del Traffico, Piano della Mobilità, Programma delle Opere Pubbliche); in realtà le possibilità di tale integrazione e reciproca assunzione di contenuti potrebbe/dovrebbe essere estesa anche a quegli episodi di pianificazione/programmazione degli interventi in ambito urbano in cui l’elemento dei “servizi” costituisce il catalizzatore e il parametro decisivo per: • l’avvio di processi di valorizzazione urbana; • l’aggregazione funzionale e la creazione di mix funzionali di qualità; • la valutazione delle proposte di trasformazione (P.I.I. o altro). A questo proposito si pensi all’impatto di una tale sintesi e integrazione rispetto alla pianificazione delle attività commerciali (R.R. 3/2000) e ai processi di rivitalizzazione dei centri storici, alla pianificazione del trasporto pubblico, alla promozione e all’attuazione di progetti per lo sviluppo di politiche “di quartiere” finalizzate al recupero di ambiti di degrado sociale e urbano e, ancora, alla pianificazione e al consolidamento delle aree verdi e dei parchi urbani. Nell’ambito dei compiti e delle funzioni affidate al Piano dei Servizi un ulteriore elemento di interesse è dato dalla identificazione dei soggetti attuatori e gestori degli stessi. Tale pratica introduce nuovi scenari di programmazione e conseguenze rilevanti sia dal punto di vista della realizzazione in tempi certi e celeri delle previsioni, sia dal punto di vista dell’accompagnamento e della realizzazione delle funzioni di servizio nell’ambito di un disegno organico delle trasformazioni urbane. A questo proposito, la definizione di parametri di tipo qualitativo e gestionale in funzione dell’attuazione di criteri e standard di tipo prestazionale delle diverse tipologie di servizio, costituisce un interessante elemento e strumento per l’Amministrazione al fine di negoziare e valutare le proposte e i progetti di trasformazione, recupero e ristrutturazione di ambiti urbani. Il rapporto tra Piano dei Servizi e nuovi strumenti di pianificazione urbanistica del livello comunale Dalla proposta INU in poi (1995), considerando anche una serie d’esperienze di leggi di riforma di derivazione regionale che ne hanno ulteriormente affinato e sperimentato i contenuti, l’architettura di uno strumento del piano comunale che in qualche modo soddisfa le esigenze prima indicate, dovrebbe articolarsi mediante una doppia ripartizione che preveda: • un primo livello, obbligatorio, relativo al Documento di Piano che si connota con contenuti di assetto strategico e finalizzato alla definizione delle invarianti urbane, delle ipotesi di sviluppo, delle strategie di governo complessivo dell’azione amministrativa; • un secondo livello costituito da piani operativi in attuazione delle ipotesi strategiche di sviluppo e governo del territorio espresse nel Documento di Piano. Il livello di obbligatorietà di questi Piani Operativi potrebbe essere limitato al Piano dei Servizi e al Piano di Regolamentazione degli usi del suolo.
Al Documento di Piano si affiderebbero quindi: • le scelte strategiche di sviluppo del territorio comunale; • il rapporto con gli strumenti della pianificazione regionale e della pianificazione di livello provinciale (vincoli, opportunità, condizionamenti, potenzialità, esternalità); • la valutazione della sostenibilità ambientale delle trasformazioni urbane; • la valutazione della sostenibilità urbana e ambientale degli interventi derivanti dalla pianificazione delle infrastrutture definite dal quadro programmatico dei livelli sovraordinati; • la definizione dello stato e della struttura funzionale della città pubblica; • la definizione e gli orientamenti per la programmazione delle opere e degli interventi pubblici (Piano Triennale opere pubbliche); • la definizione degli ambiti e delle condizioni di trasformabilità del territorio; • l’assunzione e promozione di politiche urbane; • la definizione degli ambiti della riqualificazione e della conservazione della città esistente (ambiti affidati successivamente al Piano per la regolamentazione degli usi del suolo). In funzione degli orientamenti e degli indirizzi definiti dal Documento di Piano, i meccanismi attuativi e gli aspetti regolativi dovrebbero essere successivamente affidati ai diversi Piani di Livello Operativo, quali: • il Piano per la regolamentazione e l’assetto degli usi del suolo*; • il Piano dei Servizi*; • il Programma Triennale delle Opere Pubbliche*; • il Piano Urbano del Traffico; • il Piano urbano della mobilità; • il Piano del Verde. In una ipotesi di riforma del piano comunale di questo tipo e in funzione di una tale ripartizione che contempla la dimensione strategica e le diverse articolazioni operative dell’azione di governo che complessivamente il Comune svolge nei confronti del territorio, il Piano dei Servizi costituisce il fondamentale elemento di cerniera. Questo ruolo gli deriva dal fatto che: • interagisce con tutti gli strumenti di programmazione, previsione e attuazione che sostanziano l’azione comunale; • tale interazione si sviluppa sia in senso orizzontale (costruendo e definendo reciprocamente alcuni contenuti dei piani operativi/attuativi), sia in senso verticale (concorrendo a definire parti sostanziali e strategiche della città pubblica); • contiene elementi strategici e concorre a definire contenuti di carattere prescrittivo e regolamentare (standard); • si costituisce mediante un procedimento di tipo circolare assumendo in sé caratteri di previsione/attuazione/gestione delle funzioni di servizio; • opera quale principale elemento connettivo e canale di sviluppo e attuazione delle politiche promosse dall’Amministrazione (sociali, sanitarie, infrastrutturali, microurbane) interagendo e intervenendo su parti cospicue e rilevanti dell’azione amministrativa e del relativo bilancio delle risorse economiche. È evidente che la coerente applicazione di questo scenario comporta notevoli e numerosi vantaggi sia dal punto di vista dell’armonizzazione e della razionalizzazione dell’uso e del bilancio relativo alle risorse impegnate dall’Amministrazione comunale (in termini finanziari, tecnici, organizzativi), sia dal punto di vista della accelerazione dei procedimenti attuativi delle scelte prefigurate.
Michele Monte * Obbligatorio per tutte le Amministrazioni comunali a prescindere dalle dimensioni.
