Riot Van #15 - Letture terminali

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#15 magazine indipendente gratuito

speciale torino una sega 3

2013

Letture terminali


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Torino una sega Senz’altro in Italia il più famoso festival letterario è il Salone Internazionale del Libro di Torino. Ve ne sono un po’ ovunque, va detto: anche a Roma chiaramente ce n’è uno, e pure a Mantova. Manco a dirlo, Firenze questa mancanza un po’ la soffre. Anzi, possiamo rettificare: la soffriva. Perché vuoi i tempi maturi, vuoi il comprovato disinteresse istituzionale nel proporre (o sostenere) un festival culturale, vuoi la progressiva affermazione di una scena letteraria cittadina, vuoi la voglia di fare chiasso, a Firenze un evento letterario è nato. Forse non ve ne siete accorti, perché manifesti in giro non se ne sono visti. Niente cartelloni o treni speciali per i visitatori (al limite qualche imbucato nel cesso di un interregionale), solo un invito su facebook, qualche tweet, e qualche mezza parola sparsa tra Santo Spirito, San Frediano e qualche blog. Per chi ancora non avesse chiaro cosa sia il TUS probabilmente la migliore spiegazione, se mai ve ne fosse bisogno (pensando agli hangar immensi stracolmi di libri - accatastati come merce qualsiasi - negli stand di miliardi di editori - nella periferia di una città del Nord Italia) sta nel contatto. Il Caffè Notte contro il Lingotto Fiere, letture ad alta voce contro conferenze dai posti numerati, storie gratis

contro il mercato editoriale, birre e amari contro i sandwich in franchising. Che c’entra: bello il Salone a Torino, ci mancherebbe. Ma se un po’ ci pensi, passando una sera del genere in Via delle Caldaie, il commento ti sale spontaneo e ulteriori spiegazioni non servono più: te lo ritrovi in bocca: Torino una Sega. L’ultima edizione del TUS, la terza, si è svolta secondo le solite semplici regole: tutti possono partecipare, tutti hanno dieci minuti a testa per leggere un testo proprio ed uno altrui. Stop. Il tema di quest’anno era Letture Terminali. Noi di Riot Van abbiamo raccolto i racconti letti durante la serata dell’11 ottobre: vi abbiamo proposto qua i nostri preferiti, quelli che ci sono piaciuti di più. E seguendoci su www.riotvan.net o sui social network troverete tutte le indicazioni per accaparrarvi l’antologia completa di TUS3. Ringraziamo chi c’è stato ed ha letto, il direttivoTUS, il Caffé Notte, la Lola, gli Scrittori Precari, il Collettivomensa, gli scrittori famosi di tutta l’Italia, e tutta la bella umanità transitata. Buone letture terminali a tutti.


Indice

Gli illustratori Mattia Vegni, Antonio Pronostico, Guerrilla Spam, Michele Santella,Niccolò Gambassi, Francesca Campanella Copertina di Antonio Pronostico (Collettivomensa) Grafiche di Riot Van

I racconti 1

Pentalogo estemporaneo sulla morte

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Gli scrittori del Caffé Notte

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Lucian

8 Roma sono uscito dal coma 12 Il Lento rituale della notte

Gli scrittori Daniele Pasquini Simone Lisi Gregorio Magini Collettivomensa Giovanni Ceccanti

14 Una salita vera

Andrea Lattanzi

18 Il blasone immacolato del perpetuo arrossamento

Gabriele Merlini

20 Da quando Bukowski e Carver sono morti

Salvatore Cherchi

22 Il magazzino era vuoto

Giovanni Agnoloni

24 Il ponte dei cani suicidi

Matteo Pascoletti

26 Oppure un romanzo a proposito di 30 Guttalax e libertà

Vanni Santoni Dimitri Chimenti

32 Licenziamento di un filosofo

Luca Bufano

34 In memoria e in oblio di S.T.

Gianluca Liguori

38 Barfly 42 Cruciverba

Tommaso Pieri Filiman


Illustrazione di Mattia Vegni


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Pentalogo estemporaneo sulla morte

Pentalogo estemporaneo

sulla morte Uno Vi sono molti scrittori viventi, molti scrittori morti, molti scrittori morti suicidi, molti scrittori mezzo e mezzo, molti scrittori che sono vivi ma che non si vedono mai, neppure in occasioni come Torino Una Sega. Io vado spesso in fissa con gli americani, e mi interrogo più spesso di quanto sia decente fare su chi di loro sarebbe venuto qua, se solo ne avesse avuto l’opportunità. Mi convinco che uno come J. D. Salinger sarebbe venuto al Caffè Notte ma senza farsi riconoscere, e pure D. F. Wallace, anche se solo per un po’ e senza stare intrattenersi in chiacchiere. Bukowski sarebbe stato troppo concio, mentre Hemingway e Kerouac si sarebbero divertiti come dei pazzi, avrebbero rimorchiato un sacco e poi sarebbero andati a fare casino di fronte a qualche bar. Non sarebbe mai venuto Carver,e neppure Yates. Sono possibilista su Fitzgerald e su Faulkner. Cormac McCarthy avrebbe fatto un trucinio assurdo aprendo il fuoco verso il bancone. Dico questo perché ho svolto questa importante considerazione con un’amica di nome Giulia, la quale senza apparente logica ha commentato facendo presente che Baricco è il classico tipo che avrebbe sforato i dieci minuti. Non ho obiettato sulla non-americanità di Baricco, ma le ho fatto solo notare che non sapevo che Baricco fosse morto. E ti sbagli, mi ha detto. Poi ha tirato fuori una copia di Castelli di rabbia e con un ferro da calza ha iniziato a colpirlo e a bucarlo e a ferirlo, colta da un improvviso raptus. Ha infine concluso il proprio rito sospirando, esausta: “l’ho sistemato”. Due Stato dell’Ohio, 1871. Un tale, accusato di aver ucciso un uomo in un bar, si era trovato come avvocato difensore un certo Clement Vallandigham, politico democratico e antimilitarista. L’avvocato durante il processo cercò di dimostrare che il defunto si era in realtà

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Pentalogo estemporaneo sulla morte

#15 Riotvan

finisce talvolta col diventare un’ossessione, e ti elenchi i mille modi in cui vorresti morire e quelli che ti piacerebbe evitare accuratamente. Immagini incidenti atroci, malattie, te afflitto da kuru, vecchiaia, te che volgi gli occhi al cielo su una qualche catena montuosa scossa da una tempesta di neve, te combusto nel deserto, te collassato di infarto durante l’amplesso, te che muori con la corrente di casa per colpa del phone e del pavimento molle, te che muori assassinato per aver avuto troppo potere o troppi soldi, o tu morto di stenti per averne avuti troppo pochi. Queste ipotesi ti balenano in capo sempre più spesso, tanto che vorresti arrivare al momento pronto e consapevole, sebbene sia 0chiaro che non ti è dato sapere, sennò, davvero, il giochino sarebbe troppo facile.

maldestramente suicidato, nel tentativo di tirar fuori la pistola di tasca per uccidere il suo assistito. Clement Vallandigham, tentando di ricreare la scena di fronte alla giuria, interpretò talmente bene la propria tesi difensiva che si ammazzò in aula sparandosi in fronte. Ma questa prima storia ci potrebbe insegnare oggi talmente tante cose che è inutile stare a elencarle. Vale comunque la pena ricordare che l’imputato fu assolto. Tre Vincent Zigas a metà degli anni ’50 si cimentò nell’impresa di studiare il caso di un allarmante incremento di malattie neurologiche che andavano diffondendosi tra certe tribù della Nuova Guinea. Scelse i Fore, un clan della Papuasia. La patologia in questione, detta kuru, consiste sostanzialmente nella comparsa di brividi e scosse, una progressiva perdita dell’equilibrio e la perdita di controllo dei bulbi oculari che attaccano a roteare in modo innaturale. L’insieme dei sintomi annuncia la morte imminente dell’individuo. Zigas analizzò campioni di sangue e tessuti di alcuni cadaveri provenienti dalla tribù dei Fore ed osservò attentamente i costumi del popolo. Dopo un anno di ricerche scoprì infine che la malattia era portata dall’usanza cannibalistica di mangiare il cervello delle salme durante i riti funebri. Emersa l’origine della patologia, nel ’57, il cannibalismo venne messo al bando. Ma tu, terrorizzato dalla storia letta per caso su un numero di Focus trovato nella sala d’attesa del dentista, hai comunque assunto la decisione di licenziarti, dopo che il tuo capo, a seguito della scomparsa della madre, ha denunciato il manifestarsi di una strana e rara forma di epilessia.

Ma tu ugualmente smani, ché daresti davvero la vita per sapere della tua morte. Poi in effetti ti accorgi che ti interessa non solo il come, ma anche e soprattutto il quando. E dai per scontato che quel quando sia molto lontano.

Cinque Tra le varie congetture comunque non avresti mai considerata veritiera l’ipotesi che vuole protagonista quella svedese di un metro e ottanta tacchi esclusi. Quella che ti saluta nella pioggerella del precario rientro notturno dopo una serata di letture in Santo Spirito, bella perfetta, bella quasi da cliché, bella che dopo il saluto ti invita all’ennesima bevuta, e sbronza ti chiede di accompagnarla a casa, dove una volta denudatasi sulla fredda pietra delle scale del palazzo si stende sconclusionata ed ingenua poggiata agli spigoli. Ti invita a fare altrettanto, e anche tu eccitato rimani nudo, finché lei cavando fuori da una pochette piena di strass un paio di forbici, affronta con inaspettata decisione il tuo basso ventre, ghignando nella sua incomprensibile lingua. una formula magica, una maledizione o una preghiera per la compiuta evirazione.

Quattro Se la morte di questa esistenza è la fine, ti convinci sempre più che abbracciarla glorificandola non possa che esserne anche il fine. Questa certezza

daniele pasquini

è nato nel 1988 ed è della valdisieve, un'area a sud-est di firenze (compresa tra palazzo vecchio e le alture del golan). fa il giornalista, lo scrittore, l'addetto stampa, il comunicatore, il social media editor, il ghost writer, l'educatore, il musicista, vendemmia, bruca le olive ed ha una passione spropositata per i minimarket pakistani, che continua invariabilmente a chiamare con il nome di lakmali.. sta pure in riot van.

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Gli scrittori del caffè notte

#15 Riotvan

Gli scrittori

del caffè notte Caro Liguori, Come stai? Spero tutto bene. Sono ritornato in città dopo alcuni giorni. Abbastanza di buon umore, per il calore incamerato nel mare di Settembre e per un piccolo regalo che ho ricevuto dal destino. Se destino e regalo suonassero davvero concetti troppo seri, diciamo solo di buon umore per una cosa che mi è capitata, un piccolo testo anonimo trovato proprio ieri sera, accartocciato in un angolo, nei bagni del Caffè Notte. Un raccontino canaglia che mi ha fatto sorridere perun minuto e che adesso ti trascrivo di seguito, sperando di farti cosa gradita e magari un mezzo sorriso anche a te. Mi viene il dubbio, mentre ti scrivo questo preambolo, di come tutta la vicenda del testo anonimo possa risultare un po’ letteraria, un po’ manzoniana o peggio ancora, ma è andata proprio così come ti dico. Non ho motivi di mentirti, e del resto non condivido una sola parola di quello che segue. Il testo si intitola Gli scrittori del C N e dice così:

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Gli scrittori del C N, per quelli che non lo sanno, lavorano la sera ai loro romanzi del futuro. Lavorano la sera e lavorano al C N, che sarebbe un bar, oltre ad essere quello che qui li definisce come scrittori. Gli scrittori del C N siedono a un tavolo che di regola è sempre il solito. Entrando nel bar, sulla destra. Un giorno ci sarà, è possibile, una targhetta, come sulle panchine a New York per i morti, e sulla targhetta ci sarà scritto: È qui che sedevano gli scrittori del C N ed era il duemila e rotti. Non dico una statua in bronzo a grandezza naturale che li raffigura, che sarebbe contraria alle logiche commerciali del locale, ma una targhetta è sicura. Questo per spiegare a grandi linee, a chi non è del posto, o per avvertire coloro i quali, in seguito a questo mio testo, volessero vedere di persona e recarsi al C N.Il mio personale consiglio, se entrate al Caffé Notte e non volete incrociare il loro sguardo, è: occhi puntati sul bancone oppure verso la saletta alla sinistra. Comunque. Gli scrittori del C N lavorano, alla sera, ai loro romanzi del futuro non tanto per farsi vedere da chi entra nel bar o perché di pomeriggio lavorano ad altri


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Gli scrittori del caffè notte

lavori meno letterari, come sarebbe facile credere, bensì perché essi trascorrono i loro lunghissimi pomeriggi a masturbarsi -fino a tre o quattro seghe a pomeriggioe ciò avviene senza che nessun genitore o coinquilino o fidanzata li disturbi mai perché i coinquilini e i genitori e le fidanzate sono tutti quanti a lavoro. La sera poi i genitori, i coinquilini e le fidanzate tornano stancamente alle loro case, al che gli scrittori del C N si recano al C N dove finalmente lavorano ai loro romanzi del futuro e dove appunto definiscono il loro status come quello di scrittori del C N. Talvolta riesco a sentire alcuni dei loro discorsi, dal tavolo vicino. Discorsi in cui accennano a un certo mal di schiena, dovuto, adesso lo sappiamo, allo sforzo prolungato, oppure tratteggiano con pochi tratti, ma decisivi, una giornata particolarmente afosa, che non ha agevolato il loro pomeriggio e le loro pratiche. E questa è la ragione per cui gli scrittori del C N scrivono di sera. È così, cari amici che ogni volta che andiamo al C N state lì a dirmi tutto il tempo: ma dimmi te perché uno deve stare la sera con il suo Mac Book dentro al C N e scrivere romanzi del futuro piuttosto che come tutte le persone normali con una birra in mano e una sigaretta infilata penzoloni in bocca. Bene, adesso amici lo sapete e quindi basta. Fatela finita con questa storia del narcisismo (vergogna, avete perfino studiato filosofia, e ancora usate certe parole), passate ad altri pensieri, passate alle vostre birrette e alle vostre notti, senza star sempre là a interrogarvi sulle giornate degli scrittori del C N. La mattina, mi chiedete ancora. Bene, la mattina essi dormono. Contenti? Adesso, vi prego, usciamo da questo bar che è estate e fumiamoci una sigaretta. Vi va? Arrivare fino alla piazza in fondo alla via sarebbe già un buon segno per capire come siamo messi. Vi pare?

