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#18 magazine indipendente gratuito
speciale inverno 2015
Gorgoglio & Precipizio 1
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Indice I racconti
Gli autori
5
Botte da orbi - Achille Funaro e il folle caso di Joseph Capgras
di A. Lattanzi
8
Peretola e la Sindrome di Morgellons
di D. Pasquini
11
Genesi del disturbo psicotico e Lucrezia. Introduzione
di G. Merlini
14
Romanzo autobiodrastico
di C. Morellato
21
scmfqeceqscdtpduoigemsemisdlqessepqinpmfoppicnssecivos tqpiqisaqvvcemsleelmselpeveisdlctqisaipmeinmediqm.it
di G. Magini
23
La salvezza
di P. Zardi
25
L'avventura di un selfiesta
di S. Cherchi e L. Simonetta
28
Come ogni lunedì, mercoledì e sabato
di V. Santoni
30
Un terribile amore per il meteo
di S. Lisi
Le illustrazioni 1 17 18 20
Insta Bill La verità mi fa paura Psicosi Il supplizio di Cotard
di BAU di L. Borri di M. Castelli di Discordia Corner AKA I. Meacci
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Flower Maic
di BAU
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Gorgoglio & Precipizio
Botte da orbi - Achille Funaro e il folle caso di Joseph Capgras
#1
Botte da orbi Achille Funaro e il folle caso di Joseph Capgras di Andrea Lattanzi
glio degli ingressi, fra pronostici azzardati e torve occhiate ai passanti. Un cameraman tiene il suo obiettivo fisso sul pubblico perché sa che se Bundu dovesse vincere si scatenerebbe un delirio. Ma Bundu non vince, tira un colpo e ne prende tre. Da un capannello di quattro ragazzi, uno di loro mormora che al Mandela la boxe vera non c'è mai stata, “colpa di quelli che giocano là”, allo stadio Artemio Franchi. A torto o a ragione, Achille Funaro è uno di questi. “Dov'è Capgras – pensa fra sé e sé – devo trovare Joseph Capgras”. La mattina, appena alzato, la ragazza lo ha salutato dicendo “ci vediamo stasera, un bacio”. Ma a casa lei non è più tornata. A un incrocio sui viali di circonvallazione ha avuto un incidente in macchina: morta sul colpo. “Non c'è più niente da fare” ha sentenziato il medico.
Luka è una boxer croata che si trova a Firenze per caso. Ha detto che una volta un ragazzo le ha tirato uno schiaffo ma poi lui è andato in coma. Achille Funaro, calabrese, residente a Firenze, l'aveva notata subito nella folla del palazzetto. Alta, gobba, coi capelli chiari e gli occhi celesti. Mille persone al Mandela Forum per assistere in diretta televisiva alla sfida fra Leonard Bundu e Keith Thurman, valida per la finale mondiale dei Pesi Welter in programma alla MGM Grand Garden Arena di Las Vegas. Non tantissimi ma neanche pochi: l'orologio segna le quattro del mattino. Mentre un tizio ricorda di quando è "stato dentro" e al bar cominciano a servire le colazioni, alle 4.10 il gong dà il via al combattimento. Fuori il clima è umido ed è davvero un peccato non poter fumare sugli spalti del Mandela. Qualcuno lo fa sul ci5
Botte da orbi - Achille Funaro e il folle caso di Joseph Capgras
#18 Riotvan
“Devo incontrare Joseph Capgras – rimugina adesso – lo devo trovare”. È marcio d'alcol e fa fatica a stare in piedi. Pure seduto, però, se la cava male e decide di bere una birra per riprendersi. Appoggiato al bancone c'è un uomo sulla quarantina, capelli ricci e occhiali da sole con lenti viola. Lo guarda e si sfila la montatura poggiandola sulla testa. Adesso anche Achille lo sta guardando. Da dentro il palazzetto sale l'urlo Bundu!-Bundu! ad incitare il campione tosco-africano che anche se non molla un colpo non riesce proprio ad entrare nella difesa dell'avversario statunitense. Destro-sinistro di Thurman ma ancora dagli spalti indomito il grido Bundu!-Bundu! e gli sguardi dei due si fanno più intensi. Achille pensa: “questo lo conosco, forse è Capgras, sì deve essere lui”. Bundu!-Bundu! – “No, non è Capgras. Ma chi è questo e perché mi guarda”. Fa finta di niente, distoglie gli occhi dai suoi e beve un sorso. Si volta ancora verso l'uomo. Bundu!Bundu! – e lui è ancora lì, fermo come una roccia al sole. Gong, fine dell'ottava ripresa e silenzio in sala. Il tizio afferra le sigarette e le chiavi sul bancone, sbuffa e se ne va. Passa di fianco ad Achille e borbotta: «Bundu non vince più, so chi sei. Vado a casa. Ciao». Bundu!-Bundu! – riparte il coro -. “E ora chi cazzo è questo? E dov'è Capgras?” pensa Achille. Passano altre tre riprese. Bundu perde, tutti tacciono ed escono in silenzio dal Mandela. Achille se ne sta in tribuna e li guarda uscire uno per uno. An-
che Luka, la boxer croata, si confonde fra i passanti ed esce dal palazzetto. Un'altra lacrima solca amara il viso d'Achille, mentre la vita gli scorre davanti silenziosa. Stava con Matilde da sette anni e lei, come lui, ne aveva ventisette. I ricordi prendono a schiaffi la faccia di Achille che non capisce, si sente confuso, stenta a non farsi male da solo. Ha paura, è immobile, con l'anima che spinge da dentro come se dovesse strappargli pelli ed ossa d'indosso. Una fitta fortissima lo attanaglia alla pancia. Si piega su sé stesso portando mani e braccia al ventre per lenire il dolore. Singhiozza vino e birra, tossisce, si strozza, sputa. A terra, sotto al suo viso, una pozza di lacrime, catarro e polvere imburra il pavimento del Mandela Forum. È l'unico rimasto sulla tribuna. Lui e centinaia di poltroncine vuote. Rialza lo sguardo, prende un respiro e decide di andare a casa. Non c'era ancora rientrato da quando aveva saputo di Matilde, non voleva farlo. Aveva spento il cellulare e, senza parlare con nessuno, aveva preso a vagare senza una meta. L'importante era trovare Joseph Capgras, solo lui avrebbe potuto aiutarlo. Ma adesso a casa doveva tornarci per forza, non aveva nessun altro posto dove andare. Per quel che ne sapeva, Joseph Capgras poteva essere anche lì. Dopo dieci minuti di cammino è sulla porta di casa. Tira fuori le chiavi contorcendosi dall'alcol e dall'esasperazione. Ci vede male, coi colori in tra6
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Botte da orbi - Achille Funaro e il folle caso di Joseph Capgras
sparenza che fanno riverberare gli orizzonti d'un giallo acrilico e nebbioso. Infila la chiave nella serratura girandola verso destra con il peso del suo corpo tutto. Il meccanismo scatta e la porta si apre. Lui entra. «Akel...hai bevuto?» una voce lo chiama dalla cucina. «Lasciami stare» risponde impastato Achille. «Akel lo sai non devi bere il giorno della medicina, lo sai». Dalla cucina attigua all'ingresso spunta fuori un uomo con la barba incolta, i capelli ricci e un paio di occhiali da sole con le lenti viola. È il tizio del Mandela. «Vieni qui, calmati – dice – che hai fatto oggi?». Achille è stordito, urla, strepita e tira calci al divano di casa. Solleva il piccolo tavolo a vetri al centro della sala e lo scaglia contro la credenza, mandando tutto in frantumi. Una grandinata di vetri avvolge la stanza. Ne afferra uno consistente e comincia a tagliarsi il petto sotto la camicia bianca. Prende il cellulare dalla tasca e lo accende, col sangue già mesciuto ai cristalli. Il telefono squilla, otto nuovi messaggi, sette sono di Matilde. Achille urla ancora e di nuovo il suono morbido del vetro ad affondare i suoi pettorali. L'uomo di casa arriva con una siringa, lo afferra per un braccio e inietta ad Achille un sedativo. «Matilde, Matilde – urla lui strozzato – è morta, è colpa mia, era qui… ». Achille si sveglia in ospedale. Vista annebbiata, una sensazione di torpore dalle spalle in giù. Davanti a lui la boxer croata e il tizio del Mandela lo guardano compassati. Bundu!-Bundu! gli pare di sentire ancora nella testa. «Dov'è Joseph Capgras?» chiede senza capire. La ragazza si avvicina al letto. Ogni secondo pare più dolce e nitida, lo accarezza. Sembra Matilde. Anzi no, è Matilde. «Akel ma che hai combinato ieri?» dice l'altro, barba incolta, capelli ricci e occhiali da sole con lenti viola come quelli di suo fratello. Anche lui, Riccardo, è suo fratello. «Non lo so» risponde Achille, che chiude gli occhi e si addormenta di nuovo. «Allucinazioni con comportamento instabile associate a schizofrenia paranoidea e depressione cronico-maniacale recidiva. È lui il paziente con la sindrome di Joseph Capgras che è arrivato ieri sera?» chiede un giovane medico entrando in stanza. «Sì» rispondono annuendo Matilde e Riccardo. «Mi hanno riferito... – afferra e legge la cartella clinica – di uno stato confusionale con convinzione delirante che le persone a lui care siano sostituite da impostori, o che, diversamente, perfetti sconosciuti assumano le sembianze di individui familiari ma il paziente non è in grado di riconoscerli nella sua allucinazione, giusto?» «Più o meno è così dottore» conferma Riccardo. «Non so se è propriamente sindrome di Capgras, dovremmo lavorarci su. Da quanto tempo presenta questo disturbo?» «Qualche mese» «E ne è cosciente?» «E chi può dirlo». 7
Andrea Lattanzi è più bello che intelligente. Nato a Carrara (Massachusetts) da un relazione extraconiugale fra Mikhail Gorbaciov e Margaret Thatcher, si interroga sin dalla più tenera età sulle forme e i modi di una restaurazione socialista a livello planetario. Il suo libro preferito è la biografia del pilota di Formula 1 Nigel Mansel, del quale ha imitato i baffi per un breve periodo. Tra i suoi libri più celebri mai usciti si ricordano "Storia di un campione mancato" e "Uouou il gruppo dei ninja - aneddoti, veleni e verità sulla poliarchia del maestro Splinder", entrambe allegorie grottesche del potere e di chi non ce l'ha.
