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UN INIZIO DISASTROSO DELLE OPERAZIONI SUBACQUEE

Era previsto che i sommergibili dovessero operare contro il naviglio mercantile secondo le norme stabilite da Maricosom e fissate nella Di. Na. 4: attaccare senza preavviso, o con preavviso, il traffico riconosciuto nemico, e regolare la condotta della guerra alla stretta osservanza delle norme internazionali. La durata delle missioni era stata calcolata in periodi da otto a ventotto giorni, che comprendevano anche il tempo impiegato per l'andata e il ritorno, mentre ai comandanti era lasciata piena facoltà di allungare o accorciare il periodo di permanenza se le circostanze lo avessero consigliato.

In definitiva, si voleva attaccare, con la massima energia, fin dall'inizio del conflitto, impiegando il massimo numero di unità. Ciononostante, essendo state le direttive compilate nella previsione di una entrata in guerra a brevissima scadenza, e prolungandosi ancora per nove mesi lo stato di non belligeranza, ne conseguì la necessità di aggiornare le modalità d'impiego a causa della mutata situazione strategica verificatasi in seguito al rafforzamento del nemico nelle basi di Aden e Gibuti. Successivamente, avendo il Viceré allestito un piano d'invasione nella Somalia francese, da mettere in atto subito dopo lo scoppio delle ostilità, il nuovo comandante di Marisupao, contrammiraglio Carlo Balsamo, ricevette l'ordine di appoggiare l'operazione dal mare allo scopo di impedire al nemico il rifornimento di uomini e mezzi. Fu quindi necessario rivedere le modalità per l'impiego iniziale di tutte le forze navali e dei sommergibili in particolare.

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Nel compilare le varianti, Balsamo tenne in debito conto il logorio dei mezzi che si sarebbe verificato durante i primi giorni d'impiego. Preoccupato di risparmiare il maggior numero di sommergibili per le operazioni successive, decise di rinunciare inizialmente al numero di agguati stabiliti nella Di. Na. 4 e di inviare in missione, nei Golfi di Tagiura e di Aden, tre sole unità. Il 28 maggio questo piano fu esposto a Supermarina, che lo approvò dando a Marisupao piena libertà di azione. Ciò malgrado, pressato dagli avvenimenti, l'ammiraglio Balsamo non poté mantenere quanto stabilito e fin dal primo giorno di guerra si vide costretto ad inviare in missione quattro sommergibili, la metà di quelli disponibili. Gli sviluppi successivi del conflitto che videro in breve spazio di tempo impiegate tutte le unità subacquee, dettero ragione ai suoi timori.

Fin dal 10 giugno del 1940, data d'inizio delle operazioni, in ottemperanza alle disposizioni fissate nella Di Na. 4, avevano lasciato la base di Massaua per raggiungere le zone di agguato assegnate presso Porto Sudan, davanti ad Aden e Gibuti e nel Golfo di Oman, i sommergibili Macallé, Galilei, Ferraris e Galvani. A parte quest'ultimo, il cui compito era quello di attaccare il traffico delle grandi petroliere provenienti dai giacimenti dell'Iran, gli altri sommergibili dovevano contrastare le comunicazioni britanniche nel Mar Rosso, nonché insidiare ed attaccare il traffico isolato che transitava nel Golfo di Aden e che si appoggiava a quel porto o a Gibuti, prima di iniziare la navigazione in convoglio verso Suez.

Mentre il Galileo Ferraris (capitano di corvetta Livio Piomarta) rientrò a Massaua il 14 giugno, senza aver potuto proseguire la missione per una avaria alle batterie di accumulatori, riportata in seguito alle bombe di profondità sganciate da un cacciatorpediniere nemico, a ben più dolorose avventure andarono incontro gli altri sommergibili.

La zona di agguato assegnata al Macallé (tenente di vascello Alfredo Morone) si trovava a 30 miglia da Porto Sudan, e doveva essere tenuta, secondo gli ordini di Marisupao, stando in immersione nelle ore diurne. Ma, il 12 giugno, a causa di perdite di cloruro di metile dall'impianto di refrigerazione, fra l'equipaggio si verificarono i primi sintomi di avvelenamento. Inoltre, non essendo state effettuate le prescritte osservazioni astronomiche per fare il punto, in quanto il comandante aveva creduto di identificare il faro a traliccio di Hindi Gider per quello di Sanganeb, ne derivò uno scarto notevole di rotta verso levante anziché verso ponente. Dal momento che le condizioni ambientali a bordo del sommergibile erano peggiorate e quasi tutti i membri dell'equipaggio risultavano menomati, nessuno si accorse dell'errore e alle prime ore del 15, venuto a trovarsi in una zona di forti correnti, il Macallé si incagliò sulla costa dell'Isola Barr Musa Chebir, e nel tentativo di liberarlo affondò scivolando in alti fondali.

L'equipaggio, postosi in salvo sull'isoletta, venne recuperato una settimana più tardi dal sommergibile Alberto Guglielmotti, grazie al coraggio del guardiamarina Sandroni, del sergente Migliorati e del marinaio Costagliola, che, con poche gallette e tre bottiglie di acqua minerale, su un piccolo canotto lungo appena 2 metri e con l'ausilio di una vela di fortuna fabbricata con un telo di branda, si erano avventurati in mare con una temperatura di 50 gradi. I tre uomini, soffrendo la sete e il caldo, piuttosto che cercare aiuto in territorio nemico, in tre giorni percorsero le 100 miglia che li separavano dalla costa amica per dare l'allarme.