Va bene, la via è lunga, la piazza ampia, restiamo qui ancora un po’, davanti al C N.

simone lisi

fiorentino, classe 85, laurea inutile ma bella, in filosofia. Lavora come Tristeryo presso una ditta di poste private. Ha pubblicato racconti brevi su antologie del Gabinetto Viesseux e Marcos y Marcos. Scrive su Scrittori Precari e nel blog In zona cesarini

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“Il caffè, per essere buono, deve essere nero come la notte, caldo come l'inferno e dolce come l'amore” Michail Bakunin Il testo si conclude a dirla tutta con una serie di bestemmie che ho omesso perché le trovo del tutto superflue e anzi sintomo di una scrittura incerta, di una personalità che soffre di dinamiche di esclusione e vittimismo, oltre che un narcisismo spiccatissimo, insomma sullo stile, lo vedi da te caro Liguori, non c’è molto da dire e forse l’idea era anche buona, ma come è evidente non è stata sviluppata in maniera adeguata. Tutto questo del resto non spetta a me dirlo, quanto semmai a te, che lo fai di mestiere e che magari troverai in questo anonimo qualcosa di buono e ti prenderai la sua causa a cuore, come talvolta fai tu, se mai riuscirai a scoprire chi sia, cosa che del resto accade sempre. Resta un ultimo dubbio, superfluo mi dirai, che mi accompagna in questa mattina, e cioè come faccia l’anonimo a sapere il modo in cui gli scrittori del C N passano le giornate, cioè la trovata della masturbazione ossessiva. Lui scrive in effetti, in un passaggio, di sedere a un tavolo vicino a loro, pertanto potrebbe forse averne sentito la confessione. Ma io sospetto che ci sia dell'altro. Che l'anonimo stia rivolgendo un duplice appello: da un lato chiedendo aiuto per la sua incapacità di stare solo in una stanza con un computer senza scoparci; dall'altra è possibile che con quel testo lievemente provocatorio l’anonimo chieda di essere accettato da quelli del C N, non so, forse semplicemente cacato di striscio da qualcuno. Non so risolvermi. Cosa ne pensi? Con questo dubbio ti saluto: Hola subcomandante, ti scrivo presto.


Lucian

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Lucian

cassetto dall’alto vuoto. Secondo cassetto una lampadina e dei chiodi. Terzo cassetto fogli, elastici, buste trasparenti con pacchi di fogli, bollette, lettere, una scatoletta di velluto, dentro l’anello di un portachiavi. Secondo livello. Quarto cassetto, chiuso a chiave. Con il temperino al primo tentativo scattò. La spiaggia dove avevo visto il niente, seduto su quei sassi fatti di polvere, i licheni gialli che si nutrivano di sabbia, nel mio La vecchia è demente. Io ti lascio aperto, tu entri cuore la disperazione di quando il mare non va tranquillo fai quello che vuoi prendi quello che da nessuna parte e il mio cervello che sputava, vuoi. Prendi i gioielli. Se chiede tu dici, sono diceva che cosa ti aspettavi. Camillo, sono Marcello. Camillo è il figlio. Finché la barca va tu lasciala andare. Uomo triste. Marcello forse cugino, si è sparato. Il quinto cassetto conteneva due scatole. Nella Poi vieni da me. Potremmo finire per sposarci. prima le cose per cucire. Raspò nel buio e poi L’ombra delle inferriate stirata sul letto. mise là la mano in controluce per contare gli In mezzo, in cima, un fagotto di coperte; aghi infilati. Il cielo di un paese ne strisciavano, uguali a straniero, il vento stupido del Mar “Finché la barca due radici grigie, le mani Nero e le rotte delle petroliere al della vecchia. Sopra nel va tu lasciala confine del mondo, le mutande buio un succhiare di saliva, andare ” delle italiane ruzzolate dal vento, un’esalazione fetida e mugoli impigliate negli sterpi, le loro come chi annuisce risate di latta che promettevano Orietta Berti al telefono. qualcos’altro o forse solo qualcosa. Punti focali: cassettiera, due Ogni giorno prego che mi lasci morire. comodini, armadio Nel scatola rossa i gioielli. Due collane di perle, dei e sotto il letto. Il ventre diceva, vai da Maria. brillanti, un orologio d’oro, a un’occhiata non si La testa, prendi i gioielli e vattene. Tutti e due, arriva a mille euro, ci dev’essere di più. Fece posto stai attento alla vecchia. Nel villaggio dove era nato per la scatola sul piano della cassettiera spingendo non c’erano vecchi. Niente vecchi, e niente chiese. le cornici delle foto dei morti e si accorse che la C’era una stanza di legno con un biliardo, mosche vecchia prima si era messa a cantare e poi aveva e birre. C’era un unto sopra a tutte le cose, sopra le smesso di cantare e piagnucolava. pannocchie e l’erba, e un autobus due volte Non ce la faccio. Aiuto. Non respiro. Aiutatemi. al giorno, che sferragliava in direzione di Ploiești Non ti agitare mamma. poco più veloce del cane zoppo che lo inseguiva. Chi c’è! Camillo, sei tu? Provò la torcia dentro la giacca. Decise l’ordine Sono io mamma. più efficiente: cassetti, armadio, sotto il letto, Nel sesto cassetto c’era un mucchio di fazzoletti comodino lontano, comodino vicino. Il primo

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Lucian

per il naso, quali spessi, quali fini, e un miasma di lavanda inacidita. Frugò, un sacchettino, tastò, guardò: lavanda. Accompagnavo mio padre con il carretto da un paese all’altro e lui non faceva altro che dire, quando sarai grande, beveva quell’acquavite dal fiasco e parlava delle donne, passando sotto le querce polverose o circondati dai girasole, e quello che avrei fatto con loro da grande e sembrava che le donne lo avessero deluso perché non avevano mantenuto la promessa di farlo felice.

E mi guardavi. Tu e tuo fratello. Ingrato. Mi avete fatto spavento. Ringrazio il cielo che la povera mamma stava seduta proprio qui accanto a me. Ormai ci vedeva bene anche senza torcia, girò intorno al letto per raggiungere l’armadio. La vecchia non era distesa ma inastata su strati di cuscini. Cercò la faccia che però terminava in oscuro. Biascicava e gemeva come se avesse due,tre bocche. Hai fatto i compiti? Ti ho detto che lavoro mamma. Che lavoro fai? L’ingegnere mamma. Come Marcello! Bravo il mio pupino. Ho telefonato a Gina per gli auguri di compleanno. Novantasette anni. Disgraziata. Non cammina più è gran tempo, prego Dio che la faccia crepare nel sonno come il povero babbo. Sissignore. Si mise a piangere. Poverina, il marito la picchiava tanto. Vedessi che schiaffoni. Infame. È morto di tumore a quarantasette anni. No, a cinquantasette anni. Aprì l’armadio solo per scrupolo, ma ci trovò una stola di martora o di visone e la lanciò sul cassettone. Poi la notte ci sono i cani.

Camillo, hai fatto i compiti? Non vado più a scuola, mamma. Adesso lavoro.

Che lavoro fai adesso? Sempre lo stesso mamma. L’ultimo livello in fondo era un cassetto unico. C’era qualcosa a contrasto, uscì a strappi rugliando. Lenzuoli e copriletto pressati, esplosero come fossero stati sottovuoto e Lucian imprecò. Tu non sei Camillo. Mamma. Cosa dici. C’eri anche la settimana scorsa ma non stavi al comò. Stavi alla finestra. Mica dentro, fuori.

gregorio magini

nasce nel 2008 a timișoara. ha scritto più di settanta romanzi ed è uno degli scrittori più famosi di tutta l’italia.

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Roma sono uscito dal coma

Roma sono uscito dal coma

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manovalanza, però sti rumeni con i soldi che C'avevo quest'altra down che quando si s'erano fatti già da prima con la droga a Roma, con masturbava si leccava le sue tette e si metteva con le puttane e tutto avevano comprato un botto di la gamba tipo così, si leccava le tette e si toccava terre a Guidonia, cioè si sono comprati tutto un la fica, questo credo sia vero. Questa down era pezzo di Roma est, già in periferia, che gli servirà un cesso, poi rideva quando io soffrivo, e quando fra duecento trecento anni, però mo ce l'hanno. le hanno fatto la pulizia della fica col tampone Improvvisamente è venuto il marito di sua figlia ho visto, per tutta quella mezz'ora, che gli hanno che era uno di Tivoli e ha cominciato a parlargli, estratto con una pinza così, cioè con una bacchetta ad accarezzargli i piedi e ha detto rispondimi fai tipo pinzetta per le ciglia, dieci denti, uno alla un movimento con gli occhi e col dito, e la down volta. C'era un pezzetto così di cazzo, tipo un subito ha cominciato a rispondergli sia con l'occhio wurstel mezzo cotto che gli avevano tagliato e mi che col dito, le diceva dimmi di sì, fai due colpi, sono immaginato, cioè l’avevo mezzo scoperto subito proprio, in pochi secondi ha capito come tramite i parenti che la venivano a trovare, che era comunicare e gli ha raccontato una donna di Tivoli che aveva tutte le cose, del quartiere, fatto uno sgarro a qualcuno, e “Non se la cava della gente che parlava di lei. gli avevano menato e l'avevano mai una cavia, Al secondo ospedale dopo due ridotta così, cioè down, e da ragazza moldava giorni che ci stavo m'hanno questo avevo supposto che di strada dato la carrozzella e mi facevo i s'era messa con un boss di giri nel parco con un'amica mia Guidonia di quelli che m'aveva torturata rumena, abbiamo conosciuto detto mia zia delle discariche, dalla mafia slava” i barboni, poi arrivato Natale e aveva fatto uno sgarro a abbiamo iniziato a ubriacarci, un altro - s'è lasciata col boss Noyz Narcos col vino, le birre, ci andavamo a per mettersi con un altro comprà le cose fuori. La prima - almeno al marito gli avevano volta che sono uscito ho trovato cento euro per fatto credere questo, in tutto questo c'era un terra, ho visto a terra che c'erano documenti, radiologo che era pure rumeno e gli veniva a fare carta d'identità, robe, e mi so detto qua ci devono le radiografie - c'era una macchina che gli faceva esse pure soldi sicuro, e infatti avevano fatto un le radiografie sul letto, sopra - allora io pensavo scippo e s'erano persi cento euro. Poi dal secondo che questo era una spia rumena inviata a cercare ospedale si vedevano gli uccelli. Ho visto questo informazioni, a capire se sapevamo qualcosa lì falco che cacciava i piccioni in giardino, poi i corvi, intorno. E io avevo collegato tutto questo perché grigi, che c'era un buco nell'asfalto, hanno preso un pochi mesi prima avevano fatto una retata a piccione l'hanno portato là dentro, hanno aperto San Basilio e tutti gli italiani se n'erano andati le ali così, si so’ chiuse a rombo, a piramide con la perché c’erano state proprio mazzate e sparatorie testa e bà bà lo beccavano, l'hanno ucciso davanti a stile Scampia e avevano messo i rumeni come

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Roma sono uscito dal coma

me, l'hanno chiuso proprio a rombo, in un buco, in un buco piccolissimo, l'hanno iniziato a beccare sul collo e l'hanno spennato. Sono gli stessi viaggi di quelli che si mangiano le pasticche e fanno palestra a manetta, quelli che si prendono gli anabolizzanti e si distruggono il fisico, mi concentravo su questo, sulla massima resa fisica, mi ammazzavo dal dolore, cioè godevo dal dolore, avevo trovato un esercizio tosto, proprio quello che mi faceva piangere, e quello, cioè mi spaccavo il pomeriggio quattro cinque ore, sulla fisioterapia, la ripresa, camminavo finché non dovevo tornare a letto per il dolore al massimo, al punto di goderselo proprio. Poi è venuto l’avvocato e m'ha detto no Erikino tu ti devi ascoltare la musica di Rocky, invece il mio amico rumeno si ascoltava il rap rumeno commerciale, questo viveva a Villaggio Prenestina, in un appartamento con la gente che si suicida.