Criteri di organizzazione e armonizzazione dell’intervento pubblico rispetto ai temi delle infrastrutture per la mobilità, il sistema delle reti tecnologiche, le politiche per il verde Da tempo si ha modo di constatare nei piani regolatori dei comuni lombardi dei tentativi più o meno decisi di distaccarsi dalla deriva giuridica che li porta ad essere innanzi tutto delle carte normative dei diritti fondiari. La fuoriuscita da un condizionamento così riduttivo comporta di vagliare quali debbano essere oggi, i reali oggetti della pianificazione comunale. Come dire che occorre un’esplorazione a tutto campo che si fa particolarmente incalzante quando s’intende compiere una riforma legislativa che possa risultare utile al governo effettivo della città. I tre temi in argomento - effetti esemplari dello sviluppo economico - sono in testa tra quelli iscritti nell’agenda delle emergenze, data la pressione crescente che esercitano sugli enti locali. I quali, pur trovandosi in prima linea, traggono dalle innumerevoli leggi e regolamenti strumenti inadeguati. Si ha la sensazione di essere ad un bivio che non può essere sottaciuto nel momento in cui ci si accinge alla riforma di una legislazione urbanistica che per lungo tempo ha implementato la pianificazione ordinaria, riconoscendole il ruolo di quadro di riferimento generale per l’assolvimento della funzione delegata di governo locale delle trasformazioni territoriali. Il bivio evidenzia due tendenze - accennate come posizioni estreme - al cui riguardo si dovrebbe tentare una simulazione di scenari degli effetti conseguenti ad ognuna, dato che: • l’una riconosce agli strumenti urbanistici la funzione prioritaria di regolazione delle forme delle città e del suo inserimento nelle preesistenze naturali; • l’altra porta ad ipotizzare gli strumenti urbanistici come settoriali alla pari di altri (1). La prima conferma la continuità del ruolo di governo complessivo incentrato sulla pianificazione territoriale, però da allargare in senso fortemente evolutivo poiché va di pari passo con il contestuale potenziamento, all’interno dell’ente locale, delle modalità organizzative ri-
guardanti il coordinamento delle competenze e la collaborazione interattiva di conoscenze e valutazioni. La seconda delega al Comune l’esclusiva della funzione urbanistica che risulta delimitata ma resa più puntuale dal maggiore impegno nel progetto e nella realizzazione dei temi più carenti dell’intelaiatura urbana: in specie il riassetto degli spazi pubblici, la rigenerazione delle peculiarità dei siti, le reti stradali e tecnologiche e i reticoli del verde ecologico. Nel primo ma anche nel secondo caso seppure attenuata, occorre che si instauri un’attività stabile di pianificazione coordinata dell’intera gamma degli aspetti problematici - mediante l’approfondimento conoscitivo ed il monitoraggio dei fenomeni specifici e delle loro interazioni - a sostegno sia dell’azione comunicativa verso decisori e cittadini, sia dell’elaborazione di periodici piani di sviluppo che traducano operativamente i piani delle decisioni strategiche (veri e propri patti sociali) che li devono precedere. Va osservato che le due tendenze non si escludono a vicenda: la scelta dell’una o dell’altra dipende dalla valutazione caso per caso dei parecchi fattori che caratterizzano il Comune. Tra i quali vi sono evidentemente l’ubicazione geografica, le peculiarità ambientale e paesaggistica, la dimensione demografica, le attività economiche e le prospettive di sviluppo. La scelta della via dovrebbe essere lasciata alla comunità locale e trovare il sostegno attivo di Provincia e Regione, differenziato in rapporto al grado di conoscenze e alle capacità reperibili in luogo. In conclusione, sembra opportuno che la riforma legislativa: • a. focalizzi gli aspetti di governo del territorio, non solo in chiave urbanistica data la dilatazione delle situazioni problematiche; • b. si dia carico delle questioni inerenti i processi decisionali e l’organizzazione degli apparati amministrativi, ai fini della pianificazione/programmazione coordinata degli interventi. Una nota a margine ma non certo secondaria invita a riflettere nel merito della preoccupante propensione a porre eccessive speranze nei soggetti privati come sostituti concessionari di interventi che non possono essere se non di iniziativa pubblica. Occorre dare rilevanza all’esigenza che il processo decisionale eserciti scelte motivate e rese trasparenti dal ricorso alle metodologie di valutazione degli impatti plurimi (2) che gli interventi determinano. Equivale a dire che le decisioni, piuttosto che cercare legittimazione nelle norme, si fondino sulla comparazione di più ipotesi alternative in base all’impiego di criteri identificati per ambiti di valutazione di accettabilità sociale, compatibilità ambientale e paesaggistica, congruità territoriale, utilità funzionale. Criteri da mettere alla prova tramite pesature che tengono conto dei diversi punti di vista. Di concerto, la legge dovrebbe stabilire che gli apparati tecnici dei comuni possano disporre di competenze e tecniche specialistiche, forme organizzative e strumenti di definizione di funzioni e ruoli che risultino adeguati alle necessità esposte, sia pure con la gradualità imposta dai tempi non brevi che occorrono per l’adeguamento di mentalità e comportamenti a modi mutati di operare. Piero Ranzani Note: 1. Anche quando, si badi, talvolta questi ultimi settoriali non sono per l’incidenza allargata che hanno sulle scelte localizzative. 2. Plurimi in quanto non riguardano solo gli aspetti ambientali ma coinvolge anche gli aspetti economici e sociali, e quindi i reciproci effetti.
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Anche sul versante degli aspetti regolamentari e prescrittivi un approccio dinamico e costantemente aggiornato delle politiche finalizzate ai servizi, produrrebbe un diverso (e sicuramente più adeguato e motivato) rapporto con le necessità di individuazione delle aree determinate a standard. All’indomani della pubblicazione della L.R. 1/2001 il Piano dei Servizi costituisce l’elemento che ha sollecitato e sollecita le maggiori aspettative da parte dei rappresentanti degli enti locali. Dal punto di vista tecnico disciplinare, queste note formulano alcune ipotesi di lavoro. Rimane ora da verificare come la Regione interpreterà nella proposta di legge di riforma questa nuova soluzione. Se vorrà quindi affidare al Piano dei Servizi un ruolo marginale e complementare al Piano o se, al contrario, e come si spera, la funzione di connettivo e di “tavolo di interazione e concertazione” dell’intera azione di governo dell’ente locale.
Convegno promosso dalla Consulta regionale lombarda degli Ordini degli architetti
Altri Contributi
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“Polis onlus, Gruppo di Studio sul Territorio Legambiente” composta da urbanisti, architetti, economisti, sociologi, avvocati e persone di cultura interessati alle questioni ed ai problemi relativi al territorio milanese e metropolitano, ha esaminato con attenzione le “Linee guida per la riforma urbanistica regionale” espresse dal gruppo di studio appositamente costituito dall’Assessorato al Territorio e Urbanistica della Regione Lombardia ed ha conseguentemente elaborato le proprie osservazioni. In occasione del Convegno promosso dalla Consulta Regionale Lombarda degli Ordini degli Architetti per il prossimo 14 dicembre 2001, avente come tema l’illustrazione e la discussione delle “Linee Guida per la riforma urbanistica regionale”, Polis presenta il proprio contributo, costituito da una relazione d’inquadramento e di sintesi sui fondamenti e gli obiettivi generali della prevista riforma urbanistica, così come indicati nelle “linee guida” e da una serie di scritti puntuali su argomenti e temi specifici pure anticipati nel Documento Regionale, che proprio per la loro frammentarietà consentono di portare una più spiccata attenzione sugli aspetti particolari della riforma medesima. dott. Maria Carla Baroni arch. Gianni Beltrame arch. Maria Campidoglio arch. Fausto Colombo arch. Piero De Amicis arch. Mario Morganti avv. Stefano Nespor arch. Pierluigi Roccatagliata arch. Elio Tarulli “Linee guida per la riforma urbanistica regionale in Lombardia”: relazione di inquadramento e di sintesi sui fondamenti e gli obiettivi generali Si può ritenere non più eludibile l’esigenza di promuovere una completa revisione dell’attuale Legge regionale urbanistica (LR 51/1975); ciò in conseguenza dei mutamenti di natura economica e sociale che hanno investito il territorio lombardo ed anche per i numerosi provvedimenti legislativi in materia, di livello regionale e non solo, che sono intervenuti, soprattutto negli ultimi anni, i quali hanno reso sempre più complesso il quadro delle norme e degli strumenti a disposizione degli enti locali per garantire il governo e la gestione del territorio. Appare, quindi condivisibile la
