Europae - Mensile numero 7 - Novembre 2013

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Europa e Stati Uniti: mai così lontani Alleati o concorrenti? I nuovi squilibri Le politiche monetarie di FED e BCE I negoziati commerciali UE-USA Sussidi agricoli, energia e ambiente Come l’Europa ha frainteso Obama

N. 7 - NOVEMBRE 2013

ALLEANZA INEVITABILE? L’AMERICA DEL DEBITO, L’EUROPA DEL RIGORE

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Novembre 2013, Numero 7 © Europae - Rivista di Affari Europei, www.rivistaeuropae.eu “Alleanza inevitabile? L’America del debito e l’Europa del rigore” A cura di Davide D’Urso e Luca Barana Copertina di Luigi Porceddu Grafica ed editing di Davide D’Urso Direttore: Antonio Scarazzini Caporedattore: Davide D’Urso Responsabili di Redazione: Luca Barana, Riccardo Barbotti, Simone Belladonna, Stefania Bonacini, Fabio Cassanelli, Valentina Ferrara, Shannon Little, Mauro Loi, Tullia Penna.

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INDICE

Europa e Stati Uniti: friends will be friends Davide D’Urso

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Alleati o concorrenti? I nuovi squilibri dell’alleanza atlantica Antonio Scarazzini

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Le convergenze parallele di BCE e Federal Reserve Fabio Cassanelli

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I negoziati commerciali UE-USA e la forza dell’Occidente Shannon Little

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Il liberismo del TTIP e l’interventismo di FAC e Farm Bill Mauro Loi

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L’UE, gli USA e l’energia: prove tecniche di capitalismo a impatto zero Tullia Penna

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Come e perché l’Europa ha frainteso Barack Obama Luca Barana

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Gli autori

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I numeri precedenti di Europae

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EUROPA E STATI UNITI: FRIENDS WILL BE FRIENDS di Davide D’Urso

Editoriale

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IL PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI BARACK OBAMA E IL CANCELLIERE FEDERALE TEDESCO ANGELA MERKEL A BERLINO LO SCORSO GIUGNO (© BUNDESREGIERGUNG)

riends will be friends, cantavano i Queen nel 1986. Gli amici saranno amici, nonostante tutto. L’alleanza tra Europa occidentale e Stati Uniti d’America dura ormai da settant’anni e ha plasmato il mondo così come lo conosciamo. La fine della Guerra Fredda e il collasso del nemico comune non hanno sancito la fine dell’amicizia euro-americana profetizzata da molti, ma esteso i confini dell’Occidente e fatto della globalizzazione un fenomeno nuovamente planetario. La storie delle relazioni euro atlantiche è piena di diffidenza, divisioni e contrasti: niente di tutto questo, però, ha finora compromesso un’alleanza da molti ritenuta indispensabile, da alcuni perfino “inevitabile”. Unione Europea e Stati Uniti sono rimasti alleati anche a fronte della grande divisione dei primi anni 2000 sulla stessa natura dell’ordine internazionale. L’unilateralismo interventista di George W. Bush, le spaccature in seno all’Europa e i distinguo sui principi alla base delle relazioni internazionali hanno rappresentato una rottura radicale rispetto al sostanziale consensus multilateralista del dopoguerra occidentale. E infatti l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca sembrava aver confermato il carattere parentetico della svolta revisionista ame© Europae - Rivista di Affari Europei

ricana e riallacciato i legami tra UE e Stati Uniti. Per lo meno fino a quando l’onda lunga della crisi finanziaria globale ha iniziato a incrinare i rapporti tra l’amministrazione democratica e l’Europa. Nell’ultimo Rapporto semestrale sulla manipolazione delle valute, il Dipartimento del Tesoro americano ha attaccato duramente la Germania e, tramite essa, la politica economica europea ispirata da Berlino. Il Rapporto accusa la Germania e il suo surplus commerciale di essere i responsabili della debolezza economica dell’eurozona e di molti squilibri macroeconomici globali. Berlino ha risposto con stizza, difesa con forza da Bruxelles. Le ragioni del duro intervento americano sulla politica europea sono presto dette: la politica economica europea, accettata a malincuore da molti Paesi europei, è incentrata sull’applicazione di riforme strutturali finalizzate ad aumentare la competitività economica e a ridurre spesa pubblica e indebitamento. Non è un caso che l’intera UE abbia fatto segnare nel 2012 un significativo surplus commerciale, aumentato dell’1,6% nel 2013. Un’Europa più competitiva sui mercati globali e meno ricettiva delle esportazioni americane non può certo piacere a Washington. Parallelamente alle vicissitudini della crisi dell’euro e all’incerta reazione dell’UE, Obama ha risposto alla

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crisi economica in modo assai più keynesiano. Il salvataggio dei grandi istituti finanziari e dell’industria automobilistica, nonché gli interventi in sostegno di altri settori importanti dell’economia, sono stati a carico dei contribuenti. Interventi quali sgravi fiscali e l’estensione del welfare pubblico (basti pensare alla difficoltosa implementazione dell’Obamacare per quanto riguarda il sistema sanitario) hanno contribuito alla ripresa della domanda interna. L’economia è tornata a crescere, ma il deficit ha sfondato il 10% del PIL negli anni più bui della recessione, portando il debito nazionale alla cifra record dei 18 trilioni di dollari. Come mette in luce Antonio Scarazzini, la sostenibilità delle finanze pubbliche americane è messa in seria discussione. La Federal Reserve ha finora sostenuto le spese e il debito del governo federale con il ricorso a massicci quantitative easing, ovvero acquisti di debito pubblico da parte della banca centrale. La politica monetaria attuata dalla FED è quanto di più accomodante un governo possa desiderare per godere dei vantaggi della spesa senza pagarne i costi – quantomeno nel brevissimo periodo. Fabio Cassanelli offre nelle prossime pagine un quadro complessivo delle differenze esistenti tra la politica monetaria della FED, impegnata a fianco del governo nella lotta alla disoccupazione, e quella della Banca Centrale Europea, legata all’obiettivo della stabilità dei prezzi. Quest’ultima è scesa in campo in difesa dell’euro in modo risolutivo con la presidenza di Mario Draghi e un sistema di decisione federale, ovvero a maggioranza, che marginalizza l’oltranzismo della Bundesbank tedesca. Nel medio-lungo periodo, però, politiche monetarie che oggi sembrano convergenti, non potranno che allontanarsi ancora di più l’una dall’altra. Ben più dello scandalo Datagate, è questa sostanziale divergenza di prospettive di politica economica ad allontanare le sponde dell’Atlantico. Non aiuta inoltre il fatto che la figura del Presidente Obama, come spiega Luca Barana, sia stata grandemente equivocata in Europa da governi e opinioni pubbliche. Un tema come quello della lotta al cambiamento climatico, per esempio, è stato portato avanti assai meno efficacemente di quanto l’UE si sarebbe aspettata dall’amministrazione democratica. Gli Stati Uniti, ricorda Tullia Penna, continuano a perseguire un paradigma ambientalista assai diverso da quello europeo. Attraverso il fracking e lo sfruttamento degli shale gas, gli Stati Uniti sono arrivati a un passo dalla “pace dei sensi” dell’indipendenza energetica. Ben diversa, ancora una volta, © Europae - Rivista di Affari Europei

è la situazione dell’Europa. Fortemente dipendente dalle importazioni energetiche, l’UE continua a guardare a Nord Africa e Medio Oriente, ma anche all’area eurasiatica, mostrando massima sensibilità per il tema della stabilità. Il progressivo ritiro militare e politico degli Stati Uniti dalla regione, dettato dal taglio dei costi, dal pivot to Asia e dal crescente disinteresse strategico , non lavora certo nella direzione auspicata dall’UE e dai suoi Stati membri. Un vero riavvicinamento tra Stati Uniti e UE potrà arrivare quindi attraverso un ritrovato dinamismo economico e una spinta rinnovata all’integrazione delle due aree. In quest’ottica riveste un’importanza decisiva il negoziato sul Transatlantic Trade and Investment Partnership ancora alle battute iniziali. L’accordo UE-USA - come spiega Shannon Little potrà portare enormi benefici agli operatori economici di entrambe le sponde dell’Atlantico, a patto di risultare abbastanza ambizioso da mettere in secondo piano le resistenze di numerose singole categorie. Non da ultimi gli agricoltori che, come sottolinea Mauro Loi, non vedrebbero di buon occhio cambiamenti significativi nelle politiche di sussidio (PAC e Farm Bill) alla propria attività economica. Più della politica può dunque l’economia. Non è certo un caso che la crisi economica abbia finito per scuotere le fondamenta dell’alleanza atlantica ben più delle divisioni sul tema della guerra e della pace. Il collante della comunità occidentale era e resta la condivisione di un nucleo di valori, la preferenza per il libero mercato e una stretta integrazione economica. Gli interessi di breve termine possono apparire divergenti. Probabilmente lo sono. È però dal rilancio dell’alleanza euro-americana che l’Occidente potrà trovare la forza di rilanciarsi in un contesto di crescente competizione globale. Guardando a un orizzonte temporale più adatto a cogliere le dinamiche politiche ed economiche in corso, gli amici non potranno che essere ancora amici: nel mondo interpolare di domani l’alleanza tra Europa e America resterà inevitabile per promuovere gli interessi e i valori dei cittadini americani e di quelli europei. Di fronte a un sistema internazionale in trasformazione, a un’economia globale debole che sembra doversi riassestare su baricentri lontani dall’Oceano Atlantico, non c’è distinguo politico che tenga: occorre rilanciare l’alleanza UE-USA per ridare centralità politica ed economica alla comunità occidentale. Ne va del futuro di Stati Uniti e UE, ma anche di quello dell’economia e della governance globale. ∎

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ALLEATI O CONCORRENTI? I NUOVI SQUILIBRI DELL’ALLEANZA ATLANTICA La risposta di Europa e Stati Uniti alla crisi economica non avrebbe potuto essere più distante. Mentre l’UE a guida tedesca ha intrapreso un percorso di riforme strutturali e politiche di rigore, gli USA hanno applicato ricette keynesiane, aumentato la spesa pubblica e portato il debito a 18 trilioni di dollari. Nel breve periodo, l’America ha ritrovato la crescita prima dell’Europa. Nel medio termine, le finanze pubbliche restano un problema. Lo scontro sulla politica economica è acceso, il futuro resta incerto.

