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MOLTI PIU’ DI 7 democrazia, saperi, ambiente lavoro, diritti, giustizia sociale verso il g7 economia e finanza
MOLTI PIU’ di 7 - DECIDIAMO NOI Dall’11 al 13 maggio nella città di Bari si terrà il G7, il vertice fra i ministri delle finanze di Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Canada. Nelle prime dichiarazioni in merito il ministro dell’economia Padoan ha affermato che si tratterà di “un’opportunità unica per discutere di crescita, occupazione e diseguaglianza”: a parlarne sono, tuttavia, gli stessi responsabili dell’aumento delle diseguaglianze, della deregolamentazione totale del mercato del lavoro, della spinta neoliberista che ha prodotto ed accelerato le distanze economiche e sociali fra nord e sud del mondo. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un processo di centralizzazione e verticalizzazione dei procedimenti deliberativi, unito alla crescente rilevanza di spazi decisionali avulsi da qualsiasi principio democratico bensì strettamente legati ai poteri finanziari (WTO e FMI). Queste trasformazioni sono frutto di un disegno politico che vede come una necessità l’eliminazione di ogni vincolo posto dalla rappresentatività e raggiungibile attraverso una progressiva amplificazione della distanza fra i luoghi nei quali si prendono le decisioni e coloro i quali le subiscono. I G7 degli ultimi due anni sono emblematici in questo senso. La discussione sulla crescita ha volutamente ignorato ciò che questa comporta: lo sfruttamento e l’impoverimento del territorio e delle persone, la devastazione ambientale, i conflitti legati al controllo delle risorse sono oscurati in una pianificazione che li reputa effetti collaterali irrilevanti per il perseguimento dell’obiettivo prioritario del profitto per pochi. Non è differente il quadro emerso durante l’ultimo G20 svoltosi in Cina all’inizio di settembre. Il comunicato pubblicato al termine del meeting dal nome «Hangzhou Consensus» rappresenta un inno alla globalizzazione intesa esclusivamente in chiave neoliberista ed il sigillo del patto tra Paesi emergenti e Paesi avanzati per la supremazia del mercato e della tecnocrazia a discapito delle sovranità nazionali, dei diritti sociali e dei bisogni reali della popolazione mondiale. Si annunciano nuove forme di partenariato pubblico-privati e meccanismi finanziari, gli stessi che hanno condotto alla crisi dei sub-prime, politiche estrattive di petrolio e risorse naturali (ma come si concilia questo con gli impegni sul clima dello stesso G20?), creazione di corridoi di autostrade, oleodotti, reti di trasmissione di energia, e mega porti con zone franche da cui partono rotte marittime accelerate, per lo stimolo del commercio mondiale. L’investimento in infrastrutture e in corridoi monumentali tra un Paese e l’altro è funzionale esclusivamente all’estrazione delle materie prime, al consumo e alla produzione globale. Ancora una volta si voltano le spalle alla possibilità di un’organizzazione produttiva e sociale su scala mondiale che possa realmente salvaguardare l’ambiente e ripensare i rapporti di produzione e gli schemi delle relazioni sociali all’interno della società attuale. Nei vertici mondiali degli ultimi anni, le contraddizioni legate alla definitiva affermazione del mercato globale sono state assunte come dato di fatto: l’ampliarsi della forbice tra nord e sud del mondo non è stato problematizzato nè sono state proposte risoluzioni concrete in linea con la logica per la quale una parte del globo riveste l’unica funzione di garantire l’arricchimento dell’altra, condizione immutabile e socialmente tollerata. La rapidissima crescita conosciuta negli ultimi anni dai cosiddetti Paesi emergenti si è mossa sullo stesso binario, facendo esplodere un numero ancor maggiore di contraddizioni dovute all’ingresso di nuovi attori nel mercato globale, con la conseguente accelerazione dei processi di aggressione dei territori. Il tema dell’ inaccessibilità delle risorse proprio per le popolazioni dei territori che vengono costantemente saccheggiati, nell’interesse di una fetta estremamente ristretta di popolazione, dovrebbe costituire un tema prioritario per coloro i quali periodicamente si riuniscono per discutere le sorti del pianeta.
