Bachelor portfolio Riccardo Rizzetto

RICCARDO RIZZETTO ARCHITECTURE PORTFOLIO 2013-2016 IUAV

Il tracciato regolatore consente appunto di riportare l’ordine. E non con la precisione di una teoria, ma con le incertezze, tutti gli accomodamenti, tutti i condizionamenti, tutti i vincoli che la vita comporta.

Le Corbusier, 1951

IUAV FacoltĂ di Architettura Laurea Triennale Architettura Costruzione Conservazione A. A. 2013-2016 Portfolio Riccardo Rizzetto 279736

Scelsi architettura come un bisogno.

Così mi sembrò naturale.

Carlo Scarpa, 1972

Chiamerò architetto colui che con metodo sicuro e perfetto sappia progettare razionalmente e realizzare praticamente, attraverso lo spostamento dei pesi e mediante la congiunzione dei corpi, opere che nel modo migliore si adattino ai più importanti bisogni dell’uomo.

Leon Battista Alberti, 1485

Ama i tuoi esperimenti come ameresti un figlio brutto. L’emozione è il motore della crescita.

Godi della libertà di considerare il tuo lavoro come una serie di meravigliosi esperimenti, prove, tentativi, saggi ed errori.

Adotta un punto di vista a lungo termine e concediti ogni giorno il divertimento di fallire.

Bruce Mau, 1998

Quando decisi di iscrivermi alla Facoltà di Architettura non sapevo bene a cosa sarei andato incontro, ma sapevo cosa volevo. Cercavo un’occasione attraverso cui acquisire un metodo, un modus operandi, una forma mentis, degli occhi con cui vedere, guidare e comporre la mia vita indipendentemente dalla direzione che può prendere.

E forse proprio il Comporre è stato l’atto che ha caratterizzato, a diverse scale, con diverse accezioni e risultati, le esperienze, accademiche e non, che ho avuto durante questi tre anni.

Mettere insieme, ordinatamente, più cose. Formare un tutto’uno connettendo più parti o elementi anche diversi. Trovare il modo per fare convivere opposti, risolvere ossimori. Ottenere un unicum. Nelle possibili declinazioni, l’essere le parti che costituiscono l’insieme o l’essere formato, costituito . Concepire e dar forma, esprimere per iscritto i proprî pensieri intorno a un determinato argomento. Acconciare, assestare, sistemare e, Pirandellianamente, atteggiare. Assumere un atteggiamento e una postura di compostezza. Stabilire un accordo, combinare. Conciliare, acquietare, plasmare, mettere in relazione, risolvere un tumulto. Creare una nuova situazione stabile, armonizzare.

Comporre implica teoria, forma, regola e una cultura che ci possa orientare tra cosa funziona e cosa no, sapendone indicare il perchè.

Retrospettivamente, in questa collezione di quelle che ritengo le esperienze più significative al fine sopra citato, provo a trovare declinazioni concrete di cosa per me ha significato comporre negli esercizi svolti, consapevole che oggi non stiamo tanto cercando risposte, quanto di imparare a porci le domande giuste per proseguire l’avventura appena intrapresa con valori e concetti ascalari.

Dal disegno di una città a quello di un oggetto. Da un edificio ad una fotografia.

Riccardo Rizzetto 25/03/1994 Via molino 7, Molvena (VI) +39 338 9909234 riccardo.rizzetto@yahoo.it @riccardorizz

Central Saint Martins Interior styling for photography and advertising Londra, Agosto 2015 UniversitĂ IUAV di Venezia Architettura Costruzione Conservazione Venezia, 2013-2016 Prof. Leo Maria Scordo Corso pratico e teorico di fotografia Bassano del Grappa, Gennaio-Giugno 2011 Liceo Brocchi Scientifico Tecnologico Bassano del Grappa, 2008-2013

A. Dal Fabbro Viaggio studio Colonia Rotterdam Amsterdam Stoccarda P. Scrivanti Analisi matematica e geometria A. Guerra Storia dell’architettura1 H. Dubois Workshop L’abitazione E. Meroi Meccanica strutturale 1 P. Grandinetti Teoria della progettazione architettonica A. Dal Fabbro + C. Tessarollo Laboratorio integrato 1 A. Benno + S. Marini W. A. Ve Sine Terra

Corso di fotografia Prof. Leo Maria Scordo Tutoring, Training di 4 corsi Bassano del Grappa, Settembre 2011- Maggio 2013

G. Bilotti Meccanica strutturale 2 A. Mazzuccato Fondamenti di geotecnica M. Pogacnik Storia dell’architettura2 M . Pogacnick Viaggio studio Graz Vienna S. Okada + E. Giani Workshop Smallness D. F. Antonucci Fisica tecnica ed impianti E. Giani + E. Meroi Laboratorio integrato 2 E. Giani Viaggio studio Continuità P. Rahm + Sara Marini W. A. Ve The Anthropocene Style

Instagram @riccardorizz Product placement, Storytelling Ferrero Rocher, CocaCola Life.

Ferrari Formaggi, Booking.com, Farfetch.com Motosalone Tottene Social media consultant Bassano del Grappa, Gennaio-Aprile 2015 Ogilvy & Mather Freelancing Content creation Nutella, Kinder Sorpresa, Consorcio Milano, da Agosto 2015 Webber Freelancing Content creation ( Mediterranea BioVeg) Bassano del Grappa, da Ottobre 2015 Venezia da vivere Photoreporting Venezia, da Dicembre 2015

E. Micelli Estimo M. Pogacnik Storia dell’architettura 3 N. Pirazzoli Laboratorio di restauro C. Balletti Rilievo strumentale e rappresentazione digitale E. Giani Viaggio studio Il comune senso del bello G. Bilotti Costruzioni in cemento armato, acciaio, legno e muratura L. Ciacci Urbanistica A. Dal Fabbro + A. Norsa Laboratorio integrato 3

SNACKulture Public Relation, Photoreporting Da Settembre 2011 a Dicembre 2015

Villa Sandi Content creation Valdobbiadene, da Marzo 2017 Malìparmi Store design and visual merchangising internship Padova, Novembre-Dicembre 2016

GENIUS LOCI AUTORITRATTO RAZIONALISMO Villa Malaparte, Adalberto Libera Villa Malaparte, anche nota come Casa Malaparte, è un’abitazione privata situata nell’isola di Capri su un irto e stretto promontorio roccioso, che sembra sorgere dal mare. Progettata da Adalberto Libera, è considerata uno dei capolavori dell’architettura moderna, rappresentando un meraviglioso esempio di integrazione tra modernità razionalista e ambiente naturale. La casa appare in molti film, quali Il disprezzo di Jean-Luc Godard o La pelle di Liliana Cavani.

La villa, battezzata dallo scrittore Casa come me, è costituita da un grande salone sulle cui pareti si aprono quattro grandi finestroni, costruiti in modo da offrire in ognuno un panorama diverso. Vi sono poi lo studio, la stanza da letto, un piccolo appartamento per gli ospiti, chiamato l’ospizio e la favorita, la camera da letto della compagna del momento. Mentre ricorda per la sua semplice struttura le abitazioni locali, possiede note chiaramente razionaliste come il tetto a terrazza con un paravento ondeggiante, elementi che ricordano Le Corbusier. La sua forma di parallelepipedo rotto dalla gradonata, che sale ampliandosi sulla terrazza solare della copertura, ha una semplice armonia, che diviene parte delle strutture naturali della roccia e crea un eccezionale ambiente costruito.

Ci si potrebbe interrogare, al primo impatto con Casa Malaparte, se essa sia effettivamente una casa o cos’altro. È uno degli edifici più studiati e blasonati del novecento, ma non ci si sofferma sul suo essere casa, al contrario di quanto fatto per altre architetture altrettanto celebrate per i nuovi modi di abitare che propongono, in un continuo rapporto tra forma, interno, esterno e volume fatto di raffinati slittamenti, correzioni e ampliamenti di senso.

Sembra impossibile indagarne la radice architettonica, il senso compositivo a partire dall’osservazione dell’oggetto stesso, studiandone i disegni e le viste, sia interne che esterne, i testi, poetici e non, che la descrivono, la filmografia che la adotta come ambientazione.

Prodotto di due menti e di un rapporto conflittuale come quello tra Adalberto Libera e Curzio Malaparte, è impossibile identificarne un singolo autore in modo chiaro e netto.

Malaparte era fortemente determinato a volersi costruire una casa. Non pensa ad una casa qualunque, ma una casa moderna, a picco sul mare, specchio della propria anima e che in seguito chiamerà “casa come me”. Lui, infatti, pur non essendo architetto, ha una grande capacità di prefigurazione e per ideare e realizzare la sua casa sa avvalersi dei contributi e delle conoscenze specifiche delle persone di cui si è circondato.

Adalberto Libera è l’architetto a cui lo scrittore si rivolge per elaborare il progetto da depositare in Comune e con il quale rimane in contatto per un certo periodo antecedente l’inizio del cantiere. Adolfo Amitrano è il proprietario dell’impresa di Capri che si occupa della costruzione. Il pittore Savinio è l’ideatore delle piastrelle in maiolica. L’architetto e amico Moretti, al quale Malaparte si rivolse anche per consigli tecnici, disegna uno dei

pavimenti in legno. Maria Montico è la governante che sovrintende i lavori in assenza del proprietario. Il falegname Giovanni Amitrano, fratello di Adolfo, realizza la scrivania, la libreria e la scala interna. Il falegname Morucci di Roma, invece, si occuperà degli infissi e delle porte. Una serie di artigiani saranno coinvolti per le opere interne e saranno gli stessi che lavoreranno nella casa soprattutto dopo la fine del rustico.