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di Antonio Scarazzini

n gioco a somma zero: a livello globale, guadagni e perdite negli scambi internazionali trovano sempre la loro controparte. È vero pure che, nel commercio mondiale size matters, contano le dimensioni, e un segno positivo o negativo nei saldi correnti può spostare gli equilibri fra le maggiori potenze economiche. Specie quando sono gli Stati Uniti a finire dietro il segno “meno”. Dagli anni ’80 i deficit gemelli di Washington alimentano gli squilibri macroeconomici mondiali: una convivenza ormai consolidata con disavanzi delle finanze pubbliche e dei saldi commerciali che hanno portato gli Stati Uniti a rivedere il proprio rapporto con il debito, pubblico e privato. Anni di deficit di partite correnti sono corrisposti ad indebitamento esterno, con i risparmi privati ridotti al lumicino e sostituiti da capitali esteri, soprattutto cinesi.

mania, il suo 7% di surplus e un modello che, per Washington, rispecchia quello cinese nella depressione della domanda interna e nella svalutazione salariale che frenano il riassestamento dei Paesi dell’area euro in deficit. Ma la Germania non ha più potere sul tasso di cambio e - scrive Kemal Dervis su Project Syndicate verrebbe da chiedersi se anche il Texas per gli Stati Uniti avrebbe la capacità di influenzare la domanda aggregata globale, così come la Germania può farlo dall’interno dell’unione monetaria.

Washington, dopo Pechino, accusa la Germania di deprimere la domanda interna e operare svalutazioni salariali per mantenere il proprio surplus. L’UE e la sua moneta sono strane entità del sistema economico mondiale: una moneta unica, un unico tasso di cambio nominale, tassi di cambio reali che da Paese a Paese variano in base ai livelli di competitività. Trainata dalla Germania, l’UE segnerà ancora un surplus, +1,6% dopo il +0,9% del 2012 che ha chiuso un decennio di deficit ininterrotti. Gli Stati Uniti, dal canto loro, ripeteranno il -2,7% dello scorso anno, dopo aver fatto segnare picchi negativi vicini al 5% quando la crisi finanziaria era vicina all’esplosione e il surplus cinese prossimo ai 400 miliardi.

Dagli anni ‘80 gli USA vantano due deficit gemelli: deficit nelle finanze pubbliche e disavanzo nei saldi commerciali. E un crescente debito estero. Proprio con la Cina cresceva quel rapporto di amore e odio in cui il forte squilibrio commerciale a vantaggio cinese andava a braccetto con gli oltre 3.000 miliardi di dollari al sicuro nelle riserve della Banca Popolare. Pechino finiva così sotto il tiro incrociato di politica, stampa e accademia - Paul Krugman e Michael Pettis su tutti - con l’accusa di danneggiare l’economia americana tramite l’eccezionale surplus corrente (10% del PIL nel 2007) e una valuta, il renminbi, forzatamente svalutata dal Partito Comunista per sostenere un modello export oriented e ben poco orientato ai consumi privati. Mantenete intatti i fattori, sostituite Berlino a Pechino e troverete il nuovo obiettivo degli attacchi americani. Con l’ultimo Rapporto sulle manipolazioni valutarie, il Tesoro ha puntato il dito contro la Ger© Europae - Rivista di Affari Europei

Do you know your enemy ? Qual è il vero obiettivo delle critiche del governo a stelle e strisce? Due sono le ipotesi: la Germania stessa, in quanto temibile competitor commerciale, o l’Unione Europea per il tramite della sua “locomotiva”. La crescita tutt’altro che trascurabile del deficit bilaterale nei confronti di Berlino sembra corroborare la prima tesi: l’export tedesco negli Stati Uniti è aumentato di quasi il 30% tra 2010 e 2012, sfiorando quota 87 miliardi di euro, circa l’8% del

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WASHINGTON DC, USA: UN GRUPPO DI IMPIEGATI PUBBLICI MANIFESTANO DI FRONTE AL CONGRESSO CONTRO LO “SHUTDOWN” (© KEITH ELLISON, WIKICOMMONS)

totale contro il 6,8% di due anni prima. Il saldo positivo che nel 2010 si attestava a poco meno di 20 miliardi è salito sino ai 36 del 2012, pari al 19% di quei 177 miliardi di avanzo incriminato. Ovvero, se il surplus tedesco è un problema di rilevanza globale, quasi un quinto di quel problema è a carico dell’affaticato Zio Sam. Se fosse vera questa ipotesi, il modo in cui Washington circostanzia le sue accuse (con particolare enfasi sulla domanda interna depressa) parrebbe ignorare la straordinaria capacità della Germania di generare competitività, di saper contenere il costo del lavoro anche grazie a vie diverse dalle riduzioni salariali, assicurando retribuzioni più alte rispetto ad altri Paesi europei. Più realistico è che invece il vero spauracchio stia nell’estendersi di queste capacità all’intera Unione Europea, sull’onda di ricette di politiche fiscali care a Berlino e divenute preminenti più per assenza di reali alternative che per imposizioni governative. Cosa accadrebbe se la maggior parte dei Paesi europei riuscisse un giorno a rafforzare la propria competitività sulla base di standard comuni e senza scaricare gli aggiustamenti macroeconomici con tassi di disoccupazione schizofrenici, come sta avvenendo in Spagna? Come cambierebbe il peso negoziale di un blocco economico con cui gli Stati Uniti trattano per la creazione di un’area di libero scambio?

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Quesiti che potranno avere risposta solo nel lungo (lunghissimo) termine. L’Unione Europea, e in particolare l’unione monetaria, continua a far convivere al suo interno Paesi dai fondamentali più disparati: la locomotiva tedesca, il baratro greco, l’Irlanda delle multinazionali e l’Italia degli eterni rinvii. Eppure, la strada tracciata dalle politiche di rigore sui bilanci pubblici e dai percorsi di riforma dei mercati del lavoro e dei sistemi di welfare (su tutti quello pensionistico) sembra lentamente indirizzare l’Europa sulla strada della ripresa, anche se dai costi sociali per ora altissimi. Una via tedesca che Bruxelles ha visto diventare sempre più predominante negli anni della crisi finanziaria: dai fatali temporeggiamenti nella gestione del caos in Grecia alla firma del Fiscal Compact, dai mille paletti posti sul cammino dell’unione bancaria alle ritrosie della Bundesbank a concedere a Mario Draghi e alla BCE libertà pari a quelle godute dagli omologhi giapponesi o americani. L’Europa del rigore, l’America del debito L’UE che cerca di uscire dalle sabbie mobili della crisi finanziaria è così appesa alle soluzioni fornite da Berlino, alle ricette del modello nazionale europeo che più degli altri ha dimostrato di poter vincere la recessione globale ma che, con opinabile intransigenza, ha pensato di poter imporre come soluzione quelli che in realtà sono stati i presupposti del

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ALLEATI O CONCORRENTI? I NUOVI SQUILIBRI DELL’ALLEANZA ATLANTICA Antonio Scarazzini modello stesso. Un’inversione di cause e sintomi della malattia europea. Lo stretto affidamento ai parametri di Maastricht, al contenimento dei deficit e debiti pubblici, nonché dell’inflazione, rappresenta sicuramente nel lungo periodo il requisito minimo per concedere ai governi nazionali un margine di manovra sufficiente a realizzare le tanto declamate riforme strutturali e un tessuto economico altamente competitivo, in grado di giustificare i timori di Washington. Meno efficaci si sono dimostrati gli effetti delle politiche di austerità nel breve periodo, pagate a caro prezzo in termini di disoccupazione in quei Paesi impastoiati ora da un debito pubblico esorbitante (Italia, Grecia), ora da elevati indebitamenti privati (Spagna, Irlanda), ora da mercati del lavoro vischiosi o da sistemi politici endemicamente instabili.

nata a rallentare: 7,5% quest’anno e previsioni di 6,9% nel 2015, ancora non abbastanza per frenare gli stimoli monetari. L’UE a 28 segna a settembre uno spaventoso 11%, 12,2% nella sola eurozona. Perché tutto questo fosse realizzabile, mentre nel Vecchio Continente si lodava alla sacralità dei parametri di Maastricht, a Washington si è spinto il disavanzo pubblico ben oltre il 10% del prodotto, sforando per quattro anni dal 2009 al 2012 i 1.000 miliardi di dollari di deficit pubblico. È così che l’America di Obama è venuta a contatto con il fantasma del debito. Per tre volte dal 2009, il Congresso si è visto costretto ad alzare l’asticella, ad aumentare il tetto all’indebitamento che nel 2014 potrebbe toccare l’astronomica quota 18 trilioni. Cittadini e governanti hanno iniziato a familiarizzare con i termini default e shutdown, con la possibilità che il governo federale non riuscisse ad onorare i suoi impegni. L’America della ripresa che danza sull’orlo del fallimento: è il paradosso di una presidenza, quella di Barack Obama, che tenta la rivoluzione copernicana del sistema di welfare, ma si ritrova a fare i conti con stalli e battaglie politiche ben più congeniali ai Paesi europei. Il Congresso ostaggio dei repubblicani, il Presidente obbligato a cedere il passo su tagli alla spesa per il contenimento del deficit, la perigliosa tendenza alle decisioni di breve periodo ed ai rinvii: è anche questa l’America post-Lehman Brothers.

La strategia economica euro-tedesca di uscita dalla crisi ha come orizzonte il medio-lungo periodo. Quella americana il breve termine. Il breve termine è invece quello in cui la ricetta statunitense è parsa subito più vincente: con cinque punti percentuali di spesa pubblica in più tra 2008 e 2009 l’amministrazione Obama ha iniettato 800 miliardi di dollari di stimolo per mezzo di sgravi fiscali, sussidi di disoccupazione, programmi federali per la creazione di lavoro. Il più classico dei sostegni keynesiani alla domanda interna, sorretto dalla possente azione della Federal Reserve di quantitative easing, cioè di acquisto di titoli di debito pubblico per un ammontare mensile progressivamente cresciuto sino a 85 miliardi. Un’operazione legata dal governatore Ben Bernanke, ormai prossimo ad essere sostituito da Janet Yellen, all’abbattimento della disoccupazione al 6,5%. Senza dimenticare i 4.600 miliardi sborsati dal governo federale per i bailout delle banche divorate dalla crisi dei subprime.

