maggio 2003
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Architetti e Soprintendenze
Mensile di informazione degli Architetti Lombardi Ordini degli Archit et t i delle Province di: Bergamo Brescia Como Cremona Lecco Lodi M ant ova M ilano Pavia Sondrio Varese
Consult a Regionale Lombarda degli Ordini degli Archit et t i via Solf erino, 19 - 20121 M ilano Anno 26 - Sped. in a.p. - 45% art . 2 comma 20/B - Legge 662/96 - Filiale di M lano
AL Mensile di informazione degli Architetti Lombardi numero 5 Maggio 2003
Editoriale
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Forum Architetti e Soprintendenze interventi di Pietro Derossi, Marco Dezzi Bardeschi, Carla Di Francesco, Sandro Rossi Como Cremona Lecco Lodi M antova M ilano Pavia Varese
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Argomenti
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Concorsi
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Professione e aggiornamento Legislazione Organizzazione professionale Strumenti
Fotolito Marf-Progetto Fotolito, Milano
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Informazione Dagli Ordini Lettere Stampa Libri, riviste e media M ostre e seminari
Stampa Diffusioni Grafiche, Villanova Monf.to (AL)
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Indici e tassi
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Sommario
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Maurizio Carones
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Editoriale
La redazione di “ AL” , quando discute sui possibili temi da affrontare nei numeri della rivista, cerca, attraverso un confronto con le redazioni dei vari Ordini, di individuare argomenti che rappresentino una particolare contingenza oppure che, più in generale, possano essere di interesse per il lavoro dell’architetto. I temi scelti, condivisi dal Consiglio direttivo della Consulta, costituiscono nel loro insieme il programma editoriale della rivista che intende proporre agli architetti lombardi una serie di occasioni per una comune discussione. Questi temi diventano quindi oggetto di un lavoro redazionale che, da una parte, è affrontato con interventi di chi, a partire da una precisa esperienza, può dare un contributo di carattere generale e, da un’altra parte, è integrato in modo sostanziale da contributi esemplificativi che le redazioni degli Ordini raccolgono sulla questione. La descrizione di questo procedimento – aperto anche alle proposte tematiche dei lettori – se è utile per comune conoscenza, lo è anche per introdurre l’argomento di questo numero. Il tema del rapporto fra architetti e Soprintendenze è infatti emerso più volte nelle discussioni redazionali, da molti indicato come nodo problematico, come momento di difficile passaggio per il progetto, in cui si deve ottenere un benestare attraverso un lungo e defatigante iter. Si è quindi dedicato al tema il forum di “ AL” , spazio che per la sua limitatezza non può evidentemente esaurire la questione, ma che raccoglie autorevoli e differenti pareri, in considerazione anche dei diversi ruoli che gli architetti esercitano in questo rapporto. Va infatti in ogni caso ricordato come il confronto fra progettisti e Soprintendenza avvenga comunque fra architetti, spesso fra differenti approcci culturali presenti tutti all’interno della nostra disciplina. Ciò che forse è invece superfluo sottolineare poiché evidente a tutti, è che il rapporto fra progettista e Soprintendenze può diventare nel corso del tempo questione sempre più rilevante. Due argomenti indicano la particolare vastità del tema della tutela: il primo è riferibile alla ragionevole previsione che, soprattutto in Italia per le caratteristiche di stratificazione del suo territorio, il progetto si misurerà sempre più con contesti da un punto di vista ambientale ed architettonico già definiti e quindi spesso oggetto di tutela; il secondo è relativo al fatto che la tutela oggi riguarda anche l’architettura moderna, facendo venir meno quel luogo, tradizionalmente deputato alla sua azione, rappresentato dai contesti e dagli edifici “ storici” . La conseguenza di ciò è che il campo di azione del regime potenziale di tutela diviene talmente vasto da renderlo o inefficace o totalizzante. Il senso di un rapporto utile fra progetto e Soprintendenza può stare allora nella possibilità che la Soprintendenza rappresenti per tutti una importante funzione civile, non tanto nel verificare la “ correttezza” di un progetto – questione spinosa e forse inestricabile – ma nello svolgere un ruolo di interlocuzione con committenti e progettisti per conto dell’intera società, interessata a salvaguardare il valore collettivo del territorio e dell’architettura. Senza pregiudizi e per discutere e verificare con competenze specifiche il progetto quale adeguata risposta di alto valore architettonico ad un particolare problema.
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Il tema del Forum di questo numero si occupa del rapporto professionale tra architetti e Soprintendenze. Si tratta di un argomento particolarmente “ sentito” dagli architetti in quanto investe un momento peculiare del mestiere, quello in cui si sottopone un “ nostro” progetto al giudizio di altri colleghi-funzionari. Gli interventi pubblicati nel Forum illustrano alcuni punti di vista: quello delle Soprintendenze (con i criteri e gli strumenti di valutazione adottati nell’esaminare i progetti, soffermandosi sugli “ errori” più frequenti commessi dagli architetti), e quello dell’architetto che, attraverso alcune sue esperienze progettuali, racconta le eventuali problematiche riscontrate. Ringraziamo pertanto Carla Di Francesco, Soprintendente Regionale per i Beni e le Attività Culturali della Lombardia e gli architetti Pietro Derossi, Marco Dezzi Bardeschi e Sandro Rossi. La seconda parte della rubrica prosegue con i contributi di Alberto Artioli, Soprintendente per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di Milano, Amedeo Bellini, direttore della Scuola di specializzazione in restauro dei monumenti del DCSA del Politecnico di Milano, Susanna Bortolotto del Laboratorio di diagnostica per la conservazione e riuso del costruito del DPA del Politecnico di Milano e due interventi riferiti alla città di Brescia. Conclude il Forum una rassegna delle diverse situazioni provinciali curata da redazioni locali di “ AL” .
denza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Piemonte al riguardo della progettazione del Centro della conservazione e del restauro nella Reggia di Venaria. Il progetto, nato dalla vittoria in un concorso internazionale, è stato da subito accettato e sostenuto dalla Soprintendenza (prima dal Soprintendente, arch. Malara, poi dal Soprintendente che gli è succeduto, arch. Pernice) e successivamente accompagnato nel suo svolgersi concreto mettendo a disposizione una precisa competenza. Questo rapporto ha comportato una assidua partecipazione a molte importanti decisioni. Capisco che si tratti di un caso felice e certo è possibile che nascano delle incomprensioni. Di fatto sono due “ progettisti” , uno propositivo e l’altro critico, che devono trovare una mediazione. Oggi si parla di Restauro Critico, cioè di un Restauro che è capace non solo di preservare ma di reinserire nella vita attuale le opere del passato. Si tratta di trovare un giusto equilibrio e questo può nascere da un dialogo tra diverse competenze. Che le opere di architettura nascano da un dialogo attento all’inserimento nel contesto, cercando di leggere le tensioni storiche e attuali del vivere urbano, mi sembra che sia una prospettiva auspicabile. Bisogna che l’architettura riconosca di essere pensiero, che comunichi le sue intenzioni e che assuma responsabilità oltre l’affermazione di una forma autonoma, autoritaria e arrogante.
Dialogo tra due “progettisti” di Pietro Derossi
Sul rapporto “difficile” tra architetti È ormai accertato che alla Soprintendenza è stato via via e soprintendenze attribuito un ruolo sempre maggiore. Dalla tutela dell’edificio alla tutela del quartiere sino alla tutela dell’intero centro storico o anche della città tutta. D’altra parte sembra un’escalation prevedibile nella misura in cui sempre di più ogni manufatto urbano, oltre ad avere un valore di per sé, ha un valore come protagonista del paesaggio urbano complessivo e questo vale sia per gli edifici “ storici” , che per ogni edificio (d’altra parte possiamo chiederci: esistono edifici non storici?). Credo, e mi auguro, che da questa situazione che ha creato alle volte disagi e insofferenze da parte dei progettisti possa riaprirsi un discorso sulla realtà della città che obblighi ad una nuova riflessione sul rapporto tra particolare e generale e cioè sulla processualità complessa dell’evolversi urbano. Se questo accadesse si creerebbe un’occasione privilegiata per rivedere l’andazzo attuale della comunicazione elitaria di molte riviste di architettura che spendono le loro energie sulla campagna pubblicitaria di creatori di oggetti dirompenti. Fatta questa premessa, come mi è stato richiesto posso testimoniare di un personale rapporto con la Soprinten-
di Marco Dezzi Bardeschi Ritengo personalmente di avere maturato un’esperienza invidiabile nei rapporti nelle e con le Soprintendenze, dapprima agendo all’interno (come vincitore di un concorso nazionale mi sono trovato a dirigere per poco più di due anni l’Ufficio autonomo di Arezzo della Soprintendenza fiorentina) poi come studioso, docente di Restauro e progettista operante all’esterno dell’Istituzione. E tuttavia, pur ritenendomi da sempre attivamente schierato sul fronte della tutela e della cura del costruito diffuso, debbo confessare che ogni incontro-scontro tra architetto progettista ed Istituzioni resti sempre, negli esiti, imprevedibile e che ciò in definitiva dipende, ogni volta, data la labilità della materia, dal grado di maggiore o minore apertura e disponibilità al dialogo e al confronto (sul piano umano, culturale e professionale). Il fatto è che tra architetto che propone e funzionario responsabilizzato a recepire la proposta d’intervento tende infatti a scattare un fatale meccanismo pregiudiziale di autodifesa preventiva: il primo (l’architetto progettista) è infatti portato a difendere quella che, in buona fede,
Il servizio fotografico è stato effettuato da Marco Introini e riguarda l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
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ritiene la propria legittima autonomia a favore di un, per lui irrinunciabile, progetto ottimale di qualità; il secondo a difendere ad oltranza un compito istituzionale che gli sembra portato – per definizione – a non concedere spazio di legittimità al progetto del nuovo. Insomma l’architetto: si sente frustrato nella sua “ missione” di interprete delle legittime attese della committenza e della società da una penalizzante e poco accettabile censura; il funzionario dalla sospetta provocazione del vandalo dissacratore di un’eredità collettiva. Ad interrompere il dialogo sul nascere poi è di solito la ipocrita palude del meccanismo burocratico (la snervante pratica dei tempi di giudizio, con la dilatoria richiesta di “ documentazione integrativa” , i sopraluoghi, i “ precedenti” , quando non venga ad arte introdotto il “ deus ex machina” dei pareri “ superiori” , richiesti ad Ispettori ministeriali di comodo o al Comitato di Settore), quando non si faccia sbrigativo ricorso all’assoluto soggettivo della vantata “ discrezionalità” (“ ad insindacabile giudizio” ) del Soprintendente. Allora ti trovi davanti, e sono i casi peggiori, al muro invalicabile del “ parere di competenza” che,
una volta formulato, è arduo rimettere in discussione. È chiaro che quando l’Istituzione si sente, altrettanto in buona fede, minacciata nel proprio compito di giudice tutelare di un sistema storico-monumentale considerato chiuso, di pretesa immutabilità, di cui pensa di dover difendere ad oltranza la (presunta) intangibilità, ecco che finisce per arroccarsi negando ogni inevitabile processo di evoluzione del costruito. Per questa via si scivola fatalmente a proporre o assecondare operazioni regressive come il “ ripristino” di ciò che non c’è più, il rifacimento “ ora per allora” di ciò che avrebbe potuto essere ma non è mai stato, la ricostruzione analogica o stilistica di un’opera perduta o di un brano urbano considerato troppo alterato o compromesso dal tempo e da un uso opportunistico quanto distratto. Per mia fortuna appartengo per formazione alla Scuola (Michelucci, Sanpaolesi, Ragghianti, Zevi) del massimo ascolto dell’esistente e del convinto dialogo da rilanciare sempre tra Antichi e Moderni, una Scuola che crede nella necessità del progetto come luogo originale di crescita della conoscenza e del confronto diretto, responsabile e
trasparente, con la straordinaria, esaltante ricchezza del patrimonio materiale ricevuto in eredità da chi ci ha preceduto. Che crede nella città come originale processo di stratificazione di successivi depositi di cultura materiale che, a nostra volta, dovremmo contribuire a far crescere (producendo nuove risorse e plus-valori), piuttosto che a ridurre, cancellare o stravolgere. Forse è utile ricordare la polemica (già presente al Convegno I.N.U. di Torino, 1956) di Roberto Pane contro tutti coloro, come Antonio Cederna e Cesare Brandi, che pretendevano che si fosse ormai creata una “ penosa, intollerabile frattura” tra Architettura antica e moderna: “ la invocata intangibilità – gli replicava Pane – rappresenta un perfetto assurdo” ,
tamento nelle preesistenze” dando ampio spazio alla nuova polemica contro “ i custodi dei frigidaires” a favore dell’opera-manifesto di Gabetti e Isola: la bottega d’Erasmo a Torino. E tuttavia i tentativi istituzionali di normare il progetto del nuovo per attutire e mettere il silenziatore allo “ scandalo” della sua violenta irruzione nella città antica producevano solo ambigue “ condizioni” della Soprintendenza: ricordo di aver allora ereditato dal funzionario che mi aveva preceduto una serie (numerata da 1 a 12) di frasi fatte cui ricorrere nel dire sì ai progetti di nuova costruzione sotto la dizione “ approvato a condizione che” cui seguiva il numero (variabile) delle prescrizioni: ad
poiché “ si fonda su una fatalistica accettazione del fatto compiuto” . Ma la città antica non è un quadro fisso, intangibile, perenne. Essa, al contrario, è un organismo vivo, aperto, in continua evoluzione e non uno spettrale feticcio icastico… Erano quelli gli anni del progetto (bocciato) di Wright sul Canal Grande con l’Ente di tutela che ignorava “ l’orrore del falso gotico e del falso barocchetto veneziano di cui il Canale è largamente fornito” , tutti “ falsi mostruosi che non disturbano” . Ma non disturbano che? – si chiedeva ancora Pane –: solo “ coloro per i quali non v’è differenza tra gotico autentico e gotico del ventesimo secolo mentre, per gli esperti, il disturbo è tale da giungere fino allo strazio: fino a quel senso di disperata amarezza che nasce dal constatare la propria impotenza. Al cospetto di un mondo dominato dall’attualità burocratica, distributrice onnipotente di falsificazioni e surrogati estetici e morali…” . Così Pane, che di lì a qualche anno avrebbe redatto – a quattro mani assieme ad un Soprintendente di larghe vedute come Pietro Gazzola – quella Carta del restauro (Venezia, 1964) contro la vecchia malattia infantile del ripristino, combatteva con efficacia la propria battaglia in favore dell’architettura contemporanea. Mentre dalle colonne della sua “ Casabella” , Ernesto Rogers lanciava la teoria dell’” ambien-
esempio “ purché sia fatto ricorso a materiali e tecniche costruttive tradizionali” , oppure: “ con assoluta esclusione di alluminio anodizzato (per gli infissi) ed elementi in marmo o travertino (per le soglie delle porte e le finiture delle finestre), ecc. Si tendeva insomma ad imporre “ per motivi di congruenza estetica” soluzioni di mimetismo ambientale, nei materiali e nell’impiego dei colori di facciata che “ devono essere tradizionali e comunque assolutamente non vivaci” , mentre i tetti non dovevano essere coperti con marsigliesi, ma tassativamente solo “ con embrici o coppi alla toscana” . Prescrizioni ingenue (ma chi poi ne avrebbe verificato la rispondenza?) tra le quali la più ridicola era la diffusa estensione di “ persiane alla fiorentina e di pavimenti in cotto dell’Impruneta” anche in aree culturali ben lontane (ho avuto personalmente modo di riscontrarlo in Umbria, nelle Marche ed in Emilia-Romagna…). Oggi mi pare che il ruolo del Ministero dei Beni Culturali (e dunque quello delle Soprintendenze) sia meno anacronistico di quello “ esclusivamente vincolistico” (ed impopolare) di un tempo. Alla pratica distruttiva del cosiddetto “ restauro” è subentrata quella virtuosa del rispetto e della cura del documento-monumento, visto che l’articolo 34 del nuovo Testo unico per i Beni Architettonici
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(1999) ora definisce il restauro come “ l’intervento diretto sulla cosa volto a mantenerne l’integrità materiale e ad assicurare la conservazione e manutenzione” . E poiché ci si può impegnare a curare e conservare solo il patrimonio ancora esistente e non i fantasmi, ciò rilancia di fatto e di diritto la necessaria compresenza (per ogni aggiunta di componenti o dotazioni) della cultura del progetto del nuovo. La fin troppo ambigua nozione di “ restauro” , responsabile di tanti crimini a spese dei monumenti più noti, è stata sostituita dal binomio “ conservazione e progetto del nuovo” . Il Ministero ha pure cambiato nome: ai Beni ha aggiunto, rivendicandola, la paternità “ delle attività culturali” , cioè un esplicito impe-
tazioni” , già condannate ad essere rimosse non appena indicate come tali) e alla gestione del progetto del nuovo. Io credo che la violenta polemica sollevata in loco dalle frange più retrò e velleitarie dell’intollerante pseudocultura del ripristino “ com’era e dov’era” (in questo caso le non più esistenti mura e bastione farnesiane) sia servita a spostare in avanti il fronte della tutela fino al rispetto delle recenti labili sovrascritture di età fascistica ed a confermare il diritto ai valori d’uso e alle testimonianze d’architettura contemporanea, malgrado gli inevitabili colpi di coda dei tanti improvvisati “ nemici del progetto” i quali, in nome di un’” estetica” tradizionalista e convenzionale, pretenderebbero di negare, all’insegna dell’” in-
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gno a gestire il passato nel presente. Ed è stata attivata una nuova specifica Direzione Generale per “ l’architettura contemporanea” di qualità. “ Se son rose fioriranno” … Ma intanto il Ministero ha cominciato ad estendere la propria attività di tutela alla stessa architettura contemporanea anche prima che siano trascorsi 50 anni o la morte del progettista: a Milano Soprintendenza ed IN/Arch hanno siglato all’unisono fin dal 1998 un Manifesto per l’Architettura Moderna e Contemporanea ed il nuovo Soprintendente (Alberto Artioli) ha al suo attivo una pionieristica opera di interventi conservativi su monumenti del Razionalismo lombardo. Così mi pare che i due poli del magnete si vengano ad avvicinare e ad intraprendere un’azione coordinata. Come prodotti di questa nuova alleanza posso citare almeno due positive esperienze personali: la realizzazione (dopo 24 anni! ) della nuova scala di sicurezza del Palazzo della Ragione in piazza Mercanti a Milano e l’intervento di recupero del Bastione e delle mura di Porta Borghetto a Piacenza. Un intervento quest’ultimo promosso da un Soprintendente iperattivo (Elio Garzillo) che, con convinzione, ha spostato in avanti il proprio impegno a gestire la tutela fino a dedicare attenzione alle stesse stratificazioni più recenti (comprese le cosiddette “ superfe-
dietro tutta” , ogni innovativa ricerca progettuale (ma al Ministero oggi non esternano più pittoreschi Sgarbi quotidiani...).
Architetti, Soprintendenza, restauro di Carla Di Francesco Lo Stato Unitario Italiano, consapevole dello straordinario patrimonio culturale ricevuto dalla storia, si è dotato ben presto dopo la sua istituzione di strumenti legislativi di tutela, organicamente ordinati per la prima volta nel 1909, poi riordinati e precisati nel 1939 (la Legge 1089 sulla tutela delle cose d’interesse storico artistico, e la Legge 1497 sulla tutela delle bellezze naturali e panoramiche) quindi confluite senza sostanziali variazioni nel Testo Unico 490 del 1999, oggi vigente. Le Soprintendenze sono gli organismi tecnici ai quali l’ordinamento affida i compiti di tutela, da esercitare secondo la legge la quale, è bene ricordarlo, indica modalità amministrative e princìpi di carattere generale per la salvaguardia di monumenti, opere d’arte, collezioni, siti archeologici e più in generale di beni culturali, ma non
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fornisce indicazioni rivolte ai criteri da adottare per il restauro. Rimanendo nel solo campo dei beni architettonici ed al momento attuale, infatti, il Decreto Legislativo 490/1999 nel titolo I indica principalmente i procedimenti d’individuazione dei beni da sottoporre a tutela (i vincoli), ed i diversi obblighi che in conseguenza alla dichiarazione d’interesse storico-artistico la proprietà è tenuta a rispettare: tra questi fondamentale ai fini della riflessione che questo numero di “ AL” ci propone è l’obbligo di presentare alla Soprintendenza (che oggi, dopo la riforma del Ministero del 2001, è denominata “ per i Beni Architettonici ed il Paesaggio” ) i progetti di opere che si intendano eseguire. Precisiamo in primo luogo che per “ opere” si intende ogni categoria di lavoro (restauro, adeguamento impiantistico o funzionale, consolidamento, manutenzione, ecc.) destinato ad incidere sulla consistenza materiale del bene tutelato. E precisiamo anche, una volta per tutte, che vincolare un edificio non vuol dire cristallizzarne l’esistenza allo stato attuale, impedendo a priori ogni iniziativa di restauro, modifica o adattamento. Il vincolo è una dichiarazione di interesse storico-artistico che individua in forma amministrativa le valenze culturali dell’immobile, ovvero i valori rappresentativi dell’architettura nel momento storico a cui si riferisce, la permanenza dei quali deve essere garantita tanto nelle eventuali modifiche di destinazione d’uso, quanto nei lavori di adeguamento o restauro. Individuazione e garanzie sono parte di un delicato processo di valutazione intorno alla qualità del bene ed ai significati che esso trasmette, che costituiscono parte fondante della attività tecnico- discrezionale dell’Amministrazione (ovvero della Soprintendenza, o più concretamente ancora degli architetti – funzionari e soprintendente – che in essa esercitano la professione). Il progetto su un immobile tutelato, inutile negarlo, è il luogo di incontro, ma talvolta anche di scontro, tra l’architetto che lavora all’interno della Soprintendenza e l’architetto esterno, il progettista. Nel caso che definiamo “ scontro” alcuni fattori incidono in maniera significativa sulla divaricazione di giudizio che si riscontra all’atto dell’esame del progetto in Soprintendenza. Vediamone alcuni. Il primo più diffuso motivo di discordanza di vedute ha a che fare con aspettative e finalità dell’intervento, dettate in verità dai committenti, ma condivise nel progetto dai professionisti: destinazioni d’uso non compatibili con la stuttura architettonica tutelata, e anche, ma non necessariamente in contemporanea presenza, proposte di eccesso di sfruttameto degli spazi (con conseguenti frazionamenti, soppalchi, scale e scalette, presenza di abbaini per il recupero dei volumi di sottotetto, scavi per la creazione massiccia di garages interrati: come comprare uno splendido abito di taglia 42 per farlo indossare ad una signora di 100 chili! ): in entrambi i casi si tratta di una errata valutazione delle qualità espresse dal bene, che si traduce in non chiara distinzione degli spazi architettonici che vanno preservati in quanto la loro modifica costituisce un reale depauperamento dell’immobile, da quelli che invece possono essere oggetto di diverse gradualità di trasformazione. Ma soprattutto si osserva che fenomeni di questo tipo hanno origine da un non corretto approccio alla progettazione: di fronte ad un edificio tutelato ci si deve porre interrogandolo, cercando di capire la sua identità, i momenti storicamente definiti, l’organizzazione architettonica, la successione degli apparati decorativi, materiali e
tecniche costruttive, le eventuali modificazioni avvenute nel corso dei secoli di esistenza: conoscendolo, insomma. È lo stesso edificio che detta le destinazioni d’uso compatibili, ed il carico di “ trasformabilità” che può eventualmente sopportare. Il processo al contrario, che pone come dato fisso e prioritario ciò che si vuole realizzare, per poi determinare progettualmente le “ necessarie” trasformazioni, non è metodologicamente accettabile. Se questo è uno dei temi di scontro più frequenti, in aumento con il passare degli anni, si possono individuare almeno due ragioni specifiche che valgono senz’altro per la Lombardia, ma forse anche per altre Regioni: • Piani regolatori e leggi di settore: la legislazione regionale e le regolamentazioni comunali sono in Lombardia decisamente attente alle istanze di sviluppo economico ed imprenditoriale, piuttosto che alla salvaguardia del territorio nel suo insieme di valori ambientali, paesistici e culturali, o anche nelle singole emergenze architettoniche. Chiara espressione di questa tendenza sono le leggi che favoriscono il recupero dei sottotetti, non ponendo alcun limite per edifici, prospettive o contesti ambientali; così l’ultimo baluardo per tutelare rimane davvero solo la Soprintendenza, che finisce per diventare, nell’opinione comune, l’Ente che impedisce. • Criteri di restauro: ho più sopra sottolineato che la legge fornisce strumenti amministrativi per la tutela, senza entrare nel merito di temi di restauro. Il Ministero (oggi “ per i Beni e le Attività Culturali” ) ha emanato periodicamente, fino agli anni ’70 del ‘900, circolari recanti Istruzioni per il Restauro dei Monumenti nelle quali raccomandava agli Uffici l’applicazione di concetti generali desunti dall’elaborazione delle Carte del Restauro e dal dibattito che intorno ad esse si sviluppava. Non a caso però questa abitudine si è interrotta proprio quando la cultura del Restauro, nel moltiplicarsi l’interesse del mondo universitario, degli Istituti di ricerca e dei professionisti per la disciplina, e nel formarsi il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali (1978), ha cominciato a diventare multiforme e variegata, complessa e ricca di sfaccettature tanto da non poter essere governata con regole semplificative. L’approfondimento degli studi, anche settoriali, ha poi sviluppato diverse “ scuole” di restauro che, se da un lato animano il dibattito teorico, producono effetti di non certezza nell’approccio dei problemi. Ma proprio per questo il restauro oggi non è semplice operazione tecnico-progettuale su strutture e decorazioni, ma una complessa operazione, che mette in gioco cultura e sensibilità del progettista. • Formazione e professione: uno dei rimproveri più frequenti nei confronti delle Soprintendenze è quello di essere diventate troppo severe nelle prescrizioni conservative riguardo a strutture (esempio di obiezione del committente e progettista: perché intervenire con sole riparazioni su una copertura con struttura in legno? È più sicuro e durevole rifarla, magari uguale; costa anche meno!) elementi di architettura (es. perché restaurare gli infissi quando costa meno e si ottiene una miglior prestazione sostituendoli?) murature (un edificio di duecento anni ha, inevitabilmente, necessità di consolidamento delle murature, così stiamo più sicuri). Le esemplificazioni che ho citato sono assai frequenti. Il fatto è che lo sviluppo degli interessi scientifici nel settore del restauro ha prodotto enormi progressi nello studio di tecniche costruttive storiche e dei materiali della tradizione, e parallelamente nella scienza della conservazione. La materia, del resto, è il supporto fisico in cui si esprime l’opera (“ l’epifania dell’immagine” , citando Cesare Brandi) atto a tramandare i valori tutelati e pertanto la sostituzione non può che essere riservata a casi assolutamente estremi di
degrado. L’architetto che lavora in Soprintendenza (con le dovute eccezioni, naturalmente) vive una professione specialistica che, senza consentirgli di ignorare le istanze dell’architettura contemporanea, lo porta a contatto quotidiano con la ricerca, con le innovazioni, con gli studi più avanzati per la conservazione. Vive perciò un continuo aggiornamento sul campo che lo porta ad essere più sensibile a questi temi. Che il mondo del restauro sia sempre più ricerca e specialismo lo dimostra anche la circostanza che nei concorsi per il reclutamento degli architetti nelle Soprintendenze il Ministero richiede, oltre alla laurea in Architettura, anche la specializzazione in Restauro. Allora potremmo concludere che non sono più
nella sua esperienza attuale, vengono sostituite da uno sperimentalismo vuoto di senso). Ripensando ai rapporti avuti con i Funzionari della Soprintendenza, ai lavori che ho compiuto su edifici vincolati, ai loro controlli ed ai sopralluoghi in cantiere, credo di dover riconoscere un sostanziale contributo alla comprensione di questo insegnamento strumentale: nella divulgazione di modalità di analisi ed anche di metodologie di intervento coerenti e compatibili con le modalità costruttive dei manufatti antichi, e quindi interpretative, su questo piano, del senso di quelle modalità. Una divulgazione ed una verifica quindi condotta sul campo, ed un insegnamento che è tutto compreso nel ricono-
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intransigenti oggi le Soprintendenze, ma forse che per affrontare progetti di restauro è necessaria una formazione adeguata e specialistica, che va al di là della laurea in architettura. Nota Il tema che questo numero di “ AL” ci propone induce in primo luogo ad una riflessione sulla professione dell’Architetto. O meglio sulle molte professioni che l’architetto può esercitare anche oggi, in un mondo che sempre più organizza il lavoro in gruppi interdisciplinari all’interno dei quali dialogano specialismi ed affinità.
La conservazione e il progetto di Sandro Rossi L’insegnamento che i monumenti sanno trasmettere è certamente un insegnamento anche strumentale. Relativo alle loro tecniche costruttive, alle loro modalità tecnico-pratiche, al corretto uso dei materiali (che sono i materiali e le tecniche da sempre depositate all’interno della esperienza dell’architettura e che al contrario spesso,
scimento per la fiducia in un modo di operare a stretto contatto con l’opera già costruita e, forse inconsapevolmente, nella convinzione che comunque, all’interno di questo tipo di attenzioni, i manufatti antichi sappiano rivelare le loro ragioni. Ma ripensare alle modalità di questo scambio, di questo rapporto, se riferito ai casi più complessi che ho potuto affrontare, a quegli esempi di cui mi sono occupato e che appaiono come edificazioni incompiute, nei quali cioè le trasformazioni si sono succedute a volta contraddicendo il senso delle preesistenze ed in cui diversi progetti sembrano coesistere all’interno di un unico manufatto, significa anche riflettere sulla incompiutezza di un procedere affidato alla possibilità di tradurre in sistema metodologie di intervento riferite a problemi particolari, minuti e contingenti. E, di contro, significa anche riflettere su di un insegnamento più essenziale, che i monumenti manifestano ponendoci di fronte alle responsabilità del nostro operare. Un insegnamento che riguarda la necessità di saperci misurare realmente con le modalità messe a punto all’interno dell’esperienza dell’architettura e, nel confronto con esse, la consapevolezza della complessiva inadeguatezza degli strumenti del nostro lavoro.
Vi è probabilmente un legame fra le sospensioni della Soprintendenza su questo piano, fra scelte che in realtà appaiono spesso limitazioni di campo (che coinvolgono obiettivi riconoscibili in una tensione celebrativa e referente della vicenda attraversata dai monumenti e intesa come compiuta, e quindi a margine rispetto ad obiettivi autenticamente civili ed architettonici, sino a riconoscere edifici come musei di se stessi sino a dover protrarre la annosa diatriba sul conservare o il restaurare, ecc.) e un pensiero architettonico che, riflettendo la problematicità e l’incompiutezza di cui ho fatto cenno, ha spesso pretestuosamente rinunciato a riconoscersi in istanze autenticamente normative e formali.
mali dei luoghi a cui presto attenzione, non solo attraverso ricostruzioni storiche condotte attraverso la ricognizione di documenti e rilievi storici, ma soprattutto nel contatto fisico, attraverso il rilievo (a partire dai rilievi topografici, sino ai sondaggi, alle stratigrafie ecc.). Ed è uno “ scavo” che procede non sempre in modi generalizzabili ed osservando le medesime procedure; un processo che, per sua natura, non può essere semplicemente oggetto di vincoli o di protocolli dati a priori. Poiché si tratta di un apparato strumentale (quello che comunque noi tutti utilizziamo, quello stesso, a cui ho fatto cenno, suggerito e divulgato anche dalla Soprintendenza) che, di per sé, non sa fornire risposte se non
Come vi è probabilmente un nesso tra queste ultime rinunce e la delineata estensione di campo da parte della Soprintendenza – per i Beni Architettonici e per il Paesaggio – e il possibile proposito di scambiare obiettivi propri con dettami procedurali, sostituendo la nozione di vincolo con una generica nozione di protocollo e procedimento (conseguente ad una estensione delle competenze nella misura in cui in questo ambito nulla è dato in maniera definitiva e sia l’architettura che il paesaggio, ci parlano di un processo che non è mai concluso e si modifica anche solo in dipendenza delle modalità delle nostre attenzioni). Una estensione di campo che si può cioè riflettere in semplificazioni e generalizzazioni forse unicamente burocratiche ugualmente irrilevanti rispetto all’esito del nostro lavoro ed analoghe a quelle in uso da parte di tutte le altre Istituzioni che operano sul territorio. Il problema sta altrove. Risiede forse in una diversa, reciproca e, per così dire, più attenta consapevolezza sia da parte nostra, di architetti, sia di chi avalla il nostro lavoro. Spesso, nel progettare, nella città antica ma anche nelle periferie o in campagna, mi trovo alle prese con compiti, per così dire, di scavo all’interno dei luoghi. Una attività tesa a riportare alla luce non tanto la memoria di cose dimenticate, ma il senso e le ragioni for-
per quanto corrisponde alle domande che noi stiamo ponendo e che solo in questo senso sa essere condizione e misura per il nostro operare. E che non coinvolge quindi unicamente l’architettura o i monumenti, ma generalmente i luoghi del nostro lavoro. Il suo esito non può essere compreso né in tecniche prefissate né in procedure comunque valide, che possano supplire la nostra capacità di porre domande. L’esito e il problema sono il progetto, e cioè la responsabilità e la consapevolezza che abbiamo nella trasformazione o nella conservazione dei luoghi. Un’attività, quella del progettare, che ha in realtà un suo avvio prima dell’approfondimento conoscitivo condotto sui luoghi, nella capacità che abbiamo acquisito di porre domande e quindi di indirizzare le nostre scelte. Di saper scegliere, decidere quali siano gli obiettivi che ci poniamo. Obiettivi che coinvolgono certamente anche i problemi dell’oggi, le condizioni attuali della città e dell’architettura, e che non riguardano mai unicamente i luoghi o i monumenti in quanto tali, ma le modalità della loro trasformazione. All’interno di questo procedere, i luoghi e la loro costruzione – l’architettura e, a volte, i monumenti –, il programma e il problema, l’esito e il protocollo sono, toutcourt, il progetto.
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Il percorso storico Nel diritto esiste il concetto di dinamismo giuridico: il legislatore infatti, facendosi carico delle istanze sociali, culturali, morali ed emotive di una comunità, tramuta in leggi queste esigenze collettive; non fa eccezione la materia dei beni culturali la cui considerazione si è modificata nel corso dei secoli e conseguentemente anche la relativa produzione normativa. Si è citato il termine di Beni Culturali che è una definizione abbastanza recente, probabilmente coniata dalla Commissione Franceschini, istituita dal governo nel 1964 con il compito di condurre una approfondita indagine sui problemi del patrimonio artistico; la Commissione, trovandosi di fronte a tre diverse categorie di beni, quelli storico-artistici, quelli paesaggistici e quelli archivistici propose di rappresentarli con un unico termine, appunto quello di bene culturale definito come “ testimonianza materiale avente valore di civiltà” . La Legge di tutela n. 1089 del 1 giugno 1939, attualmente sostituita dal Decreto Legislativo n. 490 del 1999 che ne mantiene i principi ispiratori, nel definire queste categorie di beni usava il termine di “ cose di interesse artistico e storico” , termine introdotto in una ancor precedente legge del 1909 la cui motivazione fu spiegata nella presentazione al Parlamento svolta dal suo relatore, Onorevole Giovanni Rosadi: “ si è preferito il termine di Cose a quello di monumenti, immobili, oggetti mobili (...) D’altronde cosa (res) è termine esatto che ripete l’origine e l’uso del diritto antico. I Romani, avvezzi al rigore delle formole, parlavano di cose prima che di beni (...) Né questo c’è parso argomento di umiliazione occorrendoci di pensare come potesse per più secoli e in questa materia essere povero il dire in un paese dove fu tanto fecondo e prodigioso il fare, dove agli artefici massimi del marmo e della tela erano ignoti i titoli magnifici e le pompe ufficiali delle moderne accademie e non sonava vile chiamar botteghe quelle umili ma gloriose officine in cui operarono miracoli di bellezza, cinti i fianchi di grembiule, Cimabue, Giotto, Masaccio, il Ghirlandaio, il Verrocchio, il Ghiberti, Michelangelo, ed ebbe nome di lastraiolo, tra gli altri modesti marmoraii degni di lui Donatello.” Ma quando è che nell’uomo nacque l’esigenza di conservare le testimonianze del proprio passato e si sviluppò dunque un interesse per il patrimonio artistico? L’esigenza non è stata sempre costante basti pensare che fino all’Ottocento i fori imperiali erano utilizzati come pascoli o come cave di marmo per produrre la calce, o che alla fine del Cinquecento Sisto V, nel suo geniale piano urbanistico studiato da Domenico Fontana, aveva pre-
visto di tagliare in due con un rettifilo il Colosseo, o che Giulio II, nel commissionare a Raffaello gli affreschi nelle stanze vaticane, aveva autorizzato la distruzione di quelli sottostanti eseguiti qualche anno prima da Piero della Francesca e Luca Signorelli, o che i resti del Castello di Milano dovevano essere in gran parte demoliti; si badi bene, non erano atti di vandalismo, ma comportamenti quasi istituzionalizzati. Anche se col passar dei secoli la considerazione per gli oggetti d’arte e le testimonianze del passato si è andata modificando, l’uomo verso di essi si è spesso dimostrato sensibile pur con motivi diversi perché essi rappresentavano il legame con il proprio passato e quindi l’identità storica e morale di una comunità. Una delle prime norme di “ tutela” la troviamo tuttavia proprio nel diritto romano che nonostante concepisse la proprietà privata come bene prioritario e fondamentale in alcuni casi ne attenuava la forza; Giustiniano (527-565), riordinò tutta la legislazione romana in un’opera monumentale, il “ Corpus Juris Civilis” , fondamento della scienza giuridica occidentale, divisa in quattro parti, una delle quali è il Codice in cui si ritrova una norma che obbligava i proprietari a riparare i propri edifici e vietava agli stessi di rimuovere le statue di loro proprietà che erano visibili dalle pubbliche vie. Il fatto dunque che un’opera d’arte fosse stata esposta alla vista e al godimento della cittadinanza la investiva di un interesse collettivo sottraendola ad un uso esclusivo ed incondizionato del proprietario. Quando in Italia si stabilizzarono forme di governo durature e non più discontinue come nell’età comunale ricominciò ad organizzarsi un sistema normativo di salvaguardia che ovviamente aveva carattere contingente ed era legato alle necessità immediate del particolare territorio che lo aveva emanato. Gli stati che ebbero governi stabili e nei quali ci fu una discreta produzione di norme di tutela artistica sono tanti anche se si distinsero in particolar modo le Province Romane dove la stabilità di governo e la enorme presenza di materiale archeologico crearono le condizioni per l’emanazione di disposizioni che risultarono fondamentali e di riferimento per tutte le legislazioni successive e i cui effetti ritroviamo ancora nelle nostre leggi vigenti. Pio VII, (Barnaba Chiaramonti, 18001823), fu un Papa molto attento a tutelare le cose d’arte; nel 1802 nominò Antonio Canova come Ispettore alle belle arti e nello stesso anno, con l’editto del Cardinale Doria Pamphili, emanò precise disposizioni estendendo il divieto di esportazione non solo agli oggetti archeologici, ma anche alle pitture:
Nel 1872, in Senato, era stato presentato dal Ministro Correnti un disegno di legge, il primo veramente organico in materia, che però, per le solite opposizioni degli strenui difensori della proprietà privata, cadde. La relazione di presentazione della legge reca delle motivazioni di sconcertante attualità che fanno intendere come le problematiche odierne erano già state lucidamente individuate all’epoca. “ Voi sapete che la storia di tre civiltà l’etrusca, la romana e l’italica del risorgimento, meglio che in libri sta scritta nei monu-
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L’evoluzione delle leggi di tutela
“ Quelli poi che estrarranno da Roma, o dallo Stato, o per via di mare, o per quella di terra gli oggetti anzidetti, come quelli che scientemente gli avranno a loro venduti, ed i sensali, e complici della vendita, oltre la perdita degli oggetti stessi, saranno ciascuno singolarmente soggetti alla multa pecuniaria di cinquecento Ducati d’oro di Camera, e cumulativamente ad altre pene inflittive del corpo a Vostro arbitrio, da estendersi fino alla galera per cinque anni, secondo la qualità delle persone, la importanza dell’oggetto,
e la malizia che avrà accompagnata la fraudolenta estrazione. Anche quelli che avranno prestato mano alla estrazione, cioè i Facchini, Falegnami, ed altri Artefici, da cui siansi scientemente formate le Casse Imperiali, ed ogni simile continente, atto a rinchiudere il Contrabbando, o che avranno fatto l’Incassatura, o l’Imballaggio, i Carrettieri i Mulattieri, Barcaroli, ed altri Condottieri che avranno dato mano al trasporto, si considereranno tutti per complici dell’estrazione (...) e come tali, oltre alla perdita dei rispettivi Ordegni, Animali ed Istrumenti, Carri, Barche (...) oltre le pene corporali, che riserviamo al Vostro arbitrio.” Sempre sotto Pio VII qualche anno dopo, il 7 aprile 1820, fu emanato un editto concepito dal suo Camerlengo, il Cardinal Bartolomeo Pacca (1756-1844), che rappresenta un testo di riferimento in quanto riassumeva tutta la cultura giuridica precedente e si poneva come fondamento di tutta la normativa prodotta in materia successivamente. Prima dell’Unità d’Italia ogni stato aveva prodotto la propria normativa di tutela legata alle varie esigenze e realtà interne; con il nuovo Stato Italiano sorse la necessità di emanare una disciplina giuridica unitaria per tutto il territorio e dunque nacquero le prime difficoltà: una legge di tutela che disciplinava il campo degli oggetti artistici, mobili ed immobili, in qualche modo limitava la proprietà privata e toccava proprio quella classe più ricca che aveva ereditato la gestione e l’amministrazione del nuovo Stato; non deve meravigliare dunque se trovava difficoltà e resistenza ad essere discussa e poi approvata.
menti (...) che gli stranieri ci invidiano e che il mondo ammira. Il decoro e l’interesse nazionale ci comandano dunque di ricercare, di custodire, di proteggere, per quanto a noi possibile questo grande patrimonio d’arte (...) Né questi pregi soltanto, né questa sola utilità hanno i monumenti antichi e le altre opere di tempi più gloriosi dell’arte; esse formano ben anche un gran valore economico nazionale, un valore mercantile, direi, che noi vediamo di mano in mano aumentare per la ricerca crescente per l’offerta sempre più scarsa, se mi consentono queste forme di linguaggio economico parlando delle più meravigliose opere dell’ingegno umano. Né ciò basta: esse costituiscono, a un tempo, una rendita certa; perché se il paese nostro è in ogni anno visitato da tanti stranieri, questo in gran parte dipende dai monumenti che vi si ammirano” . Altri disegni di legge nel frattempo decaddero e di fatto venne a crearsi un vuoto normativo ben più grave del precedente periodo pre-unitario, dove, seppur disuguale e frammentaria, esisteva una rigida disciplina di salvaguardia. In ogni legislazione di tutela l’interesse collettivo deve prevalere su quello singolo; tale principio, ampiamente accettato negli stati preunitari, trovava difficoltà ad essere riconosciuto dal nascente stato liberale. Non dobbiamo dimenticare poi che all’epoca era in vigore lo Statuto Albertino che considerava la proprietà privata sacra ed inviolabile; nello Statuto infatti il diritto fondamentale era la proprietà insieme alla personalità, mentre nella nostra Costituzione il diritto fondamentale è la collettività.