volontà dichiarata dalla Regione di dare avvio ad una riforma organica delle leggi e degli strumenti che attengono i temi del territorio e dell’urbanistica, così da giungere alla redazione di un Testo Unico della legislazione urbanistica regionale. La formulazione di un Testo Unico va però concepita non come un fine, ma come mezzo per rendere possibile la promozione di politiche e azioni di governo-gestione del territorio da parte dei diversi soggetti coinvolti, in forme tra loro coerenti e non conflittuali, oltre che compatibili rispetto al sistema territoriale-ambientale. Si ritiene condivisibile la forma scelta dalla Regione per dare avvio al processo di riforma urbanistica regionale: ossia l’apertura del confronto, con tutti gli attori interessati, riferito non ad un articolato di legge, ma ad una traccia, che dovrà necessariamente arricchirsi e meglio definire il quadro strumentale e procedurale nel corso del confronto stesso. Sul versante dei contenuti del documento “Linee guida per la riforma urbanistica regionale” la formulazione dei princìpi, che appaiono nella sostanza condivisibili, dovrà poi trovare concretezza nell’articolazione del set degli strumenti e dei relativi contenuti. Ed è riguardo a questo aspetto che sembra necessario estendere ed approfondire il confronto, in quanto ciò che è delineato nel documento risulta, al momento, ancora poco definito, se visto in rapporto alla complessità degli obiettivi che si intendono perseguire. Si ritiene indispensabile che il tema della mobilità, che rappresenta nel sistema regionale lombardo uno dei principali nodi critici, soprattutto nelle aree urbane, rientri tra le questioni a cui deve essere riservata non solo attenzione, ma particolare valenza nella trattazione della riforma urbanistica. La questione della conoscenza, che nel documento viene affrontato come formazione di osservatorio permanente e sistema informativo territoriale, è un fattore di grande importanza se considerata come strumento capace di fornire una sempre più ampia base comune di lettura condivisa dei fenomeni dinamici del territorio e di verifica delle attuazioni della politiche, così da agevolare i decisori ai quali, risultando immediatamente disponibile la base conoscitiva, può essere attribuito maggiore impegno nella fase progettuale e di definizione degli scenari. L’interesse pubblico, e quindi quanto ne consegue per la re-
visione del concetto di standard, è una delle questioni che devono trovare definizione nella riforma urbanistica per quanto riguarda sia le sue caratteristiche che gli strumenti e le modalità operative per il suo perseguimento. La proposta di una tripartizione della pianificazione di livello comunale in: Documento di inquadramento, di valenza strategica; Documento di piano urbanistico, di valenza operativa; Normativa Tecnica, di valenza regolamentare; - estesa a tutti i 1.546 Comuni della Regione - deve essere attentamente valutata in relazione alle caratteristiche degli stessi Comuni; con riferimento sia alla loro collocazione territoriale, sia alla dimensione demografica e socio-economica. Va scongiurato il rischio di prevedere una strumentazione troppo complessa di difficile applicazione. Piuttosto andranno incentivate azioni di cooperazione tra Enti locali o interventi di sussidiarietà, condotti dal livello superiore, ma condivisi dagli stessi Enti Locali. Il documento “Linee guida per la riforma urbanistica regionale” si ferma a definire i tre livelli di programmazione-pianificazione (Regionale-Provinciale-Comunale) ed a delineare i contenuti fondamentali di ogni strumento di pianificazione. Nel corso del confronto sarà opportu-
no prendere in considerazione anche la strumentazione più operativa attuativa che potrebbe trovare collocazione nell’ambito della più generale riforma normativa. Sul versante delle azioni della programmazione di livello comunale appare indispensabile procedere, nella fase di riordino normativo, al recupero, con un sua eventuale ridefinizione di uno strumento quale: il Piano dei servizi, previsto dalla LR 1/2001 e di una integrazione con previsioni normative nazionali, come il caso del Programma Triennale dei Lavori Pubblici: In sostanza si tratta di mettere a registro strumenti di programmazione e di piano in forma coerente. Nel documento si enuncia, e andrà quindi garantita, quella che potrà essere una fase transitoria, anche lunga, di coesistenza tra la nuova normativa e gli strumenti già elaborati, o in corso di elaborazione, sulla base della precedenti regole. Sarebbe infatti un forte spreco di risorse (temporali, economiche, sociali) e una causa di possibile grave inefficienza se si pensasse di riadeguare gli strumenti di programmazione e di piano la cui elaborazione è in genere risultato di una lunga e complessa attività. Il riferimento riguarda in particolare i Piani Territoriali di Coordinamento Provinciale che, dopo la LR 1/2000, hanno avuto avvio in diverse Province Lombarde.
Osservazioni in merito alle “Linee guida per la riforma urbanistica regionale” 1. Scompaiono i Parchi Regionali (proprio non se ne parla); 2. Si costruisce un Sistema di Potere per cui le informazioni, il monitoraggio, gli orientamenti di piano sono accentrate alla Regione ma il sistema di inquadramento amministrativo delle azioni urbanistiche è totalmente demandato ai Comuni. Sembra indebolirsi di molto la funzione delle Province in campo urbanistico, salvo riconoscere formalmente (e vagamente) la loro competenza in materia urbanistica assicurata dalle prescrizioni delle leggi sul decentramento amministrativo; 3. La metodologia per la costruzione delle linee di piano (a qualsiasi livello istituzionale poi avvenga), sembra applicare i criteri più moderni espressi dalla ricerca in campo urbanistico e, mi sembra (pur nella sua complessità e talora anche contraddittorietà), condivisibile in gran parte; 4. Il problema dell’Area Metropolitana non è nemmeno sfiorato (se ne accenna una sola volta e casualmente). La cosa è comprensibile visto che la pianificazione è un problema che va ge-
stito dal Piano regionale e da quello Comunale (alle Province viene prevalentemente affidato l’arcadico “Piano Paesistico”, visto che proprio la legge Bassanini punta molto sul Piano Territoriale d’inquadramento); 5. Due novità: a. L’istituzione di un centro di Ricerca Regionale; b. La flessibilità dei piani urbanistici (modificabilità nel tempo) che viene attuato, come conseguenza di indicazioni puntuali derivanti da un attento monitoraggio della gestione della pianificazione compiuto da un Osservatorio Regionale. Conseguentemente “Piu potere alle Regioni” (intese come Enti Istituzionali); 6. Sostanzialmente si confermano gli strumenti urbanistici attualmente operanti anche se “ridisegnati” nella sostanza; 7. Una terza novità è la istituzionalizzazione dei piani di settore che vengono (a mio avviso molto opportunamente) inseriti quali elementi costitutivi necessari nel processo di concertazione che deve produrre un piano comprensivo unitario. Mario Morganti