Il tipo più ripugnante che ho avuto vicino è stato un mio amico che si chiama Giorgio, che ha fatto quattro tentativi di suicidio falliti. Il primo quand’era infermiere a Ostia, viveva lì con la famiglia, una moglie insoddisfatta, culo piccolo e tette grandi, e tre figli che gli dicevano tu non hai fatto un cazzo nella vita Giò sei sempre stato davanti alla televisione e mo’ ti lamenti che vuoi uscire, i figli che non lo volevano più. Il primo suicidio l'ha fatto iniettandosi qualcosa e l'hanno salvato, il secondo ha provato a buttarsi da una scarpata con la macchina con tutta la famiglia, tornando da Ostia e la moglie l'ha salvato, i figli da quella volta, sopratutto quello grande s'è un po' fleshato, l'ultima volta s'è affacciato al quinto piano del suo palazzo, ha

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lasciato gli zoccoli, gli è girata la testa, ha avuto paura, s'è tuffato, s'è attaccato al filo dell'antenna è arrivato al secondo piano con le mani bruciate, ha lasciato la presa che c'aveva tutto bruciato ed è caduto e s'è distrutto i due talloni, un ginocchio rotto non operabile, due femori, proprio distrutto, era un anno che non camminava, aveva il fissatore esterno da un anno, con le cosce così e i buchi del fissatore erano diventati talmente larghi attorno al ferro che erano diventati dei coni, talmente larghi che arrivano quasi all'osso, non aveva più nulla, tutto bendato stava. Questo nel reparto me ne ha fatte di tutte, era proprio malvagio, non voleva che aprissi la serranda prima delle 8, io mi svegliavo la mattina alle 4 per guardare gli uccelli, lì c'era la valle del Tevere, e io mi svegliavo all'alba per vederli. Dopo il secondo giorno con lui ero impazzito, perché teneva proprio manie di suicidio, era una persona cattiva, me ne sono andato da quella stanza. A Natale poi me lo sono ritrovato in palestra, era cattivissimo, non poteva camminare che non c'aveva i talloni, c'aveva gli occhi fuori dalle orbite per il dolore, e faceva talmente tanta paura, che un altro fisioterapista m'ha preso e m'ha portato via. Giorgio gli toccava le tette alla moglie quando veniva, davanti a tutti e la moglie s'imbarazzava, lui le diceva dimmi che ti faccio ancora arrapare e lei lo mandava affanculo, ma perché la moglie aveva già deciso di lasciarlo da prima, perché questo aveva tentato di uccidere i suoi figli, che poi il vecchio quando me ne sono salito sopra m'ha iniziato ad attaccare la pippa sulla vita: tu sei giovane, gli amici, ti sei operato, ma ti devi rimettere in sesto, devi fare così, gli ho detto non mi devi rompere i coglioni, io sono Erik Priebke e l'unica cosa della mia vita che so è che mi devo tenere stretta una passione, la passione per gli uccelli, che è l'unica cosa che mi può salvare mo che esco da qua, m'ha guardato ed è scoppiato a piangere, la prima volta che c'ho parlato con Giorgio in assoluto. Era impazzito proprio. Il coma farmacologico funziona che poi ogni tanto ti fanno una siringa e ti svegli, quando ti vengono a trovare i parenti così gli puoi parlare, gli deliri un po', vedono che stai bene e poi ritorni in coma.

collettivomensa

è segni e parole. priebke è un povero stronzo.

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Illustrazione di Antonio Pronostico


Il lento rituale della notte

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Il lento rituale della notte

Rieccoci qua. Ancora una volta a fare i conti con i nostri fantasmi. Visà-vis. Quando è successo che ci siamo ritrovati in questa situazione in cui avevamo promesso di non ritrovarci più? Come ci siamo finiti? Lo avevamo giurato, ricordi? Mi ricordo che piangevi, mentre lo dicevi. Ti avevo quasi creduto. E adesso ti presenti qua con questa faccia che vorrebbe essere commiserata, con queste sopracciglia a triangolo isoscele e il mento che ti trema a chiedermi ancora una volta l’impossibile. Mi sembri Jon Voight quando ricompare a sorpresa e si mette a spiegare a Tom Cruise come stanno le cose. Sarebbe più probabile che lanciando di nuovo quei quattro cocci la saliera di mia nonna ritorni com’era prima - grazie mille, tra l’altro, di avermela rotta. Scommetterei più su questo che su noi due, adesso, qui. È profondamente inutile che t’inginocchi. Pregarmi non ti farà sentire meglio. Del resto ti sei sempre posta in una posizione d’inferiorità rispetto a me. Non che la cosa mi abbia mai lusingato. Poteva farmi piacere, a volte - sono fatto di carne anch’io - per esempio quando hai detto a tuo padre che uno come me poteva trovare qualunque tipo di lavoro avesse voluto semplicemente alzando un dito, vista l’intelligenza e la forza morale e la spietata determinazione quasi inerziale, ben chiaro. Non è proprio il tuo giorno, baby. Sono tettonica, aggiunta a quel po’ di presenza fisica fatto di carne anch’io, tutto qua. La mia integrità non che non guasta mai - ok, te lo concedo: più di un ne uscirà scalfita, su questo puoi metterci entrambe po’. E poi gli dicesti che la sua offerta di lavoro le mani sul fuoco e pure quelle di tuo padre. Lo sapevi poteva anche infilarsela nel culo, se avesse che in Svizzera la spagnola viene chiamata “cravatta voluto. Sei sempre stata molto indelicata con del notaio”? Intendo dire che in tutta la svizzera la lui. Una cosa che io non ho mai conosciuto. La spagnola è davvero chiamata la “cravatta del notaio”. tua indelicatezza. A proposito, sai per caso se ha Notarkrawatte in tedesco. La dice molto lunga su ancora quel posto? Si? No? Hai quei cazzo di svizzeri, non ragione, scusa, sto cambiando credi? Apre uno squarcio non “La morte argomento. Non è neanche nel indifferente sul modo che hanno viene silenziosa mio interesse trattenerti qua, di vedere il mondo. Se pensi che come un'alce, figurati, non so perché te l’ho in America si dice “titjob”, “lavoro dai vivi ci separa chiesto. Fai finta che non abbia di tette”, oppure “boob fucking”, con il tocco detto nulla. Dove eravamo? Ah, che è di gran lunga la cosa più si: non so se l’hai capito ma non volgare che abbia mai sentito… di una falce” voglio più avere niente a che fare beh, tutto ti viene a galla sotto con te. Quando sei entrata? Non un’altra ottica. Diavolo come Elio e le storie tese ricordo nemmeno di averti vista sono caldi i tuoi capelli sotto le entrare. Starei molto meglio se mie mani. L’avevo dimenticato. te ne andassi subito. Non fare così adesso Mi sembra quasi di sentirti pensare. Di sentire il ti prego. Ogni uomo ha diritto di stare da traffico incessante sui tuoi ponti neuronali. Come solo e tu, tu stai violando il mio. Ok. Il fatto dici? Non ho capito. Scandisci. Prendi fiato. Ah, ok, che ti stia permettendo di sbottonarmi ‘non stai pensando a nulla’. Questo non depone a la patta non significa che ti stia anche tuo favore. Quello che mi chiedi è una cosa enorme, concedendo una seconda possibilità. Sia impossibile, completamente fuori di testa. Vorrei

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Il lento rituale della morte

almeno che ci riflettessi un po’, prima di ripresentarti qua un’altra volta. Con questa fanno già nove, credo, le volte che ci siamo ricascati. Che ci sei ricascata. Io mi presto unicamente per portare in te un livello di comprensione e di accettazione tale da renderti poi libera di rifarti una vita. Piangerei molto, credimi, un domani, se scoprissi che non ti sei rifatta una vita. Anche se sono cosciente di quanto dev’essere dura, dopo di me.

Dovresti sposarti un architetto, un ingegnere, oppure, che so, il direttore di qualche rivista.

Un notaio. Cravate du notaire. In questo preciso momento sei la persona che meno voglio vedere sulla faccia della Terra. Cavolo quanto mi dispiace che sia andata così. Ohi ohi (concitato, guardando in basso). Ti assicuro che era mia ferma convinzione non venirti in bocca. E invece. Sono stato sbadato e pressappochista. Guarda come ti ho ridotto quel bavero. Ti ho fatto una bella collana di perle. Se penso che tutta questa sborra non produrrà forza lavoro e non darà alcuna gioia ai nonni. Anzi. Quello stakanovista di tuo padre in questo momento avrà avvertito l’ennesima occasione persa di avere un nipotino sotto forma di una fitta intercostale. Conosci quella teoria che dice che la morte sarà come un ultimo grande orgasmo? Superata la soglia di sopportabilità del dolore si giungerà infine ad uno stato di estasi assoluta, con tanto di piegatura dell’orizzonte eventuale e safari soggettivo nell’Africa dei nostri sensi, prima del buio eterno che non ci vedrà più molto partecipi. È solo una teoria ma sfido chiunque a dimostrare il contrario. Non lo so, ogni volta che mi faccio una sega mi viene in mente, e la cosa non mi dispiace affatto. L’ultima grande sega. E anche adesso è l’unica cosa che mi consola. Perché dopo questo orgasmo tu sei ancora qui, davanti a me, e ti guardo ingoiare tutto il mio albume bianco perlato, pulirtelo dal mento - che, vorrei farti notare, non trema più - e restituire una parvenza di rispettabilità al tuo volto e di quella auspicata commiserazione che mi chiedevi all’inizio; invece dopo l’ultimo grande orgasmo non ci sarà più nessuno, non tu, non io, non tuo padre, non il mio, neanche lo straccio di uno stronzissimo prossimo da amare. Vorrei davvero non doverlo sottolineare, ma ti odio con tutto il cuore.

giovanni ceccanti

nato dall’amore platonico fra rocco scapece e izimor janaczeck, giovanni ceccanti, nome d’arte di vincenzo scapece, intraprende a sette anni la carriera di violinista, salvo poi accettare tre anni dopo un posto come fluffer presso la casa di produzione serba “ora e mai più”, lavoro che accrescerà le sue capacità maieutiche nonché le sue ormai note manie d’igiene, di cui non si libererà mai fino al giorno della morte, avvenuta a soli quarantasei anni in un albergo di timisoara per dissanguamento da lavaggio eccessivo dei denti.

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Una salita vera

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vera “Ma vaffanculo. Ma se ti scoperesti anche il buco dell’ozono tu, basta che ci metti qualche pelo intorno” Irvine Welsh

Prologo. Da qualche parte, a Firenze “Non chiedermi neanche perché ti racconto questa storia” - gli dice lui un po' avvinazzato. Lei non muove un muscolo, ascolta assorta. Lo guarda intensamente e tira un sospiro a metà fra l'interesse e la perfetta cognizione di quello che l'altro ci sta per dire. Fa cenno di sì con la testa.“C'è questo gruppo di scrittori a Firenze – attacca lui – che si vede a Santo Spirito, lì al Caffé Notte. Lo sai dov'è no? All'angolo con via della Chiesa e via delle Caldaie”.Lei continua a guardarlo. Apre la bocca a mo' di pesce lesso dicendo di no solo con gli occhi. È l'apoteosi del disinteresse. Non una parola per qualche secondo e poi, d'improvviso: “No, non ho idea. Ne conosco uno a Miami”. La letteratura, è noto, non attira facilmente le simpatie del gentilsesso.

Ma tant'è che lui insiste: “Insomma, a Santo Spirito. Hai presente il festival del libro a Torino, lì come si chiama, il Salone del Libro di Torino. Ecco, loro in chiave sarcastica rivisitano questa esibizione. Son volgari eh... Però hanno la decenza di fare qualcosa che non abbia un secondo fine. Almeno che io sappia...”. Lei prosegue a fissarlo, lui va avanti: “Leggono dei racconti la sera e io vorrei leggerne uno. Ma il problema è che scriverlo è un po' più difficile. Io non son portato, non mi interesso...”. E muove il capo in senso negativo. “Comunque sia – spiega – il tema è racconti terminali. Poi cosa voglia dire racconti terminali, mi ha detto un mio amico, non è che importi. È un tema, tu scrivi quel che ti pare.

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Ecco, io invece pensavo che terminale volesse dire tante cose”. Poi si ferma, con la faccia interrogativa: “Secondo te cosa significa?” - le fa. Lei, a dire il vero un po' sorpresa dalla domanda, azzarda mezzo sorriso. Rigira la questione: “Secondo te?”. Lui risponde al sorriso, annuisce con la testa e comincia a spiegare. Non prima, per altro, di essersi convinto che la smorfia di lei volesse dire qualcosa del tipo: “se te la giochi, se parli bene e ogni tanto ci tocchiamo senza volerlo, poi va a finire che te la do”. Si alza in piedi, la guarda dall'alto. “Te lo dico io cosa vuol dire. Ma, come ti ho già detto, non mi chiedere perché” - gli risponde secco. Prende fiato, inizia a raccontare.


Illustrazione di Guerrilla Spam


Una salita vera

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gialla del tedesco Jan Ullrich, Pantani pronto a intervire, ha più di tre minuti di distacco in classifica generale. Potrebbe essere il momento decisivo Davide?” “Io penso sia una situazione interessante. Pantani mani base sul manubrio, Ullrich si volta di continuo. Se sta bene potrebbe partire adesso. Potrebbe partire adesso. Ecco di fatti parte”. “Eccolo parte adesso. Attenzione”.