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Si arrivò al 1909 anno in cui, finalmente, lo Stato Italiano si dotò di una legge di tutela veramente organica ed efficace: la n. 364. Erano passati quasi cinquant’anni dall’Unità d’Italia: mezzo secolo in cui i beni culturali erano stati abbandonati anche dalla legge. Nel 1939 la Legge n. 1089 aggiornava quella del 1909, ma fondamentalmente era ispirata agli stessi princìpi. Fin dall’antichità, come visto, la tutela dei Beni Culturali è stato un tema sentito che, evidentemente, si è modificato nel corso dei secoli, tuttavia una emergenza ambiente non è mai esistita, almeno fino alla rivoluzione industriale quando si è rotto quell’equilibrio sempre presente tra territorio ed opera dell’uomo. Fino ad un determinato momento la necessità di tutelare il paesaggio non era avvertita in quanto non c’era nessuno che voleva o poteva metterlo in pericolo; il territorio era per lo più agricolo e l’azione dell’uomo, finalizzata a soddisfare i propri bisogni primari, non solo non metteva in pericolo l’ambiente, ma anzi lo caratterizzava e qualificava. Ecco dunque che il paesaggio antropizzato, proprio perché modificato dall’uomo, diventava un valore. La storia ci dice che questa serena convivenza uomo-ambiente si è interrotta con la rivoluzione industriale quando il rapporto città-campagna ha subìto una drastica modifica, ma i veri grandi problemi si cominciarono a sentire dopo la Prima guerra mondiale quando la tutela del paesaggio diventò una emergenza al pari della tutela dei beni culturali proprio perché esso stesso cominciò ad essere considerato un bene culturale. Con la Legge 1497 del 1939 lo Stato assegnava a se stesso, attraverso le Soprintendenze territoriali, la tutela del Paesaggio fino alla promulgazione della Costituzione quando la materia urbanistica ed ambientale (art. 117 e 118) venne delegata alle Regioni. Dopo un lungo periodo transitorio durato fino agli anni ’70, con la istituzione delle Regioni, lo Stato perdeva ogni competenza sul paesaggio, almeno fino all’avvento della Legge Galasso (L. 431/85) che sottopose le autorizzazioni concesse dalle Regioni ad un controllo del Ministero per i Beni Culturali. Contro tale legge, che restituiva allo Stato alcuni poteri che invece la Costituzione aveva demandato alle Regioni, fu sollevata da alcune Regioni un dubbio sulla legittimità costituzionale, dubbio dissipato da due famose sentenze della Corte Costituzionale che ribadivano la liceità della Legge Galasso sostenendo che la Costituzione non aveva trasferito dei poteri ma semplicemente delegato la materia. Ovviamente la Legge 1497/39 e la 431/85 prevedevano la pianificazione paesaggistica quale efficace strumento di tutela del territorio, anche se velleitariamente la stessa Legge Galasso imponeva l’adozione dei piani entro il dicembre
1986, piani che da anni sono allo studio ma di fatto non hanno ancora prodotto un’efficace pianificazione e tutela ambientale. La normativa attualmente in vigore Entrambi i dispositivi del 1939 (L. 1089 e L. 1497) sono stati operativi fino a poco tempo fa quando il Decreto Legislativo n. 490 del 1999, che riunisce le norme in materia di beni culturali e ambientali, li ha raccolti in un Testo Unico che si divide in due Titoli; il Titolo primo riguardante i Beni Culturali, il Titolo secondo i Beni Paesaggistici e Ambientali. Non è qui il caso di formulare sottili interpretazioni giuridiche né offrire particolari conoscenze che possono essere acquisite leggendo il testo normativo ma credo sia utile ricordare alcuni punti che l’esperienza vissuta quotidianamente in Soprintendenza ci dicono essere di maggior interesse, raccomandando di rispettare il dispositivo con particolarmente attenzione proprio perché, considerata la rilevanza costituzionale dei beni tutelati, la loro violazione contempla sanzioni amministrative e penali. Il Testo Unico innanzitutto identifica le cose oggetto di tutela, definite appunto come “ beni culturali” , suddivisi in diverse categorie (art. 2), che vengono sottoposti alle disposizioni di legge una volta avvenuta la notifica al proprietario. Fanno eccezione i beni culturali di proprietà di enti pubblici o di persone giuridiche private senza fine di lucro che il legislatore ha assoggettato alla disciplina di tutela ope legis, ciò senza che sia necessaria la procedura della notifica (art. 5). È evidente che tali beni non possono essere modificati senza l’autorizzazione dell’organismo di tutela competente per quel territorio, rappresentato appunto dalle Soprintendenze (art. 21), ad eccezione del caso di assoluta urgenza quando possono essere eseguiti lavori provvisori necessari per salvaguardare il bene, dandone però immediata comunicazione alla Soprintendenza (art. 27). Bisogna poi rammentare l’esistenza dei vincoli cosiddetti “ indiretti” ; infatti al fine di salvaguardare la prospettiva le visuali o comunque il decoro di un bene culturale possono essere dettate particolari prescrizioni di salvaguardia su zone od ambienti limitrofi (art. 49). La compravendita dei beni culturali deve essere denunciata al Ministero, attraverso le Soprintendenze territoriali, che può esercitare il diritto di prelazione entro 60 giorni dalla avvenuta comunicazione (art. 59, 60). Altro caso che può verificarsi durante lo svolgimento della attività professionale è il ritrovamento fortuito di materiale archeologico nel qual caso deve essere fatta, entro 24 ore, denuncia al Soprintendente competente o al sindaco, e poiché tali beni appartengono allo Stato sia il proprietario del terreno sia lo scopritore non possono evidente-
mente appropriarsene (art. 87, 88). Per quanto riguarda invece il Titolo secondo del Decreto, che disciplina la materia ambientale, gli ambiti vincolati si distinguono in due categorie: quelli sottoposti alle disposizioni di legge in virtù di una valutazione qualitativa effettuata dall’Amministrazione, in passato dallo Stato ora dalle Regioni, e dunque conseguenti ad un atto amministrativo adeguatamente notificato, e quelli invece automaticamente vincolati in quanto appartenenti a categorie individuate dalla legge, e cioè le coste, le rive dei laghi e fiumi, le montagne al di sopra di una certa quota, i parchi, le foreste i boschi, le zone umide etc. (art. 146). Le opere eseguite in questi ambiti vincolati debbono essere preventivamente autorizzate dalla Regione (art. 151); in Lombardia la Regione ha delegato con la propria Legge
n. 18 del 1997, la materia ai Comuni che dunque sono competenti a rilasciare l’autorizzazione ambientale, che avviene contestualmente alla concessione edilizia dopo specifica valutazione degli esperti ambientali che partecipano alla Commissione edilizia. Si ricorda che lo stesso art. 151 prescrive un ulteriore controllo del Ministero Beni Culturali, attraverso le Soprintendenze locali, che hanno facoltà di annullare eventualmente, con atto motivato, l’autorizzazione concessa dalle amministrazioni comunali entro i successivi sessanta giorni, e dunque l’iter autorizzatorio deve considerarsi concluso e perfetto dopo la scadenza di questo termine. Alberto Artioli Soprintendente per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di Milano
La scuola di specializzazione in “Restauro dei monumenti” La “ Scuola di specializzazione in Restauro dei monumenti” è un corso biennale riservato a laureati in architettura ed ingegneria civile che ha lo scopo di dare una preparazione teorica e tecnica specifica per l’intervento sul costruito. L’affermazione ha un senso particolare perché supera i contenuti indicati dalla titolazione, che deriva da vincoli di natura burocratica che non avrebbero rilevanza se non fossero il riflesso di posizioni culturalmente superate. Quando, circa tre lustri or sono, il gruppo di docenti del settore del restauro operanti nella Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, ritenne di avere forze sufficienti per fondare una scuola di specializzazione che si affiancasse a quelle di Roma e Napoli, attive da molti anni, desiderava anche affermare, fin dalla intitolazione, la specificità della posizione elaborata in quella sede. Si voleva quindi un riferimento alla conservazione piuttosto che al restauro, all’architettura nella sua generalità piuttosto che ai monumenti. Se era difficile segnalare in una frase una scelta di fondo, qual è il
rifiuto dei parametri selettivi di natura ideologica, storico-critica, che si risolvono in una censura violenta di aspetti fondamentali della storia dell’uomo, con la distruzione della stratificazione giudicata a comunque titolo incongrua, non sembrava impossibile utilizzare termini come quello di “ conservazione” , largamente entrato nell’uso sia pure con significato variamente inteso, o, più ancora il riferimento all’architettura, anziché ai “ monumenti” , termine che già da tempo designava l’insegnamento nel corso di laurea. Il problema non si esaurisce qui, perché nei fatti la successione degli insegnamenti che viene così istituita nei vari gradi dell’insegnamento fa ritenere che il “ Restauro dei monumenti” sia una forma di approfondimento del tema del “ Restauro architettonico” , posizione che riteniamo del tutto inaccettabile. È bene chiarire che non si voleva allora, e tanto meno ora, che le dizioni disciplinari riflettessero la posizione di una scuola piuttosto che di un’altra, ma appunto che esse non fossero la proiezione di un modo di pensare accolto in sede ministeriale o di organismi di
fermazione della volontà conservativa, con l’unico limite di non contraddire ad esigenze di natura vitale essenziali. La creatività personale ha quindi un confine, che tuttavia può essere interpretato come una sfida positiva e stimolante: essa si esercita nell’ambito del mantenimento materiale dell’esistente. Lo schema didattico, pur nei limiti delle regolamentazioni ministeriali, si fonda dunque su di una forte presenza delle discipline che contribuiscono alla conoscenza dei manufatti (il rilievo, l’analisi delle caratteristiche costruttive, la natura dei materiali, i fenomeni di degrado e dissesto, l’analisi dell’uso come fattore di consumo ed insieme di manutenzione) e di quelle che forniscono gli strumenti tecnici di intervento (chimica e fisica applicate ai materiali, il consolidamento, gli impianti a confronto con la fisica della fabbrica) tenendo conto degli obiettivi di riqualificazione (analisi prestazionali, valutazione dei rapporti con il tessuto urbano, problemi di conservazione degli insiemi edilizi più complessi, aspetti economici nella valutazione dei progetti edilizi ed urbani) fra i quali hanno rilievo non secondario la capacità di apprezzare la complessità dei dati, anche e soprattutto quando modesti, eterogenei, contraddittori, apparentemente irrazionali, in genere tali solo per chi si crea uno schema semplificato della realtà, su di esso misura ciò che lo circonda, con esso seleziona ciò che lo circonda. Amedeo Bellini Scuola di specializzazione in Restauro dei monumenti Dipartimento di Conservazione e Storia dell’Architettura Politecnico di Milano via Bonardi 3 20133 Milano tel. 02 23995223 - 23995323 e-mail: amedeo.bellini@polimi.it
Laboratorio di diagnostica per la conservazione e riuso del costruito Si è costituito nel 1998, presso il Dipartimento di Progettazione dell’Architettura del Politecnico di Milano, il “ Laboratorio di Diagnostica per la Conservazione e il Riuso del Costruito” (Lab.Dia.), con sede in Milano, via Durando 38/a. L’attività didattica, di ricerca e di servizi che il Laboratorio è in grado di offrire, è finalizzata alla permanenza del costruito. Metodi e tecniche utilizzati garantiscono una prassi di intervento sull’edificato che non avvalli perdita o sottrazione di risorse (demolizioni, alterazioni, stravolgimenti della sua materialità e della sua funzione), ma che, al contrario, sia tale da comprendere, rispettare ed esaltarne ogni valenza. Suo interesse non sono solo i singoli edifici di carattere storico-monumentale soggetti a vincolo di tutela, ma il
tessuto edilizio cosiddetto “ minore” , che costituisce comunque testimonianza peribile quanto essenziale della stratificazione culturale e urbana, nonché il paesaggio culturale. Il Laboratorio, da un lato collabora alle attività didattiche e di ricerca del dipartimento, dall’altro fornisce servizi per conto terzi. L’attività rivolta alla didattica si svolge presso il Laboratorio Sperimentale Didattica per la Conservazione (LAB. DIDA. CO.) ambiente organizzato e attrezzato per permettere l’attivazione di insegnamenti istituzionali di rinforzo alla formazione attraverso l’esecuzione diretta da parte degli studenti di attività sperimentale assistita. L’attività per conto terzi prevede convenzioni e collaborazioni sia con privati sia con gli Enti Pubblici
(Soprintendenze, Regioni, Province, Comuni, Comunità Montane, Consorzi ecc.) alle condizioni imposte dal Regolamento universitario. Il Laboratorio, nello specifico, si occupa della redazione delle indicazioni per il progetto di conservazione che si esplica attraverso più fasi: studio delle fonti indirette e dirette, della consistenza metrica e materica con l’individuazione delle patologie di degrado e dissesto. Tali indagini, restituite graficamente, individuano le procedure per il progetto di conservazione. Sono utilizzate a tal fine le stru-
dirette: rilievo tecniche murarie e analisi stratigrafiche. Fonti indirette: analisi storico – archivistica, 2002; • Diagnostica per la conservazione e il riuso del Monastero di S. Michele a Lonate Pozzolo, anno 200002; • Indicazioni per intervento di conservazione /consolidamento del Forte di Motteggiana (MN), anno 2001; • Linee guida per la manutenzione dei siti archeologici e ambientali dell’Isola Comacina, 2000-01; • Indicazioni per la realizzazione
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consulenza del ministro, con tutta probabilità (ed è un peggiorativo) in modo non consapevole. Dunque non fu possibile fare una scuola in Conservazione dei beni, o delle risorse, architettoniche, se non a prezzo di una lunga ed incerta pratica di costituzione di una nuova “ tipologia” destinata ad essere forse unica (e quindi più che altro un tipo) avendo a fronte come interlocutore un organismo propenso a ritenere poco meno di una fisima la distinzione proposta. Un atteggiamento che intende porre sullo stesso piano di rigorosa “ conservazione” tutte le preesistenze architettoniche, manifestando con questo un’opposizione alla prassi del restauro, non esclude le trasformazioni, come dovrebbe essere noto. Il riconoscimento dell’alterità del passato, della sua irriproducibilità, il rifiuto del ripristino, conducono ad una inevitabile accettazione della trasformazione e quindi dell’aggiunta, sulle cui qualità di modernità non vi possono essere dubbi. “ Conservazione” quindi, termine che nasce da una lunga storia di polemiche con il concetto di “ restauro” soprattutto nell’accezione proposta delle posizioni dell’attualismo critico ed estetico del secondo dopoguerra, si esplicita quindi nell’affermazione di una prassi che regolamenti le trasformazioni, privilegiando la permanenza, avendo come guida per l’inevitabile momento di selettività le esigenze di vita, piuttosto che le ideologie. Un intervento sul costruito che si vale molto più di criteri antropologici che non estetici. Una posizione che non separa il restauro dal progetto del nuovo, che ne fa un caso particolare della progettazione d’architettura per la rilevanza del dato, che è limite ma soprattutto occasione di dare senso all’esperienza storica, personale e collettiva. Ciò che costituisce l’originalità e l’irrinunciabilità della nostra proposta è costituito dall’af-
mentazioni per la diagnostica non distruttiva di proprietà del dipartimento, disponibili presso il Laboratorio che vengono usate per specificare e quantificare le informazioni ottenute mediante il rilievo qualitativo, allo scopo di raggiungere restituzioni sempre più finalizzate e scientificamente controllate. Il Laboratorio ha promosso corsi di perfezionamento post-laurea sulle tecniche d’indagine per la tutela e la conservazione del paesaggio culturale; sulle tecniche avanzate applicate ai metodi conoscitivi e alle procedure di lavoro per il progetto di conservazione dei beni culturali diffusi - Sistemi informativi geografici, fotogrammetria, cartografia numerica, modelli catalografici e sulle metodologie per il rilievo e la diagnostica e la conservazione del patrimonio architettonico. ll laboratorio ha svolto prestazioni di ricerca (Cofinanziamento Miur, Regione Lombardia, IreR, Regione Veneto, etc.) e commesse in conto terzi tra cui le principali sono: • Consulenza per l’esecuzione di prove penetrometriche resistografiche presso il Teatro Sociale di Bergamo, 2003; • Consulenza per il rilievo geometrico, indagine storica, stratigrafia dell’elevato per il Palazzo di Brera a Milano, 2003; • Analisi diagnostiche e progetto di conservazione del Palazzo Baronale del Castello di Avio, 2002 – 2003; • Indicazioni per il progetto pilota finalizzato alla conservazione delle sponde del Naviglio Grande, Fonti
degli interventi di restauro dell’ Orto Botanico di Brera, 1999-2001. In seno al Laboratorio di diagnostica per la conservazione e il riuso del costruito è stato costituito l’Osservatorio per la conservazione delle opere lignee. L’osservatorio ha come scopo preliminare la costituzione di un presidio/archivio/centro informazioni su quanto pubblicato nel settore specifico e principalmente relativamente alle tecniche costruttive, alla diagnosi, alla conservazione e consolidamento del legno. Un settore specifico dell’archivio riguarda l’acquisizione progressiva di materiale iconografico e bibliografico e la riproduzione (ove possibile) cartacea e su supporto informatico (Cd Rom) dei capitoli riguardanti il legno contenuti nella trattatistica e nella manualistica storica. A pieno regime e, compatibilmente con la disponibilità di spazi, attrezzature e risorse economiche, l’Osservatorio ha in previsione: la creazione di una xiloteca (specie autoctone) ed una xilofagoteca; la creazione di un archivio materiale e la realizzazione di modelli di strutture lignee per la didattica. Susanna Bortolotto Laboratorio di diagnostica per la conservazione e riuso del costruito Dipartimento di Progettazione dell’Architettura Politecnico di Milano via Durando 38/a 20158 Milano tel. 02 23995825 e-mail: susanna.bortolotto@polimi.it
Il caso di Brescia: una mostra, un progetto, un libro
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La pubblicazione di un libro relativo al progetto di “ restituzione e riabilitazione” del teatro romano e l’apertura al pubblico delle Domus dell’Ortaglia rendono Brescia un documento manifesto dei due diversi atteggiamenti che è possibile riscontrare ogni qualvolta ci si occupi dell’antico. Il primo caso, il progetto relativo al teatro romano, documenta l’atteggiamento dell’architetto che crede nella necessità della restituzione di un preciso ruolo civile del monumento, nel caso particolare crede alla necessità di conferire nuovamente al teatro, fino ad oggi inaccessibile, il suo antico ruolo di “ luogo di incontro” . Il secondo caso al contrario, è da intendere come rappresentativo del punto di vista di coloro che credono nella necessità di una “ museificazione” dell’antico. In quest’ottica si è scelto di proporre un’analisi delle due diverse iniziative. Da pochi giorni è, infatti, disponibile nelle librerie un volume che Giorgio Grassi dedica al suo progetto per la ristrutturazione e riabilitazione del teatro romano di Brescia. Il libro intende documentare l’iter di un lavoro che comincia in modo promettente con un regolare incarico professionale affidato a Grassi dal Comune di Brescia e che dopo sei anni di un percorso accidentato e contraddistinto da continue e frequenti interruzioni, si conclude ora in “ modo tangibile” con la sola pubblicazione, grazie all’intervento del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica. Nell’introduzione al suo lavoro Giorgio Grassi scrive di essersi reso conto di aver “ avviato un lavoro praticamente inutile e senza sbocco, a meno di un miracolo, o di una rivoluzione che costringesse i funzionari responsabili a vedere finalmente con intelligenza e realismo la questione del ruolo dei monumenti antichi nella città contemporanea (…) Il progetto voleva essere una risposta esemplificativa e possibilmente anche esemplare proprio alla questione del rapporto fra monumenti e vita quotidiana nelle nostre città, una questione che sembra però improponibile oggi, anche se l’incuria e il degrado del patrimonio monumentale sono sotto gli occhi di tutti. Forse è questa la speranza che ha sostenuto fino alla fine questo lavoro (…) che la sua proposta avrebbe potuto smuovere le acque di una prassi burocratica ormai consolidata” . Ciò che a Grassi interessa sottolineare ogni qualvolta si trovi a lavorare su monumenti antichi è il loro carattere civile e di conseguenza il ruolo che essi rivestono all’interno della città contem-
G. Grassi, Teatro Romano di Brescia, progetto di restituzione e riabilitazione, modello. poranea. Scrive infatti nel 1971 che il fatto più importante è “ il carattere civile del monumento, e anche il motivo per cui la città intende ripristinare e tornare ad usare un edificio fatiscente” . Da questa considerazione ne discende che per Grassi il restauro è da intendere come un vero e proprio problema di architettura; in tutti gli altri casi, si tratterà esclusivamente di risolvere problemi di tipo tecnico quali il consolidamento, il risanamento, ecc. Grassi aveva già affrontato il tema del teatro romano e della sua riabilitazione lavorando a Sagunto. Il teatro di Sagunto, prima del suo intervento, si presentava come una “ rovina artificiale” con uno straordinario ruolo urbano riferito alla sua collocazione e con eccezionali misure identificabili in un “ incredibile fuori-scala” in rapporto con la morfologia della città. Questi erano anche i dati su cui fondare il progetto, “ E anche l’opportunità unica di quel progetto, il suo perché, cioè da un lato la possibilità di dare un’idea compiuta e vera di ciò che è un teatro romano, del suo spazio chiuso vertiginosamente alto e dello spettacolo impressionante della sua scaenae frons e dall’altro la possibilità di restituire, con il volume di nuovo integro del teatro, le relazioni spaziali originali in questo luogo, le giuste gerarchie fra quelle parti della città che del resto non avevano mai modificato la loro relazione reciproca” . La situazione di Brescia è diversa. L’architettura del teatro romano, rinvenuta durante la demolizione di Palazzo Maggi-Gambara, non ha mai subito integrazioni di rilievo. Del teatro originario rimangono solo una parte dei muri della cavea, degli ambulacri, dei criptoportici e delle scale. Della scena e dell’orchestra sono invece definite le principali quote di imposta, la pavimentazione e le murature di sostegno originali. Diversamente da Sagunto il progetto del teatro di Brescia sceglie di “ privilegiare la sua appartenenza al centro storico, cioè di considerarlo
G. Grassi, Teatro Romano di Brescia, progetto di restituzione e riabilitazione, sezione longitudinale verso la scaenae.
come una parte omogenea di questo piuttosto che come quella vistosa emergenza che certamente era in origine (…) più che riproporre il suo fuori-scala abbiamo voluto ricostruire un pezzo di città che tenesse conto esplicitamente, quasi didascalicamente, della sua storia come architettura” . Il confronto fra questi due progetti analoghi ci permette di capire come ogni caso in architettura è da considerare come a sé. Esso “ trova solo in sé e nelle sue condizioni la sua risposta, la sola risposta possibile a quelle condizioni, quella risposta che diventa appunto unica e irripetibile” . Ciò non toglie che l’esperienza di Sagunto sia stata utile nel caso di Brescia. Progettare infatti significa esercitare una attività conoscitiva, significa cioè indagare ogni volta di nuovo un tema per giungere a una risposta sempre diversa, per realizzare progetti diversi anche di fronte a temi sempre uguali. “ Èquesto il particolare
destino di ogni progetto, di ogni buon progetto, quello di seguire una strada che è ogni volta nuova e di essere per questo ogni volta solo di fronte al suo problema, anche se questo è sempre lo stesso” . E questo è anche l’insegnamento che chi si occupa di architettura e della costruzione della città può trarre, ancora una volta, da questo ultimo lavoro di Giorgio Grassi. Martina Landsberger Giorgio Grassi con N. Dego, E. Grassi, S. Malcovati, E. Parisi Presicce, A. Pellnitz Teatro romano di Brescia. Progetto di ristrutturazione e riabilitazione Electa, Milano, 2003 pp.134, € 40,00 I disegni originali e i modelli del progetto sono esposti allo IUAV di Venezia sino al 13 giugno.
Le domus dell’Ortaglia e l’Afrodite ritrovata Le domusdell’Ortaglia: un museo nel museo È sicuramente un fatto eccezionale che uno dei più suggestivi complessi di architettura domestica romana dell’Italia settentrionale sia venuto alla luce nell’Ortaglia di Santa Giulia, cioè a diretto contatto con il monastero femminile benedettino di epoca longobarda che dal 1998 ospita il Museo della città, così da poter includere nel percorso espositivo i resti archeologici scavati conservandoli nel luogo stesso del loro ritrovamento, di passare dalle sale del museo romano, dove sono raccolti i reperti rinvenuti nel corso di due secoli di scavi, direttamente alle domus, che rappresentano un frammento della città romana cui appartenevano. Una opportunità straordinaria anche dal punto di vista della ricerca architettonica: un progetto di ampliamento del museo impostato direttamente sui resti degli edifici antichi. Gli architetti (G. Tortelli e R. Frassoni) hanno affrontato il tema con semplicità e rigore senza monumentalizzare gli elementi tecnico-pratici della conservazione, e neanche, all’opposto, abbandonarsi ad eccessi di progettualità nella definizione formale (pietra grigia di Sarnico e metallo come in tutto il complesso del Museo, passerelle aeree per vedere i resti dall’alto e qualche semplice vetrina per l’allestimento). Lascia perplessi tuttavia la scelta di chiusura, di introversione dell’intervento architettonico: cioè la scelta di costruire sui resti archeologici un edificio che li estranea completamente dal contesto, privandoli così delle condizioni di illuminazione naturale e di contatto con il verde che sono propri delle domusromane (fatta eccezione per un’unica apertura in direzione del presunto viridarium della “ domusdelle Fontane” ), nonché del rapporto diretto con il centro monumentale della città romana le cui architetture sono idealmente parte dello stesso museo. Senza nulla togliere naturalmente al valore intrinseco delle due domus, “ di Dioniso” e “ delle Fontane” , databili all’epoca augustea e rimaste in uso
durante tutta l’età imperiale, il cui impianto planimetrico e distributivo insieme alla ricchezza delle soluzioni architettoniche e alla qualità degli apparati decorativi rappresenta una testimonianza di inestimabile valore e suggestione. Vittoria o Afrodite? Questo è il problema Un’altra sorpresa è nella sala della Vittoria Alata, il celebre bronzo scoperto nel 1826, e divenuto, per la sua bellezza e grandiosità, simbolo della romanità di Brescia: al suo posto la vittoria non c’è. Solo le ali giacciono appoggiate sul basso piedestallo, mostrando i grandi perni metallici con cui sono ancorate alle spalle della dea. Attraverso un’analisi storico-iconografica (documentata all’interno del padiglione appositamente predisposto nel cortile di Santa Giulia e visitabile sino al 29 giugno) che ripercorre l’immaginario figurativo di Afrodite in possesso delle armi di Ares nelle sue molteplici varianti, la nuova interpretazione ipotizza che la statua bresciana non fosse all’origine una Victoria che ha terminato di incidere un’iscrizione celebrativa su uno scudo, bensì un’Afrodite che si specchia nello stesso. A confermalo un emozionante confronto ravvicinato tra la bronzea Vittoria senz’ali di Brescia e l’Afrodite marmorea del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Silvia Malcovati Santa Giulia Museo della Città via Musei 81 - Brescia tel. 800762811
Rilievo
a cura di Roberta Fasola
Restauro della chiesa di San Vincenzo a Cucciago Sulla collina del centro storico di Cucciago, per secoli si è mantenuto il campanile romanico che corrispondeva all’antica chiesa di Santo Stefano e San Vincenzo. Il campanile sovrastava un nucleo di case, vicine al Santuario settecentesco della Madonna della Neve. Tema del restauro proposto dalla Parrocchia e dal Comune era il consolidamento del campanile e la riproposizione, nei limiti del possibile, dell’antica chiesa, ormai completamente inglobata nelle case settecentesche che ne avevano occupato ed innalzato il volume. Il tema è stato presentato alla Soprintendenza per i Beni Architettonici di Milano e l’architetto Alberto Artioli, che allora si occupava delle aree comasche, ha seguito attentamente le interpretazioni storico-filologiche cui la documentazione archivistica e le tracce scoperte nel monumento davano luogo. Una mappa cinquecentesca conservata presso l’Archivio dell’Arcidiocesi di Milano, il rilievo della chiesa effettuato in concomitanza al progetto del Santuario nel 1857, un disegno di un viaggiatore francese del 1847 rappresentante la collina di Cucciago sono indicazioni per interpretare i reperti che le murature, gli attacchi delle trabeazioni di copertura, gli scavi nel pavimento andavano via via riproponendo. Il colloquio positivo con la Soprintendenza nasceva dalla chiara condivisione di principi fondativi, patrimonio culturale nelle discipline della conservazione e del restauro. È altrettanto importante basarsi sulla documentazione storica e sui reperti,
Il lato orientale della chiesa dopo il restauro.
quanto evitare “ falsi” o interpretazioni arbitrarie che possono dar luogo ad erronee percezioni da parte del pubblico fruitore del monumento restaurato. Avendo riproposto lo spazio interno dell’antica chiesa mediante la ricostruzione della copertura a capriata, all’interno della volumetria della casa residenziale a due piani, tale capriata è rigorosamente in legno lamellare, per evidenziare la contemporaneità della ricostruzione e non indurre alcun errore storico. Il tema più interessante è stato quello della ricostruzione dell’abside: dal disegno cinquecentesco eravamo sicuri dell’esistenza di un’absidiola in corrispondenza dell’antico presbiterio. Tale abside era stata nel ‘700 demolita per allineare la facciata dell’edificio residenziale. Sulla parete interna avevamo rilevato nel muro la traccia curva dell’abside, da cui emergeva qualche frammento di decorazione colorata. Riproporre la volumetria dell’abside, con la finestrella che immette nell’aula la luce da Est, era per noi particolarmente significativo per dare al vano interno la “ tensione” della spazialità romanica. L’abside sarebbe stata ricostruita con materiali moderni in modo da far esplicitamente comprendere quanto era originale e quanto ricostruito. L’architetto Artioli, con un atteggiamento di fiducia nelle proposte che nascevano dalla nostra assidua frequentazione del cantiere, ha acconsentito alla ricostruzione dell’abside. L’operazione è stata oltremodo gratificante: la demolizione del tratto di muratura che occludeva l’antica abside ha rivelato, sulla porzione destra dello spessore del muro, due figure di santi, affresco superstite della seconda metà dell’anno Mille, pressoché coevo agli affreschi della vicina basilica di San Vincenzo a Galliano. L’attenzione filologica al monumento e la passione di recuperare evocativamente la struttura dello spazio sono state premiate per la scoperta che, per la storia dell’arte, è certo una delle più importanti di questi ultimi anni. Darko Pandakovic
Restauro della chiesa di San Vincenzo a Cucciago. L’abside visto dall’esterno.
Le fasi storiche di evoluzione della chiesa.
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Cremona a cura di Massimo Masotti
Architetti e Soprintendenza. Intervista a Flavio Cassarino
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Tecnici, amministratori e proprietari sono spesso concordi nel ritenere “ problematico” il rapporto con la Soprintendenza. Ciò che normalmente genera disorientamento è la mancanza di riferimenti tecnici precisi, che delineino in modo chiaro le caratteristiche di recupero di un immobile, ai fini di una sua corretta conservazione ovvero di una possibile trasformazione. A Cremona esempi di questo difficile rapporto se ne possono trovare tanti. Il progetto che attualmente, per importanza e risonanza mediatica, riassume maggiormente questo “ scollamento” di pensiero, è la realizzazione di un parcheggio sotterraneo in Piazza Marconi. L’annosa vicenda ha diviso i cremonesi, tecnici e non, sul tema: Si può costruire un parcheggio sotterraneo laddove è documentata (sono stati fatti fior di scavi a più riprese) la presenza d’importanti ritrovamenti d’epoca romana? Sembrerebbe spontaneo rispondere: no! La realtà, però, spesso supera la fantasia. Il Comune di Cremona ha bandito, non più di un paio d’anni fa, una gara d’appalto per la costruzione di un autosilo nella menzionata piazza, già oggetto di scavi negli anni ’80 e già interdetta alla costruzione di parcheggi sotterranei dagli allora funzionari della Soprintendenza. Ritenendo Piazza Marconi l’unico spazio in cui realizzare un autosilo, l’amministrazione comunale ha proseguito nella sua proposta ed ha assegnato l’appalto ad una ditta di Roma. I sondaggi fatti sulla composizione stratigrafica del terreno, e i successivi scavi, hanno messo in luce quanto già stato scoperto circa 20 anni prima: vale a dire che sotto Piazza Marconi c’è la Cremona romana, e anche ben conservata! Il Soprintendente attuale ha bloccato tutto ed ora il progetto è fermo in qualche ufficio del ministro Urbani a Roma, nella speranza di qualche improbabile miracolo. Il parcheggio di Piazza Marconi dà la misura della “ distanza” che a volte si può creare tra chi agisce e chi controlla. È solo un problema di cultura o c’è dell’altro? Una cosa è certa: gli architetti in questo “ gioco” non hanno un ruolo facile. Anzi, rimanere coerenti alle proprie idee nello scomodo ruolo di mediatore tra richieste dei committenti e prescrizioni dettate dai funzionari della Soprintendenza non è impresa da poco.
R: L’aspetto che ha caratterizzato maggiormente le problematiche dei professionisti che hanno avuto a che fare con le Soprintendenze negli ultimi anni si ritiene possa essere riassunto nella specificità di approccio metodologico di ciascuno dei Soprintendenti che si sono avvicendati ai vertici degli Istituti. All’interno di alcune linee guida da loro tracciate all’atto dell’insediamento, la stessa specificità si riscontra anche a livello dei Funzionari di zona. Non essendo mai stato messo a punto un protocollo di riferimento per la presentazione dei progetti, contenente anche prescrizioni generali e indicazioni metodologiche, i professionisti si devono confrontare con la sensibilità e l’esperienza accademica e culturale dell’addetto che in quel momento ricopre il ruolo di Funzionario preposto alla tutela monumentale e del paesaggio, che può essere molto diversa nell’ambito dello stesso Istituto e perfino della stessa zona. Fra i problemi che ne conseguono va evidenziato che gli interventi che hanno lunga scadenza e che vengono effettuati per piccoli lotti nel corso di molti anni, possono subire le conseguenze di profondi cambi di indirizzo metodologico, a volte basati su sensibilità individuali profonde e valide, ma che possono non tenere conto delle vicende precedenti, come pure di aspetti di contesto e soprattutto di problematiche legate a normative diverse da quelle relative alla tutela del patrimonio architettonico e paesaggistico. D: È possibile per un professionista “ orientare” correttamente il proprio progetto di conservazione? R: A fronte del grande sviluppo che ha conosciuto la “scienza della Conservazione” negli ultimi decenni, sul versante della tutela operativa effettuata dalle Soprintendenze non sono disponibili linee guida che consentano ai professionisti di predisporre progettazioni nell’ambito di canali metodologici in qualche modo predefiniti e soprattutto differenziati a seconda del tipo e delle funzioni degli edifici tutelati oggetto dei progetti e dei successivi interventi, anche in relazione alla necessità di misurarsi con normative fortemente condizionanti, come quelle relative alla sicurezza, alla prevenzione degli incendi, ecc..
Abbiamo chiesto un contributo sul tema all’architetto Flavio Cassarino, già funzionario del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali presso la Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici delle province di Brescia, Cremona e Mantova nel periodo 1977-1994 ed ora libero professionista nel campo del restauro. Per citare alcuni suoi lavori: il progetto per la conservazione e il restauro della Cinta Muraria fortificata di Soncino, il restauro della Chiesa dei Santi Egidio e Omobono a Cremona, gli interventi sulle ex filande Jacini e Turina di Casalbuttano, il restauro del Palazzo Stanga Rossi sempre a Cremona. Ma la lista dei progetti e degli interventi di restauro è molto più lunga. La sua duplice veste di ex funzionario e di libero professionista pone sicuramente il contributo di Cassarino ad un livello di sicura autorevolezza. D: Arch. Cassarino, quali sono gli elementi caratteristici del difficile rapporto che spesso si crea tra il professionista e la Soprintendenza?
Chiesa dei santi Egidio e Omobono a Cremona.
D: Quale “ ricetta” darebbe per evitare che ciò accada? R: Quanto detto prima porta necessariamente alla conclusione che occorre riconsiderare il rapporto fra Architettura e Conservazione e questo dovrebbe essere un campo nel quale introdurre, da parte delle Soprintendenze (e forse anche ad un livello superiore), delle indicazioni in grado di mettere i professionisti su binari più sicuri rispetto a quegli estremi che vanno dagli interventi “in stile” o “in falso” a quelli concepiti “ per contrasto” o a quelli che tendono a trasformare profondamente i manufatti volendo far loro assumere “nuovi linguaggi” . M. M.
