Storie (in) Serie S01
Storie (in) Serie narrazioni a puntate
Storie (in) Serie narrazioni a puntate a cura di Carlotta Susca • Antonietta Rubino contributi di Michele Casella Jacopo Cirillo Andrea Coccia Francesco Costa Marina Pierri Luca Romano Antonietta Rubino Carlotta Susca
Pubblicazione gratuita realizzata da Riga Quarantadue associazione culturale nell’ambito della manifestazione Storie (in) Serie maggio 2015 Cineporti di Puglia/Bari
Investiamo nel vostro futuro
Storie Narrazioni a puntate 6 Programma 11 I Cineporti 12 new media heroes Non fatevi fregare. La fantascienza possibile di Black Mirror, Dave Eggers e LRNZ, di Jacopo Cirillo Il futuro in uno schermo distorto. Black Mirror e gli scenari tecnologicamente possibili, di Luca Romano La migliore tecnologia è un palazzo mentale. Lo Sherlock di Gatiss e Moffat, di Antonietta Rubino il quarto potere Gli eredi di Citizen Kane. Il giornalismo nelle serie tv fra asservimento e civilizzazione, di Francesco Costa Sto parlando con te. House of Cards: un progetto di comunicazione integrata, di Luca Romano
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nella stanza dei bottoni 46 Chi vuole vincere gioca sporco. La (mancanza di) morale in House of Cards e Game of Thrones, di Andrea Coccia 47 Il declino della società è uno spettacolo. Lo zombie in The Walking Dead e Dead Set, di Carlotta Susca 52 bad guys 58 Un supervillain non ha passato. Rust Cohle, Walter White e John Locke a confronto, di Marina Pierri 59 Per chi fai il tifo? Breaking Bad: dalla parte del cattivo, di Carlotta Susca 66 La spirale e il labirinto. True Detective: il mondo ha bisogno di cattivi, di Antonietta Rubino 74 Garmonbozia come merce di scambio. Le porte del male in Twin Peaks, di Michele Casella 80
Narrazioni a puntate Forse le serie televisive sono un prodotto culturale con dignità pari a quella dei romanzi? Sceneggiatori e registi collaborano alla creazione di storie ben costruite, avvincenti, con protagonisti indimenticabili: è il caso di iniziare a prenderle sul serio.
Considerate un vizio privato, un impiego di tempo vissuto con senso di colpa, eppure spesso in maniera abulica, le serie televisive offrono oggi uno spettro di possibilità narrative tale da accontentare ogni spettatore – e lettore. Da qualche anno ormai gli spettatori seriali sono usciti dal buio delle loro stanze, illuminate dallo schermo del computer su cui compulsavano le storie (statunitensi, per lo più), per ammettere senza vergogna la loro addiction alla narrazione in video e a puntate. Oggi possono confrontarsi, recensire su blog, intervenire in convegni, scrivere libri sulle serie televisive e contribuire alla loro nobilitazione.
Storie (in) Serie è una manifestazione che si tiene ogni martedì di maggio 2015 nella sala proiezione dei Cineporti di Puglia/Bari, organizzata dall’associazione culturale Riga Quarantadue con il sostegno dell’Apulia Film Commission. Quattro serate per esplorare quattro temi a partire da serie televisive selezionate insieme a blogger appassionati.
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mentre Watson può fargli pubblicità su un blog di successo (realmente esistente: www. johnwatsonblog.co.uk). Ma anche How I Met Your Mother, nella sua leggerezza, regala dei momenti di riflessione sulle nuove tecnologie, e lo fa grazie a cinque protagonisti a cui ci si affeziona come al sestetto di Friends.
S01E01 NEW MEDIA HEROES » 5 maggio, ore 20,30 » con Jacopo Cirillo (creatore di «Finzioni», sceneggiatore di «Topolino») » si parlerà di Black Mirror, Sherlock, How I Met Your Mother » intervengono Carlotta Susca, Antonietta Rubino
Jacopo Cirillo, che nelle storie che scrive per «Topolino» porta a Paperopoli la rete Papernet e i social network, opportunamente resi ‘fumettosi’, accompagna gli spettatori seriali alla scoperta della tecnologia nelle storie a puntate.
Negli scenari distopici di Black Mirror la contemporaneità è distorta, e lo spunto narrativo è dato dalla realtà ingigantita: i reality show diventano il modello di una società in cui gli individui sono alienati; la detenzione può diventare una forma di punizione comminata al nostro alter ego virtuale, costretto per millenni a espiare le nostre colpe. Sherlock è una traduzione del personaggio letterario e un aggiornamento dello scenario: l’investigatore di Baker Street può ricevere sms da Moriarty, 7
serie che segue i due mandati presidenziali di Martin Sheen e il lavoro del suo staff. The Newsroom ci porta, come suggerisce il titolo, all’interno di una redazione: le dinamiche, lavorative e personali, dello staff e dell’anchorman Jeff Daniels consentono agli spettatori di prendere parte alla messa in onda di un tg serale. Anche una serie come The Wire, considerata una delle meglio scritte di sempre, esplorando i vari livelli sociali di Baltimora incrocia i mass media e le loro responsabilità.
S01E02 IL QUARTO POTERE » 12 maggio, ore 20,30 » con Francesco Costa («Il Post») » si parlerà di House of Cards, The Wire, The Newsroom, The West Wing » intervengono Luca Romano (blogger «Huffington Post»), Carlotta Susca, Antonietta Rubino
Francesco Costa, fra i fondatori del «Post», giornalista e appartenente a una generazione che ha con le nuove tecnologie allo stesso tempo familiarità e distanza, può incrociare i due ambiti e riflettere sulle loro interrelazioni.
Entrare nella Casa Bianca adottando il punto di vista di un politico spietato come Frank Underwood costringe lo spettatore seriale a considerare il giornalismo uno strumento al servizio del potere, a pensare a come sfruttarlo per diffondere informazioni funzionali, a eliminarlo quando scomodo. Con House of Cards, se si fa propria la causa di Kevin Spacey, il giornalismo è un mezzo per ottenere ciò che si vuole. Si rimane nei pressi della Sala Ovale con The West Wing, una 8
Cambiando lo scenario e spostandosi nell’immaginario Westeros, frutto della prolifica mente di George R.R. Martin, la sostanza non cambia: tutto Game of Thrones è l’intricata rete di relazioni intessuta da ciascun personaggio ai fini del raggiungimento di un vantaggio personale – ossia, sempre, l’avvicinamento al trono. Se al fantasy si sostituisce la distopia zombie, è ancora una serie di modelli di società e di relazioni interpersonali quella che mette in scena The Walking Dead, mostrando la tirannide, l’oligarchia, lo Stato di polizia e numerose altre dinamiche sociali, tutte riconducibili al principio dell’homo homini lupus.
S01E03 NELLA STANZA DEI BOTTONI » 19 maggio, ore 20,30 » con Andrea Coccia («Linkiesta») » si parlerà di House of Cards, Game of Thrones, The Walking Dead » intervengono Carlotta Susca, Antonietta Rubino Ogni narrazione non può prescindere dalla costruzione di un sistema di poteri, i cui contrasti sono spesso oggetto stesso – potremmo dire protagonisti – di una categoria di storie, quelle che portano lo spettatore nella ‘stanza dei bottoni’. È ancora House of Cards a mostrare il lato privato del potere, le strategie e i compromessi (e i crimini) considerati il giusto prezzo per il raggiungimento di una posizione strategica, un ruolo chiave nei meccanismi della società.
Andrea Coccia, giornalista e blogger («Linkiesta»), osserva le costruzioni di potere all’interno delle serie tv.
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S01E04 BAD GUYS » 26 maggio, ore 20,30 » con Marina Pierri («Wired») » si parlerà di Breaking Bad, Better Call Saul, True Detective, Twin Peaks » intervengono Michele Casella («Pool Magazine»), Carlotta Susca, Antonietta Rubino
È un bad guy al servizio di una buona causa, la cattura del Re Giallo, Rust Cohle in True Detective, con il suo sistema filosofico di matrice nietzschiana. Se i primi sono bad guys, il male nella sua essenza (e molteplici manifestazioni) permea invece Twin Peaks, serie cult creata dal genio di David Lynch. Marina Pierri, «giornalista e nerd» («Wired»), presenta i cattivi seriali e la loro messa in scena a puntate.
L’antieroe è il protagonista a cui siamo abituati (e che preferiamo), ma come si diventa cattivi? Le cinque stagioni di Breaking Bad mostrano, puntata per puntata, il processo che porta un professore di liceo a sacrificare vite umane come accidente lungo il percorso che lo rende Heisenberg, il cuoco di metanfetamine pure al 99%. Con lo spin off Better Call Saul rimaniamo ad Albuquerque ma per seguire le vicende di qualche anno prima, quelle che hanno portato l’avvocato Jimmy McGill a diventare l’azzeccagarbugli Saul Goodman. 10
S01E01 martedì 5 maggio, 20,30 new media heroes
JACOPO CIRILLO («Finzioni»)
m Black Mirror • Sherlock • How I Met Your Mother S01E02 martedì 12 maggio, 20,30 il quarto potere
FRANCESCO COSTA («il Post»)
m House of Cards • The Wire • The Newsroom • The West Wing S01E03 martedì 19 maggio, 20,30 nella stanza dei bottoni
ANDREA COCCIA («Linkiesta»)
m House of Cards • Game of Thrones • The Walking Dead S01E04 martedì 26 maggio, 20,30 bad guys
MARINA PIERRI («Wired»)
m Breaking Bad • Better Call Saul • True Detective • Twin Peaks 11
I Cineporti I Cineporti sono uno dei centri nevralgici della promozione culturale in Puglia. Cineporti di Puglia/Bari è il quartier generale dell’Apulia Film Commission. Nato all’interno della Fiera del Levante nel gennaio 2010 come base operativa attrezzata per le troupe – i suoi 1.200 mq ospitano uffici di produzione audiovisiva, sale casting, trucco, acconciature e costumi, un laboratorio di scenografie – è diventato in breve tempo un polo culturale capace di coniugare la produzione e la fruizione della cultura da parte della città.
Rassegne, mostre, festival, momenti di ricerca e approfondimento, workshop animano tutto l’anno i suoi spazi, attraendo un vasto pubblico e slegando dalla logica esclusiva dei grandi eventi e del turismo la cultura, che si fa in questo modo propulsore strutturale per l’economia e la crescita del territorio. La rete dei Cineporti non tocca solo Bari, infatti, ma percorre l’intera regione da nord a sud. A Lecce le Manifatture Knos – ex opificio metalmeccanico, dal 2007 officina per la promozione
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della cultura – accolgono da maggio 2010 le produzioni cinematografiche che scelgono il Salento, oltre a costituire uno spazio di coworking per aziende e associazioni culturali, fra le quali Sud Est, cui è affidata la gestione del Cineporto. A Foggia uno spazio polifunzionale di 3.000 mq dotato di attrezzature
tecnologiche avanzate soddisfa le esigenze produttive e logistiche dell’industria cinematografica e televisiva, e consente di sviluppare progetti di didattica e formazione professionale, soprattutto nel settore della comunicazione, dei new media e dell’e-learning. Si realizzano, inoltre, esposizioni, spettacoli e concerti.
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New Media Heroes 14
Non fatevi fregare La fantascie�a possibile di Black Mirror, Dave Eggers e LRNZ di Jacopo Cirillo Fantascienza è tutto ciò che viene pubblicato sotto il nome di fantascienza. Norman Spinrad
Definire esattamente i contorni e le caratteristiche univoche della fantascienza come genere è praticamente impossibile. Il campo di studio è amplissimo, i confini molto liquidi e gli autori diversi, a volte diversissimi tra loro. Iniziamo con quello di cui siamo sicuri, almeno: parliamo di fantascienza quando l’impatto di una scienza o di una tecnologia sulla società e sul singolo individuo determina il motore narrativo del racconto, del romanzo, del film, della serie tv. Ecco, bene. E poi? Poi basta. Perché può essere ambientata nel futuro ma anche nel presente o nel passato; i personaggi sono umani, alieni, robot, cyborg, mutanti e qualsiasi altra forma di vita che non è ancora stata inventata. Il genere può spaziare dal comico brillante, come la Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams, al drammatico alla Blade Runner, o cervellotico, o 15
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preoccupante, o minaccioso o divertente, o disturbante. Insomma, la migliore definizione di fantascienza sembra essere quella di Norman Spinrad, in esergo. Però.
il libro è stato scritto (o il film girato) e quelle del mondo in cui il libro o il film sono ambientati, più la fascinazione del genere sarà interessante, piacevole, sorprendente, spiazzante.