Essendo una delle opere più misteriose del Novecento, non solo italiano, molti architetti e critici di architettura hanno cercato di sciogliere l’enigma che si nasconde nelle semplici forme di questa celebre costruzione, ma tale enigma sembra ancora più resistente oggi di quando fu costruita. Una sorta di mitologia ruota attorno a questo edificio, simbolo di una concezione libera ed eroica dell’esistenza umana e della scena architettonica in cui essa può trovare una rappresentazione adeguata.

Villa Malaparte è un punto, denso e infinitesimo. È la partenza verso un mondo inesplorato fatto di materia e uomo. Per questo, è un’architettura senza tempo, immobile, fissa nella memoria. Non è né casa né tempio, né artificio né natura, ne simbolo né monumento. È semplicemente un nodo dell’architettura la cui vera sostanza risiede in quel carattere recondito, in quel superamento del senso di uno schema geometrico definito, spingendosi oltre una qualsiasi spiegazione logica.

Non è il paesaggio a definire la sua bellezza perché il resto è semplicemente un contorno di cui si può fare a meno, sazi a seguito dell’edificio considerato a sé stante.

Come le fortificazioni militari, infatti, la casa sembra difendersi dall’esterno, proteggere ciò che contiene attraverso una forma. Dall’aspetto di un’architettura primordiale, le finestre sono piccole intersezioni di paesaggio all’interno di questo monoblocco.

È un opera totale, un enigma che si presenta in modo assurdamente evidente richiamando a sé, riassumendo, sintetizzando, concretizzando e palesando un quadro paesaggistico unico, con un cielo sempre cangiante e con una luce che scolpisce e ritaglia il volume dallo sfondo, infondendolo di violenza plastica.

Sembra correggere la natura riducendo il distacco dialettico tra sublime e pittoresco che caratterizza il sito e trasformando il sito stesso in un luogo, declinando un nuovo tempo, un nuovo verbo che è quello di essere sé stessi in tutto. Concreta e insieme idealizzata, regna su Capo Massullo, a Capri, con un principio formale nel quale la razionalità della geometria aderisce ed interpreta una forza che sembra provenire dalla terra stessa, dal luogo che la ospita ed influenza per poi ridursi a suo suddito.

Punto di metaforica unione tra la bellezza della terra e la bellezza del cielo, espone il suo corpo all’universo emergendo dalla natura e stabilendo con essa uno scambio osmotico. La Casa, infatti, assume tale forza assorbendo il Genius Loci, e il sito ne è ricompensato trasformandosi in Luogo.

Il corpo e il cosmo si identificano nel momento stesso in cui la roccia che sostiene l’edificio viene da questo sublimata e diventa una forza, un’essenza, un incipit per pensare e ragionare. Si genera un movimento a spirale, fatto di andate e ritorni, di continui richiami e connessioni e prese di distanza tra luogo ed oggetto, ma anche tra le parti dell’oggetto stesso. Incipit per l’invenzione di altrettante architetture analoghe che ruotano come una costellazione semantica attorno al significato inattingibile dell’opera e il cui unico risultato è quello di complicarne l’enigma. Casa Malaparte diventa madre di altre architetture, facendosi così mo-

dello che può essere modificato, alterato, persino tradito e permettendo ad ogni architetto che la adotta come spunto di riflessione di sostituirsi concettualmente all’artefice dell’edificio, ricreando l’opera secondo la propria visione dell’architettura, andando ad intercettare di volta in volta diversi aspetti impliciti dell’opera.

Villa Malaparte si propone come antidoto alle atmosfere convenzionalmente mediterranee emanate dalla grande fioritura di ville che tra Ottocento e Novecento hanno trasformato Capri in una comunità esclusiva, un mondo in cui prevale una sorta di vitalismo panico unito ad ascetiche esplorazioni di rara intensità e profondità.

Casa Malaparte, sprezzante di queste influenze, si pone come lo stilobate di un tempio non costruito, il piedistallo di una scultura, un trampolino di lancio verso il futuro.

Questa metafora si concretizza nella scala che conduce alla grande copertura e a un edificio invisibile che si appoggia su di essa. Un altare su cui contemplare una nuova alleanza tra il corpo e l’anima, dittico che trova corrispettivo e concretizzazione anche nella pianta in cui si può riconoscere l’immagine diagrammatica di un corpo disteso.

Similmente a quanto avviene in Piazza del Campidoglio di Michelangelo, nella quale è iscritto il corpo di Cristo con il cuore che coincide con la statua equestre di Marco Aurelio, o in Piazza San Pietro in Vaticano di Gian Lorenzo Bernini in cui i portici rappresentano le braccia aperte di Cristo che abbraccia l’umanità, il corpo disteso nella Casa Malaparte, che potrebbe ricordare il corpo di una sirena per la forma della scalinata, i cui ventre e torace coincidono con il salone, mentre le braccia sono collocate nell’asse che divide il salone dal blocco delle camere da letto. La testa, ovvero la parte più nobile del corpo, corrispondente allo studio, quella parte del corpo,

ma anche dell’edificio in cui si esercita l’immaginazione, la meditazione, la riflessione, lo spirito.

Ripercorrendo l’edificio, procedere dalla terra verso il bordo del promontorio significa passare gradualmente dalla piena corporalità al corpo come proiezione immateriale, simulacro astratto del Sé in cui il corpo è esposto all’universo in una coincidenza tra la sua bellezza e quella del cosmo. Il corpo e il cosmo si identificano nel momento stesso in cui la roccia che sostiene l’edificio viene da questo sublimata in una sua essenza pensante. Il corpo disteso è il centro immobile attorno al quale si avvolge il mondo ma anche l’insieme dei desideri umani.

Emblema dell’emancipazione del ruolo dell’artista che visse Curzio Malaparte, ora consapevole delle sue conquiste sociali e intellettuali che possono conferire piena dignità all’immagine di un uomo che si fa la sua casa, il quale vide nella sua dimora occasione per un autoritratto. Alla stregua di quanto fatto da Piero della Francesca che si ritrasse in preghiera nel Polittico della Misericordia e dormiente nella Resurrezione, o da Filippo Lippi che si ritrasse nell’Incoronazione della Vergine e nelle Storie della Vergine, e, ancora, da Andrea Mantegna nella Presentazione al Tempio e nel ciclo di affreschi nella Cappella Ovetari, Malaparte si ritrae nel cuore del Mediterraneo, sopra uno scoglio, divenendo figura plastica di quel mare. Figura ricca di molte forme d’arte, orientata verso un sentimento metafisico del visibile. Realizza un autoritratto ambientato che si manifesta e concretizza con un’imposizione prepotente nella composizione architettonica di Adalberto Libera e che porta ad incrociare lo sguardo dell’artista a quello dell’architetto. L’autoritratto prevale sul ritratto e diviene punto di arrivo di un processo di codificazione dell’au-

toraffigurazione. Non vi è comunque ostentazione del proprio ruolo sociale e culturale.

Casa Malaparte è un criptoritratto come quello che Jan van Eyck, si fece attraverso l’immagine riflessa dello specchio nel Ritratto dei coniugi Arnolfini e nei riflessi dello scudo di San Giorgio nella Madonna di Van der Paele o l’Autoritratto deforme o deformato, entro uno specchio convesso del Parmigianino. La scenografia nobile di luoghi vissuti e delle memorie iconiche incorporate è occasione per una composizione singolare ed elaborata, che ne fa un’esaltazione misteriosa e sapiente La posa eretta e orizzontale del volume, figura ferma in uno sfondo dinamico di pura natura, la contrapposizione tra un gusto classico, ed uno più manierista nel plissé del piano obliquo, qualificano la casa come un Autoritratto attento all’immagine che Malaparte vuole dare di sé, figura isolata in un mondo borghese che riteneva ipocrita e conformista.

PRIVATO COLLETTIVO STUDIO Campus per studenti, Area Ex Magazzini Frigoriferi Partendo da un’analisi su se stessi, da quali sono i propri bisogni e come vorremmo gli spazi rispondessero a questi, allo stesso modo si è giunti alla composizione del Campus per studenti. Con metodo induttivo, dalla progettazione della singola cellula abitativa fino a giungere all’insieme e ai ragionamenti sul rapporto con l’esterno.

L’unità, l’individualità, diventa quindi il motore del progetto che si è andato configurando come unione di spazi privati per i singoli, comuni per la vita dei convittori e collettivi per l’incontro di questi con chi proviene dall’esterno.Ruolo chiave nella definizione del tipo è stato svolto dal sito scelto, l’area degli ex Magazzini Frigoriferi a San Basilio, che ha portato a calarsi nell’ambiente veneziano, caratterizzato da campielli pubblici e corti private, spazi chiusi, affacci e tetti vivibili, visioni dall’alto e dal basso. E sempre chiaro ciò che è dentro e ciò che è fuori e il passaggio è sempre segnato, filtrato.

Il sole, l’illuminazione naturale, riveste un ruolo fondamentale nell’orientamento e posizionamento delle cellule abitative e grazie alla presenza della doppia facciata il rapporto è sempre mediato e regolabile, a discrezione del singolo. Individualità, non accettazione dell’uniformità e voglia di indipendenza sono altrettanti concetti chiave nel progetto portando alla definizione di piccoli angoli cottura in ogni stanza nella piccola scala, fino al disassamento delle cellule singole a livello globale dell edificio che non ci stanno, fuggono, si ribellano alla rigidità della maglia strutturale, del sistema (costruttivo).