Destini ancora comuni? Nell’era della multipolarità, Stati Uniti e Unione Europea rappresentano ancora i maggiori poli economici mondiali, lontani dai tassi di crescita cinesi, ma affini nell’offrire un elevato grado di benessere sociale e un sistema di valori saldamente ancorati ai principi liberaldemocratici. La lettura retrospettiva che gli Stati Uniti offrono degli squilibri macroeconomici tra le sponde dell’Atlantico è comunque quella di un progressivo distaccamento delle prospettive di sviluppo delle due aree. La dicotomia surplus-deficit si traduce nell’opposizione tra rigore e debito, tra breve e lungo periodo, due filosofie diametralmente opposte di interpretare la politica economica e il suo rapporto con l’economia globale. Se l’affermarsi del Modell Deutschland è l’avvisaglia di una trasformazione in senso competitivo dell’economia europea nel sistema globale, gli Stati Uniti hanno un timore in più: perdere il migliore alleato e trovare un nuovo concorrente. ∎

Dalla recessione del 2008-2009, gli Stati Uniti sono tornati a crescere oltre il 2,5% nel 2010 e 2012 e, dopo la frenata del 2013 in cui comunque segneranno un +1,5%, il Fondo Monetario prevede aumenti del 2,5% nel 2014 e oltre il 3% nel 2015. L’Unione Europea, nel suo complesso, incespica nel riprendersi dalla batosta (-4,5%) del 2009 e dopo un 2013 di crescita nulla, Eurostat prevede un modesto +1,4% per il 2014. Pericolosamente vicina alla soglia psicologica del 10% nel 2010, la disoccupazione americana è tor© Europae - Rivista di Affari Europei

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LE CONVERGENZE PARALLELE DI BCE E FEDERAL RESERVE La Federal Reserve è nata sul modello delle banche centrali europee per rispondere alle difficoltà finanziarie americane all’inizio del Novecento. Oggi, però, sembra la BCE di Mario Draghi a inseguire la sorella americana. La nascita dell’Eurotower, i cataclismi finanziari e monetari del terzo millennio e il crescente debito americano (ed europeo) hanno cambiato per sempre la politica monetaria. Convergenti come mai prima, certo, ma con orizzonti diversi: la BCE tornerà a occuparsi di stabilità. La FED?

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di Fabio Cassanelli

l 23 dicembre del 2013 la Federal Reserve (FED), la banca centrale degli Stati Uniti, compirà 100 anni. Una storia incredibilmente intrecciata alle vicende monetarie europee fin dal suo principio. La FED nasce infatti idealmente con il viaggio in Europa del senatore americano Nelson W. Aldrich, Presidente della National Monetary Commission. L'America era ancora sotto shock per la crisi finanziaria del 1907, durante la quale la borsa di New York dimezzò il proprio valore e il tasso di interesse interbancario toccò picchi del 70%, a causa dell'enorme sfiducia degli operatori finanziari. L'emergenza in quel caso fu affrontata dai principali banchieri di New York, tra cui J.P. Morgan, accordandosi per inondare della loro personale liquidità i mercati e gli istituti bancari colpiti dal bank run (ritiro dei risparmi da parte dei depositanti). Tuttavia, l'intero sistema non poteva reggersi sull'intervento fortuito basato su scelte di operatori privati e gli Stati Uniti decisero di dotarsi di una banca centrale che agisse da prestatore di ultima istanza, in grado di scongiurare future crisi. Il senatore Aldrich fu una delle grandi menti del "Federal Reserve Act" del 1913 e il suo viaggio in Europa per studiare il sistema di banche centrali inglese, francese e tedesco fu fondamentale. Si può dire che il modello europeo fu preso in prestito dagli Stati Uniti e da quel momento iniziò ad evolversi seguendo la propria personale direttrice.

del mondo fu infatti la svedese Sveriges Riksbank, che iniziò ad operare nel 1668. Successivamente toccò agli inglesi dotarsi di un istituto centrale, prima che la pratica si spargesse in tutta Europa. Si potrebbe dunque partire dal lontano 1913 per analizzare i rapporti tra le politiche monetarie europee e statunitensi. Tuttavia, si perderebbe in profondità dell’analisi. Meglio l’1 gennaio 1999 come data di riferimento, quando tutte le banche nazionali europee trasferirono le loro funzioni di politica monetaria alla neonata Banca Centrale Europea.

La tradizione delle banche centrali nasce in Europa. Il 1 gennaio 1999, però, è una data epocale che segna la nascita della Banca Centrale Europea. Un evento storico che permise al Vecchio Continente di impostare le proprie strategie in modo unitario e compatto. L’Europa aveva finalmente acquisito uno strumento chiave, che le permettesse di influenzare le politiche monetarie mondiali senza vacillare come le vecchie banche nazionali. La BCE è nata dalle fondamenta del Trattato di Maastricht del 1992 e di conseguenza è stata progettata come maniero della stabilità economica e finanziaria europea. L’Europa post-trattato prevedeva infatti da un lato il ruolo degli Stati, chiamati a ridurre il deficit (sotto il 3% del PIL), il debito pubblico (sotto il 60% del PIL), il tasso di inflazione (spread minore dell’1,5% rispetto ai più virtuosi) e tassi di interesse (spread inferiore al 2%). Dall’altro lato, si ergeva la BCE, il cui ruolo fondamentale era mantenere la stabilità dei prezzi nell’area economica che tre anni dopo avrebbe preso il nome di eurozona. Il messaggio era chiaro e di enorme influenza liberale: l’economia di mercato faccia il suo corso, mentre gli Stati e la Banca Centrale creino la stabilità di contorno.

La Federal Reserve americana nacque nel 1913, in risposta alla grave crisi finanziaria del 1907, ispirandosi al modello europeo di banche centrali. Gli Stati Uniti, d’altronde, non potevano fare altro che basarsi sul modello europeo, dal momento che la tradizione delle banche centrali nasce proprio nel Vecchio Continente. La prima banca centrale © Europae - Rivista di Affari Europei

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LE CONVERGENZE PARALLELE DI BCE E FEDERAL RESERVE Fabio Cassanelli

IL DOLLARO E L’EURO: LE POLITICHE MONETARIE DI BCE E FEDERAL RESERVE HANNO EFFETTI ANCHE SUL TASSO DI CAMBIO DELLE VALUTE (© DENNIS SKLEY, FLICKR )

La Federal Reserve al contrario, sviluppatasi in un secolo caratterizzato da periodi di crescita e crisi, profondi cambiamenti e momenti di alta inflazione, ha accumulato nel tempo un ruolo molto più attivo all’interno dell’economia. La lotta alla disoccupazione fa parte delle funzioni di cui ad esempio la BCE oggi non è ancora dotata. La prima sfida che entrambi gli istituti centrali dovettero affrontare fu il mix di eventi traumatici che caratterizzarono l'inizio del nuovo millennio: l'esplosione della bolla delle dot-com e la recessione successiva ai fatti dell’11 settembre 2001. Considerando che l'epicentro degli shock furono gli Stati Uniti, la FED affrontò di petto la situazione e ridusse progressivamente il tasso di sconto dal 6,5% del 2001 al 2% a metà 2003. Anche la BCE intraprese analoghe politiche monetarie. Tra il 2002 ed il 2004 il tasso di sconto fu abbassato dal 3,25% al 2%. I due terremoti partiti dagli Stati Uniti in ogni caso lasciarono profonde ferite psicologiche in tutti gli investitori del mondo (banche centrali incluse). L'idea che l'euro potesse fungere da riserva diventò sempre più diffusa e la moneta del Vecchio Continente divenne sempre più © Europae - Rivista di Affari Europei

richiesta. In questo periodo, l'euro si apprezzò notevolmente, passando da un valore di 0,90 sul dollaro nel 2002 fino al superamento del muro degli 1,30 nel 2005. Questo fiume di liquidità che inondò l’eurozona permise agli Stati europei di beneficiare di tassi molto bassi per finanziare il proprio debito.

La bolla delle dot-com e l’11 settembre 2001 hanno cambiato il mondo: riduzione dei tassi, capitali verso l’Europa e rafforzamento dell’euro. Un beneficio effimero, dal momento che molti di essi impostarono le proprie politiche pubbliche programmando bassi tassi e venendo successivamente travolti dalla crisi del debito sovrano. Tra il 2004 ed il 2005 sia la BCE che la FED iniziarono progressivamente ad alzare il costo del denaro per timore di fiammate inflazionistiche. Poiché la FED cominciò prima, per un breve periodo l'euro si indebolì leggermente, tornando verso il valore di 1,15 sul dollaro. Ma dal 2006 iniziò il poderoso rally che lo portò ad avvicinarsi nel 2008 ai suoi massimi storici (1,60). Intanto, alla FED era cominciata l'e-

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poca Bernanke, che improntò sempre di più le politiche dell'istituto centrale sulla via della trasparenza e della forward guidance, ossia il metodo di influenzare il mercato tramite annunci. Anche la BCE riformulò la proprio politica monetaria, specificando che l'obiettivo di inflazione era vicino, ma sotto il 2%. Valore che ancora oggi è fondamentale nella progettazione dell'intero impianto di azione dell'Eurotower. La crisi economica e finanziaria iniziata nel 2008 con il fallimento di Lehman Brothers rappresentò il punto di svolta e convergenza per entrambi gli istituti centrali. Svolta perché da quel momento in poi politiche monetarie ordinarie e straordinarie si fusero in un complesso mix che perdura ancora oggi. Convergenza perché entrambe le istituzioni finanziarie adottarono strategie molto simili al fine di garantire la stabilità finanziaria.

Dopo il fallimento di Lehaman Brothers e la crisi finanziaria globale, FED e BCE hanno attuato politiche monetarie largamente convergenti. L'uomo simbolo della convergenza è il nuovo Presidente dell'Eurotower Mario Draghi, emblema del compromesso tra l'anima tedesca e minimalista e quella del Sud Europa, più persuasa a perseguire il modello della Federal Reserve. Draghi è consapevole che il suo obiettivo chiave è mantenere l'inflazione europea vicina al target del 2%, ma anche che nelle formule generali c'è spazio per interpretazioni particolari. Vanno in questa direzione i LTRO triennali (prestiti alle banche) lanciati ad inizio mandato e l'introduzione della forward guidance a luglio di quest'anno. In un clima così deflazionista, la BCE può unire alle classiche politiche di stabilità anche meccanismi che cerchino di mettere in moto crescita e occupazione. Non si può dirlo ad alta voce in conferenza stampa ma, da quando è iniziata l’era Draghi, la BCE è sempre più simile alla FED. In ogni caso, può essere un bene che nei Trattati non si faccia accenno al fatto che l'Eurotower debba perseguire la piena occupazione. Quando finirà il clima di emergenza economica e finanziaria, sarà positivo che la BCE torni a giocare un ruolo di contorno, assicurandosi il perseguimento della stabilità. In questo modo, gli Stati continueranno a sentirsi responsabilizzati e non si illuderanno di avere alle spalle un prestatore di ultima istanza permanente pronto a tappare qualsiasi © Europae - Rivista di Affari Europei

buco. E questa dovrebbe divenire una lezione anche per gli Stati Uniti, ormai assuefatti da tre round di quantitave easing (massicci acquisti di titoli da parte della FED) con tassi del debito pubblico (in esplosione) tenuti artificiosamente bassi.