È riduttivo pensare alla riforma della Legge urbanistica regionale del 1975 ancora in termini di “urbanistica”, la cui accezione prevalente è quella di un insieme di norme e di strumenti volto a disciplinare l’uso del territorio prevalentemente urbano, quando le questioni da affrontare riguardano l’intero territorio - ambiente compreso -, la sua complessità e le sue interdipendenze. Le stesse “Linee guida” si occupano di pianificazione, programmazione, sviluppo, concertazione, per cui sarebbe assai più coerente con i problemi dell’oggi e con la realtà lombarda pensare a “Linee guida per il governo del territorio regionale”, come già hanno fatto da anni altre Regioni, come ad es. Toscana, Marche, Lazio. Nelle definizioni contenute nel § 0.3 si pone la programmazione come fase di spesa in funzione di finalità e obiettivi di sviluppo predeterminati (quando?, come?, da chi?) e la pianificazione territoriale come insieme delle ricadute sul territorio delle scelte di programmazione. In una realtà come quella lombarda, in cui la metà circa del territorio - quella montana - ha problemi di dissesto idrogeologico e di abbandono e in cui la fascia nord della metà di pianura (vaste aree delle province di Milano, Bergamo, Brescia, Varese, Como) è infrastrutturata, urbanizzata e insediata (attività produttive e abitazioni) al limite del collasso ambientale, “le risorse territoriali disponibili” non possono essere una variabile dipendente dagli obiettivi di sviluppo; il territorio esistente nel suo complesso, con le sue caratteristiche e fragilità - con la sua probabilmente inesistente capacità di carico ambientale residua - deve essere il dato di partenza rispetto al quale individuare “quale” sviluppo perseguire mediante gli strumenti della pianificazione e della programmazione. A mio parere gli obiettivi strategici e le grandi scelte inerenti in primo luogo la tutela e l’uso responsabile del territorio dovrebbero essere operate in fase di pianificazione territoriale e poi attuate attraverso la programmazione (entità, tempi, tappe, modalità di impiego delle risorse - non solo finanziarie - sia del sistema pubblico sia dei privati). In un sistema politico funzionante secondo criteri di razionalità e di funzionalità complessiva, obiettivi e scelte strategiche dovrebbero essere individuate congiuntamente dalla Regione e dalle Province, indipendentemente dal fatto che la pianificazione territoriale sia competenza delle seconde e la programmazione della prima, in quan-
to il territorio è unico, anche se, molto opportunamente, il nostro impianto istituzionale prevede per esso - a dimensione di area vasta due livelli di governo, con funzioni diverse (legislazione, indirizzo, programmazione per la prima; pianificazione territoriale, interventi e servizi di secondo livello per le seconde), ma che dovrebbero integrarsi. All’inizio del § 1.0 dedicato agli obiettivi della nuova legge si parla di sostenibilità sociale, ma non di sostenibilità ambientale; più oltre, a pagina 30, si accenna a modelli di sviluppo e a sostenibilità ambientale, ma è chiaro che lo sviluppo sostenibile non rientra negli orizzonti politico-culturali del gruppo estensore delle “Linee guida”. Aggiungo, per quanto riguarda il ruolo dell’ente Regione di cui trattasi al § 3.0, la necessità di rapportarsi non solo con lo Stato Italiano e con l’Unione Europea, ma anche con le regioni confinanti, ad es. per grandi questioni territoriali - ambientali come il governo unitario del Lago di Garda o la trasformazione del Parco del Ticino in parco interregionale, che tuteli unitariamente le fasce fluviali di entrambe le sponde. Particolarmente importante è il § 3.1, inerente il rapporto fra i diversi livelli di piano, che evidenzia la necessità del confronto fra enti sin dalla fase di definizione degli obiettivi e che propone il metodo della copianificazione e della concertazione. Se non che, oltre ai livelli di piano corrispondenti alle istituzioni rappresentative (Province e Comuni), esistono altri soggetti di pianificazione territoriale/ambientale a tutti gli effetti: le autorità di bacino per i piani di bacino e gli enti parco per i piani territoriali dei parchi, piani che è ipocrita considerare piani di settore e per i quali è ipocrita disquisire in termini giuridici sulla loro sudditanza o meno rispetto ai piani territoriali di coordinamento provinciali in caso di scelte e prescrizioni divergenti. Il banco di prova di una reale volontà di elaborare una legge a effettiva tutela del territorio sarà l’inserimento effettivo delle autorità di bacino e degli enti parco nella metodologia di copianificazione in ogni fase di predisposizione e di modificazione sostanziale dei piani provinciali, così come delle province nell’elaborazione dei piani suddetti. A parte la fondamentale considerazione che il territorio e il sistema delle acque sono unici e che sarebbe insensato intervenire su di essi con iniziative che potrebbero anche essere contrastanti a seconda dell’ente che predispone un intervento, basta
rileggere le grandi leggi statali (quella sulla tutela del suolo e il disinquinamento delle acque, la Legge quadro sulle aree protette e la Legge 142/1990) per rendersi conto che le stesse competenze e gli stessi obiettivi sono stati attribuiti sia alle Province sia agli altri soggetti di pianificazione territoriale/ambientale. Si è anche posto, e giustamente, il problema dei rapporti particolarmente complessi tra i piani provinciali e comunali e gli strumenti di settore di altri Enti, specie a rilevanza nazionale, come F.S. e Anas, in una materia come la mobilità, tasto assai dolente in Lombardia: e se è giustissimo riproporre anche per questi la metodologia del confronto e della partecipazione, può essere utile ricordare, e riconfermare nella legge regionale riformata, quanto prescritto dalla Legge 142/1990 e divenuto ora il 6° comma dell’art. 20 della Legge 267/2000: “Gli enti e le amministrazioni pubbliche, nell’esercizio delle rispettive competenze, si conformano ai Piani territoriali di coordinamento delle Province e tengono conto dei loro Programmi pluriennali”. Tali piani, infatti, sono l’unica sede in cui si possono studiare ed effettuare interventi integrati di mobilità secondo le esigenze di un territorio, mentre Anas e F.S. sono portatrici di interventi realmente settoriali, per quanto fondamentali. Per le infrastrutture a più lunga percorrenza vale ovviamente il confronto congiunto tra Regione e Unione delle Province Lombarde. In tema di strumenti di pianificazione è indispensabile però fare chiarezza su che cosa si vuole a livello regionale: se un piano territoriale regionale o un documento regionale di inquadramento. È insultante per l’intelligenza di chi legge affermare che “il piano territoriale regionale si configura come strumento di inquadramento”: o è una cosa o è l’altra. Se non si vuole ripercorrere la via dei generosi (allora!) ma fallimentari tentativi effettuati negli anni ‘50 del secolo scorso di elaborare piani territoriali regionali, ci si impegni chiaramente a precisare meglio le linee
costruttive di un documento di inquadramento regionale, fondamentale come strumento conoscitivo e orientativo riguardante la realtà lombarda nel suo complesso, abbandonando però ogni velleità prescrittiva, a meno che non sia riferita a opere di esclusiva competenza regionale, la cui localizzazione e caratteristiche andrebbero comunque preventivamente concordate con gli altri enti locali territorialmente interessati. Uno strumento quale il piano territoriale regionale è strumento valido per la Regione Friuli, avente dimensioni inferiori a moltissime province italiane, ma è improponibile per realtà vaste, popolose, complesse e diversificate al loro interno come sono la quasi totalità delle regioni nel nostro paese. Non è un caso se da undici anni la legislazione italiana ha attribuito alle Province la competenza di pianificare il territorio e a me pare che il gruppo di lavoro dovrebbe attenersi a tale legislazione italiana, anche se, purtroppo, giunta assai tardivamente a normare questo aspetto. In merito agli strumenti di pianificazione provinciali e comunali manca qualsiasi accenno all’ormai indispensabile integrazione tra urbanistica ed ecologia: eppure non mancano né studi, né esperienze concrete, né letteratura in materia di pianificazione ecologica, di trasformazione ecologica degli insediamenti e simili. Da ultimo, un ulteriore banco di prova dell’intento effettivamente riformatore con cui ci si accinge a metter mano a quel coacervo disomogeneo e contraddittorio che sono le leggi e le leggine lombarde, volutamente fatte stratificare nel tempo per rendere il tutto ingestibile, sarà il prevedere, come fase immediatamente successiva all’elaborazione di una legge regionale per il governo del territorio, la predisposizione di un testo unico delle leggi lombarde in materia di territorio, che riporti razionalità, chiarezza e garanzia del diritto in uno dei settori fondamentali della normativa. Maria Carla Baroni