EMANCIPAZIONE TRADIZIONE MODERNITÀ Looshaus, Adolf Loos L’opera architettonica di Loos si concentra sul tema dell’abitare. Avrà modo di approfondire questo in vari modi, infatti, nel primo periodo della sua vita arrederà edifici già realizzati, per poi passare alla progettazione di case unifamiliari. Produrrà una serie di ville nei dintorni di Vienna dove sempre sarà evidenziato il tema del riuso, della ristrutturazione e dell’importanza del passato.

Anche il rapporto con il contesto è un caposaldo in tutta la sua attività, così come la particolare committenza, ebrea per la maggioranza, che rappresentava a Vienna una comunità molto numerosa e dinamica e che vedeva nell’adesione al moderno, alle ricerche più avanzate in campo economico ed artistico una via per raggiungere la tanto auspicata integrazione sociale. Era una classe motivata dalla voglia di ottenere un riconoscimento sociale, di emanciparsi, non da interessi economici. Il riconoscimento politico era già avvenuto, mancava un riconoscimento collettivo.

Tra Loos ed i committenti non vi era solo un rapporto professionale, ma anche intellettuale, di scambio ed arricchimento reciproco.

I risultati furono le sue maggiori opere.

L’ambiente in cui operava era lo stesso di Otto Wagner, architetto che plasma la metropoli contemporanea, architetto prometeo. Loos riflette in questo contesto un cambio economico e di rotta. La metropoli era già costruita, ma cambia il modo con cui si rapporta al presente. È un architetto che inizia a parlare di storia, di

tradizione, di preesistenze e di edifici storici e dell’atteggiamento che deve assumere l’architetto nei confronti di una città che già esiste e che quindi non è modificabile, e non deve esserlo, in modo radicabile.

Ornamento ed educazione” (1924) e “la mia scuola di architettura” (1913) sono i testi in cui emerge questo aspetto inedito e in cui dichiara di volere basare il suo insegnamento sulla tradizione dicendo: “Io voglio impostare il mio insegnamento sulla tradizione. All’inizio del secolo XIV abbiamo abbandonato la tradizione: è a quel punto che voglio riallacciarmi.” L’incipit era il Bidermeier, movimento dell’800 che faceva dell’interno domestico il luogo in cui si palesa la società di quel secolo. La tradizione storica nella quale l’architetto si trova ad operare, tra cui lui, unisce tutte le epoche dell’umanità, è una grande lingua universale.

Il rapporto con la storia si integra con il rapporto con la preesistenza, momento fondamentale in cui ci confrontiamo tra ciò che esiste e quello che va al di là. Parliamo un linguaggio che ci è stato dato e non si può cambiare. La creazione architettonica deve sempre misurarsi con la preesistenza attraverso la citazione umile di quello che esiste al fine di renderlo adatto e maggiormente utile all’era attuale.

L’architetto non si trova mai di fronte ad un foglio bianco, c’è sempre qualcosa di indipendente dalla nostra volontà e di cui dobbiamo prendere atto.

Loos si collega a Wagner, al contesto, alla città.Avvicina ebrei e collettività, porta il passato nel presente e la Looshaus sembra essere la pietra miliare, lo svicolo, l’hub, l’anello di congiunzione, del suo ragionamento, del suo modo di pensare, delle sue teorie, aprendo allo stesso tempo nuovi orizzonti, segnando un nuovo punto di partenza per quello che sarà l’avvenire.

Da qui si avvia, infatti, il dibattito circa l’incoerenza dell’architetto nei confronti dell’ornamento, ma sarà anche la base per gli studi e le ricerche successive

che interesseranno la modernità ed in particolare Mies van Der Rohe e Le Corbusier, nonchè ispirazione per il movimento del Bauhaus.

Sovrappone nella Looshaus fonti classiche ed anonime con l’obiettivo di costruire qualcosa che sapesse rispettare anche l’architettura della città, quella fatta da architetti subordinati. Delinea un esempio valido sia per la comunità che per l’individuo, mostrando e dimostrando come mondi anche apparentemente lontani possano stare assieme.

Loos elimina le distanze, fa andare a braccetto stili opposti, epoche, principi all’apparenza contrastanti. Pone emigrati, da poco riconosciuti all’interno della società viennese, sullo stesso livello, di fronte, alla famiglia regnante. Elimina barriere e separazioni, accomuna, avvicina e raccorda, concretizza ossimori.

Grazie alla Looshaus sfata un equivoco: l’edificio, infatti, più che uno dei primi capolavori del Movimento Moderno è un solido palazzo disegnato da un architetto che guardava con occhio tradizionalista la migliore edilizia viennese, a partire da quella seicentesca, andando a costruire un edificio senza orpelli e che per questo fece l’effetto di uno scandalo, un’oscenità, un oltraggio al comune senso del pudore. Si innalzava di fronte all’Hofburg come un corpo senza vestiti. “Dal ricco, troppo ricco abito che gli è scivolato sui fianchi si innalza il corpo nudo dell’edificio”, scriveva sulle riviste dell’epoca chi sosteneva il progetto, entusiasta della combinazione e del contrasto tra il sontuoso basamento in cui si trovava il portale rivestito in marmo greco antico, con quattro colonne monolitiche e ornato da insegne araldiche. “E’ un mostro, è ripugnante il bianco della nuda parete finestrata, è un silos di fronte al palazzo degli Asburgo”, ribattevano gli oppositori.

In qualsiasi caso, chiaro appare come la vicenda sia un episodio paradigmatico per capire la figura e l’opera di Loos, la sua concezione dell’architettura, il ruolo che

assegnava all’architetto, il rapporto con la tradizione, la pluralità degli stili che entrano in gioco e le esigenze di modernizzazione che si avvertivano e quindi la nozione di modernità architettonica.

Anche l’aggiunta delle fioriere trova ragione e giustificazione nel suo modus operandi, entrando solo apparentemente in contraddizione con quanto dichiarato nel suo saggio del 1908 “Ornamento e delitto”.

Richieste dalla municipalità ed apposte a mo’ di foglia di fico su questo corpo nudo, affinchè certe piante rampicanti, crescendo, col tempo ne nascondessero le pudende, richiamavano un motivo di tradizione nazionale evocando i balconi fioriti della tipica casa rurale austriaca e, tra le opere più recenti, le decorazioni della facciata della Majolikhaus. Le fioriere non sono quindi né un ripiego né in contraddizione con il suo saggio in cui scrisse: “Sono disposto a sopportare gli ornamenti persino sul mio corpo, se fanno la gioia dei miei simili.”

Loos insegna il senso del limite: l’architetto non è un artista, ma in primis una figura con obbligo sociale e che deve pensare prima alla coralità, all’insieme, rispetto il singolo pezzo. Contrappone l’originarietà all’originalità, insegnando un valore etico dell’architettura. Rinuncia a fingere l’eccezione dichiarando come se ne abbia abbastanza del genio originale e come sia ora più attuale ripetersi all’infinito. Attingere dalla città significa attingere da un linguaggio ampiamente condiviso, incontrando, teoricamente, la felicità dei più.

ESPOSIZIONE PROMENADE VOLUMI Casa-Atelier, Marghera Prima esperienza di progettazione architettonica, è concentrata sull’indagine progettuale del tema della casa come costruzione e riparo elementare.

Chiarito cosa si avrebbe voluto realizzare in sito, si è partiti dall’analisi di un caso-studio simile per tipologia e fine per vedere come altri architetti hanno risposto alla medesima domanda.

Il tema è quello della casa-atelier, il caso studio il recupero dell’area Borneo ad Amsterdam. Simili seppure distanti geograficamente, le regole del gioco sono le stesse. Ci si trova in un ambiente da riqualificare, con un doppio affaccio su strada e su acqua e in cui realizzare case secondo la tipologia a stecca.

Avviene, nel contesto, una trasformazione sia fisica che di funzioni, offrendo nuovi modi di vivere lo stesso spazio.

L’intervento immaginato si concretizza in un’abitazione su tre livelli caratterizzata da spazi aperti, fluidi, divisi tra parte espositiva al piano terra e parte riservata alla vita e allo studio ai piani superiori.

Caratterizzante è il cavedio interno che dona particolare leggerezza e trasparenza all’edificio, grazie anche alle ampie pareti vetrate e alla riduzione al minimo dei setti divisori.

CONTINUITÀ CULTURA MATERIALE SOCIALITÀ Piazza della Repubblica, Edvard Ravnikar Dalla staticità rinascimentale si è passati ad intendere lo spazio della città come il luogo in cui avvengono gli incontri, gli scambi, le relazioni, la vita, in cui le energie sociali si manifestano e la comunità si identifica. Per questo ora si necessitava di uno spazio che riunisse, che armonizzasse le preesistenze, che palesasse l’identità slovena ed esprimesse la volontà di andare in una nuova direzione. Questo si concretizzò con il progetto di Ravnikar, all’interno di uno spazio già definito, di un’architettura moderna in grado di dialogare con le identità nazionali e le preesistenze. L’identità slovena, infatti, era venuta meno durante la guerra, sopraffatta da quella tedesca.

L’intervento rappresenta anche una nuova visione del ruolo dell’architetto, che ora deve preoccuparsi sia della progettazione tecnica che delle attività future che si svolgeranno nei luoghi che creerà.