SULLE POLITICHE INTERNAZIONALI... DECIDIAMO NOI! Gli avvenimenti degli ultimi mesi, in primis l’elezione di Trump come presidente degli Stati Uniti, hanno inciso profondamente sul quadro internazionale, modificando una serie di equilibri geopolitici. La svolta neo protezionista degli Stati Uniti va letta necessariamente in relazione al processo di orientizzazione del mondo in corso, con una crescita del PIL dei Paesi orientali, in particolare della Cina, che acquista un ruolo centrale nel mercato globale. Il “Make America Great Again” portato avanti da Trump nasce proprio come risposta alla perdita di peso economico degli Stati Uniti, una risposta che prova a mettere in discussione la globalizzazione attraverso una lettura reazionaria e nazionalista. Tanto l’imposizione dei dazi doganali al 35% quanto il progetto del muro al confine con il Messico, azioni in difesa dei confini, sono il tentativo di ristabilire il primato dell’America come potenza globale. L’evidente contraddizione della politica trumpista è dimostrata dal perseguimento di politiche interventiste in ambito estero, nonché dalla presenza dei luoghi dell’alta finanza e di centri di produzione immateriale come la Silicon Valley, proprio negli Stati Uniti d’America, che determinano un flusso di capitale dall’America verso il resto del mondo. Riteniamo necessaria la messa in discussione di un modello di globalizzazione nel quale a circolare liberamente sono esclusivamente le merci e il flusso di risorse è a senso unico, da sud verso nord, rendendo impossibile tanto immaginare un modello differente di società, quanto superare la crisi umanitaria che stiamo attraversando. Fintanto che l’Occidente intenderà il suo ruolo in tale crisi in un’ottica puramente egoistica e neo-colonialista non sarà possibile uscirne: continuare ad ignorare le responsabilità storiche derivanti da secoli di devastazione e sfruttamento dei territori, il legame di queste con i numerosissimi conflitti legati al controllo delle risorse e delle ricchezze, significa mistificare volutamente la realtà. Le politiche umanitarie portate avanti da numerosi governi occidentali nei Paesi del Terzo Mondo si configurano come un’operazione di facciata, volta a costruire l’immaginario di un occidente avanzato in grado di aiutare le altre popolazioni ad uscire da una condizione di arretratezza della quale si oscurano scientemente le cause. L’esplosione di sanguinosi conflitti ai confini dell’Europa ha tuttavia posto l’Occidente in una posizione nuova, di pericolosa vicinanza al fronte, per la quale esso non poteva essere ignorato. La guerra che imperversa in Siria da più di tre anni, lo scenario di totale destabilizzazione dell’Ucraina, l’avanzata dell’ISIS in Medio Oriente, la complessa situazione della Turchia pongono l’Europa nelle condizioni di dover necessariamente prendere posizione: ancora una volta, tuttavia, le scelte prese dai governi occidentali confermano la mancanza di volontà di mettersi seriamente in discussione. Il sostegno dimostrato dalle “democrazie occidentali” al premier turco Erdogan, a seguito della risposta sanguinosa ed autoritaria ad un golpe militare le cui dinamiche hanno suscitato non pochi dubbi in merito al reale coinvolgimento del partito del presidente, è emblematico dell’importanza prioritaria rivestita, agli occhi dei leader europei, dal mantenimento dei rapporti di forza volti a garantire gli interessi economici. E’ inaccettabile che si continui a sostenere chi da anni porta avanti il massacro della popolazione curda e la distruzione delle uniche forze popolari democratiche in grado di contrastare la minaccia del fondamentalismo religioso. Allo stesso modo è inaccettabile la stipula dell’accordo fra Unione Europea e Turchia circa i flussi migratori provenienti dalla Siria: si tratta di un’operazione di totale deresponsabilizzazione dell’Europa, che appalta la gestione dell’esodo dei rifugiati a chi non ha il minimo interesse nell’inclusione di chi scappa dalla guerra, la fame e la miseria. Operazione, questa, perfettamente in linea con la pressoché totale mancanza di attivazione reale dell’Unione Europea nella strutturazione di nuove misure di accoglienza. La retorica dell’emergenza che ha caratterizzato quasi ogni narrazione del fenomeno migratorio, soprattutto negli ultimi anni, dovrebbe cedere il posto all’assunzione del tema dei migranti come caratteristica strutturale del mondo moderno e contemporaneo. La narrazione dominante, invece, parla di “crisi” migratoria come fenomeno emergenziale in maniera strumentale all’assunzione di misure
“straordinarie” di gestione dei flussi, che possano in quanto tali prescindere da qualsiasi forma di inclusione della popolazione nei processi decisionali. I governi europei hanno fatto uso dello strumento del panico -dell’invasione, dello straniero in sé, del potenziale terrorista- per portare avanti politiche in materia di immigrazione fortemente repressive, lontane da qualsiasi intento di inclusione ma volte piuttosto alla costruzione di un’identità europea tutta oppositiva. La libera circolazione delle merci, paradigma del neoliberismo, è dunque applicabile anche alle persone solo nella loro concezione in quanto forza lavoro funzionale alla produzione di ulteriore ricchezza attraverso lo sfruttamento: non esiste nessuno spirito di solidarietà nelle logiche della governance europea, ma solo un accurato calcolo di costi e benefici. L’innalzamento di muri ai confini, così come nel cuore dell’Europa, dalla Grecia, all’Ungheria a Calais, è la prova dell’accantonamento del progetto politico, mai pienamente realizzato, dell’ “Europa dei popoli”. Si va piuttosto nella direzione della “fortezza Europa” nella quale la governance, affatto rappresentativa delle popolazioni europee, riproduce tanto verso l’esterno quanto verso i Paesi più deboli al suo interno logiche volte al controllo e all’assoggettamento, che nascondono una realtà nella quale l’unica certezza è una crescente frammentazione e fragilità sociale. Sul versante americano, il provvedimento del Muslim Bun e la costruzione del muro al confine con il Messico, si inseriscono perfettamente in questo quadro, configurandosi come politiche securitarie a matrice fortemente razzista, che fanno leva sul disagio sociale per catalizzare l’odio verso il migrante, introducendo un elemento di difesa dell’identità interconnesso al tentativo di ristabilire, quantomeno a livello di immaginario, il primato statunitense nonché il “sogno americano”.