Note sulle “Linee guida per la riforma urbanistica regionale” Le “Linee guida per la riforma urbanistica regionale” elaborate dal gruppo di lavoro appositamente costituito dall’Assessorato al Territorio e Urbanistica, esprimono, nei cinque capitoli che le compongono, molti concetti del tutto condivisibili, accompagnati però da altre affermazioni in parte contraddittorie, in parte suscitatrici di alcuni dubbi di carattere generale. Non si può che essere d’accordo sul metodo della ”concertazione degli obiettivi e della cooperazione sulle scelte programmatiche e di intervento”, così come è ormai scontata la tendenza a “superare l’estre-
ma rigidità del piano tradizionale”. Analogamente si condivide totalmente l’obiettivo di “favorire la forma di riutilizzazione del patrimonio immobiliare edificato per non compromettere il suolo libero” nonché quello di incentivare “l’attribuzione di competenze definite, univoche e non frazionate” alle Province e, soprattutto, ai Comuni. Una specifica attenzione richiede, parallelamente, l’affermazione dell’autonomia e della responsabilità dei soggetti privati e del “ruolo prevalente di promozione e di propulsione” affidato all’Ente Pubblico, inteso come soggetto “investi-
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Alcune riflessioni sul documento “Linee guida per la riforma urbanistica regionale” elaborato dalla Direzione Territorio e Urbanistica della Regione Lombardia
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to di responsabilità di indirizzo, di coordinamento, di incentivazione e di monitoraggio”. In questa ottica, si afferma di seguito, “l’Amministrazione Pubblica dovrà adottare modalità non invasive”. Queste affermazioni sottendono il concetto non solo della piena, indispensabile compartecipazione dei soggetti privati alle scelte di piano, dalla loro iniziale formulazione fino alla loro attuazione, ma anche dell’effettivo superamento del “piano regolatore generale” inteso quale strumento onnicomprensivo e definitivo della programmazione e della pianificazione territoriale. Questo ultimo concetto è ulteriormente ribadito con l’introduzione del “carattere di flessibilità” intesa quale logica contrapposizione agli “elementi di irragionevole e astratta rigidità” che hanno nel passato contraddistinto la maggior parte degli strumenti urbanistici di livello generale. Ancora si dice, e nuovamente si condivide totalmente tale impostazione, che il “piano assume carattere di processo ciclico che, rispetto agli obiettivi strategici e in rapporto alle varianti strutturali, valuta ed adegua, in itinere, gli strumenti operativi”. Alla luce di queste ripetute affermazioni sul diverso significato attribuito al piano, risultano quindi meno comprensibili le definizioni che vengono date, nell’ultimo capitolo, relativamente al Piano Territoriale, al Piano Provinciale e, soprattutto, al Piano Regolatore Comunale, a proposito dei quali ancora si parla di “disciplina e di indirizzi di tutela, con diverso livello di prescrittività”, di “valenza prescrittiva”, di identificazione specifica “delle aree consolidate, di trasformazione, di espansione e di quelle inedificabili”, contraddicendo, almeno in parte, quel criterio di flessibilità e di modificabilità, in itinere, invece affermato e ribadito nei punti precedenti. Altro motivo di perplessità è dato dalla questione dell’informazione, della sua continuità, della conseguente necessità di un monitoraggio, a livello regionale e mediante la formazione di apposite strutture operative, delle varie tra-
sformazioni territoriali e dei vari mutamenti di indirizzo. Nei capitoli dedicati all’informazione, si afferma infatti che “l’utilizzo di un sistema di dati e informazioni condiviso” costituisce la base per l’elaborazione delle scelte dei vari Enti territoriali e per il confronto fra di essi. Più avanti si specifica che un tale sistema informativo,aggiornato ed efficace, risulterà strumentale all’aggiornamento del Piano Territoriale Regionale, dal quale poi derivano, per discesa, i vari contenuti ed indirizzi dei piani Provinciali e Comunali. Si ritiene quindi opportuno chiarire che, in ogni caso, la maggiore e più ampia informazione, acquisibile al livello regionale , intesa quale presupposto per le scelte di programma successive, non deve però contraddire l’autonomia decisionale ai livelli inferiori provinciali e comunali, ai quali in effetti spetteranno, secondo gli orientamenti espressi proprio dalle “linee guida”, la concreta pianificazione e gestione del territorio. Altro punto interessante riguarda l’ufficializzazione del concetto multiplo di “perequazione, compensazione, sostituzione” al fine di garantire “l’equità economica e sociale fra i diversi percorsi di sviluppo dei sistemi territoriali e urbani”. In questa direzione, proprio la Regione, attraverso la diffusione di informazione circa le diverse modalità e forme mediante le quali si sperimenterà l’attuazione di tale concetto, potrà dare un contributo fondamentale di conoscenza e di coordinamento. In conclusione, le “Linee guida” indicano un quadro strutturale e strategico nuovo nel settore della programmazione e della pianificazione del territorio, nel quale agli organi istituzionali di vario livello (Regione, Province, Comuni), con la sola incomprensibile esclusione degli Enti Parco già ufficialmente costituiti e operativi da tempo, vengono affidati ruoli e competenze specifiche, nel rispetto della loro autonomia decisionale e operativa e insieme nella necessaria coerenza di indirizzi comuni e condivisi. Piero De Amicis
“Linee guida per la riforma urbanistica regionale”: Osservazioni Il carattere ancora assai generale della nota non consente osservazioni di merito puntuali. La parte generale riprende infatti i temi tipici della politica dell’attuale (e della precedente) Giunta regionale (meno stato, più mercato, largo ai privati, meno controlli, sussidiarietà spinta, ecc.), temi che hanno destato non poche perplessità nelle loro applicazioni e che perciò motivano e rendono necessaria un’attenta vigilanza anche in campo urbanistico, nel momento in cui essi si traducono in norme legislative. In questo senso, anche la scelta di
certi termini, che in altri contesti potrebbe essere irrilevante, può suonare come un campanello d’allarme. • “Garantire” l’adattabilità degli strumenti urbanistici (p. 9), e non semplicemente “rendere possibile”, potrebbe significare una particolare attenzione alle ragioni di chi (solitamente privati) spinge per vanificare le prescrizioni di piano. • La sussidiarietà orizzontale pubblico/privato (pp. 13-14) desta qualche perplessità per gli stessi motivi, in quanto sembrerebbe tendere ad attribuire al privato una capacità propositiva di piano (e non solo quindi di intervento e di rea-
lizzazione), che dovrebbe essere una prerogativa pubblica e che va ben oltre un’auspicabile concertazione. Che significa, ad esempio (p. 13), “privilegiare la libertà e la responsabilità soggettiva”? Forse che gli esiti oggettivi di determinate scelte non sono sanzionabili? Ugualmente (p. 14) che significa “adottare modalità non invasive” nell’attività di regolazione? In generale, il principio di sussidiarietà applicato al rapporto pubblico/privato è indice di un’abdicazione del ruolo pubblico a favore del privato e in certe materie come l’urbanistica ciò appare assurdo (viene in mente il ministro Moratti che parlava trionfalmente di “fine di monopolio pubblico nella scuola”. • A p. 12 si parla di “identità culturale dell’ambiente”. Non è chiaro cosa significa questo aggettivo attribuito all’ambiente. Viene il sospetto che si tratti di confusione tra ambiente e paesaggio (questo si prodotto culturale), che tanti equivoci ha generato in passato. • Discutibile è la distinzione (pp. 20-21) tra interesse generale e interesse pubblico. Se non coincidono significa che l’ente pubblico non agisce nell’interesse generale, come dovrebbe essere ovvio. Ciò significa forse che si dà per scontato che l’ente pubblico possa muoversi secondo una logica privatistica, il che appare inaccettabile. • Non si capisce (p. 23) cosa significa “promuovere (…) iniziative affinché siano accolte le istanze delle proprie specificità territoriali”. Se, come sembra, è una delle usuali dichiarazioni politiche di