Il Torrazzo di Cremona. Intervista ad Amedeo Bellini Per la più alta torre campanaria d’Europa si sta per concludere un ciclo importante di studi, ricerche ed interventi di dichiarata impronta conservativa. Il progetto di conservazione e messa a norma del Torrazzo di Cremona a suo tempo predisposto risponde essenzialmente allo scopo di contrastare il degrado materico in atto sui paramenti esterni e limitare le possibili fonti di pericolo per l’incolumità delle persone, nonché della torre stessa, nell’ambito di un più vasto contesto di interventi finalizzati alla completa messa in sicurezza del monumento per rimuovere qualsiasi possibile causa di rischio per l’edificio e per le persone. L’intervento conservativo posto in essere si articola, in sintesi, nelle seguenti azioni: • verifica strutturale della torre e della ghirlanda nonché realizzazione di eventuali consolidamenti, sia della torre sia della ghirlandina; • verifica del rilievo geometrico della ghirlanda, documentazione fotografica sia del rivestimento litico del basamento, sia dell’apparato decorativo in generale della torre e della ghirlanda; • verifica della stabilità dell’apparato decorativo e suo consolidamento; • messa a norma della torre sia dal punto di vista impiantistico sia per quanto riguarda l’accesso del pubblico; • messa a punto di un programma di manutenzione dell’intero complesso. Onde meglio comprendere le caratteristiche e le modalità del restauro si è ritenuto utile intervistare il prof. Amedeo Bellini nella veste di titolare della cattedra di restauro al Politecnico di Milano, di responsabile delle ricerche preliminari di questa struttura e consulente in corso d’opera. La prima domanda posta al Professore è tesa a capire quale
ricerca sia stata condotta per il Torrazzo ed in che modo sia stata effettuata. “ Tra diversi obiettivi da perseguire, secondo l’incarico stipulato con grande lungimiranza dalla Curia di Cremona, il più rilevante è stato quello di identificare le condizioni nelle quali l’edificio si trovava. Il problema si è posto in rapporto alla struttura, al suo funzionamento, all’assetto ed all’entità dei carichi, ma anche per individuare eventuali condizioni di dissimmetria che potevano essersi verificate nel tempo, a causa non soltanto di eventuali alterazioni ma anche per effetto del fatto che si tratta di una costruzione notevolmente complessa, realizzata in più secoli, in cui non si poteva a priori supporre una totale corrispondenza verticale delle strutture che si sono via via aggiunte. Si trattava inoltre di verificare l’eventuale presenza di quelle pericolose fessurazioni che indicano uno stato di fatica delle murature sottoposte a compressione e che con il tempo possono portare a situazioni di pericolo. Un secondo obiettivo, assai delicato, è stato quello di rilevare la condizione dei materiali e la loro modalità di messa in opera, una ricerca alla quale hanno dato il loro contributo numerosi studiosi, mirando ad un obiettivo che ritengo particolarmente conforme ad una concezione conservativa del restauro che tende ad allontanarsi dalla prassi dell’intervento una tantum, per orientarsi verso una prassi operativa di applicazione di metodi di manutenzione programmata. L’accettazione di questa prassi si risolve in interventi il più possibile delicati, il meno invasivi possibile, con la finalità dichiarata di non distruggere o alterare in modo permanente il documento materiale e di consentire la lettura di tutte le fasi storiche leggibili all’atto dell’inizio dei lavori; fa parte di questa concezione un attento monitoraggio, l’aver sottoposo l’edificio a stati di sollecitazione indotti, e la richiesta fondamentale del ripristino e del permanere per qualche anno degli strumenti di rilevamento, perché è soltanto attraverso un esame nel tempo che si possono trarre conclusioni valide sulle effettive condizioni della struttura e sull’evoluzione del degrado. Fondamentale in questo senso l’elaborazione di un modello di funzionamento che ha ben corrisposto alle verifiche sperimentali” . La seconda domanda è relativa alla natura del progetto predisposto e dell’intervento così come è stato svolto. “ Sappiamo che la presentazione del progetto ha destato qualche perplessità: la scarsità di elaborati grafici sembrava farlo uscire dall’ambito architettonico; progetto è, in questa logica, l’individuazione di una serie di atti finalizzati ad uno scopo, ed un progetto di architettura non necessariamente prevede aggiunte o la definizione di aspetti creativi; in questo caso, essendo la prima fase dei lavori una manutenzione ed una messa in sicurezza del paramento esterno, dei particolari decorativi, l’eliminazione delle cause di infiltrazione d’acqua, si trattava di fissare una procedura dei lavori secondo la logica di progettare interventi minimali aventi come unico scopo il consolidamento dell’esistente. Un lavoro che presuppone grande conoscenza dei materiali, delle tecniche di produzione ed uso, diverse da epoca ad epoca. Proprio da questo punto di vista era necessario identificare le modalità di costruzione ed il funzionamento delle varie membrature che costituiscono il Torrazzo per potersi inserire con gli interventi attuali nella logica costruttiva del monumento. Le esperienze dei professionisti rispetto alle tecniche di costruzione tradizionale sono state preziose così come lo sono state le indicazioni dei vari esperti di materiali, ad esempio il responsabile della Curia per i ben culturali. Qualche intervento ha presentato difficoltà nella messa a punto della sua forma definitiva per la estrema varietà delle situazioni, diverse anche da prospetto a prospetto, in particolare per quanto ha riguardato la conservazione delle pa-
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D: Anche perché oltre alle normative “ vincolanti” esistono anche peculiarità estremamente differenti tra gli interventi di recupero... R: Infatti, va in questo senso sottolineato che, nell’ambito del patrimonio sottoposto a tutela, trovando luogo complessi profondamente diversi fra loro, che vanno dai grandi monumenti ecclesiastici, rappresentativi o celebrativi ad edifici di minore importanza, fin talvolta a ruderi certamente importanti, ma in condizioni di degrado tali da necessitare di interventi che mal si conciliano con pratiche conservative rigorose. Non è infrequente incontrare problemi laddove il recupero di certi beni entra in conflitto con la necessità di introdurre funzioni di difficile compatibilità. Subentra in questi casi il rischio che il processo progettuale conduca ad ottenere ibridi non sempre felici o porti alla conclusione di dover abbandonare l’iniziativa.
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tine e delle coloriture di cui le superfici conservano ampie campiture. Nel complesso però si è trattato di consuete difficoltà connesse alle operazioni di conservazione su superfici così estese e sottoposte a condizioni ambientali assai variabili (direzione di intensità dei venti, effetti dell’abrasione delle polveri e sabbie trasportate da venti come il foen, l’orientamento dei prospetti, ecc.). Fondamentale è stata la qualità dei materiali messi in opera tutti naturali, collaudati; e determinanti sono state le modalità tecniche delle operazioni eseguite sempre tenute attentamente sotto controllo da parte della équipe numerosa e specializzata dell’ufficio di direzione dei lavori, qualche errore nella definizione del colore delle stuccature sarà corretto. Credo che il tempo darà ragione a questo intervento. La gran parte delle opere eseguite sarà altamente duratura e quindi risponderà al suo scopo per molti anni” .
Lecco a cura di Carmen Carabús e Giorgio Melesi
“ Il sole non è la luna, ma entrambi stanno nel tutto e per questo stare, il sole non differisce dalla luna, ma le è identico” (Talete di Mileto). Qualsiasi rapporto anche se conflittuale contiene una verità. Ogni cosa che è possibile conoscere o immaginare lo manifesta, ma il solo saperlo a volte non è sufficiente, occorre farne esperienza. C. C. e G. M.
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Carlo Dusi Committente: Chiesa Cattedrale di Cremona Responsabile del procedimento: ing. Dante Augusto Coppi Progetto e Direzione lavori: arch. Luciano Roncai Collaboratore alla progettazione e direzione dei lavori: arch. Elisabetta Bondioni, arch. Stefania Terenzoni Responsabile per i Beni Culturali della Curia di Cremona: prof. don Achille Bonazzi Soprintendenza per i Beni Architettonici per il paesaggio di Brescia, Cremona e Mantova: arch. Luca Rinaldi, Soprintendente, arch. Marco Fasser, funzionario.
Vedute del Torrazzo durante i lavori.
A proposito di rapporti fra soprintendenze e tutela ambientale Ho scritto ad un Sindaco per rispondere alla sua ribellione di fronte ad un provvedimento di annullamento emesso dalla Soprintendenza. L’oggetto dell’annullamento era un parere ambientale espresso in subdelega. Ho tentato di evidenziare che il provvedimento, certamente forte ma motivato, doveva essere letto anche come un atto di contributo, per il mantenimento di quel patrimonio paesaggistico che (lo diciamo tutti) stiamo perdendo di giorno in giorno. Non vi è stata risposta. Dalla parte del “ Giusto” erano “ senza dubbio” l’Amministrazione Comunale, la Commissione Edilizia, gli Esperti Ambientali. Non il paesaggio. Quali fossero le ragioni di tutti questi Gestori del territorio non mi sono ancora chiare, ma quelle della Soprintendenza, sì. Non riesco a capire perché vi debbano essere obiettivi diversi, perché contrapporsi concettualmente anziché dialogare con l’organo di tutela? I punti di arrivo sono (quasi) sempre comuni. Nessuno è sempre depositario della verità, ma proprio per questo, è utile confrontarsi, rendere esplicite le motivazioni che hanno portato alle risposte contenute nel lavoro. Mi chiedo se l’architetto sia sempre fin dall’inizio sufficientemente chiaro, se racconti tutta la storia del suo progetto, oppure pretenda fin dall’inizio che altri lo sappiano leggere ma non interpretare tout court dal suo elaborato grafico. Se progettare è difficile, tutelare il patrimonio ambientale lo è ancora di più. In ogni consesso di addetti ai lavori sento costantemente dire: la nostra architettura quotidiana è povera di contenuti, il nostro paesaggio sta scomparendo. Contemporaneamente vedo con rattristante costanza, nelle occasioni di collaborazione con la Soprintendenza, che i progetti non si raccontano, non cercano la qualità, e, nel caso di vincoli monumentali vi è sempre chi va a chiedere: mi dica Lei cosa devo fare? Domenico Palezzato Italia Nostra Lecco
Le problematiche relative alla tutela con riferimento alla provincia di Lecco Le caratteristiche del territorio Il territorio lecchese è caratterizzato da un patrimonio storico-artistico largamente misconosciuto, ma di notevole complessità ed interesse. Basti pensare alle importantissime testimonianze di architet-
Le problematiche di tutela È noto come in Italia convivano diverse “ scuole” di pensiero relative al restauro architettonico: dalla conservazione integrale al restauro tipologico, alle estreme conseguenze del restauro critico, al recupero delle tecniche costruttive del passato volte alla riproduzione dei materiali e finiture antiche. Tale compresenza di indirizzi ed approcci diversi rappresenta comunque una ricchezza e testimonia del ruolo avanzato dell’Italia nel dibattito teorico e nella ricerca su tali temi, anche se tutto ciò può ingenerare un certo disorientamento soprattutto laddove occorra applicare concretamente i disposti previsti dalla normativa di tutela, la quale, peraltro opportunamente, rimane neutra rispetto alle scelte tecnico-discrezionali compiute dall’Amministrazione. Tuttavia alcuni punti fondamentali possono essere comunque evidenziati. Innanzitutto appare indispensabile che ogni intervento di tutela sia corroborato da una adeguata istruttoria che dia conto delle scelte effettuate. Il progetto di restauro dovrebbe innanzi tutto porsi come strumento di conoscenza dell’edificio sul quale si opera; in qualche caso, a fronte di progetti correttamente impostati, ve ne sono altri nei quali i rilievi sono generici ed approssimativi, è carente la valutazione delle caratteristiche materiche e tecnico-costruttive, non è sufficientemente approfondita l’analisi delle cause del degrado e talvolta non c’è correlazione fra questa e le metodologie di restauro proposte. Occorre sottolineare che l’aspetto istruttorio non si esaurisce solamente in una serie di adempimenti formali, con produzione di meri supporti cartacei, ma è condizione fondamentale perché il progettista prenda coscienza delle caratteristiche e delle problematiche relative all’oggetto sul quale interviene. Proprio perché ogni restauro rappresenta un problema singolo e particolare non è possibile adottare protocolli e soluzioni preconfezionate e generalizzabili, adottando un criterio analogico, in quanto una soluzione adeguata ad un caso potrebbe non esserlo in un altro. Vi è anche da aggiungere che tutto ciò non comporta affatto che il linguaggio contemporaneo, con la propria modalità espressiva non debba e non possa affermarsi a fianco dell’antico; tale principio deve necessariamente contemperarsi con l’imperativa necessità di evitare il più possibile la cancellazione o la sottrazione della materia, in
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Villa Subaglio a Merate.
quanto la trasmissione dei valori che si intendono tutelare (storici, artistici, civili, ecc.) è in ultima analisi riservata al supporto materiale ed alla sua sopravvivenza. In secondo luogo emerge il problema delle destinazioni d’uso. Vi sono casi limite (questi dovuti più alla responsabilità dei committenti che non dei progettisti) dove l’ipotesi di nuova utilizzazione è formulata senza averne preventivamente verificato la compatibilità con le strutture esistenti, e si tenta di avvalorare come operazioni di “ restauro” o, ancor peggio, di “ riqualificazione” delle più o meno mascherate ricostruzioni vagamente simboliche dell’edificio oggetto dell’intervento. Si deve aggiungere che tale problema deriva dalle pressioni ingenerate dalla rendita fondiaria che si stanno ormai riproducendo anche in luoghi periferici o semirurali, propiziate anche dalla generosità degli strumenti urbanistici e da una serie di provvedimenti settoriali (ad esempio i parcheggi pertinenziali, il recupero dei sottotetti) i quali, indiscriminatamente applicati sulla generalità del territorio e del patrimonio edilizio (senza peraltro differenziare fra qualità, tipologia, epoca, ecc.), ingenerano aspettative anche relativamente agli edifici teoricamente protetti, quali quelli sottoposti a tutela. Prospettive di tutela per il territorio lecchese Come più sopra accennato, il territorio lecchese appare ricco di testimonianze storiche e di valori paesistici sottoposti a notevoli rischi dovuti più che da fenomeni di abbandono, obsolescenza e mancanza di manutenzione, da spinte antropiche dovute al dinamismo economico della provincia (urbanizzazione, ristrutturazioni incongrue fra le quali devono essere citati i cosiddetti “ piani di recupero” che comportano la demolizione e ricostruzione, anche difforme, del comparto interessato, reti infrastrutturali, ecc.), o da una eccessiva propensione a restauri spesso non necessari e talvolta anche distruttivi, in quanto il sistematico rinnovo di componenti quali intonaci, superfici decorate, puliture eccessive, adeguamenti strutturali o funzionali pesanti comportano, come sopra ricordato, la perdita di valori testimoniali non più riproducibili. La Soprintendenza, pur nella notoria e paurosa inadeguatezza di mezzi e strutture, si sta impegnando su due fronti: per quanto riguarda il patrimonio tutelato cosiddetto “ monumentale” (Titolo I D.Lgs 490/99) si sta cercando, da un lato tramite l’attività vincolistica, di individuare quei complessi ed edifici, non ancora sottoposti a tale tutela, che evidenziano
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tura religiosa (S. Pietro al Monte e San Calocero a Civate, l’Abbazia di Piona, il Battistero di Oggiono, la Canonica di Barzanò, la Parrocchiale di Bellano, per citare solo gli episodi più importanti), alle ville della brianza lecchese (Casatenovo, Osnago, Lomagna, Robbiate, Montevecchia, Cernusco Merate), ad alcuni rilevanti esempi di ville del periodo eclettico e liberty (Lierna, Varenna, Bellano ma anche nella stessa Lecco), al notevole patrimonio di archeologia industriale (purtroppo a grave rischio di abbandono e di perdita). È quindi da sfatare lo stereotipo di un territorio povero di testimonianze storico-artistiche, al contrario, presenta notevoli elementi di interesse e trae inoltre la propria specificità anche dalla fusione dei valori storico-artistici con quelli paesistici. Si deve inoltre aggiungere che vi è anche un patrimonio cosiddetto “ minore” , ma che in realtà costituisce il tratto distintivo della storia, della cultura e dell’identità dei luoghi, patrimonio costituito da chiese minori, dalle canoniche ad esse pertinenti, piccoli edifici pubblici (come le vecchie sedi municipali, alcune scuole, ecc.), testimonianze di archeologia industriale, alcuni edifici rurali, ecc. Si tratta di un patrimonio che “ emerge” spesso laddove è di proprietà pubblica, come nel caso delle alienazioni; in tali situazioni lo strumento estremo della conferma dell’assoggettamento a tutela monumentale è assunto come misura di estrema difesa di testimonianze purtroppo destinate a sparire, fagocitate dalle dinamiche economiche e dalle spinte indotte dalla massimizzazione della rendita fondiaria.
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requisiti di interesse storico artistico in modo da tentare il loro salvataggio dalle modalità di trasformazione indotte dai processi economico-finanziari (vigendo una distorta concezione dell’economia che privilegia la produzione dei beni di consumo intesa però come disconoscimento di altri valori apparentemente senza mercato, ma in assenza dei quali sarebbe impensabile concepire il nostro vivere associato), dall’altro, tramite la valutazione dei progetti di restauro, ad una sorta di embrionale “ controllo di qualità” che non vuole apparire prevaricante nei confronti dei progettisti proprio perché esso tende a verificare l’assolvimento, da parte degli stessi, di quelle attività istruttorie dianzi evidenziate. Per quanto riguarda la tutela ambientale (Titolo II D.Lgs 490/1999), chiarito che la valutazione di merito spetta all’Ente locale (Regione, ma ora in virtù della subdelega, Comune) mentre al Ministero (Soprintendenza) è devoluto solamente il controllo di legittimità, si cerca comunque di discriminare fra l’enorme massa di autorizzazioni che pervengono (per la provincia di Lecco ne sono pervenute nell’anno 2002 ben 4.585) i casi più rilevanti azionando, nelle situazioni estreme, lo strumento dell’annullamento il quale, talvolta, induce il Comune, il committente ed il progettista a ripensare l’intervento, rendendolo maggiormente conforme agli indici di tutela che, nel caso della subdelega, sono espressamente previsti dalla Delibera Regionale n. 6/30194 del 25/7/1997. In conclusione, appare evidente che le problematiche di tutela devono essere assunte all’interno dei processi pianificatori di gestione del territorio, anche per dare concreta attuazione al principio costituzionale (art. 9: La Repubblica tutela il paesaggio). Altrimenti qualunque struttura preposta alla tutela, anche nell’utopistica ipotesi di una adeguata dotazione di mezzi e di personale, non sarà mai in grado di fronteggiare la pressione dei processi economici e finanziari sul territorio. Sotto tale profilo riveste comunque una fondamentale importanza il ruolo dei tecnici professionisti, in quanto la qualità del progetto è di per sé in grado di evitare molti e gravi danni al patrimonio storico-artistico e paesistico. Ecco quindi l’invito: sia la Soprintendenza che i progettisti non devono vicendevolmente considerarsi soggetti contrapposti, ma parti in causa nella tutela, che è interesse di tutti noi che nel territorio viviamo ed operiamo. Lorenzo de Stefani direttore presso la Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio di Milano
Villa Falcò a Imbersago.
Lodi a cura di Antonino Negrini
Istruzioni per l’uso Già da qualche anno si è instaurato un rapporto di proficua collaborazione tra la Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio e l’Ordine degli Architetti di Lodi. Su richiesta di quest’ultimo si sono organizzate conferenze e dibattiti ad uso degli iscritti per migliorare i rapporti tra i professionisti e l’ente pubblico, ma soprattutto per informare dei cambiamenti che sono avvenuti all’interno del Ministero per i Beni Culturali e delle modifiche apportate alle leggi di tutela. È in questo spirito che ho accettato di preparare questo breve promemoria che a molti potrà apparire ovvio, ma che spero possa servire ai giovani colleghi che si apprestano a progettare e dirigere lavori di restauro, recupero e/o trasformazioni in edifici sottoposti a tutela ai sensi della ex Legge 1089/39 (tutela dei beni monumentali) oggi ricongiunta alla ex Legge 1497/39 (tutela delle bellezze naturali) nel Testo Unico D.Lgs. 490/99. Se si deve operare su un edificio non di recente costruzione, è opportuno accertarsi se lo stesso abbia almeno 50 anni di vita, se sia una proprietà pubblica o privata, se l’edificio è in centro storico o rappresenta un elemento di rilievo isolato. Verificata l’età dell’edificio (almeno 50 anni, art. 2 D.Lgs. 490), bisogna informarsi se lo stesso è tutelato: poiché l’interesse storico, artistico e architettonico deve essere notificato alla proprietà con un decreto ministeriale (art. 6 D.Lgs. 490/99), il professionista può conoscere l’esistenza di tale decreto e prenderne visione presso l’ufficio tecnico del comune dove è ubicato l’edificio o presso l’ufficio vincoli della Soprintendenza territoriale di competenza. Anche in assenza di decreto ministeriale, si ritengono sottoposti a tutela (vincolati) tutti gli edifici di proprietà pubblica (demaniali, regionali, provinciali e comunali, art. 5 D.Lgs. 490/99) nonché tutte le proprietà ecclesiastiche (non solo le chiese, ma anche le canoniche, i cimiteri, le cappelline di campagna, gli asili e gli edifici rustici). Inoltre anche tutte le proprietà di enti morali, Onlus, fondazioni, ecc. purché abbiano cinquant’anni di costruzione e non sia stato emessa dalla Soprintendenza una dichiarazione di non possesso dei requisiti storico-artistico-architettonici. Per tutti gli edifici tutelati, sia con decreto di vincolo diretto (art. 2 D.Lgs. 490/99) che indiretto o della zona di rispetto (art. 49), va richiesto dalla proprietà (art. 23) o dal progettista per delega, formale autorizzazione all’esecuzione dei lavori, per qualsiasi variazione si intenda apportare all’edificio, sia che si configuri come manutenzione ordinaria, che straordinaria (la prassi della D.I.A. può essere applicata solo dopo aver ottenuto tale autorizzazione). L’autorizzazione ai lavori, comunemente detto “ nulla osta” , si ottiene presentando alla Soprintendenza competente una richiesta in bollo, corredata da una documentazione in triplice copia che al minimo deve contenere il progetto grafico (piante, prospetti e sezioni dello stato di fatto, progetto e confronto), documentazione fotografica, relazione storica e relazione tecnica, nonché quant’altro possa servire a chiarire, al funzionario esa-
Silvana Garufi
Mantova a cura di Sergio Cavalieri
Architetto: un linguaggio difficile. Soprintendenze ultimo baluardo a difesa delle memorie Essere architetto, si sa, non è garanzia di superiore qualità in materia di gestione delle forme e degli spazi antropici. Non è maternità di bellezza, di armonia, di equilibrio formale come molti, ancora, possono credere. È un lasciapassare, uno tra i pochi, per raccontare il proprio punto di vista in un processo di trasformazione e modificazione dei luoghi sempre meno appartenente ad una identità collettiva a vantaggio di un individualismo spesso esasperato e fuori luogo. Essere architetto è un’opportunità per raccontare, con il linguaggio delle forme e con parole proprie, la gente e il loro agire. Per alcuni è buon lavoro; per molti è una sorta di missione che travalica la semplice applicazione di energia finalizzata alla formazione di ricchezza; è un percorso senza fine che porta a conoscere sospirate “ certezze” ... che spesso si reggono ad innumerevoli “ dubbi” . Eccola una certezza: il dubbio. Sono anche i dubbi che fanno crescere l’architetto. È la convinzione che la “ soluzione giusta” non è quella appena trovata ma, forse, quella che starà nel foglio successivo; quella di domani. In questo mestiere, chi cammina nella “ certezza” finisce per perdersi nella quotidianità trascinando con se chi è più debole. Essere e fare l’architetto significa allora sapersi mettere in discussione e sapersi confrontare, saper ascoltare le ragioni degli altri, non solamente sentirle. È un mestiere difficile, spesso di contrasto. “ Un’opera - scriveva Louis Kahn raccontando il suo mestiere -, viene realizzata tra i rumori soverchianti dell’industria e quando la polvere si posa, la piramide, echeggiante il silenzio, porge al sole la sua ombra” . Rumori soverchianti che nel nostro conciliabolo significano conflitti: quelli che precedono e spesso accompagnano ogni opera. Conflitti di competenze, culturali, discrezionali che divengono le facce della piramide; scontri nei quali l’architetto deve difendersi ed orientarsi per condurre la propria opera , come scrive Kahn, al “ cospetto del sole” . Nell’arena del dibattito, che affina o falcia il vertice della piramide, trovano posto numerosi soggetti. Vi sono i valutatori che siedono nelle Comissioni Edilizie e che spesso, purtroppo, sostituiscono il loro importante ruolo di garanti del processo abilitativo con quello di difensori del proprio “ gusto” . Si dice siano uomini e donne di ogni mestiere che si offrono con dichiarata e spavalda competenza al capezzale di questo malato muto. Siano perdonati molti di loro, soprattutto quelli nominati per soli meriti politici o di simpatia, perché non essendo addentro alla materia non sanno quello che fanno. A nulla valgono le giustificazioni postume e le lamentele dell’architetto, che vede trafiggere il proprio lavoro e con esso ore e ore di studio ed impegno; allo stesso, sempre si dice, è spesso negata anche una coerente motivazione. Per le zone assoggettate a tutela paesistica ambientale la libertà d’infierire sull’opera in progetto è poi una costante locale. Si dice che esperti in materia di tutela paesistico-ambientale, non in possesso di “ comprovata esperienza” ma coerentemente abilitati dall’“ ovvero” di cui
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minatore della pratica, l’idea progettuale. Si rammenta ai colleghi del collegio di Lodi che possono trovare facsimile della domanda e l’elenco della documentazione necessaria all’istruttoria della pratica, presso la sede dell’ordine. Il progetto e la direzione dei lavori va affidata ad architetto iscritto all’albo (art. 52 R.D. 2537/25) e le verifiche statiche, nonché i lavori di consolidamento, vanno redatti in collaborazione con un ingegnere iscritto all’albo, così come confermato da recenti sentenze (bollettino della Cassa Nazionale Architetti n. 165 del marzo 2002 pag. 35). I lavori eseguiti senza l’autorizzazione della Soprintendenza (nulla osta) sono da considerarsi lavori abusivi e pertanto possono dalla stessa essere sospesi (art. 28), annullati con la richiesta della messa in pristino dello stato precedente ai lavori e comportano inoltre la segnalazione alla procura penale e al ministero per l’emissioni delle sanzioni penali ed amministrative (art. 118 D.Lgs. 490/99). Rispondono dell’abuso: il professionista, la proprietà e la ditta esecutrice. A conclusione di queste note vale la pena ricordare che restano vigenti i disposti del codice civile dall’articolo 810 in avanti e in particolare l’art. 879 per la deroga delle distanze di confine per gli edifici tutelati.
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all’art. 5 della L.R. Lombardia 18/97 facciano a volte sfoggio di spudorata discrezionalità; un’imprudenza che sempre più alimenta i ricorsi al tribunale amministrativo. Anche in questo caso la carenza di motivazione nei singoli pareri la fa da padrona e l’architetto è spesso costretto a subire il dito indice di un “ delegato” che in molti casi, purtroppo, non è neppure un lontano collega, ovvero è un collega che la felice sorte ha colmato d’immense “ certezze” . Purtroppo è così. La verifica paesistico-ambientale in Lombardia, si sa, è ormai in piena crisi dopo che la regione ha inteso sancire, in forza del principio di sussidiarietà, che il livello di governo comunale è quello più adeguato alla gestione delle valutazioni di trasformazione paesistico-ambientale; ed ancora, che per svolgere il compito dell’esperto in tale settore è necessario essere in possesso di “ comprovata esperienza” ovvero (che sta a significare: è la stessa cosa) aver partecipato ad un corso “ mordi e fuggi” di una ventina di ore promosso o autorizzato dalla Regione stessa. Al porto delle Soprintendenze, unico baluardo rimasto a difesa delle memorie e del paesaggio, dovrebbe essere per l’architetto un approdo sicuro. I valutatori di tali uffici non sono chiamati ad assumere il ruolo ad intuito personae, come invece avviene per i valutatori di cui L.R. 18/97; al Ministero dei Beni Culturali i funzionari sono assunti per formale concorso, per cui il dialogo su ogni progetto di trasformazione o di salvaguardia avviene con pertinente competenza. Ma questo approdo non è sempre così sicuro. Spesso si sviluppano frizioni sulle scelte di progetto che nulla hanno a che fare con la tutela delle memorie e con gli aspetti peculiari del paesaggio inteso nella sua globalità. L’eccesso di discrezionalità, che a volte esprime il funzionario ministeriale, fermo e saldo nelle sue “ certezze” senza spazio di confronto, con i colleghi che gli stanno di fronte, è il punto di flesso di questa vera istituzione di tutela. Quando poi si registra che su problemi similari le diverse Soprintendenza danno risposte sostanzialmente differenti si rischia di alimentare uno sconforto che allontana la fiducia ed alimenta la polemica. Va compreso che la carenza d’organico, del quale sono vittime questi uffici, li costringe a ridurre i tempi d’analisi dei progetti e di dialogo con i professionisti. Ma ciò non è una buona ragione per non mettersi in discussione e rendersi disponibili all’ascolto e poi al confronto. Giovanni Zandonella Maiucco
Milano a cura di Antonio Borghi e Roberto Gamba
Gli architetti e la Soprintendenza È in corso dall’inizio dell’anno una bella iniziativa dell’associazione Zefiro con il patrocinio dell’Assessorato al Turismo e agli eventi del Comune di Milano per la valorizzazione degli antichi organi presenti in vari spazi sacri della provincia. Il programma (disponibile su www.ensemblezefiro.it) è iniziato a febbraio, si compirà in novembre e prevede non solo concerti, ma anche altre forme di evento come nel caso dello spettacolo tenutosi nella basilica di Sant’Ambrogio, rievocazioni storiche in forma letteraria accompagnate da improvvisazioni musicali. In questo caso alla rappresentazione è seguita una visita alla basilica durante la quale la guida ha illustrato le principali opere d’arte, le varie fasi di edificazione, i rifacimenti e i restauri succedutisi nel tempo. A prestarsi quella sera al ruolo di guida era Carlo Capponi, conservatore del Museo della Basilica ed esperto nel settore dei beni ecclesiastici, che tra le altre cose ha coadiuvato Luigi Caccia Dominioni nel rifacimento della pavimentazione dell’altare di Sant’Ambrogio. A lui abbiamo chiesto un parere sul rapporto tra architetti e la Soprintendenza ai beni architettonici. A. B. La “ Soprintendenza” : questo Ufficio per gli architetti è al tempo stesso un luogo fisico e una persona come se i molti architetti, ingegneri, storici dell’arte, impiegati tecnici e amministrativi fossero totalmente annullati - fin nella loro fisicità di persone - in questo Istituto comunque e sempre più temuto che impiegato quale aiuto allo svolgersi del rapporto con i monumenti del passato, talvolta anche molto recente. Il pensiero che la Soprintendenza sia solo un luogo di becera e ottusa conservazione di rovine cadenti o malfunzionanti caseggiati - memoria di chissà quali importanti intonaci sporchi - è ancora oggi presente, dimenticando che questo Istituto ministeriale ha posto il vincolo sull’architettura di Terragni ben prima che questa avesse la possibilità di essere documentata sui manuali dell’architettura o, ancor più recentemente, ha espresso il proprio parere favorevole alla protezione della “ chiesa di vetro” di Baranzate di Bollate degli architetti Mangiarotti e Morassuti, eretta solo nel 1957, perciò ben prima dei fatidici cinquant’anni di legge. Per studio, prima ancora che per professione, ho sempre frequentato la Soprintendenza ai Beni Architettonici di piazza del Duomo. Ufficio voluto da Luca Beltrami alla fine del secolo XIX, conserva molte carte importanti per la comprensione dell’evolversi delle nostre città che, costellate come sono di memorie vive del passato, sono oggetto di dialogo serrato tra la categoria dei progettisti e quella dei restauratori. Parlando della Soprintendenza, spesso molti dimenticano che esistono, e hanno anche incidenze sulla professione, le altre istituzioni ministeriali quali quella ai Beni Artistici e Demoetnoatropologici (complicata dizione derivata dalla riforma delle Leggi del 1939, sfociata nel Decreto Legislativo 490 del 1999), quella all’Archeologia di Lombardia o quella ai
23 Angelo Mangiarotti (con B. Morassutti), Chiesa Mater Misericordiæ, Baranzate (Milano) 1957.
si è incrinata ed è diventata opaca, agli spigoli che l’usura ha levigato. Ma se chiudo gli occhi e cerco di omettere queste impronte fisiche così come le mie prime associazioni, distinguo un’impressione diversa, un sentimento più profondo: una sensazione di consapevolezza che il tempo scorre, un sentimento nei confronti della vita umana che si svolge in luoghi e all’interno di spazi conferendo loro una carica particolare. I valori estetici e pratici dell’architettura diventano allora secondari. E in questo momento il suo significato stilistico o storico non ha importanza (...). L’architettura è esposta alla vita. Se il suo corpo è sufficientemente sensibile, è in grado di sviluppare una qualità che sa rendersi garante della realtà della vita trascorsa” (P. Zumthor, Pensare Architettura, Lars Müller Publ., Baden, 1998, p. 25). Per concludere posso solo dire che il rapporto con la Soprintendenza è sempre positivo, anche quando arrivano dinieghi o le opinioni sulla conservazione di elementi architettonici sono differenti. Come ogni esame, una supervisione, quando è dettata da riflessioni che partono da realtà di più ampio respiro, è sempre utile ad un approfondimento del tema svolto. Spesso, dovendo fare da mediatore tra i differenti progettisti e gli Architetti della Soprintendenza, mi trovo a dover spiegare che le osservazioni fatte da questi ultimi non sono dettate da un pensiero meramente estetico differente ma da una valutazione che tiene conto di una casistica più ampia, di un’esperienza nello specifico che, spesso, può aiutare a far maturare un progetto che ha contenuti ancora inespressi. Carlo Capponi
L’opera di salvaguardia della Soprintendenza a M ilano durante i bombardamenti Ci si può chiedere con quali meriti si svolge e si sia svolta l’opera dei funzionari che istituzionalmente sovrintendono alla salvaguardia dei monumenti. Costoro possono apparire talvolta dediti solo al controllo e al divieto; raramente appaiono propositivi, mai sembrano risultare degni di elogio; talvolta invece vengono imputati di leggerezze o di manchevolezze, riguardo a qualche spregiudicata manomissione di architetture tutelate.
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Beni Archivistici, e non solo quella ai Beni Architettonici e al Paesaggio, compito quest’ultimo mediato per il tramite delle Amministrazioni Comunali ma non meno legato all’architettura del costruito. Certamente il comune sentire aiuta un rapporto, Goethe con le affinità elettive ha stabilito un programma. Occupandomi di una chiesa lombarda che, oltre alla sua stessa materia, è diventata - più nell’immaginario collettivo che nella realtà - simbolo dell’architettura medievale lombarda, ho contatti da non meno di venticinque anni con i differenti Funzionari che si sono succeduti nella tutela della città. Con tutti - superando caratteri differenti o distanze anagrafiche - si è stabilito un comune criterio di leggibilità e di valutazione per le differenti opere progettate, fossero queste restauri di decorazioni parietali, o di ornati, o di adeguamenti funzionali e liturgici, imposti da un’evoluzione del pensiero liturgico normato dal Concilio Vaticano II. Lo “ scontro” avviene ancora proprio nel caso delle modifiche che si impongono in spazi della celebrazione. Certamente le chiese oggi sono testimonianze di una stratificazione di gusto, di espressioni del pensiero, del tempo in senso più ampio possibile. Se negli edifici civili le necessità abitative sono ben considerate e le leggi della conservazione spesso cedono alle esigenze imposte da leggi e regolamenti di igiene o di tutela della persona, nei luoghi del culto queste sembra spesso che non valgano, come se questi edifici non fossero proprio delle “ cipolle” giunte a noi con la pelle più giovane rispetto all’iniziale nucleo. Recentemente a Milano vedute differenti hanno investito due edifici simbolo: la basilica di sant’Ambrogio e il Teatro alla Scala. Due luoghi legati anche dal fatto che entrambi, nello stesso 7 dicembre, vedono raccolta la città al loro interno. La demolizione dei corpi tecnici del teatro, la modifica del pavimento attorno all’altare della chiesa, hanno occupato differenti pagine di giornale. I due progetti hanno in comune il nocciolo progettuale: entrambi salvaguardano ciò che di immutabile hanno. L’altare aureo del secolo IX e la sala piermariniana. Emblemi accomunati tra l’altro dal fatto non trascurabile che furono pesantemente aggrediti dalle bombe anglo-americane nell’estate del 1943. Le forme architettoniche delle nostre chiese lombarde sono dettate dalla grande riforma tridentina, che vide in san Carlo Borromeo un tenace paladino. Il modello imposto ha trasformato e, spesso purtroppo, annullato pregevoli edifici della prima cristianità o del pieno periodo gotico; ora il voler congelare un’espressione artistica legata ad un preciso pensiero teologico ed ecclesiale, porta ad un non rispetto dell’evoluzione del pensiero sul differente modo di vedersi della comunità dei fedeli in rapporto proprio alla identificazione con un luogo configurato. Il rapporto con la Soprintendenza è perciò spesso un rapporto in cui le ragioni dell’esprimersi del pensiero ecclesiale si scontrano con l’esigenza di non stravolgere esempi di arte e architettura tra i più unitariamente articolati nella storia dell’arte cristiana. La tutela del nucleo storico delle nostre città, spesso ancora ostacolata da logiche urbanistiche che vedono permanere la “ necessità” di avere calibri di strade sul modello mentale statunitense, perdendo la testimonianza di antichi percorsi e vie lungo i quali i tempi dei passi hanno scandito il solco della cultura della nostra area, è da tutti propugnata a livello teorico. Peter Zumthor, le cui architetture sono un certo manifesto di quello che si può definire un compiuto rapporto con il genius loci, ha scritto: “ penso alla patina che il tempo deposita sui materiali, agli innumerevoli graffi che scalfiscono le superfici, alla lucentezza della vernice che
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Può forse rivalutare la figura che essi rappresentano, quanto qui viene proposto: un estratto di un apprezzabile testo, scritto dall’ex Sovrintendente ai Beni architettonici della provincia di Milano (ora direttore della stessa sezione, presso il Ministero dei beni culturali), per il libro Storia di Milano - volume XVIII - il novecento, edito dall’Istituto dell’Enciclopedia italiana G. Treccani (1995), a proposito di come, in un momento cruciale, durante la seconda guerra mondiale, si svolse il compito di quell’organismo, chiamato a difendere, con grave difficoltà strutturale, il patrimonio monumentale della nostra città. Roberto Cecchi descrive le attese, i provvedimenti di difesa e gli effetti provocati dai bombardamenti aerei sulla città. In seguito cita le vicende progettuali e le diatribe inerenti i metodi da adottare per le ricostruzioni. Testimonia l’impegno profuso per affrontare problemi, che certamente non hanno avuto pari valenze in altre parti del mondo, se non in quelle nazioni come la nostra, ugualmente sfortunate e ricche di valori artistici. Non esclude che tale fervore per il recupero dell’antico, abbia ritardato la ripresa spontanea della voglia di progettare. Ritiene ingiustificabile e terroristico, macabramente sperimentalistico l’enorme bombardamento che distrusse tanta edilizia milanese e larga parte del patrimonio monumentale. R. G. Dal Capitolo II – Distruzioni belliche e opera di ricostruzione: “ La città prima e dopo i bombardamenti. La protezione antiaerea dei monumenti. Il patrimonio edilizio della città di Milano subì danni ingentissimi in seguito ai bombardamenti aerei avvenuti tra il 1942 e il 1944 e non meno rilevante fu la perdita di manufatti d’interesse storico-artistico; tuttavia, oggi potremmo lamentare distruzioni ben più consistenti se non fossero state adottate opportune misure preventive di salvaguardia. Sicuramente, non esisterebbero più né ‘l’ultima cena’ di Leonardo, né il ciborio di S. Ambrogio e, forse, neppure la statua di Napoleone I del Canova, nel cortile di Brera, se non fosse stato portato avanti con scrupolo un diffuso programma di protezione su tutto il territorio lombardo. Questo dato positivo si deve soprattutto all’opera di Gino Chierici, allora sovrintendente ai Monumenti della Lombardia, che seppe interpretare con grande rigore il ruolo di custode del patrimonio storico-artistico. Personalità di grande spessore culturale, riuscì ad ottenere dal Ministero dell’Educazione Nazionale i fondi necessari per far fronte ad una vasta iniziativa di protezione antiaerea del territorio lombardo. Il sistema messo a punto prevedeva da una parte il trasporto del materiale mobile in località ritenute sicure e dall’altra la posa in opera di presidi fissi, quali puntellamenti e saccate di sabbia, allo scopo di ridurre gli effetti prodotti da eventuali bombardamenti. Già nel settembre del 1939 Chierici era in grado di predisporre un piano per la difesa fissa dei monumenti di Milano. Si fece dare 370.000 sacchi e 19.000 metri cubi di sabbia; poi, insistette per avere altri fondi per documentare con opportune campagne fotografiche le opere più importanti ‘perché è doveroso raccogliere tutti i dati che potessero eventualmente occorrere per restaurare opere d’arte colpite o mutilate’. Le richieste non furono completamente soddisfatte, Chie-
rici fu comunque in grado di avviare un articolato programma di prevenzione. Vennero organizzate squadre di pronto intervento per il Palazzo Reale, la Certosa di Pavia e il Cenacolo Vinciano. E anche col poco personale disponibile - l’organico era proprio modesto perché consisteva in un ‘altro giovane architetto, un assistente e due salariati’ - nel luglio del 1940 aveva già realizzato un primo gruppo di interventi di presidio a S. Maria delle Grazie, in S. Eustorgio, in S. Satiro e a S. Lorenzo, oltre a quelli messi in opera nelle altre città della Lombardia. Alla fine, solo a Milano, nel gennaio del 1943 ben 24 edifici monumentali risultavano protetti. Nonostante tutto, Chierici dirà sempre di non essere soddisfatto. Dopo le incursioni del 1943 si lamenterà perché non gli era stato concesso di proteggere la facciata del Duomo come avrebbe voluto. I bombardamenti del 1944 lo misero in forte apprensione. Il bilancio dei danni prodotti dalla guerra, stilato alla fine del 1945, è estremamente pesante. Il tessuto urbano fu letteralmente stravolto dalla crudele durezza ed inutilità dei bombardamenti, forse più di molte altre città italiane. I dati del disastro sono sicuramente molto più eloquenti di qualunque improbabile descrizione; ben 230.000 locali di abitazione su 970.000 esistenti prima della guerra risulteranno danneggiati: tra le strutture ricettive, come locande, alberghi e pensioni, che in origine erano 314, ben 255 risulteranno compromesse. La struttura produttiva fu messa letteralmente in ginocchio perché le fabbriche colpite furono centinaia; i mezzi di trasporto letteralmente decimati e circa 50 edifici scolastici risultarono distrutti. Anche alle strutture sanitarie furono inferti colpi durissimi, quanto gratuiti; si pensi che l’Ospedale di Niguarda, il Policlinico e il Fatebenefratelli vennero raggiunti dalle bombe più di una volta. Istituti prestigiosi come quello per la cura del cancro e il padiglione della maternità furono polverizzati. Un altro tema particolarmente ‘caro’ a quel momento di follia devastatrice furono i teatri: il Teatro alla Scala, crollò su se stesso e, in pratica, rimasero in piedi solo le murature perimetrali. Ma per gli altri andò peggio: quello dei Filodrammatici, il Manzoni e il Dal Verme bruciarono completamente” .