SULLE POLITICHE ECONOMICHE EUROPEE...DECIDIAMO NOI! La crisi strutturale produce i propri effetti anche nel contesto dell’Unione europea, laddove coesistono elevate disuguaglianze fra persone e fra Stati e regioni. Crescono i dati sulla disoccupazione, molti giovani non studiano né lavorano, la situazione è aggravata dai forti squilibri tra aree geografiche differenti. Anche in Europa la crescita è rallentata nell’ultimo decennio, a fronte di un modello di sviluppo, il c.d. “Modello europeo”, caratterizzato da un’elevata spesa per prestazioni sociali, che negli ultimi anni è stato progressivamente accantonato. Dal punto di vista economico, l’Unione europea al suo interno ha un’economia principalmente terziarizzata, il cui 60% del totale, in media, dipende dal commercio intraeuropeo; sul fronte internazionale, l’UE ha investito principalmente sulle esportazioni intercontinentali, provando a rivestire un ruolo egemonico sul piano internazionale e nel commercio orizzontale (export-import di beni manufatti), di cui il 30% degli scambi riguarda energia e materie prime. Tuttavia, a quasi 60 anni dal Trattato di Roma, il progetto iniziale dell’Unione europea è fortemente in pericolo. Le dichiarazioni di Junker, accolte positivamente e condivise da Hollande, Rajoy, Merkel e Gentiloni circa la possibilità di costruire un’Europa a velocità differenziate non sono altro che l’ennesima conferma dell’assenza di volontà da parte della governance di porre un freno alle diseguaglianze e alla sostanziale disgregazione dell’Unione Europea, scegliendo di ampliare sempre più la forbice fra paesi europei ricchi e paesi europei in crisi. Il progetto originario di UE deve la sua fragilità sia a lacune strutturali dell’organizzazione istituzionale, quindi di organismi tecnici ed economici, dotati di un mandato politico debole e distante dalla popolazione europea, sia alla conseguente crisi culturale e sociale che attraversa il continente, con un rinvigorimento della retorica antieuropeista, conservatrice e xenofoba. Il rigetto del progetto europeo è figlio di anni di politiche che hanno messo in cima alle priorità il capitale e il profitto, sottraendo, in nome delle “condizionalità”, legittimità e risorse ai diritti sociali e fondamentali dell’Uomo, è figlio di scelte governative distanti dagli umori e dai bisogni dei cittadini, della crisi dei confini europei, dell’illusione che il mercato comune e la moneta unica fossero bastevoli per dare senso al processo di integrazione ed allargamento dell’Unione. Vogliamo avere voce in capitolo sulle decisioni riguar-
danti i processi politici ed economici che attraversano l’Unione e che incontrano anche la dimensione internazionale. A seguito del Trattato di Lisbona (2009), la Commissione europea, un organo che non è intergovernativo come il Consiglio, ha assunto più poteri anche sulle decisioni riguardanti il bilancio dell’UE e, senza alcuna consultazione popolare, tale organo si è arrogato il diritto di condurre le trattative per degli accordi di libero scambio internazionale, quali il TTIP e il CETA, con gli Stati Uniti d’America e con il Canada. Il ritiro del TTIP da parte dell’America di Trump non costituisce assolutamente un passo in avanti, essendo giustificato dall’adozione di politiche neoprotezioniste in un’ottica nazionalistica e non da un ripensamento generale delle relazioni, economiche e non, nel mondo globalizzato, nonché dell’attacco nei confronti di principi e diritti che dovrebbero essere irrinunciabili come il diritto al lavoro, all’ambiente ed alla salute. La definitiva approvazione del CETA consente alle imprese multinazionali canadesi di smerciare i propri prodotti in Europa, innescando una battaglia concorrenziale finalizzata alla cancellazione delle piccole e medie aziende agricole, combattuta, su entrambe le sponde dell’Oceano Atlantico, attraverso politiche di riduzione drastica dei diritti dei lavoratori e dei canoni minimi di tutela della salute dei cittadini. Tutto questo è inaccettabile! Le trattative sovranazionali citate confermano ancora una volta come ad oggi risulti ormai del tutto smascherata la profonda incongruenza tra gli interessi economici delle governance internazionali e i reali interessi dei nostri territori e di chi li vive. Appare evidente come la rappresentanza delle istanze territoriali si ponga in profonda contrapposizione con il disegno di conquista neoliberista che espone i nostri territori alla totale spoliazione da parte dei grandi poteri finanziari ed economici. Garantirne i profitti rende oggi necessario il progressivo allontanamento dei processi di democrazia e partecipazione territoriale dai luoghi della decisionalità politica.