contrapposizione nei confronti dello stato, non ha senso inserirla in una legge urbanistica. • Rapporti tra piani. Non viene considerato il fatto che le interazioni non avvengono solo tra piani (e scelte e interventi) di enti di diverso livello ma anche tra quelli dello stesso livello, ad esempio, tra Comuni e tra Province. Invece si tratta di una eventualità assai frequente, per cui è della massima importanza prevedere i modi per affrontare e risolvere i relativi problemi. • Si dice che i piani provinciali e comunali devono tenere conto degli strumenti di pianificazione e programmazione esistenti di livello superiore e inferiore. Ciò non deve significare che il primo che arriva detta le regole agli altri. E difatti si dice anche che il documento di inquadramento comunale (ma perché non anche quello provinciale?) ”interloquisce con le scelte territoriali regionali e provinciali“ (p. 45). Si tratta di un passaggio cruciale, che per essere funzionale dovrà avvenire secondo modalità rigorose ed efficaci, senza delle quali si rischia l’anarchia (ognuno per se). Stupisce che su un problema di così grande importanza nulla si dica, probabilmente perché nell’elaborazione non si è andati al di là di un’affermazione di principio, alla quale non si sa ancora come rispondere. È certo che tale passaggio non può essere lasciato ad una generica forma di concertazione e alla buona volontà degli enti interessati e che deve perciò essere chiaramente normato. Elio Tarulli
Considerazioni sul documento “Linee guida per la riforma urbanistica regionale” • Considerando il testo, oggetto di primo esame da intendersi come bozza di proposta elementare, schematica, sommaria, un semplice telaio d’inquadramento costruito intorno al tema della “Riforma Urbanistica Regionale”,mi preme sottolineare,dopo un’attenta lettura del documento, l’assenza di qualsiasi riferimento avente per oggetto la struttura dello spazio fisico (e le possibilità di trasformazioni (o meno), riscontrabile nella prima lettura del testo. • È significativo che all’interno di quasi 50 cartelle scritte, la “qualità dello spazio fisico” è indicata una sola volta (vedi p. 30) e analogamente la “lettura del territorio” è menzionata solo in una riga (vedi p. 29). • Tra le pagine del testo non è mai indicato il termine progetto, progettualità, ne mai si fa cenno alla nozione di “qualità progettuale” intesa come riferimento e obbiettivo (metodologico) da perseguire all’interno della complessa tematica urbanistica. • È assente qualsiasi accenno agli strumenti d’indagine, di analisi, di lettura (e di controllo) della strut-
tura fisica dello spazio urbano, dello spazio ambientale, dello spazio territoriale ecc., secondo le varie scale e parametri di conoscenza, di osservazione, di ricerca da rapportare alla specificità di “condizione” rilevabile territorialmente. • Il termine spazio è indicato solo a p. 55 e non si ritrova più: idem la voce qualità (vedi a p. 9). • I termini di paesaggio/patrimonio ambientale/bene-salvaguardia/ecc. e conseguentemente i principi di tutela, protezione, vincolo ecc. sono quasi dimenticati (o del tutto scomparsi): tutti elementi questi ultimi - primari nella definizione di uno.strumento legislativo preposto alla programmazione e sviluppo della politica territoriale lombarda. • Dimenticanze che non devono apparire casuali o (incolpevoli) distrazioni temporanee, ma significative e coerenti con un testo che nel suo complesso tende a privilegiare i cosiddetti strumenti operativi, le opportunità di comunicazione (o di ”partecipazione”!!!) le garanzie di giusto equilibrio tra le forze in gioco, le mediazioni possibili e compatibili tra gli interessi
dall’altro a proporre (e a cavalcare) le nuove normative (elastiche), già parzialmente sperimentate a livello comunale, nel segno e nel privilegio dell’interesse locale e a protezione del cosiddetto “produttivismo” in formazione. Fausto Colombo
Urbanistica lombarda, anno zero Dopo l’accanito e lungo lavoro di smantellamento e di smembramento, a spizzichi e bocconi, della sua prima legislazione urbanistica, sostanzialmente terminato con la l. r. 1/2001, la Regione Lombardia si trova oggi nella condizione e nella necessità di dover iniziare a costruire o ricostruire sopra queste macerie un proprio quadro legislativo urbanistico organico e rinnovato. Le “Linee guida per la riforma urbanistica regionale” recentemente presentate dalla Direzione Territorio e Urbanistica dovrebbero fornire le linee, gli indirizzi e i contenuti di questo lavoro di ricostruzione cui si attribuisce, con una certa ambizione, la qualifica di “riforma”. Ma mentre smantellare e distruggere, specie se animati e sostenuti da una furia e da una logica tutta rivolta a favorire il privato, i costruttori privati, il lasciar fare, il fare per fare, il fare più metri cubi, lo sviluppismo e ogni altro cattivo istinto antipianificatorio, risulta molto facile, riedificare e ricostruire risulta molto più difficile. Ed anzi impossibile se una qualsiasi idea o linea di riforma sembra proprio non essere ancora maturata. Non basta infatti elencare, definire (c’è anche un glossarietto) ed allineare una serie di icone e di simulacri delle banalità, o dei “Princìpi generali”, più ovvi, condivisi, e di moda (perequazione, flessibilità, sussidiarietà, sostenibilità, partecipazione, ecc.) per ottenere e delineare un quadro strategico di riforma. Si veda, ad esempio, come l’importante concetto di “sostenibilità”, che dovrebbe oggi, alla luce della cultura ambientalista più matura, essere posto al centro e a discrimine di ogni strategia e scelta di sviluppo, sia trattato secondo una definizione così lasca e generica - e assolutamente priva di cri-
teri di valutazione e di misura - da poter considerare qualsiasi trasformazione tanto sostenibile quanto insostenibile. E si veda anche la debolezza della definizione di “Interesse generale e interesse pubblico” per la valutazione del quale “si deve contemplare pariteticamente le opportunità e le iniziative dell’operatore privato come di quello pubblico”!! (p. 8). Le proposte sulla natura dei piani e sul rapporto tra i diversi livelli di piano ricalcano invece le proposte - condivisibili e ormai consolidate - proposte dal disegno di legge nazionale proposto dall’INU. Quello però che dà maggior fastidio è che, lo sbilanciamento di questo testo verso la promessa di una vuota prospettiva riformatrice tutta rivolta ad un futuro che non si riesce ancora a delineare e definire, finisca col trascurare ogni bilancio e valutazione critica su quello che rimane in vita del passato o che è stato recentemente modificato da nuove leggi e che, soprattutto, continua e deve operare ancora nel presente. Perché una certa attività urbanistica è, bene o male, ancora in atto ed impegna ancora il lavoro degli enti locali di tutta la Regione. Ed è evidente che non può essere trascurata e dimenticata anche in una prospettiva di riforma e che nemmeno non può essere valutata criticamente. Non a caso, partendo da questa considerazione, il testo propone un non ben definito e valutabile - ma che sembra nascere da questa esigenza - “regime transitorio”. Urbanistica anno zero, dunque, sia per il passato (che pare non ci sia più) che per il futuro (che non si sa ancora prospettare). Ma forse è proprio quel che si vuole... Gianni Beltrame
Intervento al Convegno della Consulta Architetti Lombardia Sono architetto, mi occupo prevalentemente di urbanistica, ed ho avuto la fortuna di compiere operazioni progettuali - con incarichi diretti o di collaborazione - a differenti scale territoriali. Da alcuni anni, raccogliendo e lavorando sugli spunti critici e propositivi tratti dall’esperienza progettuale concreta (dai Piani Particolareggiati, ai Piani Regolatori di
piccoli e medi comuni, al P.R.G. della città di Torino, ai Piani territoriali del Parco del Ticino e del Parco Monte Barro, fino ad alcuni studi territoriali di area vasta per gruppi di comuni e per la Regione Lombardia), ho avviato una ricerca teorica volta a verificare la possibilità di mettere a punto un sistema di regole intieramente nuovo, in grado di normare i rappor-