Da qualche parte in Francia. Le leggende non terminano mai “È la quindicesima tappa da Grenoble a Les deux Alpes dove sta piovendo a dirotto. La situazione: al comando Maximilian Sciandri, secondo Cristophe les Derout, Peter Serrasain e via via il gruppetto dei primi. È qui Adriano che si può decidere il Tour de France. Salita a doppia scalata, Col du Telegraphe – Col du Galibier”. “Leblanc rompe gli indugi, è appena cominciata la salita, sempre davanti in sei. Accellera Ullrich. Pantani è a centro gruppo, è vigile, brillante. Ha avuto una scivolata senza conseguenze”. “Ancora un attacco degli uomini della Cofidis, in gran spolvero oggi”. “Con ogni probabilità farà l'affondo sul colle finale”. “Io invece penso possa scattare già sul Galibier Adriano. È il pezzo più duro e difficile. Du Telegraphe è a 11% di media. Ma il Galibier è lungo 12 km e da 1420 m si sale a 2600 metri. 1200 metri di dislivello. Una salita dura. Una salita vera”. “Un'azione molto importante attenzione. Leblanc lancia l'attacco, in seconda posizione la maglia

“E non risponde Ullrich. Ha già dimostrato di aver capito che quando scatta Pantani è meglio lasciar perdere.

Ecco Pantani che si volta e aspetta Leblanc. La prima volta che ha dimostrato forse grande intelligenza tattica Davide. Si è voltato e ha rallentato. Ha capito che Luc Leblanc può dargli una mano”. “Parte e riparte Pantani. Pantani nella scia di Escartìn”. “Lo scavalca”. “Ormai ha fatto il vuoto”. “Ullrich non reagisce affatto, anzi rallenta e perde secondi”. “Pantani proprio un altro passo. Una legnata sta dicendo Cristiano Gatti. Una legnata incredibile.

Tutti ci hanno provato ma nessuno ha tenuto il passo del Pirata. Leblanc, Escartìn, tutti gli altri non sono riusciti a tenere il ritmo”. “Signori e signore quando questo ragazzo scatta non c'è niente da fare”. “Il pirata vola lungo la discesa del Galibier. Pantani si alza ancora sui pedali, scatta ancora”. “Marco Pantani 4 minuti di vantaggio virtualmente maglia gialla rilancia ancora il passo, di nuovo all'attacco”. “Ultimo rilevamento cronometrico: Ullrich ha nove minuti di ritardo”. “Eccolo. Sta arrivando Pantani sul traguardo di Les deux Alpes, seconda vittoria al Tour per lui”. “Oggi dà il ko agli avversari. Continua a scattare fino al traguardo e solo ora che lo ha tagliato alza le mani in segno di trionfo”. “Che fenomeno gentili telespettatori, che fenomeno. L'Italia sul tetto del mondo del ciclismo”. Epilogo. Da qualche parte a Campo di Marte “Dalla telecronaca di Adriano De Zan e Davide Cassani della 15esima tappa del Tour de France 1998 andata in onda su Rai Sport” – stantuffa lui senza neanche riprender fiato. “Questa – prosegue ormai col volto rosso sangue – è la storia di Marco

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Una salita vera

Pantani tutta. Senza che te ne racconto la fine. Le leggende non terminano mai”. “I racconti - si ferma un attimo a pensare – quelli, prima o poi, terminano”. E tanti terminano bene, ma altrettanti terminano male. Sono i pensieri, invece, che non terminano mai. Quelli ti girano attorno, ti entrano dentro. Finisci il racconto, volti pagina, chiudi il tuo libro. Ma il pensiero a quel che hai letto te lo porti dietro per un po'. Se era una storia decente. “Conosco un tale – le dice – che muore ogni giorno di più. Mica lui è terminale. Le malattie sono terminali. Come i racconti. E come i racconti finiscono bene o finiscono male. E in ogni caso, il pensiero di quella persona vivrà per sempre. Dentro me, dentro te, dentro lui, visto che il racconto in questione avrà un buon epilogo”. Lei lo guarda ancora. Stavolta è curiosa. Forse perché davvero non ha capito niente, forse perché la confusione di lui è davvero disarmante. Sorride euclidea come un teorema e gli chiede: “Ma che cazzo dici scusa?”. “Niente, lascia perdere – risponde lui – ti avevo chiesto di non chiedermi perché”. Adesso lei è attonita, inespressiva. Lui si aspetta una reazione, ma niente. Altera come un certo ciclista tedesco in maglia gialla convinto di aver già vinto ogni cosa, convinto di non dover spiegare niente a nessuno. In seguito, i fatti dimostreranno non solo che quel certo ciclista tedesco non avrebbe vinto niente, ma anche che di cose ne avrebbe avute molte da spiegare. E dimostreranno che anche lei, col senno di poi, avrebbe avuto un giorno da raccontar qualcosina. Si diedero un bacio, scoparono con vista Fiesole.

andrea lattanzi

è un membro dell'associazione culturale riot van convinto dal giornalista e scrittore daniele pasquini a partecipare al torino una sega 3. lavorando nel campo dell'editoria e del giornalismo è un grande appassionato del settimanale per parrucchiere cronaca vera. come giocatore di pallacanestro non è mai stato un granché e nella scrittura non ha certo trovato la rivincita sperata. politicamente disilluso, vedrebbe bene papa bergoglio al quirinale.

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Il blasone immacolato del perpetuo arrossamento

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Il blasone immacolato del perpetuo arrossamento. Considerare il proprio lettore abituale -ammesso si possieda un lettore abituale: situazione non agevole dati i tempi«il solo confidente che ci rimanga», è quantomeno sintomo di sensibilità e intimo desiderio di interscambio. Non complesso. Non biasimabile. Non raro. Più difficile mantenere simile posizione nei confronti dell'uditorio standard di un reading collettivo. Troppo chiasso. Troppo alcool. Troppo traffico. Troppi individui interessati ad altro. Eppure, posto a conoscenza dell'esistenza di quella kermesse cittadina a tema letture terminali, subito sembrò ovvio quanto tutti i problemi della mia vita sarebbero potuti scomparire davanti la specchiata onestà richiesta dalla performance. Da sempre infatti combatto una spietata battaglia con le letture e i termini. Curiosa genesi del limite, fino dalla prima consapevolezza di me riesco a leggere solo alla fine delle cose. Impegnarmi nei saggi, godere della prosa o fantasticare sui versi di una poesia unicamente a ridosso dei termini. Mi spiego meglio. Per motivi rapportabili alla necessità di ritrovare una maggiore stabilità emotiva, qualche tempo fa ebbi a percorrere migliaia di volte la tratta Pisa-Londra in aereo. Odio volare e trattasi di repulsione addirittura aumentata nel corso degli anni, in parallelo al costante

rincoglionimento da depresso cronico che mi avvolge. Superfluo sottolineare quanto riuscissi a trovare la tranquillità necessaria per godermi una sana lettura giusto al termine del volo, o meglio a ridosso dell'atterraggio (che, per inteso, da tutti viene inquadrato come il momento più rischioso dell'intero spostamento.) Mentre si perde gradualmente velocità e quota impostando una discesa ad angolo costante che conduce il velivolo alla soglia della pista ed è un attimo spalmarsi come burro sbagliando manovra. Le mani mollano la posizione del pugno chiuso tipico di colui che sente la morte dal sapore di scoreggia a fiatare sul collo, e il cuore torna a battere più o meno normale. Il bianco delle nuvole trasfigura elegante nelle prime silhouette di strade e case e pensi ok, sei ancora sospeso però magari con qualche botta di fortuna cadendo potrai raccontarla ai nipoti. Ammesso qualcuno intenda ancora accoppiarsi con te per procreare. Così, con il corpo più vicino al suolo ancora incontri il Seymour Glass che si ammazza al termine dei Pesci Banana, oppure i vecchietti del funerale al termine del Dono di Humboldt. Il mare profondo al termine di quel cesso di Horcynus Orca, e tutto il resto della zuppa che adori cucinare se interpellato. Rendez-vous impensabili in decollo o quota allorché da un momento all'altro covi la certezza che l'aggeggio sul

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Il blasone immacolato del perpetuo arrossamento

fugaci con sconosciute rivestito in pelle, il membro avvolto da spago tipo salame e applicate sui testicoli elettrodi o gusci di lattex, adoro perdermi in pagine coinvolgenti su arte e quattro nobili verità del buddha-śāsana. Architettura e storiografia. Estetica e nichilismo dopo sfiancanti sessioni di spanking o spankophilia, gioco erotico che consiste nello sculacciare il partner allo scopo di provocare l'eccitazione sessuale in uno o entrambi i partecipanti. Il kantiano «unico argomento possibile per una dimostrazione dell'esistenza di Dio» al termine di faccende chiamate paddling, belting, caning, whipping e birching, che sarebbe arrossare l'altrui culo con una pagaia, una cintura, un bastone da passeggio, un flagello o un rametto in betulla.

quali stai trovandoti possa spezzarsi, tra corpi a svolazzare nei cieli tedeschi o lussemburghesi come coriandoli di carne macinata. O ancora. Letture terminali, mi venne spiegato al momento dell'invito. Perfetto. D'altronde io leggo solo al termine delle sedute in bagno e mai nella fase iniziale della defecazione. Considerando che troppa distrazione non sarebbe tollerata e potrebbe rappresentare un problema poiché, assieme alla cronica mancanza di autostima, soffro di una faccenda chiamata ADHD o Attention-Deficit/ Hyperactivity Disorder e ci impiegherei un attimo, con un libro sotto gli occhi, a cacare nella doccia. Ma soprattutto letture terminali calzanti in quanto leggo solo al termine del sesso e mica prima o durante, nonostante l'ipotesi della contemporaneità tra amplesso e lettura mi attragga mortalmente da anni. Al termine di incontri

CLAP!

Della pratica erotica dello spanking possiamo trovare tracce fino dall'antichità,

potendo citare come esempi gli affreschi di Pompei o il Satyricon di Petronio. «Cadere ai piedi di una padrona imperiosa ed essere messo sulle sue ginocchia, del tutto inerme e scoperto a lei, obbedendo ai suoi ordini e implorando perdono sono stati per me i godimenti più squisiti» scriveva quell'arrapato rompicoglioni di Rousseau.

O il celebre dipinto di Ernst intitolato La Madonna sculaccia Gesù bambino, sebbene la posizione non sia quella denominata «over the knee», vale a dire il partner sottomesso alla sculacciata sopra le ginocchia del dominante sculacciatore. Restando al nostro specifico: la Madonna. Come il mappamondo per Calvino, reputo ideale per la lettura terminale l'inginocchiatoio o panca

gabriele merlini

per l'esecuzione dello spanking. Sia nella versione con legacci che senza. Wikipedia ancora ci illustra che fu Teresa Berkley nel milleottocentoventotto a inventare il Cavallo Berkley, apparecchio simile a una sella da salto sportivo sulla quale uno si posiziona con mutande calate, muscoli rilassati e il resto è intuibile. Letture terminali, mi hanno confessato approcciandomi al reading. Dunque leggerò meglio questa sezione terminale del brano rispetto alla precedente. Paragrafo nel quale con voce suadente gradirei avvertire la platea che stanotte, proprio qui davanti agli uditori, sceglierò tra scroscianti applausi di farla finita. Al pari del termine più straziante mai scritto e letto in pubblico. Egli «guardò la ragazza, prese la mira e si sparò un colpo nella tempia destra.» Dopodiché la fine. Rapida e goduriosa tipo una sculacciata.

ha cambiato undici case. ha inscatolato ciddì. ha scritto troppo e troppo aggratis. ha fatto la fortuna di una low cost. ha amato simon il gatto [1992-2009] e giocato terzino destro. ha cenato con saul bellow e baciato orietta berti

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Da quando Bukowski e Carver sono morti

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Da quando Bukowski e Carver sono morti… Era un giorno come gli altri. In piedi, davanti ai fornelli, leggevo per l'ennesima volta un racconto di Carver. Con una mano reggevo il libro, con l'altra rigiravo la pasta nella pentola. Preso dal racconto, e dal sottofondo musicale di Mos Def, non mi accorsi dell'odore di bruciato. Il sugo! Gridò una vocina rauca nella mia testa. Gettai il libro e spensi il fuoco, sia quello del sugo che quello della pasta. Non sapevo se era cotta o meno, ma decisi che era troppo tempo che stava sul fuoco, ed era ora di toglierla. Non ricordo i sapori di quella cena, credo non fosse particolarmente esaltante. Finito di mangiare, non mi rimasero molte alternative. Continuare a bere vino e leggere. Continuare a bere vino e stare al computer. Continuare a bere vino e guardare un film. Continuare a bere vino e uscire. Il vino, qualsiasi strada avessi scelto, non mi avrebbe abbandonato. Come il pensiero per lei. Esci. Gridò ancora la vocina. Non aveva tutti i torti. Decisi che sì, dovevo uscire, per non ritrovarla tra le righe Bugiardo. E poi non sei andato molto lontano contando su di te. Il monologo interiore s’interruppe bruscamente, quando un pezzo di carta attirò la mia attenzione. Sapevo cos’era, e sapevo di non doverlo guardare, ma la tentazione era forte, come un vizio a cui non riesci a dire no, pur sapendo che ti farà male, molto male. Buttai giù un sorso di vino, in cerca di una forza che sapevo non avere: la speranza, a volte, aiuta. Almeno, così si dice. Lo afferrai. Un biglietto del treno. Il suo biglietto del treno.

di un racconto o dentro un fotogramma di un film. Lei, intendo, non la vocina. Già. A me non pensi mai. Disse quella. Tanto tu sei sempre in buona compagnia, le risposi. Buona non saprei... Dipende dai punti di vista. Sono sempre quelli a fregarti. E il tuo qual è? Sempre quello sbagliato. Anche questo è un punto di vista, incalzò. Ma è il mio, ed è quello che conta. Conta per te. Io conto sempre su di me.