Piazza Cadorna (da: Camilla Cederna, Martina Lombardi e Marilea Somaré, Milano in guerra, Feltrinelli, Milano, 1979).
a cura di Vittorio Prina
L’esperienza di un funzionario della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio nel pavese L’argomento che vorrei trattare in questo spazio che mi offre “ AL” non riguarda tanto l’aspetto normativo generale della tutela ma, più nel merito, l’aspetto operativo. Per concretizzare questa breve riflessione prenderò ad esempio, nella vasta area lombarda, ciò che mi è più vicino per esperienza diretta ovvero il pavese e più in particolare la città di Pavia. Negli ultimi anni si stanno attuando rapporti sempre più costruttivi tra i diversi Enti in varia misura interessati alla tutela e tra questi e i privati proprietari di immobili vincolati ai sensi del D.Lgs 490/99 e gli architetti incaricati della progettazione e direzione delle opere di restauro. Posso dire con un certo margine di certezza dovuto al fatto che negli ultimi due anni mi sono occupata, con l’architetto Carla Di Francesco (1), anche della Programmazione Regionale lombarda, che Pavia città e la sua provincia concentrano una grande quantità di iniziative, sia pubbliche che private, nell’ambito della conservazione. In primo luogo il Ministero per i Beni e le Attività Culturali (2) ha infatti stanziato ingenti finanziamenti per la realizzazione del restauro e consolidamento statico del Duomo e i lavori per l’esecuzione della prima tranche d’intervento sono da poco iniziati. Sempre su finanziamento del Ministero B.A.C. e della Fondazione Cariplo sono iniziate anche le opere di restauro che permetteranno la riapertura delle due ali nord ed est del Castello Visconteo di Voghera, rimasto per tanti anni inutilizzato dopo essere stato dismesso dall’Amministrazione Carceraria e dagli Uffici collegati alla Giustizia ed alle Finanze che, per il loro funzionamento, avevano influito negativamente sulle conservazione delle sue importanti caratteristiche artistiche ed architettoniche. Ancora a San Lanfranco il Ministero B.A.C. interviene direttamente nel restauro dei cotti e degli intonaci del chiostro piccolo, ovvero di tutto ciò che resta dell’intervento dell’Alessi nell’ambito architettonico-decorativo del complesso ed ha in programma altri interventi di conservazione per il triennio 2003-05. Su queste tre specifiche realtà sono in corso anche Accordi di Programma che coinvolgono il Ministero B.A.C., la Regione Lombardia e, per il Duomo, la Fabbriceria, il Comune di Pavia, la Provincia e l’Università di Pavia, per il Castello visconteo anche il Comune di Voghera e Il Ministero delle Finanze – Agenzia del Territorio. Da parte del Ministero B.A.C. vi sono ancora altre importanti iniziative di finanziamento in zona che riguardano il restauro monumentale della Certosa e l’allestimento, al suo interno, di un museo, il consolidamento statico del campanile della Chiesa di San Rocco a Lomello e le indagini preliminari propedeutiche al restauro alla Chiesa di Sant’Eusebio a Gambolò. Sarebbe di grande interesse analizzare qui l’importanza dell’Accordo di Programma quale strumento di coordinamento delle diverse iniziative per unire le energie e le capacità sia tecniche che finanziarie nel raggiungimento
degli obbiettivi di conservazione e riutilizzo del patrimonio storico-artistico-architettonico ma ritengo che non sia questo il luogo e che l’approfondimento possa essere materia di un’ulteriore riflessione. Pavia, pur non essendo una grande città, raccoglie in sé delle grandi realtà come una storica Università che possiede, oltre alle sue prerogative di eccellenza nella sfera della cultura, anche edifici storici tra i più importanti nell’ambito cittadino: l’ex Ospedale San Matteo, sede dell’Università degli Studi, il palazzo del Majno, oggi sede dell’Ufficio Tecnico dell’Università, il palazzo Vistarino e l’ex Monastero di San Tommaso sono solo alcuni tra i più importanti. Legati all’Università, ma autonomi per gestione, gli storici Collegi come il Borromeo e il Ghislieri, che possiede anche il Castello di Lardirago, per dirne solo due dei più rappresentativi; ancora il patrimonio immobiliare storico di proprietà del Comune come il Castello Visconteo, l’ex Monastero di santa Clara (ex Caserma Calchi), il Broletto. E non basterebbe l’intero numero di “ AL” per menzionare tutte le chiese di Pavia e della sua provincia: basti pensare a San Michele, a San Teodoro, a San Francesco d’Assisi e allo stesso Duomo, il più grande monumento a pianta centrale immaginato dal Bramante, dopo San Pietro a Roma, concluso dopo più di quattro secoli con l’ardita cupola del Maciachini. Come Funzionario della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di Milano ho avuto la fortuna, accompagnata spesso da grandi preoccupazioni di occuparmi, oltre che della tutela, ovvero dell’analisi dei progetti e delle realizzazioni di altri professionisti “ privati” sui beni tutelati, anche di progettare e dirigere i lavori finanziati dal Ministero B.A.C., nell’ambito di quanto previsto dalla Legge 109/94 (3). Questo mi ha permesso di comprendere gli sforzi progettuali necessari per conservare intatte le caratteristiche architettoniche e materiche degli edifici storici e garantirne, al tempo stesso, l’uso nel rispetto delle normative attuali. Alcuni esempi: il complesso architettonico del San Tommaso da riutilizzare ed attrezzare come sede universitaria per la didattica o l’ex Monastero di Santa Clara da adibire a Biblioteca e centro polifunzionale comunale. In entrambi i casi ho trovato progettisti “ privati“ e “ pubblici” molto sensibili al tema della conservazione, tuttavia, molto spesso, si è dovuti giungere a mediazioni necessarie a condurre in porto le operazioni di recupero sia dell’aspetto artistico ed architettonico che di quello funzionale. Ma la base di partenza, in entrambi i casi, era quella necessaria a non operare scelte avventate o non giustificate: c’era a sostegno del progetto un’analisi capillare del monumento, della sua storia, della sua materia, della sua struttura, c’era quello che molto semplicemente noi tecnici chiamiamo “ il rilievo” ma che per i tecnici esperti di restauro non è solo il rilievo metrico ma è molto di più. Soltanto con queste basi un progettista può sapere cosa deve assolutamente conservare e quali parti dell’edificio sono eventualmente modificabili. Uno degli aspetti più funesti della mia esperienza di Funzionario, istituzionalmente incaricato del controllo degli interventi di conservazione, è stato senza dubbio analizzare progetti parcellizzati, privi di una visione complessiva dell’insieme. Molto spesso questo vizio di forma è dovuto ad una limitata disponibilità economica da parte della proprietà e ha per conseguenza spesso l’utilizzo improprio delle parti più nobili di edifici che, se viste nel contesto architettonico generale, potrebbero essere meglio valorizzate. Molto spesso il progettista è stato in grado di sensibilizzare la proprietà sulla necessità di avere una progettazione globale, almeno di massima, da cui partire per ragionare su progetti esecutivi, da realizzare
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per lotti, in base alle possibilità economiche del committente. Altre volte questo non è avvenuto soprattutto per la mancanza di convinzione, da parte degli stessi progettisti, riguardo alla necessità effettiva di questo progetto globale. Certamente negli ultimi anni la cultura del restauro si è evoluta, grazie alle scuole di specializzazione, alla conoscenza del grande patrimonio storico-artistico che il nostro Paese possiede, ottenuta con le grandi operazioni di catalogazione dei beni culturali promosse dall’I.C.C.D. (4) del Ministero B.A.C. e alla convinzione che il recupero di questo patrimonio può essere fonte di ricchezza culturale ed economica. Purtroppo però ancora oggi capita di avere contatti con progettisti convinti che il progetto di restauro sia, dopo tutto, solo un progetto edile. Ad esempio, se la capacità di carico di una volta quattrocentesca non corrisponde ai requisiti indicati dalle normative vigenti, per la funzione cui è destinato l’edificio, alcuni progettisti non ritengono che la funzione stessa sia inadatta ai fini di una corretta conservazione, ma pensano che sia semplicemente necessario modificare il sistema strutturale originario, conservando sì la volta in questione, ma intervenendo pesantemente con l’inserimento di nuove strutture portanti completamente avulse dall’organismo architettonico e strutturale dell’edificio. Risulta evidente che il discorso della scelta della destinazione d’uso degli edifici storici è alla base di una loro corretta conservazione quanto lo è lo studio delle loro peculiarità storiche metriche e materiche, di cui parlavo in precedenza. Ma la scelta della funzione molto spesso ha motivazioni più “ politiche” che culturali e con questo termine virgolettato voglio solo indicare le scelte dettate dalla necessità, per fare un esempio banale, di un piccolo comune di mettere a reddito un immobile di proprietà. Allora bisognerebbe riflettere su una questione sulla quale anche tra noi colleghi di Soprintendenza spesso discutiamo: meglio un uso improprio che nessun uso? Lavorando per anni con un mio collega, l’architetto Giuseppe Stolfi, allo studio per la stesura del progetto per il restauro ed il recupero funzionale del Castello visconteo di Voghera, analizzando le vicende storiche che hanno caratterizzato la sua esistenza e le variazioni nel tempo delle sue destinazioni d’uso, dall’epoca di costruzione (1362) ad oggi, siamo arrivati alla conclusione che il castello è giunto fino a noi proprio perché, anche in maniera impropria, ha trovato nel tempo una possibilità di utilizzo; se così non fosse stato forse oggi al suo posto ci sarebbe uno splendido parcheggio, per la gioia dei Vogheresi che ne sentono tanto la necessità. Bisogna però considerare che fino alla fine dell’Ottocento le tecniche costruttive ed i materiali si sono conservate in armonia con la tradizione, pertanto qualunque intervento, salvo quello di demolizione, poteva essere realizzato nel rispetto delle caratteristiche architettoniche e strutturali dell’edificio. Oggi non è più così. Gli interventi di adeguamento statico ed impiantistico rischiano di snaturare completamente le caratteristiche originali degli immobili storici soprattutto se non pensati da progettisti consapevoli delle necessità della conservazione. Un altro argomento, con il quale concludo questo breve excursus, si ricollega al rischio di stravolgere completamente, oltre che le caratteristiche architettoniche degli edifici, anche le peculiarità ambientali dei centri storici e, in particolare, di Pavia, riguarda la trasformazione di sottotetti ad uso abitativo. La legge della Regione Lombardia n. 15 del 15 luglio 1996 con le sue successive integrazioni dà ampie possibilità d’intervento estremamente appetibili, dal punto di vista economico, ma purtroppo in aperta contraddizione con la conservazione.
Basti pensare alla visione che si ha dei tetti del centro storico della città dall’alto delle torri pavesi o dal camminamento che percorre la base della cupola del Duomo che, prevedibilmente, entrerà a far parte dei futuri percorsi museali della Cattedrale. Già oggi l’uniformità dei manti di copertura è fortemente modificata da inserimenti impropri di terrazzi, finestre raso falda e batterie di abbaini che, con la scusa di essere strutture tipiche dei tetti lombardi, li sfigurano avvicinando il loro aspetto alternativamente alle baite tirolesi e alle mansarde parigine. Con queste premesse un funzionario di Soprintendenza non può che affannarsi nella difficile difesa dei princìpi di conservazione che, per altro, riguardano solo un’esigua parte di edifici, cioè quelli sottoposti a tutela ai sensi del Titolo I, artt. 2 e 49 del D.Lgs. 490/99. Sostenere il giusto principio della non modificabilità della forma oltre che della struttura e dei materiali costruttivi dei tetti degli edifici vincolati in un contesto cittadino in cui, per legge, i proprietari degli immobili contigui possono operare liberamente in netto contrasto con ogni elementare logica di conservazione, anche se irrinunciabile, è veramente arduo e può apparire come un’ingiusta parzialità di giudizio che penalizza gli uni e favorisce gli altri. È in questo contesto di tutela ambientale che diventa veramente necessaria e urgente la pianificazione comunale. In questa circostanza in cui le competenze sono state delegate dallo Stato alle Regioni e da queste sub delegate ai comuni, il comune di Pavia deve assumere un ruolo determinate perché non si smarriscano completamente le caratteristiche architettoniche e ambientali della città. Mi fermo qui anche se a questo punto un altro argomento si affaccia all’orizzonte: la contraddittorietà delle normative inerenti il territorio e la necessità di trovare una uniformità di intenti tra la necessità di conservazione e lo sviluppo urbanistico. Alla fine mi pare di aver messo fin troppa carne al fuoco ma forse varrà la pena discuterne. Giuseppina Vago Note 1. Soprintendente Regionale per i Beni e le Attività Culturali della Lombardia. 2. Di seguito Ministero B.A.C. 3. Sull’argomento Merloni sono già stati spesi fiumi d’inchiostro ma sarebbe forse necessario approfondire ancora l’argomento relativo all’incompatibilità di una normativa generale sui Lavori Pubblici applicata alle opere di restauro. 4. Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione.
a cura di Enrico Bertè e Claudio Castiglioni
Le Soprintendenze e gli architetti: alcune considerazioni È opinione piuttosto diffusa tra gli architetti progettisti che le varie Soprintendenze ai beni ambientali ed architettonici rappresentino un ostacolo per il loro lavoro professionale. Alcuni colleghi lamentano la lentezza burocratica mentre altri sostengono che da parte di alcuni Soprintendenti o di architetti delegati di zona, vi sia talvolta una volontà di negare il “ nulla osta” e talvolta la voglia d’imporre una scelta progettuale, in contrasto con la soluzione studiata dal progettista. Alcuni dei casi sopra evidenziati potranno essere accaduti e potranno ancora succedere. Tuttavia è bene, con serenità, fare alcune considerazioni. Qualche volta la preparazione culturale dei progettisti presenta qualche carenza. Infatti, è da tempi recenti che sono stati fatti corsi per essere inseriti negli elenchi degli esperti in tutela ambientale e da tempi recenti anche gli Ordini hanno assunto la denominazione di “ Ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori” . Non sempre i Politecnici, nel passato, hanno potuto istruire adeguatamente gli studenti delle facoltà di architettura rendendoli sufficientemente preparati ad un impatto progettuale così delicato, e talvolta così difficile, relativo ad una nuova costruzione oppure ad una ristrutturazione nelle zone con vincolo ambientale o con vincoli imposti ai sensi del Titolo 1 del D.Lgs. 490/99 (ex L. 1089/39) oppure del Titolo II del D.Lgs. 490/99 (ex L. 1497/39) ed in quei casi in cui l’intervento edilizio da effettuare sia adiacente ad un edificio di particolare interesse monumentale o storico. A nostro avviso il rapporto che “ l’Architetto incaricato della progettazione” e “ l’Architetto della Soprintendenza incaricato del controllo” , dovrebbe essere della massima collaborazione. In proposito ci sembra esemplificativo ricordare il caso limite di un nostro anziano iscritto che, incaricato di progettare la ricostruzione di un vetusto fabbricato semi-fatiscente, in stile neoclassico in via della Spiga a Milano, nonostante l’acquisto di un voluminoso libro sullo stile neoclassico, non sentendosi in grado di redigere con la dovuta precisione i numerosi particolari costruttivi da trasmettere prima al marmista e quindi al cantiere, si decise di chiedere aiuto alla Soprintendenza ai monumenti della Lombardia (chiamata così all’epoca), e precisamente all’arch. Degani che, all’epoca ricopriva l’incarico di supplente del Soprintendente. Ebbene, nonostante la fila dei colleghi in attesa nel corridoio, durante circa due ore l’arch. Degani consegnò al progettista tutti i più importanti particolari costruttivi in stile neoclassico occorrenti, da lui disegnati a mano libera, su foglietti di carta bianca, poi resi esecutivi dal progettista. Questo è il vero senso della collaborazione! Un caso limite, certamente, tuttavia a noi sembra che sia possibile, attraverso un dialogo onesto e chiaro, che si possa, stabilire tra l’architetto progettista e l’architetto della Soprintendenza un feeling cioè un’intesa, che porti a quella soluzione progettuale idonea per la realizzazione più ottimale dell’opera architettonica nel contesto urbano vin-
colato. Ma occorrono due elementi fondamentali, a nostro avviso per tale raggiungimento che, purtroppo non sempre ci sono, dapprima la volontà da parte del progettista di presentarsi in Soprintendenza con un minimo di preparazione culturale e senza alcuna preventiva presunzione e, contemporaneamente, la volontà da parte del tecnico della Soprintendenza di rispettare la personalità del progettista, dedicandogli tutto il tempo necessario e con lo spirito del collega che voglia aiutare il progettista, non al mutamento aprioristico della progettazione ma al miglioramento della progettazione stessa. Come dovrebbe avvenire tra due culture non in opposizione ma in continua serena collaborazione e ciò nell’interesse, ovviamente, della collettività alla quale è anche dato di giudicare e di vivere nello scorrere del tempo ogni intervento edilizio realizzato. E rientrano anche in ciò le responsabilità dell’architetto progettista e dell’architetto della Soprintendenza. Ma di tale argomento, che investe le responsabilità anche morali, se ne potrà scrivere successivamente in un articolo a parte, stante l’importanza e l’attualità dell’argomento. E. B.
Enrico Berté, edificio in via Della Spiga, Milano.
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A cura della Redazione
Casa Museo Boschi–Di Stefano
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Il 5 febbraio scorso si è aperta al pubblico Casa Boschi–Di Stefano, un nuovo museo per la città di Milano. Marieda Di Stefano, figlia di un imprenditore edile appassionato d’arte e Antonio Boschi, ingegnere della Pirelli, appassionato di musica, più che d’arte, si sposano nel 1927. Andando ad abitare nella casa di famiglia di via Jan, progettata da Piero Portaluppi, vengono contagiati dalla passione per la pittura propria al padre di Marieda. Da questo momento comincia la loro avventura di “ collezionisti” . In 42 anni di matrimonio Marieda e Antonio Boschi raccolgono più di 2000 opere di pittori rappresentanti di quei Movimenti intorno ai quali, in Italia, si sta svolgendo il dibattito artistico. La loro è una vera e propria passione, come quella di altri imprenditori lombardi “ che godono di una certa ricchezza costruita sul lavoro” e che “ si assumono la responsabilità di un collezionismo d’arte cauto ma anche generoso” , così scrive Raffaele De Grada sul Corriere della Sera del 3 febbraio. La collezione infatti, nasce per un proprio piacere personale, per il desiderio di “ adornare la casa e non tanto per acquisire l’opera preziosa da depositare in banca come un patrimonio” . L’appartamento di via Jan diventa dunque una sorta di scrigno in cui, come ricorda Alessandro Mendini, nipote di Marieda Boschi: “ c’era un’atmosfera calda, ovat-
tata, con i muri completamente ricoperti di quadri, tende alle finestre, tappeti sovrapposti a strati (...) Per noi ragazzi era una Wunderkammer, una camera delle meraviglie, dove non c’erano intonaci o pavimenti, ma solo materiali di comunicazione visiva” . I quadri erano dappertutto: dal pavimento fino al soffitto, uno sopra all’altro, addirittura le ante delle porte ne erano ricoperte, e poi per terra, sotto i letti, in ogni angolo. Nel ‘73, cinque anni dopo la morte della moglie, Antonio Boschi decide di donare la collezione di 1840 opere - a cui se ne aggiungeranno altre 300 acquistate prima della sua morte avvenuta nel 1987e la casa di via Jan al Comune di Milano. Gli accordi prevedevano che il “ donatore conservasse le opere nel proprio appartamento vita natural durante e che in seguito questo venisse aperto al pubblico come casa-museo” . Un’ulteriore clausola consentiva al futuro Civico Museo d’Arte Contemporanea di attingere alla raccolta selezionando le opere più significative per esporle nella propria sede. Nel ‘99 viene riconosciuta la Fondazione che progetta il restauro dell’appartamento e il suo allestimento a Casa Museo. La Fondazione, come previsto dalla convenzione intercorsa con il Comune di Milano, inoltre si occuperà della gestione culturale della Casa Museo e dell’organizzazione di attività di studio e di ricerca.
È evidente che la Casa Museo di oggi non può essere esattamente come quella di allora. L’appartamento infatti, ha dovuto subire qualche piccola modifica distributiva (apertura di qualche porta, per esempio). Molto differente è invece l’arredamento di cui restano pochi elementi originari e che è stato integrato con mobili acquistati con l’obiettivo di rappresentare un particolare periodo storico, gli anni Trenta. Per motivi di sicurezza i tappeti originari non
sono stati riutilizzati e il numero dei quadri è stato drasticamente ridotto, da più di 2000 opere a meno di 300. Sono comunque presenti tutte le opere più prestigiose della raccolta. I quadri sono stati distribuiti in dieci sale secondo un criterio di successione cronologica, non essendo più possibile rispettare l’autentica distribuzione fondata su accostamenti liberi e propri della personalità del collezionista. L’ingresso della Casa Museo rac-
Casa Museo Boschi-Di Stefano, interno della sala dedicata a Mario Sironi (fotografia di Mario Tedeschi, 2002).
Casa Museo Boschi-Di Stefano, vista dell’edificio progettato da Piero Portaluppi (fotografia di Mario Tedeschi, 2002).
vecchio soggiorno) si trovano le opere dei quattro italiani della “ Scuola di Parigi” : De Chirico, Campigli, Savinio e Parese; nella settima le 23 opere di Lucio Fontana, il padre dello Spazialismo movimento nato nel ’47 a Milano, che si proponeva di rinnovare il linguaggio artistico aggiornandolo con le nuove conquiste della scienza e della tecnica. La stanza successiva è dedicata ai movimenti nati nel ’47 e alle opere dei loro rappresentanti: Dova, Spazzapan, Brindisi, ecc. e la nona è rappresentata dall’Informale, raccogliendo opere di Vedova, Dova e Manzoni. Il Corridoio di uscita torna a rappresentare gli anni Trenta e in particolare l’opera di alcuni “ chiaristi” . Martina Landsberger Casa Museo Boschi-Di Stefano Milano, via Jan 15, 2° piano ingresso gratuito da mercoledì a domenica, orario 14.00-18,00 tel. 02 20240568
Il restauro del patrimonio storico-artistico Le Soprintendenze da poco denominate - con infelice scelta “ per il patrimonio storico artistico e demoetnoantropologico” , si occupano della tutela e dello studio di tutti i beni mobili dichiarati di “ interesse particolarmente importante” per il patrimonio storico artistico nazionale oppure appartenenti ad Enti pubblici o assimilati tali (come è il caso, ad esempio, delle parrocchie) che abbiano più di cinquanta anni. È dunque una folla di manufatti, che vanno dai dipinti alle sculture, dagli organi alle panche, alle oreficerie, alle stampe... il cui restauro può essere promosso direttamente dalle Soprintendenze, oppure controllato mediante l’esercizio della “ alta sorveglianza” . Nel primo caso ogni Soprintendenza decide annualmente su quali beni intervenire e chiede al Ministero l’importo corrispondente, definito sulla base di un progetto di restauro e di una perizia stesi dallo storico dell’arte proponente, eventualmente coadiuvato da un restauratore interno. Una volta ottenuto il finanziamento ministeriale, l’affidamento del lavoro avviene attraverso una gara, alla quale sono invitate ditte di provata esperienza specifica. Considerati gli importi non elevati della maggior parte degli interventi le ditte sono spesso soltanto cinque. Per restauri particolari, il cui valore comunque non ecceda il tetto stabilito nella legge Merloni, si può procedere all’assegnazione diretta, debitamente motivata dallo storico direttore dei lavori, ad un singolo specialista. L’alta sorveglianza, invece, si dà quando uno storico dell’arte, ai
sensi del Decreto Legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (ex art. 11, legge 1089/39), è chiamato a valutare e controllare un intervento promosso e finanziato da altri soggetti, siano essi i proprietari dei beni o degli sponsor. In questo caso è cura del proprietario scegliere un operatore di sua fiducia e sottoporre il progetto da questi predisposto, comprensivo di una scheda analitica sullo stato di conservazione e sulle cause di degrado, alla Soprintendenza. Questa dovrà esaminare il progetto di restauro, approvandone la metodologia e le diverse fasi costitutive o prescrivendo puntuali modifiche, ma dovrà altresì autorizzare l’operatore prescelto dal committente. Tale prassi è imposta dall’importanza nodale rivestita in questi interventi dalla professionalità e sensibilità del restauratore, che non sempre vanno di pari passo con la confezione di progetti formalmente corretti. Questi atti burocratici si incarnano poi in sopralluoghi diretti, di numero variabile, nel corso dei quali il funzionario segue il farsi del lavoro e dà corpo, in un continuo dialogo col restauratore, all’intervento propriamente detto. Ogni restauro serio, infine, si conclude con una relazione, che deve precisare non solo le singole operazioni ma anche i materiali impiegati, corredata da una documentazione fotografica e grafica utile per chiarire e visualizzare le diverse fasi del lavoro. Perché il restauro, pur facendo i conti con la storia, ha gli occhi volti verso gli anni che verranno. Responsabilmente. Emanuela Daffra
Xfaf - Decennale della fondazione della facoltà di architettura di Ferrara Era il 1991 quando 200 studenti e 12 docenti inaugurarono a Ferrara il 1° Corso di Laurea in Architettura dell’Emilia Romagna. Oggi la facoltà compie 10 anni e celebra, insieme ai suoi 750 allievi e 171 insegnanti, il Decennale con una ricca serie di eventi culturali che si svolgeranno, con cadenza mensile, per tutto il 2003. Xfaf è la sigla che designa il progetto culturale (voluto e studiato dal prof. G. Trippa, preside della facoltà, dal prof. A. Acocella, coordinatore generale Xfaf, dal prof. G. Lelli e dal prof. T. Zaffagnini), dove la X sintetizza, nella sua valenza di simbolo iconico che morfologicamente intreccia due aste oblique che si sostengono a vicenda, la strategia alla base del progetto stesso. La X come intersezione, incontro, relazione, allude ad una idea che, come spiega il prof. Acocella, vuole superare i confini settoriali del mondo universitario, “ chiuso nei suoi recinti autoreferenziali e protettivi” , per aprirsi a nuovi orizzonti di interscambio di risorse intellettuali, progettuali ed economiche con l’ambiente produttivo e civile del Paese. Ecco, dunque, che Xfaf, lungo l’itinerario del suo allestimento e realizzazione, ha incrociato e coinvolto le istituzioni (cittadine, provinciali e regionali) e il sistema produttivo privato, invitando a ripensare il ruolo dell’università nella società contemporanea, che, fra limitazioni burocratiche e inadeguatezza dei finanziamenti pubblici, deve impegnarsi in un innovativo sforzo di idealità e creatività.
Peter Zumthor, Terme a Vals.
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Il progetto ferrarese si propone, con la sua intensa attività di eventi, di stimolare un ampio dibattito culturale che vuole riportare il discorso sull’architettura entro il campo di legittimità disciplinare dei suoi principi fondativi. In questo senso la facoltà ha voluto dare particolare rilevanza, nell’ambito delle molteplici manifestazioni previste per il Decennale, al tema del rapporto fra progetto e costruzione, ritenendo che “ solo nella precisa e determinata fisicità realizzativa si possa valutare con chiarezza lo spessore di un progetto, la vera consistenza delle idee” . E la X allora, di nuovo, esplicita il significato di legame, quale vincolo indissolubile che salda insieme idealità e pratica, nonché di nodo critico fondamentale capace di abbracciare la complessità di una disciplina come l’architettura.
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coglie i ritratti dei due collezionisti; l’anticamera raccoglie invece le opere pre-novecentesche (Severini, Soffici, Funi, Boccioni, Prampolini, ecc.). La terza sala è dedicata al Novecento, movimento costituitosi proprio a Milano nel ‘23 intorno alla galleria Pesaro di Margherita Sarfatti. Il gruppo (Bucci, Dudreville, Funi, Marussig, Malerba, Oppi e Sironi) propugnava il recupero della tradizione figurativa di Giotto e del Rinascimento ponendosi come alternativa alle avanguardie. Nella quarta sala sono raccolte 30 opere di Mario Sironi insieme ai mobili di una sala da pranzo progettata per la Triennale del ’36 da Sironi stesso. La quinta sala presenta la reazione a Novecento esponendo le opere degli artisti che aderirono a Corrente, movimento nato nel ’38 il cui obiettivo era ricondurre l’arte ai suoi impegni morali e civili. Qui sono esposti quadri di Guttuso, Birolli, Morlotti, Sassu, Cassinari insieme a 7 opere di Morandi, grande amico dei coniugi Boschi, e 6 di De Pisis. Nella sesta sala (il
prevede una serie di conferenze in cui i giovani docenti under 40 (appositamente reclutati dalla facoltà per caratterizzare l’insegnamento ferrarese) raccontano la propria esperienza fra didattica e ricerca personale. Tali incontri offrono l’occasione non solo di far conoscere, al di fuori dei ritmi frenetici e costrittivi degli anni accademici, le personalità presenti in università, ma anche di stimolare un dibattito sui temi della ricerca. Ad ogni appuntamento viene invitato un docente senior della facoltà (con funzione di presentatore e coordinatore), affiancato da un critico o da altra figura del mondo architettonico e professionale, in relazione a un percorso tematico che riguarda, di volta in volta, paesaggio, restauro e tecnologia. Partecipano al prossimo appuntamento della sezione i professori P. Arveda, G. Bertani e G. Franz (9 Maggio).
Il 3° nucleo di eventi, “ Progetto e costruzione” , prevede un ricco calendario di conferenze in cui i protagonisti della scena architettonica internazionale sono invitati a misurarsi sul tema della complessa relazione che intercorre fra la fase ideativa e quella realizzativa del progetto. La sezione si è inaugurata il 28 marzo con la partecipazione di Baumschlager & Eberle e Hans Kollhoff, ed è proseguita l’11 aprile con Michael Hopkins e Greg Lynn. I prossimi interventi in programma sono con: Shigeru Ban (9 maggio); Kengo Kuma (21 maggio); Thomas Herzog (11 giugno); Future Systems ( 13 giugno). In data ancora da definirsi, sono attesi, fra gli altri, G. De Carlo, G. Descombes, C. Ferrater, C. Girot, G. Grassi, T. Herzog, M. Hopkins, Mecanoo, G. Murcutt, A. Natalini, O.M.A., D. Perrault, N. Portas, P. Portoghesi, F. Purini, Hutton Architects, F. Zagari.
L’anno di celebrazioni si concluderà con il conferimento della Laurea Honoris Causa a Peter Zumthor, conferimento che vuole riconoscere nel lavoro dell’architetto svizzero proprio quella sintesi, di altissima qualità, fra progettista e costruttore, e indicarlo ai giovani studenti quale “ Maestro nell’interpretazione dei valori spaziali dell’architettura (la vera essenza della disciplina), nella produzione di suggestioni “ scritte” con la fisicità più autentica dei materiali, nella sublimazione della costruzione quale atto di controllo dell’Opera” . L’elenco delle manifestazioni è puntualmente aggiornato sul sito www.Xfaf.it che, con i suoi approfondimenti e innovativi dispositivi di comunicazione multimediale, rende accessibile a tutta la comunità scientifica l’avvenimento in corso. Sonia Milone
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Il programma per il Decennale prevede 3 aree tematiche principali intorno a cui si organizzano i vari eventi. La 1° area, “ Archibibliomania” , consiste in un ciclo di incontri con il mondo dell’editoria specialistica. I responsabili scientifici delle più interessanti case editrici e riviste (cartacee e on line) di architettura contemporanea intervengono per presentare profili, iniziative e strategie culturali, e per confrontarsi su problematiche attuali come i nuovi strumenti di comunicazione scientifica apportati dal computer e sul loro riverbero nell’ambito della formazione dell’architetto, oggi oscillante fra “ carta e web” . Presentati e coordinati da un critico, sono attesi nei prossimi incontri: Gangemi, Clean, The Plan, Architecture.it (9 maggio); Meltemi, Silvana, Gomorra, ChannelBeta (13 Giugno). La 2° area, “ Le scuole di architettura. – 40 + autobiografie faf” ,
Baumschlager & Eberle, Casa Flatz, Schaan.
Greg Lynn, Concorso per il World Trade Center di New York.
Future Systems, Ponte galleggiante, Docklands, Londra.
Michael Hopkins, Centro di ricerca Schlumberger Cambridge.
A cura di Roberto Gamba
Riqualificazione funzionale della frazione di Cepina, Valdisotto (So)
1° classificato Roberto Cosenza, Giampiero Lagnese L’area oggetto di intervento appare slabbrata, indefinita e priva di una forma riconoscibile. Il progetto cerca di connotarla morfologicamente, ricreando dei limiti, stabilendo percorrenze e rapporti visivi. Intende creare una ampia “ piazza verde” , una sorta di parco urbano, con un insieme di at trezzature per la cultura, il turismo e il benessere fisico; in cui gli spazi aperti e il costruito sono integrati in un chiaro sistema di relazioni. L’insediamento costituito dai tre
della provincia di Sondrio, si è posto l’obiettivo di ridefinire, attraverso interventi di riqualificazione e connessione, un luogo oggi quasi abbandonato, dove però emergono esempi di architettura di un potenziale valore storico e attrattivo, perché testimonianze delle trascorse attività produttive e turistiche. Le ipotesi progettuali dovevano essere relative alla riqualificazione morfologica e funzionale dell’area centrale della frazione, da perseguirsi prioritariamente tramite il recupero o la trasformazione dell’Hotel Cepina e la ridefinizione appunto dell’ambito interessato dalla presenza dell’ex stabilimento di imbottigliamento.
fabbricati ex-Levissima, di cui si prevede la demolizione, soggiace a una logica puramente funzionale ed è comunque privo di qualità che ne giustifichino il recupero. Il progetto propone invece il recupero dell’Hotel Cepina, integrando la funzione prettamente alberghiera con un centro di benessere, i cui ambienti affacciano su un patio, con piscina e solarium. Non appare come un edificio, ma come un basamento, uno zoccolo, su cui poggia l’albergo. Situato in corrispondenza di un tratto di terreno di pendenza accentuata, segna con un muro quasi cieco il limite sulla strada, mentre la co-
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pertura definisce un piano orizzontale fruibile da cui si accede all’albergo. Quest’ultimo sarà completamente riorganizzato internamente mentre in esterno sarà mantenuta per quanto possibile la fisionomia attuale. Il sistema albergo-centro di benessere è dunque risolto architettonicamente attraverso il principio classico di edificio-basamento. Sullo stesso principio è concepito il centro culturale (documentazione e sviluppo della cultura locale, con ambienti di studio, aree espositive e una sala polivalente)
che schematicamente è configurato come da due scatole, in buona parte trasparenti, appoggiate su uno zoccolo. Questo risolve il rapporto con il terreno in pendenza del parco, mentre una copertura con una trama di piccoli lucernari unifica le due parti dell’edificio e crea centralmente uno spazio aperto, ma coperto che filtra e integra l’edificio e il verde. Lo spazio esterno di pertinenza del centro culturale è lastricato, presenta una dolce e ampia gradinata, mentre un muro inclinato lo separa dalla strada vicinale.
2° classificato Federico Tranfa
mento delle strutture e degli impianti. A completamento propone la costruzione ex-novo di un corpo edilizio di due piani, destinato alle cure idropiniche. Nella seconda fase, prevede di demolire sia il corpo edilizio del magazzino merci che il capannone posto al margine est dell’ex-area industriale e di utilizzarne il sedime per costruire un nuovo organismo edilizio con funzione di
La proposta progettuale vorrebbe incidere su due scale dimensionali differenti: quella urbana e quella architettonica. La prima fase del programma di riqualificazione indica la ristrutturazione e l’ampliamento dell’Hotel Cepina, con la demolizione di alcune superfetazioni, il risana-
Concorsi
Quasi al fondo della Valtellina, ai piedi dell’Ortles e del Passo dello Stelvio, Valdisotto raggruppa una serie di antiche frazioni montane, che introducono all’ampia piana di Bormio. Dalla frazione Cepina si può raggiungere la Val Campaccio attraversando la frazione di Santa Maria Maddalena e gli abitati di Tiola e Monte, dai quali si prosegue per l’Alpe Campaccio e l’omonimo lago. A Cepina, nel Comune di Valdisotto, i fabbricati dell’albergo e del vecchio stabilimento dell’acqua minerale Fonti Levissima rappresentano una porzione più che significativa dell’abitato. Il concorso, bandito nella primavera scorsa dal comune valtellinese
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motel per sciatori. Il motel è composto da tre costruzioni distinte ma tra loro collegate: il corpo delle camere, quello del bar/caffetteria ed infine un parcheggio coperto del quale sarà possibile utilizzare il tetto piano come pista di pattinaggio. Il ridisegno ed il miglioramento funzionale dell’area verde pubblica costituita dal Parco di Cepina rappresenta la terza fase. Da questo punto di vista si integra il progetto con degli spazi aperti, percorsi pedonali e collegamenti ciclabili e con la ricerca di nuove funzione eco-compatibili. La presenza di un percorso-vita
per attività sportive all’aperto potrebbe trasformarsi durante la stagione invernale in un piccolo anello di fondo dedicato all’allenamento ed all’insegnamento dei fondamentali di questa disciplina. La quarta fase riguarda la sostituzione del capannone attualmente occupato dai laboratori regionali, per trasformare il vecchio piazzale dello stabilimento Levissima in uno spazio aperto lastricato. La nuova piazza risultante al termine dell’attuazione delle quattro fasi del programma potrà essere inoltre utilizzata per piccole manifestazioni, mercati e attività aggregative.
3° classificato ex aequo Aurelio Valenti, Andrea Forni collaboratore Marco Pusterla
dell’antico abitato e la volontà di collegare la parte “ alta” a quella a valle, ha costituito un punto di partenza necessario al lavoro e successivamente confermato nella scelta compositiva di confermare gli allineamenti e le giaciture degli edifici esistenti. Viene sostanzialmente riconfermato il ruolo del parco attuale quale area “ libera” lasciata a verde. Per gli edifici esistenti si propone
Il progetto tenta di ridefinire, attraverso il mantenimento e la riconversione degli ex stabilimenti Levissima, un’area degradata e priva di interesse. Se il modo di operare per parti ha portato il progetto a misurarsi con gli elementi circostanti, la lettura
un generale intervento di riconversione architettonica e funzionale che porti a creare un luogo di attrazione e di ritrovo. L’edificio dell’ex imbottigliamento Levissima si caratterizza per il suo fuori scala, le sue misure, il tipo architettonico cui appartiene. Un edificio coraggioso, ancora utile per la lettura e la costruzione di un pezzo decisivo della città. Il progetto ne prevede la ristrutturazione generale e l’ampliamento con un sopralzo di un piano, interamente vetrato. La sua riconversione funzionale prevede l’utilizzo del piano terra per la realizzazione di un “ museo dell’acqua” ; con al piano primo, di nuova realizzazione, una caffetteria e una grande sala espositiva Per l’Hotel Cepina si prevede un
intervento di generale manutenzione; verrà ripensato e adeguato alle normative vigenti nella sua distribuzione interna, cercando di mantenere l’impianto tipologico originario. Èsembrato utile, nella lettura morfologica dell’abitato, ipotizzare un collegamento pedonale tra il vecchio nucleo di case in pietra della frazione di Cepina e l’area oggetto di concorso. Tale soluzione, realizzabile con piccoli interventi di pavimentazione, consente di leggere la frazione come un tutt’uno, evitando di circoscrivere il progetto dentro un’astratta e artificiale area di concorso. Un nuovo edificio - una sorta di cannocchiale sul parco - consentirà di collegare l’ex imbottigliamento Levissima con il parco.
3° classificato ex aequo CCP, Carlo Calderan, Luca Cuzzolin, Elena Vittoria Pedrina collaboratore Silvia Rossi
passeggiare nel giardino delle fonti: sollevato rispetto al livello del parco un piano d’acqua taglierà gli alberi del bosco, pedane di legno collegheranno le diverse fontane. Lo spazio della cura, della balneoterapia, destinato al benessere ed al riposo, sarà un luogo ombroso e silenzioso, la luce scenderà dall’alto e filtrata dagli alberi del bosco. Una galleria porterà alle vasche esterne, una stanza a cielo aperto coperta dalle volte degli alberi. Le terapie del movimento, del recupero e del fitnesstroveranno posto in un edificio luminoso e aperto verso il parco, fornito di un’ampia assolata terrazza e di una lunga vasca per il nuoto. Parte dell’area ex Levissima potrà essere destinata a residenza. I muri in pietra del parco si protenderanno nel nuovo quartiere, trasformandosi in basamenti sui quali si appoggeranno leggere costruzioni in legno. Una nuova piazza medierà il centro monumentale ed i nuovi edifici commerciali e termali: l’Hotel, la chiesa, il municipio, la facciata delle Terme delimiteranno un ampio spazio, in cui verranno contenuti i due edifici “ minori” dell‘Ossario e dell’Oratorio dei Confratelli. L’Hotel Cepina andrà ristrutturato e la sua capienza aumentata. Un nuovo corpo di fabbrica, perpendicolare all’esistente, chiuderà a monte, un giardino privato, alla quota della piazza, sotto il quale saranno collocati il parcheggio degli ospiti, le cucine e i locali tecnici.
