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Bisogna ancora prendere il Giappone sul serio?
RONALD P. DORE
Bisogna ancora prendere il Giappone sul serio?
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Come alcuni di voi forse avranno riconosciuto, il titolo che ho scelto è un riferimento a un libro che diedi alle stampe nel 1987, Taking Japan Seriously, che nel 2000 venne pubblicato nella traduzione italiana con il titolo Bisogna prendere il Giappone sul serio.
Dapprima qualche antefatto. Uno dei momenti più stimolanti della mia vita fu nel 1950, quando ero studente all’Università di Tokyo e facevo ricerche sul campo con un team di studenti post laurea giapponesi per valutare la possibilità che il tasso di nascite potesse diminuire. In quel momento in Giappone il tasso di nascite, che tutti allora consideravano disastrosamente alto, era di 35 nuove nascite ogni 1000 abitanti.
Erano trascorsi cinque anni dalla fine della seconda guerra mondiale, ed eravamo all’inizio della guerra di Corea. Mi ricordo di un amico che era stato un giovane ufficiale di fanteria e che manifestava una considerevole soddisfazione nel vedere gli americani, gli Ame-chan, braccati lungo la penisola coreana per opera dei nordcoreani. Tuttavia l’interminabile discussione di tutte le sere ruotava attorno a una questione ben più seria e sofisticata. Che cos’era la vera democrazia? Il Giappone avrebbe potuto evitare di scivolare nel fascismo? e se sì, perché vi era comunque scivolato? Maruyama stava allora tenendo quelle lezioni che sarebbero diventate il suo libro in cui comparava la natura del fascismo tedesco e di quello giapponese, e alcuni suoi allievi facevano parte del nostro gruppo.
Uno dei modi in cui la gente esprimeva il proprio sentimento politico consisteva nella parola che sceglieva per descrivere la data del 15 agosto del 1945. Gli ottimisti, che ritenevano che le cose sarebbero proseguite bene, lo chiamavano shusen no hi – “il giorno in cui la guerra è finita”, che era l’espressione standard utilizzata sui giornali. Gli altri, tuttavia, si ostinavano a chiamarlo hai sen no hi – “il giorno in cui abbiamo perso la guerra”. Alcuni di questi ultimi erano ardenti riformatori che volevano cogliere ogni occasione per ricordare all’esercito e ai nazionalisti che lo supportavano quale scempio avessero fatto del loro paese. Alcuni erano nazionalisti essi stessi, totalmente amareggiati dalla sconfitta, e speravano solo che la storia avrebbe dato loro una possibilità di rivincita. Utilizzavano il linguaggio della sconfitta come monito costante per l’umiliazione del Giappone e per la necessità di una rappresaglia che li vendicasse. Chiamiamo i primi shusen gumi, “gruppo dei centristi”; quelli
invece tra gli haisen gumi che usavano la sconfitta come argomento in favore della pace e della democrazia, “gruppo dei riformatori” e “ gruppo dei nazionalisti” coloro per i quali “la sconfitta era un monito alla necessità di vendetta”.
Avanziamo velocemente fino al 1979. C’era stato il decennio della crescita economica a due cifre, negli anni ’60, in concomitanza con le celebri Olimpiadi di Tokyo e con l’Esposizione Mondiale di Osaka e l’ammissione alle Nazioni Unite. Poi, negli anni ’70, una ragguardevole ripresa dallo shock petrolifero – una caduta dell’inflazione e una riduzione del rapporto tra l’utilizzo energetico e il prodotto nazionale loro (PNL) più veloce e con meno disagi sociali di qualsiasi altra nazione leader. Le esportazioni di automobili e di stabilimenti automobilistici crescevano regolarmente e incrementalmente grazie alla qualità delle auto più che al loro prezzo basso. Le frizioni commerciali con i sempre più agitati Stati Uniti erano oggetto di negoziazioni pazienti e senza fine.
Fu alla fine degli anni ’70, proprio nel 1979, che Ezra Vogel, professore ad Harvard, pubblicò il suo Japan as Number One: Lesson for America, un libro che analizzava con ammirazione vari aspetti della società giapponese, la sua istruzione, la gentilezza verso il prossimo, la mancanza di crimine, la qualità della sua burocrazia, la politica industriale, l’organizzazione e l’innovazione tecnologica, ecc. Tutto era implicitamente o esplicitamente giudicato in confronto con gli Stati Uniti, a svantaggio di questi ultimi.