Con Draghi la BCE è diventata più simile alla FED. Ma l’attenzione europea alla stabilità sia di lezione agli USA. E l’euro continua a rafforzarsi... Se non fosse così, gli Stati Uniti assisteranno nel medio-lungo periodo a un costante rafforzamento dell'euro, che diverrebbe sempre più centrale come riserva internazionale e asset di investimento. Un euro forte piace ai giapponesi in fuga da uno yen svalutato e da un offerta di dollari in costante ascesa. Un euro forte interessa alla Cina per diversificare le proprie riserve e avere un vantaggio commerciale. E infine un euro forte dovrebbe interessare anche all’UE per attirare capitali e ridurre gli spread dei Paesi in difficoltà. Per compensare il rafforzamento, gli Stati dovrebbero puntare a riforme che stimolino la competitività delle proprie imprese e finalmente emanciparsi il più possibile da politiche monetarie perennemente espansive. ∎

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I NEGOZIATI COMMERCIALI UE-USA E LA FORZA DELL’OCCIDENTE In un contesto internazionale di rallentamento della liberalizzazione globale, il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) è potenzialmente l’accordo di libero scambio più importante al mondo. Stati Uniti ed Europa ricercano nella liberalizzazione commerciale il volano per una crescita economica ancora contenuta. Non solo l’abbassamento dei dazi doganali, ma anche la stesura di standard e norme condivisi sono al centro dei negoziati in corso fra le due sponde dell’Atlantico.

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di Shannon Little

envenuti al mondo recintato”. Il settimanale The Economist descrive così lo scenario economico globale attuale, risultato delle risposte politiche che diversi Paesi hanno messo in atto di fronte a una crisi finanziaria profonda e prolungata. Non si tratta di un arretramento e nemmeno di un arresto della globalizzazione che si è diffusa su tutta la superficie planetaria negli anni ’90 e 2000, ma di una sua rimodulazione, che in materia di commercio internazionale si manifesta nella preferenza verso accordi bilaterali o regionali a scapito della liberalizzazione multilaterale in seno al World Trade Organization (WTO). Il più importante di questi negoziati, per il peso economico degli attori e per il suo significato politico, è sicuramente quello per il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), l’accordo di libero scambio tra Stati Uniti e Unione Europea. Il 40% del Prodotto Interno Lordo (PIL) mondiale è concentrato in queste due aree, il cuore del cosiddetto “Occidente”, che, partendo da due isole a nord della Francia, in passato ha conquistato il mondo e diffuso il suo modello di sviluppo economico e di organizzazione politica.

Tra i molti accordi bilaterali e regionali oggi in fase di negoziazione, quello tra USA e UE (il TTIP) potrebbe diventare un modello per il mondo. Se verrà concluso e sarà ambizioso come auspicano i suoi sostenitori, questo accordo ha il potenziale di imporsi a sua volta come modello e di aprire i recinti dell’economia globale verso una liberalizzazione ad ampio spettro, condotta attraverso una semplificazione degli adempimenti burocratici e un’unificazione delle normative a tutela dei cittadini su standard elevati. In seguito ad un primo round di negoziati, svoltosi © Europae - Rivista di Affari Europei

in luglio a Washington, le discussioni sono continuate in novembre a Bruxelles, concentrandosi su investimenti, servizi, normative a tutela dei cittadini, energia e materie prime. Il livello è ancora quello di una discussione ad ampio raggio per definire meglio i sistemi normativi in vigore e comprendere ed esporre le priorità negoziali per le parti nei numerosi capitoli in agenda. Si tratta di un esercizio importante per capire su quali aspetti le discussioni potranno essere più tecniche, con il coinvolgimento dalle stesse autorità di regolamentazione, e su quali invece saranno necessari compromessi politici.

I primi incontri sono stati interlocutori. I negoziatori europei guidati da Ignacio Garcia Bercero hanno ottenuto l’inclusione dei servizi finanziari. Un importante successo dei negoziatori europei, rivendicato dal responsabile Ignacio Garcia Bercero, è l’inclusione dei servizi finanziari nelle discussioni, soprattutto alla luce della forte riluttanza mostrata in materia dalle agenzie di regolamentazione americane, reduci dei recenti cambiamenti introdotti dal Dodd-Frank Act. Mullaney, la controparte americana di Bercero, ha acconsentito a una sessione speciale dedicata al settore finanziario per il 27 novembre. L’argomento è particolarmente sensibile per gli europei, che da un lato hanno tutto l’interesse a tutelarsi da eventuali future crisi finanziarie originate in America, e dall’altro possono guardare al risanamento del sistema finanziario americano a seguito della crisi come a un modello per l’unione bancaria che sta nascendo tra resistenze nazionali e forti fragilità del sistema bancario del Vecchio Continente. Particolarmente interessante è poi la possibilità, suggerita dai negoziatori, di includere nel testo finale dell’accordo un capitolo specificamente dedicato

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ALLEANZA INEVITABILE?

L’AMERICA DEL DEBITO, L’EUROPA DEL RIGORE

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BRUXELLES: A SINISTRA IL CAPO NEGOZIATORE EUROPEO IGNACIO GARCIA BERCERO, A DESTRA IL COLLEGA STATUNITENSE DAN MULLANEY (© EUROPEAN COMMISSION)

agli impegni in materia di barriere tecniche al commercio che vada oltre alle regole WTO (noto come “WTO+”). Le discussioni vertono al momento su apparecchi medici, cosmetici, prodotti farmaceutici e chimici, pesticidi, ICT e automobili.

Una parte ambiziosa dell’accordo potrà riguardare le barriere tecniche al commercio, la cui riduzione varrebbe dai 2/3 ai 4/5 dei benefici del TTIP. Nella fase preparatoria del TTIP, la Commissione Europea ha difatti enfatizzato più volte l’importanza di ridurre le barriere non tariffarie agli scambi con gli Stati Uniti: in essa si concentrerebbero, infatti, dai 2/3 ai 4/5 dei benefici previsti dall’accordo, soprattutto a causa di un livello di dazi già molto bassi o nulli. La questione delle regulation, definite come strumenti legislativi di protezione dei consumatori di fronte a possibili rischi alla loro salute, sicurezza, ambiente e stabilità economica, è però foriera di rilevanti rischi politici e d’immagine, che potrebbero mettere a repentaglio il successo dei negoziati. Qualsiasi accordo dovrà infatti essere ratificato sia dal Parlamento Europeo sia dai 28 Stati © Europae - Rivista di Affari Europei

membri dell’Unione europea, così come il Congresso statunitense avrà l’ultima parola dall’altra parte dell’Atlantico. Per questa ragione, è opportuno rilevare come la Commissione intenda uniformare e semplificare gli aspetti operativi e prettamente tecnici delle normative in questione, lasciando completa libertà politica nella definizione del livello e del tipo di protezione. Nei fatti, questo significa esaminare gli esiti concreti delle regole in vigore, e, qualora essi fossero simili tra UE e Stati Uniti, come spesso accade in materia per esempio di automobili o prodotti farmaceutici, accettare le certificazioni di un Paese nell’altro, risparmiando così alle imprese costosi processi di adeguamento che spesso richiedono un diverso metodo di produzione. Un altro strumento in considerazione è l’approssimazione delle regole vigenti agli standard internazionali, spesso sanciti in veri e propri accordi formali cui i diversi Stati possono scegliere di aderire. Infine, qualora le regole fossero effettivamente diverse, le autorità preposte alla loro applicazione potrebbero cooperare più strettamente, anche alla luce di un miglior coordinamento nel definire le future normative.

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I NEGOZIATI COMMERCIALI UE-USA E LA FORZA DELL’OCCIDENTE Shannon Little Dall’abilità dei negoziatori e degli stessi funzionari e dal sostegno che sapranno loro garantire i leader politici, dipenderà il raggiungimento di un accordo che presenta importanti benefici, come evidenzia il rapporto approfondito commissionato dalla stessa DG Commercio della Commissione al Centre for Economic Policy Research (CEPR) di Londra. Il PIL dell’UE aumenterebbe di 118 miliardi di euro l’anno, che si traduce in 545 euro di reddito disponibile per una famiglia di quattro persone. Le esportazioni dell’Unione verso gli Stati Uniti aumenterebbero del 28% da una base molto alta (in termini assoluti si tratta di circa 187 miliardi di euro di maggiori esportazioni). I benefici non si limiterebbero ai Paesi direttamente coinvolti: il resto del mondo vedrebbe il proprio PIL aumentare di quasi 100 miliardi di euro l’anno. Un accordo tra UE e Stati Uniti

Secondo il CEPR di Londra, un accordo UE-USA porterebbe a un aumento di 118 miliardi di euro del PIL dell’UE e a 187 miliardi di maggior export. porterebbe, infatti, a una notevole riduzione delle differenze normative a livello globale, a tutto vantaggio degli altri partner commerciali. Essi avranno quindi un forte incentivo ad adeguarsi a questi standard, soprattutto per via dell’interdipendenza generata da catene di produzione internazionali. Per quanto concerne la ripartizione settoriale dei benefici, per il nostro continente essi si concentrerebbero su prodotti metallici (+12%), cibi lavorati (+9%), prodotti chimici (+9%), altri prodotti dell’industria e trasporti (+6%). A essi si aggiunge il mercato dei veicoli a motore, che sarebbe rivoluzionato dal TTIP: le esportazioni e importazioni europee nel settore aumenterebbero rispettivamente del 42% e 43%. Questo riflette, in parte, l’importanza del commercio transatlantico nella componentistica, già molto sviluppato, e le restrizioni sia tariffarie sia di natura tecnica che ancora caratterizzano il settore e che verrebbero eliminate dall’accordo.

mo a un interscambio totale di quasi 2 miliardi di euro al giorno. Oltre agli ingenti flussi commerciali, la relazione transatlantica vive anche di investimenti diretti esteri: nel 2011 le aziende americane hanno investito circa 150 miliardi di euro nell’Unione Europea, portando lo stock a 1.3 trilioni, mentre le aziende europee hanno investito 123 miliardi e portato lo stock a 1.4 trilioni.