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Da quando Bukowski e Carver sono morti

Sei un bugiardo. Tu scrivi perché vuoi stare vicino a te stesso, quello vero.

Mi venne un crampo al braccio, probabile presagio. “Tornerò, è una promessa”. La scritta a penna, lasciata sotto la stampa sbiadita dei nomi di due città, pareva fissarmi. Leggevo, e ripetevo quelle parole, come un mantra. Io quante ne avevo fatte, di promesse? E quante ne avevo mantenute? Non l'ho fatta io, quella promessa, mi dissi, cercando rifugio e consolazione in poche parole. Non dovevo pormi quelle domande, rimisi il biglietto nel cassetto. Appena lo chiusi, sentii il nulla, capace di risucchiare ogni emozione rimasta a galleggiare nello stomaco. Sentivo di dover buttare tutto fuori. Dovevo scrivere, o vomitare. Scelsi la prima, ma il foglio si riempì solo di parole vuote e prive di significato, almeno per me, e per i miei sentimenti. Scrivere è una tortura, pensai. Perché ti ostini a farlo allora? La vocina tornò. Perché è l'unico modo che ho per non sentire te, e per star lontano da me.

“Voglio essere sepolto vicino all’ippodromo... per sentire la volata sulla dirittura d’arrivo” Charles Bukowski

salvatore cherchi

nato e cresciuto in sardegna, all'età di 24 anni si è trasferito a firenze. gli piace scrivere, ma ha sempre avuto poco coraggio a farlo, sino a quando non ha letto la frase "la mia ambizione è ostacolata dalla mia pigrizia". da quel giorno ha cambiato modo di vedere le cose, ma continua a esser pigro. attualmente collabora con riot van. altri suoi scritti sono sparsi per il web, su e-book

Aveva ancora ragione. A me, stare dentro quegli stati d'animo, piaceva, perché ci ritrovavo me stesso. Mi piaceva compatirmi, per cercare una forza che raramente avevo, se non quando toccavo quel fondo di cinismo autoreferenziale. Se mi sentissi felice, pensai, se non avessi problemi, se non me li creassi soprattutto, se non fossi perennemente tormentato dai malumori, dalla nostalgia e dal senso di impotenza verso la mia vita, io... non sarei quello che sono, e non so se sarei ciò che vorrei essere. Tu, quando scrivi, ti ami. Se vivessi scrivendo, vivresti amandoti. La ragione era ancora dalla sua, e come darle torto. Accesi una sigaretta, nonostante non avessi voglia di fumare, e risi. Risi pensando a come certe pensieri ti arrivino così, senza nemmeno volerli. A me, di fumare, non fregava nulla, nemmeno mi piaceva, anzi, a volte mi faceva proprio schifo. Certe sigarette mi facevano star male di stomaco, altre mi facevano battere il cuore come fossi sotto

un attacco d'ansia, altre ancora mi facevano sentire stanco e spossato. Però fumavo. Perché aumentavano la mia concentrazione. Se non fumavo, facevo tutt'altro, qualsiasi cosa, eccetto quella che dovevo realmente fare. In quel momento sapevo di aver necessità di scrivere, ma mancavo di concentrazione. Allora accesi una sigaretta. Durò solo cinque minuti, forse dieci, non ricordo. Il tabacco tendeva a spegnersi spesso, perché io non lo aspiravo con costanza, preso com'ero dalle parole. Però ero consapevole di averlo, e appena la concentrazione calava, la fiammella dell'accendino gli ridava fiato. Poi la sigaretta finì, e con essa, la mia concentrazione. Una sigaretta tirò l’altra, fino a che notai il posacenere: avevo perso la concentrazione troppo spesso quella sera. Arrivai così all'ultima, di sigaretta, all'ultimo bicchiere di vino, e all'ultimo tentativo di concentrarmi. Le parole tornarono a essere prive di senso, vuote e distanti da me. E adesso, che fai?Rieccola. Non so, risposi, tu conosci qualche buon sito porno? Tanto, da quando Bukowski e Carver sono morti, capire i sentimenti umani è diventato troppo complicato per me.

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Il magazzino era vuoto

#15 Riotvan

Il magazzino era vuoto

Le pareti, che una volta dovevano essere state bianche, erano coperte da una patina grigiastra; il pavimento invece era di colore scuro, quasi nero. Il soffitto bucherellato lasciava indovinare ampi spazi, velati di ragnatele vecchie decenni. Se avessi avuto una chiara idea della parte della città in cui mi trovavo, forse avrei capito di quale edificio si trattava. Ma ero quasi certo di non avere mai visto niente del genere. Mi accorsi che non si udivano suoni né rumori. Tutto era avvolto in un silenzio pneumatico. Non mi sentivo agitato, ma esposto. La mia pelle era come volata via, i miei nervi erano scoperti, le memorie del mio terzo occhio focalizzate su qualcosa che non riuscivo a identificare. Improvvisamente mi resi conto che la mia luce-guida non pulsava più. Era scomparsa, dissolta nel silenzio, forse perché me ne accorgessi quando ormai era troppo tardi. Quando dovevo per forza procedere, e c’era un’unica direzione possibile. Una porta, in fondo. Metallica, grigio-chiara. Un ascensore. Non appena lo visualizzai, iniziai a percepire un cicalìo lontano, simile al suono di migliaia di insetti. Erano diecimila aghi

che pungevano ripetutamente la mia sfera percettiva con messaggi incomprensibili. Sotto, premeva ritmicamente un palpito grave, con l’insistenza di bassi da discoteca. La vibrazione di base mi risucchiava verso la porta, costringendomi a muovermi in quella direzione. Giunto davanti all’ascensore, con la punta delle dita sfiorai le porte metalliche, che si aprirono immediatamente. Esitai, trattenendo il fiato, accompagnato solo dalla luce balbettante del neon sul soffitto. Avevo il cuore in pezzi, come già era accaduto in un altro momento della mia vita, benché non riuscissi più a focalizzarlo. Quando iniziai a scendere, seppi in modo inequivocabile che stavo andando lì. Provai terrore puro. Un bruciore vivo ardeva all’altezza del mio sterno, fino alla bocca dello stomaco, mentre l’ascensore continuava a scendere con lievi sussulti. Anche la vista si stava annebbiando, come se fossi a un’enorme profondità sotto il mare, soggetto a una pressione insostenibile. Gli aghi si erano indeboliti e i bassi erano cresciuti di frequenza, fino a diventare un rombo uniforme. Il panico restò un attimo sospeso, e mi si aprì una breccia di speranza, inspiegabile ma reale.

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Il magazzino era vuoto

La luce pulsò forte a destra, verso un’altra sala, piena di gente che ballava. Era una discoteca, o un locale universitario dove era in corso una festa. La musica che faceva muovere tutti quei corpi non era udibile. I bassi, prima così vivi, si erano dissolti nelle parole incomprensibili del sacerdote, per poi trasformarsi nel moto ondoso di un’intera massa umana. Tutto era nero e denso, al di là di un vetro che mi separava da quello scenario. Poi la luce si spostò in un altro punto, illuminando un volto che avevo dimenticato, tanto il dolore e il tempo l’avevano cambiato.

Il neon si ristabilizzò e la porta si aprì. Mi trovai davanti a un’aula antica e tetra, piena di giovani in abito da sacerdote che ascoltavano un alto prelato con l’aria da docente. Non ne ero sicuro, ma qualcosa nella mente e nel cuore mi diceva che avevo già avuto a che fare con quell’uomo. Sì, ci eravamo già incontrati, in passato, e più guardavo il suo volto, più quel pensiero si faceva certezza. I suoi lineamenti mi erano familiari, ma al tempo stesso era come se avessi cercato con tutto me stesso di dimenticarli. Non era una sensazione piacevole. Era un incubo che diventava reale. Fu solo a quel punto che l’infravisore si riaccese.

Così bello e radioso da sconvolgermi la vita.

Tratto dal romanzo “Sentieri di notte” Galaad Edizioni

Leyla mi sorrise come nel giorno in cui l’avevo conosciuta. Allora ricordai.

giovanni agnoloni

nato nel lontano 1976 a bistrita, ritiene di dover attribuire a questa origine la sua arcinota ipocondria, ovverosia “bi-strizza” che lo prende tutte le volte che deve andare da un medico. per o nonostante questo, si è messo a scrivere, perdendosi nelle lande desolate di mordor prima di approdare alle derive della fantascienza. il resto è storia.

Illustrazione di Niccolò Gambassi

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Il ponte dei cani suicidi

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Il ponte dei cani suicidi In Scozia, un giorno, un cane s'ammazzò. Era il Ventesimo secolo, l'uomo considerava il suicidio una propria esclusiva: se anche gli animali erano capaci di gesti autodistruttivi, l'atto cosciente e ragionato era loro impossibile, così come il dilemma morale. Tuttavia queste nozioni non aiutavano a indagare la morte di quel cane: chi si avvicinava all'accaduto finiva per alimentare una nebbia di miti e teorie che si fece presto densa coltre; tra i vapori, l'uomo smanioso di verità riusciva comunque a scorgere alcuni fatti di rilievo. Il cane si uccise nei pressi di Milton, distretto di Glasgow. Nelle verdi lande della zona si trovava Overtoun House, una villa campestre edificata nel Diciannovesimo secolo: architettura gotica, edera avvinta alle mura e rigogliosa vegetazione che si estendeva all'orizzonte. Overtoun House si raggiungeva passando per l'omonimo ponte, che sovrastava il fiume vicino alla villa nel punto in cui questo compiva balzi a cascata. A uccidere il cane fu un volo di quindici metri dal ponte. Non fu l'unico esemplare a gettarsi, ma era difficile quantificare i casi e l'arco di tempo in cui avvennero i suicidi: all'inizio nessuno sentì il bisogno di statistiche ufficiali. Tra le dicerie più in voga, una contava duecento cani tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio del nuovo millenio. Quali fossero i numeri, il luogo divenne noto come Ponte dei Cani Suicidi. La domanda cui nessuno sapeva rispondere acquistò la forza suggestiva dell'enigma: perché i cani si uccidevano? Non si avevano notizie di casi analoghi in altre parti del mondo, mentre gli uomini, per gettarsi da altezze elevate, non erano

costretti a recarsi a nord di Glasgow. Eppure i cani si uccidevano soltanto da quel ponte. La soluzione era già offerta all'uomo, ma bisognò aspettare i primi anni del Ventunesimo secolo perché fosse evidente. In quel periodo fu trasmesso il documentario di un esperto di psicologia animale che mise insieme le informazioni necessarie per diradare la nebbia: tra la fauna che popolava le vicinanze del ponte c'erano scoiattoli, visoni e topi; le secrezioni prodotte dai visoni durante il periodo dell'accoppiamento avevano un odore irresistibile per alcune razze canine;

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Il ponte dei cani suicidi

resistenti all'usura del tempo, regolari nei movimenti. E così era stato. L'uomo che aveva ideato il ponte, Henry Milner, se anche avesse conosciuto l'effetto che le secrezioni dei visoni producevano sui cani, non ne avrebbe tenuto conto, perché nel Diciannovesimo secolo, in Scozia, non c'erano visoni. E chi li importò in Europa dall'America, negli anni Venti del Novecento, non aveva avuto ragioni per interessarsi al ponte di Overtoun, perché i visoni furono importati per l'allevamento da pelliccia. E se dagli anni Cinquanta i visoni iniziarono a riprodursi nelle campagne, sarebbe stato eccessivo reputare gli allevatori responsabili per i cani suicidi. Se un cane, fuggito al padrone, mordeva qualcuno, il padrone ne era indirettamente responsabile; se invece qualcuno finiva giù da un ponte nel tentativo di catturare il cane, non aveva senso prendersela col padrone. Ogni singola decisione si era incastrata con le altre, ignara delle conseguenze e priva di responsabilità: che colpa si poteva dare a una ruota dentata o a una puleggia? Di fronte all'eccezionalità dell'opera non restava che contemplare ammutoliti; se invece si fosse pensato allo scopo, l'unica conclusione era che l'artefice, oltre che invisibile, fosse demente. Forse fu questa intuizione che spinse molti uomini allo scetticismo sulla tesi del documentario. In fondo, dicevano, quella dei visoni è solo la spiegazione più plausibile, ma non spiega davvero ogni cosa.

Che si gettasse o meno la croce sulle spalle dell'artefice invisibile e demente, che si credesse al documentario o si preferisse il conforto dei miti, restavano ancora domande inevase:

uno dei tratti distintivi del canis familiaris era la difficoltà nel percepire le altezze. Il documentario rivelò che, attratti dagli odori, limitati nello sguardo e nell'udito dal parapetto, e perciò spinti a orientarsi con l'olfatto, i cani si lanciavano ignari del volo fatale; non si trattava di suicidio, ma di errore percettivo. Il Ponte dei Cani Suicidi era un congegno creato da un artefice invisibile, che in diversi momenti aveva allestito ora un ingranaggio, ora un altro, interessato esclusivamente all'efficenza di ogni singolo elemento. Li voleva puliti e lucidi,

perché, dopo i primi suicidi, nessuno aveva modificato il parapetto per impedire che i cani saltassero? Perché nessuno era mai intervenuto, ad esempio mettendo un cartello che sconsigliasse di lasciare i cani liberi di scorrazzare sul ponte? Perché si erano lasciati esposti al pericolo?

matteo pascoletti

(1978) è perito agrario ad asti ed ha fatto il servizio civile a belluno. ha pubblicato a pagamento un saggio contro l'editoria a pagamento.