Però di una cosa siamo certi: la fantascienza si muove all’interno dei due estremi di una categoria chiara e definita: la plausibilità. Un certo grado di plausibilità scientifica è sempre presente all’interno della narrazione fantascientifica e, proprio attraverso quello, possiamo tentare di definirne qualche specificità in più. La cosa più interessante, mi pare, è legata alla proiezione nel tempo dell’attualizzazione di questa plausibilità. Detto meglio: tra quanti anni, a partire dal momento in cui lo sto fruendo, le componenti scientifiche e tecnologiche presenti nel racconto potrebbero ragionevolmente essere sviluppabili nel nostro mondo? Solitamente, la plausibilità fantascientifica è abbastanza remota, tendente all’impossibilità: più è ampio il delta tra le possibilità tecnologiche del periodo in cui
D’altra parte, però, la plausibilità può essere anche prossima: una fantascienza che racconta di cose che potrebbero ragionevolmente accadere nel giro di dieci o vent’anni. In questo caso, il livello profetico di oppressione e di incombenza sale a mille, perché non sono più racconti catartici, fatti per allontanare il più possibile dal lettore o dallo spettatore lo spettro del disastro futuro ma, piuttosto, diventano dei moniti molto chiari e altrettanto efficaci: tutto questo non potrebbe solamente succedere ma succederà. E tra poco. Ultimamente, mi pare, molte opere si collocano in pieno in questo filone che stiamo impropriamente chiamando plausibilità prossima. Ci può stare, visto che viviamo il periodo più mutevole e con i cambiamenti più veloci e sorprendenti nella storia dell’umanità. Comunque, ne 16
prendiamo tre. Una serie tv, Black Mirror. Una graphic novel, Golem. Un libro, The Circle. In brevissimo. Black Mirror è una serie tv inglese ideata e prodotta da Charlie Brooker che, fino ad ora, ci ha deliziato con sei puntate da un’ora più lo speciale di Natale con Jon Hamm. Sono puntate stand-alone, ognuna ha la propria storia e i propri personaggi, ma sono tutte accomunate da due aspetti: l’impatto di una nuova tecnologia nella vita delle persone; la negatività di questo impatto. In Black Mirror le nuove tecnologie, spesso naturali sviluppi prossimi delle nostre, peggiorano e, a volte, addirittura distruggono le vite dei protagonisti. Tuttavia, e questo a mio parere è molto chiaro, la serie tv ci dice – così com’è stato per il dibattito attorno a internet qualche tempo fa – che le nuove risorse sono neutre e dipendono dal modo in cui vengono usate. Allo stesso tempo, le storture del futuro derivano in maniera così naturale, quasi ineluttabile da quelle del presente, come se lo sviluppo della tecnologia avesse inscritto dentro di sé la propria devianza. Perché la tecnologia,
come il capitalismo, opera per autoperpetuazione continua, ha la vocazione all’espandersi come unica possibile azione e unico possibile compimento. Si ride di meno ma sicuramente si pensa di più. Per questo lo spettatore tende a dare la colpa alla tecnologia e non tanto all’uomo, che ne viene chiaramente sopraffatto. Come dire: attenti, la tecnologia è neutra, certo, ma alcune tecnologie sono meno neutre di altre, non fatevi fregare.
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Un frame di Black Mirror
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Ecco, a proposito di farsi fregare, parliamo di The Circle, il nuovo libro di Dave Eggers. La storia è quella di una mega internet company (secondo me più Amazon che Google) che, di fatto, si è presa tutto il cucuzzaro e adesso, per andare sul web, devi passare da loro. I suoi tre fondatori però hanno idee molto più audaci del semplice dominio del www, vogliono dominare tutto e abolire la privacy, ergo abolire la criminalità e la corruzione, almeno secondo loro. Tecnologicamente la cosa non è così impensabile, anzi, ci siamo quasi: centinaia di migliaia di mini telecamerine connesse via satellite, con batterie di
durata pluriennale, poco costose e inserite in un mega social network in cui chiunque può collegarsi in qualsiasi punto del pianeta e vedere che cosa succede. Qui l’implausibilità non è certo legata alla tecnologia, quanto alla creduloneria della ggente che davvero si beve l’idea per la quale abolendo la privacy il mondo migliorerebbe. Comunque, tralasciando le critiche personali, questo libro ribatte la stessa cosa di Black Mirror: prese da sole, sono solo simpatiche telecamerine. Usate male, possono rappresentare l’inizio della dittatura globale infinita, o qualcosa del genere. Non è la tecnologia, sono le persone.
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Ma le persone La messa in possono provare discorso delle a sconfiggerla, nuove tecnologie questa tecnologia. in un filone Ed ecco i nuovi fantascientifico eroi della che possiamo L’immagine di copertina di Golem definire attraverso fantascienza con plausibilità la sua plausibilità prossima, quelli di Golem, il prossima, contrapposta a graphic novel di LRNZ. Siamo quella remota classica, piace un nel 2030, in Italia. Il progresso sacco ai produttori e agli autori ha un po’ esagerato e gli delle serie tv e, in generale, mi italiani vivono in una bolla sembra che il messaggio che tecnologica che, provvedendo stiano cercando di far passare a tutto, non provvede di fatto sia unanime, e molto simile a più a niente ma, al contrario, tutti i cervelloni che ci hanno costringe. Ragazze piatte che ammonito sulla pericolosità il giorno dopo sono tettone dello sviluppo incontrollato grazie alla chirurgia estetica dell’intelligenza artificiale1: la lampo, pubblicità dappertutto, tecnologia è neutra ma inscrive bancomat che diventano dentro di sé linee di devianza lotterie e tutto il resto. La molto marcate e, soprattutto, libertà tanto promessa dallo perfettamente compatibili con sviluppo tecnologico diventa gli istinti più distruttivi e bassi una prigione. Ma qui ci sono dell’essere umano. La colpa, in i ribelli, un ragazzino con fondo, non è né della tecnologia, poteri nascosti, una ragazzina né dell’uomo. L’inghippo, innamorata, la possibile piuttosto, va cercato nella loro redenzione dell’umanità e il relazione. finalone. Ecco, gli uomini sono tornati eroi e la tecnologia è regredita in un drago da infilzare. Uomo buono, 1. www.tomshw.it/news/stephenhawking-l-intelligenza-artificiale-e-untecnologia cattiva.
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Il �turo in uno schermo distorto Black Mirror e gli scenari tecnologicamente possibili di Luca Romano
Tra il 2003 e il 2010 è avvenuto che la comunicazione tra device e device ha superato la comunicazione tra device e esseri umani; in questi anni in più i device continuano ad aumentare esponenzialmente, mentre il numero di esseri umani, in confronto, aumenta in maniera lenta e poco rilevante. Ad oggi la comunicazione tra device è in assoluto la parte numericamente più significativa, e sono il mezzo attraverso il quale gran parte delle persone interagisce. Se prendo il telefono e mando un messaggio tramite WhatsApp, o quando finisco di guardare una serie tv, o se tramite il pc carico su un hard disk un filmato che poi vedrò tramite cellulare e che magari, ancora attraverso server, caricherò su YouTube, sarò una sola persona che è stata in grado di far interagire tra loro moltissimi apparecchi. Così come se cammino per strada, attivo Periscope e permetto a chiunque nel mondo di guardare proprio in questo momento quello che faccio. La mole di dati prodotti dall’uomo dalla sua nascita
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sino al 2009 era circa di 0,3 Zettabyte, nel 2020 si attesterà a circa 35 Zettabyte. Come sarà il nostro futuro coperto completamente da device e dati? Se sino agli anni Cinquanta era l’uomo a dover entrare in un computer con un cacciavite per modificare il programma e farlo funzionare, in un futuro non troppo lontano i chip potrebbero essere dentro di noi così da poter archiviare tutto ciò che vediamo, così da farcelo vedere e rivedere senza sosta. In un
futuro possibile potremmo essere capaci di creare degli avatar in grado di sostituire delle persone scomparse; magari potremmo essere in grado di bloccare le persone fisiche tramite i software, così da non dover più interagire con loro, o semplicemente potremmo arrivare a dover pedalare su una cyclette per guadagnare punti da spendere per partecipare ad un concorso televisivo. E cosa ne sarà della politica?
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Un’immagine promozionale di Black Mirror
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Il futuro immaginato da Charlie Brooker in Black Mirror si costruisce essenzialmente sulla possibilità che qualcosa avvenga, o meglio che il futuro intraprenda una strada sino alle estreme conseguenze. Vogliamo ricordare tutto? Archiviare tutto su hard disk? Eccoci davanti ad un mondo costruito con chip
impiantati che ci consentono di guardare e riguardare tutto quello che viviamo. Ma la potenza comunicativa di Black Mirror non finisce qui, perché sembra quasi che tutti i mondi che siamo in grado di costruire e di guardare non possano che degenerare e diventare terribili.
Qui e accanto, frame di Black Mirror
Con parecchi riferimenti alla politica, alle costruzioni populistiche, ai luoghi comuni e alle nostre abitudini, lo specchio nero non fa altro che riflettere le nostre paure, perché la visione in un monitor spento, in un cellulare spento, o su un qualsiasi altro device diventa
una visione distorta, non ci riconosciamo, non siamo più limpidi e perfetti come in uno specchio qualsiasi. Quando l’usabilità del mezzo viene meno, cos’è un telefono? Cosa siamo noi davanti a un telefono? Ed è da questo punto che i dati prodotti, tutta la comunicazione 22
e tutti i futuri possibili diventano una possibilità concreta; come interagiscono gli uomini tra loro quando l’interazione tra macchine è di gran lunga superiore? Charlie Brooker sembra volerci far diventare parte di questa costruzione, dei mondi che immagina, dei protagonisti delle varie puntate. Focalizzando l’attenzione sulla prima delle due stagioni – a cui si aggiunge lo speciale natalizio –, composta (come la seconda) da tre puntate, la dicotomia tra ciò che possiamo fare e ciò che vogliamo fare si evidenzia immediatamente. In The National Anthem (S01E01), il Primo ministro inglese si
trova a dover scegliere tra la liberazione della principessa Susannah (a patto che lui abbia un rapporto sessuale completo davanti alle telecamere con un maiale) e la sua uccisione. La costruzione della possibilità che ciò accada crolla davanti alla necessità che la peggiore delle ipotesi si realizzi. Il collassare delle storie verso la possibilità peggiore è una costante in tutte le puntate. E così la politica cede il passo allo spettacolo, ne è definitivamente vittima – tema ripreso poi nella terza puntata della seconda stagione, The Waldo Moment, quando un pupazzo satirico si ritrova candidato alle elezioni per raccogliere i voti di protesta.
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Ma non è solo nello spazio della politica che l’interazione tra persone può collassare, si pensi, ad esempio, a Fifteen Million Merits (S01E02), puntata nella quale il mondo non è rappresentato, gli spazi sono sempre chiusi: palestre, stanze, studi televisivi, proprio ad evidenziare l’esser cavia dell’essere umano. Il protagonista pedala su una bicicletta per produrre energia elettrica e per guadagnare punti per far partecipare la ragazza di cui si è innamorato allo show televisivo di cui tutti sono spettatori. Ovviamente la
possibilità negativa si realizza e la storia collassa, il laboratorio umano futuribile è ancora una volta tragico, così come specularmente in White Bear (S02E02) la tragedia di una donna diventa lo spettacolo a pagamento di centinaia di persone che non fanno altro che riprendere con i loro telefoni. Per concludere, The Entire History of You (S01E03) è speculare rispetto a Be Right Back (S02E01) e in entrambe le puntate il ricordo del passato diventa un elemento fondamentale, la possibilità di ricordare tutto diventa una
Qui e accanto, frame di Black Mirror
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prigione all’interno della quale i protagonisti non sono più in grado di gestire il proprio presente, ancora una volta gli umani, schiacciati dai dati prodotti da loro stessi, non sono più capaci di liberarsi delle loro scelte. La possibilità di rendere umano un futuro ormai gestito e dipendente dalle macchine è ciò che lega strettamente tra loro tutte le puntate di Black Mirror, e tutti gli spettatori, comodi sulle poltrone, alla fine di ogni puntata hanno sempre
la possibilità di guardarsi, distorti e scuri nei monitor di televisioni connesse ad internet che attraverso server proiettano immagini di futuri forse non troppo lontani e che magari saremo in grado di gestire diversamente, o forse no.