Peretola e la Sindrome di Morgellons
#18 Riotvan
#2
Peretola
e la Sindrome di Morgellons di Daniele Pasquini
rino. Lei non era in grado di salire le scale e Luigi la scortò fino al portone dell’appartamento. Aperto l’ingresso, Tania svenne sullo zerbino: lui, con licenza poetica, vi lesse un invito ad entrare.
L’aveva convinta ad andare a letto con lui nonostante fosse molisano. Tania, ventottenne di Vercelli, velleità da modella, iscritta alla Lega Nord: non avrebbe mai acconsentito ad accoppiarsi con lui, se di mezzo non ci fosse stato un mezzo litro di vodka lemon. Lo aveva snobbato per settimane, nonostante Luigi, fiorentino da tre anni ma con radici e cuore nella provincia di Isernia, avesse già sperimentato ogni tecnica. Dai fiori all’ironia, dal concerto d’opera all’aperitivo elegante. Si erano poi incontrati per caso ad una festa universitaria (si fa per dire: lui, che la controllava, sapeva bene che lei sarebbe andata là). Luigi, mantenendosi sobrio, era riuscito grazie ad un meticoloso lavoro di bicchieri riempiti a far stravolgere lei. A fine serata l’aveva accompagnata a casa in moto-
Si risvegliò nel letto con Tania, che dormiva coi capelli sparsi ovunque ed emanava ancora vapori di vodka. Sul cuscino, dalla bocca di lei, una gora di bava come scia di lumaca, o come il rivolo del Mugnone in quel giugno asfissiante. Non avevano fatto niente, Tania non era in grado. Fosse stata in grado, quasi sicuramente, non avrebbe acconsentito. Ma era comunque un primo passo, considerò Luigi scostando il lenzuolo e recuperando in fretta i vestiti. Aveva appuntamento col professore per la tesi imminente. Sapeva che avrebbe dovuto lottare: a Scienze Politiche, aveva 8
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Peretola e la Sindrome di Morgellons
capito, non erano disposti ad accettare la sua tesi sulle scie chimiche (Controllo dall’alto: una lettura geopolitica sulle scie aeree di condensazione). Uscito dalla camera in punta di piedi cercò il bagno. Lo trovò, pisciò, si sciacquò la faccia. Dopo essersi strofinato contro uno degli asciugamani degli inquilini si soffermò sullo specchio.
nuovo senso di urgenza. “Circa dieci anni fa, professore, Mary Leitao, una giovane donna americana, scoprì la Sindrome di Morgellons. Trovò delle fibre colorate in alcune piccole piaghe sotto le labbra del proprio figlio. La comunità scientifica, capeggiata dalle multinazionali del farmaco, negò le sue scoperte. Ma oggi grazie a studi alternativi di cui intendo parlare nel secondo capitolo della tesi sappiamo che questo morbo, di cui purtroppo sono portatore, è strettamente correlato alle sostanze emesse dalle scie aeree di condensazione, meglio note come scie chimiche.”
Tania aprì gli occhi. Anche Maria e Jonathan, gli altri due abitanti della casa, si alzarono dal letto. Luigi in bagno aveva iniziato a gridare. Nell’arco dell’orbita, tra il bulbo oculare e la fossa dell’occhiaia, Luigi aveva visto spuntare un increspatura, una screpolatura. In prima battuta aveva pensato alla stanchezza, poi avvicinandosi col naso allo specchio notò una piccola escoriazione tra le pieghe della pelle. Non ebbe dubbi e cacciò un urlo. Quando Tania ancora barcollante si avvicinò al bagno, nemmeno ricordava chi fosse Luigi. I coinquilini che la seguivano a ruota erano interdetti. Le idee politiche di Tania uscirono nettamente rafforzate da quell’apparizione mattutina: un ventiseienne di Isernia uscì in lacrime dal bagno dell’appartamento in cui abitava, annunciando, col groppo in gola, di aver appena scoperto di essere affetto dal Morbo di Morgellons.
Il Professor Rugani, ordinario di Geografia politica, sorrise in modo quasi impercettibile. Si fece lasciare i contatti dello studente e lo congedò, scusandosi dello scarso tempo a disposizione (era periodo di esami) e promettendogli un nuovo e più lungo colloquio per le settimane successive. Appena Luigi fu uscito dalla stanza, il professore chiamò una giovane segretaria e lasciò tutti i recapiti dell’allievo: non era prassi che i docenti si intromettessero nelle vicende personali degli studenti, ma in questo caso la sensibilità umana aveva preso il sopravvento. Chiese espressamente che Luigi D’Armando fosse messo in contatto con l’Assistenza Psicologica dell’Università, poiché instabile e bisognoso d’aiuto.
Luigi era sinceramente sconvolto dalla propria scoperta. Talmente sconvolto che non diede peso alla cacciata di Tania: terrone di merda io ti denuncio, rimbombante per la tromba delle scale, non gli procurò alcun dolore e fastidio. L’essere coinvolto come vittima – adesso pienamente consapevole – di un disegno politico di portata internazionale, lo spinse a correre verso Novoli dal professore con un
Da quel momento in poi, ad ogni caso, non vi fu più spazio per Tania né per la tesi: Luigi si diresse a casa e raccontò l’accaduto ai due coinquilini, anch’essi molisani, rivelando la propria scoperta. Credendo si trattasse di uno scherzo, uno dei due 9
Peretola e la Sindrome di Morgellons
#18 Riotvan
chiese: “e come pensi d’averla presa tu ‘sta malattia, Luì? Dai voli Meridiana di Peretola, eh?”. Intuendo di non esser preso sul serio, Luigi si convinse del fatto di aver bisogno di un controllo medico, confermando, per altre vie, l’intuizione del professore. La condizione di fuorisede peraltro lo svincolava dagli obblighi che avrebbe avuto al paese: niente medico di famiglia, aveva la possibilità di scegliere chi preferiva, magari un giovane di larghe vedute, aggiornato e ben informato. Dei tre medici che lo visitarono i due che emisero un certificato medico (Luigi grazie all’autoanalisi aveva facilitato il loro compito, certificando che effettivamente alcuni dei parassiti che aveva trovato e analizzato con un microscopio giocattolo erano in fibra gialloblù, come quelli delle scie di condensazione documentati su sciechimiche.org dai ricercatori del Comitato Nazionale Cieli Puliti) diagnosticarono al ragazzo un principio di Parassitosi Allucinatoria, prescrivendogli una cura psicoterapica. In medicina si considera la Parassitosi Allucinatoria quel particolare stato allucinatorio per cui un individuo percepisce il proprio corpo sotto attacco di insetti o altri parassiti. Si tratta di una sensazione tattile, che spinge i pazienti a grattarsi – talvolta fino allo sfregio – nel tentativo di rimuovere o allontanare dalla pelle tali agenti esterni. A due settimane dalla scoperta le orbite e gli zigomi e le guance erano cosparse di orribili segni: continuamente si osservava allo specchio, armato di una lente di ingrandimento, alla ricerca di residui di parassiti. Ogni volta ne scovava di nuovi e con delle pinzette sterilizzate cercava di rimuoverli a costo di strapparsi la pelle. Era ormai in evidente stato confusionale (si lavava solo con acqua distillata per timore delle contaminazioni) il mattino che con una maschera antigas invase la pista di Peretola, dopo aver scavalcato la rete ed aver attraversato il cemento e i campi di Firenze Nord. Fu fermato dagli agenti della polizia aeroportuale mentre tentava di sabotare il serbatoio di un Boeing 737 della Ryan Air: il video dell’arresto, ripreso dettagliatamente e da più angolature dalle varie telecamere di sicurezza, finì ben presto su YouTube. Tania, incappata per caso nel filmato su Facebook, storse semplicemente la bocca in segno di schifo. Più composti, ma non più benevoli, furono i pensieri del Prof. Rugani. D’altro avviso furono numerosi siti di controinformazione, forum e blog di esperti del settore, che in tempi rapidi elessero Luigi D’Armando a vero e proprio eroe. Senza pace per la vergogna fu la famiglia: colma d’imbarazzo si chiuse in casa, in provincia d’Isernia, arrivando a concepire per la prima volta dopo almeno 4 generazioni la possibilità di migrare - anche solo per un annetto o due, anche solo verso Campobasso, magari - per non dover sostenere gli sguardi gravi d’ironia dei conoscenti. 10
Daniele Pasquini (Bagno a Ripoli, 29 luglio 1988 / Brisbane, 23 dicembre 2014) purtroppo non ce l’ha fatta.