ti che intercorrono tra i due protagonisti della progettazione urbanistica ed ambientale: l’uomo ed il territorio. Quando ho esaminato il documento - oggi in discussione - predisposto dalla Regione Lombardia per dare avvio alla elaborazione di una nuova legge urbanistica regionale, mi sono reso conto del profondo divario che esiste tra il tentativo di proporre alla discussione alcuni criteri innovativi (e, sovente il loro esatto contrario!) restando comunque all’interno del quadro giuridico tradizionale, rispetto al tentativo di analizzare nel profondo le ragioni di crisi e di distacco dalla realtà di tale quadro giuridico tradizionale, per cercare strade effettivamente nuove da percorrere. Pur consapevole dei miei limiti culturali ed ideativi, traggo stimolo ad impegnarmi in questa ricerca dal fatto che in ambiti di problemi di minor rilievo quali l’elaborazione della normativa urbanistica dei Piani comunali o territoriali, operando con lo stesso atteggiamento mentale e con la stessa disponibilità ideativa, ho raggiunto sovente dei risultati innovativi non trascurabili. Non intendo ora, illustrare intieramente la ricerca in corso, intendo solo accennare ad alcuni pur parziali risultati emersi a tutt’oggi che reputo già in un certo interesse: sarò ben lieto di entrare in contatto diretto con coloro fossero interessati a conoscere in modo più approfondito, ed a confrontarsi con questo tipo d’impostazione alternativa. Le considerazioni e le proposte delle quali, pur in grande sintesi, intendo trattare, vogliono essere unicamente la dimostrazione che è possibile innovare il corpo delle regole urbanistiche tradizionali a condizione di abbandonare lo schema logico insito nei princìpi della pianificazione tradizionale sui quali si fonda la Legge-quadro nazionale “1150” del 1942. Compiendo un intenso sforzo per superare l’irrigidimento mentale conseguente ad una lunga consuetudine col sistema di norme tradizionali, ed un altrettanto intenso sforzo per avventurarsi lungo nuovi itinerari mentali, ho potuto verificare che è possibile risolvere i problemi che stanno alla base del rapporto uomo-territorio, attraverso soluzioni strumentali e concettuali innovative, metodologicamente più valide ed efficaci rispetto a quelle convenzionali. La ricerca di un nuovo sistema di regole - condotta tenendo adeguatamente conto delle modalità più significative da tempo esistenti in Europa riguardo modo stesso di concepire le leggi - deve muoversi innanzitutto secondo questo orientamento di carattere generale: “una legge sul tema del rapporto uomo-territorio, che intenda essere veramente efficace non deve proporsi di “enunciare dei principi o procedure razionalmente
appaganti”; deve proporsi di stabilire dei comportamenti dell’individuo tali da “costringere” la natura umana ad agire tenendo conto non solo del proprio tornaconto immediato ma anche della congruenza, della qualità, della sostenibilità nel tempo delle modificazioni fisiche che si propone di attuare. La ricerca è composta da più parti, la prima delle quali è dedicata all’analisi del sistema di norme oggi vigente, che è stato ideato a cavallo tra gli anni ’30 e ’40. Le conclusioni che si possono temporaneamente trarre da questa parte della ricerca sono, in sintesi, le seguenti: • l’attuale impianto di regole è nato in un momento storico nel quale le condizioni dei due protagonisti del rapporto, il territorio da un lato e la società dall’altro, erano totalmente differenti rispetto a quelle odierne; • il territorio, a quell’epoca, era in condizioni di urbanizzazione totalmente differenti rispetto a quelle odierne; • la legge esprime certamente il meglio che la cultura e le capacità inventive dei suoi ideatori erano in grado di formulare: tale cultura e tali capacità sono quelle di un periodo storico che, nel nostro Paese ha assunto le vesti del fascismo. Per uno strano fenomeno psicologico, siamo evidentemente portati a rimuovere, a nascondere, questo pur inconfutabile contesto storico-culturale iniziale. L’osservazione delle condizioni storiche originarie, svolta col necessario distacco emotivo, si rivela di grande utilità ai fini della comprensione dei principi di fondo sui quali si basa questo sistema di regole. Lo schema logico sul quale si fonda la pianificazione urbanistica convenzionale, è costituito da una rigorosa e coerente concatenazione di piani dalla scala nazionale a quella di quartiere, ed è di una rigidità e di una impositività dall’alto che non sono mai state adeguatamente analizzate e valutate. Solo il tradizionale modo ”all’italiana” di applicare le leggi ha fatto si che tale rigidità fosse totalmente disattesa, e che della legge siano state applicate solo parti assai limitate, come quelle attinenti al territorio comunale, con i P.R.G. La società, oggi, si autogestisce con sistemi di tipo democratico, del tutto differenti rispetto a quello che vigeva al momento della ideazione della legge. Il sistema democratico si presenta in forme molto differenti tra loro: in alcuni Paesi appare ormai relativamente consolidato e stabile, in altri sembra essere ancora non del tutto maturo, in altri ancora appare sempre a rischio di tentazioni autoritarie come, non nascondiamolo, sembra avvenire proprio in questo momento nel nostro stesso Paese. Gli strumenti tecnici di comunica-
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pubblici e quelli privati, ecc. • In questo senso una bozza di legge che va nella “direzione” del cosiddetto uso flessibile (e dinamico) dello strumento legislativo e programmatico: da un lato nel rifiuto a ripercorrere i tradizionali meccanismi (passivi) di vincolo e le conseguenti rigidezze interpretative,
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zione e di elaborazione dei quali oggi disponiamo erano impensabili solo dieci anni fa, e del tutto inimmaginabili settant’anni fa. La constatazione di mutamenti di tale rilievo porta razionalmente a concludere che vi sono oggettivamente le condizioni per dover considerare non più attuale un sistema di regole ideato oltre 70 anni orsono, e dover conseguentemente avviare la ricerca di un rinnovamento radicale di tale sistema. A partire dall’istituzione delle Regioni, negli anni ’70, e con accelerazione crescente solo nel corso di questi ultimi anni, sono già state apportate delle modifiche, anche di forte rilievo, alle regole tradizionali. Tali modifiche - comprese quelle oggi proposte alla discussione non si basano come metodologicamente dovrebbero, sul riesame critico delle debolezze di fondo del sistema di regole, si basano unicamente sullo smantellamento “dall’interno” di quei passaggi procedurali che, proprio attraverso la loro “rigidità” ne garantivano una certa coerenza progettuale ed una certa verifica democratica delle scelte. Il “quadro” formale della pianificazione urbanistica territoriale non è stato posto in discussione, è rimasto intatto: in compenso, con l’istituzione aggiuntiva di alcune nuove procedure decisionali, quali gli “accordi di programma”, le “conferenze dei servizi” i “documenti programmatico-strategici”, ed altre ancora, la congruenza strutturale del processo di pianificazione è totalmente saltata, e le verifiche pur parzialmente democratiche previste dalla procedura tradizionale sono state abolite. Purtroppo, non colgo nel mondo culturale e professionale segnali di presa di coscienza, di pur graduale consapevolezza della gravità ed apparente ineluttabilità della situazione che stiamo vivendo. Dobbiamo invece riprendere fiducia nelle nostre capacità intellettuali, dobbiamo uscire da un atteggiamento mentale di frustrante e sterile lamentazione, dobbiamo impegnarci nello sforzo di liberazione interiore dalla “gabbia mentale” della pianificazione territoriale tradizionale. Rimettiamo innanzitutto in discussione il principio-base del sistema di norme tradizionali: la “pianificazione” urbanistica, per piani a differenti livelli. Questo principio, per sua stessa natura, è coerente solo nell’ambito di una società che ha scelto un sistema di governo “forte”, un sistema di governo in grado di imporre dall’alto a tutti i cittadini una propria univoca verità, in base alla quale la classe al potere è autorizzata a “pianificare” dall’alto la vita di ciascun cittadino. La quasi totalità degli atti e delle attività umane, come è evidente, determina maggiori o minori effetti sul territorio, pianificando rigidamente questi ultimi si pianifica e si incide per converso molto