Il 16 giugno il Galileo Galilei (capitano di corvetta Corrado Nardi), che si manteneva in agguato nelle acque antistanti il porto di Aden, fermò la grossa petroliera norvegese James Stove (capitano Olaus Eliassen), di 8.215 tsl, che era salpata il 29 maggio da Singapore per Suez, via Aden, con un carico di 10.800 tonnellate di benzina per la RAF. Il comandante Nardi, parlando in inglese col direttore di macchina della James Stove che si era avvicinato al sommergibile su una scialuppa, concesse un quarto d’ora di tempo per abbandonare la nave, prima di affondarla, All’intimazione l’equipaggio della petroliera si allontanò con le imbarcazioni di salvataggio. Quindi, scaduto il tempo concesso, nello spazio di cinque minuti, la James Stove fu colpita dal Galilei con due siluri: il primo esplodendo nella sala macchine, determinò un appoppamento della petroliera; il secondo colpì al centro dello scafo. Seguì un esplosione e la James Stove affondò con la benzina in fiamme che si propagavano in mare tutt’intorno alla nave. Un’ora dopo i trentaquattro uomini dell’equipaggio furono raccolti dallo sloop britannico Moonstone e portati ad Aden.

Secondo l’inchiesta fatta ad Aden dal capitano di fregata della Royal Navy Anthony Coke, interrogando Roger Griffiths, il direttore di macchina della James Stove, l’ufficiale italiano, in camicia nera, avrebbe detto: “Aden è un porto inglese”. La vostra nave sta per essere affondata e avrete un quarto d’ora di tempo per scappare. Parlava cortesemente e si comportava, secondo le parole dell’Ufficiale [della petroliera], come un “perfetto gentiluomo”.

Dopo aver affondato la James Stove, nel primo pomeriggio del 19 giugno il Galilei fermò il piroscafo jugoslavo Drava che, trovato in ordine con i documenti e il carico, fu lasciato proseguire. Ma il colpo di cannone che il sommergibile aveva sparato a scopo intimidatorio, in osservanza delle norme internazionali, fu udito da un guardiacoste britannico, che dette l’allarme.

Un velivolo da caccia «Gladiator», del 94° Squadron della RAF, inviato nella zona per un controllo, localizzò il sommergibile, a 30 miglia a sud-est di Aden, e si tenne in vista fino all'arrivo di un bombardiere «Blenheim». Questi sganciò le bombe fallendo il bersaglio, mentre il «Gladiator» si abbassò per mitragliare lo scafo del sommergibile, costringendolo ad effettuare rapida immersione, pur senza riportare danni. Nel frattempo il cacciatorpediniere Kandahar e lo sloop Shoreham, che erano nelle vicinanze, avevano ricevuto ordine di portarsi nella zona, mentre il peschereccio armato Moonstone, che si trovava a nord-est di Aden, fu messo in allarme.

Il comandante Nardi, che non ritenne di allontanarsi dalla zona ove era stato avvistato, verso il tramonto ordinò l'emersione per ricaricare le batterie, e fece uso della radio per trasmettere un messaggio. Purtroppo la trasmissione venne intercettata dal cacciatorpediniere Kandahar (capitano di fregata William Geoffrey Arthur Robson), il quale, usando il radiogoniometro, fu in grado di rilevare la posizione del sommergibile. Verso sera, il comandante Nardi avvistò le navi nemiche e tentò di portarsi in posizione di lancio senza riuscirvi, in quanto, scoperto alle 19.30 dallo Shoreham (tenente di vascello Francis Duppa Miller), fu costretto ad immergersi prima di lanciare i siluri. Subito dopo il Kandahar e lo Shoreham iniziarono gli attacchi e, salvo una breve interruzione, che venne sfruttata dal sommergibile per tornare in superficie nel tentativo di ricaricare le batterie, continuarono a lanciare bombe di profondità tutta la notte senza conseguire risultati.

Al termine della caccia non avendo riportato danni, il Galilei si portò sul fondo, a 45 metri, per dare un po' di riposo all'equipaggio esausto da quei primi nove giorni di missione trascorsi in condizioni ambientali difficilissime, con temperature che si aggiravano sui 45 gradi. In questa situazione infernale si verificò la completa avaria del condizionatore d'aria, con fuoriuscita di cloruro di metile che cominciò a procurare i primi casi d'intossicazione. Nella tarda mattinata del 20 giugno, su segnalazione di un velivolo «Blenheim» del 203° Squadron, il trawler Moonstone (tenente di vascello William Joseph Henry Moorman) arrivò nella zona, riuscì a rilevare con lo scandaglio Asdic la posizione del sommergibile, alla distanza di circa 1.500 metri, e portatosi rapidamente sul punto eseguì tre attacchi con altrettante bombe di profondità regolate a quote diverse.