Con un interscambio commerciale di 2 miliardi di euro al giorno e 2.7 trilioni di stock di IDE, UE e USA sono già economie molto integrate. Queste statistiche tratteggiano una relazione economica dalle grandissime potenzialità, che nessuno scandalo di spionaggio può seriamente compromettere in una fase di bassa crescita globale. I negoziati procedono come previsto: il prossimo round si terrà nuovamente a Washington in dicembre, nonostante il ritardo del secondo dovuto allo shutdown del governo americano in ottobre. In esso, si auspica di iniziare a discutere sui testi, la parte più lunga e delicata dei negoziati commerciali, nella quale le parti si scambiano continue bozze dei diversi capitoli che andranno a formare l’accordo vero e proprio. L’ambizione dei leader politici rimane quella di raggiungere l’accordo entro il 2015, superando le resistenze di consumatori, ambientalisti e di alcune parti del business con la forza dei benefici generalizzati che porterà alle anemiche economie europee e dell’impulso che darà a una globalizzazione più inclusiva e ricca di opportunità. ∎

Nel rapporto del CEPR, le statistiche sugli ipotetici effetti di un accordo, ottenute tramite la modellistica macroeconomica, fanno da contraltare ai dati sullo stato dell’arte, che parlano di una relazione già molto stretta e di due economie molto integrate. Gli scambi bilaterali in beni tra le due aree ammontavano a 455 miliardi di euro nel 2011, con un attivo di 72 miliardi per l’Unione. Se a essi aggiungiamo i 282 miliardi di euro di scambi in servizi, ripartiti pressoché equamente tra i due partner, arrivia© Europae - Rivista di Affari Europei

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IL LIBERISMO DEL T.T.I.P. E L’INTERVENTISMO DI PAC E FARM BILL L’intervento pubblico nel mercato dell’agricoltura è un tratto comune alle due sponde dell’Atlantico. In Europa, la Politica Agricola Comune assorbe ancora una parte cospicua del bilancio dell’Unione Europea. Negli Stati Uniti il “Farm Bill” è oggetto di accessi negoziati al Congresso. Anche i negoziati commerciali globali e bilaterali risentono di queste politiche: i Paesi in via di sviluppo criticano i sussidi agricoli occidentali e l’Europa rivendica standard di sicurezza alimentare non riconosciuti a Washington.

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di Mauro Loi

he indossi un guanto a stelle e strisce, o uno con 12 stelle su sfondo blu, la mano che regola il mercato dei prodotti agricoli è tutt'altro che “invisibile”. Il mercato dell’agricoltura infatti, soprattutto negli Stati Uniti e nell'Unione Europea, è tradizionalmente uno di quelli in cui l'intervento pubblico è maggiore: negli Stati Uniti si discute ancora del “Farm Bill 2014”, legge che regola il mercato agricolo interno e che vale (inclusi “assegni per viveri” per bisognosi) più di 100 miliardi di dollari annui. Nell'UE il 37,4% del budget pluriennale 2014-2020 è destinato in un modo o nell'altro alla “regolazione” del mercato agricolo. Il tutto nonostante ormai solo il 2% della popolazione attiva statunitense e poco più di quella europea sia impiegato nell'agricoltura. L'ingente intervento pubblico nell'economia agricola ha origine intorno alla metà del secolo scorso e deriva dal considerare l'attività degli agricoltori come un interesse generale della comunità e il prodotto come assimilabile a un bene pubblico. Nel secondo dopoguerra infatti - la Politica Agricola Comune (PAC) europea ha origine nel 1962 -, l'autosufficienza alimentare veniva ritenuta un interesse generale della comunità e si puntò a limitare la dipendenza dell'Europa dalle importazioni di alimenti, per evitare che da una qualsiasi disputa internazionale potesse derivare una crisi alimentare.

In Europa e Stati Uniti l’economia agricola si caratterizza per un forte intervento pubblico. Del bilancio UE 2014-2020 il 37% è per l’agricoltura. Per ottenere l'autosufficienza, si tentò di aumentare la produttività delle imprese agricole europee e di migliorare i redditi degli agricoltori, evitando che abbandonassero le campagne per dedicarsi ad altre attività. L'obiettivo fu raggiunto fissando un prezzo (alto) e dei dazi all'ingresso (alti) per ogni tipologi© Europae - Rivista di Affari Europei

a di prodotto e impegnando la Comunità Europea ad acquistare la sovrapproduzione invenduta. Nel tempo la tipologia di intervento, che nel frattempo aveva portato non solo all'autosufficienza, ma addirittura all'eccesso di produzione, è mutata e si è puntato quindi a scindere gli aiuti dalla quantità prodotta (Riforme McSharry, Fischler e Health Check), passando al sostegno diretto alle aziende, in luogo del sostegno “al prodotto”. Questo non ha significato comunque un minore intervento pubblico, anzi.

Nata nel 1962 come estremamente interventista, la Politica Agricola Comune (PAC) europea è stata riformata più volte, ma resta molto incisiva. Simile è stato il percorso in America, dove l'intervento pubblico ha origine anche prima, con il “New Deal” di Roosvelt ed il suo “Agriculture Adjustment Act” del 1933, poi modificato nel 1938 e 1948 con leggi fondamentali (ancora in vigore) che prevedono, ogni 5 anni, un aggiornamento mediante un nuovo “Farm Bill”. Anche negli Stati Uniti il risultato è stato simile e, soprattutto a partire dal 2008, si è cercato di scindere gli incentivi alla quantità di prodotto per limitare la sovrapproduzione. Di recente però, stante il periodo di crisi economica e i tagli in tutti i settori della spesa pubblica, ad essere entrato in crisi è l'intero concetto di agricoltura come attività di “utilità generale”, da finanziare quindi con fondi pubblici. Numerosi sono infatti i dibattiti che hanno accompagnato l'approvazione della PAC 2014-2020 e del “Farm Bill” 2013. A minare il concetto è stata soprattutto la distribuzione degli incentivi. Negli anni infatti molti di questi hanno raggiunto imprese che con l'agricoltura avevano poco a che fare e che di incentivi non avevano troppo bisogno. Negli Stati Uniti, ad esempio, il 10% delle imprese agricole riceve circa il 74% degli aiuti, mentre il 67% delle aziende, solitamente le più pic-

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IL LIBERISMO DEL T.T.I.P. E L’INTERVENTISMO DI PAC E FARM BILL Mauro Loi

UN CAMPO COLTIVATO A BIO-ETANOLO

CON TECNICHE INDUSTRIALI. IN MOLTI PAESI LA PRATICA SUSCITA POLEMICHE E CONTRASTI (© SWEETER ALTERNATIVE, FLICKR)

cole ed impegnate in settori non “chiave”, non ne beneficia affatto. Tra i beneficiari figurano numerosi multimilionari.

Oggi è entrata in crisi l’idea stessa dell’agricoltura come attività di utilità generale. La PAC 20142020 e il Farm Bill 2014 sono stati molto dibattuti. Una crisi del concetto a cui si è provato a porre rimedio. L'UE ha introdotto ad esempio, nell'ambito degli interventi volti a passare da un aiuto al prodotto a un aiuto al produttore - che dovrebbe portare alla differenziazione della produzione, evitando che si concentri sui prodotti più sovvenzionati - il concetto di “agricoltore attivo”, per ridurre gli aiuti agli ex-agricoltori o ai semplici investitori agricoli. Altro correttivo introdotto per riaffermare il ruolo dell'agricoltura come produttrice di beni di “interesse generale”, è quello del “greening”, che vincola la ricezione di parte degli incentivi al possesso di requisiti di eco-sostenibilità. L'agricoltore infatti, riceverà parte degli incentivi soltanto se almeno il 7% delle sue coltivazioni fornirà un “contributo ecologico”, ovvero se sarà costituito da coltivazioni che contribuiscono a rendere il paesaggio più verde, a ridurre i gas serra o, nel pieno della tradizione PAC, a mantenere intatti i paesaggi rurali (l'Italia ha insistito molto affinché in questa tipologia di colture rientrassero oliveti, vigneti e piantagioni di alberi da frutto). In questo modo l'agricoltura riafferma il © Europae - Rivista di Affari Europei

suo ruolo di pubblica utilità, riconvertendolo: non più solo garante della autonomia alimentare, ma anche della sicurezza degli alimenti e del rispetto dell'ambiente. E diviene un nuovo sbocco occupazionale. Negli Stati Uniti, invece, si punta a riaffermare questo ruolo “pubblico” modificando il metodo di redistribuzione degli aiuti. Se prima si puntava soprattutto agli “aiuti diretti” (DP, Direct Payments), il prossimo “Farm Bill” dovrebbe eliminarli (non per il cotone), passando invece a dei “countercyclical payments”, ovvero aiuti in caso di crisi dettate dall'andamento del mercato (Adverse Market Payments e Price Loss Coverage). Ma anche puntando sul metodo delle assicurazioni sul raccolto: i produttori stipulano una sorta di polizza assicurativa con una società privata, che, in caso di raccolto misero o altri inconvenienti, garantisce loro stabilità di reddito. Lo Stato, anziché aiutare direttamente le imprese, contribuirebbe in modo ingente alla stipula di dette polizze. Escamotage per giustificare l'intervento quindi, che si scontrano però con la realtà dei sussidi all'agricoltura percepiti in molti casi alla stregua di un privilegio pre-costituito. Nell'UE, Germania e Regno Unito si sono opposte a un “tetto massimo” nella quota di aiuti per singolo agricoltore, costringendo l'UE a un complicato meccanismo che prevede l'intervento anche discrezionale degli Stati membri. Negli Stati Uniti è stata immediatamente cancellata

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la proposta dell’EPA (Environmental Protection Agency) di rendere pubblici nome e dati dei beneficiari. Inoltre, la discussione sul “Farm Bill” appare incanalata più che su questioni etiche e sociali su binari politici e regionali, con il Senato (paladino in altre sedi della riduzione della spesa pubblica) e i rappresentanti provenienti dagli Stati della wheat, corn e cotton belt più propensi alla salvaguardia dei privilegi degli agricoltori (molto attivi anche in fase di finanziamento delle campagne elettorali, 118 milioni di dollari per l'ultima) che alla redistribuzione. Tanto che i tagli più ingenti al “Farm Bill”, nelle proposte di Camera e Senato, erano destinate ai cosiddetti “food stamps”, “assegni viveri” per le famiglie che non raggiungono un certo livello di reddito. Situazione che ha reso necessario l'intervento di Obama che ha anticipato il veto a progetti di “Farm Bill” che prevedessero ingenti tagli agli assegni.