SU FORMAZIONE E RICERCA... DECIDIAMO NOI! In questo panorama è sempre più evidente quanto sia poco considerato il ruolo emancipatorio della cultura, non solo per il singolo individuo ma per l’intera comunità cittadina: scuole e università non sono più considerati nella loro funzione originaria di centro di elaborazione e promozione culturale e scientifica, di forte valore per il territorio. Dalla riforma Gelmini, alla riforma Buona Scuola, decreti su decreti, si è smantellato il sistema di istruzione pubblica italiano soggiogandolo alle logiche dei privati e creando disparità tra atenei, scuole, territori. Queste riforme sono state attuate in linea con le direttive europee delineate al vertice di Bologna nel 1999, in cui si stabilì l’instaurazione di un “modello europeo di istruzione internazionale” che, tuttavia, ha avuto conseguenze disastrose per scuole e università. I cicli di istruzione superiore e universitaria sono stati parcellizzati, standardizzati, sempre più inscritti dentro logiche di mercato, perdendo la propria funzione sociale ed emancipatoria. I dati ci dicono che il rapporto degli immatricolati negli ultimi 2 anni nei maggiori atenei della nostra regione (Foggia, Bari, Lecce) è in calo e negli ultimi 10 anni il 34% della popolazione studentesca pugliese studia fuori regione. Indagando le cause della desertificazione e dell’abbandono dei luoghi della formazione bisogna innanzitutto denunciare un sistema di diritto allo studio al collasso. Molti studenti sono costretti a vivere la condizione da pendolare senza poter usufruire di alcuna agevolazione economica, il diritto alla mobilità quindi non è garantito; non tutti gli studenti riescono ad accedere a borse di studio ed è ancora presente la figura dell’idoneo non beneficiario. I costi dell’istruzione ricadono esclusivamente sulle spalle degli studenti e delle loro famiglie e le misure di sostegno e di welfare studentesco sono sempre meno finanziate e/o attivate. Si decide di abbandonare il proprio territorio a fronte di una crescente disoccupazione, contrariamente a quanto dichiarano certi governi, e a causa dell’assenza di opportunità. Gli studenti sono stati
privati di troppi spazi di decisionalità e devono tornare ad avere la possibilità di scegliere sulle proprie vite e sul proprio futuro, devono avere la possibilità di scegliere di restare o di andare via senza rischiare di rimanere rinchiusi in quella gabbia d’acciaio che li rende vittime di ricatto, sia per motivi economici che per l’impoverimento dell’offerta formativa. La risposta del governo alla crescita della disoccupazione (in particolar modo della disoccupazione giovanile, che in Puglia supera il 51%) è stata l’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro, da svolgersi obbligatoriamente per 200 o 400 ore. Presentata come strumento utile per la connessione fra mondo della scuola e mondo del lavoro, questa si sta rivelando l’ennesimo esempio di subordinazione della formazione alle esigenze del mercato, caratterizzandosi per percorsi per nulla formativi, che rappresentano il più delle volte occasioni per le imprese per ottenere manodopera gratuita sfruttando studenti che vengono così prematuramente inseriti in un mondo fatto di precariato e assenza di diritti, educati all’obbedienza, allo sfruttamento, al rifiuto del pensiero critico. La condizione della didattica nei nostri Atenei, inoltre, rientra sempre in quella serie di motivi che spingono gli studenti a non scegliere un Ateneo pugliese. La didattica viene svilita sempre di più a partire dall’introduzione delle lauree 3+2 che vanno a rendere il percorso di studi molto più generale,e viene definanziata sempre di più per via dei nuovi e inadeguati parametri dell’ANVUR. A seguito delle riforme drastiche sull’istruzione degli ultimi anni, le decisioni più importanti sono state centralizzate nelle mani del CDA a scapito del senato accademico, unitamente all’introduzione di privati direttamente e indirettamente nei consigli di amministrazione: tali provvedimenti, sono figli di quella logica di aziendalizzazione dei luoghi della formazione con la figura del direttore generale che di fatto assume sempre di più le fattezze di un vero e proprio manager d’azienda. Ad oggi vi sono sempre meno spazi di agibilità e di incisione dal basso, negli organi di rappresentanza, per gli studenti e per la comunità dei docenti. Analoghe dinamiche sono accadute dentro le scuole a seguito della Riforma “Buona Scuola”. In generale il nostro sistema formativo vive uno stato di emergenza che si aggrava sempre di più nel meridione, questo si riflette tanto nell’abbandono del percorso formativo post-diploma, tanto nell’emigrazione verso le Università del Nord. Le grandi differenze tra Atenei del Nord e Atenei del Sud sono state determinate a seguito di politiche di finanziamento e di stanziamento delle risorse con parametri distributivi molto critici e insani: la dimensione dell’Ateneo, il livello di contribuzione studentesca e l’inserimento nel mondo del lavoro post-laurea. In particolar modo questi ultimi due criteri sono risultati particolarmente penalizzanti per il nostro territorio che storicamente versa in condizioni socio-economiche peggiori rispetto al Nord del paese e che quindi non solo vede una media dei redditi familiari più bassa ma anche un’offerta lavorativa che non può essere assolutamente considerata alla pari del settentrione. Va anche tenuto in considerazione il dato per il quale gli studenti che si iscrivono all’Università provengono da famiglie i cui componenti hanno conseguito la Laurea, mentre quelli studenti che decidono di non proseguire gli studi provengono da famiglie i cui componenti hanno conseguito il diploma superiore: le percentuali riferite a questi dati sono più preoccupanti al Sud del Paese. In questo immobilismo sociale e culturale che sembra sussistere sul nostro territorio, le politiche welfaristiche potrebbero rappresentare un punto di svolta, andando ad abbattere quegli ostacoli di matrice economica che impediscono di fatto un investimento da parte delle famiglie nella formazione. Invece, tanto le politiche dei singoli Atenei, tanto quelle Regionali, fino ad arrivare alle politiche nazionali, ci restituiscono un quadro per il quale è evidente che la formazione e l’accessibilità alla stessa non siano prioritarie, ma anzi si punti ad un modello elitario di Università e di scuola, non riconoscendo e negando soprattutto l’importanza delle ricadute dal punto di vista culturale, sociale e politico che queste hanno sul territorio che abitano. In questo non si può non evidenziare il fortissimo taglio in ricerca e sviluppo messo in campo dalle politiche degli ultimi anni che hanno determinato la diminuzione del più del 44% dei dottorandi in Italia nel giro di dieci anni, oltre che una disuguaglianza incredibile tra le opportunità che i laureati hanno di proseguire gli studi nelle Università del Nord e del Sud Italia. I