Poiché l'azione nemica non appariva precisa, né pericolosa, e gli idrofoni del Galilei indicavano che ad eseguire la caccia era soltanto una piccola unità, il comandante Nardi, decise di venire a quota periscopica per effettuare una rapida esplorazione. Apparendo il peschereccio nemico poco armato, ritenne di poterlo affrontare con successo con i suoi due cannoni e ordinò di emergere. Fu una decisione infelice; il Moonstone, avvistato il periscopio del sommergibile emergente dal mare, si apprestò al combattimento, e quando il Galilei venne in superficie, aprì il fuoco con il suo cannone e con le mitragliere.

Dal sommergibile fu subito risposto, ma il combattimento si presentò difficile perché al cannone di prora, a causa dell'alzo pieno d'acqua, si puntava ad occhio con tiro completamente inefficace, e col cannone di poppa non fu possibile colpire la nave nemica che si spostava rapidamente. Più efficace per precisione, se non per danni, si dimostrò invece il fuoco delle quattro mitragliere, che rapidamente erano state sistemate ai loro posti in plancia, e che battevano le sovrastrutture e il ponte dello scafo avversario.

In questa situazione, dopo circa 10 minuti di intenso fuoco da entrambe le parti, una granata raggiunse la plancia del Galilei, ferì alcuni uomini, compreso il comandante Nardi, e fu seguita da una scarica di mitragliera che uccise, al pezzo di prora, l'ufficiale in seconda. Poco dopo, con effetti disastrosi, altre due granate scoppiarono in plancia, uccidendo quanti si trovavano in torretta, incluso il comandante e quasi tutti gli ufficiali. Gravemente danneggiato, con le macchine in avaria, e privo di guida, il sommergibile si arrestò.

Restavano, feriti, due soli giovani ufficiali; ma il guardiamarina Ferruccio Mazzucchi, il più anziano di grado, non dette gli ordini necessari per l'evacuazione e l'autoaffondamento del battello, come aveva raccomandato il comandante Nardi morente. Le fonti britanniche hanno fatto conoscere che il sommergibile si arrese alle 12.25. Il guardiamarina Mazzucchi, che durante il combattimento si era comportato con valore, dirigendo il fuoco del pezzo di prora, ritenendo che il suo compito principale fosse quello di salvare la vita ai numerosi feriti gravi del sommergibile, si appellò al nemico chiedendo una imbarcazione di soccorso.

Mentre il Moonstone cessava il fuoco, un aereo entrò in scena, e poiché non era al corrente che il Galilei aveva cessato di combattere, sganciò due bombe e mitragliò il battello senza peraltro procurargli altri danni. Poco più tardi, alle 13.34, sopraggiunse nella zona il cacciatorpediniere Kandahar, il quale mise in mare un'imbarcazione e mandò il suo equipaggio da preda a bordo del sommergibile. Saliti a bordo incontrastati i marinai britannici si resero conto che il Galilei era ancora in grado di navigare e allora ne approfittarono. Dopo aver trasbordato l'equipaggio italiano, il Kandahar tentò di prendere a rimorchio il sommergibile, ma poiché non riuscì a farlo muovere alcuni suoi uomini si portarono a bordo del Galilei, riuscirono a rimetterne in moto le macchine e, trionfalmente, condussero il sommergibile ad Aden, con la bandiera inglese che sventolava in torretta sopra quella italiana.

Con il Galilei il nemico si impossessò anche dei documenti segreti, compresi tutti i codici, e dell'ordine di operazione che venne prontamente inviato a bordo dell'incrociatore neozelandese Leander, nave di bandiera del contrammiraglio Arthur Murray, Comandante delle forze navali britanniche del Mar Rosso. Due ufficiali bnritannici, di nome Stark e Stewart, pur non conoscendo bene l'italiano, riuscirono a tradurre quell'importante documento e si accorsero che esso specificava i piani per l'immediato futuro e per la dislocazione di altri due sommergibili. Seppero così che il Torricelli si trovava vicino a Gibuti e che il Galvani salpato da Massaua il 10 giugno, il giorno 23 avrebbe operato in un raggio di 8 miglia dall'imboccatura del Golfo di Oman. La decifratura venne comunicata per telefono all'ammiraglio Murray, il quale, pur potendo disporre di due o tre giorni per agire, ordinò ai cacciatorpediniere della 28a Flottiglia di apprestarsi ad uscire entro un'ora. Il Khartoum , il Kandahar e il Kingston vennero diretti verso la posizione del Torricelli, mentre il Kimberley e lo sloop Falmouth si portarono verso il Golfo di Oman, ove fu deviato il traffico marittimo che vi transitava, in massima parte costituito da grosse petroliere.

Il sommergibile Galileo Galilei, attaccato il 20 giugno 1940 in Mar Rosso dal trawler britannico Moonstone fu catturato dopo un combattimento in superficie, in cui furono uccisi tutti gli ufficiali in torretta. E condotto ad Aden procedendo con le sue macchine, nell’immagine preceduto dal cacciatorpediniere Kandahar.

Le condizioni del Galilei gravemente danneggiato dopo l’arrivo ad Aden.

Altra immagine del danneggiato Galilei ad Aden.