Londra e Berlino hanno ottenuto che l’UE non limitasse gli aiuti per singolo agricoltore. Negli USA il Senato difende i privilegi degli agricoltori. I malumori contro Usa e Ue, tuttavia, non provengono solo dalle opinioni pubbliche interne. Il “Doha Round” ad esempio è tuttora paralizzato dal rifiuto di Stati Uniti e UE di limitare le sovvenzioni all'agricoltura (e le barriere non tariffarie). Questo causa le reazioni dei Paesi in via di sviluppo, i cui prodotti, nonostante il costo inferiore della manodopera, non possono competere con quelli “sussidiati” dell'Occidente. Accusa che si aggiunge a quella ben più infamante di alimentare la fame nel mondo, ad esempio con l'attenzione rivolta ai bio-carburanti: la conseguenza sarebbe che in parte dei Paesi poveri, nonostante la carenza di alimenti, gli agricoltori, pur di esportare decidano di non coltivare prodotti per l'alimentazione, ma per la sintesi del bio-etanolo. È in questo quadro che si inseriscono le discussioni UE-USA sul Transatlantic Trade Investment Partnership (TTIP), per il momento frenate anche dal mancato accordo sui prodotti agricoli. Dal punto di vista economico, ad oggi le resistenze sembrerebbero superabili tenendo conto della non eccessiva concorrenzialità delle produzioni: l'UE esporta soprattutto vini, birra, formaggi; gli Stati Uniti soia. I dazi reciproci attuali sono inoltre bassi (≤ 4%). La maggior concorrenza, temuta per esempio dai produttori di carne bovina francesi, sarebbe compensata dalle maggiori opportunità di export (dovrebbe aumentare l'interscambio e ridursi l'import da Paesi terzi). Teoricamente sarebbe un vantaggio soprat© Europae - Rivista di Affari Europei

tutto per l'UE, che nel settore agricolo ha un avanzo negli scambi con gli Stati Uniti.

I negoziati sul TTIP riguardano anche l’agricoltura. I dazi sono già bassi, mentre è problematico il tema della difesa della sicurezza alimentare in UE. Più difficilmente superabili sembrano invece gli ostacoli in termini di legislazione e sicurezza degli alimenti: emblematico è il caso degli OGM, commerciati negli USA e sui quali l'UE ha una certa ritrosia, oppure della carne “ormonata”. In generale l'approccio è opposto: negli USA per non commerciare un prodotto deve essere dimostrata la sua pericolosità per l'uomo, mentre nell'UE vale il “principio di precauzione”: affinché il prodotto sia commerciato deve essere dimostrato il fatto che non è nocivo. Ci sarebbe da capire come l'UE potrebbe giustificare l'accordo e quindi, nella percezione dei cittadini, il sacrificio della sicurezza alimentare sull'altare del business. Come conciliare questo trade-off con la lettura dell’agricoltura quale paladina della sicurezza alimentare meritevole di sostegno pubblico? C'è chi ritiene che i cittadini sarebbero spinti proprio a domandare più prodotti tracciabili (di filiera corta) e biologici, nel timore di doversi cibare di prodotti “non sicuri”. Ad oggi questa strada sembra però poco percorribile. Sembra difficile anche la strada che porta ad insistere con gli Stati Uniti affinché siano loro a elevare i propri standard di sicurezza alimentare. Visti i recenti percorsi di PAC e Farm Bill è anche l'unica strada percorribile. Anche se il business aguzza l'ingegno, giustificare di fronte ai cittadini sia il sacrificio economico (le sovvenzioni) sia la minore sicurezza alimentare, sarebbe impresa ben più ardua. Un’impresa che l'UE, garante nel mondo dei diritti dei cittadini, preferirebbe non dover affrontare. ∎

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L’UE, GLI USA E L’ENERGIA: PROVE TECNICHE DI CAPITALISMO A IMPATTO ZERO L’equilibrio fra tutela dell’ambiente e la crescita economica è giudicato diversamente in America e in Europa. Mentre gli Stati Uniti lanciano la rivoluzione dello shale gas e abbattono il prezzo dell’energia, l’Unione Europea si divide sulle innovative tecniche di fracking. Intanto la Cina, alla ricerca di alternative al carbone e alle importazioni di idrocarburi, è sempre più leader nelle energie rinnovabili. Il paradigma statunitense della crescita a ogni costo fa da contraltare al nuovo corso cinese e ai dubbi dell’UE.

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di Tullia Penna

ella ricerca teorica del punto di equilibrio tra sviluppo economico e difesa dell’ambiente, gli Stati Uniti hanno spesso svolto il ruolo di ago della bilancia. Fu infatti George W. Bush ad affermare che «la crescita non è la causa dei problemi ambientali, essa ne è la soluzione». Il perché della (quasi) globale adesione a questa tesi non necessita di spiegazione. Richiama invece l’attenzione un altro dato: la politica ambientale non si attesta neanche tra le priorità (reali) dell’ala democratica. Infatti, nonostante Bill Clinton abbia firmato il Trattato di Kyoto, la ratifica statunitense dell’accordo non è mai avvenuta. Barack Obama nel novembre 2008 si autodefinì persino «il Presidente più verde della storia», ma all’alba del suo secondo mandato i risultati di quest’audace promessa non si sono ancora realizzati. Questo perché il ferreo ostruzionismo del Congresso degli Stati Uniti nei confronti di una crescita economica a basso impatto ambientale è un ostacolo impossibile da superare. Neppure i tentativi divulgativi di Al Gore hanno prodotto risultati convincenti su un’opinione pubblica che tende a rimanere, nella maggior parte dei casi, sonnolenta sul tema del cambiamento climatico. Il paradigma statunitense è chiaro: crescita economica e produzione sono priorità assolute e non possono essere oggetto di compromessi.

Negli USA il paradigma diffuso tra Repubblicani e Democratici è che crescita economica e produzione abbiano la priorità sui temi ambientali. Diversa invece è la concezione europea, decisamente più sensibile alle scottanti problematiche climatiche e più propensa alla mitigazione delle esigenze economiche. Prova ne sia la dichiarazione di un paio di anni fa di Pavan Sukhdev (economista, banchiere della Deutsche Bank e coordinatore della Green Economy Initiative) secondo cui: «La ricon© Europae - Rivista di Affari Europei

versione ecologica dei sistemi economici non è un freno per la crescita, ma piuttosto una nuova forza motrice di essa».

La posizione dell’UE è molto più attenta ai fattori legati all’ambiente e attiva nella lotta al cambiamento climatico. E il caso degli shale gas... L’Unione Europea ha aderito da alcuni anni a questo pensiero, investendo milioni di euro nelle politiche di contrasto al cambiamento climatico. L’UE tuttavia si dibatte dall’inizio degli anni 2000 su uno specifico tema: lo sfruttamento dei cosiddetti shale gas. Gli shale gas (o gas da argille) si ottengono con un procedimento che prevede prima la perforazione verticale del terreno, poi quella orizzontale, alla quale segue la fratturazione idraulica (fracking). Il fracking consiste nell’uso della pressione di un fluido per frantumare uno strato roccioso, al fine di incrementare la permeabilità del terreno e quindi aumentare la quantità e la qualità del recupero di gas da argille. Proprio la sicurezza di quest’attività arroventa il dibattito tra ambientalisti e politici. Gli shale gas infatti hanno un impatto molto più basso di quello dei carboni fossili sull’atmosfera, ma la loro estrazione può provocare potenti vibrazioni sismiche, inquinamento delle falde acquifere, grandi quantità di residui da smaltire e altri danni collaterali. L’analisi quindi dovrebbe scindere il dato prettamente economico da quello ambientale. Lo scorso anno il 39% dei gas naturali prodotti dagli Stati Uniti, secondo recentissimi dati del Dipartimento dell’Energia, era di origine argillosa. Gli statunitensi sono i leader mondiali del settore, seguiti dal Canada e, a distanza, dalla Cina. Secondo l’amministratore delegato dell’Ente Nazionale Idrocarburi italiano (ENI), Paolo Scaroni, i Paesi dell’UE per tornare a crescere dovranno raggiungere in bre-

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ve tempo gli standard statunitensi, «vivendo la rivoluzione dello shale gas». Tale rivoluzione, sempre secondo Scaroni, ha comportato la drastica diminuzione dei prezzi dell’energia oltreoceano. Attualmente, infatti, in Europa il costo del gas è triplo rispetto a quello pagato negli Stati Uniti, mentre quello dell’elettricità il doppio. Alle critiche sull’invasività del metodo di estrazione, Scaroni risponde lapidariamente come i danni ambientali siano potenzialmente innegabili, ma non ci sia alternativa se l’obiettivo è quello di ritornare economicamente competitivi. Anche attendere che gli Stati Uniti divengano esportatori sarebbe una tattica fallimentare, perché il prezzo di acquisto non sarebbe sostenibile. L’ottica è chiara: competizione è sinonimo di crescita e la crescita è sinonimo di produzione.