Nel 1960 Ravnikar vinse il concorso per Piazza della Rivoluzione e in questo espresse tutti i suoi ideali di collettività ed unione tra presente e passato. Lo spazio che andò a modellare cambiò il volto della città ed idealmente divenne il segno, la piazza, della nuova Repubblica capitale, con le sedi delle istituzioni amministrative ed esecutive ed il monumento della Rivoluzione. Questa l’intuizione che mosse il progetto che si concretizzò in ambienti e luoghi disparati uniti in una struttura flessibile, in un luogo di circolazione, di libertà, fatto di molteplici accessi, passaggi, corridoi, scale, gallerie commerciali sotterranee coperte e spazi esterni in cui si compie la vita della comunità. Gli edifici dovevano contenere le

istituzioni amministrative ed esecutive e la piazza doveva essere un monumento alla rivoluzione. A questi si andavano ad aggiungere nuovi spazi per la collettività quali l’auditorium con 3 aule ed una piazza in cui proseguivano le attività che solitamente si svolgono all’interno.

Nel concreto, Ravnikar pone due torri a base triangolare a contrassegno della “porta di Ljubljana” e crea una barriera di fronte al Monastero delle Orsoline esistente ponendo una sorta di rettangolo.

I due grattacieli a base triangolare si ancorano su un basamento che ospita sale teatrali, centri culturali e una galleria commerciale. Questo basamento definisce una piazza pubblica che ricuce la città barocca con quella ottocentesca e media il fuori scala delle torri. In parte social condenser, in parte microcittà, il complesso della Piazza della Rivoluzione rinuncia alla sua autonomia insediativa e mostra come il modernismo sappia dialogare con il contesto a più livelli, sia stabilendo un nuovo orizzonte sia modificando l’esistente.

L’università da un lato, emblema della giovinezza e delle nuove menti, e dall’altro gli edifici istituzionali delle più alte autorità erano qui collegati tra loro e con la parte barocca di Ljubljana e il parco di Tivoli.

In fase esecutiva, il progetto fu costretto ad una pausa di due anni e durante questo periodo venne modificato con lo spostamento del monumento alla Rivoluzione a lato della piazza e non più tra le due torri come doveva essere in origine. Vennero pure ridotte le altezze delle due torri al fine di meglio contestualizzarle.

Un discorso a parte è quello che riguarda l’auditorium, inserito in uno spazio preesistente e che per questo richiese enormi sforzi ingegneristici al fine di mantenere le proporzioni tra gli spazi fuori terra, costringendo il progetto a scendere sotto il suolo.

Proprio il rispetto delle proporzioni, delle relazioni tra spazi attigui, tra pieno e vuoto, tra presente e passato,

ma anche con uno sguardo al futuro, fanno si che il risultato sia un unicum che emana armonia, collettività, unanimità, come era proprio nelle idee della nuova società che si era andata delineando. Il progetto si spinge oltre l’estetica, oltre il fatto architettonico fine a se stesso, per raggiungere ideali altri e per rimarcare i presupposti necessari per una nuova vita urbana in cui la vita che solitamente si svolge all’interno può fuoriuscire dai vecchi confini ed abbracciare la collettività.

Con Plecnik era avvenuta la più importante trasformazione della città, al fine di farle assumere un aspetto più identitario. Attraverso un linguaggio unico, che fa coesistere stilemi classici, mediterranei e rurali, infatti, ha saputo cambiare la città sia per quanto riguarda l’immagine che dal punto di vista urbanistico, introducendo nuovi rapporti, aspetti monumentali e diverse scale di progettazione che vanno dallo studio d’insieme a quello dei dettagli tanto da diventare uno dei progetti totali di città a carico di un singolo architetto più significativi del Novecento. Il passaggio di staffetta avviene appunto con Ravnikar che porta avanti le ideologie del suo maestro e che diventa quindi il protagonista dell’architettura slovena e jugoslava del dopoguerra. Massima espressione delle sue ideologie e del suo pensiero può essere considerata proprio Piazza della Repubblica a Ljubljana dove l’architetto, saggista e pedagogo esprime al meglio le sue esperienze internazionali di stampo anglosassone e tedesco fuse, mitigate secondo il suo personalissimo metodo, alle influenze moderniste, al brutalismo di Le Corbusier e all’architettura vernacolare e tradizionale locale. Grazie ai suoi riferimenti, al suo background, la monumentalità che imprime a Piazza della Repubblica non ha niente a che vedere con quella fredda delle altre capitali comuniste.

Emerge, invece, una profonda cultura materiale e spaziale che, unite ad un accurato disegno del dettaglio, vanno a trasformare questi edifici da mero fatto isolato ad

un’esperienza urbana fatta di concatenazioni tra luoghi e spazi, edifici ex-novo e preesistenze, indoor e outdoor; capace di riunire, di armonizzare le diverse scale nel rispetto del passato barocco ed ottocentesco del luogo in cui si inseriva, intervenendo sulle preesistenze pur non variandone il senso. Esempio di come il modernismo sappia dialogare con il contesto storico a più livelli, è un modernismo tangibile, il cui grado di astrazione rimane controllato e basato sulla realtà in cui si cala al fine di mantenere con questa un dialogo e di fornire nuove immagini, occasioni, esperienze per la collettività e la città stessa.

Ravnikar realizza un progetto che tiene conto in prima istanza delle necessità di un uomo per vivere in armonia con l’ambiente e per avvertire il senso di appartenenza ad una comunità e che diventa un social-condenser, una micro città all’interno di una realtà più ampia, per il fatto che avvicina istituzioni a cultura, commercio e tempo libero abbattendo di fatto le distanze e le diversità e favorendo l’interazione tra persone appartenenti a categorie diverse.

Un altro fatto che questo progetto sottolinea è la cultura materiale di cui Ravnikar si serviva in ogni progetto, riuscendo a trasformare ed utilizzare al meglio materiali modesti provenenti da aziende che versavano in situazioni economiche difficili in un valore aggiunto al progetto. In Piazza della Repubblica, ad esempio, decise di utilizzare rivestimenti in pietra sottile in quanto le cave di questo materiale venivano abbandonate e l’estrazione del granito non era più redditizia, oppure, qui come in altri progetti, dimostrò i possibili utilizzi del mattone, offrendo un’occasione di riscatto alle aziende di laterizi che si trovavano in un periodo di crisi, o del ferro arruginito quando le ferrovie furono colpite dalla Rivoluzione.

Credo che soprattutto grazie a questo progetto Ljubljana possa essere considerata un piccolo

gioiello del Novecento, esempio di come storie, esperienze e stilemi che convergono possano creare un tutt’uno che va ulteriormente a rivendicare il carattere Mitteleuropeo della città e a mostrare come anche un secolo tormentato come quello appena concluso abbia costruito una tradizione valida e che ancora oggi può insegnare. Totalmente in continuità con il periodo in cui si realizzò, diventa un esempio palese di come sia possibile costruire un futuro misurato sul presente, tenendo conto del passato.

FORMA FUTURO COMUNITÀ Startup Community, Palmanova Il tema è il ripensamento, la riflessione, assumendo un atteggiamento utopico.

Ci si interroga su quale nuova funzione possa assumere lo spazio urbano collettivo in una città di fondazione cinquecentesca governata da una geometria rigida, delimitata da una cinta muraria che divide ed isola quello che sta dentro dalla vita che avviene al di fuori, determinando un luogo chiuso, fisicamente delimitato, quasi claustrofobico, ostile alla vita che, infatti, per esservi nuovamente possibile necessita un ripensamento, di una nuova forza attrattiva che spinga ad entrare, a superare il limite, a sperare e a pensare il futuro.

Così, per traslitterazione si giunge alla definizione delle funzioni che l’area in esape può assumere. Si pensa ad una community di startup che possa diventare hub tra menti, idee, iniziative e comunità. necessitaEvidenziando la presenza delle cortine.

Si delimita un nuovo recinto, questa volta aperto, che invita, offre riparo e occasione di riscatto per la città stessa, in primis.

L’architettura supera il luogo, la geometria, il contesto, il tipico principio insediativo della caserma che da luogo per l’allenamento fisico diventa ospizio di un nuovo tipo di sforto che è tutto mentale, di immaginazione, creazione, incontri e connessioni.

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UN A S TARTU P COMMUNIT Y A PALMANO VA un nuovo ecosistema imprenditoriale

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A EDERLE

Laboratorio Integrato 3 Progettazione architettonica e urbana                   

GRUPPO 23 Allegra Zen Giorgio Pasqualetto Riccardo Rizzetto

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UN A S TARTU P COMMUNIT Y A PALMANO VA un nuovo ecosistema imprenditoriale ARE A EX CASERM

A EDERLE

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L’ampia area della Caserma Ederle di Palmanova localizzata in Via Scamozzi, tra Contrada Barbaro e Contrada Donato, include anche la Caserma Filzi, edificio di origine napoleonica che va ad aggiungersi a numerose altre preesistenze sempre di carattere militare che caratterizzano non solo il sito in questione, ma anche la città in generale.

La zona si colloca alle spalle del Duomo del Santissimo Redentore di Piazza Grande e risulta di ampia accessibilità, con ingresso principale su Via Scamozzi e presentando accessi minori anche sulle Contrade, posizione molto favorevole per attività sociali e di interazione con la città, essendo luogo di passaggio di diversi tipi di mobilità in una zona in pieno centro e di dimensioni così notevoli, se si considera essere di circa 42mila metri quadrati.