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Genesi del disturbo psicotico e Lucrezia. Introduzione
#3
Genesi del disturbo psicotico e Lucrezia. Introduzione di Gabriele Merlini
Sua sorella Lucrezia teneva gli occhi socchiusi per nascondere l'arrossamento da fumo e vento, le iridi erano d'un magnetico blu acceso e sapevano sposarsi in modo splendido con gli anfibi cobalto acquistati per l'occasione nel negozio preferito in San Lorenzo (lunga fila di t-shirt degli Slayer e toppe degli Iron Maiden dalle quali si intuiva una accesa predilezione del sarto per l'album Seventh Son of a Seventh Son del millenovecentoottantotto.) «Quello – sibilò Niccolò indicando un tizio basculante nei pressi dell'acquasantiera – è Mario. Biscugino del nonno o qualcosa di simile. L'ultimo in ordine cronologico ad avere intrapreso la gloriosa strada del rincoglionimento. Beato lui.» Il lontano parente Mario D'Attellis aveva una faccia rugosa, capelli pesantemente ingellati e stava facendosi sempre più vicino alla bara di nonno Artu-
«Adesso stammi bene a sentire, genio della lampada» fece il ragazzo con piglio dogmatico. «Cosa vuoi?» «Intendo dire, se accompagni qualcuno sulle colline per comprare due bottiglie di olio e l'acquirente si infila in macchina convinto di avere acquisito l'intero terreno - casolare del trecento e frantoio annesso - per un ottimo prezzo, sei obbligato a riflettere sul concetto di capolinea. O sbaglio?» Niccolò D'Attellis aveva sedici anni quel pomeriggio di ottobre e stava facendo alcuni passi indietro nella navata centrale della basilica della Santissima Annunziata in Firenze, posizionandosi sotto un raggio solare giallastro. Avesse iniziato a fluttuare attorno al crocifisso, nessuno se ne sarebbe accorto. «A chi ti riferisci?» 11
Genesi del disturbo psicotico e Lucrezia. Introduzione
#18 Riotvan
ro. Procedeva sulle punte dei piedi come gli uccelli acquatici ed era ovvio quanto avrebbe urtato il catafalco nel giro di un secondo, abbandonandosi al livello di stupore di colui che intraveda l'automobile in garage schiacciata sotto il peso d'un pianoforte. «Tata Mila ha detto che è stato insolito scoprirlo la scorsa settimana a cacare nel bidet.» «Ah.» «Ha detto proprio: insolito. Ce lo vedo appollaiato che spinge sui bordi della tazza.» «Beh. Lo fanno in tanti» notò Lucrezia, togliendo così qualche grammo di valore all'azione di Mario. «Si chiama DCCAD – Disturbo Cognitivo Correlato Alla Demenza – o Psicosi Da Svista nella Toilette. Analizza nel profondo la patologia, stellina.» Stroncare costrutti altrui era sport capace di concedere decise impennate di umore alla ragazza e se poteva lo praticava con slancio. «Ma capisco che confondersi sia un attimo» terminò l'analisi osservandosi le unghie. Niccolò D'Attellis cercava sarcasmo nel pulviscolo della basilica mentre sedeva sulla panca marrone al lato di un affresco, però niente da fare. Durante i funerali c'è chi introietta una ossessione e chi la proietta verso l'esterno: lui era ossessionato dalla luce nelle opere d'arte, retaggio di quando da neonato si friggeva gli occhi fissando le lampadine accese al bordo del materasso, tuttavia evitava di discuterne con coloro che maneggiassero la cosa peggio dei maestri cinquecenteschi. Fuori qualche nuvola sottile carezzava il campanile creando ipnotiche linee sul pavimento marmoreo, pentagram-
mi a intrecciarsi e lasciarsi ritmicamente. «Smettila con quelle luci, maniaco.» «Si chiama AONS – Alterazione Organica di Neurotrasmettitori Sbrilluccicanti – o Psicosi da Candela Liturgica. Studia pure tu, stellina.» A ciò seguì un breve silenzio meditativo interrotto dal passaggio d'un giovane prete con l'espressione realizzata dello zombie. «Mario quando paga al ristorante pensa di essersi davvero assicurato l'esercizio» riprese il dibattito Niccolò indicando una fiammella all'altare. «Il fondo e le licenze commerciali. Manca poco stabilisca persino quali muri abbattere. Sarà un retaggio dei tempi prosperi nei quali tutti guadagnavano e spendevano da matti. Lui. Il nonno. La nonna. In mezzo ai barboni mutilati dal conflitto. Se ci pensi è qualcosa di enormemente psicotico-aggressivo. No?» Lucrezia non rispose al fratello mentre Mario colpiva con il ginocchio la bara di nonno Arturo, che emise un secco scricchiolio senza franare. I suoi occhi si posarono sul lurido fazzoletto che faceva capolino dal taschino, dopodiché sorrise entusiasta per il fatto di essere sopravvissuto all'impatto. Attorno alle diciassette la basilica della Santissima Annunziata in Firenze era zeppa di persone e pure all'esterno c'era un montante fermento. L'avvocato Arturo D'Attellis era stato presidente nazionale delle Misericordie e in suo omaggio strombazzavano nella antistante piazza cinque ambulanze listate di nero, brontosauri dalla faccia impaziente che ostentavano fiera potenza statica. «Pessimo momento per farsi venire un coccolo12
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Genesi del disturbo psicotico e Lucrezia. Introduzione
ne» aveva commentato Lucrezia scendendo dalla macchina del padre Federico, prima di nascondersi nel loggiato e tirare fuori l'hashish dai calzini. La fine della stabilità parentale per come veniva intesa fino a quel giorno, la radicale rilettura dei rapporti interpersonali che avrebbe seguito la morte del nonno, la perdita dei punti fermi tipo «guarda mamma mi tuffo da sola» non erano per lei argomenti spaventosi e su questo si era scontrata tante volte con Niccolò, il quale viceversa temeva gli scossoni che sarebbero arrivati. «Si chiama Psicosi da Nonno nel Catafalco e non fatico, dopo il lutto, a vedermi nel deserto vestito con un saio e per ciabatte due mattoni ardenti» annunciò Niccolò riflettendo su Arturo e su chi avrebbe perso il senno al primo cambio di stagione. L'orchestra di cariatidi a defecare nel bidet e Mario che urtava le bare erano gli ultimi arrivati della corposa lista perciò «dovremo imparare a essere spietati» terminò l'analisi fingendo una piroetta. «Sta finendo il tempo delle comodità, della tutela e dell'ovatta. Tesoro, passami quel fucile.» Ma Lucrezia già non lo ascoltava più cercando con gli occhi i genitori. «Ti saluto, bello» canticchiò quando riuscì a individuarli e, pensando fosse gesto di una comicità irresistibile, simulò la genuflessione. La causa del decesso dell'avvocato Arturo D'Attellis fu un'embolia arteriosa degenerata in ictus mentre si rigirava nel letto della clinica (costosissima) cui era finito per complicazioni dovute all'età. Eppure, ricevendo la notizia, il figlio Federico non pianse e scosse la testa. Dal corridoio di casa, a guardarlo con in mano la cornetta, pareva qualcuno cui avessero descritto nei minimi dettagli un rigore tirato male da Batistuta, evento per altro non raro (al netto dei centosessantasette gol in nove anni alla Fiorentina, Gabriel Omar Batistuta sbagliava i rigori con apprezzabile costanza. Ben quattro nella sola stagione novantasei-novantasette.) Lucrezia D'Attellis inquadrò suo padre e sua madre all'ingresso della basilica intenti a stringere mani e dispensare sorrisi verso gente dalla faccia bonaria. Li raggiunse e si posizionò al loro fianco impettita come solo i colpevoli sanno essere. «Secondo la leggenda» specificò dalla distanza Niccolò, «dopo essere spirato, l'avvocato fu condotto in strada utilizzando uno scudo trasportato da sette monache vestite a pois e numerosi gatti.» «Eh?» Lucrezia aveva allontanato il fratello con una manata. «Quattro capitani portino Amleto su un palco, da soldato. Perché certo, messo alla prova, sarebbe stato un vero re» declamò rivolto verso la secondogenita, che stavolta sorrise generosa prima di stringere il naso al padre. «Si chiama Psicosi da Naso Protettivo» sussurrò desiderando, in un attimo, di poter abbracciare l'intero universo, fondersi con il tutto e scomparire sopra i tetti della città. Stava diventando grandicella, compassionevole, carica d'amore, e la cosa faceva schifo.