Un'ora avanti la mezzanotte del 23 giugno, il Falmouth individuò una sagoma e poco dopo da breve distanza chiese il segnale di riconoscimento. Quando il tenente di vascello Renato Spano, comandante del Luigi Galvani, si accorse della minaccia, ordinò la rapida immersione; ma non aveva ancora compiuto la manovra che il Falmouth (capitano di fregata Cecil Campbell Hardy) aprì il fuoco con il cannone situato a prora, e il sommergibile fu colpito a poppa. Allora, il secondo capo silurista Pietro Venuti, constatando che nello scafo si era aperta una pericolosa via d'acqua, con grande spirito di sacrificio si chiuse nel locale a lui affidato, e bloccando la porta stagna, impedì un rapido allagamento del resto del battello. Fu poi decorato con la Medaglia d'Oro alla memoria.

Frattanto, raggiunta ad alta velocità la posizione in cui il sommergibile si stava immergendo fortemente appruato, lo sloop, dopo averne mancato per poco lo speronamento, gettò un grappolo di bombe di profondità. Le esplosioni, molto vicine, produssero al Galvani altre vie d'acqua, ne immobilizzarono tutti i timoni e le macchine, e costrinsero il comandante a dare aria per poter risalire rapidamente in superficie.

Il comandante Spano ritenne di poter impegnare il nemico con il cannone, ma non ne ebbe il tempo, poiché, una volta venuto in superficie, il sommergibile cominciò ad affondare rapidamente e in circa 2 minuti scomparve dalla superficie del mare, trascinando con sé 26 uomini dell'equipaggio. I 31 superstiti, compreso il comandante, vennero recuperati dal Falmouth.

Il sommergibile Luigi Galvani nel 1940. Il 23 giugno, nel Golfo di Oman, fu sorpreso di notte in superficie è affondato dallo sloop britannica Falmouth.

Era un primo risultato della cattura dell'ordine di operazione del Galilei: non sarebbe stato l'ultimo.

Per sostituire in zona di agguato il Ferraris, forzatamente costretto ad interrompere la missione, il 14 giugno era partito da Massaua l’Evangelista Torricelli, al comando del capitano di corvetta Salvatore Pelosi il quale, prima di iniziare la missione, aveva detto al suo equipaggio allineato in coperta: «Abbiate fiducia nella provvidenza e nel vostro comandante».

E di fiducia l'equipaggio del Torricelli aveva davvero bisogno. All'alba del 16 il sommergibile raggiunse le acque assegnate davanti a Gibuti, restandovi alcuni giorni in piena tranquillità. Poi, il 20 fu scoperto dallo sloop inglese Shoreham , inviato alla sua ricerca, e dallo stesso venne sottoposto a caccia, prolungata per diverse ore.

Quando l'attacco nemico ebbe termine, il Torricelli si trovava menomato da avarie alle macchine, e poiché perdeva nafta, il comandante Pelosi decise di venire in superficie per riprendere la rotta del ritorno.

Nella notte fra il 22 e il 23 giugno il sommergibile si apprestò a rientrare in Mar Rosso attraverso lo Stretto di Bab el Mandeb, e in tale zona obbligata nelle prime ore del mattino fu ancora sottoposto a breve caccia da parte di una silurante. Tornato in superficie, il comandante Pelosi decise di mettere i motori alla massima forza per portarsi sotto la protezione delle batterie costiere nazionali di Assab, ma non vi riuscì poiché, poco prima dell'alba, trovandosi presso l'Isola Dumeira, avvistò una cannoniera. Ritenendo di essere più veloce di quella nave, il comandante Pelosi non si preoccupò eccessivamente di quella presenza, e proseguì nella sua rotta con i motori spinti al massimo dei giri. Riteneva di essere in grado di distanziare l'unità nemica quando apparve una seconda cannoniera e pochi minuti dopo tre grossi cacciatorpediniere in rapida uscita dallo Stretto di Bab el Mandeb.

Le cinque navi britanniche, cioè gli sloop Shoreham e Indus e i cacciatorpediniere Khartoum, Kandahar e Kingston, coprivano l'intero arco dell'orizzonte e manovravano per prendere in mezzo il Torricelli, il quale, trovandosi nella impossibilità di immergersi, a causa delle perdite di nafta che avrebbero fatto rilevare la sua posizione e del condizionatore d'aria in avaria, si apprestò, con l'unico cannone, a sostenere una disperata battaglia contro un nemico tanto superiore. Quando la prima nave avversaria si trovò ad una distanza di circa 5.000 metri, il sommergibile aprì il fuoco, e dimostrando che i serventi sapevano ben sparare al secondo colpo centrò a prora lo sloop Shoreham (capitano di corvetta Francis Duppa Miller), costringendola dapprima ad arrestarsi e poi ad allontanarsi, dirigendo verso Aden.

L'impari lotta si prolungò per 40 minuti, più a lungo del previsto, con i cacciatorpediniere britannici che dapprima, risposero con i cannoni e poi, da corta distanza, quasi esclusivamente con le mitragliere. Centrato da un fitto fuoco di armi automatiche, che batteva lo scafo e le sovrastrutture, peraltro lasciando miracolosamente illeso il personale, il Torricelli manovrò con tempestività, continuò a far fuoco con il cannone e le mitragliere e lanciò quattro siluri, le cui scie furono avvistate sul mare calmissimo ed evitate dalle navi nemiche.