L’ex caserma ceduta al Comune nel 2009, a seguito del passaggio dallo Stato alla Regione Friuli Venezia Giulia di una serie di beni demaniali, è stata abbandonata per anni e solo recentemente utilizzata come parcheggio gratuito, ma la sua estensione occupa una porzione irrinunciabile del centro storico per lo sviluppo della città.

L’intento è quello di dare a questa centralissima zona un ruolo propulsivo nel rilancio dell’economia di Palmanova la cui principale vocazione è di città turistica, culturale, di servizi e commerciale, anche in considerazione del carattere baricentrico rispetto all’area geografica regionale ed europea in cui si trova.

L’intervento dovrà favorire l’insediamento di attività culturali, convegnistiche, creative, incubatrici di startup e vi troveranno posto anche servizi e spazi da restituire alla comunità.

Dal 1947 al 1992 migliaia di militari di leva, Sottoufficiali e Ufficiali in Servizio Permanente o di Complemento sono transitati dalla Caserma Ederle di Palmanova.

Nello stesso periodo la Caserma Fabio Filzi è stata

sede del Comando di Reggimento Genova Cavalleria 4° e a testimonianza restano lo stemma del Reggimento sul portone di accesso, ancora visibile anche se fortemente deteriorato dall’incuria, e il motto del Reggimento “Soit a pied soit a cheval mon honneur est sans egal” a caratteri gialli indelebili su tutta la facciata.

Si ragiona su Palmanova come occasione per una reinvenzione dello spazio architettonico urbano, parlando di progetto senza dimenticare il rapporto tra l’antico e il nuovo. Oggi si lavora solo su contesti già costruiti, su realtà già compiute, già esistenti, andando a progettare luoghi costruiti, pensando e progettando sul trovato, su ciò che è già stato definito. È il destino della società di cui facciamo parte e necessita di un modo diverso di pensare il rapporto tra architettura, città e paesaggio, coniugati attraverso l’uso della composizione, della figurazione urbana e architettonica.

Deve essere un atteggiamento non solo verso il progetto Palmanova, ma verso qualsiasi progetto possibile all’interno di una città, e, idealizzando, verso qualsiasi progetto odierno. L’attenzione deve calare in primis sulle presenze, sugli objet trouvé, sugli edifici esistenti da prendere in considerazione, da ricontestualizzare, da integrare, modificare insieme alla possibile introduzione di nuovi.

Il rapporto tra nuovo e antico ritorna ancora una volta essenziale ed è interessante la declinazione che esso può assumere all’interno di una realtà con un così forte carattere insediativo e urbano come questa città configura, a cui si affianca un’architettura anonima, indirettamente proporzionale alla sua bellezza di città stellata. L’architettura è povera sia tipologicamente che figurativamente e spicca solo la grande Piazza di 170 m di diametro. Nasce quindi l’occasione per parlare di architettura in termini universali, non solo con la dimensione specifica di un luogo, per parlare degli strumenti del fare architettura quali la geometria,

i principi insediativi, il rapporto tra la costruzione di un manufatto e la costruzione di un pezzo di città, l’agire su un contesto che ci fa collocare in un luogo mentale pregno di valori e rapporti tra scala urbana e architettonica.

Palmanova è una città che si è fermata nel tempo, non ha accolto la sfida del futuro, del cambiamento, dell’aggiornamento. La chiusura geometrica si rispecchia nella vita della città stessa, che al posto di popolarsi si spopola e perde attenzioni. Perde la parte invisibile che sono le persone, la gente che ci abita, l’anima che si muove nello spazio e nel tempo.

Dimensione di invisibilità che appare fondamentale per mantenere un’opera aperta e per immaginare il cambiamento, il futuro, il ripristino della forza centripeta che ha determinato così tanto la città fino al collocamento di Piazza Grande al suo centro.

Deve superare il blocco, l’asfissia, la claustrofobia, il senso di chiusura che la geometria oppressiva e limitante di un vivere all’interno di una cinta murata con solo tre vie di comunicazione con l’esterno può imprimere nell’immaginario collettivo.

Deve trovare il modo per muoversi all’interno del vincolo, come sfruttarlo a suo favore facendolo diventare un punto di forza, un punto di nuovo inizio, un’occasione di ripensamento, riconsiderazione e nuova declinazione.

La città è vista come una macchina per pensare, non solo come uno strumento economico, politico e sociale, ed è questo l’aspetto che interessa maggiormente la progettazione nella soluzione proposta. In città si pensa, si vive, prendono forma le idee facendola diventare un luogo mentale. Oggigiorno si trascura la forma della città, si parla di edifici e oggetti architettonici come fatti a sé. Si pensa subito alla funzione, alla messa in opera, al fatto strutturale, trascurando il contesto e le relazioni tra le cose. Gli edifici non vengono concepiti

in un’ottica relazionale, ma come oggetti autonomi, oggetti di design. Si trascurano i segni, le connessioni, le relazioni tra forme e figure e come queste vengono percepite dal fruitore.

Si avverte quindi la necessità di riconsiderare e di andare finalmente a costruire contesti, esperienze, relazioni e rapporti.

L’architettura per sua necessità è una costruzione, ma questo non deve far venire meno l’origine, il pensiero che la genera.

In uno scenario geometricamente definito, in cui gli edifici salienti sono le caserme, la Via delle Milizie funzionava ad anello correndo lungo i bastioni all’interno della città e fungendo da connessione tra i luoghi. La circolazione funzionava ad anelli concentrici in cui sono state interposte piazze quadrate ad ogni isolato.

Partendo dall’analisi della città e da come si è venuta a delineare, l’intervento proposto per l’area Ederle vuole fungere da nuova piazza, da nuovo parco urbano per la città, area ripensata nei suoi collegamenti interni e nelle relazioni con il contesto. Punti cardine diventano le quattro caserme mantenute e la torre dell’acqua, elementi dati che ripensati nella loro funzione e aspetto diventano il punto da cui partire a ripensare.

La destinazione d’uso, pretesto e necessità concreta per immaginare il futuro della città, è quella di una comunità di start-up che possa far riassumere alla città un carattere centripeto, in grado di invertire la fuga e l’abbandono da cui è investita attualmente.

Si andrà a fare pulizia individuando cosa è essenziale, cosa ha senso mantenere e recuperare.

Due caserme saranno adibite a spazi di co-working, spazi per pensare, progettare, fare community e sviluppare nuove idee: sviluppare il futuro. Organizzati su due livelli, al piano terra si troverà un ampio openspace attrezzato

e con una zona a doppia altezza. Al piano superiore si sviluppano invece un sistema modulare di aule e un terrazzo esterno, prosecuzione degli spazi interni. Tutto l’edificio risulta permeabile all’esterno, completamente vetrato lungo alcuni prospetti e protetto da un sistema di brise soleil.

Le altre due caserme recuperate, invece, ospiteranno spazi polifunzionali, in cui poter immaginare allestimenti diversi di volta in volta, a seconda delle necessità, caratterizzati da un ampio volume che diffonde la luce all’interno e da un secondo che funge da ingresso.

Per quanto riguarda l’aspetto urbano, si vogliono ripristinare i tre anelli della viabilità, la Via delle Milizie e la piazza quadrata. Aspetto fondamentale assume la pavimentazione, differente a seconda delle zone, che segna passaggi, cambi e allo spesso tempo funge da fil rouge all’interno di tutto l’intervento.

La promenade inizia da un ingresso in cui viene presentato l’abaco degli elementi usati nella composizione, articolazione e declinazione del progetto: l’acqua delle fontane, il verde degli alberi e il calcestruzzo delle colonne, metafora di alberi pietrificati.

Si incontra poi la piazza quadrata che, in particolare, va a definire uno dei quattro momenti urbani costituenti il progetto, affiancata da spazi verdi. Assume l’aspetto di un calco, un bassorilievo, memoria dell’impostazione originaria della città, rivisitazione della piazza quadrata palmarina con nuovi elementi caratterizzanti quali il recinto costituito dai setti, rampe alternate ad ampie gradonate, una risalita nascosta e un ampio specchio d’acqua, declinazione a diversa scala del quadrato.

Proseguendo, vi è il vassoio accogliente le quattro caserme recuperate, ampio sistema contraddistinto

da lunghe fontane accostate a sedute, viali alberati e colonnati, assumendo la declinazione di una macchina idraulica, luogo centrale del progetto, di passaggio tra le varie zone in cui i vari elementi vengono combinati e collaborano alla creazione di un unicum.

Sulla destra, un ampio specchio d’acqua funge da nuovo attacco a terra della recuperata torre dell’acqua, ora divenuta osservatorio, punto di sopraelevazione, di distacco per vedere la novità, i nuovi interventi all’interno della città ideale. Emblema del progetto, della nuova dimensione che si auspica per la città intera, la torre dell’acqua, in alzato, diventa simbolo del futuro della Nuova Palmanova, in contrapposizione con la sterotipazione in una forma perfetta in pianta della Palmanova esistente.

Lo specchio d’acqua, metaforicamente, vuole offrire ai palmarini l’occasione, finalmente, per vedersi riflessi nella loro città, nel loro territorio finora rimasti ostili.

Anche questo elemento funziona da perno tra il piazzaletto fronteggiante la Filzi e l’area tra le caserme di coworking e i bastioni, raggiungibili attraverso scultorei sistemi di risalita collocati nel verde, che permettono di superare il dislivello e arrivare sopra i bastioni, alla cima, nel punto dove un sistema di setti funge da coronamento, e punto finale dell’intera composizione.