Gabriele Merlini è un ex calciatore di ruolo terzino destro, oggi dirigente sportivo. Ha militato in varie squadre di serie A tra le quali Cremonese, Brescia e Reggina. Due presenze in nazionale maggiore, Italia-Turchia e MaltaItalia, con un gol all'attivo su cross di Daniele Carnasciali. Convive con un carlino chiamato Božidar.
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Romanzo autobiodrastico
#18 Riotvan
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Romanzo
Autobiodrastico di Chiara Morellato
Haraguchi San una volta fumava, cucinava sushi e non portava i guanti. Oggi è conosciuto come l’Uomo Lancetta da quelli del quartiere di San Lorenzo, perché Haraguchi San è puntuale e spacca il secondo proprio come la lancetta dell’orologio del CERN a Capodanno. L’Uomo Lancetta siede ogni giorno alle 17.55 con le spalle verso la parete, piccola libreria blu di San Lorenzo, ultimo tavolo sulla destra. Sfila dalla cartella un quaderno nero.
Tutti i pomeriggi, alla stessa ora, posa la mano guantata sulla maniglia esterna della porta. La apre facendo tintinnare piano il campanellino posto sull’architrave. Entra. Piccola libreria blu al centro del quartiere di San Lorenzo. Ultimo tavolo sulla destra. Appoggia una cartella di pelle, da vecchio signore, che non se ne vedono quasi più in giro. Allenta la sciarpa al collo, leva l’impermeabile, con la mano destra trascina indietro la sedia. Si siede. Oscilla leggermente le gambe, entrambe le mani spolverano via dai pantaloni una qualche polvere immaginaria. Schiocca le dita tre volte. A ritmo. Il suo.
Ha un cecchino nella testa, Haraguchi San: un cecchino che nasce da una sindrome. Ha mille sindromi, Haraguchi San. Ci vive da quando è bambino. Ha gambe senza riposo, claustrofobia degli anelli, 14
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Romanzo autobiodrastico
tavolo, lo guarda, la mano destra spiana la copertina di carta ruvida riciclata. Sospira. Guarda l’orologio. Fa schioccare il collo, prima a destra e poi a sinistra, rotea le spalle. Guarda l’orologio. Sospira. La sindrome del cecchino, dicevamo. Haraguchi San deve poter avere sotto controllo, sempre, il panorama che lo circonda. Se si trova in una stanza, siede in quell’angolo in cui le sue spalle sono coperte, dove può vedere chi entra e chi se ne va. Se è in un supermercato costeggia piano gli scaffali evitando di stare in mezzo al corridoio centrale, in ascensore si mette sempre in fondo; non rimane mai in mezzo alla strada e quando attraversa lo fa velocemente, saltellando da una striscia pedonale all’altra ben attento a non toccare mai la parte bianca. Da fuori sembra buon umore, dentro è solo un maniacale bisogno di tenere l’ordine. Tutti i pomeriggi alla stessa ora, dicevamo. Piccola libreria blu di San Lorenzo. L’Uomo Lancetta vaga da tre anni, perso nell’ultimo tavolo sulla destra.
vibrazione fantasma, sindrome del divagare, dita che schioccano, sindrome di Pinocchio, del martire, sindrome dei bottoni e un cecchino, Haraguchi San. Si porta tutto appresso, oggi come il giorno che è arrivato dal Giappone. Dal suo Giappone. Il Giappone di Haraguchi San profuma di birra. Birra ambrata, liscia e corposa, 67% di malto. Se ne ha di meno non la puoi chiamare birra. E la schiuma. La schiuma della birra in Giappone è una cosa diversa. Haraguchi San, l’Uomo Lancetta, proprio non riesce a capirla. Haraguchi San è metodico. Chi lo conosce sa bene di non poterlo invitare a un compleanno perché l’Uomo Lancetta ha un suo personale calendario fatto di piccole cose, parentesi mai tradite inserite nel grande progetto della sua vita, dove i compleanni degli altri non sono contemplati. L’Uomo Lancetta poggia il suo quaderno nero sul 15
Romanzo autobiodrastico
#18 Riotvan
Il quaderno è aperto. Haraguchi San cerca la chiusa per un romanzo. Il suo. Un romanzo autobiodrastico. Romanzo, vuol essere tale. Auto, lo sta scrivendo lui. Bio, parla della sua vita. Drastico, Drastico… Drastico. Haraguchi San deve decidere come farsi morire. Un lavoro a quattro mani, questo del romanzo: le sue e quelle immaginarie che si porta sempre appresso. Ogni accenno di psicosi, ogni ossessione tracciata in nero, su bianco, capitolo dopo capitolo per un totale di 72 capitoli. Manca solo il 73esimo. La pagina è bianca, nemmeno l’ombra unta di un polpastrello vivo. Dopotutto non è facile farsi morire. Lo ha capito un giorno, il giorno in cui un bambino lo ha spinto a pancia in giù sulle strisce pedonali. Si era guardato le mani spaventato, quel giorno. Erano trent’anni che non toccava la parte bianca. Si era rialzato, pulsava il cecchino nella testa. Eliminare la possibilità dell’errore, eliminare l’imprevisto, donarsi come martire a un piano perfetto di autorealizzazione. Scrivere un-romanzo-auto-bio-drastico. Il cecchino sapeva dove iniziare e dove finire. Haraguchi San quel giorno si licenziò. I coltelli potevano essere pericolosi. Haraguchi San smise di fumare, un cancro ai polmoni poteva arrivare e rovinare tutto. Haraguchi San iniziò ad indossare i guanti, perché i batteri, i microbi, le mani sporche… Haraguchi San smise di fare l’amore. Le donne, lo diceva suo padre, cantano come sirene. L’Uomo Lancetta sperava in cuor suo che si sarebbe scritto di lui sui giornali. Sulle riviste degli intellettuali - immaginava. E magari pure una piccola targa, come quella di Keats a Piazza di Spagna, proprio lì. Piccola libreria blu di San Lorenzo… chissà. Tutti avrebbero conosciuto il suo piano, perché lui lo avrebbe palesato e predetto nel libro. Al capitolo 73. Avrebbe poi inviato la copia a un notaio, datandola. Infine, avrebbe richiuso dietro sé la porta. Libreria piccola e blu. Sfilato i guanti. San Lorenzo. Acceso l’ultima sigaretta e, drasticamente, provveduto alla fine di se stesso. 16
Chiara Morellato, ma chi? Quella dei gioielli? No. Chiara non è “quella dei gioielli" né vanta legami di sangue con l'albero genealogico dei gioiellieri. Nasce a Pietrasanta 26 anni fa. Era il 6 maggio, lo stesso 6 maggio che ha dato i natali a George Clooney, Chris Angel, Orson Welles e Rodolfo Valentino. Chiara però scrive, non recita né dirige film. Parla, tra le altre cose. Un sacco. Passa il tempo tra un trasloco e l'altro intercettando storie di gente strana e guardando documentari.Su nazisti e genocidi, preferibilmente. Dopo una breve esperienza di sei anni in Francia, ha passato i successivi venti cercando di non dimenticare il gusto della Crème fraîche e del Pastis. Sono circa 730 giorni che abita a Roma. Il suo libro preferito mai uscito è "Uouou il gruppo dei ninja - aneddoti, veleni e verità sulla poliarchia del maestro Splinter".
La veritĂ mi fa paura di Leonardo Borri
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di Marco Castelli
Psicosi
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K
Discordia Corner AKA Isabella Meacci
Il supplizio di Cotard
GGC I
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scmfqeceqscdtpdu...nmediqm.it
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scmfqeceqscdtpduoigemsemisdlqessepqinpmfoppicnssecivostqpiqisaqvvcemsleelmselpeveisdlctqisaipmeinmediqm.it di Greogorio Magini
di Manca, confessò candidamente di essere consapevole della “bruttezza irredimibile” delle sue poesie, e che tale bruttezza faceva di lui un buon poeta, un poeta in sintonia con il suo tempo. “Immagino che non scriverò più”, concludeva, “sto diventando troppo bravo.” Era basso e di aspetto arcigno. Dopo la guerra, fu uno straccione affamato per sei mesi, poi trovò impiego presso l’Istituto di Credito Agrario per la Sardegna e si assestò. Tre anni dopo era dirigente; quando l’ICAS si fuse col Banco di Sardegna, nel 1953, poteva già permettersi il lusso di rinunciare a una carriera ministeriale. Si pensionò nel 1975 senza aver mai cambiato ufficio e mansione. Non si sposò mai. Fu singolarmente indifferente agli aspri paesaggi ancestrali della sua terra, al dialetto.