tagli in questo settore dimostrano la scarsa considerazione dell’importanza che possono assumere i saperi e le conoscenze nel migliorare le condizioni dei territori e nel risolvere le gravi contraddizioni che emergono sempre più nella società, si investe, piuttosto, esclusivamente in quei percorsi strettamente legati alle esigenze e alle trasformazioni del modello di sviluppo e del mercato economico. Emblematiche in questo sono le politiche di integrazione tra formazione pubblica ed enti privati che determinano sempre più i percorsi didattici, così come i finanziamenti indirizzati all’industria 4.0, tutti legati alla prospettiva in cui digitalizzazione ed automazione debbano essere funzionali a chi oggi detiene la produzione, in una logica di nuova subordinazione dei lavoratori piuttosto che in una messa in discussione dell’attuale organizzazione del lavoro più giusta e più tutelata. Le stesse politiche messe in atto dal Governo Renzi e dal Presidente della Regione Michele Emiliano, quali il Masterplan per il Sud e il Patto per la Puglia, sia rispetto alla formazione che rispetto all’occupazione, sono improntate anch’esse ad una logica di competitività e meritocrazia, in un’ottica di attrattività del territorio per richiamare a sé i capitali privati, del tutto inadatte a cogliere le necessità reali del nostro territorio e completamente distanti da quelle misure di welfare che sarebbero necessarie per superare le diseguaglianze sociali che esistono nel nostro territorio.
SU AMBIENTE E TERRITORIO... DECIDIAMO NOI! Nella dimensione della centralizzazione dei processi decisionali è emblematica l’intera modalità di gestione delle politiche ambientali nel nostro Paese: dall’imposizione delle grandi opere inutili e dannose, alla svendita del patrimonio paesaggistico, passando per la militarizzazione dei territori fino alle facilitazioni in campo di trivellazioni, discariche e combustione di rifiuti introdotte dalla legge “Sblocca Italia” targata Governo Renzi. In virtù di ciò l’esperienza referendaria dello scorso 17 Aprile rappresenta un tentativo di ribaltamento delle logiche di centralizzazione delle decisioni inerenti il futuro dei nostri territori, un processo che ha in parte ricostruito quel senso di condivisione di un nuovo modello di sviluppo frutto delle elaborazioni di quanti da anni subiscono le conseguenze di tale deriva autoritaria e antidemocratica. L’esito della consultazione referendaria del 4 dicembre è stata poi l’espressione del bisogno di democrazia, intesa come possibilità da parte delle popolazioni di continuare a decidere sui propri territori anche sul piano energetico ed ambientale. Alla democrazia, alla richiesta di incisione nei processi decisionali e di autodeterminazione, i governi degli ultimi anni hanno tuttavia risposto con la retorica della stabilità, che ha costituito il paradigma giustificativo nell’assunzione di determinate scelte politiche da parte dei Paesi del G7. Sul piano internazionale la COP21 di Parigi ha segnato un passo fondamentale, con l’Accordo finale stipulato e ratificato lo scorso dicembre dalla maggior parte delle nazioni del mondo e che palesa l’urgenza e la necessità di politiche internazionali e nazionali volte all’abbassamento della temperatura media globale. Tuttavia l’accordo, oltre a non essere stato rettificato da tutti i paesi, non risulta essere vincolante nelle politiche nazionali né in generale pone linee guida sufficienti a cambiare la gravissima situazione in cui oggi ci troviamo. Quello che serve urgentemente sono politiche di decarbonizzazione del modello produttivo, fondi sulla ricerca per nuovi sistemi e fonti energetiche, obblighi per i paesi aderenti a rispettare gli accordi internazionali, una riflessione seria sull’economia circolare, opere di mitigazione ed adattamento per i paesi cd. in via di sviluppo, che seppure non responsabili del riscaldamento globale sono tra quelli che maggiormente ne subiscono le nefaste conseguenze. Nonostante ciò nel nostro paese è ancora in atto una Strategia Energetica Nazionale (SEN) obsoleta e le politiche degli ultimi anni sono andati in tutt’altra direzione rispetto alla decarbonizzazione, continuando invece a riconoscere petrolio e gas metano come fonti energetiche cui ricorrere. In questo senso è urgente che il Governo ascolti con attenzione le proposte di linee guida che la società civile ha da dare sulla nuova SEN. Il concetto di democrazia energetica è quello da cui è fondamentale partire per esprimere la decisio-
nalità sia sulla scelta del tipo di fonti energetiche cui ricorrere (pulite), sia rispetto alla distribuzione e gestione degli impianti (non più grandi centrali o impianti costruiti selvaggiamente ma impianti diffusi e a gestione endogena e locale), nell’ottica del ripensamento dell’attuale modello produttivo e di sviluppo. In Puglia il caso TAP è emblematico rispetto all’attuale modello di gestione tanto delle risorse territoriali ed economiche, quanto del conflitto sociale che esso stesso genera: un megaimpianto che distrugge il territorio e che trasporta una fonte energetica fossile, difeso da un aspro meccanismo di repressione nei confronti della popolazione locale, che fin dalla prima presentazione del progetto si è dimostrata fortemente contraria a questa ennesima imposizione dall’alto, determinata dai pochi che ne traggono il massimo profitto. Quello della nostra regione è un territorio che da sempre fonda la propria economia sull’agricoltura e che ottimamente si presta all’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili: il modello economico e di sviluppo adeguato al nostro territorio è quello rurale, così come inteso dai piani proposti in passato anche dalla stessa Unione Europea, ma mai applicati. Uno sviluppo fondato innanzitutto sulla