Fu soltanto dopo una mezz'ora dall'inizio del combattimento che un proiettile d'artiglieria del cacciatorpediniere Kandahar (capitano di fregata William Geoffrey Arthur Robson), scoppiando a poppa del sommergibile, mise fuori uso i suoi organi di governo. Successivamente, le scariche di armi automatiche si fecero più precise, e fu ferito ad un piede lo stesso comandante Pelosi che, giudicando l'onore delle armi salvo e non ritenendo più possibile continuare la lotta contro un nemico tanto superiore, ordinò di aprire gli sfoghi d'aria per dar corso all'autoaffondamento. Egli avrebbe voluto rimanere a bordo per affondare con la sua nave, ma i suoi marinai, che si erano rifiutati di abbandonarlo, lo trascinarono in mare, sostenendolo poiché, per la ferita, si trovava nell'impossibilità di nuotare.

Il fuoco delle navi britanniche, sembrerebbe a prima vista, che fosse stato quel giorno inspiegabilmente assai impreciso, poiché, malgrado l'elevato numero di cannoni a disposizione, e la breve distanza di tiro, i cacciatorpediniere misero a segno un solo colpo. Nel combattimento sviluppato a corta distanza, essi fecero quasi esclusivamente uso delle mitragliere, e questo probabilmente per un motivo ben preciso: eliminare o terrorizzare il personale del Torricelli nell'evidente intenzione di abbordarlo e catturarlo. Ma, questa volta il colpo, riuscito con il Galilei, non fu loro possibile con il Torricelli, anche perché comandante e ufficiali portarono a termine con prontezza l'evacuazione e l'autoaffondamento del battello.

A bordo del Kandahar, che con il Kingston recuperò i superstiti del Torricelli, il comandante Pelosi venne accolto con l'onore delle armi. Poco dopo il Kandahar dovette assolvere un altro compito, recuperare l'equipaggio del gemello Khartoum (capitano di fregata Donald Thorn Dowler), che era stato seriamente danneggiato dall'esplosione di un serbatoio di aria compressa di siluro, e che dovette arenarsi presso l'Isola di Perim, messo fuori uso per sempre. Per quanto i britannici non abbiano mai voluto confermarlo in Italia è stato sempre sostenuto che a determinare lo scoppio del serbatoio del siluro del Khartoum era stata, probabilmente, la scheggia di una granata del Torricelli 7 .

7 Sul Khartoum, l'esplosione della testa del siluro si verificò alle 11.50, cinque ore e mezzo dopo l'affondamento del Torricelli, avvenuto alle 06.24, ora locale. All’esplosione seguì la rottura di un serbatoio di olio, che determinando un incendio incontrollabile fece saltare a poppa il deposito delle munizioni del complesso dei cannoni numero tre da 120 mm. Dalle falle apertesi nello scafo sventrato, si verificarono estesi allagamenti in vari locali poppieri presso la sala macchine, e ciò portò alla decisione di fare incagliare il cacciatorpediniere sulla costa dell’Isola Perin, dove asportata da bordo ogni parte di un certo valore, il Karthtoum fu abbandonato in lat. 12°38’N, long. 43°24’E. L’equipaggio fu recuperato dal gemello Kandahar e portato ad Aden. Nella sua

Sta di fatto che il comportamento del comandante Pelosi venne particolarmente apprezzato dai britannici. Alcuni giorni più tardi, sbarcato ad Aden, venne invitato a bordo della nave ausiliaria deposito per sommergibili Lucia, nave di bandiera del contrammiraglio Murray, Comandante le Forze Navali del Mar Rosso, ove si teneva un ricevimento. Il capitano di fregata Robson, comandante sul cacciatorpediniere Kandahar delle unità navali britanniche che avevano partecipato alla caccia del Torricelli, volle personalmente complimentarsi con Pelosi confidandogli: «Le mie navi, pur consumando settecento colpi di cannone e cinquemila di mitragliatrice, e avendo subìto delle perdite, non sono state capaci di affondare il vostro sommergibile né di costringerlo alla resa».

Al ritorno dalla prigionia, il capitano di corvetta Pelosi venne decorato con la Medaglia d'Oro al Valor Militare.

La nave ausiliaria deposito per sommergibili britannici Lucia. * * *

A questo punto è lecito chiedersi se dalla cattura del Galilei fossero derivati altri danni e se con l'ordine di operazione, che costò la perdita del Galvani e del Torricelli, i britannici fossero riusciti ad utilizzare anche i cifrari venendo pertanto a conoscenza inchiesta la commissione inquirente dell’Ammiragliato britannico escluse che il Khartoum fosse stata colpito dai cannoni del Torricelli, o che si fosse verificato un sabotaggio da parte dei prigionieri italiani che si trovavano alloggiati a bordo, raccolti dopo l’affondamento del sommergibile. dei movimenti e delle zone di agguato dei nostri battelli. Gli avvenimenti successivi, il modo con il quale il nemico riuscì ad attaccare numerosi sommergibili in Mediterraneo, le forti perdite in tale mare riportate, sembrerebbero confermare tale ipotesi8

Per anni gli italiani si sono chiesti come avesse potuto il nemico conoscere i movimenti e le. posizioni in mare delle nostre navi. Nel giugno del 1940 esistevano in Gran Bretagna, a Winchester (Flowerdown) e a Scarborough, attrezzate stazioni radio in grado di intercettare le emissioni radio italiane e di identificare i segnali inviati da Roma alle navi e agli aerei. I segnali, decifrati da personale specializzato in decrittazione, venivano immediatamente ritrasmessi ai comandi interessati, i quali, per localizzare i movimenti del nemico, si servivano a loro volta di proprie stazioni radiogoniometriche direzionali ad alta frequenza, situate nei settori di loro competenza. In Mediterraneo ve ne erano a quell'epoca tre: a Malta (Dingli), ad Alessandria (Sidi Bishr) e a Gibilterra (Middle Hill).