Quando attivò il suo primo abbonamento internet, nel 2003, Leone Manca aveva ottantadue anni e aveva smesso di scrivere poesie da venti. La sua ultima silloge in senso classico, Agiorduì, risale appunto al 1983. La sua carriera poetica era stata oscura e insulsa ai limiti del tautologico. Aveva cantato la morte della poesia nei modi più diversi: dal superficiale montalismo giovanile di Rasi Arsi (1946) e Tregende (1950), all’autoparodia di Risi Riarsi (1960), al moderato sperimentalismo di Céline (1962), al cut-up giornalistico di Blow-Giup (1967), fino ai “dattiloscritti dello spirito” di Agiorduì, non ebbe altro tema che l’impossibilità di essere poeta nel mondo contemporaneo. In un’intervista all’Unione Sarda in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, unica dichiarazione pubblica documentata 21
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#18 Riotvan
Trascorreva le ferie estive e invernali a Parigi, XI. Non leggeva; collezionò bensì enciclopedie in tutte le lingue fino a tutti gli anni Settanta. Dopo che le ebbe vendute, e fino alla morte, il suo grande appartamento cagliaritano ebbe come arredamento soltanto sequenze di scaffali vuoti. Il web risvegliò la sua vena poetica, o piuttosto, ne aprì una del tutto nuova che non aveva mai conosciuto. Decise che la via di fuga digitale dalla macina dell’alienazione dell’industria editoriale abilitava una nuova ipotesi di poesia. Non era più necessario finire poi stampare poi vendere l’opera. I versi avevano una vita autonoma e indifferente. Poesia pura senza confini né limiti nel tempo. Imparò l’HTML in poche settimane e attivò il dominio scmfqeceqscdtpduoigemsemisdlqessepqinpmfoppicnssecivostqpiqisaqvvcemsleelmselpeveisdlctqisaipmeinmediqm.it, sul quale pubblicò nell’arco di dieci anni decine di migliaia di componimenti poetici. Poiché non si preoccupò mai di segnalarne l’esistenza a nessuno, e non c’era rischio che un qualche motore di ricerca si premurasse di indicizzare un sito che non aveva nessun collegamento, né in uscita né in entrata, con il resto della rete, fu l’unico visitatore della propria creazione fino al giorno della sua morte (11 ottobre 2013). L’anno successivo un contrattista di Register.it, il ventiquattrenne Ahmed Ahmed, nel corso di una normale routine di controllo dello stato di pagamento dei domini scaduti, fu incuriosito dalla stranezza del nome di dominio e diede un’occhiata. Affascinato dall’aspetto retró, font di tutti i colori e dimensioni, “blink”, tabelle di parole di migliaia di righe, “versificazioni frattali di iframe”, ne segnalò l’esistenza su Facebook. Era notte fonda. La mattina dopo, il suo post non aveva nessun Mi piace e un solo commento, di un collega: “404nf. Rip?” Il sistema, nottetempo, appurato il mancato pagamento per il rinnovo del dominio, lo aveva cancellato. Ahmed cancellò a sua volta il post e si fece una spremuta di arance. Mentre faceva colazione, angosciato dalla lunga giornata di lavoro che lo attendeva, pensò all’unica frase che ricordava del sito di Manca: Lo stipendio copre l’assoluto <br /> La tredicesima l’<strong>assurda</strong>.
Gregorio Magini. Alla biografia sfuggono molte cose importanti e quasi tutte le migliori. È un esercizio di insulto alla memoria. Come genere letterario è cugina dell’invettiva e del vilipendio. La si trova in testa o in calce a tutte le edizioni in volume o in rivista. Se ne ricava, che il pubblico odia l’autore. 22
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La salvezza
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La Salvezza di Paolo Zardi
i due nanetti cicciottelli che vivevano vicino alla scuola, il ragazzo con il busto. Qualcuno tirò fuori un pallone; si iniziò a giocare a calcio in un campo a forma di L che costeggiava i garage di un condominio. Più in là, la cavalletta continuava a girare in tondo, domandandosi in quale direzione fosse la salvezza. La partita scivolò lentamente in un pantano di recriminazioni, falli di mano e gol annullati. Uno dei due portieri era caduto a terra e aveva sbattuto la faccia sul selciato; arrivò la mamma, che sgridò tutti e riportò a casa il figlio. I gemellini, creature mostruosamente identiche, ridevano tutte le volte che qualcuno cadeva, e chi cadeva, una volta rialzato, tirava i capelli ai gemellini, o gli sputava in faccia, o li prendeva a calci nel culo; il ragazzo con il busto, più grande degli altri, torturava con mille stupide domande il più piccolo dei fratelli con le orecchie a sventola, che aveva sette anni e piangeva per ogni cosa. Ma sebbene tutti fossero tormentati da qualcuno, ciascuno aveva qualcuno da tormentare. I difetti si erano distribuiti abbastanza equamente: i denti in fuori, un lieve strabismo, un po' di sovrappeso, la crescita che tardava a
Le cavallette, quando hanno una zampa sola, smettono di saltare: si spingono come una barca dotata di un unico remo, in tondo, incapaci di trovare il modo di andare dritte. Lo avevano scoperto un pomeriggio che avevano deciso di mutilare insetti. Alle mamme che li avevano visti scendere in giardino con pinzette e forbici avevano detto che avrebbero studiato un po' la natura: poi, sotto il sole di giugno, accanto alla magnolia maestosa che cresceva davanti ai loro palazzi, con le biciclette buttate a terra, avevano iniziato i loro esperimenti. Erano in quattro e nessuno di loro aveva ancora compiuto dieci anni. Ogni tanto uno si staccava dal gruppetto e andava a fare pipì su un muretto; gli altri tre osservavano la pozzanghera gialla che si estendeva veloce, scommettendo se sarebbe arrivata fino a loro. Poi, riprendevano il loro lavoro. Intorno alle tre e mezza passò la mamma del più piccolo, per vedere se andava tutto bene. Aveva preparato dei minuscoli panini col formaggino, che lasciò in un sacchettino vicino alla magnolia. Poco dopo, iniziarono a scendere anche gli altri bambini del quartiere: i gemellini, i tre fratelli con le orecchie sventola, 23
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#18 Riotvan
manifestarsi. Ma poi c'era Marco. I bambini avevano sentito dire dalle loro mamme che quando era nato c'era stato un problema con il forcipe che l'aveva tirato fuori, anche se altri, meglio informati, parlavano di idrocefalia, o idropisia, o qualcosa del genere. Aveva un testone così grande che era stato esonerato dall'uso del casco in motorino; ma là dentro, in tutto quello spazio, c'era il cervello di un bambino di sei anni – l'ingenuità, una semplicità sistematica, l'incapacità assoluta di opporre resistenza. Era seduto sull'ultimo gradino della gerarchia dei bambini del quartiere: sotto di lui, nessuno. Quando scendeva, il divertimento consisteva nel mettersi tutti intorno a lui a fargli domande. Lui rispondeva con un candore suicida. “E'' vero che hai spiato tua mamma dal buco della serratura?” “Certo”. “E ti è diventato duro?” “Sì”. La madre era una signora piena di dignità, che avrebbe sacrificato la sua vita per salvare Marco... Aveva un altro figlio, più piccolo, forse un po' trascurato – un bambino normale, sul quale si proiettava l'ombra del testone di suo fratello. Lo prendevano in giro di riflesso, per la proprietà transitiva della diversità. “E ti sei mai infilato un dito nel didietro?” “Non sono finocchio”. “Lo facciamo tutti, non c'è niente di male”. Allora lui sorridendo imbarazzato diceva: “Sì, lo faccio anch'io”. “Noi scherzavamo, non lo facciamo mai. Sei un finocchio”. Glielo dicevano bambini di dieci anni che non sapevano neppure di cosa stavano parlando: avevano appreso le torture dai grandi, da quello col busto, dal ragazzo del quinto piano che sapeva impennarsi sul motorino e aveva già la ragazza. E anche quando si arrabbiava, nessuno lo prendeva sul serio, nonostante fosse il più grosso di tutti. Correva piano, perché aveva i piedi storti; e quando li inseguiva per acchiapparli, e non ci riusciva, lo sfottevano anche per quello. Venivano ragazzini di altri quartieri, a prenderlo per il culo. Portavano nuove domande. E Marco rispondeva anche a loro, e rideva, rideva come loro, di lui, della sua ottusità, perché l'alternativa era rimanere a casa da solo. Quel pomeriggio era arrivato intorno alle cinque, in motorino, proprio quando la partita aveva ripreso un po' di ritmo, e si era messo vicino al muretto del piscio, a guardare gli altri che giocavano. Non veniva mai invitato, a quelle partitelle, anche se una volta lo avevano convinto a stare in porta e poi avevano fatto una gara a chi lo colpiva più volte: la faccia valeva dieci punti. Intanto quello con il busto aveva iniziato a insultarlo da lontano, ma Marco non aveva voglia di ridere. Uno dei due gemellini gli tirò una pallonata addosso, e l'altro gemellino rise. Marco si spostò più in là, sotto la magnolia. Vide il sacchetto con i panini, e due file di formiche che entravano e uscivano, e la cavalletta che girava in tondo, sul bordo del marciapiede. La prese in mano e la guardò da vicino. Aveva ancora le antenne; provava a far scattare 24
la zampa che le era rimasta, con una regolarità straziante, ma cadeva sempre su un fianco. Per un attimo, intuì qualcosa del mondo, come se i destini degli ultimi finissero sempre per assomigliarsi – come se il dolore fosse una condizione naturale, l'unica verità, e la salvezza arrivasse per strade inaspettate. Poi uno dei fratelli con le orecchie a sventola lo chiamò; lui strinse forte la cavalletta, e strinse ancora, fino a che non sentì più il tendersi e il rilasciarsi della vita.