Se un parco urbano è spesso simulazione della natura, in un contesto alpino esso dovrà assumere la forma di un giardino costruito. Il grande pendio verso l’Adda viene inciso da contropiani che trattengono la discesa. Muri in pietra tagliano il prato e delimitano terrazzamenti talvolta sollevati, talvolta infissi nel terreno. Ci si muoverà raggiungendo in sequenza i diversi livelli concepiti come altrettanti giardini tematici. Dall’alto: la terrazza panoramica, il podio in legno, il prato delle feste, il bacino del pattinaggio invernale e dello skate estivo, il prato dei giochi, la vasca di sabbia, il prato umido, il piano di ghiaia e al termine, scavato nel pendio, l’accesso inferiore al parco che potrà, oltre la strada comunale, tendersi verso il fiume. I terrazzamenti verdi del parco, invadendo l’area dell’ex stabilimento Levissima, diverranno i piani di copertura dei nuovi edifici rendendo incerto il confine tra costruito e spazio aperto. I tre ambiti funzionali dello stabilimento termale verranno suddivisi in altrettanti recinti rettangolari, ognuno costituito da uno spazio chiuso e da un giardino di pertinenza. L’area d‘ingresso, affacciata direttamente sulla piazza del paese, è concepita come una fontana dalla quale si verrà a bere l’acqua minerale, in una grande serra, d’inverno, mentre d’estate si potrà
San Pellegrino Terme nella valle Brembana, percorsa dal f iume Brembo in tutta la sua lunghezza, fu insediamento ad economia rurale sino alla fine dell’800. In questo secolo, è diventata, grazie allo sfruttamento delle acque di fonte, una fra le più rinomate città termali della Lombardia. L’attuale centro, disposto sulle due rive del fiume, è sorto dalla fusione in nucleo di alcuni insediamenti contadini, sorti sul fondovalle ai margini del Brembo, tra lo stabilimento dell’acqua minerale di Ruspino, a valle, e quello della Pracastello, a monte. All’inizio del 1900, si arricchì di opere di prestigio come l’imponente Grand Hotel e il Casinò. Risale al 1840 la costruzione del primo stabilimento che diede l’avvio al moderno sviluppo del paese. La costruzione della “ Società delle terme” nel 1899 e della successiva “ Società dei Grandi Alberghi” segnò un salto di qualità che diede al paese la sua caratteristica fisionomia elegante fatta di viali alberati, fontane, giardini e maestosi edifici. L’amministrazione comunale ha espresso la volontà dunque di predisporre un ulteriore manufatto, che superi il fiume, laddove il ter-
ritorio urbano è connotato dalla presenza di quelle importanti strutture, sia architettoniche che viarie, che più caratterizzano la conoscenza del luogo. Il bando del concorso prevedeva una progettazione attenta alle istanze specifiche di impatto ambientale in primo luogo, ma anche al soddisfacimento degli specifici requisiti urbanistici, formali e materici necessari per una corretta integrazione con il contesto. Si ipotizza la predisposizione di un nuovo asse urbano, che attraversi perpendicolarmente, da est a ovest, lo sviluppo cittadino e connetta, con un percorso pedonale, Casinò, Municipio, la parte commerciale del paese, con il Grand Hotel, il suo giardino e il nuovo parcheggio multipiano. Sulla riva ad est del fiume, si propone la pedonalizzazione di via Belotti e la realizzazione di un giardino pubblico a fianco del Grand Hotel. La giuria, che ha deliberato i risultati nell’autunno scorso, era composta dal sindaco V. Milesi, da R. Gentile, F. Bombelli, C. Merati, G.B. De Vecchi. Sono stati segnalati i progetti di Antonio Ferrari e di Giacomo Alessandro Bagini.
1°classificato Michele Contaldo, Ennio Agovino, Luigi Ambrosino, Giuseppe Iorianni Salvatore Contaldo Il manufatto tende a armonizzarsi nel contesto ambientale e paesistico realizzando un minimo impatto visivo rispetto alle preesistenze architettoniche e naturalistiche, con una soluzione architettonica filiforme e una struttura portante leggera e trasparente. Il ponte pedonale si innesta su una nuova piazza laterale al Municipio. Un arco teso, in cui struttura ed architettura si armonizzano, si libra sull’acqua per collegare le due sponde del Brembo. Il parapetto in vetro con corrimano in acciaio contribuisce alla trasparenza del manufatto, lasciando in evidenza i due archi portanti che diventano gli elementi pre-
dominanti e di maggiore rilievo formale con la loro curvatura nei piani verticale ed orizzontale. Le lampade, poste nella parte bassa del parapetto, illuminano il percorso, creando un gioco di luci
che accompagna l’attraversamento ed evidenzia come un fascio luminoso l’arco, riflettendolo nell’acqua e rendendolo visibile nelle ore notturne anche a grande distanza.
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Concorsi
Realizzazione del ponte pedonale sul fiume Brembo a San Pellegrino Terme (Bg)
2°classificato Maurizio Cantergiani, Paolo Recalcati Fatte proprie le precise ipotesi iniziali, il progetto viene poi caratterizzato da precise normative che incidono sulle scelte e ne stabiliscono il percorso in un’unica campata, non potendo collocare nel sedime fluviale alcun genere di struttura di sostegno al ponte. Questa impostazione, condivisibile anche architettonicamente, determina la predisposizione di una struttura fluida di attraversamento del fiume senza ulteriori appoggi oltre a quelli di sbarco a riva, ma necessariamente è caratterizzata, per il suo sostegno, da strutture a sviluppo verticale con tiranti di sospensione. Il linguaggio formale che si è voluto utilizzare per il progetto è quello minimale, dettato dalla volontà di mettere in opera un struttura leggera, dal minimo impatto
visivo e dalle linee filanti, che non necessitano di orpelli stilistici propri di epoche passate. La scelta progettuale nasce dunque dalla volontà di porre in opera una struttura quanto più leggera possibile; a tal fine, la particolare architettura di sostegno a due soli bracci ai lati opposti della passerella, controbilanciati da tiranti interni alla struttura sospesa, presenta un particolare leggerissimo assetto sostenuto da due soli pali metallici in alzato posti sulle rive e mantenuti a congrua distanza dal ponte in modo da conferire a quest’ultimo slancio e leggerezza estetica. Il telaio del ponte, in metallo, prefabbricato e poi assemblato in opera, sarà costituito da scatolati in lamiera di acciaio e la pavimentazione sarà in legno di tipo marino. Lo sforzo di sostegno dei puntoni in tubo di acciaio sarà compensato da tiranti in trefoli dello stesso materiale inseriti nella struttura stessa del ponte.
3°classificato Enrico D. Bona, Fulvio Monti, Roberto Martignone
Concorsi
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L’abitato di San Pellegrino è segnato nel suo sviluppo lungo la valle da alcuni segni, a livello percettivo, di forte rilevanza; alcuni sono verticali come il camino dell’impianto di imbottigliamento, il campanile della parrocchiale, le due torrette dell’ex-Casinò; altri sono orizzontali come il ponte in pietra e il ponte Umberto. Altri hanno la prevalenza tipica del linguaggio architettonico: la cupola del Tempio dei caduti o il complesso della centrale elettrica. In sintesi: si stendono due cavi tra le sponde; per la metà dello sviluppo, sulla sponda destra, i cavi sono irrigiditi secondo il modello standard proposto; per la metà dello sviluppo, sulla sponda sinistra, i cavi sostengono l’impalcato, secondo i criteri del ponte sospeso. Dal ponte Umberto guardando a valle e dal ponte pedonale in pie-
tra guardando verso monte, la visibilità del nuovo ponte si riduce ad una semplicissima linea. Con l’inclinazione dei piloni fondati tra gli alberi sulla riva sinistra, le due catenarie sviluppano anche il ruolo di controventamento rispetto al vento; l’alto valore della tensione delle funi primarie (per cui si paga il prezzo di maggior impegno sulle fondazioni) è un fattore di irrigidimento: ma a questa tensione sono dovuti anche la semplicità del disegno e la trasparenza del manufatto con il conseguente minimo impatto ambientale; per il piano di calpestio si propone, a questo livello, una soluzione a travetti in tubo di acciaio di sezione ellittica e longheroni a T e longheroni laterali a L, per facilitare la messa in opera dei montanti della ringhiera; i traversi sono controventati tra di loro, con tiranti ancorati secondo carpenteria standard; la stabilità trasversale di tutto il ponte è un punto di notevole interesse per l’architettura generale.
Riqualificazione della piazza IV novembre di Barbata (Bg) Il comune di Barbata, in provincia di Bergamo richiedeva con questo concorso la riqualificazione della piazza principale del paese, della via Castello e di parte della via Vittorio Veneto, anche attraverso la definizione dell’illuminazione pubblica e i disegni degli elementi illuminanti. Residenze ed abitazioni rurali, strade e aree verdi, chiese e negozi di Barbata sono nate tutte a ridosso di un importante crocevia stradale di collegamento e distribuzione del-
l’alta padana. L’area di intervento è caratterizzata da una particolare conformazione, con slarghi, piazze e vie strette. La piazza e le vie citate, con la chiesa, l’ex scuola comunale e l’annesso giardino-parco, compongono lo scenario, anche se disarticolato e non omogeneo delle funzioni pubbliche, civiche e religiose del paese. La piazza si configura in uno spazio diviso dall’attraversamento della via Vittorio Emanuele, separando
la parte più religiosa della chiesa da quella più pubblica e civica destinata oggi a parcheggio e transito di veicoli; risulta essere il nucleo più antico del tessuto urbano, testimoniato dalla presenza ancora visibile di un castello e di edifici rurali.
La giuria era composta da Giovanni Venier, Aquilino Rubini, Pietro Neotti, Matteo Invernizzi, Gianmaria Pezzoli. Si sono poi classificati, 4° Paolo Carzaniga; 5° Emiliano Bellini; 6° Matteo Legnani; 7° Davide Ferro; 8° Elena Tadini.
1° classificato Gabriele Talpo, Elena Marelli, Samuele Striatto
zione, di cultura e di incontro sociale ed anche spazio ludico. La presenza di un filare di alberi posto parallelamente al lato più lungo della piazza, assume la funzione di evidenziare il cambio delle stagioni e nello stesso tempo di separare l’accesso dei veicoli alle abitazioni dei residenti e di creare un luogo ombroso dove sostare. Il quarto lato di chiusura della piazza, viene completato con la collocazione di una struttura - pensilina, permeabile orizzontalmente, che definisce lo spazio e diventa elemento utilizzabile per eventuali manifestazioni. La struttura copre parzialmente la fontana-lavatoio, in memoria di un luogo storico, dove l’incontro e la socializzazione avveniva quotidianamente; inoltre affacciandosi su via Vittorio Emanuele diventa luogo di attesa per la fermata dell’autobus. La nuova piazza si dilata fino ai confini dell’area verde, di proprietà comunale, giocando un ruolo importante nella riorganizzazione dell’intero comparto; inoltre risulta essere, con la roggia d’acqua e l’adiacente campagna, il completamento naturale della nuova maglia urbana.
La scelta minimale adottata è di sopraelevare parte della piazza a quota 0,15 cm, in modo da consentire un rispetto del sagrato, inoltre, posizionando a parziale chiusura dello stesso, degli elementi, come una panca in pietra, che evidenziano e definiscono ulteriormente lo spazio sacro. La pavimentazione del sagrato in granito bianco Montorfano, posato secondo un disegno semplice e regolare, esalta e crea rispetto del luogo più sacro della piazza; mentre la pavimentazione omogenea di tutto lo spazio adiacente, in pietra piacentina, consente di riconoscere, in modo chiaro, l’impianto irregolare della pianta stessa; inoltre, dilatandosi su tutte le vie di accesso e sbocco alla piazza, di creare una ricucitura dell’antico tessuto urbano. La piazza IV novembre diventa il grande spazio aperto, il luogo da usare, il vero soggiorno della città: semplice e geometrica è il punto di riferimento della vita civica, luogo di rappresentazione, di informa-
3° classificato Barbara Ariuolo, Cecilia Andrea Nigro
Il motivo guida del progetto è stato il tentativo di trasformare l’intera zona, da area di transito a luogo di sosta. Si è cercato di perseguire questa idea mantenendo l’identità del luogo, sottolineando e valorizzando mediante richiami visivi e fisici le particolari visuali prospettiche che si sono venute a creare durante l’evoluzione urbana e lasciandosi guidare dalla originale disposizione spaziale degli elementi importanti presenti nell’area, dislocati secondo le rigorose geometrie del “ castrum” romano, ancora leggibile al di sotto della persistente stratificazione urbana. Si è pensato, di riorganizzare l’area di progetto mediante il disegno di due piazze principali e la valorizzazione di elementi importanti che creano e muovono il contesto: la chiesa con la sua regolata geometria; le aree a verde con il loro insostituibile contributo; il viale alberato con la sua coerente e fuggevole dinamicità. La via Vittorio Veneto, antico cardo orientato in direzione nord/sud, funge da elemento vincolante, al quale si aggrappano le due piazze. Il disegno risulta evidenziato da
una lunga teoria di alberi che, senza soluzione di continuità, segnano la prospettiva del nuovo centro, mettendosi in fregio ed inquadrando il portale di ingresso al Castello in direzione ovest e approdando e disegnando il parco a verde in direzione est. M olt a import anza è dat a alla Chiesa: la precisa mole rettangolare dell’edificio, ben si presta ad assolvere, nella immanenza come nella trascendenza il duplice ruolo di ripartitrice di regolari geometrie. La piazza est, importante spazio di socializzazione, è impreziosita, o meglio, completata da una fontana che offre l’occasione di una sosta tra piccoli giochi d’acqua. Fattore comune all’intera area di progetto è il disegno della pavimentazione che, con lastre di granito posato “ a correre” , alternato a pavimentazioni in grès, costruisce un reticolo geometrico, ordinante ed ordinato, nel quale ci si muove e all’interno del quale ogni elemento trova collocazione rigorosa in una pantomima della “ città ideale” . Le tipologie di piante previste sono quelle locali lombarde, per cui si è pensato a tigli o ippocastani e saranno comunque di medio alto fusto e del tipo stagionale.
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2° classificato Gianluca Erroi
La piazza di Barbata sembra un cortile allargato, su di essa si affacciano case con ingressi diretti senza nessun filtro tra loro e la piazza, i cui abitanti sembrano utilizzarla proprio come il “ cortile di casa” Si è voluto dare un orientamento all’apparente caoticità, portando ad una trasformazione architettonica che insegue le matrici fisicoformali, le utilità socio-culturali e i meccanismi tecnico-funzionali dello spazio racchiuso che è la piazza. Sì e voluto ritrovare o meglio riconfermare la particolarità del luogo, ancorando le istanze inno-
vative alle presenze vincolanti, creando un luogo d’intensità comunicativa tra i diversi punti dell’abitato. Si è voluto sottolineare non la fisicità del posto ma ciò che esso rappresenta: l’espressione finale di una serie di valori comuni, quello della storia, quello della memoria, quello delle tradizioni e delle abitudini degli abitanti di un paese. Il filo conduttore è stato far rivivere tutto questo, attraverso l’utilizzo di un linguaggio non invasivo ma semplice nella lettura e nello stesso tempo molto chiaro negli intenti. Tutto ciò è volto alla creazione di un luogo familiare e in alcuni casi “ intimo” , come la realizzazione di un filtro tra gli ingressi delle abitazioni e la piazza vera e propria.
Concorso per la realizzazione del Centro polifunzionale di Grosio (So) Il Comune di Grosio ha intenzione di realizzare un primo lotto di intervento del Centro polifunzionale, progettato a seguito del concorso bandito lo scorso anno. L’edificio, con relativi parcheggi dovrà consentire lo svolgimento di attività sportive, essere centro di aggregazione, per manifestazioni pubbliche e servizi comunali, per una spesa massima omnicomprensiva di 2.500.000 di Euro. Il territorio si estende sui colli che si innalzano, sul versante destro orografico della Valtellina, tra il fondovalle e l’ultimo tratto del torrente Roasco dal suo sbocco dalla Val Grosina alla confluenza nel-
l’Adda. Fa parte del territorio comunale il parco delle incisioni rupestri, che è un vero e proprio museo all’aperto. Il Consorzio del parco ha sede presso la villa Visconti Venosta. All’interno dell’area archeologica è situata la “ Ca’ del Cap” , una struttura di accoglienza e di informazione, dotata di un centro di documentazione, dove sono ordinati i rilievi delle incisioni, una biblioteca specializzata e una fototeca. Il complesso petroglifico di Grosio venne scoperto nel 1966, con il rinvenimento di una serie di rocce coppellate sul Dosso Giroldo e suc-
cessivamente, nel 1971, di alcune figure antropomorfe su una grande roccia a dorso di balena presso il Dosso dei Due Castelli. Questa roccia, denominata “ rupe magna” per le sue grandi dimensioni, è una grande montonaia, formata da micascisti levigati da ghiacciai würmiani, modellata oltre 20.000 anni fa dall’azione del ghiaccio, che scorreva su di essa, trascinando
con sé una grande quantità di detriti. Con la scoperta del sito archeologico e dopo un trattamento di pulitura, restauro, rilievo e catalogazione, la “ rupe magna” ha rivelato una grande concentrazione di arte figurativa, con la presenza di migliaia di figure incise che ne fanno la più estesa ed istoriata roccia d’Europa.
L’intervento prevede la realizzazione di una struttura polivalente su 4 livelli: il primo, parzialmente interrato rispetto alla quota della bretella che costituisce la circonvallazione del paese, ad uso parcheggio e box interrati; il secondo al piano terra costituisce il cuore funzionale dell’intero complesso con palestra, bar, vigili del fuoco; il terzo, sopra il bar ed i vigili, ad uso rispettivamente fitness e autorimesse; infine l’ultimo, sulla copertura della palestra ad uso parcheggio. La scelta progettuale è stata condizionata dalla dimensione, dalla morfologia del lotto e dalle richieste
contenute nel bando. La forma di questa parte dell’edificio polifunzionale è stata suggerita dalla necessità di collocare 25 posti auto sulla sua copertura. Le pareti esterne sono state impostate come un potenziale muro di sostegno, con scarpa esterna e struttura in muratura di pietrame. L’ampia serie di finestre e porte sul fronte est, sporgenti nella parte superiore per limitare i riflessi interni, è necessaria per garantire l’ illuminazione naturale e permettere il collegamento fra gli ambienti interno ed esterno in occasione di incontri e sagre popolari. Sulla parete interna, rivolta a Nord, potrebbe essere realizzata una palestra di arrampicata formata da blocchi di pietra naturale opportunamente applicati alla struttura.
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2° classificato Luciano Besseghini, Silvano Bonetti, Paolo Pedranzini
3° classificato Ekaterina Golovatyuk, Antonello Arnò, Matteo Poli
1° classificato Paolo Colombo, Rita Mangone, Paolo Monti Il progetto risponde alle richieste del bando di tipo funzionale e sopratutto rispetto ai “ temi architettonici” per il ridisegno di parte della via Valeriana, per l’attenzione alla morfologia del luogo e la necessità di una definizione architettonica di un’area di confine. La chiarezza del bando ha impedito, secondo i progettisti, invenzioni formali e li ha portati a misurarsi sul piano del linguaggio e della concretezza. Si ritiene che un semplice impianto distributivo in grado di sfruttare le diverse quote del terreno e un edificio che si misuri dimensionalmente da un lato
con l’edilizia minuta posta su via Valeriana e dall’altro con la necessità di definizione “ forte” verso la strada statale, confine fisico di Grosio, sia la strada che deve essere percorsa. Vi è poi una scelta di linguaggio che non può che adattarsi all’intorno e pertanto deve utilizzare un “ parlare piano” pur non dimenticando il carattere pubblico dell’edificio. Il progetto cerca di rispondere a queste esigenze e nello stesso tempo di essere “ architettura” non adagiandosi sulle mode imperanti. L’edificio è pensato rivestito di beola dorata della Val Malenco con la grande apertura verso la strada statale, schermata da elementi in legno e concluso da un cornicione in rame.
Il nuovo centro si articola cercando di soddisfare anche l’esigenza di non frammentare ulteriormente il territorio comunale. I due corpi che ospitano la palestra e la sede dei Vigili del Fuoco sono visualmente uniti da una struttura intelaiata che ospita i parcheggi pubblici ed i box privati. Il muro di contenimento che definisce l’area di progetto è in pietra a secco contenuta da gabbie metalliche, mentre il prospetto verso la montagna è una struttura leggera su cui crescono piante cadu-
che e sempreverdi; i movimenti di terra previsti minimizzano l’impatto visivo dell’edificio, pur garantendo la leggibilità dell’intervento. La piattaforma dei parcheggi è sollevata da terra, permettendo così un accesso in quota agli stessi e creando al di sotto uno spazio coperto che generi ambiguità tra l’interno dell’edificio e il centro abitato. L’accesso alla palestra avviene scendendo una rampa che corre tra il contenimento della via Valeriana e la facciata dell’edificio: la palestra è visualmente coincidente con il confine del Comune, e viceversa l’edificio è attraversato anche senza una specifica necessità di accesso.
Il comune di Fontanella (3500 abitanti in provincia di Bergamo), nella pianura tra i fiumi Serio e Oglio, lungo la strada verso Soncino (bella la sua parrocchiale di San Cassiano, con facciata rinascimentale e torre campanaria quattrocentesca), ha richiesto con questo concorso, idee progettuali per la realizzazione di una zona produttiva artigianale e industriale, secondo le previsioni di P.R.G., in un’area, di circa 12 ettari, che dista circa 1km dal centro del paese; è di forma rettangolare ed è attraversata dalla ex s.s. 498 che scorre ad un metro sopra la quota di campagna. Attualmente l’area, nel paesaggio caratterizzato dagli elementi tipici
della campagna, rogge irrigue, filari alberati e campi coltivati, si presenta inedificata e prevalentemente adibita alla coltivazione del granoturco. Sotto l’aspetto delle presenze naturalistiche con valenza paesisticoambientale, è costituita da un pianoro dotato di una modesta pendenza, risulta anch’essa interessata da fossati, fontanili e filari arborei. La giuria era composta dal sindaco Mario Gandolfi, da Enrico Scandelli, Giancarlo Ceresoli, Franco Cremonesi, Genny Baiettini. Si sono poi classificati: 4°, Antonio Galdini; 5°, Gianpaolo Bina; 6°, Pierangelo Manca.
1° classificato Pietro Capussela, Roberto Cigliano, Giuseppe Ravera
Per l’organizzazione e la sistemazione degli spazi interni ai singoli comparti, il richiamo è alle molteplici funzioni e ruoli che il verde svolge nelle aree ornamentali e/o di arredo. L’obiettivo proposto è quello della creazione di una cintura verde intorno al comparto, per meglio integrarla al paesaggio agrario e per difenderla dagli effetti di disturbo ambientale. L’impiego di particolari tipi di specie vegetali sarà diversificato in funzione delle diverse caratteristiche “ pedoclimatiche” e in funzione delle diverse tipologie di verde, prediligendo in larga misura quelle specie autoctone tipiche delle Pianura Padana.
I tipi edilizi ipotizzati per la progettazione degli insediamenti produttivi sono quelli di capannone a schiera doppia, con blocco a torre frontale destinato ad uso uffici. Il capannone che ospiterà prevalentemente unità produttive, avrà dimensioni modulari di circa mq 500/1.000. La struttura architettonica consta in un caratterizzante blocco uffici frontale, realizzato a torre ed incluso nel complesso o allo studio delle pareti verticali che grazie a cadenzate rientranze, si mostreranno come una facciata articolata.
2° classificato Davide Martis con Gianluca Cortinovis, Fulvio Ghilardi, Narno Poli Nell’angolo che si è venuto a creare con la strada ex statale, si sono posizionati tre edifici, con andamento parallelo al fossato, che si attestano verso la strada provinciale con un elemento a torretta, questo in modo abbastanza atipico per le tipologie industriali correnti, ma che, giustamente connotato, appare ideale per le destinazioni terziaria-commerciale che qui si intendono localizzare. Inoltre, questi edifici, per la loro prossimità allo svincolo e la loro composizione formale, fungeranno da elemento connotativo e di riconoscibilità dell’intervento. Per il resto, si sono ricavati lotti con conformazione tale da prestarsi ad insediare attività pretta-
mente industriali. Uno dei blocchi, posto immediatamente ad est della strada ex statale, al fine di ridurne l’impatto visivo, ha richiesto un trattamento del fronte, verso la stessa, con una cortina ondulata, che funge anch’essa da elemento connotativo dell’intervento, nei confronti di chi si trova a transitare. La morfologia degli edifici, benché funzionale alla loro destinazione d’uso produttiva, deve risultare gradevolmente inserita nel contesto ambientale, anche riguardo all’impiego dei materiali e dei colori di facciata. La proposta contempla anche un progetto di suolo e del verde, che prevede la messa a dimora di essenze arboree autoctone con funzione di barriera vegetale, lungo tutto i bordi nord e sud dell’area d’intervento e i due lati della strada ex statale.
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Concorsi
Concorso per una zona produttiva artigianale e industriale a Fontanella (Bg)
3° classificato Paolo Carzaniga, Roberta Carzaniga, Paolo Mambretti, Lelia Mambretti, Gian Mario Zanga Gli elementi caratterizzanti il progetto sono in primis, le recinzioni “ leggere” dei lotti artigianali, costituite da pannellature, formate da traversi orizzontali di legno, sovrapposti e fissati a telai in ferro. Le pannellature, della misura di cm 80x140, vengono montate una sopra l’altra, in modo variabile, fissandole a montanti in ferro di altezza variabile dai 3 ai 7 metri. Le recinzioni vengono in tal modo a costituire un vero e proprio sistema di schermature artificiali in
materiale naturale (legno) che, grazie all’andamento ad altezza variabile, imitano, ricostituendolo, il profilo dei filari alberati esistenti. Le alberature sono concentrate in punti di rilievo e disposte su una immaginaria griglia ortogonale; diventano delle vere e proprie “ costruzioni verdi” . I corsi d’acqua vengono il più possibile conservati ed evidenziati grazie a una doppia serie di fontanelle, poste al centro della rotatoria; l’illuminazione è costituita da faretti a terra, che proiettano la luce sulle recinzioni leggere; la pavimentazione è realizzata in masselli autobloccanti per i marciapiedi e per i parcheggi.
Legislazione a cura di Walter Fumagalli
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Le Soprintendenze Questa rubrica si è occupata a più riprese della disciplina dei beni culturali ed ambientali. Vale ora la pena di soffermarsi sulle principali disposizioni che riguardano l’organizzazione e le competenze delle Soprintendenze, che presiedono all’applicazione di tale normativa. A questo scopo, occorre prendere le mosse dal Decreto Legislativo 20 ottobre 1998, n. 368, con il quale è stato istituito il Ministero per i beni e le attività culturali, ed è stato contestualmente soppresso il vecchio Ministero per i beni culturali e ambientali. Anzitutto, l’articolo 7 del decreto prevede l’istituzione della Soprintendenza regionale per i beni e le attività culturali, retta dal Soprintendente regionale, le cui funzioni sono disciplinate, oltre che dal medesimo decreto, dal regolamento approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 2000, n. 441. Il Soprintendente regionale ha il compito di coordinare l’attività delle Soprintendenze di settore. Accanto a tale compito, l’ordinamento attribuisce al Soprintendente regionale una serie di funzioni in materia di tutela dei beni culturali ed ambientali, il cui esercizio si esplica attraverso l’emanazione di veri e propri provvedimenti. Infatti gli è conferito, fra l’altro, il potere di dichiarare “ l’interesse particolarmente importante” dei “ beni culturali” descritti dall’articolo 2 del Testo Unico approvato con il Decreto Legislativo n. 490/1999, su proposta dei Soprintendenti di settore, a norma degli articoli 6 e 7 del medesimo Testo Unico. Inoltre, con decreto del Direttore generale per i beni architettonici e il paesaggio del Ministero per i beni e le attività culturali dell’8 giugno 2001, è stata delegata ai Soprintendenti regionali l’imposizione delle prescrizioni di tutela indiretta sui beni culturali contemplate dall’articolo 49 del Decreto Legislativo n. 490/1999, ovverosia di tutte quelle “ norme” , quali distanze, misure ed altre, rivolte a prevenire la messa in pericolo dell’integrità dei beni culturali. Per ciò che attiene ai beni ambientali, il Soprintendente regionale, anzitutto, può integrare gli elenchi delle bellezze naturali approvati dalle Regioni, ai sensi dell’articolo 144 del Testo Unico n. 490/1999. Particolarmente importante è poi il potere del Soprintendente regionale di esprimersi sui ricorsi proposti dagli interessati contro i provvedimenti di annullament o delle aut orizzazioni paesaggist iche di cui all’articolo 151 del Testo Unico, emanati dal Soprint endent e per i beni archit et t onici e il paesaggio a norma dell’articolo 14.3, seconda parte, del D.P.R. n. 441/2000. Si tratta della decisione su un ricorso amministrativo ri-
conducibile alla categoria dei ricorsi gerarchici, disciplinati dal Decreto del Presidente della Repubblica 24 novembre 1971, n. 1199, sul quale vale la pena di fornire qualche breve indicazione. Il ricorso deve essere proposto entro il termine perentorio di trenta giorni dalla notificazione o dalla comunicazione in via amministrativa del provvedimento di annullamento o comunque da quando l’interessato ne abbia avuto piena conoscenza, mediante consegna diretta, o attraverso notificazione a mezzo di ufficiale giudiziario, oppure ancora mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento. In quest’ultimo caso, ai fini del rispetto del termine di trenta giorni, si fa riferimento alla data di spedizione. Con il ricorso o con separata istanza da presentare nelle medesime forme del ricorso può essere chiesta, per gravi motivi, la sospensione dell’esecuzione del provvedimento di cui è stato chiesto l’annullamento. Il ricorso deve sempre essere sottoscritto dalla parte personalmente, e non è comunque necessario che questa sia assistita da un avvocato. La decisione con cui il ricorso viene accolto o respinto deve essere motivata. In caso di rigetto del ricorso gerarchico, può essere impugnato il provvedimento di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica entro il termine ordinario prescritto dalla legge, ma non può essere impugnata la decisione con la quale il Soprintendente abbia respinto il ricorso presentato in via amministrativa. Qualora la decisione sul ricorso non sia comunicata entro novanta giorni dalla sua presentazione, l’interessato, entro i successivi sessanta giorni, può proporre ricorso al T.A.R., o, in alternativa, entro i successivi centoventi giorni, ricorso straordinario al Capo dello Stato, contro il provvedimento di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica. Dunque la Soprintendenza regionale per i beni e le attività culturali, organo di nuova istituzione, è titolare di una serie di compiti eterogenei. Non per questo, tuttavia, può ritenersi che si sia ridotta l’importanza delle Soprintendenze deputate alla gestione delle specifiche categorie di beni culturali e dei beni ambientali, che continuano a svolgere un rilevante ruolo nell’ambito della gestione di tali beni e del controllo delle attività che li riguardano. Le Soprintendenze di settore che interessano ai nostri fini sono oggi denominate (a norma del citato D.P.R. n. 441/2000) Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio, Soprintendenza per i beni archeologici e Soprintendenza per il patrimonio artistico, storico e demoetnoantropologico. È opportuno rammentare preliminarmente che, ai sensi dell’articolo 23 del Decreto Legislativo n. 490/1999, chiunque intenda effettuare opere rivolte a demolire o modificare beni assoggettati a vincolo storico-artistico
Marco Gelmetti
L’annullamento dell’Autorizzazione Paesaggistica Fra i tanti compiti che la legge assegna alle Soprintendenze per i beni architettonici e per il paesaggio, vi è anche quello di controllare la legittimità delle autorizzazioni paesaggistiche rilasciate dalle Regioni e dagli enti subdelegati. In proposito l’articolo 151.4 del Decreto Legislativo 29 ottobre 1999 n. 490, riproducendo in pratica l’articolo 1 della Legge 8 agosto 1985 n. 431, stabilisce in maniera molto sintetica che gli enti competenti “ danno immediata comunicazione delle autorizzazioni rilasciate alla competente soprintendenza, trasmettendo contestualmente la relativa documentazione. Il Ministero può in ogni caso annullare, con provvedimento motivato, l’autorizzazione regionale entro i sessanta giorni successivi alla ricezione della relativa comunicazione” . La materia è stata oggetto di numerosissime pronunce della magistratura, la quale è stata ripetutamente chiamata a pronunciarsi su svariate questioni lasciate aperte dalla stringatissima disposizione di legge. Due di tali questioni appaiono di particolare interesse per gli addetti ai lavori in generale, e per gli architetti in particolare. La prima può essere così sintetizzata: l’autorizzazione paesaggistica, una volta rilasciata, è immediatamente efficace (e quindi i lavori con essa assentiti possono essere avviati subito), oppure diventa efficace solo dopo la scadenza del termine di sessanta giorni previsto per il suo eventuale annullamento (e quindi per iniziare i lavori bisogna attendere che detto termine sia scaduto, sperando ovviamente che nel frattempo non intervenga una provvedimento di annullamento)? Va subito detto che in proposito la giurisprudenza si è per il momento assestata su due posizioni contrastanti. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 437 del 25 ottobre 2000, al fine di valutare se sia necessario che il competente organo statale comunichi alla Regione l’avvio del procedimento di annullamento delle autorizzazioni paesaggistiche da questa rilasciate, ha affermato che “ la semplice comunicazione (...) può consentire alla Regione (...) di informare il soggetto titolare della stessa autorizzazione (rilasciata dalla medesima Regione, con conseguenti eventuali responsabilità) dei rischi di iniziare o proseguire i lavori oggetto di autorizzazione regionale, efficace ed operante pure in pendenza del termine per l’annullamento” : secondo questa interpretazione, dunque, l’autorizzazione paesaggistica è immediatamente efficace, e quindi non è necessario attendere lo spirare del termine di sessanta giorni per iniziare i relativi lavori. Su un versante diametralmente opposto si è invece attestata l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato la quale, con sentenza n. 9 del 14 dicembre 2001, ha invece affermato quanto segue: “ qualora la Regione (o l’autorità subdelegata) accolga la domanda di autorizzazione paesistica, (...) la legge dispone la prosecuzione del procedimento: va attivata una sua ulteriore fase necessaria e non autonoma (...) nella quale il Ministero può annullare l’autorizzazione paesistica entro il prescritto termine di sessanta giorni (...). Entro il termine perentorio sancito dalla legge, il Ministero può pronunciarsi re adhuc integra quando ancora non è consentita la mutazione dello stato dei luoghi (...) perché non avrebbe avuto senso attribuirgli il potere di annul-
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è obbligato a sottoporre i relativi progetti alla competente Soprintendenza, per ottenerne l’approvazione. Per individuare quale sia la Soprintendenza di settore competente all’approvazione del progetto in relazione al tipo di bene vincolato cui esso si riferisce, occorre fare riferimento alla tabella “ a” allegata al regolamento approvato con il Decreto del Ministro per i beni culturali e ambientali 13 giugno 1994 n. 495 e successive modifiche. Secondo quanto stabilito in tale tabella, l’approvazione dei progetti che riguardano i beni archeologici, sia immobili sia mobili, compete alla Soprintendenza ai beni archeologici, mentre la Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio è titolare del potere di approvare i progetti relativi, in genere, agli altri beni immobili vincolati. Alle Soprintendenze per il patrimonio artistico, storico e demoetnoantropologico spetta l’approvazione dei progetti di opere da eseguire su beni vincolati mobili. Ciò significa che se un bene immobile forma oggetto di dichiarazione di “ interesse particolarmente importante” , a norma degli articoli 6 e seguenti del Testo Unico, per la sua rilevanza artistica, storica o culturale in genere, le opere ad esso relative devono preventivamente essere assentite dalla Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio; se, invece, la suddetta dichiarazione è dovuta a ragioni di specifico interesse archeologico (cioè attinenti alla paleontologia, alla preistoria ed alle antiche civiltà), l’approvazione dei progetti dei lavori riguardanti il bene spetta alla Soprintendenza per i beni archeologici. Per individuare il tipo di vincolo imposto su un immobile qualificato come bene culturale, e dunque la Soprintendenza competente ad approvare i progetti relativi, occorre dunque fare riferimento al provvedimento dichiarativo dell’“ interesse particolarmente importante” del bene ed alle ragioni giustificative di tale interesse indicate dal provvedimento medesimo. Quanto alle opere che interessano i beni ambientali, a norma dell’articolo 151 del Testo Unico, il rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche spetta ordinariamente alle Regioni, o agli enti da queste subdelegati. In Lombardia questa funzione è stata delegata ai Comuni e ad altri enti locali in forza della Legge Regionale 9 giugno 1997, n. 18. Alla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici spetta, invece, il potere di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica cui si è precedentemente accennato. Può essere opportuno segnalare, infine, che la competenza territoriale delle Soprintendenze di settore è individuata nei decreti del Ministro per i beni e le attività culturali istitutivi delle medesime Soprintendenze. Nella Regione Lombardia, secondo quanto stabilito dal D.M. 31 gennaio 2002, sono state istituite: la Soprintendenza per i beni archeologici e per il paesaggio di Milano, competente per le province di Milano, Bergamo, Como, Pavia, Sondrio, Lecco, Lodi e Varese, e quella di Brescia, per le province di Brescia, Cremona e Mantova; la Soprintendenza per i beni archeologici per la Lombardia, con sede a Milano; la Soprintendenza per il patrimonio storico, artistico e demoetnoantropologico per le province di Milano, Bergamo, Como, Pavia, Sondrio, Lecco, Lodi e Varese, con sede a Milano, e quella per le province di Brescia, Cremona e Mantova, con sede a Mantova.
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lare l’autorizzazione, quando già i luoghi fossero stati modificati (...). Infatti (...) l’ordinamento consente la modifica dei luoghi (...) quando il Ministero con un atto espresso ritenga di non annullare l’autorizzazione paesistica, ovvero lasci decorrere il termine di sessanta giorni senza disporne l’annullamento (...) L’autorità che ha emesso l’autorizzazione deve in tal caso prendere atto del perfezionamento della fattispecie legale costitutiva dei suoi effetti e deve comunicare la circostanza all’originario richiedente, affinché possano cominciare i lavori (ove non siano richiesti altri titoli abilitativi) e siano svolte le dovute attività di vigilanza” : stando a questa seconda tesi, pertanto, il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica non è altro che la prima fase di un procedimento più complesso che si conclude solo con lo spirare del termine di sessanta giorni fissato per l’eventuale annullamento dell’autorizzazione stessa, e pertanto i relativi lavori non possono essere iniziati prima che detto termine sia scaduto. Vista l’autorevolezza dei due giudici, a chi prestare ascolto? Considerate le gravissime conseguenze (sia penali che amministrative) che potrebbero derivare dall’esecuzione di lavori assentiti con un’autorizzazione paesaggistica non ancora efficace, e che poi potrebbe addirittura essere annullata, la cautela è davvero d’obbligo! La seconda questione è legata agli adempimenti procedurali che devono essere effettuati, nel caso in cui le Soprintendenze decidano di annullare le autorizzazioni paesaggistiche rilasciate dalle Regioni o dagli enti subdelegati: ci si chiede in particolare se in tal caso ai titolari delle autorizzazioni paesaggistiche debba essere comunicato l’avvio del relativo procedimento, così come stabilisce per la generalità dei provvedimenti amministrativi l’articolo 7 della Legge 7 agosto 1990 n. 241, oppure no. Anche su questo tema, per lungo tempo, la giurisprudenza si è mostrata divisa. Da un lato, infatti, è stato affermato che “ il procedimento per l’eventuale rilascio dell’autorizzazione (...) è procedimento unico, ha inizio con l’istanza dell’interessato e si conclude con la determinazione esplicita dell’autorità statale o con lo spirare del termine di sessanta giorni” fissato per l’eventuale annullamento dell’autorizzazione stessa, per cui “ va escluso che ai destinatari del nulla osta debba darsi avviso del relativo procedimento davanti all’autorità statale, della cui necessità essi sono già a conoscenza nel momento in cui presentano la domanda di autorizzazione paesaggistica” , e pertanto “ gli interessati, una volta resi edotti del rilascio del nulla osta, sono già in grado di presentare eventuali deduzioni all’autorità statale, ovvero di chiedere alla medesima autorità di partecipare altrimenti al procedimento” (Consiglio di Stato, Sezione VI, 1° dicembre 1999 n. 2057). D’altro lato è stato invece sostenuto che le due fasi in cui si articola il procedimento relativo all’autorizzazione paesaggistica, “ sebbene connesse, hanno una tale diversità sotto il profilo dei soggetti competenti che gli elementi relativi alla prima fase, conosciuti dal privato, sono del tutto diversi da quelli inerenti la seconda fase, destinata a svolgersi presso uffici statali e che non è dovuta all’iniziativa dell’interessato, che è solo edotto della sua eventualità (...). Il destinatario del provvedimento di autorizzazione paesaggistica, infatti, non conosce quale sia l’ufficio, che procede al controllo di legittimità dell’autorizzazione e non ha quindi la possibilità né di prendere visione degli atti, né di presentare memorie ed osservazioni” .