Ulteriore osservatorio, punto panoramico in cui i setti ritagliano, inquadrano, incorniciano, fanno uscire, proseguire e rilanciano verso il paesaggio prospiciente e il cielo sovrastante. È stato ripensato il rapporto tra vuoti e pieni, il pensiero geometrico molto preciso e uniformante che stava alla base dell’impostazione della città e che portava quasi all’anonimato, all’omogeneizzazione, all’appiattimento, alla noia. Si è introdotto un sottomodulo, un’eccezione,

una nuova distinzione gerarchica all’interno di quella più generale data dalle dimensioni delle piazze a seconda della funzione che poteva essere militare, come piazza d’armi, o sociale, quelle quadrate.

Il progetto appare come un’irregolarità all’interno del preciso tessuto urbano, un nodo, un’inaspettata novità che però dialoga con il contesto e parte dal passato, pone radici sull’esistente, sul già definito per poi muovere verso il futuro auspicando a diventare occasione per un rilancio, una riconsiderazione, una rilettura della città intera e delle potenzialità, delle occasioni, delle peculiarità che possono fare immaginare una vita nuova, un nuovo capitolo.

La finalità è quella di riqualificare dal punto di vista architettonico e sociale un patrimonio pubblico ora inutilizzato andando a restituirlo alla città con un’identità e una funzione pubblica di partecipazione e condivisione di spazi, rimanendo aperto a qualsiasi proposta, interazione, suggerimento e arricchimento che può venire dalla città e dai suoi abitanti e da chi verrà grazie alla polifunzionalità e flessibilità che caratterizza l’intero intervento al fine di rappresentare un servizio aggiuntivo per la città, un nuovo microcosmo nel macrocosmo fatto di luoghi di incontro, confronto e crescita.

ATTESA ELEVAZIONE MATRICE Reticolo polimorfo, Marghera Come un arbusto rampicante, così i volumi si articolano liberamente attorno alla struttura a griglia permettendo versatilità, differenziazione e specificazione a seconda delle necessità.

Come in un minerale uno stesso reticolo cristallino viene definito polimorfo se può presentare configurazioni differenti, così la struttura varia a seconda dei legami che instaura con la terra. Si vanno quindi delineando pieni e vuoti, spazi aperti e spazi chiusi, volumi verdi e volumi bianchi, luce e buio. Lo slancio verticale, inoltre, definisce un “bosco” ordinato di pilastri che rialza la griglia per lasciar correre la vista all’orizzonte. Sollevandosi in appoggio su questi trampoli, che elevano dal suolo compromesso in attesa di redenzione, cura e soluzione, si conquistano nuovi livelli fino ad ora non ancora esplorati.Questo animale medioevale assedia la Marghera invivibile, compromessa, inquinata, riconquistando terre da restituire all’umanità. Partendo dalle estremità dell’area, estendendosi lungo le zone costiere, tra terra ed acqua, assume declinazioni diverse a seconda delle necessità funzionali. Si utilizza il Distacco dal suolo inquinato, inospitale, non pronto ad accogliere e si sfrutta l’Elevazione per redimere il cielo. Si attua un Sollevamento delle funzioni vitali tutto si svolge a nuova quota grazie alla Matrice che articola lo spazio e caratterizza la riconquista, la ricolonizzazione.

VENEZIA NOBILE VENEZIA MINORE MODERNITÀ Casa alle Zattere, Ignazio Gardella Costruire il nuovo a Venezia ha sempre rappresentato un dilemma stilistico. Gardella gioca con analogie e allusioni linguistiche per la progettazione di un edificio moderno, compatibile con gli stili prevalenti.

L’edificio può essere pensato come un nuovo palazzo gotico, un moderno condominio reso con dettagli gotici. Usando materiali tradizionali, il piano interrato ed i dettagli sono realizzati in Travertino locale mentre le altre parti in stucco. La base in pietra, le cornici delle finestre e davanzali, le balaustre, i camini, le porte e gli angoli si riferiscono ad elementi del XIII secolo. La pianta ad elle con corte e giardino interno, la superficie flessa lungo il canale, la zona con le piccole finestre diagonali nel seminterrato e ai piani superiori le semplici finestre ripetitive, unite all’off-set dei terrazzi, l’enorme modanatura definita dal balcone continuo, la superficie piana di volta in volta interrotta e l’utilizzo delle tegole sono tutti elementi disegnati per minimizzare l’impatto dell’edificio.

La tipica suddivisione del palazzo nobiliare in base, piano nobile, sottotetto e tetto sono uniti alla tipica casa a corte veneziana e alle tradizioni abitative degli edifici di una “Venezia minore”.

Gardella mette assieme l’alloggio tipico delle classi inferiori con quello più ricco. Offre inediti alloggi sociali, splendidi appartamenti con vista sul Canal Grande e sulla Giudecca, al pari dei migliori palazzi nobiliari veneziani.

Casa Cicogna, comunemente conosciuta come Casa alle Zattere, è un edificio residenziale disegnato e realizzato da Ignazio Gardella tra il 1953 ed il 1958 nell’area di Dorsoduro a Venezia, nella riva a nord del Canale della Giudecca. L’edificio prende il nome dall’area in cui sorge chiamato Zattere in quanto fino al sedicesimo secolo era costituito da piattaforme lignee.

Ricostruito e pavimentato solo nel 1519, questo bordo urbano di 1km ha sempre avuto un ruolo secondario in termini di valore paesaggistico, se comparato con le facciate sul Canal Grande.

Casa alle Zattere è uno dei più conosciuti e dibattuti esempi di dialogo tra architettura moderna e contesto storico in cui si inserisce. La particolarità del complesso delle preesistenze ambientali, infatti, incoraggiarono Gardella a coinvolgere sia il vicinato che la città nel disegno al fine di radicarlo nell’immagine di Venezia.

Come conseguenza, l’edificio non è solo emblematico per la città, ma anche fortemente rappresentativo del lavoro di alcuni dei maggiori architetti del dopoguerra italiano, come Gabetti & Isola o BBPR, che si concentrarono ad arricchire il linguaggio della modernita con le caratteristiche specifiche del contesto in cui, di volta in volta, si trovavano ad operare, con particolare attenzione alla storicità.

L’edificio in questione gode di una posizione privilegiata, caratterizzata da una visione panoramica sulla Giudecca e sulle due chiese palladiana del Santissimo Redentore e di Zitelle, che sono localizzate sul lato opposto rispetto al canale. Osservata dall’acqua, l’edificio è inserito armoniosamente nella continuità della facciata urbana sulle Fondamenta.

Vicino sorgono la Chiesa dello Spirito Santo, che condivide un lato con la corte interna di Casa Cicogna, e l’Ospedale degli Incurabili che sorge a meno di 100 metri ad est.

Nella cartografia storica, questa parte della città è

caratterizzata da una struttura urbana abbastanza tradizionale, con i palazzi disposti perpendicolarmente al Canale. In questo caso, la pianta dell’edifico asseconda l’angolo e determina una “L”. La presenza di vuoti urbani, corti, campi o piazze, sia pubblici che privati, è una caratteristica ricorrente nella struttura urbana veneziana e Gardella ripropone anche questo nel suo progetto, lasciando spazio per una corte interna, nel retro dell’area, tra l’edificio e la Chiesa dello Spirito Santo.

Casa alle Zattere è un elegante condominio borghese con cinque piani di appartamenti costruiti sopra ad un piano terra in cui vi sono due ingressi e svariati locali di servizio, come avveniva nella casa-fondaco. Il piano tipo, con variazioni minori prodotte dal gioco di arretramenti e fuoriuscite dei balconi che animano la facciata, è diviso in quattro appartamenti: uno nell’angolo ad est del palazzo, orientato tra il canale e la corte interna; uno nell’angolo ovest con le finestre che si affacciano sul canale, sulla calle laterale e sulla corte interna; e due che si affacciano sulla corte interna e sulla calle.

Gli appartamenti sono aggregati in due volumi maggiori, disposti a diverse altezze e serviti da due sistemi scala indipendenti. Il quinto ed ultimo piano, che differiscono dagli altri per l’arretramento rispetto la facciata e per il taglio diagonale, ospita un singolo appartamento circondato su tutti i lati da una generosa terrazza.

La composizione volumetrica è basata su un sistema di aggregazioni rinforzato dalla coincidenza tra la divisione degli appartamenti ed i muri portanti, che vanno ad articolare gli spazi interni. È quindi possibile associare ogni unità volumetrica, che partecipa alla totalità del meccanismo di giustapposizioni ed intersezioni, con una singola unità abitativa. Per di più, l’edifico è pure caratterizzato da un gioco di sottrazioni ed addizioni ottenute facendo recedere progressivamente il fronte principale nel suo sviluppo verticale e, allo stesso tempo, moltiplicando i balconi agettanti. Queste interazioni

vanno sia ad animare il fronte urbano che a diventare il motivo unificatore di tutta la facciata.

Lo schema compositivo dell’edificio è generato da un complesso sistema di relazioni proporzionali simultaneamente strutturate nella pianta e nell’elevazione. È la deduzione di un modello trovato nel vicinato a far si che si instauri un dialogo tra Casa alle Zattere e la città.