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La migliore tecnologia è un palazzo mentale Lo Sherlock di Gatiss e Moffat di Antonietta Rubino La trasposizione delle avventure dell’«unico consulente investigativo al mondo»1, nato dalla fantasia di sir Arthur Conan Doyle, dalla fumosa Londra vittoriana alla metropoli del ventunesimo secolo non poteva prescindere dal rapporto con la tecnologia. Se Steven Moffat e Mark Gatiss, gli sceneggiatori, avessero, per esempio, immaginato uno 1. «The world’s only consulting detective», come si definisce lo stesso Sherlock Holmes sul suo sito web www. thescienceofdeduction.co.uk
Sherlock Holmes tecnofobo, per non dire luddista, tanto quanto è misantropo, ci sarebbe stata un’incongruenza. Non tanto e non solo perché l’ict permea la società e quindi l’assenza di device che fanno parte della vita quotidiana di ogni occidentale avrebbe reso l’ambientazione quanto meno poco credibile – l’innovazione avrebbe potuto far parte della scena –, ma il celebre investigatore ne sarebbe rimasto comunque estraneo. La vera incongruenza si sarebbe verificata rispetto al 26
personaggio originale, la cui versione libresca nella serie della BBC viene tenuta in gran conto: anche nei romanzi e nei racconti l’investigatore del 221b di Baker Street usa tutti gli strumenti più avanzati del diciannovesimo secolo per scoprire la verità. E non potrebbe essere altrimenti, dato che nell’epoca in cui egli prendeva vita in Europa si affermava il Positivismo. Proprio il suo essere un sociopatico ad alta funzionalità definisce i confini del suo approccio alla tecnologia: Sherlock è senza dubbio un super geek2 nella misura in cui conosce perfettamente le potenzialità e il funzionamento della tecnologia a sua disposizione, anche quella più sofisticata; se ne serve, ma non ne è sopraffatto. E quando si trova di fronte a meccanismi che non conosce (come nel caso della bomba innescata nel vagone della metropolitana che minaccia di far saltare in aria il Parlamento in The Empty Hearse 2. È quello che pensa di lui anche il regista della serie, Paul McGuigan
Benedict Cumberbatch nei panni di Sherlock Holmes
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Una raffigurazione delle intuizioni di Sherlock Holmes
[S03E01]) ricorre come sempre alla logica per venirne a capo. Il gps, i software Voip, le app per le previsioni meteo, le chat room sono solo mezzi che permettono di condurre le indagini e decifrare gli indizi. Sherlock non si intrattiene con i social, non perde tempo, non ne viene risucchiato. Neanche quando si annoia. Speculare è l’uso che fa della tecnologia il suo arcinemico, Jim Moriarty, ‘consulente criminale’: per sottoporre a Sherlock gli enigmi da risolvere, pena la morte degli ostaggi imbottiti di esplosivo in The
Great Game (S01E03), o per violare contemporaneamente la sicurezza della Torre di Londra, della Bank of England e della Prigione di Pentonville inviando delle stringhe di codice dal suo smartphone come in The Reichenbach Fall (S02E03), o per annunciare il suo ritorno interferendo con le trasmissioni televisive (His Last Vow, S03E03). Insomma, la serie della BBC dimostra chiaramente che la tecnologia non è ontologicamente cattiva né buona, che ciascuno la piega ai propri scopi, che acquista 28
l’etica di chi la manovra (e non il contrario) e che il cervello umano è in grado di dominarla. Assunti quasi ovvi, complementari in qualche modo agli scenari mostrati da un’altra serie britannica – Black Mirror – in cui vengono messi a fuoco gli effetti collaterali della tecnologia. In Black Mirror essa mette a nudo gli istinti più bassi della gente, le fragilità delle persone; in Sherlock i personaggi dotati di un quoziente intellettivo superiore alla media non ne sono assuefatti e sono in grado addirittura di superarla. È emblematico in questo senso l’incontro di Sherlock Holmes con Charles Augustus Magnussen, «il Napoleone del ricatto» (His Last Vow):
l’investigatore si convince a un certo punto che Appledore – il caveau segreto dove il magnate dei media archivia i file che contengono tutte le informazioni capaci di mettere in crisi i potenti del mondo occidentale – sia in realtà un dispositivo portatile. Una flash memory o una connessione 4g installate su un sofisticatissimo paio di occhiali (elegante, ma all’apparenza normale) che gli consentono di leggere in tempo reale i punti deboli dell’interlocutore. Ma Sherlock si sbaglia, Appledore non è altro che il ‘palazzo mentale’ di Magnussen: i dati scottanti sono stoccati nel suo cervello, l’mi6 non riuscirà mai a trovarlo in possesso di informazioni compromettenti che possano
Andrew Scott è Jim Moriarty
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farlo arrestare. Una qualità straordinaria che anche Sherlock possiede – della sua memoria selettiva si parla più volte nel corso della serie e ci vengono talvolta mostrate addirittura le stanze più intime di questa costruzione – e che, naturalmente, trascende ogni sorta di innovazione e di sviluppo tecnologico. Si tratta di una tecnica mnemonica antichissima, inventata dal poeta greco Simonide di Ceo nel v secolo a.C. Dunque, Sherlock è geniale ma rimane spiccatamente misantropo (e supponente). Non è capace di intrecciare relazioni – è oltremodo privo di tatto, la povera Molly Hooper ne è spesso vittima –, detesta tenere discorsi in pubblico, non ama conversare. In altre parole, non sa comunicare. Non è un caso che preferisca scrivere sms piuttosto che parlare al telefono, e non è un caso che vi ricorra in maniera quasi compulsiva – specie quando si tratta di mettere in ridicolo l’ispettore Lestrade durante una conferenza stampa a Scotland Yard. La sintesi perfetta della sua assoluta chiusura nei confronti
degli altri ce la offre il suo sito web – The Science of Deduction, realmente on line, anche al di fuori della fiction –, sulla cui home page si legge: «I’m not going to go into detail about how I do what I do because chances are you wouldn’t understand»3. Al contrario del Dr Watson, che si rivela un blogger talentuoso – benché da principio Sherlock lo derida – in grado di far aumentare in maniera esponenziale la popolarità del consulente investigativo anche fra la gente comune, e di conseguenza il suo volume d’affari. Tanto che lo stesso Sherlock in seguito suggerisce ai visitatori del suo sito di contattarlo tramite il blog di John (ma omette il link!4), qualora abbiano degli enigmi interessanti da sottoporgli. Insomma, anche Sherlock, alla fine, riconosce l’importanza e la potenza del marketing. Ancora una volta, la reincarnazione contemporanea dei personaggi rispetta il Canone di Conan 3. Non entro nel merito di come faccio quello che faccio perché è probabile che voi non capiate 4. www.johnwatsonblog.co.uk
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Nella pagina accanto: il cast di Sherlock; sopra: Benedict Cumberbatch e Martin Freeman
Doyle, dal momento che a Watson spetta il compito di narrare le imprese di Sherlock e di contribuire alla creazione del mito, facendo di lui un eroe. Non è difficile – lo è solo per Sherlock – trovare una spiegazione per tanto successo. Le vicende sono straordinarie, e lo storytelling di Watson è immediato, colloquiale, accogliente, informale, come si addice a un blog personale e al suo carattere. Il modo in cui ci presentiamo sui social media rivela di noi molto più di quanto non crediamo. Sapremmo che il
medico patologo Molly Hooper è una persona dolce e romantica (e un po’ imbranata) prima di averla incontrata, guardando i gattini che fanno capolino dal suo blog personale (a tacere della font)5.
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5. www.mollyhooper.co.uk
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Il quarto potere 32
Gli eredi di Cit�en Kane Il giornalismo nelle serie tv fra asservimento e civil�zazione di Francesco Costa Uno pensa al giornalismo raccontato su uno schermo – quello del cinema o quello della tv – e probabilmente gli vengono in mente subito Robert Redford e Dustin Hoffman stravaccati sulle scrivanie del «Washington Post» mentre fanno dimettere un presidente degli Stati Uniti; oppure il Charles Kane di Quarto potere, col suo grosso impero editoriale e l’uso che ne faceva per muovere l’opinione pubblica. Esempi di monumentale efficacia e carisma ma piuttosto datati – uno del 1976, l’altro addirittura del 1941 – che negli ultimi vent’anni non hanno trovato sostituti provvisti della stessa capacità di entrare nell’immaginario collettivo, almeno al cinema. Questo vuoto è stato parzialmente colmato dalle serie tv, con un’intensità e una qualità che è ormai perfino ripetitivo ribadire: e alcune più delle altre hanno saputo cogliere in qualche modo lo spirito del tempo. Prendete House of Cards, forse LA serie tv di questi anni. Non parla di giornalismo. Ma molto gira attorno ai rapporti tra politica e media, e a come la prima tenti di sfruttare i secondi. Il protagonista 33
della serie, Frank Underwood, ha un piano ambizioso e piuttosto diabolico per vendicarsi di chi gli ha fatto un torto e accumulare potere, e qual è la prima arma che reputa utile avere per eseguirlo? Una giornalista che riesce nella non facile impresa di sintetizzare in appena dieci episodi una specie di manuale completo di quello che non si dovrebbe mai fare. Si infila a casa di un politico di nascosto, ci va a letto per avere informazioni, non si preoccupa del perché le vengono date quelle informazioni, di
fatto accetta di farsi strumento della sua potentissima fonte, che a un certo punto però persino minaccia: tombola. Un approccio completamente diverso da quello presentato in un’altra serie andata in onda a cavallo tra gli anni Novanta e il Duemila: The West Wing. Parla di politica e quindi anche di giornalismo, ma con un approccio opposto: i personaggi non fanno a gara a chi è più farabutto, bensì il contrario. Scritta dal venerato sceneggiatore Aaron Sorkin
Kate Mara interpreta una giornalista in House of Cards
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– quello di The Social Network e di Codice d’Onore, per dirne un paio – The West Wing ha raccontato la vita di un presidente statunitense immaginario e soprattutto del suo staff, composto da persone così talentuose, spiritose, brillanti e affascinanti che guardare troppi episodi consecutivi potrebbe avere delle ripercussioni sull’autostima. I giornalisti di The West Wing sono tutti personaggi comprimari, ma di grossa qualità: e la serie mostra spesso sia quanto possano essere temibili (come quando un consulente del Presidente decide di sostituire il portavoce ufficiale, malato, con risultati tragicomici) sia quanto possano essere manovrabili anche senza compiere illegalità e scorrettezze. Così come lo sono per la politica, House of Cards e The West Wing rappresentano i poli opposti del tono e dell’atmosfera che possano avere due racconti – entrambi appassionanti e ben recitati – che girano intorno alla politica e di riflesso anche al giornalismo. Ed entrambe le serie raccontano efficacemente
un pezzo dell’epoca in cui sono nate: se l’universo di The West Wing è dominato dalla tv, in quello di House of Cards si intrecciano media molto diversi, con un ruolo particolare di internet.
Martin Sheen è il Presidente USA in The West Wing
Ci sono due altre serie tv molto belle che permettono un’ulteriore messa a fuoco: e vengono entrambe rispettivamente dagli anni di The West Wing e House of Cards. La prima è The Wire, considerata una delle migliori mai realizzate – molti dicono 35
serie sul giornalismo, bensì un poliziesco: ma dedica la sua intera ultima stagione al ruolo delle notizie con un realismo così asciutto e privo di fronzoli da diventare a volte brutale.