partecipazione popolare, quindi sulla democrazia, ma anche sulla sostenibilità economica ed ecologica. Al contrario osserviamo come negli anni le regioni del Mezzogiorno, ed in particolare la Puglia, siano state deturpate da provvedimenti basati sull’industrializzazione e sull’estrapolazione o trasformazione selvaggia di risorse, spesso con una gestione completamente esogena rispetto al territorio, producendo di conseguenza numerosissimi casi di conflitti ambientali. Dall’ILVA di Taranto, caso più eclatante ed emblematico del conflitto capitale-ambiente-lavoro, alla centrale a carbone di Brindisi, passando per il cementificio di Barletta o la Fibronit di Bari, fino ad arrivare alle discariche abusive foggiane e all’interramento di rifiuti pericolosi sparsi su tutto il territorio regionale. Questi citati sono solo alcuni dei problemi che attanagliano la nostra regione e che portano con sè conseguenze drammatiche, dal piano economico-sociale, con il dato eclatante sulla povertà, a quello medico, con condizioni di salute sempre più precarie per la popolazione locale, a quello occupazionale e formativo, che pone il lavoro sempre più come un ricatto e il sapere sempre come strumento utile al mantenimento di queste condizioni e di questo modo di produzione. Anche per questo motivo, partendo dai saperi e dalla ricerca è necessario modificare l’attuale modello di sviluppo.
SU DISEGUAGLIANZE, LAVORO E WELFARE... DECIDIAMO NOI! La retorica della stabilità ha vissuto un forte incoraggiamento, all’indomani dello scoppio della crisi economica, proprio da quei soggetti dell’alta finanza che hanno alimentato un sistema speculativo di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze. Le riforme, presentate spesso come “necessarie”, che hanno colpito duramente i lavoratori, il mondo della formazione, l’ambiente ed il welfare, continuano a seguire la strada degli interessi di pochi a discapito dei molti. Per questo meeting è stata scelta proprio la Puglia, come vetrina del Bel Paese e della sua politica. Tuttavia, in realtà, la nostra Regione e in generale il Mezzogiorno sono attraversati proprio dalle contraddizioni dello stesso modello di sviluppo, che in quel vertice si intende perfezionare. Da tempo le politiche imposte nel nostro territorio, figlie di una visione del Sud come terra da cui estrarre profitto attraverso lo sfruttamento del territorio e dei cittadini, hanno prodotto fortissime diseguaglianze sociali, frammentato la popolazione ed escludendo le fasce più deboli della società dai processi decisionali. Basti pensare al primato pugliese, tra le prime dieci regioni d’Europa per disoccupazione giovanile con un tasso del 51,3%, la disoccupazione generale al 21,5% e l’allarmante dato della dispersione scolastica pari al 19%, frutto di un sistema di diritto allo studio ancora gravemente insufficiente, che racconta di un territorio in cui uno studente su cinque abbandona il suo percorso formativo prima di ottenere un diploma. I dati Istat descrivono un Mezzogiorno in cui un cittadino su
due è a rischio povertà e c’è una forte diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza economica. La risposta a questa condizione è sempre la stessa: continuo smantellamento dei diritti, taglio ulteriore dei sistemi di welfare, attuazione di politiche esclusivamente propagandistiche che non determinano alcun cambiamento reale delle condizioni di vita dei cittadini. A proposito di ciò, riteniamo opportuno mettere in luce i limiti dell’unica misura concreta in termini di welfare messa in campo dall’amministrazione Emiliano: il ReD (reddito di dignità), misura fortemente legata al lavoro e a parametri stringenti di accesso (famiglia, isee 3000 euro) che, a diversi mesi dalla sua approvazione, ha avuto poche richieste di iscrizioni non perchè non sia necessaria quanto per una mancanza di diffusione e di informazione di tale strumento, oltre ai limiti di accesso. Povertà, diseguaglianze socio-economiche, assenza di prospettive dignitose di vita. In questo quadro le Istituzioni dovrebbero assumere tali bisogni come priorità dell’agenda politica cui rispondere con azioni precise e concrete. Migliaia di giovani, donne e uomini vivono sotto ricatto, sopravvivono per un lavoro povero, precario, flessibile e spesso a nero. Sempre più studenti sono costretti a lavorare perchè il sistema di diritto allo studio regionale e di welfare studentesco non svolgono la propria funzione ontologica di sostegno. Come se non bastasse oggi la nostra regione vive le conseguenze di un modello produttivo ancora profondamente legato all’industria pesante ed alle lobby della produzione energetica che speculano sul nostro territorio e sulle nostre vite. Il ricatto che siamo costretti a vivere quotidianamente è quello tra salute e lavoro e tra lavoro e ambiente. E’ proprio in Puglia infatti che hanno sede le industrie più inquinanti d’Europa. A questa drammatica situazione e alla richiesta di giustizia da parte di chi vive quei territori nessun governo e nessuna amministrazione ha mai dato risposte concrete ad un conflitto, quello tra tutela ambientale ed occupazione, da cui dipendono le vite di decine di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie. Stessa mancanza di risposte che caratterizza il tema dell’integrazione dei migranti nel nostro territorio, dalla mancanza di un sistema strutturato di accoglienza, causa del terribile dato del sovraffollamento dei CIE e dei CARA, ormai simili a luoghi di detenzione in cui vivono centinaia di persone in condizioni disumane, al tema dello sfruttamento che coinvolge decine di migliaia di migranti ridotti in schiavitù nelle nostre campagne. A fronte dello scenario qui descritto vogliamo rimettere al centro del dibattito pubblico, fin troppo sterilizzato, due concetti che per noi sono imprescindibili in uno stato che voglia definirsi “democratico” e sono: DIGNITA’ e GIUSTIZIA SOCIALE, perchè senza di esse non esiste alcuna democrazia materiale. Crediamo che il carattere sostanziale della democrazia possa concretizzarsi attraverso l’attuazione di politiche di welfare forti e ben strutturate, che garantiscano un’occupazione non solo migliore in termini quantitativi ma anche qualitativi, con la garanzia di diritti, tutele e stabilità per tutti i lavoratori e le lavoratrici e di un lavoro che risponda ai bisogni propri del territorio.