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“Oppure un romanzo a propoposito di”

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“Oppure un romanzo

a propoposito di” ...drammi borghesi italiani? Meglio altro. Meglio il fantastico. Meglio ancora, una grande storia di soldati di leva che entrano per la prima volta in un campo di sterminio. Tipo Il grande uno rosso, solo che è tutto raccontato tramite i ricordi di uno di loro, un atto fondativo della sua visione e interpretazione del mondo prima che vada altrove a fare cose, a ottenere risultati (il che qualifica questa storia come ineludibilmente americana) immaginiamo un soldato italiano, al di là del fatto che un soldato italiano sarebbe stato a infilare la gente nei piombati per i lager, immaginiamo questo soldato italiano, l’Italia non si è mai alleata con la Germania, l’amicizia Churchill-Mussolini è florida, gioviale addirittura, e oggi, 27 gennaio 1945 – questo scenario implica anche una certa lentezza dei russi sul fronte orientale – la tua pattuglia, quattro giovani alpini a dorso di mulo – hanno senso gli alpini? Forse una divisione di cavalleria, anche se non è chiaro cosa facessero le divisioni di cavalleria nell’esercito italiano della Seconda Guerra

Mondiale, probabilmente trasportare artiglieria, certo è solo che per le perdite venivano sovente riaccorpate, – quattro mettiamo, allora, esploratori di un battaglione di cavalleria riaccorpato, anche se qui ci stanno troppo bene gli alpini, quindi su! Immaginiamo questi quattro alpini che arrivano in bicicletta ad Auschwitz. Va da sé che quanto si trovano di fronte è sufficiente a chiudere da subito qualunque possibilità di commedia, a rendere impronunciabile se non alla distanza – alla estrema distanza, e dopo diventerà solo un marcatore aggiuntivo dell’orrore – quel “ué Pepìn ghe sarà mai quela roba là?”, ecco i nostri alpini, che scendono di bicicletta (la bicicletta, oggetto irrimediabilmente allegro, oltre che inglese, non può in alcun modo esprimere la gravità funebre del cavallo) e procedono a piedi, spingendo la bici, guardinghi, coi fucili imbracciati, lungo la strada che delimita il campo. Ai reticolati sostano a guardare, si scambiano parole mozze, volgono sguardi quasi imbarazzati sui mucchi di cadaveri, sulle baracche, sui pochi rimasti vivi. Ecco, immaginiamo costui quando torna a casa a Belluno, questo alpino non direbbe proprio un cazzo di niente alla moglie o ai figli e non farebbe di quel momento di fronte alle cataste di morti un’atto fondativo della propria idea e interpretazione del mondo, ne trarrebbe al massimo una maggiore mitezza, forse una inespressa capacità di sopportare, oppure solo qualche scatto d’ira. Dunque, una bella storia di ragazzi americani che liberano il lager, e che fine faranno questi ragazzoni, cliché vorrebbe che uno muoia in modo stupido a guerra pressoché finita, e allora teniamoli vivi tutti e quattro, e uno diventerà magari un senatore, un personaggione

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“Oppure un romanzo a propoposito di”

suo nonno guardava dalla democratico, ma noi non “Tutti i precedenti porta socchiusa e si tirava racconteremo la sua di storie, paragrafi vanno una sega scopandosi il culo noi racconteremo la storia col manico di una scopa. dell’altro, quello giovane anzi riuniti in un solo Figuriamoci, su Internet si giovanissimo che ritroverà grande capitolo sa trovi tutto, già diviso in un’America aperta a ogni che ha per centro categorie, su xwombat ci possibilità ma non priva di sono casalinghe americane angoli oscuri, angoli che a la festa della Sig.ra che fanno di tutto in cam se volte prendono tutta la scena, Giulia Miceli ecc. ecc.” gli compri le cose della loro e da lì l’Italia sarà qualcosa wishlist Amazon, compri un di minuscolo, anzi di non copricellulare e quella si ficca posto, neanche buona più per Pier Paolo Pasolini il cellulare nella fregna, su simboleggiare l’Europa dagli Internet c’è two girls one cup, gente che mangia la Stati Uniti, meglio la Francia se qualche nazione sua merda, cosa vuoi scandalizzare? Minimo per europea egli vorrà vagheggiare negli anni ’60. attirare l’attenzione serve una storia di snuff movie, Oppure un romanzo di gente che scopa: non narrativa erotica, ovvio, ma quel tipo qualcosa alla Miguel Angel Martin, anche se Miguel letteratura contemporanea che utilizza il Angel Martin quelle cose le faceva già negli anni ’90, anni senza Internet, chi sa se basta oggi una storia, sesso per dire cose. che so, di bambini fatti a pezzi con un seghetto Che poi in realtà per fare un romanzo incentrato elettrico, di preadolescenti tailandesi strangolate sul sesso che non sia un dramma borghese, col cavo per i panni, che strabuzzano gli occhi e uno deve fare qualcosa di pesissimo, non è che agitano le braccia in modo atroce, un romanzo basterebbe partire col protagonista che si fa una ambientato nel mondo degli snuff movie, anche se sega davanti allo specchio o, che so, volendo in realtà pare che gli snuff movies non esistano e attingere, raccontare di quando ero dalla Laurina, quindi non c’è alcun mondo degli snuff movie, nei fondi, e capimmo che nell’altra stanza, al buio,

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“Oppure un romanzo a propoposito di”

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la realtà conta due, massimo tre film di gente che viene ammazzata per la telecamera – il riparatore di computer di Rotenburg Armin Meiwes che filma la propria uccisione di Bernd Jürgen Armando Brandes (poche decine di minuti prima avevano cercato di mangiarsi insieme il suo cazzo saltato con aglio e olio, ma pare fosse troppo gommoso e l’avevano dato al cane), Viktor Sayenko e Igor Suprunyuck che prendono a martellate un malato di cancro e un video intitolato one lunatic one icepick che però forse è falso, ma nessuno di questi video è stato fatto per essere venduto, quindi non sono snuff. La verità è che esistono solo film sugli snuff, Linea di sangue, A serbian movie, Snuff, Videodrome, Hardcore, Linea di sangue, Tesis, 8 mm, oppure film che si è creduto fossero snuff, Cannibal Holocaust, la serie Guinea Pig, che se non altro ha ispirato un vero serial killer, Tsutomu Miyazaki, collezionista di piedini infantili, che al processo scaricò la responsabilità di tutto su Kabazuki l’uomo ratto, suo alter-ego – ecco! un bel romanzo su Tsutomu Miyazaki, che tenga il pezzo e non tracimi, ma è anche vero che siamo in Italia e non ce li abbiamo forse i serial killer? Pensa, un romanzo sul mostro di Firenze. È un attimo andare su Youtube. Ecco un testimone, giacca di fustagno, occhiali fumé. Il giudice: “Mario Vanni le ha mai mostrato una busta con dei peli di pube?” “Di peli di fiha!” Ecco Pacciani: “Lei possedeva un vibromassaggiatore in gomma? “Eh ce l’ho anche di legno!” Le intercettazioni ambientali: “Gli va a dire del fucile, questa maledetta diavola... Brutta maledetta puttanaccia... Quando ti vidi! Brutto animale velenoso, ma io ti taglio i’ collo con un’accettata... Come una zucca!” Sarebbe, temo, un libro buffissimo. Per farlo serio bisognerebbe scegliere qualche personaggio famoso dell’epoca, un Enzo Tortora, toh, diamogli anche quella, un Corrado, creare un suo alter ego tipo Ellroy, imbastire una teoria secondo cui il mostro di Firenze era senz’altro lui e ribadire quello che pensano tutti, che quei vecchiacci avranno scannato qualche coppietta una volta o due, ma erano fondamentalmente, intimamente, innocenti.

Brano tratto da un prossimo romanzo di Vanni Santoni, dal titolo di lavorazione “I fratelli Michelangelo”

vanni santoni

è nato nel 1606 a phuket dove è noto come nahasdg lo spirito delle barche con sei remi. ha scritto alcuni saggi in versi sul vizio delle carte in generale, e del bridge in particolare.

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Gli scrittori del caffè notte

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Illustrazione di Antonio Pronostico


Guttalax e libertá

Guttalax e libertà

Avete presente il suono che fa una scoreggia in un piatto di brodo? Forse il paragone non è giusto ma è la prima cosa che viene in mente ascoltando un texano che si ostina a chiedere burro anziché butter. Ci ho messo un quarto d'ora a capire cosa voleva. Il texano ha continuato a scuotere il capo e spruzzolare saliva tutt'intorno tirando fuori una scoreggetta dietro l'altra: buooogh. Pappardelle al cinghiale ma con pane e burro. Sassicaia del '97 ma con Coca light. Sono inquietanti gli americani, se non fosse per le mance non gli porterei neanche il pane. E neppure ai francesi. No, non lo parlo il francese e se non sai l'inglese cazzi tuoi. Non voglio averci a che fare con i francesi. E di sicuro non voglio saperne degli italiani, per fortuna a queste latitudini economiche se ne vedono di rado. Qua i piatti del menù hanno l'articolo determinativo; sembra una cosa da nulla, ma tra averlo e non averlo ci passano quattro euro. Ho girato i ristoranti di mezza Italia e ho imparato una cosa: i menù con un monte di discorsi si pagano un tanto a parola. Il prezzo di una pietanza lo indovino a orecchio. I tortelli di coniglio nostrano alle erbe aromatiche con cipollotti freschi e riduzione di liquirizia stanno almeno a cinquanta euro. Si dovrebbero pagare solo i sostantivi e invece a costare sono soprattutto gli aggettivi. L'alta ristorazione è come la cattiva letteratura. Un susseguirsi di dettagli e cachinni la cui funzione principale è trasformare una macedonia in una tagliata di frutta. Alcuni di voi penseranno che sono un qualunquista e che a determinare il prezzo di un cibo è la sua qualità, non il numero di parole utilizzate per descriverlo. Forse vi sembrerà

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un'aporia logica, ma fidatevi di me: la qualità è la descrizione. Prendete la nostra carta per esempio e scorrete la colonna dei secondi-piatti sino a incontrate Il pollo del Valdarno di Laura Peri. Chi è Laura Peri? Voi non lo sapete e io neppure. A parte lo chef, nessuno lo sa, potrebbe persino non esistere una persona che risponde a tale nome eppure questo non ha la benché minima importanza perché ormai quello che avete nel piatto non è più un pollo, è un Laura Peri; detto in altre parole state per addentare un eccesso semantico. Non ne siete convinti? Bene, risalite sino alla lista dei primi e prendete quello più caro: Le mezze maniche Mancini raccolto 2012 con salsiccia di cinta senese e fagioli di Sorana. Lasciamo perdere il Mancini, che anche questo non si sa bene chi sia, ma perché il raccolto 2012? E' così buono che merita una menzione? Cos'aveva il 2011 che non andava? E' un po' come nei vecchi film di James Bond, c'è sempre un punto in cui Sean Connery ordina una boccia di Dom Pérignon del '53 o di Bolliger del ‘66. Dettagli a prima vista insignificanti perché nulla aggiungono alla trama ma che sono invece necessari per tratteggiare il mondo lussuoso ed esclusivo all'interno del quale si muove l'agente 007. A me James Bond è sempre parso l'emblema della miseria umana, un borghese frivolo, reazionario e tendenzialmente fascista i cui principali interessi culturali sono il golf e la fica. Insomma, il cliente tipo di un posto come questo. Stasera però tifo SPECTRE e l'operazione Omega sta per avere inizio. Il guttalax ha una latenza di 10-12 ore, ma se usato in dosi massicce, tipo 60 gocce anziché le 20 previste, i tempi si riducono di un bel po'. Secondo i miei calcoli 2-3 ore dovrebbero essere sufficienti.

La cosa difficile non è stata siringarlo nello champagne, ma renderlo inodore e insapore.

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Guttalax e libertá

Ci sono voluti mesi per trovare un terpene in grado di mascherare l'odore del medicinale. Alla fine l'ho trovato in un ingrosso di confetti. Al personale invece l'ho versato nel caffè, ma in dosi più blande così che il periodo di incubazione sia più lungo e l'apoteosi si raggiunga intorno alla 11, quando tutti sono al dolce. Per essere certo degli effetti ho sperimentato prima su me stesso, aumentando gradualmente la quantità di gocce sino a raggiungere la soglia in cui sopraggiungono gli spasmi addominali. A quel punto resistere non serve a niente. Lo sfintere cede e ogni tentativo di trovar requie nella lotta si trasforma in uno sversamento maleodorante. Non una, non due e nemmeno tre volte, ma infinite e quando gli intestini si svuotano i crampi rimangono e per quanto spingi non esce più niente. La maxidose che ho assunto mi attorciglia le budella da più di un'ora. Sì, perché per farla franca devo essere vittima tra le vittime, in modo che i sospetti ricadano su quanti non hanno preso il caffè. Quindi no cowboy, niente burro in fiocchetti morbidi questa sera e lascio andare un peto che inizia

scoppiettando e cresce di tonalità sino a trasformarsi in un rumore umido che sfrignola, sfraglia e scroscia divaricandomi il solco delle natiche e gli escrementi riempono le mutande e fuoriescono e colano lungo le cosce compiendo un giro dietro il ginocchio sino a inzupparmi i calzini e sversare sulle scarpe. Il texano ha un urlo trattenuto negli occhi che aumenta nel momento in cui la moglie dice oh my god e molla una scoreggia acuta che sembra doversi esaurire subito e invece si prolunga sfrangiandosi in due diverse tonalità che si uniscono in un gorgoglio idraulico quando al gas si mescola la materia liquida. Mi accascio a terra, primo tra le vittime, e vedo i bicchieri che si infrangono e i clienti cercare salvazione al bagno ignari del fatto che l'ho chiuso a chiave e gettato il passpartout nel canale di scolo. Un giorno mi beccheranno e per me sarà finita, ma anche allora vi converrà aspettare per tirare un sospiro di sollievo perché noi siamo legione: dal Minnesota alle Baleari, dall’Australia allo Zimbabwe, ovunque andrete c'è un cameriere ossequioso e professionale che vi odia.

dimitri chimenti

insegna narratologia multimediale e screenwriting alla naba di milano. scrive di cinema e letteratura. nel 2012 ha diretto il documentario just play.