Il Monopoli basato su The Wire
la migliore punto e basta – che in Italia è stata penalizzata da una programmazione scellerata in un’epoca meno sensibile di questa alla serialità televisiva. Anche The Wire non è una
La redazione del «Baltimore Sun» di The Wire somiglia moltissimo a una vera redazione di quindici anni fa alle prese con le prime trasformazioni tecnologiche, con l’inizio della storica crisi industriale che avvolge ancora adesso questo settore e con alcune domande immutabili. Che si fa con una notizia sensazionale ma che non può essere verificata con certezza? Se un fotografo va sul
luogo di un incendio e sposta una bambola bruciata per farla venire meglio in foto, sta facendo il suo mestiere o sta andando oltre? Che si fa col giornalista che inserisce nei suoi retroscena dettagli più o meno inventati per ‘colorare’ le storie che racconta? The Wire mostra come le risposte a queste domande, che per alcuni possono risultare scontate, non lo sono quando si fanno i conti con la realtà. 36
Ci aiuta allora un’altra serie, stavolta di questi anni, che si intitola The Newsroom ed è andata in onda per tre stagioni tra il 2012 e il 2014. Anche The Newsroom è scritta da Aaron Sorkin, e stavolta il giornalismo è in primo piano: la serie racconta la vita professionale e personale della redazione di un tg americano, e si tiene in piedi su un’ambivalenza magnetica. Da una parte i problemi di una redazione del 2015, che sono quelli descritti in The Wire ma amplificati. Dall’altra un approccio ideale ai limiti
dell’utopistico che indica con chiarezza quasi manichea la direzione: «we are on a mission to civilize», dice epicamente il direttore Will McAvoy quando sintetizza senso e ragione delle sue decisioni. Si fanno le cose bene, punto. Basta? Certo che non basta. Ma è più di qualcosa, specie per chi conosce un po’ il giornalismo del nostro tempo: e in questo tempo un racconto così completo del giornalismo non poteva che passare da una serie tv.
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Jeff Daniels è l’anchorman in The Newsroom
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Sto parlando con te House of Cards: un progetto di comunicazione integrata di Luca Romano La maggior parte delle volte in cui si decide di scrivere su un libro, su un film o su una serie televisiva si ha come punto di partenza la definizione dell’oggetto del quale si sta parlando. È una semplice classificazione che fa comprendere al lettore (e a chi scrive) come orientarsi. Probabilmente il grande successo di House of Cards è dovuto al fatto che non rientra a pieno titolo nelle definizioni generiche che gli sono state date. Non è una serie televisiva perché non
nasce per una piattaforma meramente televisiva; non è un film, perché gioca sulla serialità come fondamento del suo stesso stile di narrazione, ma non è propriamente una narrazione, perché c’è moltissima interazione che rende allo spettatore l’illusione dell’interazione stessa. È qualcosa di diverso da tutto questo, ed è proprio in questa diversità che è da ricercare la particolarità di House of Cards. La prima domanda da porsi, quindi, è cos’è House of Cards? E 38
per rispondere probabilmente bisognerebbe iniziare da Netflix. Netflix è una piattaforma statunitense che dal 2008 offre contenuti in streaming in abbonamento. Nel 2014 ha superato i 50 milioni di abbonati. Ed è già sufficiente per poter affermare che per parlare di House of Cards non si può prescindere dalla piattaforma sulla quale vive. Altra caratteristica fondamentale delle tre stagioni è stata la distribuzione completa e contemporanea di tutte le puntate (1º febbraio 2013 la prima
serie, 14 febbraio 2014 la seconda, 27 febbraio 2015 la terza). La piattaforma è così determinante perché è semplicemente parte del progetto comunicativo e visuale, infatti Netflix rappresenta non soltanto il canale distributivo, ma una parte ampia del contenuto (estetico e comunicativo) che si lega strettamente al rapporto tra potere e comunicazione, ma anche alla regia utilizzata. Il secondo aspetto fondamentale di House Of Cards, infatti, è la regia. Sin dalla prima puntata Frank Underwood (protagonista 39
della serie) interagisce, attraverso sguardi in camera e discorsi diretti, con gli spettatori – stile che nonostante l’alternarsi dei registi si è mantenuto come elemento fondamentale. Ad esempio nel mezzo di una cerimonia ufficiale, durante gli applausi alza la testa verso la telecamera e saluta. Chi saluta? Ovviamente gli spettatori, noi, ci verrebbe da pensare. Per quale motivo? Perché è con noi e per noi che lui è lì. Lo spettatore è parte della narrazione che viene svelata, cade la finzione per far risaltare l’aspetto realistico, la verosimiglianza. Attraverso questa tecnica, nonostante sia stata parecchio usata in passato, la comunicazione avviene in maniera totalmente differente rispetto ad altre serie. Avendo come canale di base una piattaforma di streaming on line, House of Cards è il gioco stesso di questa comunicazione, l’interazione tramite Facebook, YouTube e soprattutto Twitter diventa fondamentale e questo si evince in maniera ancora più evidente con il lancio della terza stagione, di cui parleremo successivamente.
Infatti, per tornare alle prime 24 puntate, il percorso di Frank Underwood è accompagnato per gran parte del tempo da quello di Zoe Barnes, giornalista del «Washington Herald» che rappresenta l’altra faccia del potere: la comunicazione, appunto. Zoe Barnes rappresenta il metodo attraverso il quale i progetti politici – e non solo – di Frank Underwood prendono vita tramite fughe di notizie costruite a tavolino, dossier falsi o costruiti anch’essi e manipolazione di quella che, in un modo o nell’altro, è la realtà. Quando il meccanismo comunicativo di Zoe Barnes si rompe e la giornalista esce di scena durante la seconda stagione, sarà la stessa comunicazione Twitter dell’account ufficiale di House of Cards a prendere il suo posto, alla conclusione della stagione. Tornando al metodo di lancio, estremamente legato al progetto di House of Cards, la terza stagione, come le precedenti, è andata on line tutta insieme nello stesso giorno, ma alla messa on line è preceduta una, chissà quanto 40
non voluta, fuga di notizie: dieci puntate su tredici sono andate on line per errore e immediatamente l’11 febbraio con un tweet l’account ufficiale scrive:
ed è in questo senso che la comunicazione diventa parte integrante della narrazione sul potere, ad un probabile errore di gestione è seguita una comunicazione ottimale. In questo modo al corrispettivo registico dello sguardo in camera e dello scambio tra potere e comunicazione/giornalismo, abbiamo il dialogo attraverso Twitter con gli spettatori e quindi una nuova narrazione dell’evento in streaming che ricrea il rapporto tra potere, giornalismo/comunicazione con i cittadini in una forma più reale e al di là della narrazione, fondata anch’essa sui medesimi meccanismi. Ancora sulla stessa scia comunicativa abbiamo numerosi altri interventi Twitter attraverso l’account ufficiale:
o
che testimoniano questa interazione fondamentale; per comprenderli è necessario conoscere la serie, esserne parte. È un tipo di comunicazione senza la quale probabilmente House of Cards perderebbe un tassello importante del proprio racconto, e questo si è evidenziato maggiormente con la terza stagione, più che con le prime due, perché pensata e studiata sul lavoro fatto precedentemente delineando una direzione che sembra sempre più evidente: portare sullo stesso piano la narrazione della serie e la comunicazione, mischiare la comunicazione interna alla finzione e quella esterna. House of Cards sembra non stia lasciando che gli eventi procedano fuori dal proprio controllo.
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Facce da Presidente Michael Gill è il Presidente Garrett Walker nelle prime due stagioni di House of Cards
Kevin Spacey è il Presidente Frank Underwood nella terza stagione di House of Cards
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Martin Sheen è il Presidente Josiah Bartlet in The West Wing
Lo staff del «Baltimore Sun» in �e Wire
Kara Quick è Clark Johnson è Sam Freed è James David Costabile è Rebecca Corbett, Augustus Haynes, Whiting, Thomas Klebanow, responsabile della responsabile della direttore capo redattore cronaca locale cronaca cittadina
Thomas J. McCarthy è Tim Phelps, responsabile della cronaca del Maryland
Robert Poletick è Steven Luxenberg, responsabile del dorso cittadino
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Donald Neal è Jay Spry, copy editor
I want it all and I want it now Tutta la stagione a portata di clic Meglio centellinare le puntate di una serie con l’attesa settimanale o è preferibile averle tutte disponibili contemporaneamente, in modo da gestire in maniera autonoma i tempi di fruizione? È capace lo spettatore seriale di autogestirsi o è un aiuto allo svolgimento delle attività quotidiane non avere una decina di puntate pronte per la visione? Se con il recupero di serie tv passate l’unico ostacolo alla visione compulsiva è la necessità di lavorare, nutrirsi, fare vita sociale, con le serie in corso l’attesa diventa condizione obbligata, e solo la partecipazione a forum (forme edulcorate di gruppi di autoaiuto) consente di lenire il dolore dell’attesa prima della messa in onda della puntata successiva della propria serie preferita. Invece con House of Cards Netflix sta sperimentando la messa in onda in contemporanea delle intere stagioni, demandando al buonsenso dello spettatore la scelta dei tempi di visione. Meglio? Peggio? La suddivisione in capitoli, continua fra le serie (siamo al trentanovesimo con la chiusura della terza stagione che, come le altre, è composta da tredici episodi) consente di assimilare HoC a una lettura: non ci sono infatti i cliffhanger di fine puntata ma una narrazione continua, fluida, che procede per avanzamenti da una stagione all’altra, in una ascesa progressiva parallela a quella di Frank Underwood. Una struttura di questo tipo non procede per espansioni successive, per allargamento del numero di personaggi o dello scenario in cui agiscono, ma piuttosto tramite l’apertura di stanze che si collocano su piani sempre più alti, in cui ci sono più bottoni e collegati a dispositivi sempre più sofisticati. Se la messa in onda settimanale assimila le serie tv al romanzo a puntate, pubblicato sui giornali e narrativamente piegato all’esigenza di tenere il pubblico legato alla storia, in attesa trepidante, è con la visione a discrezione del pubblico che si completa il parallelismo con il romanzo: lettore e spettatore hanno tutta la storia in mano (o a portata di clic), e possono leggere e guardare tutti i capitoli che vogliono quando preferiscono. {Halinca}
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A scuola da Escher Le strategie di gioco di Frank Underwood Anche i cattivi giocano, ma solo per esercitarsi e perfezionare le loro tattiche e strategie. Se nelle prime due stagioni di House of Cards abbiamo visto Frank Underwood alle prese con videogiochi sparatutto e poi con il modellino di una battaglia, con la terza stagione le strategie devono farsi pi첫 raffinate. Ed ecco che il nostro passa a una app che richiede di elaborare visioni alternative e di trovare strade anche dove sembra non ci siano: Monument Valley della Ustwo, basato sulle geometrie di Escher. Consigliatissimo!
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Nella sta�a dei bottoni 46
Chi vuole vincere gioca sporco La (manca�a di) morale in House of Cards e Game of �rones di Andrea Coccia Nella seconda puntata della seconda stagione di House of Cards, come spesso accade, Frank Underwood guarda in camera e ci dice, come altrettanto spesso accade, una frase memorabile, che recita così: Such a waste of talent. He chose money over power – in this town, a mistake nearly everyone makes. Money is the McMansion in Sarasota that starts falling apart after 10 years. Power is the old stone building that stands for centuries1.