PERSONE E TERRITORI RIBELLI CONTRO LE MAFIE...DECIDIAMO NOI! Le contraddizioni esistenti nel modello di sviluppo, così come le grandissime disuguaglianze sociali sono la base su cui si poggiano le organizzazioni criminali sul nostro territorio. La Puglia è una delle regioni in cui la mafia è maggiormente radicata. In tutta la regione troviamo oltre 70 clan che agiscono su vari aspetti, partendo dalla microcriminalità continuando verso quelle che sono le ecomafie e le agromafie. Secondo gli ultimi censimenti dell’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare, sono circa 2.489 i terreni nelle mani della criminalità organizzata; il fenomeno del caporalato è fortemente presente nel basso ente nella stagione estiva. Il traffico di armi, di merce contraffatta, di rifiuti, di tabacchi lavorati esteri, di prostituzione e di stu-
pefacenti continuano a rimanere pratiche consuete in gran parte dei comuni pugliesi. Storicamente il fenomeno mafioso si innesta nel Meridione, anche e soprattutto in virtù del fatto che al Sud, a differenza del resto d’Italia ha resistito un sistema feudale sino agli inizi del XX secolo. In questo contesto dominato da un rigido sistema piramidale, il fenomeno mafioso, agli albori, si è innestato come soggetto intermedio tra il padrone latifondista e la massa di contadini e braccianti che lavoravano le terre direttamente, fungendo da sistema di produzione di bassa manovalanza. Con il passare del tempo, nel ‘900, la mafia si è evoluta e sfruttando l’avversione della popolazione meridionale verso lo Stato, avvertito lontano e assente, è riuscita ad imporsi come soggetto alternativo ad esso, capace di saper intercettare i bisogni delle persone e trovare quelle risposte che quello Stato non riusciva a trovare. La forza di radicamento delle mafie nel Sud e nella nostra regione è determinata dalle difficili condizioni materiali della popolazione, sulle quali non si è intervenuto con soluzioni efficaci nel tempo permettendo un’emancipazione sociale, culturale ed economica. È necessario, quindi, ripartire dai bisogni delle persone per proporre non solo un nuovo modello economico ma anche e soprattutto un nuovo modello sociale che riesca a trovare delle soluzioni incisive ai disagi del nostro presente. Le organizzazioni mafiose pugliesi hanno un controllo radicato anche delle attività produttive ed economiche della regione. Le agromafie hanno in possesso circa il 10% dei terreni agricoli e il fenomeno del caporalato tende a crescere anche in relazione alla crescita del flusso migratorio in Italia e in Europa. I casi più gravi di agromafie in Puglia restano nelle province di Foggia, Lecce e Bari dove migliaia di migranti, spesso in fuga da Paesi in guerra (civile o contro l’autoproclamato Stato Islamico) o da condizioni economiche estremamente sfavorevoli, accettano mansioni lavorative umili e sono costretti a lavorare e vivere in condizioni di sfruttamento e miseria. Gli occupati nel settore agro-alimentare – sia italiani che stranieri – nella regione Puglia sono 187.640 unità lavorative. I lavoratori occupati di origine straniera raggiungono le 33.000 unità. e il giudizio è netto: le condizioni occupazionali sono considerate decisamente negative, in quanto caratterizzate da lavoro para-schiavistico. Il giro d’affari connesso alle agromafie è compreso tra i 12 e i 17 miliardi di euro, ossia il 5-10% di tutta l’economia mafiosa. Nell’ultimo anno sono diventati negativamente protagonisti della cronaca i due casi emblematici dello sfruttamento messo in atto dal caporalato nella nostra regione: nelle campagne di Rignano, nel Tavoliere, e nei campi di Nardò, in Salento. Nell’arco della stagione estiva, periodo di piena lavorativa, complessivamente sono quasi 10mila i migranti che si rifugiano nei ghetti presenti nel territorio di questi due comuni. Gli interventi posti in atto dalle istituzioni non permettono, ad oggi, né una soluzione delle condizioni di sicurezza e igienico-sanitarie in cui vivono i migranti nei ghetti, né una lotta al caporalato che continua a tenere uomini e donne sotto ricatto e in condizioni di schiavitù in cambio di salari bassissimi. Un esempio in questo senso è rappresentato dallo sgombero del ghetto di Rignano. Seppur le condizioni di vita nel ghetto fossero disastrose, questa azione non pone soluzione alla gestione delle migliaia di migranti che ritorneranno a Rignano in questi mesi per chiedere lavoro e non dà agli stessi una alternativa di emancipazione economica per soddisfare i propri bisogni che non sia il ricatto e lo sfruttamento imposti dai caporali. Da pochi mesi è attiva la legge contro il caporalato, una