A quest’ultimo riguardo, infatti, “ anche nell’esame di legittimità del provvedimento di autorizzazione l’apporto del privato, tramite memorie, osservazioni o documenti, può essere particolarmente utile, soprattutto se si tiene conto che la Soprintendenza può annullare l’autorizzazione paesaggistica anche per il vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti o per sviamento in caso di una valutazione di compatibilità ambientale, che si traduca in un’oggettiva deroga al vincolo esistente (…). Appare, quindi, chiaro che, pur trattandosi di una verifica di sola legittimità, il privato può certamente apportare elementi utili ai fini della valutazione dell’eventuale travisamento dei fatti o sviamento, presenti nel provvedimento di autorizzazione” (Consiglio di Stato, Sezione VI, 14 gennaio 2003 n. 119). In realtà la questione sembrava normativamente risolta grazie al Decreto del Ministro per i beni culturali e ambientali 13 giugno 1994 n. 495, il quale ha dettato disposizioni relative a tutti i procedimenti di competenza del Ministero elencati nella tabella “ a” allegata al decreto stesso, tabella che al numero 4 menziona espressamente anche il procedimento di “ annullamento autorizzazioni paesistiche” . L’articolo 4 del decreto stabiliva infatti espressamente, al primo comma, che per tali procedimenti, “ salvo che non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità, il responsabile del procedimento dà comunicazione dell’inizio del procedimento stesso ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti, (...) nonché ai soggetti, individuati o facilmente individuabili, cui dal provvedimento possa derivare un pregiudizio” . Successivamente, però, l’articolo in esame è stato integrato con il comma 1-bis, introdotto dall’articolo 2 del Decreto Ministeriale 19 giugno 2002 n. 165, il quale ha stabilito che “ la comunicazione prevista dal comma 1 non è dovuta per i procedimenti avviati ad istanza di parte, ed in particolare per quelli disciplinati dagli articoli (...) 151 (...) del Decreto Legislativo 29 ottobre 1999 n. 490, anche quando l’istanza è stata previamente valutata da una diversa amministrazione, in applicazione di norme di legge o di regolamento. È comunque fatta salva la possibilità per l’istante di presentare memorie o documenti” . Alla luce di quest’ultima disposizione, pertanto, si dovrebbe concludere che allo Stato, anche quando la Soprintendenza intenda annullare un’autorizzazione paesaggistica, non sia necessario che l’avvio del relativo procedimento venga comunicato al titolare dell’autorizzazione stessa. Resta peraltro da vedere se la Magistratura amministrativa riterrà che l’articolo 2 del Decreto n. 165/2002 sia conforme al principio sancito dall’articolo 7 della legge n. 241/1990 (così come interpretato da una parte della giurisprudenza), oppure lo annullerà per contrasto con tale norma di legge. Nell’attesa di un chiarimento al riguardo sarà comunque utile che il progettista dell’opera, una volta acquisita l’autorizzazione paesaggistica, esperisca tutte le verifiche del caso presso la competente Soprintendenza, acquisisca in nominativo del responsabile del procedimento, ed ove necessario fornisca tutte le delucidazioni utili per evitare, nei limiti del possibile, un provvedimento di annullamento. W. F.
Organizzazione professionale a cura di Ilario Boniello
1. I tipi di concorso di progettazione I concorsi possono essere distinti anzitutto a seconda del tipo dei soggetti in campo. Sotto questo profilo il concorso di progettazione può essere bandito da un privato o da una pubblica amministrazione; può essere aperto ad un numero determinato o al contrario indeterminato di interessati; e può in particolare esserlo soltanto ai cittadini italiani, o a tutti i ressortissants comunitari o anche a nazionali di altri Stati. E qui segnalo che in questo lavoro non mi occuperò dei concorsi banditi da privati. I concorsi di progettazione possono inoltre essere distinti a seconda che siano riconducibili allo schema della promessa al pubblico o a quello dell’offerta al pubblico. Il concorso può essere organizzato anzitutto come promessa al pubblico ex art. 1989 c.c., secondo cui “ colui che, rivolgendosi al pubblico, promette una prestazione a favore di chi si trovi in una determinata situazione o compia una determinata azione, è vincolato dalla promessa non appena questa è resa pubblica” . Il concorso di progettazione può essere inoltre organizzato secondo il diverso schema dell’offerta al pubblico ex art. 1336 c.c., secondo cui “ l’offerta al pubblico quando contiene gli estremi essenziali del contratto alla cui conclusione è diretta, vale come proposta” di contratto. L’applicazione di questo schema ai concorsi di progettazione comporta in particolare una proposta indirizzata “ al pubblico” ; un procedimento di scelta tra le diverse accettazioni della proposta formulate dai possibili interessati; ed una conclusione del contratto con l’accettante prescelto. E questo schema di concorso di progettazione mi pare sia quello tipico dei concorsi di progettazione di opere di architettura banditi dagli enti pubblici italiani. Nell’ipotesi della promessa al pubblico tutti i diritti d’autore sul progetto restano tipicamente al progettista: mentre in quella dell’offerta al pubblico i diritti patrimoniali d’autore possono passare dal progettista all’organizzatore del concorso. Ed in questa relazione mi occuperò soltanto del concorso di progettazione bandito secondo lo schema dell’offerta al pubblico. I concorsi qui considerati possono infine essere distinti secondo il tipo di attività del “ progettista” : e così possono essere concorsi di idee o piuttosto di progettazione preliminare, o definitiva, o esecutiva; possono riguardare più di una di queste progettazioni; e possono prevedere alcune fasi di progettazione e ad un tempo l’appalto dei lavori di esecuzione del progetto vincitore. 2. I tipi di opere progettate e di diritti che interessano all’Amministrazione La disciplina dei diritti d’autore esprime un diritto primario ed un diritto secondario d’autore. Il diritto primario è costituito dal-
l’insieme delle norme che riguardano la definizione dei soggetti cui il diritto appartiene originariamente e ad un tempo la disciplina di opere protette, requisiti per la loro tutela, contenuto dei diritti d’autore, durata dei medesimi ed utilizzazioni libere dell’opera: mentre il diritto secondario d’autore disciplina la circolazione dei diritti d’autore. Questa relazione postula naturalmente il diritto primario d’autore ma riguarda principalmente il diritto secondario d’autore: e precisamente vuole verificare a chi appartengano i diritti d’autore relativi a progetti presentati ad uno dei concorsi di progettazione qui considerati. I concorsi di progettazione propongono/chiedono agli interessati di presentare progetti. I concorsi vedono con ciò in campo alcuni tipi di opere. Nei concorsi non di idee i partecipanti creano un progetto di opera di architettura; ne redigono sempre un progetto bidimensionale; alle volte possono predisporne un modello tridimensionale; alle volte (ma in Italia raramente) possono consegnare agli organizzatori “ un’animazione” del progetto riprodotta su CD Rom. Oltre a ciò i concorrenti sono spesso chiamati a predisporre relazioni, disciplinari, capitolati e listini/computi. Tutte le opere ora dette possono essere protette dal diritto d’autore italiano (ove ne abbiano i requisiti necessari di novità e di creatività), e debbono essere ricondotte a categorie diverse di opere dell’ingegno: in quanto il progetto appartiene alla categoria de “ i disegni e le opere dell’architettura” ex art. 2 n. 5; mentre la “ animazione” del progetto può talvolta integrare anche un’opera cinematografica ex art. 2 n. 6 o un’opera multimediale (se accompagnata da un sottofondo musicale); e le relazioni, i capitolati ed i listini sono riconducibili alla categoria delle “ opere letterarie” e “ scientifiche” ex art. 2 n. 1 l.a. Nei concorsi di idee i partecipanti espongono le proprie idee presentando normalmente un disegno o una relazione o entrambi. Disegno e relazione sono certo protetti come opere dell’ingegno. È da chiedersi invece se ed in che misura sia protetta anche l’idea presentata al concorso. Sotto questo profilo l’art. 57.6 Dpr 554/1999 dispone che “ l’idea premiata è acquisita in proprietà dalla stazione appaltante e, previa eventuale definizione dei soli aspetti tecnici, può essere posta a base di gara di un concorso di progettazione ovvero di un appalto di servizi (...) e alla relativa procedura è ammesso a partecipare il vincitore del premio qualora in possesso dei relativi requisiti soggettivi” . E dal canto suo l’art. 3.1 delle Linee guida della Consulta lombarda degli ordini degli architetti ritiene che il concorso di idee “ di norma non produce incarico professionale anche se va tutelata l’idea e coinvolto il progettista vincitore in caso di utilizzo futuro anche parziale delle proposte da questo formulate” . Ora nel diritto italiano le idee possono normalmente circolare liberamente ed essere “ appropriate” da chiunque
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Concorsi di progettazione e diritti d’autore *
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ne abbia interesse: quando e nei limiti in cui non siano protette da uno dei diritti esclusivi rientranti nel numero chiuso dei diritti di proprietà intellettuale. Occorre allora chiedersi se e quali di questi diritti possano proteggere le idee presentate ad un concorso di architettura. Qui mi pare che alcune di queste idee possano essere costituite da segni distintivi (ad esempio relativi alla grafica o a loghi di nuove iniziative della pubblica amministrazione), o da invenzioni (ad esempio per la costruzione di un ponte), o da forme riconducibili al design (ad esempio per una computer grafic). Queste idee possono essere protette dai diritti esclusivi relativi a marchi, brevetti, design. Il concorso di idee può naturalmente stimolare la messa a punto di queste idee. Ma nella pratica dei concorsi di idee relativi al mondo dell’architettura mi pare che queste idee abbiano un rilievo circoscritto. A questo punto occorre chiedersi se l’idea vincitrice di un concorso possa essere protetta dal diritto d’autore. Qui l’opinione tradizionale ritiene che il diritto d’autore protegge esclusivamente le forme esterna ed interna ma non anche il contenuto dell’opera. Negli ultimi anni mi sembra tuttavia delinearsi un trend favorevole a proteggere in qualche misura anche alcune idee con la tecnica del diritto d’autore. In questo senso mi pare emblematica la vicenda delle idee elaborate. E questa protezione potrebbe ragionevolmente estendersi anche alle idee presentate ad un concorso di idee di architettura. Se ben vedo non esistono norme generali che prevedano ulteriori tecniche di protezione diretta erga omnes delle idee presentate ad un concorso. ??? In questo quadro resta da precisare il significato della regola particolare dell’art. 57.6 del Dpr 554/1999 secondo cui “ l’idea premiata è acquisita in proprietà dalla stazione appaltante” . Questa regola riguarda anzitutto alcuni oggetti definiti sinteticamente con il termine “ proprietà dell’idea” . Questo termine può anzitutto alludere ai possibili diritti di proprietà intellettuale relativi all’idea. Mi pare tuttavia ragionevole interpretarlo estensivamente come relativo ad ogni diritto di proprietà intellettuale su tutto quanto presentato al concorso di idee: e dunque anche ai diritti d’autore sui disegni e sui testi presentati dal vincitore. Non mi pare invece che l’art. 57.6 possa valere come regola sufficiente a costituire un nuovo diritto esclusivo, capace di proteggere erga omnes l’idea in termini ulteriori e più ampi di quelli possibili sulla base dei diritti esclusivi industrialistici classici. In relazione agli oggetti così definiti l’art. 57.6 introduce poi una regola relativa all’appartenenza dei diritti in campo: precisando che i diritti eventualmente relativi alle idee presentate al concorso appartengono alla stazione appaltante, e soggiungendo che il progettista non ha diritto e l’Amministrazione non è obbligata ad affidargli la progettazione ulteriore (preliminare, definitiva ed esecutiva) dell’idea. In relazione alle diverse opere protette ora ricordate il diritto italiano d’autore prevede diritti morali e diritti patrimoniali. Secondo l’art. 12 l.a. l’autore ha un “ diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo, originale o derivato” . Questo diritto esclusivo generale comprende una serie di facoltà particolari reciprocamente indipendenti ex art. 19 l.a.. Secondo il diritto primario d’autore i diritti morali e patrimoniali in campo appartengono in via originaria al progettista persona fisica. Questo lavoro vuole verificare se e quali diritti patrimoniali vengano acquisiti dall’Amministrazione che ha bandito il concorso. E la pratica italiana suggerisce che sotto questo profilo vengono in questione specialmente (se non addirittura soltanto) alcune facoltà patrimoniali che conviene qui ricordare.
• a) Un primo diritto patrimoniale in campo è quello di riproduzione dell’opera. Anzitutto i diversi documenti che compongono il progetto debbono essere riprodotti per gli archivi della stazione appaltante, per i membri della giuria, per la possibile mostra dei progetti presentati al concorso, per la predisposizione del manoscritto di un catalogo (del concorso, della mostra dei suoi risultati o di entrambi), e per la stampa di questo catalogo. In secondo luogo il passaggio dal progetto alla costruzione che lo realizza integra sempre (quantomeno anche) una riproduzione del progetto. E d’altro canto il progetto può riguardare un’opera tipicamente destinata ad essere realizzata in esemplare unico (come ad esempio il restauro della Scala secondo il progetto di Botta) o suscettibile invece di essere riprodotta in serie (come ad esempio un progetto di case popolari). • b) Un secondo diritto che l’Amministrazione ha tipicamente interesse ad acquisire è il diritto di elaborazione: e riguarda le diverse elaborazioni che vanno dall’idea al progetto preliminare, a quello definitivo, a quello esecutivo. • c) Un terzo diritto è quello di esposizione del progetto. • d) Un quarto diritto è quello di diffusione del progetto: ad esempio con la pubblicazione dei progetti presentati al concorso su un sito on line. 3. Il modello contrattuale di riferimento Già si è detto che i concorsi di progettazione qui considerati sono riconducibili allo schema dell’offerta al pubblico ex art. 1336 c.c.. L’offerta al pubblico/bando di concorso prevede prestazioni corrispettive. Da una parte il progettista esegue una prestazione di progettazione e “ attribuisce” alcuni diritti d’autore all’Amministrazione che bandisce il concorso. Dall’altra parte l’Amministrazione attribuisce al progettista quantomeno un premio e talvolta anche ulteriori vantaggi economici. E ciò qualifica il contratto proposto al pubblico ex art. 1336 come un contratto a prestazioni corrispettive. Nel caso più semplice il concorso di progettazione è riconducibile all’archetipo del contratto d’opera ex art. 2222 c.c.. Se il progetto riguarda una progettazione riservata agli appartenenti ad albi professionali (e così in particolare agli architetti o agli ingegneri) e ad un tempo è realizzato da un professionista individuale, il contratto sarà riconducibile alla sottocategoria dei contratti d’opera intellettuale ex art. 2229 c.c.. Se invece il progetto riguarda una progettazione eseguita da imprese (nei limiti consentiti dagli ordinamenti professionali) il contratto dovrà essere ricondotto allo schema dell’appalto ex art. 1655 c.c.. E questa classificazione del rapporto contrattuale tra banditore e progettista non è esclusa dalla circostanza che il contratto offerto al pubblico comporti tipicamente anche l’attribuzione al banditore di diritti d’autore: per le medesime ragioni per cui l’esperienza centenaria delle arti figurative e del relativo diritto d’autore ha previsto la conclusione di contratti di commissione di dipinti/ritratti d’autore, in cui il committente acquista tipicamente la proprietà dell’esemplare fisico del ritratto e ad un tempo la titolarità di alcuni diritti d’autore relativi al medesimo ritratto. 4. Le regole di appartenenza Il concorso di progettazione vede come sempre vincitori e vinti. L’amministrazione non acquista naturalmente alcun diritto di proprietà intellettuale sui progetti che non hanno vinto il concorso. Quanto al progetto vincitore, il progettista
rigi il 27 novembre 1978. Le sue regole relative a copyright and right of ownership (artt. 29-32) e ad exhibition of entries e return of designs (artt. 48-51) introducono varie clausole di appartenenza dei diritti patrimoniali d’autore fortemente favorevoli agli interessi dei progettisti. Queste regole non sono tuttavia vincolanti per gli Stati e non sono state sin qui recepite da regole successive di diritto statale italiano. • b) Un secondo gruppo di regole di soft law è contenuto nei “ bandi tipo” di concorsi di architettura “ approvati dal Consiglio nazionale architetti in data 6-7 luglio 1989, dall’Assemblea dei presidenti degli Ordini provinciali degli architetti il 19 luglio 1989” . Anche questi bandi tipo contengono regole di appartenenza dei diritti d’autore fortemente favorevoli ai professionisti. Anche questi bandi tipo non sono tuttavia vincolanti per l’Amministrazione: mentre la verifica del loro carattere vincolante per gli architetti richiederebbe un discorso più ampio da cui mi esimo per il momento. • c) Un terzo gruppo di regole è dato dalle linee guida per la redazione di bandi formulate dalla Consulta regionale lombarda degli ordini degli architetti. Anche queste regole non sono vincolanti per l’amministrazione e non si propongono di esserlo nemmeno nei confronti dei professionisti. • d) La raccomandazione dell’Unesco ha naturalmente influenzato i bandi tipo del C.N.A.. Tutte le fonti di soft law ora ricordate sono state inoltre influenzate ed hanno a loro volta influito sulla prassi italiana dei concorsi di progettazione. Le tre fonti ed i diversi bandi di concorso che ho potuto sin qui esaminare segnalano in particolare che l’Amministrazione si riserva ed acquisisce sempre i diritti d’autore relativi all’esposizione ed alla pubblicazione di un catalogo del concorso, e talvolta anche quelli relativi alla pubblicazione on line. E di questa circostanza occorre naturalmente tener conto nella determinazione dello scopo tipico del contratto risultante dal bando di concorso e dalla determinazione del suo vincitore. I singoli bandi di concorso possono contenere clausole di appartenenza dei diritti patrimoniali d’autore diverse da quelle ora ricordate del diritto statale e della soft law. Luigi Carlo Ubertazzi Professore ordinario di Diritto Industriale, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Pavia
* Depurato dalle parole di cortesia questo testo costituisce ed ha mantenuto il carattere prevalentemente informativo di una (parte di) relazione tenuta al seminario di studi su “ Il diritto d’autore e i progettisti” organizzato a Lugano il 26 novembre 2002 da SUPSI - Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana, SIA - Società Svizzera degli ingegneri e degli architetti, AIPPI Gruppo Svizzera ed AIPPI Gruppo Italia, DCT - Dipartimento Costruzione Territorio.
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è titolare originario di diritti morali e di diritti patrimoniali. I primi sono normalmente indisponibili e restano all’autore. I secondi possono invece essere trasferiti dall’autore a terzi. Qui occorre allora verificare se e quali diritti patrimoniali siano trasferiti dal progettista vincitore all’Amministrazione. Qui sono in campo anzitutto da alcune norme statali. • a) Una prima regola è quella generale, non scritta esplicitamente ma ricavabile dall’intero sistema, secondo cui il committente acquista tutti i diritti patrimoniali che gli occorrono secondo lo scopo del contratto. • b) Una seconda regola statale di appartenenza è costituita dall’art. 11 dell’allegato A della Legge 143/1949, secondo cui “ malgrado l’avvenuto pagamento della specifica e salvi gli eventuali accordi speciali tra le parti per la proprietà dei lavori originali, dei disegni, dei progetti e di quanto altro rappresenta l’opera dell’ingegnere e dell’architetto, restano sempre riservati a questi ultimi i diritti di autore conformemente alle leggi. (...) La tariffa non riguarda i particolari compensi per diritti di proprietà intellettuale del professionista per brevetti, concessioni ottenute in proprio e simili, che debbono liquidarsi a parte caso per caso, con accordi diretti con il cliente. (...) La tutela della fedele esecuzione artistica e tecnica di progetti approvati dal committente e il loro sviluppo nella esecuzione, spetta esclusivamente al progettista” . L’art. 11 della tariffa professionale, che non è esemplare per chiarezza e precisione tecnica, introduce due regole di appartenenza che possono essere applicate anche ai concorsi di progettazione. Anzitutto il diritto di elaborazione del progetto vincitore è riservato dall’art. 11 co.3 al progettista e reciprocamente non è acquistato dall’Amministrazione. In secondo luogo “ una normale prestazione di progettazione comporta a favore del committente l’autorizzazione a realizzare un solo esemplare dell’opera commissionata” (Ferrari): e così ad esempio il concorso di progettazione di un immobile di edilizia popolare previsto su un certo terreno non consente all’Amministrazione di costruire il medesimo immobile su altri terreni di sua proprietà. L’appartenenza dei diritti patrimoniali d’autore diversi da quelli di riproduzione e di elaborazione resta poi disciplinata dalla regola generale della Zweckübertragung. • c) Una terza regola statale di appartenenza è quella già vista dell’art. 57.6 Dpr 554/1999, che attribuisce all’amministrazione la titolarità di tutti i diritti di proprietà intellettuale relativi all’idea premiata. • d) Le regole sin qui considerate della Zweckübertragung, dell’art. 11 della tariffa professionale e dell’art. 57.6 Dpr 554/1999 mi sembrano tutte derogabili: e possono essere derogate da clausole del bando di concorso di progettazione o da accordi successivi al concorso. • e) Le regole qui considerate sono tra loro in rapporto di specializzazione progressiva: in quanto la regola della Zweckübertragung è quella generale, che tuttavia è derogata dalla regola speciale dell’art. 11 della tariffa professionale, che a sua volta è derogata da quella ancor più speciale dell’art. 57.6 Dpr 554/1999. Ed in particolare l’art. 57.6 esclude l’applicazione della regola di appartenenza prevista dalla tariffa professionale per introdurre una clausola speciale sostanzialmente conforme al principio generale della Zweckübertragung. Il tema dell’appartenenza dei diritti patrimoniali d’autore sui progetti vincitori di concorsi di progettazione vede poi in campo una serie di regole di soft law di origine non statale. • a) Un primo gruppo di regole è introdotto dalla raccomandazione Unesco sui concorsi internazionali di architettura adottata dalla sua conferenza generale di Pa-
Strumenti a cura di Manuela Oglialoro e Camillo Onorato
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Leggi G.U. n. 67 del 21.3.03 – Serie generale Decreto 12 novembre 2002 Rifinanziamento al programma tetti fotovoltaici All’art.1 il presente decreto apporta nuove risorse finanziarie al primo sottoprogramma “ Tetti fotovoltaici” finalizzato alla realizzazione di impianti fotovoltaici di potenza da 1a 20 kwp collegati alla rete elettrica di distribuzione. L’art. 2 definisce i soggetti destinatari dei finanziamenti quali le Regioni e le Province autonome definite nell’allegato del presente decreto che hanno comunicato al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio la disponibilità a cofinanziare al 50% i progetti presentati da enti locali insistenti nel proprio territorio, valutati ammissibili dalla Commissione tecnica, ma esclusi dal contributo previsto al D.D. n. 99/SIAR/2000 e 106/SIAR/2001 per esaurimento fondi.
G.U. n. 87 del 14.4.03 – Serie generale Circolare 26 marzo 2003, n. 829571 Criteri di sicurezza da osservare per la corretta installazione degli scaldacqua ad accumulo di uso domest ico e similare (temperatura massima minore di 110 °C), Legge 5 marzo 1990, n. 46 L’applicazione della Legge 5 marzo 1990, n. 46, concernente la sicurezza degli impianti domestici si ottiene sia mediante la qualità dei prodotti commercializzati, sia dalla loro installazione adeguata. Gli scaldacqua ad accumulo di uso domestico e similare devono essere conformi alle normative tecniche in vigore all’atto dell’installazione ed adempiere le normative tecniche delle direttive. L’installazione di tali apparecchi alla rete idrica domestica deve avvenire tramite un gruppo di sicurezza idraulica. Sono previsti pertanto: un rubinetto di intercettazione, una valvola di ritegno, un dispositivo di controllo, una valvola di sicurezza, un dispositivo di interruzione di carico idraulico, tutti accessori necessari ai fini dell’esercizio in sicurezza degli scaldacqua medesimi.
G.U. n. 95 del 24.4.03 – Serie generale Regolamento recante norme per la ripartizione del fondo di cui al comma 1 dell’art 18 della Legge 11 febbraio 1994, n. 109, e successive modificazioni e integrazioni Il Ministro della difesa adotta il seguente regolamento: L’art 1 stabilisce che responsabile del procedimento o responsabili dei procedimenti sono gli ufficiali del genio civile nominati ai sensi della Legge 7 agosto 1990, n. 241 e successive modificazioni. Il responsabile del procedimento della fase di affidamento può essere un ufficiale, un dirigente o un funzionario civile appartenente alla carriera direttiva amministrativa. I responsabili del procedimento per la fase di progettazione e di esecuzione sono anche responsabili dei lavori; coordinatori per la sicurezza, i soggetti nominati dal responsabile del procedimento ai sensi del decreto legislativo 14 agosto 1996, n. 494; progettisti, i soggetti nominati dal responsabile del procedimento, appartenenti ai ruoli tecnici ed in possesso del titolo di studio adeguato; direttore dei lavori ed assistenti, soggetti designati ai sensi dell’art. 27, comma 1, della Legge 11 febbraio 1994, n. 109, dell’art. 1 e dell’art. 56 del regio decreto 17 marzo 1932, n. 365, regolamento per lavori del genio militare; collaudatori, i soggetti nominati ai sensi dell’art. 28, comma 4 della Legge 11 febbraio n. 109 e dell’art. 81 del regio decreto 17 marzo 1932 n. 365, regolamento per i lavori del genio militare, nonché dell’art. 1 della Legge 26 giugno 1965, n. 812. L’art. 2 stabilisce la quantificazione del fondo e criteri applicativi. L’art. 3 stabilisce la ripartizione del fondo e l’art. 4 la modalità di corresponsione dei compensi.
B.U.R.L. 1° Suppl. Ordinario al n. 13 del 27 marzo 2003 Legge regionale 24 marzo 2003 – n. 3 M odifiche a leggi regionali in materia di organizzazione, sviluppo economico, territorio e servizi alla persona L’art. 1 della presente legge riguarda alcune disposizioni di carattere organizzativo apportando alcune modifiche: alla Legge regionale 31 marzo 1978, n. 34, (Norme sulle procedure della programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della Regione); alla Legge regionale 23 aprile 1985, n. 33, (Norme in materia di pubblicità degli atti regionali e riordino delle disposizioni relativa al Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia); alla Legge regionale 6 aprile 1995, n. 14, (Norme per le nomine e le designazioni di competenza della Regione); alla Legge regionale 23 luglio 1996, n. 16, (Ordinamento della struttura organizzativa e della dirigenza della giunta regionale); alla Legge regionale 8 maggio 1990 n. 33, (Istituzione dell’Agenzia di stampa e di informazione della Giunta regionale e della strutture e degli organismi per la comunicazione, l’editoria e l’immagine); alla Legge regionale 13 febbraio 1990, n. 9 (Disciplina della pubblicazioni e della iniziative di comunicazione e di informazione della Regione Lombardia); alla Legge regionale 19 maggio 1997, n. 14 (Disciplina dell’attività contrattuale della Regione, degli enti ed aziende da essa dipendenti, compresi gli enti operanti nel settore della sicurezza sociale e le aziende operanti nel settore dell’assistenza sanitaria); alla Legge regionale 28 ottobre 1996, n. 31, (Norme concernenti la disciplina del fondo per la realizzazione di progetti infrastrutturali di rilevanza regionale. Sostituzione dell’art 5 della L.R. 31 marzo 1978, n. 34). L’art. 2 tratta le disposizioni in materia di sviluppo economico. L’art. 3 tratta disposizioni in materia di territorio. L’art. 4 delle disposizioni in materia di servizi alla persona. B.U.R.L. 1° Suppl. Ordinario al n. 15 del 7 aprile 2003 Regolamento Regionale 2 aprile 2003 – n. 4 Criteri generali per l’assegnazione e la gestione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, ai sensi dell’art. 3 comma 41 lett. m) della Legge regionale 5 gennaio 2000, n. 1 e dell’art. 3 comma 10 della Legge regionale 3 aprile 2001, n. 6 All’art. 1 il presente regolamento disciplina i criteri generali per l’assegnazione e la gestione degli alloggi d’edilizia residenziale pubblica (di seguito Erp) ai sensi dell’art. 3, comma 41, lett. m) della Legge regionale 5 gennaio 2000, n. 1 e dell’art. 3, comma 10, della Legge regionale 3 aprile 2001, n. 6. Sono considerati alloggi Erp gli alloggi realizzati o recuperati da enti pubblici a totale carico o con il concorso o contributo dello Stato o della Regione, nonché quelli acquisiti a qualunque titolo, realizzati o recuperati dagli enti locali o da enti pubblici, per le finalità sociali proprie dell’Erp, ivi compresi gli alloggi realizzati o acquisiti ai sensi delle Leggi 15 febbraio 1980, n. 25, 25 marzo 1982, n. 94, 5 aprile 1985, n. 118 e 23 dicembre 1986, n. 889. Sono esclusi gli alloggi realizzati da cooperative per i propri soci; gli alloggi realizzati o recuperati con programmi di edilizia agevolata o convenzionata, purché non realizzati da enti pubblici e già utilizzati per le finalità dell’Erp; gli alloggi di proprietà di enti pubblici previdenziali, purché non realizzati o recuperati a totale carico o con il concorso o contributo dello Stato o della Regione; gli alloggi di servizio oggetto di concessione amministrativa in ragione dell’esercizio di particolari funzioni attribuite a pubblici dipendenti. Gli artt. successivi del titolo I riguardano la definizione del nucleo familiare, la determinazione della situazione economica e procedure informatiche, l’anagrafe dell’utenza e del patrimonio. Il titolo II tratta dei provvedimenti di assegnazione, dei requisiti, delle domande ed assegnazioni. Il titolo III dei provvedimenti estintivi dell’assegnazione. Il titolo IV della gestione degli alloggi. Il titolo V dispone delle norme transitorie e finali. C. O.
Ambiente Il riordino ambientale sbarca al Senato. Esame in Aula per il Ddl sui Testi unici (da “ Il Sole 24 Ore” del 25.3.03) È in discussione il progetto di Legge 1753 che delega il Governo al riordino, coordinamento e integrazione della legislazione in materia ambientale, già approvato dalla Camera dei Deputati il 2 ottobre 2002. Il progetto, esaminato dalla commissione Ambiente del Senato in sede referente, ha subìto modificazioni all’impianto originario in punti rilevanti, quali la soppressione della commissione bicamerale composta da 20 deputati e 20 senatori che avrebbe avuto il compito di esprimere pareri sulla congruità dei lavori della commissione dei 24 Saggi e sui criteri di scelta dei componenti di questa commissione che ha il compito di scrivere i Testi unici. Andrà in Aula la questione dell’estinzione dei reati a danno di beni paesaggistici e ambientali se è stata ottenuta la relativa autorizzazione in sanatoria. Quanto all’aspetto sanzionatorio occorre osservare che l’impostazione del progetto di legge delega è in aperto contrasto con disposizioni comunitarie vigenti. M atteoli insiste: “Gare per l’acqua”. Il M inistro dell’Ambiente ribadisce l’illegalità degli affidamenti diretti del servizio integrato (da “ Edilizia e Territorio” del 24-29 marzo 2003) Con una circolare inviata alle regioni, alle autorità d’ambito e alle autorità di bacino, il Ministro dell’Ambiente ha ribadito l’illegittimità degli affidamenti diretti. A suo favore il Ministro invoca la lettera di messa in mora dell’Italia da parte dell’Unione europea e gli articoli 43 e 49 del trattato sul rispetto della parità di trattamento delle imprese. “ Bruxelles - dice Matteoli ha chiaramente affermato come gli stessi affidamenti rilasciati con procedure diverse dall’evidenza pubblica, che beneficerebbero del periodo transitorio previsto dall’articolo 35, costituiscono già affidamenti illegittimi dal punto di vista comunitario” . Beni storico culturali Per Patrimonio Spa i paletti del Cipe alla vendita di beni storici e artistici (da “ Edilizia e Territorio” Norme e Documenti del 31 marzo - 5 aprile 2003) La delibera Cipe 124/2002 contiene le direttive generali cui uniformare l’attività di Patrimonio Spa, neonata società pubblica per la valorizzazione e l’alienazione dei beni dello Stato. I “ paletti ben esplicitati e dedicati alla tutela del patrimonio storico e architettonico testimoniano, evidentemente, il recepimento delle assicurazioni chieste al Capo dello Stato, anche a seguito delle accese polemiche sui rischi della possibile alienazione di questi beni esclusivi. Patrimonio Spa, si evince dalle direttive, avrà una struttura snella e opererà in stretta collaborazione con il Ministero dell’Economia. Infrastrutture Fondo progettazione, sbloccati 50miloni di Euro per infrastrutture di interesse locale. In Gazzetta il Dm che ripartisce le risorse previste dalla Finanziaria 2002 (da “ Edilizia e Territorio” Norme e Documenti del 7-12 aprile 2003) Per le infrastrutture di interesse locale sono in arrivo 50 milioni di Euro. Il decreto del ministero dell’Economia finanzia complessivamente 26 interventi. L’erogazione avverrà in un’unica soluzione a favore dell’ente richiedente, che per ottenere i fondi dovrà comunicare l’avvenuto affidamento dei lavori. I finanziamenti più consistenti, pari a 3,6 milioni di Euro, sono andati alle Province di Padova (per il collegamento Padova-Abano), Ragusa (per la riqualificazione della fascia costiera) e all’amministrazione provinciale di Roma per la ristrutturazione di Via del Mare e Via Ostiense. Gli elaborati per Pedemontana e Valtellina (da “ Edilizia e Territorio” del 24-29 marzo 2003) La Pedemontana Lombarda Spa (al 50% ciascuno tra Autostrade Spa e Milano-Serravalle Spa) concessionaria dell’opera da oltre vent’anni, ha presentato all’Anas, che lo ha già approvato “ nelle linee tecniche” , il progetto preliminare “ legge obiettivo” per l’autostrada Dalmine-Busto Arsizio. Il tracciato sarà di 74,5 km e rispetta le linee guida approvate dalla Regione Lombardia nel 2001, dopo due anni di consultazione degli enti locali. L’opera costerà 3.200 mln di Euro. Il progetto della Viabilità in Valtellina è stato elaborato nei mesi scorsi dall’Anas, con il coordinamento della Regione Lombardia e ora presentato al ministero delle Infrastrutture per il finanziamento.
Lavori pubblici Legge obiettivo alla Consulta. Udienza sui 19 ricorsi regionali (da “ Il Sole 24 Ore” del 26.3.03) Il conflitto fra Stato e Regioni su grandi infrastrutture e lavori pubblici investe la Corte Costituzionale. La Consulta, in una seduta fiume, ha affrontato i 19 ricorsi presentati da Marche, Toscana, Umbria, Emilia Romagna, Lombardia, Campania, Basilicata, dalle Province di Trento e Bolzano e dal Comune di Vercelli contro la Legge obiettivo sulle opere strategiche e i due D.Lgs di attuazione: il 190/2002 che detta le regole per la realizzazione degli interventi e il 198/2002 (il cosiddetto decreto Gasparri) sulle infrastrutture di telecomunicazione. Nel mirino delle Regioni c’è anche la Legge 166/2002 che aveva modificato la legge obiettivo al fine di sanare i contrasti con le autonomie territoriali. Forniture di materiali in cantiere, la posa in opera è subappaltabile (da“ Edilizia e Territorio” Norme e Documenti del 24-29 marzo 2003) Il quesito che l’Ansfer ha posto all’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici è se l’impresa, alla quale l’appaltatore principale ha affidato la fornitura e posa in opera di acciaio presagomato per cemento armato, possa affidare a una terza impresa la posa in opera in cantiere dei materiali. La risposta affermativa è contenuta nella determinazione numero 7/2003. Con un’unica eccezione: l’importo del contratto di fornitura e posa in opera non deve superare le soglie stabilite per l’equiparazione al subappalto di lavori (2% dell’importo complessivo dell’appalto o 100mila Euro). Le Pa devono indicare nei bandi il modo di pagamento dei subappalti (da “ Edilizia e Territorio” Norme e Documenti del 7-12 aprile 2003) Restano valide le norme sul pagamento dei subappaltatori previste dalla legislazione antimafia. L’interpretazione dell’Autorità di vigilanza è contenuta nella determinazione numero 8/2003, che risponde al quesito formulato dall’Ance sulla sussistenza delle modalità di pagamento previste dal comma 3-bis dell’articolo 18 della Legge 55/1990, introdotto dall’articolo 34 del D.Lgs 406/1991. Per il pagamento dei lavori affidati in subappalto le stazioni appaltanti hanno a disposizione due opportunità: pagare direttamente il subappaltatore a stati di avanzamento o pagare l’appaltatore, il quale però è obbligato a trasmettere alla stazione appaltante copia delle fatture entro 20 giorni dai pagamenti effettuati. Professione Agli Albi tutela supplementare. In attuazione della riforma saranno definite le “attività qualificanti” che potranno svolgere solo gli iscritti (da “ Il Sole 24 Ore del 5.4.03) Il nuovo sistema basato su Ordini e Associazioni riconosciute non deve fornire giustificazioni per incursioni improprie” che svuotino il ruolo degli Albi. Per questo il sottosegretario alla Giustizia, Michele Vietti, è deciso a mantenere ferma la preclusione al riconoscimento di professioni che fanno riferimento ad attività qualificanti tra quelle di competenza degli iscritti agli Ordini. È l’articolo 8 della bozza di riforma che assicura non solo la salvaguardia delle riserve, ma che amplia i campi di esercizio di fatto esclusivi per gli iscritti agli Ordini. I liberi professionisti vincono a Parma. Piccoli studi sempre esclusi dall’Irap (da “ Edilizia e Territorio” Norme e Documenti del 24-29 marzo 2003) L’organizzazione dell’attività professionale non costituisce requisito qualificante di un libero professionista iscritto a un ordina “ protetto” . È quanto ha stabilito la commissione tributaria regionale di Bologna accogliendo l’appello di un contribuente geometra a cui era stato negato il rimborso dell’Irap corrisposta per l’anno 1998. Secondo i giudici alcuni tipi di attività non potranno mai svolgersi senza la presenza del libero professionista abilitato e quindi la struttura organizzativa di cui egli si serve non è di per sé requisito essenziale per lo svolgimento del lavoro. Territorio Subito la nuova mappa sismica. In attesa delle carte regionali per 1883 Comuni scattano immediatamente regole più severe. (da ” Edilizia e Territorio” del 7-12 aprile 2003) Arriva, dopo vent’anni, la nuova classificazione sismica del territorio italiano. Sono complessivamente 1883 i comuni che passano a una fascia di rischio superiore e che dovranno adottare, da subito, regole progettuali più severe. Le Regioni potranno tuttavia modificare la classificazione dei comuni e decidere se imporre o meno progetti più severi nelle zone a minor rischio. Lo prevede l’ordinanza n. 3274 della Presidenza del Consigli: intanto diventa legge il DL che stanzia 450 milioni per le aree colpite dalle calamità naturali. M. O.
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Lecco V Settimana della Cultura: il romanico e le sue tracce Nell’ambito dell’iniziativa del Ministero per i Beni e le Attività Culturali per la V Settimana della Cultura, la Provincia di Lecco con il proprio assessorato alla cultura, in collaborazione con i Comuni in cui hanno sede gli edifici interessati, la Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio, la Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico e Demoetnoantropologico e con il patrocinio dell’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti, Conservatori della Provincia di Lecco, promuovono la conoscenza degli edifici e dei manufatti di età romanica presenti sul territorio. Nelle tre giornate del 13 aprile, 11 maggio e 8 giugno inviteranno a percorrere itinerari che comprendono gli episodi salienti e più significativi (primariamente i complessi di Civate e di Piona), ma anche - e soprattutto - testimonianze meno note perché situate in luoghi non facilmente accessibili o generalmente chiuse al pubblico. In questi casi, spesso, le strutture architettoniche sono ormai prive dell’aspetto originario a causa delle trasformazioni subite, ma conservano interessanti tracce dell’antica fondazione.
dea trasformata in realtà. Oggi lo si può ricordare come un evento positivo per la crescita della città. In poco tempo, il Comune acquistò l’area e si incaricò, tramite un bando, di demolire la struttura rudimentale dell’oleificio Corsi e solo un anno dopo la scuola elementare del Rione Malpensata veniva inaugurata. La scuola prevedeva
la divisione dei sessi e le aule erano progettate per accogliere 60 alunni ciascuna. Nonostante le modifiche interne e gli ampliamenti apportati nel tempo, il Liceo G. B. Grassi mantiene le caratteristiche architettoniche originarie. Carmen Inés Carabús
1° premio (Clausetti e Romano), facciata sud e planimetria.