Gli Stati Uniti sono leader mondiali della produzione di shale gas. In UE il costo del gas è triplo che negli USA. Ma esistono seri rischi ambientali. La questione politicamente cruciale riguarda la divisione dell’UE sulle varie iniziative dei suoi Paesi membri. Se nel luglio scorso il governo britannico è stato fatalmente affascinato dal fenomeno dello shale gas, come è accaduto ancora prima alla Polonia, dall’altro lato la Francia ha recentemente proposto, con il supporto di Bulgaria, Repubblica Ceca e Romania, il divieto di praticare attività di fracking sul tutto il territorio dell’UE. Certamente le motivazioni sono squisitamente economiche: i Paesi che ostacolano l’estrazione non possiedono risorse di shale gas per rendersi autosufficienti. Differentemente gli studi geologici inglesi hanno dimostrato come oltre Manica le riserve di gas da argilla renderebbero il Paese indipendente dalle importazioni per cinque decenni, abbattendo anche i costi dell’energia. Per questa ragione Londra ha ridotto del 30% l’aliquota sugli utili delle imprese che estrarranno shale gas. L’Italia, dal canto suo, è titubante e tende a seguire le indicazioni tedesche, debolmente orientate al divieto di fracking in Europa. Nel protrarsi dell’indecisione politica, l’UE ha ottenuto quest’estate quello che per il Presidente della Commissione Europea, Josè Manuel Barroso, è un grande successo. Gli operatori del giacimento di gas azero Shah Deniz hanno infatti assegnato al TransAdriatic Pipeline (TAP), destinato a passare per Grecia, Albania e Italia, le proprie forniture. Il cosid© Europae - Rivista di Affari Europei

detto “Corridoio Sud” però non consentirebbe all’UE di emanciparsi del tutto dalle forniture russe, che attualmente costituiscono il 30% del totale europeo. Questo perché Mosca potrebbe rinegoziare i termini di vendita del gas con i Paesi del sud-est Europa non inclusi nel corridoio, praticando anche delle riduzioni di prezzo.

Sullo shale gas l’UE è, al solito, molto divisa. Mentre Regno Unito e Polonia vorrebbero estrarlo, la Francia e altri Paesi si oppongono al fracking. L’UE dunque ha ceduto nuovamente al fascino dell’energia ad alto impatto ambientale e la bontà di tale decisione può essere letta alla luce del World Energy Outlook della International Energy Agency (IEA) presentato il 12 novembre. Infatti, entro il 2035, la Cina surclasserà Stati Uniti, UE e Giappone nella produzione complessiva di energie rinnovabili. L’energia cinese (solare, eolica, idroelettrica) diverrà, secondo le stime dell’agenzia, il 30% di quella mondiale, superando la quota prodotta da gas naturale e attestandosi pari merito con il carbone come fonte primaria. Sempre secondo l’IEA, saranno indispensabili, da parte di UE e Stati Uniti, politiche ambientali coerenti con l’obiettivo di indebolire il vincolo tra crescita economica, domanda energetica ed emissioni di CO2. Nel mentre, il 5 novembre, la Commissione Europea aveva già pubblicato le nuove linee guida per le energie rinnovabili. Il fine ultimo del documento è di ridurre gli incentivi per rendere le energie rinnovabili più competitive e, nel contempo, abbassare i costi delle tecnologie utili a produrle. Lo sguardo dell’UE continua però a essere puntato sulle medie e grandi utenze, dimenticando i più recenti dati sull’autoconsumo, sottolineati invece dall’Associazione Europea dell’Industria Fotovoltaica. Le piccole utenze nei prossimi anni assorbiranno con ogni probabilità il 50% del mercato del fotovoltaico, producendo cioè in autonomia l’energia utile alle proprie attività. L’UE quindi si lascia attrarre dal paradigma statunitense, considerando le fonti rinnovabili come beni di mercato più che come strumento di salvaguardia ambientale. Gli Stati Uniti dal canto loro hanno ricevuto conferme importanti dal World Energy Outlook, che li attesta a primi produttori di petrolio entro il 2015. A poco vale il progetto presentato dal Presidente Obama di arrivare a produrre da fonti rinnovabili,

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L’UE, GLI USA E L’ENERGIA: PROVE DI CAPITALISMO A IMPATTO ZERO Tullia Penna

UN MOMENTO DELLE OPERAZIONI DI FRACKING IDRAULICO DELLE ROCCE PER L’ESTRAZIONE DI SHALE GAS (© JOSHUA DOUBEK, WIKICOMMONS )

entro il 2020, il 20% dell’energia consumata dal governo federale. In uno scenario in cui l’attività invasiva di fracking si diffonde a macchia d’olio sul territorio nordamericano, il rischio è quello che all’abbassamento delle emissioni di CO2 corrispondano altre tragiche conseguenze per la salute dell’ambiente. Rimane il fatto che un modello di capitalismo a impatto zero è una contraddizione in termini.

L’impossibilità di un capitalismo a impatto zero è comprovata. Ma gli Stati Uniti hanno un paradigma, l’UE un mosaico di 28 paradigmi nazionali.

to allo sviluppo come bene prevalente e intangibile o tutela dell’ambiente come suo limite? Il paradigma statunitense è chiaro, mentre quello europeo è più un mosaico di 28 paradigmi differenti orientati soprattutto, in questo momento storico, alla creazione di un’area di libero scambio con gli Stati Uniti. Un’area entro la quale sfogare le periodiche crisi di sovrapproduzione e continuare ad assoggettare alla legge del valore anche le tecnologie verdi. ∎

Così, mentre l’UE tentenna e gli Stati Uniti proseguono, con indomita coerenza, il loro piano di incremento della produzione industriale, il nocciolo della questione economico-ambientale rimane intatto. La sua definizione è stata offerta un paio di anni fa da Daniel Tanuro come “l’impossibile capitalismo verde”, cioè il “rompicapo del secolo”. Dirit© Europae - Rivista di Affari Europei

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COME E PERCHÉ L’EUROPA HA FRAINTESO BARACK OBAMA Nel 2008 Barack Obama è stato accolto in Europa come il Presidente della svolta. Il suo messaggio di speranza, costruito sui valori dell’internazionalismo, del multilateralismo e del dialogo, segnava una rottura rispetto all’amministrazione di George W. Bush. La realtà è che Obama è un Presidente molto pragmatico, consapevole delle responsabilità derivanti dal suo ruolo di “comandante in capo”, Nobel per la Pace o meno. Ben prima del Datagate, gli europei ne sono rimasti delusi. Senza però reagire.

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di Luca Barana

erlino, 24 luglio 2008: il candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, entusiasma una folla di 200.000 persone arrivate per assistere al suo intervento nel cuore della capitale tedesca. La copertura mediatica dell’evento è impressionante. Durante il corso di quella campagna elettorale, Obama non ha mai raccolto una simile folla negli Stati Uniti. 2013, sempre a Berlino: il Presidente Obama, pochi mesi dopo la rielezione, intrattiene circa 6.000 persone nella quasi indifferenza dei media internazionali. La sconcertante realtà delle cifre descrive efficacemente la parabola della figura di Obama in Europa. Obama è stato eletto dagli americani, ma gli europei lo hanno sentito subito vicino. Un peccato originale che ancora oggi i Repubblicani usano contro di lui, accusandolo di simpatie per un modello di socialismo europeo assistenzialista e a favore della spesa sfrenata. L’agenda politica con cui Obama è stato eletto Presidente costituiva in effetti una rottura rispetto agli otto anni dell’amministrazione repubblicana guidata da George W. Bush. Un’America stremata da due guerre sanguinose in Afghanistan e Iraq e terrorizzata dai primi durissimi colpi della crisi finanziaria decideva di affidarsi al giovane senatore dell’Illinois per rilanciare le sorti della nazione.

La percezione di Barack Obama in Europa è cambiata molto dal 2008 a oggi. All’epoca, gli europei erano alla ricerca di una rottura con l’era Bush. L’Europa non aspettava che un segnale di rottura simile, suggellato proprio da quel discorso a Berlino che conquistò ampie fasce dell’opinione pubblica del continente. La war on terror lanciata dall’amministrazione repubblicana aveva segnato forte© Europae - Rivista di Affari Europei

mente le relazioni euro-atlantiche, provocando allo stesso tempo divisioni significative all’interno dell’Unione Europea. Dopo che gli anni Novanta avevano prospettato la nascita di una politica estera europea, le divergenze degli anni di Bush ne avevano quasi fatto dimenticare l’opportunità. Tutti ricordano come Francia e Germania si opposero con forza alla guerra in Iraq, mentre il Regno Unito, la Spagna e un Paese fondatore come l’Italia si accodarono all’alleato americano per abbattere il regime di Saddam Hussein. Le opinioni pubbliche europee si mobilitarono contro l’intervento, la bandiera della pace apparve su molti balconi italiani e Bush divenne per molti europei un nuovo campione dell’imperialismo americano.

Gli anni di Bush e della war on terror erano stati molto divisi non solo per l’Alleanza Atlantica, ma per la stessa politica estera dell’Unione Europea. Dopo questa esperienza traumatica, il messaggio di speranza lanciato da Obama è stato accolto a braccia aperte in Europa. Nel suo discorso di Berlino, il candidato Presidente toccò molti punti vicini alla sensibilità europea: l’accento sui pericoli derivanti dal cambiamento climatico, l’impegno per un mondo privo di armi nucleari, un accorato appello per aiutare con maggior forza “coloro che sono rimasti indietro” e lottano quotidianamente contro la povertà e le malattie. Tutti temi che comparivano nella Strategia Europea di Sicurezza del 2003 e che si scontravano invece con l’unilateralismo preventivo degli anni di Bush, quando la dottrina di difesa degli Stati Uniti prevedeva la possibilità di intervenire preventivamente in Paesi ostili per disinnescare future minacce terroristiche e le istituzioni internazionali erano osservate con diffidenza. Al contrario, l’abbandono dell’unilateralismo e il rafforzamento della cooperazione internaziona-

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COME E PERCHÉ L’EUROPA HA FRAINTESO BARACK OBAMA Luca Barana

L’equivoco nasce dal non tenere in debita considerazione che Obama è il Presidente degli USA, con le responsabilità che questa carica comporta.

IL PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI D’AMERICA BARACK OBAMA ALLA SCRIVANIA DELLO STUDIO OVALE ALLA CASA BIANCA (© THE WHITE HOUSE 2011 )

le sono state le parole d’ordine su cui la nuova amministrazione ha voluto fondare la propria politica estera. Il recupero dei rapporti con gli alleati storici europei era fondamentale: a Berlino Obama volle ribadire le radici storiche della relazioni con la Germania e l’Europa, ricordando la comune lotta contro il comunismo sovietico e la forza dimostrata in molti frangenti quando la cortina di ferro era calata sul continente. Quasi a voler debellare l’esperienza dell’amministrazione Bush come una parentesi in una storia di amicizia altrimenti consolidata. Nella National Security Strategy pubblicata nel maggio 2010 si legge che “nessuna nazione, non importa quanto potente, può affrontare da sola le sfide globali” che caratterizzano la nostra epoca. Musica per le orecchie europee. Gli europei, e fra loro in prima fila molti capi di Stato e di governo, hanno voluto credere di avere di fronte uno di loro un europeo sensibile ai temi dei diritti umani, dell’ambiente, della cooperazione internazionale. Un leader dedicato al soft power e al dialogo. C’è sempre stato un errore di fondo nell’interpretazione di questa figura carismatica d’oltreoceano: © Europae - Rivista di Affari Europei

quello che gli europei non hanno capito subito, e ancora oggi in molti frangenti faticano a comprendere, è che Barack Obama è il Presidente degli Stati Uniti, con tutte le responsabilità, le sensibilità e le necessità che distinguono questa carica da ogni altra al mondo.