Paolo Zardi lavora nel cinema da diversi anni, principalmente come controfigura nelle scene romantiche. Tra le altre, ha baciato in bocca Laura Troschel, Paolo Villaggio e Scarlett Johansson; si è invece rifiutato di scopare Katie Holmes per timore di ritorsioni da parte di Scientology. Gioca a rimpiattino ogni sabato pomeriggio ed è l'unica persona al mondo ad aver letto l'opera omnia di Roberto Gervaso.
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L'avventura di un selfista
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L'avventura di un selfista di Salvatore Cherchi e Laura Simonetta
Di certo tra i due fenomeni intercorreva un indubbio legame. Fosse stato bello, o tale si fosse sentito, non sarebbe esistito obiettivo, specchio o superficie riflettente su cui non fermare la propria immagine. Ma in lui non esisteva alcuna smania del bello, dell’inquadrarsi nel mirino per ridursi all’immobilità del bianco e nero, dell’effetto vintage o del down cast. Non esisteva alcun filtro a eliminare brufoli, rughe e occhiaie. Per lui era una follia dilagante da cui rimanere immune.
Non c’è stagione, luogo o situazione che tenga. A migliaia stanno lì: braccio teso, sbilanciati all’indietro. Non scoccano frecce al cielo e non cercano ufo tra le stelle. No. Scattano un selfie. E non esiste più torrente alpino, bambino col secchiello o foto di gruppo davanti alla torta per come ce le si ricorda: solo il volto merita l’inquadratura. Il resto anneghi pure nell’ombra insicura del ricordo. Dentro questa cornice Almio Scatto avvertiva un certo malessere: lo scopo dell’uomo-selfista gli sfuggiva e non capiva perché sempre più persone cedevano alle lusinghe del rito contemporaneo. Sapeva bene che non erano beltà artistiche o filtri fotografici a fare la differenza. Il segreto stava altrove. Come altrove stava l’altra parte del malcontento che lo separava dall’armata dei selfisti. Lui era brutto. E più invecchiava, più lo diventava.
In compagnia degli amici, Almio usava passare i fine settimana tra locali e aperitivi e, nonostante non amasse tale divertimento, la sua presenza non era mai venuta meno. Almeno sino a che la diffidenza verso il selfie aveva fatto sì che la sua partecipazione non fosse più l’elemento essenziale a decretare la propria essenza sociale. 25
L'avventura di un selfista
#18 Riotvan
«Il passo tra la serata che viene selfiata in quanto appare bella, e la serata che appare bella in quanto viene selfiata, non è brevissimo, ma bello che sorpassato» rimarcava con aria da intellettuale in una delle ormai sporadiche uscite domenicali, «siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è selfiato è perduto, mai esistito, che per vivere bisogna selfiare quanto più si può. E, per selfiare quanto più si può, bisogna: o vivere in modo quanto più selfiabile possibile, o considerare selfiabile ogni momento della propria vita. Per la prima si è stupidi, per la seconda pazzi.» «Che hashtag ci metto?» lo boicottarono gli amici presi in pieghe assurde e braccia alzate, non certo per portare alla bocca bicchieri o posate, né per pregare qualcuno. E lì capitò. Certa Dalia, ex di qualcuno, e certa Lidia, ex di qualcun altro, o forse anche dello stesso, gli si piantarono alle spalle, piazzarono il telefono davanti e click! Il selfie era fatto. «Cosa vi spinge, ragazze, a prelevare dalla mobile continuità della vostra giornata queste fette temporali dello spessore d’un secondo?» chiese loro macinando un boccone e i soliti discorsi, ma le due amiche già erano sgattaiolate lontano, tra risa e gridolini. Bastò Il tempo di un flash a cambiare ogni cosa. Anche Almio Scatto. La foto venne catapultata sui social network e l’ordinaria banalità di quell’istante divenne luce di un infinito divertimento costellato di commenti e apprezzamenti. Il volto di Almio appariva circondato da un’aura nuova, interessante. Quasi gradevole, per quanto il boccone lo permettesse. Forse era
solo la cornice dei volti delle due belle fanciulle a renderlo possibile, ma Almio non se ne curò. Vedeva solo se stesso. Fissava la foto e gli occhi impazzavano tra lo scatto e i commenti che arrivavano come pioggia. Sul suo volto si allargò un sorriso vanesio e l’autostima mise il primo seme. Se fosse quello l’arcano segreto del selfie lui ancora non lo sapeva, ma acquistare uno smartphone era passo fondamentale. Ci mise un po’ a capire come usare l’obiettivo frontale e le app, ma aveva bisogno di una foto; si sa che vale più la pratica. Prese il cellulare, allungò il bracciò e provò. Catturò solo mezza fronte, con un’enorme ruga nel mezzo. Dopo diverse foto sovra o sotto esposte, mosse o sfocate, si arrese: fece una foto alle scarpe, sarebbe comunque andata bene. Così, per imparare. Prese presto la mano. Spesso si perdeva in raffiche di scatti, ognuna con un’espressione diversa: sorpresa, meditazione, scetticismo, felicità, tristezza, uomo che non deve chiedere mai. Nessuna però eguagliava l’effetto di quel primo selfie. Il suo aspetto era un vero disastro. Buttò le mani nei capelli e si crucciò: Il nesso tra lo scetticismo verso l’autoritratto e la consapevolezza del suo aspetto si fece più concreto che mai. Fu quasi tentato di abbandonare l’impresa, ma non si diede per vinto, e riprovò. Rimuginò sul significato delle sue azioni, e si convinse che qualcosa gli sfuggiva. Non era l’uso perfetto dei filtri, o l’abilità nel catturare una posa più o meno spontanea. No. Almio sapeva che per quanti innumerevoli selfie possibili di se stesso ci fossero, 26
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ce n’erano altrettanti impossibili da fotografare e, quello che lui cercava, era il compromesso tra i due: il selfie perfetto, quello che non si limita ad appagare l’incodificabile mistero della vanità umana, ma lo svela. Un po’ come i ritratti ottocenteschi, capaci di immortalare rango sociale e carattere dietro pose austere. Ma come decretare la posizione sociale da inserire nel selfie se era il selfie stesso a decretarla, con la fiumana di like che si tirava dietro? C’entrava forse il carattere? No, la capacità di ribaltare o filtrare qualsiasi parvenza di realtà era fulcro e inganno. Paradossi inconciliabili. E poi c’era il suo aspetto. «Andrò fino in fondo su questa strada, a costo di perderci la ragione» si disse a braccio alzato e telefonino in mano. Scattò, nello schermo la sua faccia era l’emblema della determinazione, e dei difetti. Comprò smartphone più prestanti, teleobiettivi, treppiedi, l’immancabile asta per il selfie perfetto, si registrò su tutti i social network e pensò anche di fondarne uno, per i brutti che piacciono. Adibì lo sgabuzzino a camera e la camera a laboratorio fotografico. Scaricò app per la fotografia notturna e altre per gestire gli autoscatti nel sonno. «È una questione di metodo», si diceva, «qualsiasi selfie si decida di fare, in qualsiasi situazione, obbliga a non smettere mai di fotografarsi, a tutte le ore del giorno e della notte. Il selfie ha un senso solo se esaurisce tutte le immagini possibili.» Si svegliava per il flash, a volte contrariato più per il risultato dello scatto che per il sonno tradito. Eppure continuava a scattare e scattare, spinto da un’irrefrenabile sete di piacere, conoscenza e autostima. Scattava in modo compulsivo. Raccoglieva tutte le foto in un album e presto, invece che panorami, cibi o facce d’amici ad accompagnare il suo viso, sbucarono posaceneri zeppi di mozziconi, un letto sfatto e i cartoni unti del cibo a domicilio. Fu poi la volta dei particolari. Fotografò ogni singolo pelo della barba e del naso, e ancora nei, voglie, cicatrici e pori dilatati. Si costringeva in improbabili sforzi fisici e macchinosi giochi di specchi. La sua ricerca si spingeva sempre più al limite. Le sue pupille sempre più dilatate e le occhiaie sempre più vistose. Un giorno arrivò a scattare millequattrocentoquaranta selfie: uno al minuto. Tutti con lo stesso soggetto, tutti con lo stesso sfondo. In breve, esaurì memoria elettronica e neurale. Morì di follia, nel suo laboratorio pavesato da monitor e scatti appiccicati alla parete dove il suo volto s’affacciava da tutti i fotogrammi, come nel reticolo di un alveare s’affacciano migliaia di api che sono sempre la medesima ape: lui, Almio Scatto; in tutte le espressioni, gli scorci e le fogge, lui messo in posa o colto a finta insaputa. Un’identità frantumata in un pulviscolo d’immagini che unite insieme formavano un unico, gigantesco, volto di Almio. Il vero senso del selfie: lui. Sempre, e solo, lui. 27
Salvatore scrive di ironia, ma gli piace prendersi sul Serio, anche se sta sull’Arno. Laura non ha rima, ma se sposta l’accento un posto più in là, con paura la fa. Scrivono spesso a venti dita e due teste. E oggi chiedono perdono a quell’italo un po’ calvino per lo sconsiderato uso di un suo scritto.