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Licenziamento di un filosofo

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Licenziamento

di un filosofo

Si diceva che quello di Rosolino Porzio fosse l’unico ristorante dell’Isola a dare importanza al titolo di studio nella selezione dei camerieri, e questo mi piaceva. Sia perché era un modo originale di vedere riconosciuto il valore dell’istruzione universitaria, sia perché, mentre i clienti consumavano i loro pasti, anche noi potevamo avere il nostro piccolo convivio. Libri di Derrida e di Harold Bloom si trovavano sulle panche dello spogliatoio accanto a testi classici latini, a manuali d’informatica, e alle riviste porno di Maurice, l’ostile doorman della Martinica. Qualunque fosse la nostra provenienza ci capivamo perfettamente, e le conversazioni che avevamo nei periodi morti erano sempre stimolanti. Una memorabile fu quella sulla distinzione fra tragedia e commedia, che ci appassionò per molte sere. Tutto nacque da una semplice osservazione. Arrivando nel pomeriggio della prima domenica di luglio alle Comari, e trovando nuove tende rosse allacciate alle colonne della sala principale, dissi che ricordavano le tende di un teatro. «Vero!» convenne Jason, un robusto dottorando in lettere classiche della Columbia University, ma anche un esperto sommelier che era solito lavorare con un taglia capsule rotondo, molto simile a un ciuccio, attaccato al collo. «Resta da capire se ciò che qui si rappresenta sia una commedia o una tragedia».

Le sue parole agirono da prologo, perché quella stessa sera Jason venne licenziato a causa di uno spiacevole incidente, se tragico o comico fu poi oggetto di lunghe discussioni. Questo Jason aveva una solida preparazione filosofica. A volte sembrava un filosofo lui stesso, e come molti filosofi che rifiutano di lasciarsi intimidire da dottrine metafisiche, giudicandole un ostacolo alla libertà individuale, era anche un grandissimo goloso, con una segreta passione per la panna cotta: ne trangugiava di nascosto porzioni come fossero ciliege, buttando poi la coppetta di metallo nella spazzatura per non lasciare indizi. Gli effetti intrinseci della panna, però, non erano eliminabili in modo altrettanto silenzioso. Spesso lo si vedeva correre

al bagno dietro la cucina, e lo si sentiva liberarsi lì del meteorismo. All’uscita lo aspettava puntualmente una squallida passerella, ma la dignità che Jason dimostrava nel sopportare i lazzi dei lavapiatti ecuadoriani era ammirabile. La sua compagnia era sotto ogni altro aspetto amena, e io cercavo sempre di lavorare insieme a lui. Ci riuscii anche quella sera, quando venimmo scelti per un incarico delicato: tavolo da nove, su palco reale, in onore del grande Norman.

“Lo scopo del lavoro è quello di guadagnarsi il tempo libero” Aristotele 32


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Licenziamento di un filosofo

Sua Eccellenza Rosolino Porzio venne di persona a dare il benvenuto agli ospiti, scortato da Gennaro in veste di capitano, mentre io e Jason facilitavamo il prender posto scostando e avvicinando sedie. L’incanutito scrittore sedette a capotavola, alla sua destra l’agente letterario, alla sinistra una giovane signora, a seguire tre coppiette in età matura dal comune look alternativo chic. Tutto procedette bene fino al secondo, quando venni incaricato da Gennaro di aprire una bottiglia di Tignanello. La lametta taglia capsula del mio cavatappi semiprofessionale si era ormai smussata, e a volte, per completare il lavoro, ricorrevo di nascosto a un coltellino che tenevo sempre in tasca. Ma quella sera, con Porzio alle calcagna, non era consigliabile provarci. E sì che la capsula del Tignanello può risultare ostica! Allora, per la prima volta, chiesi in prestito a Jason il suo trincetto circolare. Lui, che stava già dirigendosi in cucina, dopo essersi scusato formalmente come un cadetto di West Point, alla mia richiesta tornò indietro: con un gesto solenne si tolse il taglia capsule dal collo e me lo porse. Non solo. Forse perché ci era affezionato, o forse perché voleva assicurarsi che lo usassi nel modo corretto, invece di andarsene di corsa a fare quello che doveva fare, rimase lì a osservarmi. E io, già nervoso di dover aprire una bottiglia al grande Norman sotto lo sguardo vigile di Porzio, dopo un primo fallito tentativo, persi la presa e feci cadere quel maledetto cazzo di ciucciotto! Come prescritto, mi trovavo alla destra

luca bufano

del capotavola, con Jason in posizione defilata alla mia sinistra. Quando il taglia capsule cadde sulla moquette rossa, rimbalzando alle nostre spalle, Jason ebbe la malaugurata idea di chinarsi per raccoglierlo.

Dovette così compiere una rotazione di novanta gradi, offrendo il retro agli ospiti, e... mio Dio, che colpo!

La raffica venne sentita in tutta la sala, forse anche al bar, e sicuramente sulla porta d’ingresso, perché vidi Maurice girarsi di scatto verso di noi e digrignare i denti in un’equivoca espressione di piacere. Il grande Norman, un veterano della guerra nel Pacifico, si mantenne freddo: sorrise senza voltarsi a guardare in faccia l’esplosivo sommelier, come fecero invece tutti i commensali, e lasciò perdere. Ma chi non sorrise, né lasciò perdere, fu Sua Eccellenza Rosolino Porzio. La maggior parte dei colleghi sostenne che il licenziamento di Jason, avvenuto la sera del quattro luglio, mentre i fuochi di Felix Grucci Jr. illuminavano la baia, fu una commedia. Era infatti vero che l’incidente fu dominato dalla legge di casualità, e che la peripezia suscitò per lo più risa, non sdegno. Ma è anche vero che Jason, nonostante il furto reiterato della panna cotta, in nessun caso poteva considerarsi una persona ignobile. Non lo era! E per questo motivo, Aristotele alla mano, ho sempre sostenuto che il suo licenziamento fu tragedia, non commedia.

è nato a firenze, dove si è laureato in lingua e letteratura italiana, e ha poi vissuto a lungo negli stati uniti. attualmente insegna presso la sede fiorentina della florida state university. ha pubblicato numerosi saggi su beppe fenoglio, di cui ha anche curato, per einaudi, i seguenti volumi:lettere 1940- 1962 (2002), una crociera agli antipodi e altri racconti fantastici (2003), tutti i racconti(2007).

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In memoria e oblio di S. T.

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In memoria e in oblio di S.T. Le scarse notizie che abbiamo sulla vita di Simone T. emergono dalla prefazione che l'autore stesso ha scritto per la sua unica pubblicazione, Palle scassate. Il libro è il primo titolo della misconosciuta e pirata casa editrice Bacheca Bianca che, a quanto risulta, non è stata mai registrata alla Camera di Commercio né iscritta alla Siae. Digitando su Google “bacheca bianca edizioni” o “casa editrice bacheca bianca” o ancora “pubblicazioni bacheca bianca”, si ottengono appena due risultati. Il primo rimanda all'articolo Teoria e tecnica di un tentativo fallito di rivoluzione, pubblicato il 15 agosto 2005 su manislavate.com, blog del giornalista palermitano, collaboratore della Nuova Sicilia e di Panorama, Saverio Rizzo. L'articolo, raggiungibile grazie

alla tag “bacheca bianca”, si apre con l'epigrafe, dall'opera di Simone T.: «Se l'umanità acquisisse consapevolezza di essere soltanto di rado nel giusto, il peso dell'esistenza sulla Terra sarebbe sopportabile per ciascuno di noi.» Il pezzo, che analizza il rapporto tra intellettuali e movimenti in seguito ai fatti del G8 di Genova, si chiude con un inconsueto post scriptum: «Ho dovuto chiudere i commenti a causa di due, permettete il francesismo, coglioni, che, un minuto dopo aver postato l'articolo, hanno approfittato di questo spazio democratico per offendere, calunniare e insultare la memoria di una persona a me cara, di grande spirito e coraggio, che purtroppo se ne è andata troppo presto. Sono certo che comprenderete i

motivi di questa mia scelta.» C'è ragione di credere che Rizzo si riferisca per l'appunto al nostro autore dalla misteriosa biografia. La chiusura dei commenti è infatti citata, pur senza link, anche nel secondo collegamento indicato da Google: un post pubblicato il 12 marzo 2006 su lecittàinvivibili.blogtown.com e firmato dal nom de plume Natalino Calvino. I figli spirituali di Italo, nell'articolo Resistenza a mente armata, definiscono Simone T. un esempio puro e incontaminato di letterato militante. Vedono in lui un martire della dittatura del capitalismo, un profeta visionario di un mondo giusto e felice. Cito testualmente dalla seconda parte del post: «T. combatte contro le ipocrisie del sistema culturale opponendogli la forza della cultura, sfida i tiranni dell'ipocrisia chiudendosi nella sua stanza a scrivere, uscendo quando ha veramente qualcosa da dire e rivolgendosi al popolo. T. parla agli studenti di ogni età e grado, declama versi negli ospizi e negli ospedali, legge passi scelti dai suoi classici preferiti davanti ai supermercati e nelle aree riposo dei centri commerciali. E grida ai passanti: Abolite il denaro causa delle malvagità del mondo! Amatevi e rispettatevi senza risparmio per debellare sofferenza e solitudine! Fermate il massacro del bene, del bello e del giusto! Chi non legge non può essere umano!» Nell'ultima parte infine si fa un accenno al ruolo di Simone T. come ispiratore metapolitico, sebbene inconsapevole, del progetto che ha reso Natalino Calvino il collettivo letterario più famoso dopo Wu Ming. Natalino Calvino racconta di aver conosciuto l'autore di Palle scassate un pomeriggio di aprile del 2003, all'università. Quel pomeriggio Simone T. aveva improvvisato una lettura in cima alle scale della facoltà. Natalino rimase folgorato. Fu impressionato dal carisma di quel tizio, un ragazzotto alto e scheletrico: sul metro e novanta per meno di 70 chili, i capelli lunghi e ricci gli cadevano a risacca sulla schiena inondandola di un castano chiaro, quasi biondo; portava una barba secolare rossiccia e aveva giganteschi

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occhi verdi; le occhiaie tipiche di chi si droga molto e mangia e dorme poco. Natalino ascoltò soltanto gli ultimi due testi, ma lo convinsero ad avvicinare quel fattone pazzo che declamava con entusiasmo i suoi scritti; si presentò, scambiarono delle chiacchiere, poi invitò Simone T. alla riunione con alcuni suoi amici di facoltà intenzionati a metter su una rivista. L'appuntamento era fissato per l'indomani alle 18 al 32, in via dei Volsci. Fare riunioni costruttive, precisò, era il modo migliore per non ubriacarsi e drogarsi inutilmente. E poi, gli diceva, era importante riappropriarsi del proprio tempo, degli spazi. Ma Simone T. non partecipò a quella riunione, né a quelle che seguirono; quell'incontro risulta l'unica testimonianza diretta della reale esistenza dell'autore di Palle scassate. Simone T. però, a quanto pare, era smemorato e beveva ogni giorno fino a stordirsi, come a dimenticare la sua vita man mano che vivesse. Con molta probabilità non ripensò a quell'incontro pomeridiano, né seppe mai di essere stato, per quei ragazzi di poco più giovani, un modello di ispirazione. Ma nessuno, tra i seguaci di Natalino Calvino, ha mostrato, contribuendo così alla sua scomparsa, interesse per la vita e il pensiero di Simone T.. Palle scassate è un oggetto narrativo ibrido: è pamphlet, è feuilleton, è invettiva. È strutturato come un racconto in tre parti, nella prima prende di mira scrittori, editori e critici, nella seconda politici e giudici, nell’ultima padroni e operai, disoccupati e studenti.

Nella sua unica opera Simone T. riesce a dipingere un ritratto perfetto e sintetico della sua epoca.

Nonostante però il lirismo dei passi migliori e la persistenza nel tempo della sua attualità, Palle scassate è ormai introvabile. Così come la casa editrice che l’ha prodotto. Nessuna traccia neanche degli altri due volumi, di cui conosciamo titolo e autore, in quanto segnalati, sotto la scritta DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE, a pagina 114 di Palle scassate. Si tratterebbe di Anatomia di una paranoia incandescente, di Dario Ballotta, e Il fischio del corpo celeste, di Alfonso Minervini. Non si hanno ulteriori informazioni circa Simone T. fino alla pubblicazione, sul Domenicale del 6 marzo 2011, dell’articolo Il fortunato ritrovamento di un genio scomparso, firmato dal critico Gianfranco Pulcino. Tuttavia l’articolo, pur elogiando l’opera con toni entusiastici, è passato sotto silenzio e Palle scassate non ha destato l’interesse di alcun

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In memoria e in oblio di S.T.