Il talento sprecato è quello del lobbista Remy Danton, i soldi l’obiettivo di troppa gente che bazzica le stanze del potere, e la determinazione che traspare dalla voce di Kevin Spacey e dal suo sguardo in camera è quella di un antieroe che quasi non ha rivali e che è pronto a tutto per arrivare dove vuole arrivare. L’obiettivo 1. Che spreco di talento. Ha preferito i soldi al potere – è un errore che fanno quasi tutti, in questa città. I soldi sono l’appartamento cafone a Sarasota che comincia a cadere a pezzi dopo 10 anni. Il potere è la vecchia casa in pietra che resiste ai secoli
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Robin Wright e Kevin Spacey, protagonisti di House of Cards
è il Potere, quello maiuscolo, quella «vecchia casa in pietra che resiste ai secoli», gioco del potere che ha una sola regola: non ci sono regole. Frank Underwood è un maestro da questo punto di vista, e House of Cards un affresco a tinte forti, senza sfumature, dell’eterna lotta per il Potere, una lotta nella quale i buoni non soccombono, semplicemente non ci sono. Proprio per questo Frank, soprattutto nella prima stagione, è praticamente un dio, un supereroe che non teme
rivali perché non ne ha. E che non ci sono regole lo dimostra dal principio, da quella prima scena che fa da incipit all’intera serie e che definisce i confini della morale di Frank: che non ci sono. Come non ci sono i buoni, perché House of Cards non è una serie per buoni. Non lo è Zoe, non lo è Russo, non lo è Doug, non lo è Claire. Nella realtà, però, i buoni, i puri, gli onesti, i giusti esistono veramente, e perdono, perdono male. Nella lotta del potere sono loro le vittime sacrificali, carne 48
da macello quasi ansiosa di immolarsi all’altare del Potere. Sembrerebbe una sorta di paradosso, ma è Game of Thrones – una serie fantastica – che, meglio di House of Cards, ci offre il ritratto di questa sfida a senso unico, raccontando la morale in un gioco, quello del potere, che per la morale non ha spazio e, un gioco che, con chi è convinto del contrario, sa essere molto, molto cattivo. Nella settima puntata della prima stagione di Game of Thrones c’è una scena importante. È un giorno luminoso, e nel giardino di King’s Landing si incontrano, per l’ultima volta prima del patibolo, Cersei Lannister e Ned Stark. Per evidenziare il rapporto di potere tra i due basta un tocco di regia: Ned è seduto, Cersei è in piedi. La prima inquadratura del dialogo è ripresa dal punto di vista di Ned, mentre Cersei si frappone tra lui e il sole. Ned è il buono per eccellenza, il ritratto dell’onestà, caratteristica fondante e condivisa da tutti i membri della casata degli Stark. È, quella onestà, la stessa che, nel primo episodio della serie, lo
obbliga a sporcare la sua spada con il sangue del traditore e caricarsi sulle spalle il peso della violenza. È la stessa onestà che l’ha portato a King’s Landing, ed è la stessa, identica onestà che gli costerà la testa. Anche nel giardino assolato di King’s Landing Ned è onesto e svela le proprie carte a Cersei, la minaccia. E si condanna. La battuta di Cersei è tanto definitiva da essere diventata il claim dell’intera serie. Direi che merita la citazione: When you play the game of thrones, you win or you die. There is no middle ground2.
Non c’è una via di mezzo, e George Martin non perde quasi mai occasione per dimostrarlo, regalando quasi sempre ai puri, agli onesti, ai giusti e ai buoni dei destini a senso unico. E se la testa dell’onesto Ned Stark verrà trafitta su una lancia ed esposta per settimane sulle mura di King’s Landing, a quasi tutti gli altri non va 2. Quando lotti per il trono di spade, vinci o muori. Non c’è una via di mezzo
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meglio: il buono per eccellenza, Robb Stark, in missione per vendicare l’uccisione del padre, onesto, coraggioso e cocciuto quanto lui, muore malino, e finisce con la testa del proprio metalupo al posto della propria. Forse ancora peggio finisce il più giusto di tutti, Oberyn, la cui testa esplode tra le mani del peggiore di tutti, Gregor Clegane, The Mountain. Diverso, almeno per il momento, è solo il destino di Jon Snow. La sua testa infatti è ancora al suo posto, e speriamo che lì resti ancora un po’, visto che ci si aspetta grandi cose da questo ingenuo ‘bastardo’. Ma Jon, in più di un’occasione,
proprio per la sua purezza, la testa la rischia sul serio. Siamo nel Craster’s Keep, siamo beyond the wall. La puntata è la numero 5 della quarta stagione. Nell’assalto dei Night’s Watchers contro gli ex fratelli che hanno tradito il giuramento, Jon Snow, la sua onestà e il suo spadone si trovano faccia a faccia con Karl Tanner, un gran figlio di puttana armato di due spade corte. Il duello dura poco, l’arroganza di Karl Tanner diventa una piccola lezione per Jon, e, anche qua, merita la citazione. Mentre le spade corte di Tanner tempestano Jon, che si difende ma viene ferito, il traditore che si crede
Jon Snow in Game of Thrones
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libero attacca Jon Snow anche a parole: «You know how to fight in a castle?» dice Tanner, che continua, «Some old man teach you how to stand, how to parry? How to fight with honor?3». Poi il quid, la frase definitiva della lezioncina sull’onore di Tanner, prima di disarmare Jon: «You know what’s wrong with honor?4» gli chiede Tanner, e intanto trasforma in pratica la sua lezione, sputando in faccia a Jon e facendogli uno sgambetto che lo butta a terra. È finita, Jon sta per pagare con la vita, quella tassa quasi inevitabile che i puri pagano al tavolo del gioco del potere. Delle peggiori lezioni del liceo ricordo soltanto un momento, uno di quelli rari ma che ogni tanto accade, quello in cui il professore si decide a interrogare, ma viene interrotto provvidenzialmente dalla campanella. Jon Snow non è a scuola, anche se da Tanner ha imparato una bella lezione.
La campanella di Jon Snow è la vendetta di una delle mogli di Craster, è il coltello con cui pugnala alle spalle Tanner e che salva la vita a Jon, che non se lo fa dire due volte e trafigge la testa del suo avversario. Chissà quanto sarà stata preziosa questa lezione per Jon, forse non lo sa nemmeno George Martin, ma tant’è, perché la regola è immutata: i buoni, i puri, gli onesti e i giusti in Game of Thrones sono carne da macello, a meno che non intervenga la buona sorte, che è poi la più visibile forma di amore di Giorgione Martin per i suoi personaggi – più fortunati di quelli di Michael Dobbs di House of Cards, che quando sbagliano pagano. Sempre.
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3. Sai come combattere in un castello? […] Qualcuno ti ha insegnato la postura, a schivare? Come combattere con onore? 4. Sai qual è il problema dell’onore?
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Il declino della società è uno spettacolo Lo zombie in �e Walking Dead e Dead Set di Carlotta Susca Diciamoci la verità: con la quinta stagione The Walking Dead ha perso smalto. Quella che si è configurata per almeno tre stagioni come una interessantissima indagine sulle forme associative dell’umanità sta tendendo ora alla stanca ripetizione di sé stessa, con conseguente sfiducia degli spettatori – e ironia serpeggiante sull’eventualità che nelle puntate succeda qualcosa.
Eppure si tratta di una distopia possibile e temibile, una lucida analisi delle interazioni umane al netto delle sovrastrutture societarie stratificatesi nei secoli: come si configura la società se l’umanità si resetta? Non ha tanta importanza la presenza degli zombie, non è lì che tende la narrazione. Lo zombie è da sempre il pretesto per parlare d’altro, al 52
punto che una miniserie come Dead Set è tanto lontana da TWD come lo è un trattato di antropologia da uno sui mass media. Se in principio era Carpenter, e lo zombie come metafora del consumatore eterodiretto, non presente a sé stesso, a parità di strumento (la figura del non-morto) la società attuale impone di attribuire nuovi significati e di veicolare nuovi sottotesti. Lo zombie diventa un elemento fantascientifico
capace di aggregare attorno a sé altri significati: in The Walking Dead la fobia del contagio e della guerra batteriologica contamina la figura del non-morto fino a farne lo strumento dell’azzeramento della società per concentrare l’attenzione sulle dinamiche relazionali fra i vivi (è questo l’evidente fulcro tematico: lo zombie è una sostituibile minaccia esterna e il contagio è solo la spiegazione all’annullamento della società).
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Un frame della prima stagione di The Walking Dead
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Lo sguardo degli zombie in Dead Set
Anche in Dead Set (2006, sceneggiatura dello stesso Charlie Brooker che ha creato Black Mirror) ciò che conta è lo sguardo dello zombie, che diviene opaco, fisso, ipnotizzato dalla visione di programmi spazzatura. Brooker ha fatto qui le prove generali per la ben meglio riuscita analisi sui mass media portata avanti (egregiamente) con Black Mirror. Non è un caso, infatti, che lo stesso sguardo vitreo degli zombie di Dead Set si ritrovi nel terzo episodio della prima stagione di Black Mirror, The Entire Story of You: qui un dispositivo innestato dietro l’orecchio consente la registrazione e riproduzione dei ricordi – il che aggiunge elementi alle liti coniugali e alle accuse di tradimento: la paranoia ha un nuovo alleato tecnologico.
I reality sono l’obiettivo polemico di Brooker, la possibilità di spettacolarizzare i ricordi e quindi le esistenze individuali rendendo l’umanità allo stesso tempo protagonista e spettatrice in un continuo rilancio e riciclo delle esistenze. Dead Set polemizza in maniera evidente sulla spettacolarizzazione della quotidianità, dato che la storia ha come fulcro il set e la redazione di una edizione del Grande Fratello (un occhio anche nel marchio della trasmissione).
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Il pubblico di zombie che preme alle porte della casa in cui risiedono i partecipanti è lo stesso che assisteva all’eliminazione settimanale in diretta, ed è veloce e vorace, aggressivo (nulla a che vedere con i non-morti lenti e scoordinati visti altrove). La fantascienza ha come obiettivo, qui, non più il consumatore ma lo spettatore, reso ottuso, assente, proprio dal bombardamento di immagini, di storie prive di elaborazione artistica. Il pubblico diventa inumano per via della fruizione non più di fiction ma di reality show, spettacoli che non veicolano altro se non sé stessi, che fanno della quotidianità (fasulla) il loro oggetto e fulcro. Non è il consumo di storie a istupidire, ma la loro degenerazione a immagini voyeuristiche, prive di messaggio, senza direzione (la regia si limita a dare dei personaggi in pasto al pubblico, per l’appunto). Se lo zombie di Dead Set è lo spettatore, i walkers
di The Walking Dead non contano in quanto metafore: occorre puntare l’attenzione sui vivi, anche loro ‘morti che camminano’, come i condannati alla pena capitale. Sono loro ad avere la responsabilità di farsi continuatori dell’umanità, e di ricostruire le basi della società da zero. Come possono farlo? Innanzitutto riconoscendo la propria specificità, comprendendo cosa li differenzia dagli zombie: un filone tematico delle prime stagioni riguarda proprio l’ambiguità nella considerazione dei walkers. C’è ancora umanità in loro? Conservano ricordi? Hanno la possibilità di essere salvati? Esiste una cura? No. I vivi sono soli con sé stessi. Come rifondare quindi la civiltà? Includendo o escludendo? Minacciando o proteggendo? Sicuramente trasformandosi da nomadi in stanziali, ripercorrendo le tappe della civiltà per come è naturale farlo e per come abbiamo tutti appreso che hanno fatto i nostri predecessori.
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Il gruppo capitanato da Rick Grimes passa dall’accampamento e dalla razzia al tentativo di coltivare la terra che circonda il carcere in cui si rifugiano; dalla tribù capitanata dal più forte all’oligarchia dei padri fondatori (che pure ha un primus inter pares, sempre Rick Grimes). Ma altri gruppi hanno trovato diverse forme associative: bande di criminali senza scrupoli si reggono sulla rivendicazione immediata (basta dichiarare il possesso di un bene per ottenerlo), così come la società retta dal Governatore è invece una tirannide che richiede asservimento. Non è ancora tempo per la stanzialità. A Terminus il cannibalismo mira al sostentamento di un gruppo a spese di qualsiasi altro (che viene attratto con l’inganno); nell’ospedale di Atlanta lo Stato di polizia è un’ulteriore forma di dittatura retta dall’inflessibile agente Dawn; nemmeno la
Chiesa di padre Gabriel ha dato una risposta alla ricerca di rifugio. La quinta stagione, appena conclusasi, esplora l’utopia di Alexandria, retta da un membro del Congresso, Deanna: siamo alla gestione sul modello della politica, per cui c’è chi provvede al bene del popolo facendo proprio un mandato basato sul consenso e sulla delega dei poteri. Ma l’umanità non è ancora pronta, servono ancora un Capo delle forze dell’ordine e un esercito di guerrieri a lui legati da vincoli di lealtà. Siamo ancora all’Impero romano, e gli spettatori stanno assistendo all’attualizzazione della Storia dell’umanità, alla riproposizione del suo sviluppo in un modo che colpisce più dei period dramas (le fiction con ambientazione d’epoca) perché si tratta, qui, di una società che è la nostra e che è legata al sottile filo delle reti elettriche per sopravvivere. Basterebbe poco per rompere tutti gli equilibri esistenti e trovarsi a 56
dover ricordare come si faceva a reggere la sovrastruttura politica e societaria che oggi diamo per scontata. Che la causa sia una epidemia è il timore serpeggiante negli ultimi anni, fomentato dalle minacce batteriologiche. Non è un caso se la trasfigurazione
fantascientifica non prende più le mosse da minacce aliene bensì da un malessere che nasce in seno alla società, da un virus di cui tutti sono portatori.