Ero in genere ben disposto verso le tesi di Vogel, come scrissi in una recensione per il New York Times, tuttavia ero personalmente un po’ disturbato dal modo in cui il successo economico giapponese stesse attribuendo una crescente influenza in Giappone a coloro che ho appena etichettato come “i nazionalisti”. E conclusi la recensione scrivendo: “voglia Dio proteggere Vogel tanto dagli amici che si farà in Giappone quanto dai nemici che potrebbe farsi criticando l’America”.
E infatti Japan azzu nannba wan (la traduzione del libro di Vogel, NdT) divenne un grande best seller in Giappone. Fu seguito negli anni ’80 da numerosi libri di professori di business school americane con titoli come The Art of Japanese Management, Zen and Japanese Management, Japanese Management: Tradition and Transition, Total Quality Control in Japanese Management, ecc. Molti dei quali venivano orgogliosamente tradotti in giapponese. Ogni business school americana doveva avere un corso in management giapponese. Negli Stati Uniti e in Europa, si stava sviluppando un fiorente movimento dei “Circoli Qualità” per imbrigliare con idee innovative i lavoratori. La stessa Fiat assoldò un team di consulenti giapponesi per farsi dire come riorganizzare il proprio sistema di produzione.
Nella prima metà degli anni ’80 stavo lavorando in un istituto di ricerca a Londra denominato Technical Change Centre per fare alcuni studi sul campo nelle fabbriche britanniche e capire che cosa la Gran Bretagna avrebbe potuto imparare veramente dal Giappone. Bisogna prendere il Giappone sul serio è stato un prodotto di quegli anni: trattava cose diverse come l’addestramento industriale, la con-
trattazione dei salari, la politica dei redditi, la corporate governance, la contabilità nazionale, i sistemi pensionistici, i contratti di subappalto, le regole del mercato azionario e così via. Il tema comune era questo: quanto ampie fossero le differenze tra Giappone e Gran Bretagna in materia di organizzazione istituzionale che potessero essere modificate per mezzo della legge o della prassi manageriale ed essere così facilmente trapiantate da una società all’altra. E fino a che punto fosse una questione di cultura, indole comportamentale, motivazione, carattere nazionale o - in qualunque modo la vogliate chiamare – quella dimensione in cui, per sommi capi, si può tracciare un contrasto tra una Gran Bretagna individualistica e un Giappone non individualistico. Il sottotitolo nella traduzione de Il Mulino era Un saggio sulla varietà dei capitalismi, ma nell’originale era Una prospettiva confuciana riguardante alcuni dibattiti economici.
Iniziavo con la contrapposizione fra due visioni fondamentali della condizione umana: una, quella cristiana, prevalente nelle società dell’ottocento – quando la disciplina dell’economia politica è stata creata – che vede l’individuo gravato dal peccato originale. E l’altra, quella di Mencio, che vede l’uomo come un essere di originaria virtù, spesso peccatore, ma sempre capace di ritrovare la propria bontà. Due filosofie, e anche due ricette per l’organizzazione della società. Secondo l’una, la gente lavora solo per il proprio utile individuale. Se volete una società pacifica e prospera, limitatevi a creare delle istituzioni che funzionano in modo da mobilitare l’interesse individuale di ciascuno, e lasciate che la mano invisibile del mercato faccia tutto il resto. Proprio la ricetta applicata dalla Thatcher e da Reagan all’inizio degli anni ottanta. Come ha detto il poeta inglese-americano T.S. Eliot, loro cercavano di creare “una società così perfezionata che non c’è nessuna necessità di essere buoni”.
Secondo l’altra ricetta, invece, i motivi per i quali la gente lavora, sono sempre misti. Oltre all’utile personale, c’è sempre la possibilità di invocare l’amicizia e la fratellanza, nonché la lealtà e il senso di appartenenza – alla propria comunità, alla propria impresa, alla propria nazione.