vittoria importante e un provvedimento che le istituzioni locali dovrebbero attuare. Le ecomafie costituiscono, a livello nazionale e in particolar modo al Sud, uno dei principali canali di profitto della criminalità organizzata con 29.293 reati accertati, per un fatturato che ha raggiunto la cifra di 22 miliardi di euro. Per quanto riguarda la Puglia, i dati raccolti nel 2016 da Legambiente parlano di 2.437 infrazioni accertate, 1962 denunce, 717 sequestri e 10 arresti. Dietro questi numeri si nasconde una realtà fatta di discariche abusive, sversamento illecito di rifiuti tossici e abusivismo edilizio diffusi su tutto il territorio regionale, spesso ignorata dalla cittadinanza, celata dietro un velo di omertà o volutamente occultata dalle istituzioni conniventi con le organizzazioni mafiose, le quali tra l’altro, sempre più si insinuano nei luoghi del potere. Si tratta dunque di un problema diffuso su tutto
il territorio regionale, dal Salento alla Daunia, aggravato tra l’altro da un altro traffico estremamente redditizio per chi lo gestisce, quello legato allo smaltimento di rifiuti tossici. La stessa Capitanata è stata definita più volte una “seconda terra dei fuochi”, seconda però solo per nome e impatto mediatico: la problematicità è infatti pari per estensione e gravità. Gli strumenti legislativi messi in campo per contrastare i reati ambientali sono decisamente insufficienti e denotano la mancanza di una volontà politica forte nel combattere tale fenomeno. L’introduzione degli ecoreati nel codice penale è un passo in avanti, tuttavia non è pensabile ridurre la battaglia contro le mafie esclusivamente al piano legislativo. Quella delle ecomafie è la storia della contaminazione e della distruzione dei territori, della sottrazione di potere decisionale a popolazioni sempre più ricattate e sempre più abituate a vedere le proprie terre inquinate e gravi conseguenze sulla salute. Allora è in primo luogo a partire dal basso, a partire dai territori che si può e si deve agire, promuovendo una cultura di rispetto e tutela per l’ambiente e la salute delle persone, di giustizia per coloro i quali ogni giorno subiscono il potere delle mafie sul proprio territorio.
SULLE NOSTRE VITE... #DECIDIAMO NOI! Il G7 Economia e Finanza si svolgerà dunque a Bari, dove le contraddizioni dell’intera regione si scontrano in maniera antitetica alla raffigurazione proposta e millantata dalle amministrazioni locali: Bari, come vetrina del lustro e dell’innovazione. Oggi infatti il decoro che il sindaco di Bari sostiene abbia impressionato gli organizzatori del vertice non è altro che un velo sotto il quale vengono nascoste povertà e disagio sociale, per ripulire apparentemente il centro cittadino e mostrarlo come salotto della città perbene. Non ci interessa difendere questa retorica, vogliamo anzi che proprio in occasione di un avvenimento del genere si parli delle difficoltà del nostro territorio, delle diseguaglianze sociali, delle periferie marginalizzate delle nostre città, dell’abbandono di gran parte del nostro patrimonio artistico e culturale, della condizione delle nostre scuole e delle nostre università, dell’offensiva feroce e violenta mossa dalla criminalità al fine di dominare le nostre città, smascherando le logiche speculative che continuano a devastare il nostro bellissimo territorio. Riteniamo prioritario organizzare iniziative di dibattito reale per tutte e tutti coloro i quali vogliano prendere parola, per interrogarci collettivamente sul futuro del Sud, dei tanti e diversi Sud, rispondendo a chi si chiude nei palazzi e nelle zone rosse con la costruzione di partecipazione e attivazione dal basso. Una partecipazione pacifica, che si ponga l’obiettivo di non alimentare la retorica di quanti vogliono bollare qualsiasi tentativo di presa di parola e qualsiasi iniziativa di analisi critica di questo G7 come un atto di guerra che mette a rischio la collettività. Siamo gli studenti, i lavoratori, i disoccupati, i precari, i migranti, i pensionati e tutte le persone comuni i cui diritti e le cui vite non saranno contemplati al tavolo dei grandi della terra, che pretendono di veder garantiti i propri diritti, intendiamo immaginare e costruire un futuro più giusto ed equo per i nostri territori. Continuiamo a credere che le vite delle persone vengano prima dei profitti, che la possibilità di ognuno di incidere sul proprio futuro sia più importante degli interessi delle multinazionali, che a partire dalla conquista della democrazia partirà il riscatto dei popoli sfruttati, per un altro mondo possibile, fondato sulla giustizia sociale e sui diritti per tutti.