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Il cast di The Walking Dead
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Bad Guys 58
Un supervillain non ha passato Rust Cohle, Walter White e John Locke a confronto di Marina Pierri È anzi mia opinione che il male non possa mai essere radicale, ma solo estremo; e che non possegga né una profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. È una sfida al pensiero, come ho scritto, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s’interessa al male viene frustrato, perché non c’è nulla. Questa è la banalità. Solo il Bene ha profondità, e può essere radicale. Hannah Arendt, La banalità del male
Quando penso all’incarnazione del male al cinema mi vengono in mente due esempi. Il primo è il Joker del Cavaliere oscuro di Christopher Nolan, così come interpretato da Heath Ledger. Il secondo, possibilmente più complesso e feroce, è Anton Chigurh di Non è un Paese per vecchi dei fratelli Coen.
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Heath Ledger è il Joker di Christopher Nolan
Javier Bardem è Anton Chigurh in Non è un Paese per vecchi dei fratelli Coen
Perché proprio questi due personaggi e non qualcun altro? La spiegazione sta nell’esergo di Hannah Arendt. Entrambi sono superficiali, micidiali e invadenti come spore, ed entrambi corteggiano il nulla e la cieca casualità del fato, certo, ma qualcosa di più profondo li accomuna: la mancanza di origini. In un mondo pop ossessionato dai supereroi, i
fumetti si portano dietro una lezione molto importante: la genesi conta. SpiderMan è nato a causa del morso di un ragno. Thor proviene dal cielo degli dei normanni. Superman è un alieno malinconico. Il Dottor Manhattan di Watchmen di Alan Moore è stato vittima di un esperimento nucleare. È assai difficile rintracciare un eroe privo di origin story: 60
anche quand’è strano, curioso, bizzarro oppure ombroso sappiamo esattamente da dove viene e perché è diventato così. Lo stesso, in linea di massima, vale per i loro antagonisti. Il Joker e Anton Chigurh, invece, sono supervillains dati ossia senza ragion d’essere: «some people just want to watch the world burn1», recita Alfred nel Cavaliere oscuro. Proprio Nolan gioca con il Joker, che racconta a ciascuno una storia differente sulla formazione della sua cicatrice generando la mise en abyme delle origini di un cattivo confuso che confonde. E di fronte all’assenza di movente, sia pure una ‘normale’ sete di vendetta, la razionalità si ferma. Resta un caos immanente che sfugge alle categorie ed è dunque terrorizzante perché 1. Certe persone vogliono solo vedere il mondo bruciare
incomprensibile, inumano. Perché nulla è più umano della nascita, di qualsiasi nascita si tratti, anche di quella del male. Nelle serie televisive, lunghi feuilleton contemporanei volti per vocazione all’analisi compulsiva soprattutto di matrice psicologica, il male assoluto è una merce di scambio assai poco agevole per un protagonista. Penso a tre personaggi chiave degli ultimi anni per osservare il fenomeno: passano per bad guys, cioè per uomini cattivi, ma restano uomini nella misura in cui sappiamo da dove vengono e perché agiscono… Quindi non ci spaventano mai davvero. Anzi, finiamo per amarli. Si tratta dei tre antieroi Rust Cohle (True Detective), Walter White (Breaking Bad) e John Locke (Lost).
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Rust Cohle è il primo della lista perché tra tutti è il più eroico nel senso tradizionale del termine: il male, per il personaggio di True Detective, è una pratica ossia un mezzo per un fine dai connotati fortemente concreti. L’eccesso di droghe, le maniere forti, lo scollamento completo dalle più elementari regole sociali fanno di lui un paria trasformato in cocciuto crociato del bene.
Proprio la genesi di Cohle, del resto, è traumatica: la perdita della figlia. La stessa che l’ha dotato di un interessante superpotere, la totale noncuranza nei confronti del superfluo, di ciò che è terreno e quotidiano. C’è di più: delle tre figure che includono White e Locke, è l’unico a votare ciò che resta della sua esistenza alla lotta contro l’orrore (il Re Giallo).
Le diverse incarnazioni di Matthew McConaughey in True Detective
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Bryan Cranston è Walter White/Heisenberg in Breaking Bad
Un altro paio di maniche è Walter White, antieroe assai più vicino a un cattivo poiché – per quanto abbia una origin story chiara, ossia il cancro da cui peraltro guarisce – la sua gestione del male è fine a se stessa, figlia di una ricerca
spasmodica di affermazione che, nei fatti, poco ha a che fare con il prendersi cura della sua famiglia e molto, invece, ha a che vedere con l’ossessione del controllo. Il Mr White dello show di Vince Gilligan, in altre parole, flirta 63
Terry O’Quinn è John Locke in Lost
con il lato oscuro fino a farsi del tutto compromettere per poi scoprire – nella sua parabola ascendente e poi discendente, alla quale un po’ siamo costretti e un po’ vogliamo assistere – che il male, appunto, è banale. Incontrollabile per definizione. Inoltre Walter viene sanzionato per la sua ascesa demoniaca, prigioniero di un’onnipotenza che lo mastica e lo sputa riavvicinandolo, infine, all’opposto manicheo del bene. John Locke, infine, è un esempio molto singolare perché include il macrotema del doppio. Se avete guardato
Lost fino alla fine, che l’abbiate gradito o meno, sapete che l’antieroe John è molto meno buono di quel che sembra all’inizio, fino a diventare del tutto bad nella sua seconda incarnazione che, non casualmente, è proprio quella di male assoluto (il cosiddetto Man in Black/Diavolo opposto a Jacob/Dio). Il suo percorso presenta punti di contatto tanto con Rust Cohle quanto con Walter White: come il primo, sull’isola diviene distaccato, mistico e vocato alla causa fino ad abbandonare 64
tutto ciò che è mondano, come il secondo finisce per volare troppo vicino al sole da novello Icaro, perduto nel chiasmo tra tracotanza e debolezza. Come nessuno dei due, invece, nella sua seconda vita diviene un rarissimo caso di protagonista banalmente maligno, comunque confermandosi – per certi versi – il più pericoloso e sbagliato della triade. Insomma i bad guys sono morti, lunga vita ai bad guys: il tipico protagonista della
serialità televisiva più geniale degli ultimi anni (mi riferisco anche al Frank Underwood di House of Cards) corteggia il male – fino ad abbracciarlo del tutto – per vincere nella guerra contro se stesso; ma lo seguiamo talmente da vicino da perdonarlo alla luce del suo movente, della sua genesi di villain, delle sue origini. Il viale del tramonto, del resto, è lastricato dalle carcasse dei nostri antieroi preferiti.
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Come realizzare gli omini-lattina (metodo Rust Cohle): 1. Materiali: lattina vuota, coltello 2. Rimuovi la parte superiore e quella inferiore 3. Taglia in senso verticale e appiattisci 4. Taglia e piega la cima 5. Taglia le braccia e le gambe 6. Piega le braccia e le gambe 7. Piega i piedi 8. Sistema l’equilibrio 9. Fuma. Ripeti
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Per chi fai il tifo? Breaking Bad: dalla parte del cattivo di Carlotta Susca
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robiN: You’re really telling me that when you watch The Karate Kid, you don’t root for Daniel-san? – Who do you root for in Die Hard? barNeY: Hans Gruber, charming international bandit. At the end, he died hard. He’s the title character. R.: Okay, The Breakfast Club? B.: The teacher running detention. He’s the only guy in the whole movie wearing a suit. R.: I got one. Terminator. B.: What’s the name of the movie, Robin? Who among us didn’t shed a tear when his little red eye went out at the end and he didn’t get to kill those people? I’m sorry. R.: I am never watching a movie with you ever again. B.: They didn’t even try to help him!1 In How I Met Your Mother (S04E15) scopriamo che lo sciupafemmine Barney Stinson non è lo spettatore ideale dei film: è immune alla naturale identificazione del pubblico con il personaggio principale, e preferisce schierarsi dalla parte di personaggi marginali – meglio ancora, dalla parte degli antagonisti.
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1. robiN: Mi stai dicendo davvero che quando guardi Karate Kid non fai il tifo per Daniel-san? – Per chi tifi in Die Hard? barNeY: Per Hans Gruber, affascinante bandito internazionale. Alla fine, è lui il duro a morire. È lui il personaggio del titolo. R.: Va bene, e in Breakfast Club? B.: L’insegnante che dà la punizione. È l’unico nell’intero film a indossare un completo. R.: Eccone un altro. Terminator. B.: Qual è il nome del film, Robin? Chi fra di noi non ha versato una lacrima quando il suo piccolo occhio rosso è uscito alla fine e lui non ha ucciso quelle persone? Mi dispiace. R.: Non guarderò mai più un film con te. B.: Non hanno neanche tentato di aiutarlo!
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Un frame della prima puntata di Breaking Bad
Ogni narrazione mette in atto strategie che inducono il fruitore ad adottare il punto di vista di un personaggio, e tradizionalmente l’eroe è il personaggio positivo le cui vicissitudini sono viste con empatia, facendo propri i suoi affetti, le sue idiosincrasie, ed ereditandone i nemici, che diventano automaticamente anche i nostri antagonisti (fino al punto da cercare di dialogare con loro, a suon di insulti, superando la barriera della pagina o dello schermo – e in questo i social network consentono di dare
voce e consistenza ai nostri commenti). Adottare il punto di vista suggerito garantisce al fruitore della storia un equo trattamento: l’eroe vincerà o la sua sconfitta acquisterà un significato, e noi saremo gratificati dalla chiusura di un cerchio narrativo. (Sono poi noti i casi in cui la condizione privilegiata di un personaggio fornisce una serie di garanzie ulteriori: si pensi alla resurrezione di Sherlock Holmes, più forte di Arthur Conan Doyle al punto da 68
nei romanzi (e nelle omologhe narrazioni seriali): non c’è manicheismo, e tutto sconfina in una zona grigia.
beffarsi dei suoi propositi di sbarazzarsi di lui). Chi parteggia per i bad guys si trova inevitabilmente a fare i conti con la loro sopraffazione, e il massimo che possa ottenere è una loro redenzione in punto di morte, o una sconfitta onorevole. Se l’antagonista assurge a nemesi del personaggio principale, il loro scontro diventa quasi il vero protagonista della storia, il che consente di attribuire pari dignità ai due contendenti (Moriarty è un degno avversario di Sherlock). Ma la fluidità dei meccanismi di base della narrazione – per tagliare con l’accetta – fa sì che quella che nell’epica (e nelle omologhe storie di supereroi) è una contrapposizione netta diventi invece sempre più opaca
Ed eccoci al grigio*: Breaking Bad non solo fa sì che lo spettatore adotti il punto di vista del bad guy, va oltre: spiega il processo che conduce lungo la strada della malvagità costituendo, di fatto, il racconto delle attenuanti a quei comportamenti che, guardati oggettivamente e in medias res, sarebbero condannati senza appello. The Godfather non è solo uno dei possibili modelli, ma sembra essere la matrice che ha generato la storia di Walter White. Ascoltare le ragioni di chiunque non può che portarci a comprenderle – e a giustificarne i comportamenti.
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* I colori di Breaking Bad
Dalla fusione dei nomi di Walter White ed Elliott Schwartz [= ‘nero’] ha origine la Gray Matter, società da cui White si è tirato fuori anni prima delle vicende di BB. La materia grigia è, ovviamente, polisemica perché ambigua nel colore e perché si riferisce all’intelligenza (e, quindi, ai suoi usi: al servizio della ricerca o della creazione di un impero del male). Anche Jesse ha un cognome colorato: Pinkman (fosse stato un nome d’arte, lo avrebbe portato malvolentieri come il Mr Pink delle Iene di Tarantino).