Un esempio è quello che nelle fabbriche inglesi si chiama “suggestion schemes”, schemi per incentivare gli operai a fornire proposte ai manager per il miglioramento dei prodotti o dei processi. In Inghilterra le idee proposte vengono esaminate da un comitato di ingegneri che decidono se valga o meno la pena di adottarle. Se adottate, vengono calcolati il risparmio o il valore aggiunto da ottenere in un periodo di uno o due anni. L’impresa paga al lavoratore una percentuale, di solito la metà, di quella somma. Cioè l’impresa compra l’idea dall’operaio, visto come soggetto indipendente.
In Giappone, non era così. Vi era una scala di premi. L’autore della nuova idea, otteneva un primo premio, un secondo, un terzo premio o una menzione d’onore. Se era un’innovazione brevettabile, diventava di proprietà dell’impresa. Il valore monetario dei premi era poco elevato, e di solito non ne rimaneva molto dopo aver fatto la festa obbligatoria, offrendo da bere a tutti i compagni di lavoro per celebrare
l’onore ricevuto. Si ritiene che sia il riconoscimento da parte della comunità dei membri dell’impresa che costituisca in sé la ricompensa più importante.
Ho detto “si ritiene”. Avrei dovuto dire “si riteneva”, perché il 1987 è già lontano. Il decennio degli anni ’90 ha cambiato il Giappone in modo più radicale di quanto abbia cambiato qualsiasi altro paese industriale, cambiamenti in particolare nella corporate governance e nel diritto del lavoro. Per rimanere nell’ambito degli schemi di incentivazione e delle invenzioni da parte dei dipendenti, una pietra miliare nella storia è stata nel gennaio del 2003 una sentenza del Tribunale Distrettuale di Tokyo. Ha imposto a Nichia, un’azienda relativamente piccola dello Shikoku, di pagare 20 miliardi di yen (circa 200 milioni di euro, poco meno del totale dei profitti dell’azienda nel periodo di sei anni 1995 - 2001) a un suo ex ricercatore, Nakamura Shuji, che in quel momento era professore all’Università della California, a Santa Barbara.
L’invenzione di Nakamura era il Blue LED, un diodo emittente luce. Era un diplomato di un’università di provincia che si era impiegato nella piccola azienda dello Shikoku appena laureato. Il Blue LED era considerato da tutti un prodotto desiderabile, ma nessuno sapeva come farlo. Nel 1988, Nakamura decise di affrontare la sfida e l’azienda lo mandò per un anno all’Università della Florida a imparare una tecnologia particolarmente importante e gli acquistò il macchinario costoso che quella tecnologia richiedeva. Nel 1990 fece la sua scoperta e inventò un processo per produrre i diodi emittenti luce azzurra. La somma venne considerata il “giusto prezzo” (che la Legge sul Brevetto giapponese stabilisce debba essere pagato ai dipendenti) per la sua proprietà intellettuale. Tali diritti di proprietà egli li aveva trasferiti automaticamente, come si usa universalmente, al datore di lavoro, che rivendicò e ricevette la titolarità del brevetto, ma la legge utilizzò anche le parole tratte dal diritto dei brevetti anglosassone che prevede che l’azienda avrebbe dovuto pagare al dipendente il “giusto prezzo”.
Il caso era andato avanti per qualche anno ed era stato dibattuto con particolare acredine. Nakamura era un laureato della Università di Tsukushima nello Shikoku, e era stato assunto nel 1979 al dipartimento ricerche della Nichia, un’azienda locale di circa 200 dipendenti produttrice soprattutto di illuminazione fluorescente. Undici anni dopo, nell’autunno del 1990 egli fece la sua scoperta. L’azienda immediatamente fece richiesta per il brevetto e, dopo qualche difficoltà e la riscrittura delle specifiche, questo venne registrato nel 1997. La società aveva una serie di regolamenti in base ai quali i dipendenti ricevevano un compenso per le loro invenzioni. Nakamura ricevette quanto gli era dovuto: 20.000 yen (circa 60 euro) nel momento in cui venne fatta la richiesta per il brevetto, e il corrispettivo di altri 60 euro quando venne registrato. Nel frattempo ulteriori lavori nei quali Nakamura ebbe parte, e ulteriori brevetti a tutela, portarono allo sviluppo di un processo di produzione di massa nel quale l’azienda investì pesantemente, riuscendo così a conquistare una quota importante di un mercato mondiale che si stava espandendo rapidamente. La fama di Nakamura e le sue relazioni americane evidentemente si ampliarono.