Un edificio di matrice razionalista a Lecco Quest’anno, il Liceo scientifico G.B. Grassi di Lecco festeggia i suoi primi 50 anni. La sede insiste in un edificio costruito come scuola elementare del Rione Malpensata. Dopo un concorso d’idee per la realizzazione di due plessi scolastici nei rioni Malpensata e Pescarenico, nasce nel 1933 l’edificio di stile razionalista ma non fedele al progetto vincitore. La partecipazione al concorso, da parte degli architetti ed ingegneri, fu numerosa e questo dimostrò l’interesse suscitato dal bando emesso da parte del Comune di Lecco. La particolarità del bando riguardò uno specifico articolo nel quale si sollecitava i professionisti a sviluppare idee per un edificio scolastico moderno. La maggior parte dei progetti presentati esprimeva la notevole influenza che il Razionalismo Comasco esercitava sugli architetti dell’epoca e, quindi, una nuova era per l’architettura in Europa. Il 1° premio e la realizzazione dell’opera furono assegnati agli architetti Clausetti e Romano, che si presentarono con il motto “ ICI” ; un 2° premio andò all’ing. Prandoni e all’arch. Loneve con il motto “ libri e moschetti” . La giuria decise, fuori bando, di assegnare un terzo premio al motto “ Ariete” dell’arch. Cereghini in collaborazione con Terragni. Il concorso di progettazione fu un’i-
2° premio (Prandoni e Loneve), facciate.
3° premio (Cereghini), assonometria.
Deliberazioni della 131ª seduta di Consiglio del 7.4.2003 Domande di prima iscrizione presentate nel mese di febbraio 2003 (n. 64, di cui 44 architetti unicamente l.p. e 20 che svolgono altra professione): 13589, Aguzzi, Ilaria, 7.4.1975, Gorgonzola; 13551, Anastasi, Gianmarco, 30.7.1973, Milano; 13547, Arnaboldi, Michele, 28.8.1974, Milano; 13581, Baghdadi, Amal Hassan, 2.3.1970, Beirut; 13593, Barattini, Simona, 26.7.1969, Milano; 13598, Benicchio, Cristina, 1.10.1964, Milano; 13569, Bonaiti, Manuela, 24.10.1971, Lecco; 13571, Bonfà, Candida, 3.1.1969, Samo; 13565, Brambilla, Franco, 26.6.1973, Sest o S. Giovanni; 13602, Carmignola, Andrea, 24.1.1973, Monza; 13595, Carnevali, Davide Simone, 29.6.1971, Castellanza; 13549, Carraro, Diego, 31.7.1973, Milano; 13582, Casalino, Emanuela, 11.6.1976, Milano; 13544, Cat rini, Sergio, 15.7.1974, Milano; 13574, Cattafesta, Ganmaria, 10.3.1970, Milano; 13545, Cattoretti, Matteo, 20.4.1972, Milano; 13590, Cecatiello, Riccardo Luca (PT* ), 7.4.1977, Milano; 13568, Cesana, Danilo, 11.3.1974, Monza; 13542, Chiappella, Sara, 10.5.1974, Milano; 13572, Chiappini, Alessandra, 30.1.1973, Bologna; 13583, Chiericati, Monica, 2.1.1967, Miraflores-Lima; 13603, Cocozzello, Rocco Michele Davide, 9.5.1964, Lacedonia; 13579, Colla, David Lorenzo, 15.11.1972, Milano; 13539, Curtotti, Francesca, 10.9.1973, San Severo; 13563, D’Alessio, Valeria, 10.6.1975, San Paolo Bel Sito; 13556, D’Andolfo, Enrica, 31.1.1972, Monza; 13576, De Alessandri, Maura, 21.12.1976, Abbiategrasso; 13570, De Meo, Stefania, 18.3.1975, Milano: 13554, Di Mauro, Giorgio Sebastiano, 24.9.1970, Sorgono; 13599, Droulers, Nathalie, 23.5.1973, Milano; 13540, Fant et t i, Fernando, 22.7.1962, Milano; 13550, Fedeli, Emanuela, 4.3.1975, Milano; 13541, Frattini Frilli, Davide Riccio Libero, 18.12.1974, Milano; 13604, Galioto, Adriana, 10.10.1971, Palermo; 13578, Gesù, Raffaele, 13.5.1973, Milano; 13548, Giannini, Alessandra Francesca M., 6.9.1976, Milano; 13543, Grimi, Barbara (PT* ), 31.3.1976, Legnano; 13559, Houx, Denise Juliet t e, 13.9.1971, Deventer; 13586, La Ciura, Salvatore, 6.3.1972, Modica; 6996, Lisa, Sonia, 4.2.1966, Monza; 13561, Lissoni, Marco, 13.8.1975, Monza; 13607, Lo Tennero, Giuseppa, 20.4.1968, Palermo; 13555, Maltarolo, Eleonora, 31.8.1973, Magenta; 13580, Mancini, Emilio, 2.8.1975, Formia; 13577, Mascellani, Marco Alessandro, 31.3.1971, Milano; 13584, Medaglia, Stefano, 15.8.1970, Clusone; 13553, Moratti, Roberto Mario, 11.12.1973, Milano; 13562, Motta, Silvia, 17.8.1974, Desio;
13591, M usiani, Federica, 31.5.1972, Milano; 13588, Nava, Leonardo, 27.9.1973, M ilano; 13573, Nocet o, M assimo, 30.4.1966, Sassari; 13601, Oprandi, Leonardo, 19.10.1971, Milano; 13575, Parini, Barbara, 8.5.1971, Busto Arsizio; 13594, Pavesi, Laura, 28.3.1976, Milano; 13592, Pedrazzi, Simona, 4.5.1970, Milano; 13552, Piant oni, M onica, 18.11.1973, Monza; 13605, Popovic, Davor, 16.8.1966, Sibenik; 13567, Pozar Holjevac, Tatjana, 7.10.1960, Karlovac; 13558, Riva, Alessio, 30.8.1974, Oggiono; 13585, Rivi, Carlo, 1.9.1971, Desio; 13596, Saluzzi, Giuliana, 19.10.1975, Cernusco s. Naviglio; 13566, Savastano, Maria Giuseppa, 18.2.1966, Desio; 13546, Savoldelli, Andrea, 2.9.1967, Milano; 13600, Scilingo, St ef ano, 8.12.1971, Seregno; 13597, Tagliabue, Lavinia Chiara, 12.6.1975, Milano; 13606, Toso, Francesca, 9.1.1973, Verona; 13587, Vago, Andrea Giovanni, 5.12.1974, Carate Brianza; 13564, Valleri, Deborah, 3.8.1974, Rho; 13560, Verri, Elena, 14.2.1974, Monza; 13557, Verrino, Anna Maria, 11.1.1971, Milano; (Legenda: PT* Pianificatore Territoriale). Reiscrizione All’Albo: Sonia Lisa. Iscrizioni per trasferimento da altro Albo: Rocco Michele Davide Cocozzello da Avellino; Adriana Galioto e Giuseppa Lo Tennero da Palermo; Davor Popovic da Genova; Francesca Toso da Verona. Cancellazioni su richiesta: Simona Ascari; Antonio Didoni (* * ) Giancarlo Vimercati (* * ). Cancellazioni per decesso: Alessandro Annoni dec, il 3.3.03; Matteo Bonardi dec. il 10.3.3; Vittorio Mauri dec. il 4.3.03; Pietro Ravera dec. il 23.12.02; Elisabetta Villani dec. il 6.3.03. Cancellazione per trasferimento ad altro Albo: Laura Cazzaniga a Como (12.3.03) Rilascio n. 4 Nulla Osta per trasferimento ad altro Albo: Giovanni Bolignano a Firenze; Annalisa Romeo a Bergamo; Gianfranco Stanizzi ad Avellino; Monica Zardus a Como. Inserimento nell’Albo d’Onore: (* * ) Antonio Didoni; Giancarlo Vimercati. Cancellazione dall’Albo d’Onore per decesso: Luigi Carlo Fratino.
Offerta di stage Si informa che presso l’Ufficio Stage del Politecnico di Milano è stata presentata da parte della Consulta una offerta di stage per un posto di collaboratore alla Redazione di “ AL” . L’offerta è rivolta a laureandi e laureati (al massimo da 18 mesi). Per informazioni consultare il sito dell’Ufficio Stage del Politecnico (http://www.polimi.it/stage) oppure telefonare in Redazione.
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Ricordando Gio Ponti
Con piacere raccolgo l’invito del collega Antonino Negrini per testimoniare, in qualità di studente presso la Facoltà di Architettura (che all’epoca, anni 1946-1951, era nel Politecnico di Milano in piazza Leonardo da Vinci), il professore arch. Gio Ponti che vi reggeva le cattedre di Arredamento I ed Arredamento II. Sono stati due anni, 1947-48 e 1948-49, nei quali tra gli studenti ed il professore si era creato un rapporto particolare, per noi allievi basato sull’ammirazione verso l’architetto-maestro, pieno di esperienza e di umanità e per Gio Ponti basato sulla volontà d’insegnare ai futuri architetti, non soltanto nozioni di arredamento ma anche alcune fondamentali conoscenze (anche di comportamento) che un architetto, a suo avviso, doveva possedere per esprimersi correttamente nella società in cui operare. Traspariva dalle sue parole un costante invito alla serietà, all’onestà intellettuale ed all’impegno continuo per la ricerca, verso soluzioni ottimali dei problemi architettonici o di arredamento, verso la cultura e la bellezza, senza compromessi. È nota una sua frase “ un vero architetto anche quando disegna ha in tasca una matita” . Un altro ricordo è di quando esisteva nella nostra città il Collegio regionale
lombardo degli architetti sotto la presidenza di Gio Ponti e la vice presidenza dell’arch. Cesare Pea. Io ero revisore dei conti, era l’anno 1967 ed a causa dell’assenteismo degli iscritti e quindi delle difficoltà economiche, il Consiglio direttivo decise, con grande rammarico di Gio Ponti e dei consiglieri, d’indire un’Assemblea straordinaria, alla presenza del notaio, per deliberare la fine del Collegio regionale lombardo degli architetti. Ricordo le parole del presidente, a conclusione della sua amara relazione: “ ...ed ora invito tutti i colleghi presenti a recarsi con me presso il Collegio degli Ingegneri di Milano, per iscriverci come soci perché, non dimenticatelo, una buona realizzazione architettonica non è realizzabile se non in felice collaborazione con un ingegnere” . Presidente del Collegio degli Ingegneri di Milano era all’epoca l’ing. Antonio Fornaroli. Si auspicava già da allora la trasformazione del Collegio degli ingegneri di Milano in Collegio degli ingegneri e architetti di Milano, com’era una volta. Ciò tornò ad essere anni dopo, in parte per merito dell’invito di Gio Ponti che portò con sé Pea ed altri colleghi mentre l’arch. Renato Morganti ed io eravamo già soci del Collegio degli ingegneri, nell’anno 1953. Ma in grande parte il merito della rinnovata fusione tra ingegneri ed architetti va riconosciuta ad alcuni ingegneri, tra i quali Edoardo Bregani, Mario Casale, Vittore Ceretti, Ferdinando Passani ed altri, ch’erano favorevoli al nostro ingresso ed a quel 91% d’ingegneri le cui risposte al sondaggio effettuato tra i Soci, risposero affermativamente. Infatti nell’anno 1993 fu possibile la ricostituzione dell’attuale Collegio degli ingegneri e architetti di Milano. Alla Triennale di Milano fino al giorno 27 aprile 2003 è visitabile la mostra Gio Ponti: a world. All’inaugurazione del giorno 14 febbraio 2003, ho visto le invecchiate facce di qualche compagno dei corsi di arredamento e mi sono ricordato due cose. La prima: la lettera con la quale Gio Ponti m’invitava (neolaureato) a fare pratica presso di lui. Purtroppo i tre anni di vita militare e di prigionia m’impedirono di recarmi nel suo studio, ero troppo “ vecchio” , già sposato e con un impellente bisogno di soldi. La seconda cosa è che io credo (e voglia perdonarmi il Maestro se questa è un’illazione), che Gio Ponti mi abbia spedito quella lettera non per i lavori di arredamento che gli avevo presentato (non avevo la vocazione dell’architetto degli interni) ma per le “ note al professore” ed una poesia, che avevo allegato ad un progetto di esame. Gio Ponti era così, apprezzava il sentimento ed il coraggio di esprimerlo, con sincerità. Enrico Bertè
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Milano
Gio, architetto di grande umanità
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Non molto tempo fa, al termine di una riunione presso la redazione di “ AL” , mi trovai a ricordare con Enrico Bertè e alcuni altri colleghi un grande architetto, Gio Ponti, che non sarà mai troppo apprezzato nel nostro paese rispetto al genio e all’arte che possedeva, in grado di spaziare dallo studio di un soprammobile, all’arredo e all’architettura. Ricordammo soprattutto la grande umanità dell’architetto, tanto da lasciare un ricordo indelebile sia in Bertè, suo allievo al politecnico, sia in mio papà, disegnatore presso il suo studio negli anni precedenti la Seconda guerra mondiale. Nacque così l’idea di dedicare un articolo a Gio Ponti per evidenziarne le nobili e rare qualità umane, che, d’altronde, traspaiono anche nelle sue opere. Mio papà mi parlava spesso, e sempre con una certa nostalgia, di quando ancora ragazzo lavorava nello studio che, a quei tempi, l’architetto divideva in associazione con gli ingegneri Antonio Fornaroli ed Eugenio Soncini. Più volte mi raccontò come tutto lo studio era unito nell’impegno della progettazione del palazzo Montecatini a Milano (realizzato nel 1936), primo palazzo in Italia con serramenti in alluminio. “ Gio” - raccontava mio papà” - fece realizzare dei modelli al vero, dei serramenti in alluminio da lui personalmente progettati, per verificarne la funzionalità, li apriva e chiudeva più volte, ruotava in un senso e nell’altro la maniglia, pronto a rilevare gli eventuali difetti” . Ma i ricordi più intensi erano quelli che evocavano la personalità e la bontà dell’uomo Gio Ponti. Spesso si avvicinava ai ragazzi dello studio, e talvolta anche con non poca esitazione, offriva un paio di scarpe, una cravatta o altro abbigliamento che aveva smesso anche se in buono stato (naturalmente tutti disegnati da lui), “ ragazzi, se non vi offendete” , diceva quasi come se volesse scusarsi, ed i ragazzi accettavano volentieri quell’abbigliamento di ottima fattura, che apparteneva al loro maestro. Alcune volte organizzava delle feste alle quali partecipavano i dipendenti dello studio. “ In quel tempo Gio aveva annesso alla sua abitazione un ampio spazio all’aperto” , ricordava sempre mio papà, “ d’estate talvolta organizzava delle feste, durante le quali non esitava, con una scusa, ad invitare gli ospiti fuori dall’abitazione, ed all’improvviso, azionando la canna dell’acqua che normalmente usava per innaffiare i fiori, li bagnava, con loro grande stupore ma anche gran divertimento, costringendoli a fuggire in casa spesso inzuppati” . Aveva la capacità di trattare con tutti, non esitava quando arrivava il fotografo nello studio a farsi ritrarre con i propri collaboratori, e si prestava volentieri a scrivere una lettera di referenza per coloro che volevano cercare nuove esperienze di lavoro.
In un’intervista di alcuni anni fa, rilasciata al giornalista Aldo Santini per “ l’Europeo” , Gio, che aveva ottantatrè anni, esordì rivolgendosi all’intervistatore: ” Sa, nella mia vita sono stato troppo fortunato. E ora che ci vedo poco, che ci sento poco e che cammino con il bastone, devo essere contento. Non crede?. È giusto che anch’io soffra un po’” . Quella punta di umorismo non lo abbandonò fino agli ultimi anni della sua esistenza, e continuando nell’intervista: ” Si, io sono milanese. Sono nato nel cuore della vecchia Milano, via Meravigli numero 4. Il mio sogno era fare il pittore. Mio padre mi disse che dovevo prendere il diploma. Così mi iscrissi ad architettura. Mi dicevo: poi farò il pittore” . Santini ricorda che Gio, quando era alle prese con un intervistatore, preferiva parlare della moda femminile: ” Le donne hanno vinto l’unica rivoluzione incruenta della storia: quella della minigonna. È stata una rivoluzione senza sangue e con molta carne. Mi urta invece la maxigonna. Dietro di lei vedo l’interesse di vendere più stoffa” . Oltre a battute di sottile umorismo, rilascia durante l’intervista il suo parere su personaggi in cui si riconosceva e a cui voleva bene: “ Il giorno del Concilio, papa Giovanni si affacciò al Balcone e i fedeli lo applaudirono. Poi il papa indicò la Luna a benedire il Concilio. E i fedeli applaudirono la Luna. Quella fu una rappresentazione di vero surrealismo che neppure Breton, l’inventore del Surrealismo, sarebbe riuscito a immaginare. Fu l’ultimo applauso alla Luna. Poi gli uomini ci andarono e scoprirono che la Luna era morta. Quindi quella sera papa Giovanni disse ai fedeli: “ Andate a casa, fate una carezza ai vostri bambini e dite che è una carezza del papa” . E io li immagino che andarono a casa: i bambini dormivano. Entrarono nelle stanze in punta di piedi e li accarezzarono. Giovanni XXIII era un grande papa. Sono orgoglioso di essere vissuto in un’epoca che ha avuto un uomo come lui” . Parlando di architettura aveva uscite lontane da ogni convenzione: “ Tutti odiano il cemento, ma il cemento non ha colpe. Nel cemento ci può essere il diavolo ed esserci anche Dio” e continua: ” Eppure l’opera che mi ha dato maggior soddisfazione non è il grattacelo Pirelli o il palazzo della Montecatini o la cattedrale di Taranto che pure amo moltissimo, bensì il convento del Carmelo a Sanremo, con una parte di clausura ed un’altra che la gente può visitare. Naturalmente quando qualcuno si complimenta di un tuo lavoro ti dice che è bello per questo o perché hai risolto quest’altro. Un giorno, invece, mi arriva la lettera di una signora. Mi ringrazia perché in quella chiesa del convento si è sentita vicino a Dio. Bene, dico, se la gente di quella chiesa si sente vicino a Dio vuol dire che la mia chiesa è quella giusta” . Antonino Negrini
Alison e Peter Smithson: pensare alla città degli uomini e disegnare, disegnare Alison e Peter Smithson e poi Theo Crosby, Peter Cook, Candilis, Jona Friedman, Bakema, gli Archigram, i Beatles, più tardi i Rolling Stones e Gèrard Philippe e sfondo del progetto di Golden Lane. Dal 1950 alla metà del ’60, se si va a scavare, si ritrova il seme di un metodo per affrontare i temi dell’organizzazione urbana, dei modi di crescita, dei caratteri e della mobilità dei luoghi della comunità. Stiamo ancora aspettando gli sviluppi di tutto questo. Nascono le New Towns, ciascuna diversa dalla precedente, una serie di esperienze in continua correzione: a Cumbernault il centro urbano e tutti i servizi pubblici e privati sono contenuti in un lunghissimo edificio, un enorme vagone visibile da ogni parte della
città e sotto il quale passa un’autostrada. La distinzione quasi fanatica fra il movimento pedonale e quello veicolare suggerisce agli Smithson di pensare a una rete destinata allo spostamento dei pedoni del tutto distinta, addirittura sovrapposta a quella dei veicoli, come nel progetto per la Sheffield University e in quello per la zona commerciale del centro di Berlino. Lo sforzo di attribuire un ordine agli spostamenti, al movimento nella città, avvicina gli Smithson a Louis Kahn e i loro disegni hanno molti punti di vicinanza e perfino qualche assonanza grafica con quelli del progetto per Filadelfia. Come in quest’ultimo gli studi degli Smithson danno un fondamentale contributo ad affermare la strettissima relazione fra il lavoro dell’architetto e la pianificazione urbana, fra il disegno, proprio nel senso grafico, e lo studio dei luoghi. Perché disegnare e non chiacchierare, è il vero lavoro dell’architetto. Peter Smithson è morto a ottant’anni la scorsa settimana. Bruno Bianchi
La rete di circolazione pedonale e il suo raccordo con lo scorrimento urbano dei veicoli.
Interscambio fra il livello pedonale e quello riservato ai veicoli.
Progetto Sheffield University.
Rassegna a cura di Manuela Oglialoro Architettura “Un giardino per viaggiatori. Il concorso per la nuova stazione ferroviaria di Firenze (da “ Il Sole 24 Ore” del 30.3.03) Con la conclusione del concorso per la nuova stazione dell’Alta velocità bandito dalle Ferrovie dello Stato, sembra aprirsi per il capoluogo toscano la realistica speranza di una proficua stagione di trasformazioni all’insegna di un rinnovamento che si fa consapevole interprete delle mutate esigenze delle città italiane. Per chi ama nella storia il simbolismo delle coincidenze, la vittoria dell’inglese Norman Foster non potrà non ricordare il successo che, nel marzo del 1933, ottenne il gruppo toscano capeggiato da Giovanni Michelucci nel famoso concorso per la stazione di S. Maria Novella. A settant’anni di distanza da quello storico evento, le Ferrovie dello Stato tornano al fattivo ruolo di committente di grandi progetti, rilanciando il tema della riqualificazione delle aree dismesse come occasione strategica per il ridisegno dell’armatura urbana. Design Gli architetti: subito un museo del design. “M arciapiedi sporchi, auto in seconda fila e tram multicolore. L’arredo urbano è da bocciare (dal “ Corriere della Sera” del 7.4.03) Con il quarantaduesimo Salone del Mobile in Fiera sono iniziate le esposizioni del design che portano alla città notorietà internazionale, 185mila visitatori e 2100 espositori, oltre ad una serie di mostre e allestimenti sparsi per il capoluogo. Secondo i designer la città si presenta un po’ scialba, manca un museo del design, l’arredo urbano è ritenuto “ scadente” , le istituzioni poco presenti. Per Ettore Sottsass “ Il Museo del Design andava fatto quando c’erano maestri come Albini e Gardella, quando il disegno dei mobili era arte. Ora il design è assoggettato all’industria. C’è la stessa differenza che passa tra una poesia di Saffo e la cro-
naca di un giornale. È tutto prosa, è solo consumismo” . Alessandro Mendini è cauto sull’enfasi data alla settimana del design “ Ritengo importante che il mondo converga su Milano per parlare di oggetti. Ma c’è un po’ di esagerata automontatura di una attività divenuta edonistica in un momento assai drammatico” . Dai consulenti ai creativi. I nuovi manager del design. Crescono le figure professionali legate al settore dell’arredamento (dal “ Corriere della Sera” del 10.4.03) Il mondo del design sta facendo di tutto per far parlare di sé, sostenuto dagli operatori tradizionali del set t ore legno arredo (412.815 addetti in Italia e 87.906 imprese), dalle grandi firme del disegno industriale, ma anche dal moltiplicarsi di figure professionali mutuate dal mondo della pubblicità e della moda. Dietro agli oggetti in vetrina ruota a Milano un mondo di nuove figure professionali. “ Oggi il design è anche uno strumento competitivo per migliorare il prodotto, per differenziarlo, per comunicarlo, per venderlo” afferma Rudi von Wedel, pr di industria dell’arredamento, “ Il design communication manager lavora con le case produttrici, svolge indagini di mercato, esercita il controllo e la promozione” . Guerra aperta alla contraffazione. Soprattutto nel mercato europeo pesa la concorrenza sleale di molti produttori asiatici. (da “ Il Sole 24 Ore” del 9.4.03) Una straordinaria capacità di penetrazione dei mercati e una migliore qualità dei prodotti rispetto al passato, a cui si aggiunge l’inimitabile capacità di copiare stile e design altrui, in particolare del made in Italy sono i motivi che spiegano perché i mobili cinesi siano arrivati fino alle frontiere dell’Unione europea e tengano sulle spine i mobilieri italiani. Dopo un passivo limitato, registrato per la prima volta nel 2000, la bilancia commerciale europea dei mobili è scivolata nel passivo che nel 2002 ha superato il miliardo di Euro. Infrastrutture Grandi opere da 32miliardi. Formigoni: finanziati Passante, metrò e nuova tangenziale. (dal “ Corriere della Sera” del 11.4.03) È il più importante e consistente finanziamento del dopoguerra: il governo investirà in Lombardia oltre 32miliardi di Euro per strade, autostrade, ferrovie, metropolitane, interporti ed elettrodotti. L’accordo sarà firmato a Roma dal Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e dal Presidente della Regione, Roberto Formigoni. La trattativa è durata oltre un anno, ma ora Formigoni è soddisfatto perché “ l’intesa consente di mantenere tutti gli impegni che la Lombardia si è assunta per superare l’handicap infrastrutturale che da
decenni penalizza il nostro sistema economico e la mobilità dei cittadini e delle merci” . Hinterland M useo della Villa Reale, partono i lavori. Assegnato l’appalto di 4milioni e seicentomila Euro per i restauri della Cavallerizza e dell’ala Sud (dal “ Corriere della Sera” del 28.3.03) L’impresa che si è aggiudicata la gara d’appalto per i lavori nell’ala sud dell’ex reggia sabauda ha firmat o il cont rat t o per 4milioni 626mila Euro. La società vincitrice avrà due anni e mezzo per portare a termine il restauro dell’ala sud, che è di proprietà del Demanio, e consentire così l’apertura del museo. Una volta completati i lavori sarà possibile visitare le stanze pubbliche e private dei sovrani e quelle dei funzionari di corte. Inoltre, saranno studiati e realizzati percorsi tematici che porteranno anche alle serre, alle stalle e agli altri impianti di servizio. M ilano La fabbrica: via il deposito da Piazza Duomo. “Il camerone degli attrezzi sparirà, ritroviamo il decoro perduto”. Il Comune: i fondi sono già pronti (dal “ Corriere della Sera” del 31.3.03) Tra due-tre anni, quando a Palazzo Reale saranno conclusi i lavori, quando sarà riorganizzato l’Arengario e quando la f acciat a del Duomo sarà di nuovo visibile, una soluzione andrà trovata per rimuovere il capannone di ricovero degli attrezzi della Fabbrica del Duomo posizionato, dal Dopoguerra, sul lato sinistro della Cattedrale. Non è l’unica bruttura di piazza Duomo: ci sono anche le edicole e lo stato di conservazione di alcuni palazzi. Lite Comune-Provincia, rifiuti più cari. L’Amsa: gli impianti non funzionano a regime, costretti a spedire i sacchi all’estero (dal “ Corriere della Sera” del 9.4.03) Dopo la polemica lettera dell’ex commissario all’Ambiente Walter Ganapini, a proposito del profilarsi di una nuova e grave emergenza spazzatura, Comune e Provincia intervengono per ribadire che “ non si sta profilando nessuna emergenza rifiuti” . Ma l’Amsa ammette che i termovalorizzatori non funzionano a regime, che in alternativa bisogna mandare i rifiuti in discarica e che anche nel primo semestre del 2004 sarà necessario spedire i pacchi della spazzatura altrove. La polemica non riguarda soltanto i rifiuti. L’elenco degli argomenti in discussione spazia dai rifiuti ai taxi, dalla Serravalle alle acque. M ilano, global service per il verde. Licitazione privata dell’Amministrazione comunale di
72milioni per un periodo di tre anni (da “ Edilizia e Territorio” del 24-29 marzo 2003) Il Comune di Milano ha promosso un bando per il global service riguardante la manutenzione ordinaria e programmata delle aree a verde pubblico. L’appalto sarà assegnato con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, in base ai seguenti elementi: caratteristiche tecniche (massimo 35 punti), offerta economica (65 punti). Le attività previste sono la manutenzione delle aree verdi, delle alberature, la pulizia delle zone, la manutenzione dell’arredo, degli impianti e degli elementi edili.
49 Restauro Un ritocco per M ichelangelo. Presentato il progetto di restauro della “Pietà Rondanini” (dal “ Corriere della Sera” del 11.4.03) Per l’ultima opera incompiuta di Michelangelo (1475-1564) si dovrebbe parlare comunque più di manutenzione che di un vero e proprio restauro. La “ Pietà” sembra infatti essere in ottimo stato (a meno di brutte scoperte in corso d’opera). Per questo si cercherà “ di intervenire soltanto sulla superficie scultorea per alleggerirla e ripulirla” dai residui utilizzati nel corso di operazioni di calco eseguite in epoche diverse. Il cantiere sarà aperto nei weekend perché i cittadini possano seguire i lavori di restauro. Urbanistica Scontro sul nuovo Prg di Roma. L’urbanista Campos Venuti toglie la firma dal piano regolatore dopo le modifiche imposte da Rifondazione e Verdi (da “ Il Sole 24 Ore” del 26.3.03) Rischia di partire male il nuovo piano regolatore di Roma adottato dal Consiglio Comunale e destinato a sostituire il vigente e ormai superato Prg del 1962. Rispetto alla precedente proposta il piano ha perso quasi del tutto gli innovativi meccanismi “ consensuali” per acquisire le aree per servizi (“ acquisizioni compensative” ), tornando invece al più tradizionale esproprio. Risultano dimezzate alla fine anche le “ aree di riserva” per compensazioni, edilizia pubblica e demolizioni/ricostruzioni. Le modificazioni imposte da Rifondazione e Verdi rappresentano il “ costo” pagato per salvare la maggioranza e sono il motivo della protesta di Giuseppe Campos Venuti, leader dei consulenti del piano di Roma , che ha ritirato la sua firma.
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Riletture a cura di Antonio Borghi Convergenze parallele in Darsena
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Con una breve nota intitolata Novità per i navigli - Il Comune gestirà la Darsena il “ Corriere della Sera” del 15 Aprile annuncia che andrà “Al Comune la gestione della Darsena. La Lombardia e il Comune di Milano sottoscriveranno nei prossimi giorni un protocollo di intesa che prevede la cessione al Comune della gestione della Darsena. La Regione, tra l’altro, darà all’amministrazione comunale un contributo di 5 milioni di euro per l’avvio delle prime opere di riqualificazione, che potrebbero andare di pari passo con un concorso internazionale di idee. Ieri l’accordo di programma per definire la nascita di un soggetto unico di gestione dei Navigli, attraverso la creazione di una società consortile con Regione, Comuni di Milano e Pavia, consorzio Villoresi e Agenzia del demanio.” La notizia avrà ridato speranza ai molti soggetti impegnati nella intricata questione della darsena, tra i quali molte Associazioni per la difesa e la valorizzazione dei Navigli e l’Ordine degli Architetti di Milano. A febbraio risale uno scambio di battute tra l’ex consigliere dell’ordine Jacopo Gardella e Giorgio Goggi, Assessore ai trasporti del Comune. Il primo aveva intitolato un suo intervento su “ la Repubblica” del 19 febbraio Quel progetto distruggerà la Darsena sostenendo la tesi che il grande parcheggio sotterraneo “ moltiplicherà senza controllo l’affluenza dei mezzi privati e peggiorerà senza freno le disfunzioni e gli ingorghi che già adesso paralizzano la città. La costruzione non solo comprometterà per sempre il destino della darsena ma causerà una ferita insanabile all’intero sistema dei trasporti cittadini.” La risposta dell’assessore, contenuta in una lettera pubblicata tre giorni dopo dallo stesso quotidiano sosteneva al contrario che “ il parcheggio riguarda solo il sottosuolo, sarà tutto sott’acqua. Non c’è dunque nessuna emergenza che turbi l’ambiente della darsena. Il progetto inoltre è stato approvato dalla Soprintendenza e consentirà il restauro dell’area a spese del privato (…) il concorso di idee sull’area dei Navigli si farà e non sarà per nulla influenzato dal parcheggio” . Una città su più livelli dunque, come già l’aveva immaginata Leonardo da Vinci, con in più la novità di un sottosuolo del tutto svincolato dal suolo e dal soprasuolo: la città delle convergenze parallele. Il tema del concorso viene ripreso sulle pagine de “ la Repubblica” del 28 febbraio in una intervista di Caterina Pasolini al Presidente Daniela Volpi intitolata Dagli architetti appello a Albertini – per la Darsena bisogna fare una gara in-
ternazionale. “ Architetti su una riva, il Comune dall’altra. Sulle sponde della Darsena è battaglia, dopo l’annuncio dell’amministrazione di voler costruire un mega parcheggio sotto l’acqua. E così ieri il Consiglio dell’Ordine degli Architetti di Milano ha lanciato un appello: una lettera aperta al sindaco Gabriele Albertini che chiede con gran forza un concorso internazionale. - La zona della Darsena va giustamente rivista, ripensata, oggi è un luogo caotico e frammentario, ingombro e derelitto. Sono anni che se ne parla, che si fanno progetti. Entro novembre sembrava dovesse essere bandito dal Comune un Concorso internazionale per dare un nuovo volto a questo pezzo rappresentativo della città che ne è memoria, identità. Invece abbiamo scoperto dai giornali che l’amministrazione aveva scelto un’altra strada. Lo abbiamo scoperto quando da Palazzo Marino ci hanno chiesto di indicare un paio di nomi da inserire nella giuria (di una gara di Project Financing con il progetto elaborato da un tecnico incaricato dall’amministrazione comunale ndr.). Nomi di architetti giurati che sino ad ora l’Ordine non ha voluto indicare, per scelta. - L’amministrazione dovrebbe volere il meglio per la città - sottolinea ancora l’architetto Volpi - e il meglio sino ad oggi lo garantisce la possibilità di scelta, la sfida tra progetti diversi, in una parola un concorso internazionale. Solo offrendo il confronto tra progetti si ha l’occasione per migliorare la qualità degli interventi pubblici” . Sulla questione era intervenuto più volte Maurizio Decaro nelle vesti di Presidente dell’Associazione Darsena, di membro del comitato scientifico del Politecnico per la redazione del Bando di concorso internazionale per la riqualificazione dei Navigli, di corsivista di que-
stioni urbane sulla cronaca milanese de “ La Stampa” e in quella di milanese residente sui Navigli. Decaro ha vissuto e raccontato con grande partecipazione le disavventure di questa parte di città. Basta elencare i titoli di alcuni suoi interventi su “ La Stampa” i cui toni oscillano dal propositivo Navigli: troppa indifferenza. È ora di progetti glocal (“ La Stampa” 24/08/02) allo sconsolato Requiem per i navigli, discariche di idee e progetti (“ La Stampa” 28/12/02), dall’esortativo Poche storie: per i Navigli ci vuole un grande concorso” (“ La Stampa” 21/02/03) al realista Non è con la retorica che si salvano i navigli (“ La St ampa” 28/02/03), dall’intransigente La Darsena non sarà mai un parcheggio (“ Libero” 20/02/03) all’amaro Anche questa volta ha vinto la legge della rendita fondiaria (“ La Stampa” 7/02/03). In quest’ultimo corsivo Decaro tirava in questo modo le somme. “ Da un po’ di tempo pare che la città sia ingessata rispetto a quello che accade. Si assiste un poco sgomenti a dichiarazioni, prese di posizione, attività reiterate in recite noiose con una progressione temporale imbarazzante. La città non partecipa, assiste. Pare fiaccata l’idea stessa di confronto. Guarda verso un palcoscenico come in uno stato di narcosi (...) La Darsena (se preferite potremmo chiamarlo un parcheggio in zona 6) è merce come tutto il resto, indipendentemente dall’immagine che potrà avere in futuro e poco importa se questa città non ha più attenzione per l’architettura (se ne sono accorte con rammarico tutte le mostre internazionali, Biennale di Venezia in testa, tutte le riviste di settore e tutti i dibattiti, critici verso le recenti prove milanesi): gli affari sono affari.” Dello stesso segno un altro suo corsivo sulla Cronaca milanese de “ La Stampa” dedicato questa volta
all’eredità culturale del capoluogo lombardo e intitolato Milano capitale del design? Una volta sì, ma adesso....(“ La Stampa” 10/01/03) “ Milano è la capitale del design. Qui è nato il Compasso d’Oro che è diventato il più importante riconoscimento mondiale, qui hanno lavorato e lavorano i più bravi designer a stretto contatto con imprenditori illuminati capaci di trasformare idee innovative in prodotti di largo consumo. In questa città sono nate le più belle lampade, i divani più imitati, cucine, sedie e televisori vere icone dell’evoluzione del costume del nostro paese. I milanesi sono grandi fruitori del bello, ne apprezzano le qualità, sanno scegliere con gusto, conoscono i grandi progettisti e nelle loro case amano circondarsi di oggetti affascinanti (...) Ma gli stessi milanesi si ritrovano a passeggiare tra improbabili fioriere, edicole arrugginite, pensiline obsolete e abbandonate all’incuria, lampioni pseudo-artistici di colori inconcepibili ma perfettamente inseriti in un trionfo del cattivo gusto. Come è possibile che tutta quella ricerca e quella qualità prodotta non si riscontri nelle piazze e nelle strade e perché gli esteti milanesi non si ribellano al brutto inaccettabile del loro comune spazio pubblico? Si dice che la bellezza della città costa troppo, ma bisogna sfatare questa credenza popolare: un buon progetto costa come uno brutto anzi, spesso costa di meno .(...) Milano, forse non è più la capitale del design o meglio qui vivono e lavorano ancora grandi e piccole firme del progetto, ma la città ormai è solo lo scenario impresentabile di fenomeni che si sviluppano compiutamente altrove. Questa è terra di passaggio che ha scelto di monitorare attraverso le sue telecamere qualcosa che accade lontano, sempre più lontano.”
Libri, riviste e media a cura della Redazione
Cristina Bianchetti Abitare la città contemporanea Skira, Milano, 2003 pp. 105, € 14.00 Provincia di Milano - Settore Pianificazione Territoriale, Maddalena Gioia Gibelli (a cura di) Il paesaggio delle frange urbane Franco Angeli, Milano, 2003 pp. 224, € 24,00 Pier Luigi Paolillo, Stefano Moroni Il ruolo dei servizi pubblici nei processi di trasformazione urbana. I problemi, un’esperienza, alcune prospettive Franco Angeli, Milano, 2003 pp. 288, € 19,50 Angiolo Mazzoni Architetto Ingegnere del Ministero delle Comunicazioni Skira, Milano, 2003 pp. 414, € 43,00 Pierluigi Nicolin, Francesco Repishti Dizionario dei nuovi paesaggisti Skira, Milano 2003 pp. 486, € 30,00 Gianni Scudo, Luciano Roncai (a cura di) Argille ghiaie pietre calci Tre Lune, Mantova, 2002 pp. 96, € 15,00 Giorgio Pigafetta Parole chiave per la storia dell’architettura Jaca Book, Milano, 2003 pp. 176, € 13,00 L. Antonielli, G. Chittolini (a cura di) Storia della Lombardia. II volumi Laterza, Roma-Bari, 2003 pp. 288/256, € 20,00 cad. Vincenzo Mainardi Il POS per le imprese Grafill, Palermo, 2003 pp. 192, € 32,00 Monica Bruzzone Siti internet per l’architettura. Guida 2003 Celid, Torino, 2003 pp. 54, € 4,00
Il Piano come strumento
Un’architettura perduta
Il teatro della città
Federico Oliva propone qui una riflessione sullo strumento del Piano, basata su una rassegna dell’urbanistica milanese e indica la necessità di un rilancio dello strumento della pianificazione generale per il governo del territorio. In una sezione finale sei itinerari descrivono le parti di città lasciate dai piani. Le fotografie di Moreno Gentili illustrano il testo e scandiscono gli itinerari. Il carattere disciplinare assieme all’invito della concreta esperienza della città costituiscono motivi di interesse se non le novità del libro. Dopo un primo capitolo sul piano regolatore – che si chiude con un’esortazione a non dimenticare che l’amministrazione quotidiana dell’urbanistica è altrettanto importante del suo disegno – quelli seguenti raccontano la crescita della città e la configurazione della sua forma attuale dal 1889 al 2000. Il giudizio che ne emerge mette in evidenza nell’urbanistica milanese la definizione del suo carattere peculiare, per come si viene concretamente affermando nella costruzione della città sino alle trasformazioni più recenti, tra momenti di alto contenuto disciplinare e contrattazione dei progetti. Il testo si chiude elencando gli ultimi passaggi della deregulation milanese e formulando la proposta per un nuovo piano per Milano articolata da quella I.N.U. del ‘95. Un piano che dia forma al territorio e che si attui in modo perequativo generalizzato riducendo l’esproprio alle sole aree non compensabili. Un piano per la città dei quattro milioni di abitanti formata dai diversi territori comunali, innervata da reti da potenziare, con grandi aree da trasformare e un sistema ambientale fatto dalla molteplicità delle risorse attuali da promuovere a rete ecologica. Un piano strutturale che è già articolato nel suo piano operativo con i programmi integrati che trovino però nelle coerenze più generali il riferimento per la loro valutazione.