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Bryan Cranston e Giancarlo Esposito nei panni di Walter White e Gus Fring
Guardare BB è come vedere I soliti sospetti dal punto di vista di Keyser Söze, sapendo sin dall’inizio che il personaggio di Kevin Spacey è ‘il diavolo’, e cionondimeno tifando per lui. Non importa quanto Walter White ci sia sembrato umano, quanto siamo portati a condividere le sue scelte e quanto ne comprendiamo le motivazioni (apparenti:
lui stesso ammette di non aver agito nell’interesse della famiglia – «I did it for me»), perché ci ritroviamo a seguire, nelle stagioni centrali, le vicende di un personaggio senza scrupoli, non disposto ad ascoltare i pareri altrui e fermamente convinto che la sua strada sia quella da perseguire, ad ogni costo. L’unico modo per essere al riparo dalla furia 70
di Heisenberg è tributargli lealtà incondizionata: quella che lui stesso si aliena strumentalizzando chiunque (il suo partner in affari Jesse si rende conto solo verso la fine di essere trattato come un puppet – e le mani di un burattinaio sono quelle che accompagnano la testata del Padrino, non a caso). Che la moralità liquida, l’immoralità giustificata siano l’oggetto principale di una serie televisiva che ha riscosso un enorme successo di pubblico e critica, e che il motore primo del processo di breaking bad, ‘diventare cattivo’, sia l’assenza di soldi è profondamente significativo. Se apparentemente la narrazione muove dalla battaglia di un Davide intelligente quanto insignificante (il professor White, insegnante di liceo) contro un Golia enorme e inattaccabile (il cancro), questo è solo lo spunto contingente per la presa d’atto della necessità di procacciarsi soldi, e farlo in fretta: le stesse cure sono troppo costose (le critiche al sistema sanitario statunitense
sono note a chiunque), e non c’è legacy da trasmettere che sia più importante del denaro – è l’unico lascito di cui i figli di White possano realmente aver bisogno. Poi però a Walter White comincia a piacere troppo essere Heisenberg, e – ci suggerisce la narrazione – come dargli torto? La signora White tratta suo marito con bonaria accondiscendenza (il suo regalo per il cinquantesimo compleanno è una masturbazione distratta), gli studenti del liceo si fanno beffe di lui quando lo ritrovano a lavare le auto nel Car Wash in cui lavora per arrotondare il magro stipendio di insegnante, e perfino il primogenito preferisce farsi chiamare Flynn, rifiutando la legacy del nome paterno (Walter junior). Essere Heisenberg consente per la prima volta a White di essere temuto e rispettato. È forse quindi il denaro ad essere il protagonista dell’intera storia? No, è la dignità. Che, capisce presto e bene Walter, è data, oggi, dal denaro.
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�e Badfather Il Padrino come modello di Saul Goodman di Carlotta Susca
Quando (S02E08 di Breaking Bad) Saul Goodman va a trovare Walter White nella sua aula di Chimica, questo teme un ricatto, ma si tratta solo della proposta di protezione legale: saul: I’m your lawyer. Anything you say to me is totally privileged. […] Even drug dealers need lawyers, right? Especially drug dealers. […] Walter: What exactly are you offering to do for me? S.: What did Tom Hagen do for Vito Corleone? W.: I’m no Vito Corleone. S.: No shit! Right now, you’re Fredo1. 1. saul: Sono il tuo avvocato. Qualsiasi cosa tu mi dica è completamente confidenziale. […] Perfino gli spacciatori hanno bisogno di avvocati, giusto? Specialmente gli spacciatori. […] Walter: Esattamente cosa stai proponendo di fare per me? S.: Cosa ha fatto Tom Hagen per Vito Corleone? W.: Io non sono Vito Corleone. S.: Cazzo, no! Al momento, tu sei Fredo.
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Nella quarta stagione (E03) la signora White, Skyler, capisce che bisogna che tutto cambi perché nulla cambi: il denaro guadagnato ‘cucinando’ metanfetamine va ‘ripulito’ con l’acquisto di una attività, e il suo proprietario va convinto. saul: Um, so the guy won’t sell, he won’t sell. sKYler: I don’t accept that. I don’t accept that he won’t sell. I – I think he just lacks the proper Motivation. saul: Motivation. […] You’re saying we make him an offer he can’t refuse?2 Non è Walter White ad avere come modello Il Padrino, ma Saul Goodman, l’azzeccagarbugli che – apprendiamo dallo spin off Better Call Saul – ha perfino cambiato il suo nome per risultare più rassicurante. Alcuni anni prima James McGill, fratello di un ben più affermato Charles, ha tentato di diventare un avvocato onesto, ma alla lunga ha scoperto che pagava di più ritagliarsi una fetta di pubblico all’interno della zona d’ombra ai margini della legalità, raccattando piccoli truffatori e membri di un popolino che si arrabatta con class actions. Non è credibile come avvocato che difende persone oneste – glielo dicono i suoi primi grossi clienti (colpevoli) –, così comincia a diventargli chiaro che la fetta di mercato a lui congeniale non è la stessa dello studio HHM, che gli lascerebbe le briciole, e nemmeno quella degli anziani truffati, ma quella dei colpevoli. James McGill decide di chiamarsi Saul Goodman: il suo nome suonerà vagamente soul – come ‘anima’ e come la colonna sonora della serie a lui dedicata –; il suo cognome dichiarerà, rassicurante, la sua bontà e semplicità. Il tutto suona come [that]’s all good, man (‘tutto bene, amico’): ciò che ci si aspetta da un azzeccagarbugli («All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle»). 2. saul: Uhm, quindi il tizio non venderà, non venderà. sKYler: Non lo accetto. Non accetto che non venda. Io – Io penso che gli manchi la giusta Motivazione. saul: Motivazione. […] Stai dicendo che gli dovremmo fare un’offerta che non può rifiutare?
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La spirale e il labirinto True Detective : il mondo ha bisogno di cattivi di Antonietta Rubino […] sto male e mi sono perso. Indicami, ti prego, la strada per Carcosa. Ambrose Bierce, Un cittadino di Carcosa
Se si riduce True Detective al rango di crime drama si rischia di rimanere delusi. Nell’epilogo delle vicende rimangono molti punti oscuri, il male non viene arginato, non tutti i colpevoli vengono assicurati alla giustizia – l’esecuzione di Reggie Ledoux e l’uccisione di suo cugino DeWall e di Errol Childress di
fatto assegnano un punto alla squadra dei criminali: l’unica persona che la polizia riesce ad arrestare è mentalmente instabile e non sarà in grado di aggiungere i tasselli mancanti alle indagini, e la morte, per soggetti tanto abietti, non può che costituire, stoicamente, un sollievo –, l’intreccio non viene sciolto completamente. Il racconto non torna del tutto, i requisiti del poliziesco non vengono soddisfatti. Eppure la serie scritta da Nic Pizzolatto conserva fino alla fine la sua potenza narrativa. E non perché l’interpretazione magistrale di 74
Un frame di True Detective
Matthew McConaughey renda lo spettatore più indulgente nei confronti della sceneggiatura. No, la vera ragione è che in True Detective la caccia al serial killer è soltanto un pretesto. Il vero nucleo della storia è la discesa negli inferi dei protagonisti alla ricerca del senso dell’esistenza. La spirale che segna i corpi delle vittime è l’espressione visiva dell’intero significato della narrazione e della sua struttura, dà una forma concreta alla conclusione che non tutte le tessere vadano a posto e che il cerchio non si chiuda. Se per
il detective Cohle è uno degli indizi che fanno sospettare sin dalle prime battute che l’omicidio di Dora Lange non sia isolato e sia da ricondurre a un rituale satanico, ad un livello più profondo il simbolo che dagli albori dell’umanità accompagna i corredi funerari rappresenta il percorso che compiono i due protagonisti: rimanda alla vita dopo la morte, alla rinascita, all’evoluzione da un punto di origine – la morte della figlia di Rust, la distruzione della famiglia a causa del comportamento superficiale di Marty –; è la 75
traduzione grafica della ciclicità della vita. La spirale racchiude la concezione nietzschiana dell’eterno ritorno su cui si regge la serie, ma rappresenta anche la vertigine (anch’essa nietzschiana) che coglie chi guarda nell’abisso. È chiaro che, mentre seguiamo le indagini, mentre cerchiamo di ricostruire in maniera ordinata e lineare il quadro della storia che Cohle e Hart stanno riportando nell’interrogatorio separato a Papania e Gilbough, mentre si fa strada la sensazione che l’organizzazione criminale sia così tentacolare che non sarà semplice svelare l’identità del Re Giallo, capiamo che le vicende umane dei protagonisti hanno un peso importante nella storia. E ci accorgiamo anche che ci stiamo smarrendo insieme ai personaggi. Noi stiamo tentando di orientarci nel racconto, loro nella vita. Stiamo vagando in un labirinto, e l’analessi, l’andare avanti e indietro nel tempo, i vicoli ciechi, riproducono questo movimento erratico. Il significante, insomma, riflette
il significato. E questi meandri complicati si materializzano davanti ai nostri occhi quando finalmente, dopo diciassette anni, i due detective trovano la misteriosa ‘Carcosa’: una successione di stanze e corridoi di rami intrecciati dove sono sepolte le macerie dei sacrifici umani consumati. Lo sviluppo delle vicende ci ha condotto, dunque, all’interno di un archetipo universale: come Teseo a Cnosso, Cohle deve fronteggiare una creatura mostruosa – Childress non è solo malvagio, incarna fisiognomicamente l’orrore: il suo volto è deturpato da profonde cicatrici – per porre fine al tributo di sangue che il Sud della Louisiana paga da oltre vent’anni. E con lui, va da sé, deve affrontare i propri demoni personali. Topos polisemico, dunque, il labirinto: è la perdita della rotta, e la sua riconquista (una volta superate le prove), rappresenta l’impossibilità di raggiungere la verità assoluta (il guardiano del cimitero è uno degli autori delle violenze, ma là fuori ce ne possono essere 76
Matthew McConaughey è Rust Cohle
tanti altri). Il suo centro, l’antro dove avviene la colluttazione finale, è l’emblema del grembo materno: dall’oscurità dell’utero dopo il travaglio – le estenuanti ricerche che culminano nelle ferite quasi mortali ricevute da Rust e Marty – viene alla luce una nuova vita. La rinascita passa dall’esperienza personale della morte (il coma), grazie alla quale Cohle riesce, finalmente, a elaborare il lutto.
La catarsi dello spettatore coincide con quella dell’eroe tragico: la messa in scena del male assoluto, del dolore e della colpa ci induce a razionalizzarli e a portali al livello della coscienza, e quindi ad esorcizzarli. Nella amletica ricerca dell’identità abbiamo però scoperto che la contrapposizione fra Bene e Male non è più manichea e che gli eroi non hanno più il costume immacolato.
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Woody Harrelson e Matthew McConaughey
hart: You ever wonder if you’re a bad man? cohle: No, I don’t wonder, Marty. The world needs bad men. We keep other bad men from the door1. Se Rust è consapevole dei propri lati oscuri – che esplodono con tutta la loro irruenza durante la rapina al quartiere dove risiede la gang rivale del biker Ginger [Who Goes There, S01E04] – e se ne serve per combattere i veri criminali (quelli moralmente spregevoli, che perseguono il male assoluto), conservando una certa integrità, Marty, invece, non si rende conto di essere tutt’altro che un
brav’uomo – tradisce sua moglie Maggie, eccede nell’alcol, si rivela un padre distratto. Per questo Rust è forte, Marty no, e ha bisogno di lui per guardarsi allo specchio e riconoscere la sua vera natura. In altre parole sono cattivi, ma stanno dalla parte giusta. D’altronde, questo genere di personalità controversa è tipica dei personaggi che prendono su di sé il compito gravoso di tenere il male ai margini del mondo: un esempio su tutti è Sherlock Holmes, che con il detective Cohle condivide l’incapacità di integrarsi nella società e le dipendenze. Peccato che Marty Hart non abbia nessuna delle qualità di John Watson.
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1. hart: Ti chiedi mai se sei cattivo? cohle: No, non me lo chiedo, Marty. Il mondo ha bisogno di cattivi. Noi teniamo gli altri cattivi fuori dalla porta
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Frame della sigla di True Detective
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Garmonbozia come merce di scambio
Le porte del male in Twin Peaks di Michele Casella 80
I got idea man You take me for a walk Under the sycamore trees The dark trees that blow baby In the dark trees that blow And I’ll see you And you’ll see me And I’ll see you in the branches that blow In the breeze, I’ll see you in the trees Under the sycamore trees Sycamore Trees (Twin Peaks: Fire Walk With Me Soundtrack, testo di David Lynch, musica di Angelo Badalamenti)
Qualora i concetti di spazio e di tempo in Twin Peaks abbiano un significato assimilabile a quello del nostro mondo, esistono un preciso istante e un preciso luogo in cui lo spirito razionale dell’agente speciale Dale Cooper riesce a penetrare la coltre di mistero in cui è immersa questa particolare cittadina. All’interno del Ghostwood National Forest, a meno di cinque chilometri dal confine fra lo Stato di Washington e il Canada, il buon Dale segue le tracce di Windom Earle, sua nemesi dalla «mente simile a un diamante: fredda, dura e brillante»1. Da poche ore l’ex collega ed ex migliore amico di Cooper ha rapito Annie Blackburn, la fanciulla interpretata da una giovane Heather Graham, trascinandola nell’oscurità della Loggia Nera. E proprio nel bosco, all’ombra dei rami dei sicomori, Dale attraversa lo spazio invisibile che unisce i due mondi, spezzando i confini dell’irrazionale grazie ad un intreccio di intuizione, spirito di analisi, coraggio. E paura.