Come ogni lunedì, mercoledì e sabato
#18 Riotvan
#8
Come ogni
lunedì, mercoledì e sabato
di Vanni Santoni
il tipo), pornografia magari omosessuale (ma Cosimo non era il tipo), un diario, una testimonianza, il suo libretto universitario, forse, che gli esami dati si erano così diradati da divenire nella sua mente, nella storia di mille pranzi e cene e ritorni di Cosimo a casa, una teoria evanescente di nomi e numeri ormai tanto rarefatta da far dubitare che anche i suoi inizi, quella cordata abbastanza rassicurante di ventisei e ventotto, non fossero mai esistiti. Non l’aveva fatto mai, di cercare: sarebbero bastati a impedirglielo il suo dignitoso senso di giustizia e la consapevolezza del fatto che, avesse anche trovato qualcosa, a poco le sarebbe servito se non a immalinconirla, a farla più acida agli occhi di suo figlio, ma soprattutto la tratteneva l’idea di essere beccata, di lui che entrava e la trovava con le mani nel sacchetto di biscotti. Sin da piccola sopra ogni cosa odiava l’idea di venire sputtanata, e sputtanata non
Come ogni lunedì, mercoledì e sabato, Rosa andò a controllare come la donna di servizio aveva rifatto le varie stanze. E come a volte succedeva, arrivata alle camere dei ragazzi lottò con l’istinto di cercare, di perquisire. Quante volte si era trattenuta dall’aprire ogni cassetto ogni contenitore togliere ogni libro dagli scaffali alla ricerca di qualcosa, non sapeva neanche lei la ragione delle continue fughe di Maddalena, dell’inefficienza di Cosimo, della sua apatia, della sua infelicità ora così manifesta. Ecco, sì, soprattutto camera di Cosimo. Maddalena a suo modo si era affrancata andandosene una volta per tutte, e per quanto spesso passasse da loro (lo aveva fatto anche quella stessa mattina, alla ricerca di vecchi libri e oggetti che pian piano, inesorabilmente, traghettava verso casa propria) la sua stanza non era ormai altro che un album di ricordi. Trovare delle droghe (ma Cosimo non era 28
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Come ogni lunedì, mercoledì e sabato
era stata mai. Quella volta però non ebbe da cercare: la stanza era stata buttata all’aria da Maddalena, dalla libreria mancavano diversi libri di quelli grossi, di fotografia o d’arte, e sulla scrivania, tra vecchi quaderni e libri tolti da Isabella ma non rimessi a posto e Topolino e numeri di Men’s Health, scorse, azzurro di plastica, l’angolo di un libretto universitario. Lo tirò fuori: Università degli studi di Firenze - Facoltà di Ingegneria, diceva il testo nel rettangolo della copertina. Rosa uscì dalla stanza, andò verso la porta d’ingresso e la sprangò. Tornò in camera e aprì il libretto. Srotolò sul tavolo il pieghevole al suo interno. La carta era suddivisa in righe più chiare e più scure che dovevano contenere ciascuna un esame. Solo le prime tre erano occupate.
latte uova e giornali. Pensò a suo marito e le venne da piangere. Si scoprì chissà come a pensare al Galvani, il dirigente comunale col quale aveva avuto un’avventura quando Cosimo era appena nato e si sentiva poco attraente, pensò a che razza di bollito fosse, col suo sorrisetto, i capelli tinti, e quanto avesse fatto bene a chiuderla subito, quella storiaccia, dandosi ai tempi arie con se stessa di gran virtuosa, di madre con due palle così, e guardò ancora quei tre esami sul libretto, li considerò, fece la media, Cosimo ha la media del venticinque, pensò, e pensò che non c’erano speranze non c’era futuro non c’era niente. Le ci volle un po’ prima di smuoversi, prendere la macchina e andare a fare la spesa. Arrivata al supermercato, parcheggiando urtò un panettone di pietra. Soffocò l’imprecazione, controllò se c’era il bozzo (c’era) ed entrò nel supermercato. Essendo arrivata due ore più tardi del suo solito lo trovò fastidiosamente affollato, incontrò ex colleghi conoscenti una cugina alla lontana genitori dei compagni di scuola di Cosimo e Maddalena; comprò pane latte pollo fettine spinaci peperoni formaggio affettati mostarda; una busta, grossa, di seppie surgelate, salutò malvolentieri gente, si soffermò suo malgrado con altra gente, comprò macinato e robiola e pensò che se incontrava la Calcanti dell’Ufficio Anagrafe che le diceva per l’ennesima volta di suo figlio che fa il ricercatore in America (che poi non era vero: aveva solo fatto uno stage, solo uno stage) le avrebbe sbattuto sul muso la busta di seppie, per fortuna non la incontrò, comprò un melone, tornò indietro per i pomodorini, comprò fragole e pesche-noci, e anche le noci perché no, e i litchi che a Cosimo piacciono e mentre si allontanava dalle casse, la testa già alla circonvallazione, le venne in mente che forse in realtà il frigorifero non fa risparmiare, ma costa. Lungi dal permettere una migliore programmazione dei pasti settimanali, pensò Rosa, il suo vero scopo è psicologico e sta tutto in quel senso di dispensa, rassicurante di illuminazione interna nel buio della sera, nella caligine del futuro.
Analisi matematica: 26 --- 30/9/2006 Elettrotecnica: 28 --- 16/4/2007 Informatica: 21 --- 29/10/2007 Non fu uno shock, piuttosto la sua mente incontrò uno spazio bianco, vuoto come quelle pagine e lungo come i sette anni che la separavano dal 29 ottobre 2007, e corse a Maddalena. Maddalena che aveva dato ventitré esami di scienze politiche in quattro anni ma aveva rifiutato di fare il dottorato, che il suo relatore le avrebbe fatto ponti d’oro, aveva rifiutato di fare il master in giornalismo, i giovani giornalisti sono feccia aveva detto, cosa devo fare un master per andare in qualche redazione a copiare e incollare agenzie per un’elemosina e farmi trattare come se fossero loro a fare un piacere a me che vadano a fanculo, il giornalismo in Italia non esiste e in ogni caso scrivo come una ragazzina delle medie, aveva detto. E lei le aveva risposto non è vero però allora magari possiamo sentire Ezio il Salvini, è direttore in banca, qualcosa da fare al Monte dei Paschi te lo trova e Maddalena era scoppiata a ridere e l’aveva guardata come fosse stata una povera cretina. Rosa pensò a se stessa alla bestialità che aveva fatto a prepensionarsi; ebbe chiara l’immagine di sé ad Ansedonia, usciva di casa aveva fuseaux a righe e una maglia leggera da poco ma con le paillettes si era fatta i capelli corti sale-e-pepe, altra decisione demente sulla quale fortunatamente era potuta tornare indietro, ma quel giorno le pareva davvero di sentirsi fresca e addirittura giovane, nella certezza dell’abbronzatura ben idratata. Aveva incontrato una sua conoscente di là e le aveva detto ah guarda come si sta bene, il giardinaggio i figli la lettura, le aveva detto un sacco di puttanate ed era andata tutta contenta in paese a comprare pane
Vanni Santoni è nato a Gallarate nel 2008. Considerato la reincarnazione di Fanfani, ha lasciato l'ISIS quando gli hanno detto che bisognava pregare. Vive ora sulle rive del Danubio, dove si occupa di cartelloni. 29
Un terribile amore per il meteo
#18 Riotvan
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Un terribile amore
per il meteo di Simone Lisi
Perché non amare il meteo? Mia madre accanto a me, cullata da suoni indigeni, lo sguardo sembra preoccupato. Sullo schermo la nostra regione a forma di coscia, coperta da nubi, da nuvole da cui fuoriescono fulmini, come dei trombi, vene varicose, una coscia sconvolta dal clima, gelo e vento polari, e noi indifferenti a tutto: stiamo così bene al caldo della nostra casa. Allora le dico: «Sai Franco?» La pioggia batte sui vetri senza sosta e lei si avvicina al termostato senza distogliere del tutto lo sguardo dallo schermo, come se dovesse succedere improvvisamente qualcosa. Gira la rotellina di alcuni gradi in sù, la pioggia che picchietta sul vetro, e mi fa: «Franco chi?». «Franco di Sesto». «Ah sì».