Da parte italiana, almeno nel primo periodo di guerra, il servizio di intercettazione delle comunicazioni britanniche era altrettanto efficiente. Venivano infatti intercettati e decrittati molti dei messaggi e telegrammi cifrati trasmessi e ciò grazie ad un intenso lavoro di preparazione, effettuato in precedenza dal servizio di decrittazione della nostra Marina che si manteneva in stretto contatto con il Servizio B (B-dienst) della Marina germanica a Berlino. Fino agli ultimi di settembre del 1940, quando entrarono in funzione nella Marina britannica nuovi metodi di cifratura, le decrittazioni permisero di far conoscere in più occasioni e con un certo anticipo i movimenti della flotta inglese e gli schieramenti dei suoi sommergibili9. Ma, fattore

8 Verso la fine di giugno, «sospettando» che a sud di Creta esistesse uno sbarramento di sommergibili italiani, i britannici vi eseguirono una ricerca a rastrello con cinque cacciatorpediniere della 2a Flottiglia (Dainty, Ilex, Defender, Decory, Voyager) fatti uscire da Alessandria. Della ricerca fecero le spese molti dei nove sommergibili che in quel periodo si trovavano in quella zona in sbarramento fisso o in transito. Dopo aver affondato il Liuzzi e l'Argonauta, ed attaccato il Tarantini, tutti di passaggio casuale, il mattino del 29 giugno costrinsero all'immersione lo Uebi Scebeli. Purtroppo, ancora una volta, l'autoaffondamento non si svolse con la dovuta rapidità, e una squadra da preda britannica salita a bordo, asportò l'ordine di operazione, con il quale il capitano di fregata Mervyn Somerset Thomas, comandante della 2a Flottiglia Cacciatorpediniere, sul Dainty, poté individuare lo sbarramento fisso esistente fra Creta e la costa della Cirenaica. Egli dette caccia all'Ondina e al Salpa, che riportò danni. Contemporaneamente, su un dispositivo di pattugliamento antisommergibile, svolto su vaste zone del Mare Ionio da quattordici velivoli «Sunderland» di Malta, incapparono l'Anfitride, il Sirena e il Rubino e quest’ultimo venne affondato.

9 Cinque sommergibili britannici vennero affondati in Mediterraneo dai nostri gruppi di ricerca fino al 1° agosto del 1940, e di questi ben tre nei primi sei giorni di guerra. L'Odin fu affondato il 14 giugno nel Golfo di Taranto dal cacciatorpediniere Baleno (C.C. Maffei); il Grampus, fu affondato il 16 giugno a 6 miglia ad est di Siracusa dalla torpediniera Calliope; l'Orpheus fu affondato il 18 importantissimo, permise di venire subito a conoscenza del fatto che i britannici erano in possesso delle nuove tabelle di sopracifratura dei codici italiani, funzionanti con combinazioni di cinque cifre, grazie alle quali il nemico ritrasmetteva totalmente i telegrammi fra i comandi e i sommergibili e che indicavano le zone di agguato, posizione e orari. manovrare in profondità per sfuggire alla caccia, il sommergibile, per l'azione delle correnti che in quella zona erano piuttosto forti, uscì di rotta e quando nella notte venne in superficie, con l'80° dell'equipaggio intossicato dal cloruro di metile, si incagliò nei pressi di Ras Cosar, a 12 miglia a sud di Shab Shak.

I cifrari in questione, ed ogni altro documento segreto di cui aveva copia il Galilei (della cui cattura gli italiani vennero a conoscenza il 22 giugno dalla radio inglese) fu subito sostituito con altra edizione; però, sfortunatamente, i sommergibili ancora in mare e non al corrente degli avvenimenti, avevano continuato ad impiegare i cifrari compromessi con risultati disastrosi: il Perla, che operava in Mar Rosso, ne ebbe una palese dimostrazione.

Era stato previsto che durante le prime settimane di guerra il Perla e l'Archimede avrebbero dovuto rimanere a Massaua. Ma in seguito ad un ordine del Viceré che, programmata un'offensiva contro la Somalia francese e quella britannica, aveva chiesto la dislocazione in mare di altri due sommergibili per rafforzare la sorveglianza e il controllo dei porti nemici, il 14 giugno il Perla e il Macallé furono inviati in agguato: il primo nel Golfo di Tagiura e il secondo a metà strada tra Aden e Gibuti.

Il Perla (capitano di corvetta Mario Pouchain) avrebbe dovuto restare in zona di agguato fino al 9 luglio, ma il Comando di Massaua, che dopo aver ricevuto le notizie sul sinistro del Macallé era giunto a conoscenza della cattura del Galilei, collegata agli effetti del cloruro di metile sull'equipaggio, il 23 giugno comunicò al sommergibile di rientrare alla base. Fu un ordine tempestivo poiché a bordo del Perla l'equipaggio era da più giorni intossicato da quel gas venefico sprigionatosi dal condizionatore d'aria in avaria.