Simultaneamente il suo senso di lealtà alla Nichia si attenuò, e nel 1999 partì alla volta della California. Sembrò a un certo punto che la Nichia stesse intentando, o pensasse di intentare, una causa contro di lui per violazione del segreto industriale, ma egli controdenunciò l’azienda, facendo causa per il “giusto prezzo” della sua idea. Poteva fare questo sulla base di una legge sui brevetti da lungo tempo promulgata, ma raramente applicata, che permetteva al giudice di fare direttamente i suoi calcoli, che in questo caso tennero conto degli extra profitti di lungo termine dell’azienda poi divisi per due.
La sentenza non ebbe, nel complesso, il favore della stampa. Molti manager del settore Ricerca e Sviluppo manifestarono il loro allarme per il precedente che si era creato. Come si può fare uno sviluppo razionale della Ricerca e Sviluppo se hai sempre in agguato sullo sfondo la possibilità che dieci anni dopo potresti dover pagare a qualche dipendente scontento milioni di yen? Il presidente dell’Associazione dei Dirigenti Industriali disse che l’episodio avrebbe potuto avere un effetto rovinoso sulla competitività giapponese.1 Il presidente di Honda a sua volta la ritenne una sentenza bizzarra, ma aggiunse che, per quanto gli incentivi materiali per i ricercatori non fossero una brutta cosa, non riusciva a immaginare che razza di azienda avrebbe offerto degli irrisori 120 euro.2 I membri dei dipartimenti di ricerca aziendale che si sentivano poco apprezzati furono rincuorati dalla sentenza, e durante un simposio un professore dell’Università di Tokyo rilevò come nell’industria le retribuzioni complessive di una vita di lavoro dei laureati in scienze e in ingegneria fossero di gran lunga al di sotto di quelle dei laureati in arte e scienze sociali, e che sarebbe stata una buona cosa se si fosse provveduto a ristabilire l’equilibrio.3
Ma naturalmente la controversia si spense presto, e oggi il sistema di compensazione per gli inventori non è molto diverso da quello che regola la materia negli Stati Uniti e in Europa. Un sintomo che il Giappone è diventato (a) una società molto più individualistica e (b) una società nella quale il motivo del profitto è più forte.
Un’altra statistica: con tutti i cambiamenti nella corporate governance sopravvenuti durante gli anni ’90, il sistema dei salari nelle società giapponesi è cambiato in molti modi, con gli stipendi mensili meno legati all’anzianità e più alle prestazioni. Ma una cosa che è rimasta costante è che, in aggiunta ai loro stipendi mensili, la maggior parte dei dipendenti riceve un bonus annuale di un importo compreso tra una volta e mezza e quattro volte il salario stesso, a seconda di quanto stia andando bene l’azienda. Gli amministratori ricevono a loro volta un bonus calcolato non come costo - come i bonus dei dipendenti – ma come porzione dei profitti della società al netto delle tasse. Ma nonostante questa differenza formale, per un quarto di secolo, dal periodo successivo alla crisi petrolifera fino al 1999, nelle grandissime società con un capitale
1 Nihon Keizai Shinbun, 3 febbraio 2004. 2 Nihon Keizai Shinbun, 4 febbraio 2004. 3 Shokuin hatsumei kitei kaiseian ni nokoru gimon, (Proposta per la revisione della legge relativa alle invenzioni dei dipendenti: dubbi rimanenti) http.chizai.nikkeibp.co.jp/chizai/gov/20040223.html.
sopra il miliardo di yen, il reddito complessivo degli amministratori – stipendio più bonus – era coerentemente appena sopra o sotto il doppio di quanto percepito dai loro dipendenti. In altri termini, i dati riflettevano la concezione che i top manager avevano dell’azienda come una comunità stabile, con uno stabile rapporto di equi compensi dipendenti dalla posizione gerarchica occupata. Tuttavia quel vincolo sulle decisioni dei manager su quanto pagare se stessi oggi non è più così stringente come era una volta. Nel 2005, appena prima di una delle ultime crisi, un amministratore percepiva in media quattro volte il compenso medio di un dipendente. Molto lontano dalle 800 – 900 volte di molte aziende americane, ma su quella strada.