Mia madre accende il vecchio televisore utilizzando due telecomandi, ma lo schermo rimane nero a lungo e prima si sentono solo le voci. Dopo alcuni minuti cominciano a vedersi le prime figure. «È vecchia» dice mia madre, «è per questo che fa così. Ma funziona ancora bene». Ne parla come se parlasse di sé. All'ora di cena il vecchio televisore acceso e sullo schermo il meteo regionale. Suonano di sottofondo musiche andine, mentre la voce di un generale dell'aeronautica ci guida nei recessi del tempo atmosferico: il più sottovalutato degli argomenti. «Proprio un bell'uomo», fa mia madre «il tipo che piace a me». Guardiamo ogni sera il meteo, ma perché ci piace così tanto? In particolare il meteo regionale con quella sigla incongrua, mesoamericana, sempre uguale a se stessa, da quando io riesco a ricordare. 30
Gorgoglio & Precipizio
Un terribile amore per il meteo
– Era giovane, quarant'anni, quarantacinque, non aveva niente e di colpo è morto. – Mi dispiace, ho detto io. – Inspiegabilmente. – Merda. – Già. Hanno fatto questa cena per raccogliere un po' di soldi. Per la moglie e le figlie. – Beh, questa mi sembra una cosa bella. «Io allora stavo per fare un movimento come a dare un'eco a quelle sue parole, capisci mamma, come se il suo discorso fosse concluso e io dovessi cesellarlo, e invece Franco ha rilanciato, dicendo: – E hai saputo di Marco? – Marco chi? ho detto io. – Il postino. – No, che ha fatto Marco? – Non c'era oggi a lavoro, non l'hai notato? – È vero, non ci avevo fatto caso. – Era a un funerale. – Ah. – Un suo amico, venticinque anni, si è addormentato sull'autobus. L'hanno trovato al capolinea, che era morto. – Madonna Santa.
«Mi ha raccontato una cosa strana oggi, a lavoro. In verità sono io che ho attaccato discorso con lui, cosa che non faccio mai. Sai com'è Franco, impossibile. Gli ho detto: – Eh Franco, lo sai? Sono stato a pranzo dai Raddi. Era un modo per dire qualcosa, per fare due parole, sai com'è a lavoro. Un modo per far passare un momento, per ricordarmi che sono umano. Una frase che creasse un legame tra di noi, visto che anche lui è del quartiere». Mia madre si gira e fa: «Ma Franco non era di Sesto?». «È vero, ma originariamente no e comunque il punto non è questo, lasciami continuare. Io dico a Franco del ristorante, e lui allora fa: – E invece sai mia moglie? E io gli faccio: – Che? – È andata a cena in Via Ghibellina. – Ah, gli ho detto io. – E si mangia bene là? – Dice che si mangia bene. – Mai sentito di ristoranti in Via Ghibellina dove si mangia bene. – È andata là a cena perché è morto un suo amico, giovane, e ha lasciato una moglie e due bambini. –… 31
Un terribile amore per il meteo
#18 Riotvan
– Sì. – Era giovane, stava bene. Un ragazzo sano. – Che dire, un giorno ci siamo e il giorno dopo non ci siamo più, ho detto io. Capisci mamma che genere di cose dico a lavoro? Voglio dire, sarà pure vera quella frase, ma ciò non toglie che sia una banalità, qualcosa di immediato, di circostanza, non è un pensiero, non è un pensiero autentico intendo, è un pensiero di rimpiazzo, una stampella. E invece lo sai che mi ha detto Franco?» «No, che ha detto Franco?» fa mia madre con un occhio al riassunto delle minime e le massime nei capoluoghi di provincia. «Mi fa: – Guarda, che non è questo». «Così mi ha detto Franco, là in quel sottoscala umido, con il rumore degli scarichi tutto attorno, mentre letteralmente la merda di un'intera palazzina di nove piani scivolava lenta intorno a noi fino alle fogne, da dietro a quella scrivania dove se ne sta lui tutto il giorno, come un oracolo egizio, con tutti quei cartoncini e firme illeggibili da archiviare. – Non è questo il punto, ha detto Franco – C'è un motivo per cui la gente muore: è per quella roba che ci danno da mangiare, non dico ai Raddi, o in Via Ghibellina, ma ovunque. È perché ci danno della roba che noi neanche riusciamo a immaginare, chi lo sa che ci danno da mangiare davvero. E poi, l'aria, ma che aria si respira? È questo. Così ha detto Franco e dopo mi ha guardato fisso negli occhi con occhi velati e io avevo quasi gli occhi lucidi mentre tornavo alla mia scrivania al primo piano pensando ancora alle sue parole, mentre i postini scendevano le scale di ritorno dalle loro gite in motorino che fuori pioveva a dirotto e sembrava fossero stati in mare, con i volti stravolti, delle facce bianche e rosse e grondanti d'acqua e il rumore dei piedi nelle scarpe completamente fradice, pensavo alle parole di Franco e quasi mi veniva da dire ai postini: – Bentornati fratelli, riparatevi qui. Adesso è finita, siete salvi, io volevo proteggerli mamma, avrei voluto proteggerli da tutta quella pioggia e dal resto, ma non era possibile, le parole di Franco continuavano a suonarmi in testa: – Ci stanno uccidendo tutti quanti, giorno dopo giorno, c'è un piano, aveva detto Franco. «I postini con i nomi degli apostoli mi passavano accanto completamente zuppi di pioggia e io riuscivo solo a strizzare gli occhi e a dire banalità del tipo: – Che tempo da lupi! Loro non dicevano niente, scuotevano tuttalpiù la testa, altrimenti neanche quello. Erano esausti per la giornata di lavoro, per tutte quelle ore e acqua che avevano preso, ma riuscivano comunque a provare imbarazzo, capisci mamma, per le cose che dicevo io, per tutte quelle banalità. Mamma, ma te ci credi al piano?». Lei ha scosso la testa, con una mano sul termostato, l'altra sul pacchetto di sigarette, e ha detto: «Comunque da giovedì il tempo dovrebbe migliorare». 32
Simone Lisi è stato in classe con gente che ha pubblicato. È stato fidanzato con ragazze che anni dopo hanno pubblicato. Ha ospitato in casa gente che ha pubblicato. Tutti intorno a lui hanno pubblicato qualcosa e continuano a farlo, continuamente, anche adesso che leggi questa bio. Può causare pubblicazione. Si muove nel sottobosco della blogsfera con il nom de plume di Opere Complete.
Direttore responsabile Michele Manzotti
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Direttore editoriale Mauro Andreani
Numero chiuso in redazione il 10/02/2015
Responsabili organizzativi ed esecutivi Numero finanziato da D.S.U. Toscana Mauro Andreani, Salvatore Cherchi, Giuseppe Di Marzo, Francesco Guerri, Andrea Lattanzi, Lapo Manni, Daniele Pasquini, Mattia Rutilensi, Giulio Schoen, Stampato presso Polistampa Firenze Niccolò Seccafieno
Tiratura di 2000 copie in carta ecologica
Hanno scritto in questo numero Salvatore Cherchi, Andrea Lattanzi, Simone Lisi, Gregorio Magini, Gabriele Merlini, Chiara Morellato, Daniele Pasquini, Vanni Santoni, Laura Simonetta, Paolo Zardi
sede legale via delle 5 giornate 52 sede operativa via santa reparata 40 rosso www.riotvan.net per info e contatti: info@riotvan.net per la pubblicitĂ : sponsor@riotvan.net
Grafica e impaginazione Mattia Vegni Illustratori BAU, Leonardo Borri, Marco Castelli, Discordia Corner AKA Isabella Meacci Copertina 'Insta Bill', BAU Web Developement Francesco Canessa
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Bar Massimo
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Bar Massimo la camme potrai consultare ogni giorno il menù aggiornato 34
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