Superato nuovamente lo Stretto di Bab el Mandeb senza essere stato avvistato o disturbato, il sommergibile si avvicinò a Massaua, e il giorno 26 comunicò con la radio chiedendo l'accensione del fanale di guerra di Shab Shak per il controllo della rotta di entrata alla base. La comunicazione, fatta con il vecchio cifrario, mise il nemico in allarme. Lo sloop Shoreham si portò nella zona e al tramonto attaccò il Perla con il cannone e con le bombe di profondità. Costretto ad immergersi e a giugno presso Capo Passero da un idrovolante «Cant Z.501» della 189a Squadriglia della Ricognizione Marittima (pilota S.M. Spadaro); il Phoenix, fu affondato il 16 luglio presso Augusta dal cacciasommergibile Albatros (C.C. Mazzetti); infine l'Oswald, fu affondato il 1° agosto a sudest di Capo Spartivento Calabro dal cacciatorpediniere Vivaldi (C.V. Galati).

Avendo il sommergibile richiesto con la radio l'invio di mezzi di soccorso, ancora con il cifrario in possesso del nemico, all'alba dell'indomani fu fatta uscire da Massaia la cannoniera Acerbi, appoggiata dai cacciatorpediniere Leone e Pantera. Ma, in seguito ad una sopraggiunta avaria, il Leone fu costretto a rientrare, e le altre due navi, che si trovavano ormai vicine a Shab Shak, ricevettero l'ordine di portarsi sotto costa, vicino alle batterie di Shumma e di Dilemmi, poiché dalla ricognizione aerea, opportunamente predisposta, era stata avvistata una formazione navale inglese. Infatti, nel primo pomeriggio, l'incrociatore neozelandese Leander e i cacciatorpediniere britannici Kingston e Kandahar, che avevano intercettato il segnale di avvistamento del Perla da parte dello sloop Shoreham, accorsero nella zona ove il sommergibile era incagliato e lo sottoposero ad un martellante cannoneggiamento. Il Perla reagì con il suo piccolo cannone fino a quando questi si inceppò, dopo di ché fu necessario ordinare l'abbandono del sommergibile per non esporre l'equipaggio menomato a morte certa.

Il sommergibile Perla.

Non mancarono esempi di valore. Il marinaio elettricista Arduino Forgiarini rispose al comandante che gli ingiungeva di raggiungere la vicina terra: «Finché resta a bordo il comandante resto a bordo anch'io»; cadde subito dopo decapitato da una granata. Il comandante in seconda, tenente di vascello Renzo Simoncini, gravemente intossicato dal cloruro di metile e trasportato a terra, sentendo prossima la fine, si trascinò, non visto, fino al sommergibile ove spirò abbracciato all'albero della bandiera.

Fu in questa tragica situazione, quando ormai il sommergibile abbandonato stava per essere smantellato dal fuoco nemico, che intervennero, in due riprese, otto bombardieri S.81 dell'Aeronautica dell' Africa Orientale, i quali, con centrate salve, tennero lontane e impegnate le navi britanniche fino a quando non si ritirarono.

In seguito, tecnici e maestranze, fatti affluire da Massaua via terra e per mare, svolgendo i lavori di notte per sfuggire al controllo aereo del nemico, dopo aver chiuse le vie d'acqua dello scafo del Perla, prosciugati i locali allagati, riparate le principali avarie ai macchinari, misero il sommergibile in condizione di navigare. Ma i britannici ebbero notizia di quei lavori e organizzarono un tentativo per distruggere l'unità incagliata, però senza riuscirvi. Infatti il 31 luglio un incrociatore e due cacciatorpediniere si presentarono nella zona, quando ormai era troppo tardi, poiché il Perla, disincagliato, era entrato a Massaua il giorno avanti. Le navi britanniche vennero nuovamente attaccate, senza risultato, dalla Regia Aeronautica, che impegnò due soli S.81, poiché non era stato possibile inviare in volo un maggior numero di aerei per la scarsa visibilità della giornata causata da bufere di Kamshin, il vento secco, caldo e polveroso del Mar Rosso.

Anche sull'Archimede (tenente di vascello Mario Signorini), che era partito da Massaia il 19 giugno per raggiungere una zona d'operazione situata davanti a Gibuti, si verificarono gravi inconvenienti per l'intossicazione da cloruro di metile che dapprima generò i soliti casi di colpi di calore, e quindi depressione, incoscienza, inappetenza, smania, euforia, allucinazioni, frenesia distruttiva ed omicida ed anche la morte. Il sommergibile, costretto a lasciare l'agguato dopo cinque giorni di mare per raggiungere il più vicino porto, Assab (a sud di Massaua), ebbe 6 morti, 8 uomini impazziti e 24 ammalati per lungo tempo. Per farlo rientrare alla base fu necessario inviare ad Assab il cacciatorpediniere Leone, che trasportò il personale necessario per sostituire quello menomato.

Non appena a Marisupao si resero conto della pericolosità del cloruro di metile, fu deciso di trattenere in porto i sommergibili fino alla metà di agosto, quando venne portata a termine la sostituzione del pericoloso gas con il «freon», il gas neutro che l'industria nazionale aveva cominciato a produrre in quantità sufficiente.