L’Europa ha voluto vedere in Obama un leader simil-europeo, lontano dalla politica bellicosa di Bush, armato di soft power e incline al dialogo. L’imbarazzo mostrato da Obama nel ricevere il Premio Nobel per la Pace nel 2009 è una riprova di come il suo messaggio fosse stato interpretato in modo distorto in Europa. Certo lo stesso Obama ha contribuito a questa distorsione: gli interventi tenuti in campagna elettorale e nei primi mesi da Presidente, nella foga di volersi distinguere dal suo predecessore, hanno fissato degli standard molto elevati, difficili da rispettare. Si pensi alla costante promessa di chiudere la prigione di Guantanamo Bay, uno dei cavalli di battaglia del primo Obama, tuttora disattesa. E non si può negare che il Presidente democratico abbia cercato di dar seguito alle sue pro-

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ALLEANZA INEVITABILE?

L’AMERICA DEL DEBITO, L’EUROPA DEL RIGORE

N. 7 - Novembre 2013

messe, promuovendo in un primo tempo il dialogo con l’Iran e il reset delle relazioni con la Russia, giungendo a rinnegare il progetto dello scudo spaziale di difesa. Una mossa che, fra l’altro, non fu accolta benevolmente fra alcuni dei partner europei più vicini agli Stati Uniti, come Polonia e Repubblica Ceca. In generale tuttavia, l’Obama visto in questi cinque anni in politica estera è stato un pragmatico promotore della posizione americana nel mondo, più concentrato sui problemi economici interni che a una rideterminazione del sistema internazionale. Ha chiuso la guerra in Iraq, come richiesto da molte voci europee da anni, ma ha preceduto questa mossa con un aumento del numero delle truppe nel Paese. Il ritiro dall’Afghanistan si dovrebbe concludere solo nel 2014. Obama non ha abbandonato gli strumenti militari per combattere il terrorismo internazionale: non è un pacifista così come inteso in Europa. Se vi è un tratto caratteristico della sua azione internazionale è l’ampio utilizzo di droni per colpire obiettivi mirati: qualcuno potrebbe obiettare che questo strumento è certamente migliore dei bombardamenti su Baghdad del 2003, ma ha sollevato comunque pesanti perplessità su possibili violazioni del diritto internazionale.

La disillusione europea nasce da un malinteso di fondo: Obama non è un socialista o un pacifista all’europea ma un Presidente pragmatico. La vera decisione strategica di Obama è stata quella del pivot to Asia, un riequilibrio delle risorse politiche, diplomatiche e militari statunitensi verso la regione dell’Asia-Pacifico, dove, soprattutto per l’ascesa della potenza cinese, si decideranno le sorti del XXI secolo. In tutto questo, l’Europa è rimasta silente. Sempre più concentrata sui problemi finanziari di molti suoi Stati membri, l’UE ha guardato con un certo stupore a un Presidente che si diceva grande amico dell’Europa, ma che implicitamente invitava i partner ad assumersi le proprie responsabilità, ridefinendo le priorità geografiche dell’impegno americano. I Paesi europei non hanno saputo cogliere sinora questa opportunità, non rilanciando una politica estera dell’UE davvero unitaria. Il Consiglio Europeo di dicembre vorrebbe ora costituire un passo deciso in questa direzione, ma negli ultimi anni il vuoto apparente lasciato dagli Stati Uniti in Medio Oriente, il vicino estero dell’UE, non ha fatto che ali© Europae - Rivista di Affari Europei

mentare le divisioni intra-europee. Un vuoto apparente perché è vero che Obama ha solamente appoggiato da lontano le rivoluzioni della Primavera Araba, ma difficilmente Gran Bretagna e Francia si sarebbero mosse in Libia senza il supporto logistico e diplomatico americano. E ancora una volta si sono espresse le contraddizioni europee, con la Germania che ha rifiutato ogni coinvolgimento. Quando poi Obama ha effettivamente deciso di non coinvolgere gli Stati Uniti in una crisi come quella siriana, l’Europa non ha ancora una volta saputo esprimere una soluzione unitaria in merito, se non a giochi fatti, quando l’accordo fra Russia e Stati Uniti sullo smantellamento dell’arsenale di armi chimiche di Bashar al-Assad era già stato concluso.

Il Datagate è l’atto finale di un’incomprensione iniziata nel 2008. Ma il vero errore dell’Europa è la mancanza di una vera politica estera comune. È così dunque che si spiega la delusione europea nei confronti di Obama. Una delusione che nasce dall’incapacità dell’UE di darsi una politica estera quantomeno autonoma e dal fraintendimento della figura di Obama stesso. L’atto finale di questa incomprensione è costituito dal Datagate. Obama ha sostenuto di non essere a conoscenza degli ampi sistemi di spionaggio della National Security Agency in Europa, ma ancora una volta l’immagine degli Stati Uniti è stata macchiata. E di conseguenza quella del loro Presidente. Da garante dei diritti umani a mandante di un’estesa rete di spionaggio, il passo è stato breve, ma non certo indolore. Obama non è un santo, né un guerrafondaio. Obama è un Presidente americano pragmatico, preoccupato dalla crisi interna degli Stati Uniti e spesso non così incisivo in politica internazionale. Gli europei che si aspettavano una personalità quasi salvifica erano in errore. Ma fraintendere Obama è stato tutto sommato un peccato veniale: non dotarsi di strumenti adatti a giocare un ruolo centrale negli anni a venire e non essere pronti di fronte alle crisi, indipendentemente dalla personalità del Presidente del proprio principale alleato, lo è molto meno. ∎

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GLI AUTORI Davide D’Urso Caporedattore e Presidente del Consiglio di Redazione di Europae. Laureato magistrale in Scienze Internazionali e Studi Europei presso l’Università degli Studi di Torino, ha conseguito il certificato di alta qualificazione presso la Scuola di Studi Superiori di Torino. È stato tirocinante all’Ufficio Stampa della Rappresentanza d’Italia presso l’UE. Vive e lavora a Novara. Specializzato in politica, istituzioni e relazioni esterne dell’UE. In questo numero: “Europa e Stati Uniti: friends will be friends ”.

Antonio Scarazzini Direttore di Europae e membro del comitato direttivo dell’Associazione Culturale OSARE Europa. Laureato magistrale in Scienze Internazionali e Studi Europei presso l’Università degli Studi di Torino, con una tesi di ricerca sul programma Joint Strike Fighter. Ha partecipato al corso di formazione per analisti di Equilibri.net. Specializzato in difesa e in politiche monetarie e fiscali. In questo numero: “Alleati o concorrenti? I nuovi squilibri dell’alleanza atlantica”.

Fabio Cassanelli Redattore, membro del Consiglio di Redazione di Europae e Tesoriere dell’Associazione Culturale OSARE Europa. Laureato in Economia Aziendale presso l’Università degli Studi di Torino, è autore di temi economici su quattrogatti.info e cura un blog sull’Huffington Post. Studia Economia, Cultura, Ambiente e Territorio presso il Dipartimento di Statistica di Torino. Specializzato in economia, finanza e politica monetaria. In questo numero: “Le convergenze parallele di BCE e Federal Reserve”.

Shannon Little Redattore, Responsabile editoriale e membro del Consiglio di Redazione di Europae. Laureato magistrale in Studi Internazionali all'Università di Bologna, sede di Forlì, è stato tirocinante all’Ufficio Commercio della Rappresentanza d'Italia presso l'Unione Europea e ha lavorato presso la sede di Confindustria a Bruxelles. Specializzato in economia, commercio e relazioni internazionali. In questo numero: “I negoziati commerciali UE-USA e la forza dell’Occidente”.

Mauro Loi Redattore, membro del Consiglio di Redazione di Europae e del comitato direttivo dell’Associazione Culturale OSARE Europa. Laureato magistrale in Scienze Strategiche con una tesi sul processo di ricostruzione dell'Afghanistan, ha avuto esperienze in missioni internazionali delle Nazioni Unite nel 200809 (Libano) e della NATO nel 2012 (Afghanistan). Specializzato in politica e azione esterna dell’UE. In questo numero: “Il liberismo del TTIP e l’interventismo di PAC e Farm Bill”.

Tullia Penna È membro del Consiglio di Redazione di Europae e Presidente dell’Associazione Culturale OSARE Europa. Laureanda in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Torino, è studentessa e rappresentante degli studenti della Scuola di Studi Superiori di Torino. Specializzata in diritto internazionale, dell'Unione Europea e delle organizzazioni internazionali, collabora con l'Osservatorio dell'Asia Orientale. In questo numero: “L’UE, gli USA e l’energia: prove tecniche di capitalismo a impatto zero”.

Luca Barana Vice-Direttore e Vice-Presidente del Consiglio di Redazione di Europae. Laureato magistrale in Scienze Internazionali e Studi Europei presso l’Università degli Studi di Torino con una tesi sulla politica di cooperazione allo sviluppo e sulle relazioni interregionali dell’Unione Europea in Africa. Specializzato in politica, azione esterna e cooperazione allo sviluppo dell’UE. In questo numero: “Come e perché l’Europa ha frainteso Barack Obama”.

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® Europae - Rivista di Affari europei I numeri precedenti

Numero 1, Aprile 2013 “L’Unione Europea e la nuova corsa all’Africa” Consultabile e scaricabile gratuitamente qui

Numero 2, Maggio 2013 “Ulisse e Zheng He. Unione Europea e Cina sulla rotta del mondo nuovo” Consultabile e scaricabile gratuitamente qui

Numero 3, Giugno 2013 “La camera bassa. Il Parlamento Europeo tra Lisbona e il 2014” Consultabile e scaricabile gratuitamente qui

Numero 4, Luglio 2013 “L’Europa dei 28. La Croazia rilancia il sogno europeo dei Balcani” Consultabile e scaricabile gratuitamente qui

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Numero 5, Settembre 2013 “Kaiserin Angela? Merkel verso la riconferma, l’Europa aspetta” Consultabile e scaricabile gratuitamente qui

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