Il ritmo delle due facciate esterne è determinato dai gruppi di vuoti, dalle aperture delle finestre e porte poste in sequenze continue, interrotte da parti di muro piene che fungono da pause nella sinfonia. Il sistema proporzionale che regola il gioco di pieni e vuoti si basa sulla ripetizione di un modulo della medesima larghezza delle finestre, che corrisponde anche alla larghezza delle due edicole costruite sulle navate laterali della facciata della Chiesa dello Spirito Santo adiacente. Questa analogia dimensionale è quindi tradotta in un arrangiamento di aperture atto a produrre un armonioso bilanciamento dei pesi architettonici, presentando una soluzione che ricorda più le partizioni asimmetriche delle facciate delle costruzioni veneziane più umili, più che l’organizzazione simmetrica dei fronti dei Palazzi.

In questo senso, la composizione della facciata è stato uno dei temi principali, ed anche più difficili da risolvere, toccati dall’architetto nel disegno di Casa alle Zattere.

Ne danno prova le numerose variazioni di progetto rpodotte tra il 1953 e il 1958. Tra la prima e l’ultima proposta, è infatti possibile osservare significativi cambiamenti nell’articolazione e nella conformazione delle aperture.

Nella versione di Gennaio 1954, l’intera facciata è organizzata secondo una griglia razionale che regola le posizioni delle finestre dividendo allo stesso tempo il fronte principale in due fasce orizzontali, con una loggia continua agli ultimi due piani che lasciava

leggibile la griglia di pilastri.

Una seconda versione del progetto, datata Giugno 1954, avvicina lo schema compositivo alla versione finale. La doppia loggi viene, infatti, rimpiazzata da un balcone continuo solo all’ultimo piano, che si estende al volume recesso che connetteva l’edificio alla Chiesa.

La soluzione venne poi abbandonata. Lo schema di pieni-vuoti della prima versione è sostituito da una sequenza orizzontale di finestre raggruppate in modo variabile ed allineate sia in verticale che orizzontale, con eccezioni solo in corrispondenza delle entrate dei balconi., mentre il piano terra presentava un sistema di aperture losangate riscontrabili ancora oggi. Le prospettive disegnate da Garedella in questo periodo mostrano l’inserimento dell’edificio nella stecca e allo stesso tempo propone varie soluzioni per la facciata: con la loggia a coronamento, con balconi e l’ultimo piano rientrante, con balconi ma senza piano rientrante.

Tutte le variazioni dello schema compositivo esplorate da Gardella mantengono sempre come regola la ricerca di una relazione con i fronti contigui, in particolare con la Chiesa dello Spirito Santo. Infatti, già nella versione del Gennaio 1954, l’elevato dell’edificio è determinato dall’altezza del frontone della chiesa, la cui cornice inferiore è allineata con il primo ordine della loggia superiore di Casa Cicogna. La scomparsa della loggia nelle proposte successive non va comunque ad alterare questo allineamento, che è poi mantenuto dall’altezza del terrazzo del quarto piano, diventando comunque uno degli elementi essenziali per la definizione dello schema di proporzioni.

Un altro elemento di continuità, lungo tutto lo sviluppo del progetto, è il distacco volumetrico dell’edificio dalla Chiesa, che è ottenuto da un leggero arretramento in corrispondenza dell’ingresso principale, collocato nell’angolo ad est dell’edificio.

Andando a definire gli elementi che fanno di Casa alle

Zattere un vero progetto veneziano, si può partire dal modulo di proporziona mento dedotto dal contesto, fino al rifiuto della simmetria; dall’uso di materiali locali come la pietra d’Istria per le cornici delle aperture e il rivestimento del piano terra e il coccio pesto per gli intonaci, alla relazione pieno-vuoto che anima la facciata; dal motivo geometrico delle balaustre traforate che riprende l’arco gotico, alla combinazione delle aperture in una moderna interpretazione della polifora; dal progressivo svuotamento del volume a mano a mano che si sale in altezza, alla parallela aggiunta di volumi agettanti per i terrazzi. Tutti questi elementi posso essere indagati anche nella città, basti pensare alle sponde del Canal Grande, segnate da architetture che portano queste caratteristiche.

La continuità delle aperture nella facciata principale, raggruppate in sequenze di polifore, sono, ad esempio, ritrovabili in Ca’ Loredan, Ca’ Foscari, Palazzo DolfiManin in Rialto e in Palazzo Ducale. In tutti questi casi, la polifora è localizzata nella parte centrale del prospetto, al di sopra dell’ingresso e va ad enfatizzare la loggia del piano nobile, affacciato sul Canal Grande. Anche in Casa Cicogna la polifora coincide con ognuno dei saloni degli appartamenti che si affacciano sul Canale della Giudecca , anche se in questo caso non vi è corrispondenza assiale nella facciata stessa e con l’ingresso, dislocato lateralmente.

Il posizionamento di una singola finestra all’angolo dell’edificio, separata dalla sequenza centrale di polifore da una solida porzione di muro, è una soluzione frequente nei palazzi veneziani, come a Palazzo Gritti, Palazzo da Mula e Palazzo Bembo. In tutti questi casi, però, la composizione della facciata rimane simmetrica, mente in Casa alle Zattere questa soluzione sembra equilibrare complessivamente i pieni-vuoti.

Anche l’asimmetria degli elementi nel prospetto

principale pero può essere riscontrata nella storicità, ad esempio, a Ca’ d’Oro, dove la loggia sul Canal Grande è spostata sul lato sinistro dell’edificio, bilanciata dalla presenza di aperture isolate sull’altro lato. Anche Ca’ Dario e Palazzo Sagredo presentano lo schema compositivo di Ca’ d’Oro, mentre nell’adiacente Palazzo Barbaro a Dorsoduro, la sequenza di polifore si estende per tutto il primo livello ed è sormontata ai due piani superiori da una disposizione asimmetrica di aperture.

Questi ultimi due difici mostrano anche un altro punto di contatto con Casa alle Zattere: la presenza dei camini sui tetti. Le facciate di Ca’ Giustinian e Ca’ Foscari, infine, sono caratterizzate da una distribuzione asimmetrica delle finestre, di cui alcune raggruppate dietro una grande terrazza, come in Condominio Cicogna.

Vale la pena notare che gli edifici veneziani a cui fa riferimento Gardella emergono dal contesto in cui sono inserite, in accordo con la loro originaria destinazione aristocratica e borghese, pur comunque fondendosi con esso. In modo simile a come fa Casa alle Zattere, sono punti di riferimento non monumentali, ma che emergono sottilmente dal loro vicinato.

In Casa alle Zattere, Gardella interpreta le relazioni tra architettura e città da un punto di vista linguistico e sintattico, servendosi di un vocabolario estratto dalla tradizione costruttiva locale e poi usando queste parole in una sintassi ambigua che va a disegnare luna grammatica nuova, un nuovo ponte, un’unione che trova ragione in un’architettura sia veneziana che moderna.

LUCE 9X9X9 VISITATORE Hikari no asobi, Venezia L’incipit del progetto è stata l’idea di tagliare il cubo di lato 9 in moduli più piccoli, andando ad ottenere nove quadrati su ogni lato. Quindi alcuni moduli sono stati intagliati per ottenere un volume aperto.

Il punto di osservazione è sempre quello del visitatore che si accinge ad attraversare il padiglione.

La ricerca della soluzione procede per azioni per giungere alla rappresentazione di una idea, della sensazione che si auspica il padiglione possa evocare sull’utente, sperimentando materiali di progetto solitamente valutati solo a posteriori quali la luce, con le sue variazioni tra ombra epenombra e altezze variabili.

La luce vuole essere la guida: sottolinea, scherma, oscura a seconda delle necessità espositive.

La luce, infatti, guida alla definizione dell’edificio.

L’obiettivo è quello di inondare gli spazi interni di luce naturale al fine di valorizzare le opere esposte.

I bordi superiori ed inferiori dei due volumi principali risultano quindi fratturati per permettere alla luce di entrare e collaborare all’esposizione delle opere che troveranno posto nella galleria.

Sono state poi aggiunte altre tre sorgenti di luce addizionali inscrivendo i due lati del volume localizzato al piano terra e una fascia verticale al centro della facciata sul retro.

Hikari no asobi, Giochi di luce appunto.

TEMPO UOMO NATURA Koyaanisquatsi, Godfrey Reggio La venuta dell’architettura e la conseguente sparizione del paesaggio primordiale ed incontaminato è l’emblema della fase che attraversiamo e della necessità di cambiare il punto di vista. L’orizzonte risulta totalmente emancipato dalle sue caratteristiche originali ed è a questo nuovo scenario che dobbiamo aprire lo sguardo e il ragionamento. Numerose sono le innovazioni tecnologiche, i cambi di stili di vita, gli sconvolgimenti che hanno caratterizzato l’ultimo millennio, portando ad un cambiamento totale della geografia che risulta quindi totalmente connessa al fatto architettonico, in un paesaggio in cui piani diversi, mondi opposti, possono comunicare o meno tra loro.

L’accelerazione, la mappa, la sparizione, l’estremo, sono esempi di luoghi in cui è avvenuto il superamento della divisione tra corpi e territori, soggettività e dimore, emozioni e progetto.

In questa metamorfosi permanente si individuano punti di contatto e altri di frattura.

Altro ruolo fondamentale è svolto dalla luce che varia la percezione, scandisce gli eventi e se inizialmente distingueva il giorno dalla notte e segnava il ritmo della vita, ora risulta dominata e vinta dall’uomo che se ne è appropriato, andando ad alterare i naturali ritmi creando notti e giorni soggettivi. Ogni persona, infatti, può decidere quando è luce e quando è buio per se stessa, indipendentemente dagli altri e dal ciclo solare.