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1. Twin Peaks, S02E14, Double Play (Doppio gioco)
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Kyle MacLachlan è l’agente speciale Dale Cooper
Nel serial ideato da David Lynch e Mark Frost questo passaggio, sia fisico che spirituale, viene raramente compiuto da chi non sia stato ‘ invitato’ dagli abitanti della Loggia. Sono gli stessi spiriti, infatti, a scegliere quelli che possono risultare utili alle loro attività, ammaliandoli e conquistandoli per piegarli alle loro esperienze di dolore e sofferenza. In Twin Peaks i confini tra il bene ed il male da principio possono sembrare chiari e distinti. Ci sono due Logge, quella bianca e quella nera. Ci sono due fazioni in lotta, i tutori della legge e i criminali. E ci sono i cittadini, singole
pedine di una scacchiera in cui si vive e si muore. Conoscere l’universo di Twin Peaks significa, invece, zoomare nel giardino di casa della provincia americana, proprio come Lynch aveva già fatto nei minuti iniziali di Blue Velvet. Perché ci vuole un occhio attento, che sia in grado di andare oltre lo strato verde dell’erba, per stanare il brulicare incessante degli insetti più neri, stipati gli uni sugli altri nei lerci anfratti di siepi rigogliose. In Twin Peaks il male è un elemento di alterità rispetto al concetto di natura umana. Spesso i personaggi più crudeli e perversi soffrono quanto le loro vittime, sobillati da spiriti che li possiedono e li 82
Ray Wise è Leland Palmer, padre di Laura
trasfigurano. In questo senso Leland Palmer, il padre di Laura interpretato in maniera straordinaria da Ray Wise, rappresenta alla perfezione il concetto di ‘assassino sofferente’ immaginato da David Lynch. Fin dall’episodio pilota lo spettatore incontra Leland e ne conosce l’afflizione e lo sconforto, la rabbia e il dolore. Con lo scorrere del tempo le sue eccentricità, i suoi repentini cambi di umore, il suo canto schizofrenico ed il suo ballo disperato restano impressi nelle memorie dello spettatore, ma è solo con l’avvicinarsi alla soluzione del caso che tutti questi elementi diventano indizi per la cattura dell’assassino.
La distanza fra l’indole umana e il male sta tutta in una – formidabile – sequenza di Fire Walk With Me. Leland ha da poco finito di cenare ed è nella camera da letto con la moglie. Il suo sguardo è contratto, arcigno, delirante e aggressivo, ancora saturo della rabbia riversata poco prima sulla figlia adolescente. Poi, d’improvviso, il suo viso si abbandona, la sua persona si arrende, e il suo corpo appare d’un tratto come un sacco svuotato, perso e vacuo. E allora Leland piange, entra nella camera di una Laura ancora annichilita e le bacia teneramente le mani, in una scena di una dolcezza che commuove e disorienta.
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Il male, dunque, entra ed esce dai corpi dei personaggi. Quando non risiede in queste abitazioni di carne e sangue, prende le sembianze di soggetti ambigui, spiriti ancestrali che rappresentano l’essenza stessa dell’inquietudine e del surreale. Il loro rifugio è la Loggia Nera, un luogo fuori dal tempo e dallo spazio a cui si accede attraverso varchi e traiettorie immaginifici. Primo fra tutti il bosco, non-luogo dalle dimensioni dilatate, dagli infiniti
nascondigli, dove anche «i gufi non sono quello che sembrano». È qui che Donna e James seppelliscono il ciondolo dal cuore spezzato, è qui che Bobby compie un omicidio sotto lo sguardo allucinato di Laura, è qui che il maggiore Briggs scompare misteriosamente ed è sempre qui che si rifugia il demone Bob dopo essere uscito dal corpo dell’omicida. Il bosco sembra circondare Twin Peaks come una cortina stregata e funge nello stesso tempo da elemento di
La Loggia Nera
separazione e congiungimento con la Loggia Nera. Fire Walk With Me – ancor più del serial televisivo – è rivelatorio rispetto a questi varchi che uniscono il mondo dei vivi a quello degli spiriti. In una delle scene più surreali e traumatizzanti della storia, Laura Palmer riceve un dono da una donna anziana e un ragazzino con una maschera bianca di cartapesta: un quadro su cui sono raffigurati un muro ed una porta chiusa. Alla sera, prima di coricarsi, la ragazza appende il quadro alla parete della sua camera, ma poco dopo la porta che vi è ritratta si apre e mostra la stessa Laura in piedi sulla soglia. Attraverso il quadro la reginetta della scuola avanza nella Loggia Nera, saltando nel futuro in un incontro agghiacciante con Annie Blackburn. Qualcosa di simile accade all’agente speciale Chester Desmond, interpretato da un imperturbabile Chris Isaak e risucchiato in un limbo di luce nel momento in cui raccoglie l’anello appartenuto alle vittime di Bob. Se questi ingressi verso la Loggia Nera, questi accessi
al Male più puro, hanno la raffigurazione di elementi reali e materiali, è comunque il sogno a creare il varco più diretto tra i due mondi. È grazie alle visioni oniriche che Cooper entra in dialogo con personaggi sconvolgenti come il nano e il gigante, ed è sempre in sogno che Laura gli confida all’orecchio il nome dell’assassino. La dimensione onirica è per Lynch il suo spazio di maggior dinamismo creativo, ben presente fin dalle sue primissime opere (una su tutte: il cortometraggio The Grandmother) e poi intrecciatasi con la sua profonda fede nei benefici della meditazione trascendentale. Come viene perfettamente esplicitato nel volume da lui scritto In acque profonde, le idee e le intuizioni derivano direttamente dal proprio inconscio. Immergersi nel proprio io attraverso la meditazione richiede però grande spirito di perseveranza, mentre il sonno può metterci faccia a faccia con le verità già penetrate nel nostro io ma ancora sepolte nelle buie profondità del nostro spirito.
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La Signora Ceppo
Eppure, per avere accesso alle porte del Male non bastano solo oggetti e visioni. Sia ai più coraggiosi che ai più diabolici serve un elemento imprescindibile: la paura. Windom Earle se la procura attraverso il terrore di una Annie rapita e minacciata, che vede aprirsi un varco nel bosco verso un luogo di puro incubo, mentre Cooper ottiene un surrogato dalla Signora Ceppo che consiste in un olio dall’intenso odore di bruciato. È infatti chiaro che tutti questi elementi, da quelli materiali a quelli immateriali, non
rappresentano dei semplici varchi spaziali, ma dei veri elementi narrativi propri di un’indagine surreale. Ciò che accade a Twin Peaks possiede spesso i caratteri del subliminale, ma i movimenti, le parole e perfino gli eventi fisici che si compiono nella Loggia Nera e in quella Bianca trascendono la comprensione razionale della narrazione. Lo spazio moltiplica le proprie dimensioni, si frammenta in mille stanze rosse, si disperde in un labirinto che sconfigge anche il buon Dale, consegnandolo nelle mani del suo doppelgänger. 86
La fisica spezza le proprie leggi, confonde Cooper con un caffè ora liquido e un attimo dopo solido, avvolge i movimenti dei personaggi in spirali di totale stravolgimento. Ma quel che viene maggiormente deformato è il tempo. In sogno l’agente speciale vede se stesso invecchiato di 25 anni, a colloquio con una giovane Laura Palmer e al cospetto di un enigmatico nano dall’eloquio all’inverso. In maniera similare, Fire Walk With Me presenta il delirante agente dell’FBI Phillip Jeffries, per l’occasione interpretato da David Bowie. Il detective, ormai scomparso da alcuni anni, riappare nella sede del bureau mettendo in crisi l’impianto delle telecamere di sorveglianza e ponendo una domanda tanto assurda quanto verosimile per Twin Peaks: «Questo è il futuro o il passato?». L’unica spiegazione per il quesito impossibile è che Jeffries arrivi dalla Loggia Nera, in cui ha trascorso un tempo indeterminato e dove ha già incontrato Cooper in un prossimo futuro («Chi credete che sia lui?» domanda sprezzante, poiché ha
conosciuto dapprima il suo alter ego demoniaco). Il Male in Twin Peaks è dunque estraneo e allo stesso tempo assolutamente integrato in questo mondo tanto misterioso, prende la forma di personaggi demoniaci e di luoghi multidimensionali. I suoi spazi si trasfigurano, nascondono indizi e mostrano inquietudini, come in Fire Walk With Me, dove la follia, la paura e la violenta smania trovano azione attraverso gli atti di spiriti mai visti prima. Eppure, sebbene governati da leggi completamente differenti, questi due mondi sono avvinti da un legame indissolubile, basato sulla ricompensa più anelata: la garmonbozia.
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Uno dei frame finali della seconda stagione di Twin Peaks
All’apparenza simile ad una crema di mais, questa sostanza viene mostrata in una mefistofelica scena con protagonisti l’anziana signora Tremond e suo nipote Pierre. Compare poi in Fire Walk With Me, dove i demoni si riuniscono in un rendez-vous e in cui ognuno ha il suo tributo di garmonbozia, anche se in
quantità differenti. Per questa sostanza gli spiriti sono pronti a combattere fra loro, aiutarsi e ostacolarsi, perché ogni singola goccia è ricavata dal lento e ostinato stillicidio di dolore impartito alle loro vittime. La garmonbozia è l’essenza di cui si nutre il male, un concentrato di umiliazione e paura, violenza e coercizione, sangue e lacrime. 88
È il dazio che paga Leland Palmer all’ingresso della Loggia dopo l’omicidio di sua figlia, è il motivo per cui Mike (l’uomo con un braccio solo) minaccia Leland in auto. È, in poche parole, l’insostenibile angoscia che lo spettatore prova quando assiste all’omicidio di Maddy, l’intollerabile afflizione di una Laura Palmer torturata e uccisa in un vagone abbandonato della gelida Twin Peaks. È quel distillato di dolore che il pubblico subisce nel com-patire le sorti delle giovani vittime di questo serial, collegato al nostro mondo tramite un varco tanto ammaliante quanto comune: lo schermo di proiezione.
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Alcuni abitanti della Loggia Nera
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Cool
Claire Underwood {House of Cards}
Rust Cohle {True Detective}
Jesse Pinkman {Breaking Bad}
Dale Cooper {Twin Peaks}
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Dangerous
Walter White {Breaking Bad}
Jim Moriarty {Sherlock}
Frank Underwood {House of Cards}
Bob {Twin Peaks}
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Leader
Daenerys Targaryen {Game of Thrones}
Presidente Bartlet {The West Wing}
Rich Grimes {The Walking Dead}
Waldo {Black Mirror}
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Cialtroni
Saul Goodman {Better Call Saul}
Barney Stinson {How I Met Your Mother}
Lord Baelish {Game of Thrones}
Dottor Jacoby {Twin Peaks}
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Si ringrazia l’Apulia Film Commission
Storie (in) Serie narrazioni a puntate S01 {A cura di} Carlotta Susca • Antonietta Rubino {Contributi di} Michele Casella • Jacopo Cirillo Andrea Coccia • Francesco Costa Marina Pierri • Luca Romano Antonietta Rubino • Carlotta Susca {Layout} Carlotta Susca • Antonietta Rubino {Impaginazione} Carlotta Susca {Correzione di bozze} Tiziana Giudice {Fanno parte di Riga Quarantadue} Carlotta Susca Antonietta Rubino Tiziana Giudice Marianna Carabellese Giovanni Turi www.storieinserie.it www.rigaquarantadue.wordpress.com rigaquarantadue@gmail.com I’m the one who knocks I’m the danger