profondamente sull’attività e sugli atti umani dai quali tali effetti traggono origine. Ma la nostra società civile non auspica certo un sistema di governo di questo tipo: caso mai l’esatto contrario. Il sistema di governo che la società civile vorrebbe avere è un sistema in cui il governo si preoccupa solo di promuovere la libera, autonoma, piena, esplicazione di ciascun cittadino, ponendo unicamente quei limiti, quei “paletti”, che sono strettamente necessari perché tale libertà d’esplicazione di ciascun individuo non soffochi la libertà d’esplicazione degli altri individui. In un regime di questo tipo, ogni forma di controllo pubblico sull’uso del territorio è giustificata unicamente se preordinata al raggiungimento di irrinunciabili obiettivi di palese interesse comune: • conservazione e libera fruizione del patrimonio comune costituito dalle risorse naturali, ambientali, storiche, artistiche, di paesaggio; • elaborazione trasparente della soluzione progettuale meglio qualificata, congruente, sostenibile, per ogni tipo e livello di trasformazione stabile del territorio. Con quale termine od espressione possiamo denominare un’azione di questo tipo? Non certo col termine “pianificazione”! Torniamo a rivalutare, ad esempio, un termine comunque più organico, semplice, positivamente riconosciuto da tutti: “urbanistica”; oppure cerchiamone uno intieramente nuovo, pienamente congruente rispetto al significato che intendiamo dare alla nostra azione. Per stabilire nuove regole di questo tipo occorre innanzitutto conoscere adeguatamente, e possibilmente in tempo reale, lo “stato di fatto” e lo “stato di progetto” nei quali si trova il territorio. Prendiamo quindi in considerazione una prima, semplice, apparentemente solo tecnica, innovazione conseguibile attraverso la corretta valorizzazione delle potenzialità insite nei sistemi di comunicazione e rilevazione che l’informatica ci mette a disposizione. Attraverso una particolare applicazione di queste nuove tecniche, (che ora non illustro solo per motivi di tempo, ma che è facilmente intuibile) coordinata e diffusa su tutto il territorio nazionale, si può raggiungere, in forma automatica, continuativa nel tempo, aggiornata in “tempo reale”, la conoscenza dello stato di fatto e di progetto di qualsiasi parte del territorio nazionale. Con l’impiego di uno specifico linguaggio adeguatamente semplificato ed unificato, questa conoscenza può essere resa accessibile a qualsiasi cittadino, in qualsiasi punto del territorio. Questa prima parte della riforma urbanistica pur apparendo di natura esclusivamente tecnica, raggiungerebbe dei risultati a dir po-
co ”rivoluzionari” rispetto alla situazione attuale!, per quanto concerne la reale trasparenza dell’informazione sullo stato di conservazione, sullo stato di progetto, e per quanto concerne il coordinamento reale degli interventi che incidono sul territorio. Dall’informazione si passa alla progettazione e, conseguentemente, alla preventiva individuazione della scala alla quale debbono essere elaborate sia la progettazione che le scelte territoriali conseguenti. È un tema molto delicato, incide infatti profondamente sui rapporti tra i differenti livelli di governo: Stato, Regioni, Province, Comuni. Se affrontiamo questo tema a partire da un esame corretto del contenuto stesso dei problemi territoriali, forse riusciamo a trovare dei criteri molto più chiari e limpidamente motivabili rispetto a quelli molto sfumati e certamente forieri di cospicuo contenzioso che fino ad ora vengono portati avanti per regolare le competenze e le autonomie decisionali dei singoli livelli istituzionali coinvolti. Il principale di tali nuovi criteri è quello della piena corrispondenza tra l’estensione territoriale degli effetti sul territorio dell’opera che si intende progettare o realizzare, e l’estensione territoriale del livello di rappresentatività democratica dell’organismo (o degli organismi) preposti a decidere al riguardo. Per un malinteso senso di democraticità e di “flessibilità”, le disposizioni di legge - vigenti od in discussione - definiscono in termini quanto mai vaghi i contenuti dei progetti alle differenti scale territoriali (Stato, Regioni, Province, Comuni, Quartieri). Seguendo in modo trasparente e chiaro questo principio, si giunge ad individuare la separazione dei compiti e delle autonomie decisionali in modo molto più efficace rispetto a quanto è ora in essere, per effetto di una immotivata corsa verso il decentramento dei poteri e dei compiti. Osserviamo, ad esempio il tema delle decisioni localizzative che riguardano le attività produttive di livello superiore rispetto a quelle artigianali: queste attività determinano effetti che coinvolgono un’estensione di territorio ben più ampia rispetto a quella del comune dove si trovano insediate: quasi sempre interessano almeno il territorio regionale circostante. Le decisioni di ordine generale riguardanti gli insediamenti di questo tipo non possono e non debbono quindi essere prese dagli organismi rappresentativi delle comunità locali, ma debbono essere prese dagli organismi rappresentativi delle comunità provinciale o regionale. Nel definire competenze e compiti decisionali, è comunque necessario tenere ben distinti i problemi connessi alle scelte generali relative al contenuto quantitativo e qualitativo del dell’insedia-
mento, rispetto ai problemi della progettazione e realizzazione “di dettaglio” di tali interventi: questi ultimi interessano direttamente solo il territorio comunale nel quale si collocano, e conseguentemente debbono essere valutati e deliberati dagli organismi rappresentativi delle comunità locali direttamente interessate. La suddivisione delle competenze tra i differenti livelli istituzionali di rappresentatività democratica (Stato, Regioni, Province, Comuni), deve essere regolamentata secondo il principio della corrispondenza biunivoca tra l’ampiezza territoriale del fenomeno o dell’insediamento che si intende regolamentare e l’ampiezza territoriale della rappresentatività democratica. L’attribuzione delle competenze ad un determinato livello di governo deve essere di tipo “esclusivo” e vincolante: nel senso che ciò che viene valutato e deciso ad un determinato livello, non può essere ridiscusso, come scelta generale, ai livelli inferiori, mentre a quei livelli può e deve essere messo in discussione riguardo alle modalità della sua realizzazione. Un altro tema di grande rilievo è quello relativo alle procedure per garantire qualità e trasparenza alle scelte. Se l’obiettivo che si intende raggiungere è l’individuazione della migliore tra le possibili soluzioni per ogni intervento di trasformazione territoriale, e tale individuazione vogliamo che si svolga attraverso una procedura trasparente e partecipata, allora possiamo prendere in esame, ad esempio, una “famiglia” di modalità e procedure che già esistono e sono di applicazione corrente. Col termine “famiglia” di modalità e procedure mi riferisco, in questo caso, a ciò che attiene le “scelte per confronto” nell’ambito delle procedure dei “concorsi”. L’insieme delle procedure che genericamente denominiamo in questo modo - ma che possono essere anche molto differenti tra loro - e che in innumerevoli campi d’applicazione hanno già permesso di far emergere soluzioni di grande qualità ed attualità, possono indubbiamente essere prese in considerazione per risolvere anche i problemi decisionali che riguardano l’individuazione della migliore soluzione possibile per ogni intervento di trasformazione territoriale. È solo per motivi di spazio che mi trattengo ora dall’illustrare nel dettaglio i risultati già raggiunti dalla ricerca anche a questo riguardo. Concludo quindi augurandomi di essere riuscito ad inviare un messaggio di speranza e fiducia sulle possibilità di innovare profondamente questo settore disciplinare attingendo alle umane potenzialità ideative e tecniche già disponibili, e seguendo un itinerario mentale nuovo con spirito libero e limpido. Giulio Ponti