Nella vita odierna tutto varia in funzione della velocità, fattore caratterizzante per la definizione di ogni cosa,

immagine, progetto, andando a lavorare sulla percezione e definendo un nuovo nomos. Si assiste ad una trasformazione antropologica del nostro occhio: si privilegiano le grandi superfici e le linee continue, non si è più sensibili ai piccoli dettagli, alla piccola scala. In questo processo già avviatosi con Wagner, sono prediletti i grandi volumi e silhouette, lo skyline, le geometrie. Questa percezione, basata sulle grandi masse e sull’elevata velocità che muove una metropoli, impone all’architettura di registrare i nuovi fenomeni che la città vive e con cui si chiede all’architetto di confrontarsi.

La metropoli è il grande contesto in cui ogni architetto opera e con cui si rapporta, confronta, scontra. Se accetta i limiti e i vincoli in cui deve operare può rendersi protagonista, altrimenti rimane anonimo. L’architettura deve fornire risposte concrete a esigenze concrete come il bisogno di un’individualità, di uno spazio, di un mondo proprio in cui poter togliersi la “maschera” che si è costretti ad assumere per una convivenza civile all’esterno e che nell’intimo viene meno per poter tornare ad essere se stessi trovando così sollievo dalle pressioni e oppressioni quotidiane.

Il tempo reale di trasmissione di un evento si impone sullo spazio reale del fatto stesso e la dimensione architettonica viene meno. Frammentata, si avvicina all’essere un momento, una performance, un lampo nel buio, un’apparizione a cui segue una sparizione immediata, senza residui, nell’ottica di un processo ciclico.

Il territorio quotidiano che ne deriva è polimorfo, ad elevate prestazioni e contraddittorio. I grattacieli, le infrastrutture, gli spazi residui che si autodeterminano tra due edifici risultano luoghi in cui la separazione e la comunicazione avvengono in concomitanza e il collettivo convive con l’individuale, la soggettività con la comunità.

Produzione-tipo di questo processo è il Grattacielo, il grande edificio che non ha bisogno di una città, è la città stessa, creando un microcosmo nel macrocosmo, ed è in grado di sopravvivere e di insediarsi in contesti privi di riferimenti, di scollegarsi dal mondo in cui però continua a vivere e su cui esercita l’influenza.

Il territorio odierno, dopo essersi prestato a qualsiasi manipolazione ad opera dell’uomo, trova la possibilità di realizzare contemporaneamente pratiche diverse, ma tutte accomunate dal dover essere e coesistere.

L’individuo, da tutto questo susseguirsi veloce di fenomeni spesso anche scollegati, ne esce spaesato, insensibile, indifferente a tutto quello che lo circonda.

Gli unici bisogni a cui risponde sono quelli primordiali e minimi e questi costituiscono anche gli unici contatti che rimangono con la realtà. Si assiste ad un’alienazione della vita divenuta ora seriale, ciclica, ripetitiva, standardizzata, quasi come se avesse seguito il decorso della produzione industriale senza uno spirito critico, immedesimandosi e diventando un’opera industrializzata essa stessa. Si agisce, si abita, si vive perché è così che deve essere.

L’esistenza risulta totalmente burocratizzata, macchinina e deviata solo da fatti mediatici e virtuali. Si è spaesati, indotti alla fuga, ma allo stesso tempo sedati, assopiti dalle abitudini. Si cammina, si sfiorano i passanti, le vite degli altri, ci si sbatte contro, ma non vi è mai un vero contatto fisico. La gabbia di vetro e metallo che l’individuo inizialmente si è scelto come dimora, rifugio, soluzione ottimale ai suoi bisogni per vivere, sembra ora inseguirlo e per quanto sicura e confortevole sia una gabbia, rimane sempre una limitazione e non ci fa sentire la presenza altrui, la vicinanza di altre individualità. Ne risultano personalità isolate, indifferenti ed anestetizzate.

Si vive in una sorta di congestione, di iper-densità di emozioni, elementi, fenomeni dove gli unici vuoti sono i vuoti dell’essere, irrimediabili e in cui il fare, il concretizzare, il produrre rimangono gli unici modi per

restituire un’apparente dignità alla vita.

L’uomo ha modificato il territorio e la natura a suo piacere, secondo i suoi desideri, spesso impulsivi, andando ad alterare l’armonia del Tutto che, al momento della creazione, come dice Dimitri Pikionis, determinò le forme che la terra assunse originariamente. La forma cambia con il tempo e interventi che si ritenevano puntuali in realtà si sono ripercossi sulla totalità, spezzando gli equilibri. Lo sviluppo continua imperterrito verso un punto di non ritorno. Dove prima sorgeva una natura florida ora sembra fiorire la civiltà, ma ben presto questa declina.

La congestione di cui parla Rem Koolhaas, se mal gestita, sfocia in contrasti, esplode, fa tornare indietro.

Le persone soccombono, vittime di un male generato da loro stesse, ma le loro opere rimangono, incapaci di adattarsi, di seguire il destino e i veri bisogni dell’uomo.

La produzione avviene in serie, la vita procede allo stesso modo.

TECNOLOGIA UOMO NATURA Antarctica’s anthropocene style, Polar Ice Cap Partendo dall’osservare la funzione che svolge l’arte decorativa ai tempi odierni e studiando, invece, come nel passato fosse vista, pensata ed usata come un vero e proprio dispositivo tecnologico, l’idea è stata quella di riallacciarsi a quella tradizione. Si vuole ridisegnare oggi la seconda opera, che sta tra l’immobile ed il mobile.

Ri-inventare l’arte decorativa dell’architettura d’interni come risposta alle esigenze termiche ed ecologiche contemporanee andando a ripensare ad ogni scelta formale e materiale degli elementi secondari della costruzione d’interni al fine di ri-impiegare questo infra-mobile per ridurre il consumo energetico.

Si parla di stile Antropocene che è quello caratteristico dell’attuale era geologica in cui i cambiamenti climatici sono indotti dalle azioni dell’uomo. Gli equilibri sono cambiati e forse è proprio ragionando su questa scala che si possono trovare nuovi modi di coesistenza tra uomo e natura andando oltre, instaurando nuovi dialoghi grazie ai nuovi materiali e tecnologie di cui si dispone, cercando e sfruttando la sinergia tra tutti gli elementi del gioco: uomo, natura e tencologia vista come anello di giunzione e di nuove possibilità e non più in modo antagonista.

Perchè un muro con uno stile non può più essere solo una superficie decorata fine a se stessa,ma può diventare un reale contributo al comfort di un ambiente.

Stainless steel 1.5mm Foam with closed cells 3mm EPDM Silicone sealant 3mm Lamellate wood 80mm Low-density polystyrene charged with graphite 400mm Lamellate wood 60mm Kraft paper Aluminium vapour barrier Woollen felt Steel structure 200mm

Low-density polystyrene charged with graphite 400mm Aluminium vapour barrier Steel structure 150mm Lamellate wood 100mm

Ceiling / groundfloor / Elevation structure

E: 1/50 0

1

1.5mm ed cells 3mm sealant 3mm d 80mm olystyrene charged with graphite 400mm d 60mm

pour barrier

200mm

ed with graphite 400mm luminium vapour barrier Steel structure 150mm Lamellate wood 100mm

evation structure

E: 1/50 0

1

2

3

4

5m

The Decorative Arts in the era of climate change.

Our proposal is to design a building whose target is to give voice to a new style, the Anthropocene one. The climate issue is now: man has changed the environment with his activity entering in a new climate era.

By studying a country, its climate and its history, with researches and analysis we tried to invent the contemporary style with an architectural project which became the Manifesto of the new style.

Because a wall that has style should not be only pure decoration, but a real climate device.

Dipingere, modellare, sceneggiare per il teatro ed il cinema, disegnare oggetti e produzioni: non sono diversioni, non esistono diversioni, tutto ciò che un uomo fa è sempre sullo stesso piano nella sua continuità espressiva e con le stesse leggi (di essenzialità); in ogni cosa è sempre lo stesso processo mentale e la stessa mano.

Gio Ponti, 1957

OCCHI SENSIBILITÀ PAZIENZA Fotografie, Varie Dalle occasioni di food styling a quando sono rimasto affascinato da una bellezza che era di fronte a me e che grazie alla successiva selezione che si attua attraverso l’obiettivo mi appariva ancora più esplicita, o altre volte veniva trovata, se non adirittura inventata in un dettaglio che passava inosservato.

Fotografia come esercizio alla sensibilità, al non accontentarsi dei risultati che si raggiungono, allo spingersi oltre, all’esplorare. Occasione per conoscersi e conoscere e farsi conoscere. Motivo per alzarsi presto la mattina e fare una passeggiata in una città in cui ci si trova in vacanza, o ancora meglio nella propria città, come quando vivevo a Venezia, e riscoprirla da capo grazie alla particolare luce di un particolare momento o a un inaspettato soggetto che si interpone alla vista a cui eravamo abituati.

Ancora di salvezza, gioco per contrastare la noia, compagnia nei momenti di solitudine, salvagente nelle giornate No. Occasione per rapportarsi con gli altri, per allenarsi ad ascoltare persone, natura, oggetti, luci, ombre, geometrie e farci talvolta guidare dalla spontaneità e dall’imprevisto che forse sono proprio gli elementi che fanno evolvere e che rendono così interessante, per me, quello che all’inizio era un passatempo, poi un lavoro ed ora un modo per indagarmi.

Non disegnate con le regole: divertitevi dopo a vedere secondo quali regole ha disegnato il vostro occhio.

Gio Ponti, 1957