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editore, malgrado la potente narrazione attorno alle circostanze fortuite del suo ritrovamento, di cui è lo stesso Pulcino a svelare i dettagli: «In alcuni momenti, nonostante il mio ferreo ateismo, arrivo a sospettare che possa esserci stato un qualche intervento di natura per così dire divina dietro il ritrovamento di Palle scassate. Avevo finalmente, dopo trent’anni di lavoro, comprato casa, e nei giorni del trasloco, abbandonata vicino al bidone della raccolta carta, trovai una cassetta in plastica, del tipo da mercato ortofrutticolo, piena di libri. Naturalmente la portai dentro e mi misi a spulciare. C’erano grandi capolavori, ma erano titoli già in mio possesso, riposti in ordine negli scatoloni pronti per essere sballati. Malgrado la delusione, non me ne potevo disfare: mio padre diceva che buttare libri dovrebbe essere punito con la pena capitale. Quindi presi uno straccio asciutto, una scatola, su cui scrissi a pennarello DA REGALARE, dentro cui riposi, previa meticolosa spolverata, uno per uno i sacri oggetti. Soltanto l’indomani mi accorsi, nascosta sul fondo della cassetta, della sbiadita e logora copia dello sconosciuto racconto di Simone T.» A pagina 3 del libro, racconta ancora Pulcino, c’è la dedica, presumibilmente autografa, che recita: A Silvia, Vive la merde! ST Infine, conclude il critico, all’interno del volume, piegato in due, vi era il ritaglio di un articolo, da un Messaggero privo di data, in cui si dice di uno studente di ventisette anni, S.T., fuori sede e fuori corso, originario di un paesino della provincia di Caltanissetta, che, in via Malatesta, nel quartiere Prenestino, si era lanciato dalla finestra della sua stanza in affitto a quattrocento euro al mese, completamente nudo. Sulla pancia, con un pennarello rosso, si era scritto: “Ci ho provato, ho fatto la mia parte. Ma ne ho avuto abbastanza. Spettegolate come vi pare, ‘sticazzi. E ricordate: il nemico è invisibile, è invincibile”.

gianluca liguori

le scarse notizie che abbiamo sulla vita e l’opera di gianluca liguori sono ascrivibili a tre illustri citazioni: “l’ho visto e ho pensato che fosse un santo. in quel momento non ricordavo di essere in acido” bernardo asvero “bravino, ma abusa di superlativi assoluti” sigmund freud “non è mai esistito” marcel schwob

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Illustrazione di Michele Santella


Barfly

Barfly A chi non è capitato, seduto al bar sorseggiando un drink, di soffermarsi quasi ipnotizzato a osservare le movenze elegantemente studiate di un barman dietro il bancone? Questo è un mestiere antico e pieno di fascino, dove la pubblica relazione (il parlare al barista è la prima forma di psicoanalisi che la vita della metropoli ricordi) si intreccia alla stregoneria, a quell'arte divinatoria che, se non tramuta il piombo in oro, sicuramente riesce a trasformare bevande ostiche, che difficilmente berremmo, in elisir di felicità. Se dobbiamo porre una data che ci riconduca alla nascita dei bar come li conosciamo noi, sceglierei una data vicina al 1860; negli anni precedenti era stata perfezionata la prima macchina per produrre ghiaccio artificiale, di conseguenza l'uso della soda e dello shaker sdogano' i bartenders (americani) dal proporre solo gli archeologici beveroni "bowl", preparati cioè in caraffoni e versati alla bisogna. Nacque così un nuovo modo di proporre drinks e sopratutto un nuovo rapporto tra barman e cliente. Questo cambiamento epocale non poteva passare inosservato agli occhi e alle papille gustative dei grandi e piccoli scrittori, che tra tutti gli artisti sono forse quelli che più hanno osservato la realtà che li circonda. La guida "bartender's guide" di Jerry Thomas, conosciuta poi anche con nome the Bonvivant guide o in Italia tradotta Manuale del vero gaudente, è il primo ricettario universalmente riconosciuto, datato 1862. Per questo ci tengo a citarlo come la chiave di volta del rapporto tra il bere miscelato e la letteratura. Poi venne il proibizionismo e generazioni intere di giovani americani iniziarono a trasferirsi nel vecchio continente dove ancora si poteva gozzovigliare in santa pace, senza paura di una retata o di una resa di conti tra gangster. Le capitali europee del primo trentennio del 900 furono la fucina delle genialità del secolo passato; a Parigi si incontrarono attori, musicisti, pittori e, ovviamente, grandi barman. Essendo quella del bartending un'arte applicata, ma pur sempre un arte, non è un caso che il più grande barman di tutti i tempi, harry Mc Elhone, abbia vissuto a Parigi negli stessi anni in cui

nella capitale dei bohemienne vissero un connubio indissolubile i due cantori della generazione perduta, Hernest Hemingway e Scott Fitzgerald. E mentre i due grandi scrittori componevano le loro prime grandi opere tra un hangover e un party (come è splendidamente raccontato da Hemingway nel suo ultimo libro, Fiesta mobile) all'Harry's bar Mc Ehlone inventava cocktails immortali come il White lady, che sono paragonabili alla divina commedia del bere miscelato. Resta impagabile quella pagina di letteratura (e di leggenda) da bar, riportata sul suo manuale del 1922, l'ABC dei cocktails e come prepararli, dove il grande e simpatico artista dello shaker racconta di un ufficiale ubriaco, che perso il controllo del suo sidecar piombò sulla terrazza del bar; per vincere l'imbarazzo ordinò un cognac. il nostro inventò allora un cocktail per l'occasione e lo chiamò proprio Sidecar. In quegli anni si inizia a bere anche in

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#15 Riotvan


BAR MASSIMO

Gli scrittori del caffè notte

aperti anche il sabato

insalatone 5€

L' OFFERTONE 8 euro

primo 4,30 € secondo e contorno 8€

antipasto toscano

burrata campana 8€

1/2 primo a scelta macedonia

Apericena Venerdì e Sabato dalle 19 alle 22 cocktail 5€ - birra 3.50€ - vino 4€ cene organizzate

feste di laurea

Via Carlo del Prete 9/r - 055 410174

VIA F.DONI 27r FIRENZE Tel 055 3245474 www.puzzlefirenze.com


Barfly

Italia alla maniera americana. Non a caso "Americano" fu chiamato il primo cocktail creato con ingredienti tutti italiani, e il risultato fu talmente superbo che nonostante la mancanza di internet la sua fama fece il giro del mondo e Ian Fleming lo fece bere come primo di una serie interminabile di drink al mitico agente 007 in Casino Royale. L'avanguardia Futurista in quegli anni invase tutto, dall'arte alla società, con un rinnovato amore per la modernità. Tra Milano e Firenze Marinetti e Co. Misero a soqquadro tutte le convenzioni preesistenti, anche a livello organolettico, tanto che aprirono 3 locali in cui proponevano polibibite spiazzanti, pazzerelle e fondamentalmente imbevibili, ma che assomigliano incredibilmente alle ricerche che stanno facendo adesso i mixologist di mezzo mondo. Storico è il loro sodalizio con Campari, di cui Depero disegno' la Mitica bottiglietta del Camparisoda monodose. In tempi di guerra fredda l'amaro calice di due potenze tanto diverse e tanto imperfette furono raccontate e bevute da personaggi controversi ed estremi come Bukowski ed Erofeev; grandi scrittori per cui il bere rappresentava forse l'unica cosa vergine in un mondo allo sbando. Per Buk solo provarsi a fare una ricerca sui rimandi alcolici della sua produzione letteraria vorrebbe dire praticamente riprodurla; per il suo meno famoso ma altrettanto

#15 Riotvan

geniale collega sovietico mi piace citare uno dei tanti cocktails descritti nell'unico libro che è riuscito a terminare, nonostante l'impazienza del politburo del Cremlino che ne foraggiava la vita dissipata e dispendiosa. "Trippa di Cagna": Birra di ziguli 100 grammi, shampoo 30 gr, colla BF 15 gr, olio di freni 30 gr, insetticida quanto basta. In quegli stessi anni, verso il 1961, la associazione internazionale dei bartenders emise la lista dei cocktails internazionali; bartenders e case editrici iniziarono una guerra a suon di manuali di ricette più o meno fantasiose e originali. Come tutte le cose hanno dei cicli, oggigiorno la globalizzazione fa si che in ogni angolo del mondo si possano ottenere prodotti una volta introvabili; e per pubblicizzare nuovi liquori o cocktails si snobbano i giornali e si va in televisione. Capita così che, in attesa del prossimo scrittore geniale e col vizietto del bicchiere, i grandi bartenders come Dale Degroff preferiscano affidare le sorti delle loro creazioni alle serie televisive (si veda il successo planetario del Cosmopolitan grazie alla famosa serie Sex and the city) e tenere corsi su come prepararli che vanno sul web. o ancora il movimento del flair, il bartending acrobatico, negli anni 90 dovette affidarsi al belloccio per antonomasia, Tom Cruise, che nel film cocktails fece conoscere questa disciplina in tutto il mondo.

Illustrazione di Francesca Campanella


Gli scrittori del caffè notte

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Il Cruciverba di Filiman

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Il Cruciverba di Filiman

Il Cruciverba di Filiman ORIZZONTALI -1 Dottrina del diritto naturale. -14 Cosicché, dunque, perciò.-15 Bloccano il veicolo sul luogo dell’infrazione commessa. -16 American Airlines. -17 Catena di sale cinematografiche. -18 Proprio tu. -19 Alla fine dei Caraibi. -20 Si lancia in caso di pericolo. -21 Film di Ozpetek. -25 E’ suo un famoso olio. -26 Potente bomba. -28 In fondo alla risaie. -30 Monili senza sole. -32 L’unico responsabile di un procedimento. -34 Federal bureau of investigation. -35 Una saga senza fine. -36 Incontro di vocali appartenenti a sillabe diverse. -37 La Boccassini magistrato (iniz.) -38 In mezzo al rogo. -39 Alt -40 Mostro all’ingresso dell’Ade. -43 Apre senza dispari. -44 Personaggio della foto. -48 Un Eden senza pari. -49 Precede spesso cognomi brasiliani. -50 Linux Documentation Project. -51 Imposta regolata dalla legislazione europea. -52 Sigla di una serie di Star Trek. -54 Padre di Sem, Cam e Jafet. -55 Fassina politico italiano (iniz.). -56 Dialetto. -59 In suo onore è chiamato un famoso gioco da tavolo, -61 Mammifero con uno o due corni. -64 Si allungava a Pinocchio. -66 Pronome riflessivo. -67 Infuriata, arrabbiata. -68 Militare tedesco delle S.S. morto in Italia a più di cento anni. -69 Foto senza capo ne coda.

VERTICALI: -1 E’ richiesta in caso di assenza. -2 Civiltà precolombiana. -3 Si perde con l’età. -4 Ok, va bene. -5 Organizzazione o ente pubblico che svolge determinate funzioni. -6 Taranto in auto. -7 La sola. -8 Attrezzo da muratori, -9 Ignorante. -10 Il Cherubini cantante (iniz.). -11 Sigla per internet explorer. -12 E’ famoso il suo libretto rosso. -13 area di vegetazione isolata. -18 Lo è Vladimir Luxuria. -20 Filosofo greco antico. 22 Città tedesca. -23 Mann, scrittore tedesco (iniz.) -24 La fine dei periodi neri. -27 Macchina. -29 Congiunzione. -31 Fredda dimora. -33 Pere. -36 Lo era Derrick. -38 Tassa, dazio. -41 Una rete senza eguali. -42 Scritto sulle lapidi d’oltreoceano. -45 Curvatura fisiologica dorsale della colonna vertebrale. -46 Osservatorio Vesuviano. -47 Nuca a Londra, -48 Repubblica araba. -53 E’ famosa quella di Beethoven. -54 Spesso li rubano gli zii ai nipotini. -55 La Nobile inviata de “Le Iene” (iniz.). -57 Compagnia aerea nigeriana. -58 Produce la Ibiza. -60 Automobile inglese. -62 Imposta sulla pubblicità. -63 Comunità europea. -65 Serie televisiva ambientata a Newport Beach in California.

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Direttore responsabile Michele Manzotti Direttore editoriale Mauro Andreani Responsabilo organizzativi Niccolò Seccafieno, Andrea Lattanzi, Giuseppe Di Marzo, Giulio Schoen, Lapo Manni, Daniele Pasquini, Michele Santella Redattori e Collaboratori Salvatore Cherchi, Francesco Guerri, Barbara Leolini, Mario Mancini, Rosa Monicelli, Chiara Morellato, Elena Panchetti, Mattia Rutilensi Grafica e impaginazione Michele Santella Mattia Vegni Web Developement Francesco Canessa Sono stati fatti tutti gli sforzi per segnalare e alloccare Úcorrettamente i crediti fotografici. Ricordiamo che il diritto dell'immagine fotografica resta dell'autore. Numero chiuso in redazione il 10 12 2013 Numero finanziato dall' Università di Firenze Stampato presso Polistampa Firenze Tiratura di 2000 copie in carta ecologica Ciao Califfo



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