Nel corso dei primi quindici giorni di guerra i sommergibili italiani erano stati mobilitati in forze nella speranza di ottenere un qualche risultato favorevole. Ma non raggiunsero gli obiettivi sperati, e riportarono perdite gravissime: quattro unità, pari alla metà dell'organico iniziale, non rientrarono alla base; altre due vi arrivarono menomate, l'una con gravi danni e perdita di personale, l'altra con l'equipaggio decimato.

Nessuno avrebbe potuto immaginare un inizio delle operazioni più doloroso. Vi è da sottolineare la tenacia dei menomati equipaggi, nel voler mantenere gli agguati fino al limite della sopportazione, mentre gli atti di abnegazione e di stoicismo che si verificarono rappresentano pagine di valore che dimostrano lo slancio che animò i sommergibilisti di Massaua.

Ma, l'entusiasmo non bastava; destava preoccupazione la mancanza di combustibile e di scorte; le condizioni fisiche degli equipaggi, sottoposti ad un eccessivo sforzo quale era richiesto dalle dure missioni, lasciavano molto a desiderare per la forte percentuale di malati, feriti, ulcerosi, stanchi. Tutta questa gente aveva bisogno di lunghi periodi di riposo in zone di altopiano, lontano dalla calura di Massaua.

Per superare le difficoltà di questa ardua situazione ambientale fu necessario realizzare un radicale mutamento dei criteri d'impiego dei sommergibili. Appariva chiara la necessità di adottare un saggio criterio di economia delle forze, dopo il primo periodo di intensa attività, ciò che, di massima, portò alla decisione di tenere in missione un solo sommergibile, mentre un secondo, fu tenuto pronto in porto per un eventuale impiego in zona ravvicinata; gli altri due battelli disponibili dovevano restare a turno, o in riposo o ai lavori. Nello stesso tempo, per agevolare gli equipaggi, venne stabilito che la durata massima delle missioni non doveva superare normalmente i 4-5 giorni di mare.

Successivamente fu disposto che i due sommergibili destinati a contrastare i movimenti nemici prendessero il mare unicamente per la ricerca delle unità avversarie tempestivamente segnalate, e quindi, per attaccare il traffico avversario, evitando così la permanenza nelle zone di agguato.

Ma, nonostante lo spirito aggressivo dimostrato dagli equipaggi, gli avvistamenti utili furono scarsi, ed una sola volta si verificò un attacco con successo, dovuto all’Alberto Guglielmotti (capitano di corvetta Carlo Tucci) che, il 6 settembre 1940, in vicinanza del ricercato convoglio BN.4, affondò la petroliera greca Atlas, di 4.008 tsl, della Soc. Anon. Hellenique Maritime Transpetrol del Pireo, costruita nel 1909 e al servizio della Gran Bretagna. Ciò avvenne a 15 miglia dall’Isola Antafush, nello Yemen. Si salvò l’intero equipaggio dell’Atlas che, partita da Abadan, in Iran (Golfo Persico), era diretta a Suez con un carico di olio minerale.

Da una ricostruzione recente veniamo a conoscere che l’esplosione del siluro del Guglielmotti che colpì l’Atlas spezzò la nave in due tronconi, uno dei quali il prodiero affondò mentre l’altro quello di poppa resto a galla, avendo retto le paratie a tenuta stagna. Fu organizzato un tentativo per salvarlo e portarlo a Suez, mediante i rimorchiatori Hercules e Goliath, ma raggiunto il promontorio di Ras Banas il rimorchio, per le condizioni sfavorevoli del mare, si ruppe e il troncone affondò in una profondità tra i 4 e i 6 metri d’acqua. La parte poppiera dell’Atlas fu poi recuperata ma soltanto come rottame.

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Il sommergibile Guglielmotti che il 6 settembre 1940 affondo la petroliera greca Atlas a 15 miglia dall’Isola Antafush, nello Yemen.

Il 3 febbraio del 1941, rimase senza alcun esito un'azione del sommergibile Ferraris che, comandato dal capitano di corvetta Livio Piomarta, attaccò di notte un convoglio e valutò aver centrato tre piroscafi con altrettanti siluri. Tale azione, fu all'epoca particolarmente apprezzata, e reclamizzata dalla radio e dai giornali 10 .

SUCCESSI DEI SOMMERGIBILI ITALIANI DEL MAR ROSSO (GIUGNO 1940 -MARZO 1941)

10 Nel corso della 2a guerra mondiale nella zona del Mar Rosso - Golfo di Aden non operarono solo sommergibili italiani. Infatti, fra il settembre del 1942 e il giugno del 1943 il sommergibile giapponese I-29 eseguì tre missioni nel Golfo di Aden affondando ben sette navi; l'I-10 affondò altri quattro mercantili nell'ottobre del 1943 e ne silurò una quinta; lo stesso risultato ottenne fra il novembre e il dicembre di quell'anno davanti allo Stretto di Bab el Mandeb e a sud di Aden l'I-27, che in precedenti missioni aveva ottenuto grandi successi nel Golfo di Oman e nel Mare Arabico. Anche i sommergibili tedeschi U-188 e U-510 operarono con successo all'entrata del Golfo di Aden fra il gennaio e il febbraio del 1944. Sia i giapponesi sia i tedeschi conseguirono in quella zona i loro brillanti risultati senza riportare perdite.

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