L’ultimo libro della collana Quaderni di critica è dedicato alla mensa della Pirelli alla Bicocca di Milano dell’architetto Giulio Minoletti. Giacomo De Amicis svolge un’accurata analisi interpretativa di quest’opera (oggi demolita), rendendola un importante riferimento per la ricerca progettuale che abbia alle sue radici la questione tipologica dell’aula e il suo rapporto con la natura. Per Minoletti, infatti, il tema è quello del grande spazio collettivo coperto, libero da sostegni, tecnologicamente avanzato, in stretto rapporto con il paesaggio, che in questo caso è rappresentato da un giardino artificialmente inclinato; il tema della grande copertura che individua un luogo specifico e riconoscibile, che rivela un’architettura. La descrizione che De Amicis fa di questo edificio, correlata da efficaci schemi interpretativi, è volta a dimostrare come le scelte formali attuate da Minoletti non siano mai frutto di pericolosi personalismi, come spesso accade a molta architettura contemporanea, ma, al contrario, abbiano sempre il compito di svelare attraverso l’atto costruttivo, una questione tipologica centrale. La sezione trasversale della mensa, che evidenzia la sovrapposizione delle due coperture indipendenti, esplicita quanto già raccontato dalla pianta: “ Una sala da pranzo per ottocento persone” aperta sul giardino, collegata attraverso una zona filtro alle cucine. Quella di De Amicis è un’indagine svolta con l’occhio di colui che vuole trarne insegnamento per la propria ricerca professionale; appassionatamente l’autore affronta le scelte progettuali compiute da Minoletti, a partire da quelle di carattere fondativo, fino ad arrivare a quelle costruttive e decorative con lo stesso spirito con cui un “ allievo” fa proprio l’insegnamento di un “ maestro” .
“ Chi non sceglie rimane sempre un mediocre” , afferma Aldo Rossi presentando il XXXVIII Corso sull’architettura palladiana del 1996. La lezione, intitolata Un’educazione palladiana, chiarisce fin dalle prime righe le ragioni che hanno spinto Rossi a riconoscere in Palladio un maestro. Palladio è un architetto estremamente attuale, le sue opere affrontano temi con cui chiunque si accinga al progetto si deve confrontare: il rapporto fra storia dell’architettura, che l’architetto continua a reinterpretare, e la progettazione, il tema della tipologia e della costruzione dell’edificio, quello della riconoscibilità dell’architettura. Queste sono anche le questioni con cui Rossi in ognuna delle sue opere, costruite oppure scritte, si confronta. E, come in Palladio Rossi riconosce il proprio maestro, così nella città di Venezia egli scopre un campo di indagine particolare e privilegiato. In questa magica città l’architetto di oggi come quello di ieri è costretto a lavorare sulla storia, è obbligato a un continuo confronto con una realtà fatta di culture diverse (l’oriente che si mescola con l’occidente) che intrecciandosi hanno dato luogo a una sorta di grande scena teatrale, sfondo di ogni vicenda umana. Ecco allora che il Teatro del Mondo diventa attore-protagonista di una rappresentazione (l’architettura e la vita di Venezia) che al suo passaggio continua a modificarsi. Analogamente si costruiscono i Capricci di Canaletto in cui il montaggio di edifici “ altri” (le architetture palladiane di Vicenza, per esempio) propongono ogni volta una diversa Venezia possibile. Il libro, che raccoglie sette interventi di Aldo Rossi e di alcuni dei suoi più stretti collaboratori, è da leggersi come possibilità di espressione di un preciso punto di vista sull’architettura che trova nella teatralità di Venezia un’occasione di rappresentazione.
Tomaso Monestiroli
Martina Landsberger
Giulio Barazzetta
Federico Oliva L’urbanistica a M ilano, quel che resta dei piani urbanistici nella crescita e nella trasformazione della città, con sei itinerari Hoepli, Milano, 2002 pp. 428, € 32,00
Giacomo De Amicis Giulio M inoletti. M ensa impiegati alla Bicocca Unicopli, Milano, 2003 pp. 80, € 10,00
Gino Malacarne, Patrizia Montini Zimolo (a cura di) Aldo Rossi e Venezia. Il teatro e la città Unicopli, Milano, 2003 pp. 90, € 12,00
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Architettura come costruzione
“...maestri italiani”
La realtà e il gioco nell’opera di Munari
Architettura e tekné
Il libro affronta da un punto di vista particolare il lavoro di uno degli architetti italiani più noti al mondo. Da una parte è infatti riconoscibile l’impostazione dell’ormai classica collana “ Serie di architettura” della Zanichelli, di cui il testo fa parte, divulgativa ma sempre tecnica e disciplinare. Dall’altra parte è altrettanto riconoscibile l’interesse di Emilio Pizzi che – così come anni fa aveva pubblicato per la stessa collana un testo sull’opera di Mario Botta – sceglie di parlare di opere che muovono dai suoi stessi interessi per l’architettura, intesa come fatto costruttivo e tecnologico. L’opera di Piano viene quindi attraversata da un dichiarato interesse per la costruzione, dove il risultato figurale viene spiegato attraverso un principio chiaro che rimanda alla trattazione manualistica. Pizzi descrive, dopo un breve saggio iniziale, i numerosi progetti di Piano attraverso schede sintetiche, corredate, oltre che da fotografie in bianco e nero, spesso da eloquenti, seppur ridotti, schizzi e disegni di progetto. Dalla scelta di alcuni disegni emergono allora temi del lavoro di Piano: lo schizzo di matrice funzionalista che propone un rapporto preciso con l’ambiente; il disegno di dettaglio che fissa una precisa scala del progetto; il disegno planimetrico che spesso propone quelle figure analogiche che contraddistinguono molti progetti dell’architetto genovese. Da Il riuso e la trasformazione della città, a Spazi della cultura, a Spazi del lavoro, a Spazi per la collettività, a Spazi per l’abitare, a Spazi della mobilità, il testo propone una classificazione dei progetti che manifesta la costanza di un pensiero progettuale. Dopo un apparato bibliografico ed un regesto delle opere, il libro si chiude con il bel discorso tenuto da Piano nel 1998 in occasione del conferimento del Premio Pritzker, in cui si coglie con chiarezza il suo pensiero “ politecnico” sull’architettura.
Il libro nasce come catalogo di una mostra itinerante dedicata all’architettura italiana contemporanea, presentata attraverso le opere dei “ maggiori architetti del nostro paese” , promossa dal Ministero degli Esteri, dal Ministero dei Beni Ambientali e le Attività Culturali, dal C.N.A. ed altri enti. Il volume è introdotto da una serie di saggi che, come i progetti mostrati, cercano di fare il punto sullo stato dell’arte in Italia. L’opera è divisa in temi: la casa, il teatro, il tempo libero, il sacro. Questi temi sono trattati attraverso una scelta ristretta ma eterogenea di progettisti. L’ufficialità dell’evento ha fatto si che, tra le due possibili strade da percorrere nella costruzione di una mostra e di una pubblicazione, la scelta di una tendenza da una parte, e la raccolta dei vari punti di vista dall’altra, fosse scelta quest’ultima. Il che è interessante perché ci permette di riflettere sul quadro generale dei riferimenti usati dagli autori nella costruzione dell’idea di progetto. Sul rapporto tra generalità dei problemi e particolarità delle singole soluzioni. Essendo il tema di architettura il punto di partenza sia del libro che del nostro lavoro, è rispetto all’avanzamento conoscitivo di questo, della realtà in cui viviamo attraverso le sue architetture, che possiamo valutare l’operato degli architetti presentati, se la loro lezione è trasmissibile, oppure se resta il gesto di un singolo. In molti dei progetti, ciò che appare è che gli strumenti e le tecniche della composizione siano considerate più il fine del lavoro stesso, che i mezzi per raggiungere uno scopo; da qui la difficoltà a riconoscere la destinazione degli edifici, o a capire cosa ci sia in più rispetto a risposte già date.
Bruno Munari ha esplorato, nell’arco della sua carriera, praticamente tutte le attività artistiche (Pittura, Scultura, Design, Grafica, Didattica, Poesia, Scrittura, Fotografia, Cinematografia, Spettacolo), anche se, come dimostra in modo esaustivo questo volume, i “ Libri” sono stati la sua vera passione, il “ diario personale su cui annotare le sue esperienze” . In realtà, la ricerca di Giorgio Maffei individua tre categorie di “ libri” nell’opera di Munari: il libro illustrato, il libro (cosiddetto) d’artista ed il libro tecnicodidattico. Volendo, questa classificazione si può ridurre ulteriormente a sole due “ grandi” categorie: i libri “ commerciali” (Einaudi, Bompiani, Editori Riuniti, Rizzoli, Mondadori) dove Munari fa il grafico, l’art director, l’illustratore, il direttore della collana e in cui ancora predomina la parte testuale rispetto al resto del volume; i libri-” oggetto d’arte” , Libri illeggibili, dove, invece, emerge la funzione estetica dell’oggetto libro con le sue varie componenti (il formato, la carta, la rilegatura, il taglio, il colore) e dove vengono sperimentate liberamente le teorie dei movimenti artistici in cui milita (il Futurismo, il Movimento Arte Concreta). Questa dicotomia dell’attività professionale di Munari non è sempre così marcata perché, nella pratica, egli riesce spesso ad introdurre alcuni elementi di una “ categoria” all’interno dell’altra; inoltre, è presente in entrambe come autore di numerosi volumi (didattici, per l’infanzia, d’arte). Personalmente, prediligo il Munari “ grafico” che riesce a coniugare le esigenze commerciali ed economiche dell’editoria con il suo mondo pieno di fantasia e di sperimentazione. Credo che la fortuna di molte collane editoriali sia stata quella di avere Munari come consulente grafico; ancora oggi l’immagine “ familiare” di alcuni volumi è dovuta a questo difficile mix tra la “ realtà” e il “ gioco” .
Il Moderno, ultima sintesi tra tecnica e costruzione di senso dell’opera architettonica, è la chiave di volta rispetto a cui Vittorio Gregotti misura, nella contemporaneità, la progressiva dissoluzione dell’“ ontologia stessa dell’architettura” segnata da un “ uso int uizionist a e purament e ornamentale delle tecniche o una totale coincidenza con esse in quanto contenuti e finalità oltre che in quanto strumenti” . Muovendo dall’assunzione del termine tecnica in quanto tekné, ovvero modalità del fare che concorre alla costituzione dell’opera, Gregotti assume parallelamente la questione della finalità dell’opera e dell’opera come risultato compiuto dell’insieme delle tecniche progettuali. I brevi capitoli che compongono il libro trattano delle sfaccettature che la nozione di tecnica riveste nella teoria e nella pratica del progetto di architettura, rivisitando problematiche da molti anni oggetto della ricerca di Gregotti: materie e materiali del progetto, produzione e riproducibilità, uso e significato dell’architettura, temi di riflessione già enunciati alla fine degli anni ’60 in Il territorio dell’architettura e quindi affinati, così come la questione della finalità dell’opera rimanda all’etica e ai fondamenti della ricerca di Rogers. Particolarmente interessanti, perché coinvolgono la costituzione di identità dell’architettura nei luoghi e la problematica del disegno urbano contemporaneo, i capitoli che discutono il “ montaggio come principio conformativo” , affrontando il nesso tra tecniche, reti connettive e processi di delocalizzazione. La conclusione, amara, di Gregotti è che “ ciò che sembra essenzialmente essere andato perduto è ogni progetto di finalità” che assegni alle forme architettoniche “ una capacità simbolica interpretabile come tensione (…) verso le migliori speranze collettive di qualità e di senso” .
Ilario Boniello
Maurizio Carones
Emilio Pizzi (a cura di) Renzo Piano Zanichelli, Bologna, 2002 pp. 232, € 17,00
Franco Purini, Livio Sacchi (a cura di) Dal Futurismo al futuro possibile nell’architettura italiana Skira, Milano, 2002 pp. 352, € 55,00
Igor Maglica Ilaria Valente Giorgio Maffei M unari. I libri Sylvestre Bonnard, Milano, 2002 pp. 348, € 58,00
Vittorio Gregotti Architettura, tecnica, finalità Laterza, Roma-Bari, 2002 pp. 140, € 9,50
La rappresentazione dell’immagine Paolo Zermani Mantova, Casa del Mantegna via G. Acerbi 47 1 Febbraio - 16 Marzo 2003
a cura di Ilario Boniello e Martina Landsberger
Rassegna mostre
Rassegna seminari
Vicenza Serenissima. Una nuova architettura, una nuova città (1404-1630): Il gioco del Palazzo ovvero Palladio in piazza Vicenza, Basilica Palladiana 29 aprile - 8 giugno 2003
Proposta per un percorso verso la conservazione dell’edificato storico minore Ordine degli architetti di Novara-Verbano-Cusio-Ossola Novara, via Rosselli 10 Tel. 0321 35120 a.cadoni@archiworld.it 28 maggio – 14 giugno 2003
Le Corbusier pittore, scultore, designer Lissone, Civica Galleria d’Arte Contemporanea viale Padania 6 23 marzo - 15 giugno 2003 Alberto Rosselli architetto e designer Milano, Facoltà di Architettura Campus Bovisa, via Durando 10 (fino al 5 giugno) Campus Leonardo, via Ampére 2 (dal 9 giugno) 27 maggio - 19 giugno 2003 Andy Warhol. Un mito americano Brescia, Palazzo Martinengo via Musei 30 13 aprile - 19 giugno 2003 Joan Mirò. Metamorfosi delle forme Milano, Fondazione Mazzotta Foro Buonaparte 50 15 marzo - 29 giugno 2003 Universo meccanico. Il Futurismo attorno a Balla, Depero, Prampolini Milano, Galleria Fonte D’Abisso Arte via del Carmine 7 15 marzo - 29 giugno 2003 Arnoldo Pomodoro. I progetti scenici Cantù, Riva R1920 Centre via Borgognone 12 22 marzo - 6 luglio 2003 Amedeo Modigliani. L’angelo dal volto severo Milano, Palazzo Reale piazza Duomo 12 21 marzo - 6 luglio 2003 Medaglia d’oro all’architettura italiana Mostra dei progetti finalisti e vincitori Milano, Palazzo della Triennale viale Alemagna 6 31 maggio - 13 luglio 2003 Periferie e Nuova Urbanità Palazzo della Triennale viale Alemagna 6 19 giugno - 15 settembre 2003
Giambattista Nolli, Imago Urbis and Rome Conferenza internazionale Roma, Centro ricerca topografica di Roma via di Montoro 24 www.studiumurbis.org 31 maggio - 2 giugno 2003 Milano. Piani e interventi per la riqualificazione urbana e il verde Conferenza del ciclo “ Città e paesaggio. Strategie e progetti a confronto” Milano, Museo Civico di Storia Naturale corso Venezia 55 5 giugno 2003, ore 18 Sixth International Seminar on Experimental Techniques and Design in Composite Materials Department of Management and Engineering University of Padova Vicenza, Stradella S. Nicola 3 www.gest.unipd.it/ETDCM6 18 - 20 giugno 2003 Villard 4 Seminario itinerante di progettazione per studenti iscritti almeno al terzo anno nell’a.a. 2002-03 www.villard.it novembre 2002 - giugno 2003 Architettura a Teatro Seminario di progettazione Politecnico di Milano e Teatro Arsenale, Milano, piazza Leonardo da Vinci 1 cecimore@libero.it 31 marzo - 20 luglio
L’opera di Paolo Zermani è presentata con sapiente volontà comunicativa; l’immagine assume il ruolo centrale della mostra, presentata in modo da colpire l’occhio del visitatore attraverso l’attenta scelta del materiale esposto: disegni e prospettive, plastici e fotografie, identificano una volontà artistica precisa, fatta di potenza evocatrice. Senza dubbio “ l’immagine osservata” ha, come “ l’occhio” , una propria storia e ogni tempo possiede un inconscio ottico con le sue molteplici valorizzazioni mitiche, culturali, religiose e artistiche che simbolicamente Zermani ripropone nel costruito della propria abitazione a Varano (1997), un occhio che “ osserva, assorbe e riflette” il mondo che lo circonda, che confluisce nella biblioteca e che in questa rielabora l’imago della propria produzione. “ Lo sguardo, - scrive Elio Franzini - nel suo rapporto con il senso archetipico dell’immagine, non è mai stato una macchina fotografica, bensì un occhio che interpreta, che vede al di là e che, di fronte alla varietà delle forme tende a una totalità non assoluta (...) ma l’immagine, al di là delle fantasticherie dell’immaginario, è capacità di penetrare il senso del mondo, di sviluppare le potenzialità del comune sentire, della sensibiltà estetica” . L’immagine, rapporto tra essa e l’indice, l’icona e il simbolo nella definizione data dal logico americano Pierce circoscrive l’intero percorso della mostra: immagine-in-
dice come frammento dell’oggetto, parte del tutto o parte presa del tutto, immagine-icona come somiglianza alla cosa senza esserla, non arbitraria ma motivata da un’identità di forma e immagine-simbolo, non più in rapporto analogico con la cosa ma necessitaria di una convenzione, decifrata attraverso un codice. La rappresentazione, nella produzione dell’architetto parmigiano, è affidata al simbolo e il senso di tale rappresentazione è trasmesso attraverso la cultura a noi propria, così che il racconto del tema è affidato al potere simbolico evocato dal colto autore; questo si materializza attraverso suggestioni storiche e rimandi letterari dell’immagine trascritti nel progetto, sapientemente presentato con una grafia fatta di volumi semplici resi quasi metafisici dall’uso sapiente della luce e dell’ombra. La mostra evidenzia in che modo, al pari degli Illuministi, Zermani metta in primis “ la concezione dell’opera” , il pensiero prima dell’atto del fare, e in tutte le realizzazioni è palese come la concezione precede l’esecuzione. Dell’architettura settecentesca fa propria la forte evocazione simbolica e l’architettura presentata nella mostra è testimone di questo atteggiamento, un’architettura mimesi dell’architettura, dalla quale Zermani riesce a far emergere i “ modelli” del proprio operare. L’immagineforma ha la possibilità di penetrare il senso del mondo, d’incrementare le potenzialità dell’immaginario collettivo e questo accade quando, come scrive Klee, “ si dilata al di là del proprio fenomeno” , in modo tale che “ noi conosciamo il suo interno e sappiamo che la cosa è più di ciò che la sua apparenza dà a vedere” . Pier Maria Giordani
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Informazione
Mostre e seminari
Il design di Magistretti a Genova Vico Magistretti. Il design dagli anni Cinquanta ad oggi Genova, Palazzo Ducale, appartamento del Doge 2 febbraio - 2 marzo 2003
Informazione
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Grandi pedane candide come iceberg, hanno fatto galleggiare sul bel pavimento continuo del Palazzo Ducale di Genova, più di settanta oggetti disegnati da Vico Magistretti a partire dagli anni Cinquanta. Un percorso “ concreto” , quello della mostra genovese, che oltre ad attraversare la poetica progettuale del grande architetto considerato uno dei padri del design italiano, ha avuto il pregio di mettere in luce mezzo secolo di storia della produzione industriale in Italia. Protagonisti così, assieme a Magistretti, i suoi notissimi oggetti dai nomi inconsueti - Atollo, Eclisse, Nuvola Rossa, Nathalie, Demetrio, Selene - e i loro produttori: da Cassina ad Artemide, da Kartell a OLuce da DePadova a Fontana Arte, da Campeggia a Flou fino a Schiffini, quest’ultimo, attraverso l’omonima Fondazione, promotore e sponsor dell’evento assieme al Comune di Genova e al Cosmit. Non progetti, né disegni nei 1.000 metri quadrati dell’appartamento del Doge a disposizione della curatrice Alessandra Burigana che ha scelto solo il loggiato del Palazzo per stendere, alla maniera dei vicoli genovesi, gli ingrandimenti degli schizzi di studio sottolineando così ancora una volta quell’idea ripetutamente espressa da Magistretti secondo cui “ il design italiano è concettualità pura” , o meglio che “ ciò che conta è il concetto espresso con uno schizzo” . Così nonostante sia stato da tempo “ adottato” dal mondo anglosassone - è membro del Royal College of Art di Londra dove anche insegna - Magistretti ha per un momento tradito la sua Milano accettando l’invito ad esporre nel capoluogo ligure. Del resto il legame
di Magistretti con la Liguria risale a molti anni addietro quando nel 1956 il giovane architetto in odore di razionalismo realizzava con i compagni di viaggio di allora e di sempre, Gardella, Zanuso, ecc. l’intervento di case unifamiliari alla pineta di Arenzano (cui poi seguirono il proget t o per la M arina Grande, 1960 e la casa Gardella, 1963); progetti che fecero molto discutere per il loro coraggio a non conformarsi con i dettami del movimento moderno, capaci di declinazioni personali tratte dalla tradizione e dalla mediterraneità. In verità Magistretti, come tutta la sua generazione e quella prima di lui, ha incarnato quella figura professionale, completa, di architetto, professionista del costruire, che della cultura del dettaglio ha fatto il proprio punto di forza, capace di pensare lo spazio e il comfort come le facce della medesima medaglia: quella dell’abitare. Un concetto che va ben aldilà dell’idea di casa, che è da ricercare e da perseguire anche nei luoghi del lavoro, del commercio, negli spazi espositivi, insomma un’idea di permanenza che permea la quotidianità del progetto in ogni sua scala: quel mai troppo citato “ dal cucchiaio alla città” di rogersiana memoria che ci ha dato il letto-tessile Nathalie ma anche le case di Piazzale Aquileia e via San Marco, l’insostituibile lampada Eclisse ma anche la Torre al Parco, le comode sedute Carimate ma anche il loro Golf Club. Maria Vittoria Capitanucci
Il mondo del SAIE
Un’architettura che non c’è
Saie Due Bologna Fiera 19-23 marzo 2003
Morceaux choisis Milano, Palazzo della Triennale viale Alemagna 6 22 gennaio - 9 marzo 2003
A Bologna-Fiera dal 19 al 23 marzo si è svolta la manifestazione del Saie Due ovvero il Salone Internazionale dell’Architettura d’Interni, del Recupero e delle Tecnologie e Finiture per L’Edilizia. Riassumendo in poche righe il contenuto e lo spirito di quest’evento, che rimane in ogni caso troppo vasto e dispersivo per essere raccontato puntualmente, si può dire che la maggior parte dei padiglioni riguardava il tema dei serramenti, dalle macchine per la loro produzione fino al prodotto commerciale finito e tutto il mondo del design strettamente correlato a quest’ultimo. Un altro tema trattato in modo esauriente è stato quello dei materiali e tecnologie per il rivestimento, dalle facciate ventilate in pietra fino ai pannelli fonoassorbenti in legno per interni. I padiglioni rimanenti erano poi tutti singolarmente concentrati su singoli temi come quello del ferro piuttosto che i prodotti ricavati da estrusione e altri ancora, molto tecnici, legati al mondo dell’industria edile. L’atteggiamento però necessario per l’architetto di fronte a tutto questo non può essere solo di semplice fruizione e consumo del prodotto, quasi fosse un mercato, bensì la riflessione e la scelta tra le tante cose utili al suo mestiere e le altrettanto cose inutili presentate come semplificazioni industriali del processo costruttivo e progettuale di uno spazio e dell’architettura. Faccio riferimento per esempio a tutti quei prodotti di rivestimento che fintamente ricostruiscono tessiture e superfici materiche preziose o ogni qual volta il materiale non viene usato per la sua specifica natura. L’invito insomma è quello di ripensare al Saie con sguardo selettivo e soprattutto progettuale considerando a quanto influisce nell’attività quotidiana del progetto e magari di riformulare un’atteggiamento propositivo nel rapporto progettazione-tecnologia.
Si è tenuta alla Triennale di Milano la mostra dedicata a Dominique Perrault, figura centrale dell’architettura contemporanea francese. Personaggio audace, che ha raggiunto rapidamente fama internazionale, Perrault critica i metodi e le convenzioni della disciplina architettonica. Il suo approccio libero e pragmatico lo porta a privilegiare un’architettura trasparente e leggera che integri i dati del luogo, e a sottolineare il valore fondamentale del rivestimento, t ema cent rale delle sue sperimentazioni. Attraverso 10 morceaux choisis, “ brani scelti” fra i suoi progetti più significativi, la mostra ha inteso far scoprire questa “ architettura che non c’è” , in un percorso che si snodava fra una trentina di pannelli luminosi in cui il visitatore, coinvolto più in un contesto spaziale e visivo che da un approccio didattico e analitico, scopriva i temi della ricerca dell’architetto parigino. L’attenzione ai vuoti piuttosto che ai pieni, si ritrova nel progetto della Biblioteca Nazionale di Francia, grande monumento al libro sulla riva della Senna, in cui la parte centrale che accoglie le sale di lettura appare come un luogo straordinario a cielo aperto, un immenso vascello seminterrato compreso tra le quattro torri angolari di vetro. La grande capacità di Perrault di integrarsi al contesto è testimoniata dal progetto del Velodromo e Piscina olimpionici di Berlino, dove in un grande frutteto di meli è incassata l’enorme costruzione, sporgente solo di un metro attraverso due volumi rivestiti di rete metallica. Analoga intenzione si ritrova nel progetto del piccolo supermercato M-Preis in Austria, costruzione di cristallo inserita in un angolo di natura. Un’occasione per scoprire un’architettura diversa, non moderna, non postmoderna, non high-tech, ma sofisticata e dall’apparenza semplicissima, che svanisce nel paesaggio, creando luoghi incantati.
Francesco Fallavollita
Roberta Castiglioni
Gio Ponti: A World Milano, Palazzo della Triennale viale Alemagna 6 15 febbraio – 27 aprile 2003 “ Gio Ponti: un mondo” è il titolo tradotto dell’esposizione monografica presentata a Londra e a Rotterdam lo scorso anno e giunta a Milano. Ponti è stato uno dei testimoni più importanti dei primi cinquant’anni di vita della Triennale e insieme un interprete fondamentale della vita culturale milanese, autore, forse non completamente celebrato, di due monumenti insuperati della città contemporanea: la Torre del Parco e il grattacielo Pirelli. La most ra sembra indicare soprattutto la complessità della mole della sua opera, la professionalità e la diffusione che, già agli inizi, la sua opera ha avuto nel mondo, piuttosto che l’aspetto di interpretazione architettonica che egli ha saputo dare della sua epoca e dell’ambiente milanese. Certamente, la città del dopoguerra porta celata nelle sue maglie l’impronta del lavoro di Ponti: in urbanistica e architettura e nella creazione di quel sistema di design fatto di produttori e artigiani, riviste, premi ed esposizioni che ancora oggi reggono le sorti del progetto e stanno portando Milano all’attenzione del palcoscenico internazionale. La particolare figura di Ponti in questa mostra è tratteggiata nella sua interezza e complessità, attraverso la continua giustapposizione di architettura, arredamento, design e arti decorative; a ciò aggiungendo il riferimento all’attività di critico militante e alla personale passione per la pittura. A tale risultato la mostra perviene attraverso l’esposizione di un corpus di opere originali e di disegni autografi provenienti in parte dagli archivi della famiglia e da collezioni private e pubbliche europee.
È così evidenziata, da un lato la capacità di Ponti di passare da una scala progettuale all’altra, dall’altro l’incredibile tensione creativa che lo ha portato a rinnovare sostanzialmente il proprio linguaggio ogni decennio, per ben 70 anni. In questo senso, e certo non solamente per motivi cronologici, Ponti giunge a rappresentare l’intero secolo appena trascorso. Lo spazio destinato alla mostra è idealmente suddiviso in diversi sottospazi: la galleria di ingresso dedicata alla attività di Ponti critico militante, culmina prospetticamente all’esterno nell’esistente Torre del Parco progettata per la V Triennale del ‘33. Allineate a parete le 234 copertine della rivista Domus diretta da Ponti dal 1928 al 1979. Si entra quindi in uno spazio più raccolto, una serie di stanze, dove i disegni di architettura si compongono con oggetti minori, di cui è necessario seguire lo sviluppo tipologico (mobili, piastrelle, posate, tessuti) e con i libri, i plastici originali di alcune sue architetture. Riferimento ideale è il “ tavolo da lavoro dell’architetto” . Lo spazio maggiore della mostra, è infine dedicato all’analisi delle realizzazioni nei campi delle arti decorative, del product design, del furniture design. Sul fondo del salone sono allineati i prototipi delle sedie e al centro, una serie di bacheche orizzontali accolgono libri e riviste e disegni su carta pergamena leggera. Alle due pareti laterali infine i disegni di architettura e alcuni plastici in cartoncino. La scansione è cronologica e l’allestimento propone una continua allusione allo spirito dei tempi e alla transdisciplinarietà del lavoro di Ponti. La mostra in fondo privilegia gli oggetti, mentre le pur numerose e prestigiose architetture risultano quasi in secondo piano, presentate e illustrate senza particolare enfasi. Roberto Gamba
Incontri con l’architettura ticinese Architetture ticinesi nel mondo capisaldi e protagonisti. Milano, CCS Centro culturale svizzero 5 e 19 marzo 2003 Le poche parole pronunciate da Livio Vacchini, severe ma allo stesso tempo colme di serenità interiore propria di chi ha la coscienza a posto, costituiscono la sintesi migliore dei due incontri serali organizzati come contorno alla mostra Architetture ticinesi nel mondo. Nel corso delle due serate si sono succeduti, nel racconto dei loro progetti vecchi e nuovi, Flora Ruchat, Mario Campi, Fabio Rheinart, Luigi Snozzi e Livio Vacchini appunto. I pensieri di quest’ultimo, elargiti come comandamenti, tanto densi quanto immediati, hanno lasciato a bocca aperta una platea silenziosa al limite dell’imbarazzo: si è parlato di inutilità della scuola politecnica (in questo caso quella di Zurigo); di inutilità dell’architettura; di isolamento dell’architetto alla ricerca di capolavori incomprensibili agli altri e di libertà del pensiero architettonico che rischia di essere annullata dalle drastiche limitazioni ai tempi progettuali. Ma, a dispetto della durezza di alcune affermazioni, gli incontri si sono svolti in un’atmosfera di genuino ardore per la professione di architetto. Come è stato ricordato dai moderatori, Vittorio Magnago Lampugnani nella prima serata e Giulio Barazzetta con Roberto Masiero nella seconda, il Canton Ticino, costituisce un’isola felice di qua-
lità progettuale e di cura nelle costruzioni tanto da diventare uno stabile punto di riferimento per la cultura architettonica internazionale. Ma nonostante l’insolita concentrazione di saggezza progettuale, cui questa mostra ha reso giustizia, non si può negare il limitato riscontro di popolarità sia sulle riviste che negli ambienti accademici. E chi ha assistito a questi incontri ne ha facilmente capito il motivo: la dedizione alla professione e la centralità che viene data alla fase ideativa e realizzativa al servizio dei valori della collettività non lascia margini per escursioni nello star system ma neanche per tentativi di realizzazioni eccessivamente spettacolari. Si sono fatti frequenti accenni al debito culturale dei progettisti ticinesi nei confronti del dibattito teorico sviluppatosi in altri Paesi e soprattutto in Italia, ma quasi tutti i progetti sembrano smentire questo disavanzo, individuando piuttosto una peculiare attenzione agli aspetti sociali, ambientali, morali ed esistenziali del progetto che insieme all’uso estensivo del beton nelle sue forme più diverse, finisce col conferire un’immagine unitaria ad un gruppo e architetti assai diversi fra loro. Probabilmente, a parte il gran parlare che si è già fatto e si farà ancora a Milano sulla nuova Scala di Mario Botta, l’architettura ticinese rimarrà sempre in secondo piano rispetto al ristretto gruppo di frequentatori delle copertine patinate, ma iniziative come questa sono innegabilmente opportune per stimolare gli assopiti professionisti di casa nostra ad un confronto con quella che Snozzi ha chiamato un’architettura di resistenza. Marco Pozzo
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Informazione
Il mondo di Gio Ponti
A cura di Carlo Lanza (Commissione Tariffe dell’Ordine di Milano)
Variazione Indice Istat per l'adeguamento dei compensi 1) Tariffa Urbanistica. Circolare Minist. n° 6679 1.12.1969 Base dell'indice - novembre 1969:100 Anno 2000 2001 2002 2003
Gennaio Febbraio 1390 1387,59 1393,87 1430 1430,28 1435,31 1460 1462,93 1467,96 1500 1501,86 1504,37
Marzo
Aprile
Maggio Giugno Luglio 1400 1410 1398,89 1402,66 1407,68 1410,19 1440 1441,59 1445,35 1446,61 1447,86 1480 1475,49 1478 1480,51 1481,77
1397,63 1436,56 1470 1471,72 1509,4
2) Tariffa P.P.A. (in vigore dal novembre 1978) Anno 2000
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2001 2002
Indici e tassi
2003
Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre 1420 1410,19 1412,70 1416,47 1422,75 1424,01 1450 1447,86 1449,12 1452,89 1455,4 1456,65 1490 1484,28 1486,79 1490,56 1494,33 1495,58
novembre 1978: base 100
Gennaio Febbraio Marzo Aprile Maggio Giugno Luglio Agosto 480 480,23 482,40 483,70 484,14 485,44 487,18 488,05 488,05 500 495,00 496,74 497,18 498,91 500,22 500,65 501,09 501,09 510 506,30 508,04 509,35 510,65 511,52 512,39 512,82 513,69 520 519,78 520,64 522,38
dicembre 1978:100,72
Settembre Ottobre Novembre Dicembre 490 488,92 490,22 492,40 492,83 501,52 502,83 503,70 504,13 514,56 515,86 517,17 517,6
3.1) Legge 10/91 (Tariffa Ordine Milano)
anno 1995: base 100
Anno
Gennaio Febbraio
Giugno
2001 2002 2003
109,30 109,69 109,78 110,17 110,46 110,55 110,65 110,65 110,74 111,03 111,22 111,32 111,80 112,18 112,47 112,76 112,95 113,14 113,24 113,43 113,62 113,91 114,2 114,29 114,77 114,97 115,35
Marzo
Aprile
Maggio
Luglio
giugno 1996: 104,2
Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre
3.2) Legge 10/91 (Tariffa Consulta Regionale Lombarda) anno 2000: base 100 Pratiche catastali (Tariffa Consulta Regionale Lombarda) Anno 2001 2002 2003
Gennaio Febbraio
Marzo
Aprile
Maggio
Giugno
Luglio
dicembre 2000: 113,4
Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre
100,44 100,79 100,88 101,23 101,49 101,58 101,67 101,67 101,76 102,02 102,20 102,29 102,73 103,08 103,35 103,61 103,79 103,96 104,05 104,23 104,4 104,67 104,93 105,02 105,46 105,64 105,99
4) Collaudi statici (Tariffa Consulta Regionale Lombarda) Marzo
Aprile
Maggio
Giugno
gennaio 1999: 108,2
Anno
Gennaio Febbraio
2001 2002 2003
105,26 105,63 105,73 106,09 106,37 106,46 106,56 106,56 106,65 106,93 107,11 107,20 107,67 108,04 108,31 108,59 108,78 108,96 109,05 109,24 109,42 109,7 109,98 110,07 110,53 110,72 111,09
5) Tariffa Antincendio (Tariffa Ordine Milano) Indice da applicare per l’anno
Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre
anno 2001: base 100
gennaio 2001: 110,5
2001 2002 2003 103,07 105,42 108,23
6) Tariffa Dlgs 626/94 (Tariffa CNA) Indice da applicare per l’anno
Luglio
anno 1999: base 100
anno 1995: base 100
1996 1997 1998 105,55 108,33 110,08
7) Tariffa pratiche catastali (Tariffa Ordine Milano) Indice da applicare per l’anno
1998 1999 2000 101,81 103,04 105,51
novembre 1995: 110,6
1999 2000 2001 2002 2003 111,52 113,89 117,39 120,07 123,27 anno 1997: base 100
febbraio 1997: 105,2
2001 2002 2003 108,65 111,12 113,87
Interessi per ritardato pagamento Con riferimento all'art. 9 della Tariffa professionale legge 2.03.49 n° 143, ripubblichiamo l'elenco, a partire dal 1994, dei Provvedimenti della Banca d'Italia che fissano i tassi ufficiali di sconto annuali per i singoli periodi ai quali devono essere ragguagliati gli interessi dovuti ai professionisti a norma del succitato articolo 9 della Tariffa.
Provv. Provv. Provv. Provv. Provv. Provv. Provv. Provv. Provv. Provv. Provv. Provv.
della Banca d'Italia (G.U. della Banca d'Italia (G.U. della Banca d'Italia (G.U. della Banca d'Italia (G.U. della Banca d’Italia (G.U. della Banca d’Italia (G.U. della Banca d’Italia (G.U. della Banca d’Italia (G.U. della Banca d’Italia (G.U. della Banca d’Italia (G.U. della Banca d’Italia (G.U. della Banca d'Italia (G.U.
10.11.1999 n° 264) dal 10.11.1999 8.2.2000 n° 31) dal 9.2.2000 3.5.2000 n° 101) dal 4.5.2000 14.6.2000 n° 137) dal 15.6.2000 5.9.2000 n° 207) dal 6.9.2000 10.10.2000 n° 237) dal 11.10.2000 15.5.2001 n° 111) dal 15.5.2001 3.9.2001 n° 204) dal 5.9.2001 18.9.2001 n° 217) dal 19.9.2001 14.11.2001 n° 265) dal 14.11.2001 6.12.2002 n° 290) dal 11.12.2002 12.3.2003 n° 59) dal 12.3.2003
3,00% 3,25% 3,75% 4,25% 4,50% 4,75% 4,50% 4,25% 3,75% 3,25% 2,75% 2,50%
Con riferimento all'art. 5, comma 2 del Decreto Legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, pubblichiamo i Provvedimenti del Ministro dell’Economia che fissano il “ Saggio degli interessi da applicare a favore del creditore nei casi di ritardo nei pagamenti nelle transazioni commerciali” al quale devono essere ragguagliati gli interessi dovuti ai professionisti a norma del succitato Decreto.
Comunicato (G.U. 10.2.2003 n° 33) dal 1.7.2002 al 31.12.2002 dal 1.1.2003 al 30.6.2003
3,35% +7 2,85% +7
10,35% 9,85%
Per valori precedenti, consultare il sito internet o richiederli alla segreteria del proprio Ordine.
Nota L’adeguamento dei compensi per le tariffe 1) e 2) si applica ogni volta che la variazione dell’indice, rispetto a quello di base, supera il 10% . Le percentuali devono essere tonde di 10 in 10 (come evidenziato) G.U. n° 163 del 13.07.1996 ISTITUTO NAZIONALE DI STATISTICA Indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, re-lativo al mese di giugno 1996 che si pubblica ai sensi dell’art. 81 della legge 27 luglio 1978, n° 392, sulla disciplina delle locazioni di immobili urbani 1) Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1979 è risultato pari a 114,7 (centoquattordicivirgolasette). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1980 è risultato pari a 138,4 (centotrentottovirgolaquattro). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1981 è risultato pari a 166,9 (centosessantaseivirgolanove). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1982, è risultato pari a 192,3 (centonovantaduevirgolatre). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1983 è risultato pari a 222,9 (duecentoventiduevirgolanove). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1984 è risultato pari a 247,8 (duecentoquarantasettevirgolaotto). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1985 è risultato pari a 269,4 (duecentosessantanovevirgolaquattro). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1986 è risultato pari a 286,3 (duecentottantaseivirgolatre). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1987 è risultato pari a 298,1 (duecentonovantottovirgolauno). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1988 è risultatopari a 312,7 (trecentododicivirgolasette). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1989 è risultato pari a 334,5 (trecentotrentaquattrovirgolacinque). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1990 è risultato pari a 353,2 (trecentocinquantatrevirgoladue). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1991 è risultato pari a 377,7 (trecentosettantasettevirgolasette). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1992 è risultato pari a 398,4 (trecentonovantottovirgolaquattro). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1993 è risultato pari a 415,2 (quattrocentoquindicivirgoladue). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1994 è risultato pari a 430,7 (quattrocentotrentavirgolasette). Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1995 è risultato pari a 455,8 (quattrocentocinquantacinquevirgolaotto). Ai sensi dell’art. 1 della legge 25 luglio 1984, n° 377, per gli immobili adibiti ad uso di abita-zione, l’aggiornamento del canone di locazione di cui all’art. 24 della legge n° 392/1978, relativo al 1984, non si applica; pertanto, la variazione percentuale dell’indice dal giugno 1978 al giugno 1995, agli effetti predetti, risulta pari a più 310,1. Fatto uguale a 100 l’indice del mese di giugno 1978, l’indice del mese di giugno 1996 è risultato pari a 473,7 (quattrocentosettantatrevirgolasette). Ai sensi dell’art. 1 della legge 25 luglio 1984, n° 377, per gli immobili adibiti ad uso di abitazione, l’aggiornamento del canone di locazione di cui all’art. 24 della legge n° 392/1978, relativo al1984, non si applica; pertanto, la variazione per-centuale dell’indice dal giugno 1978 al giugno 1996, agli effetti predetti, risulta pari a più 326,2. 2) La variazione percentuale dell’indice del mese di maggio 1996 rispetto a maggio 1995 risulta pari a più 4,3 (quattrovirgolatre). La variazione percentuale dell’indice del mese di giugno 1996 rispetto a giugno1995 risulta pari a più 3,9 (trevirgolanove).
Applicazione Legge 415/ 98 Agli effetti dell’applicazione della Legge 415/98 si segnala che il valore attuale di 200.000 Euro corrisponde a Lit. 394.466.400.