Permettetemi di elencare, più o meno a caso, alcune delle altre differenze tra il Giappone nel 1990 e il Giappone oggi. Il sistema educativo era qualcosa di cui la nazione era orgogliosa nel 1990. A parte avere dei buoni punteggi nei test di profitto internazionali, era ancora ritenuto quello di un paese che aveva un alto livello di uguaglianza di opportunità di istruzione. Seppure non più con una percentuale così alta come nel 1970, ancora nel 1990 almeno la metà degli studenti che superavano gli esami di ingresso alle migliori università nazionali venivano dalle scuole superiori pubbliche. L’anno scorso la percentuale di questi studenti che sono entrati in quella che è riconosciuta essere la migliore università, l’Università di Tokyo, era un mero 7%.4
Torniamo alla politica. È una strana coincidenza che, fra gli scienziati della politica, nel 1990 Italia e Giappone fossero noti come esempi primari di “sistemi a un partito e mezzo”. E una coincidenza altrettanto strana è che quelli che erano stati sistemi stabili per un quarto di secolo, fino alla fine della guerra fredda, in entrambi i paesi crollarono nel 1992. In Italia avvenne a causa dell’implosione del Partito Comunista e di tangentopoli; in Giappone come risultato delle ambizioni personali disgregatrici di un politico particolare, Ozawa, che sembrava finalmente aver perso la sua influenza personale sulla politica giapponese nelle elezioni del Partito democratico due settimane fa,5 ma che ha fatto un impressionante ritorno mettendo due suoi uomini al controllo dei fondi del partito e delle nomine elettorali. Nel Giappone di prima del 1990, il partito e mezzo – cioè i liberaldemocratici, LDP, con un più o meno stabile 60% dei voti, e i due partiti socialisti con circa un terzo – da lungo tempo avevano stabilito un patto in cui evitavano un confronto violento in parlamento come quello che aveva avuto luogo negli anni ’60. La promulgazione delle nuove leggi (come in ogni altro paese industriale, sempre più nuove leggi ogni anno rispetto a quello precedente) veniva effettuata attraverso negoziazioni nascoste istituzionalizzate che enfatizzavano il compromesso e la moderazione. Il LDP era, naturalmente, il partito del mondo degli affari, ma evitava una produzione legislativa che avrebbe infastidito troppo i sindacati, che erano la risorsa chiave del potere elettorale dei socialisti.
4 Devo al Prof. Takehiko Kariya questa stima dei dati del 1990, e a Wikipedia e al Sunday Mainichi i dati relativi al 2009. 5 Settembre 2011, n.d.c.
Oggi il Giappone ha un sistema a due partiti. I politologi locali sono orgogliosi di questo fatto. Ammiratori della democrazia anglosassone hanno cercato per molti anni di porla in essere. Fortunatamente per il Giappone, i due partiti non sono così ideologicamente differenti, o brutalmente conflittuali come i Democratici e i Repubblicani negli Stati Uniti. Il problema è l’opposto, i due partiti sono in incessante competizione per il potere, ma, molto più che negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, ideologicamente più o meno identicamente eterogenei. Un leader politico del DPJ, ad esempio, Maehara, che sarebbe diventato primo ministro se il disgregatore Ozawa, che ho menzionato sopra, non avesse condizionato le elezioni, è, in politica economica, in politica estera e per istinto politico generale, ben più a destra del leader del LDP Tanigaki. Ci sono ancora residui, all’interno del partito di governo, il DPJ, dei socialisti che si unirono ad esso un decennio fa e che mantengono qualche relazione con il Rengo, l’impotente sindacato nazionale. Tuttavia essi hanno sulla politica un’influenza rapidamente decrescente.
Passiamo ai media. Ci sono ancora, come nel 1990, gli stessi quattro quotidiani nazionali con tirature in milioni, l’Asahi, il Mainichi, il Nikkei e lo Yomiuri. Nel 1990 avevano caratteristiche politiche distintive, con l’Asahi e il Mainichi scettici sul valore del Trattato sulla sicurezza Stati Uniti-Giappone, e il Nikkei e lo Yomiuri entusiasticamente in suo favore; con l’Asahi e il Mainichi custodi degli ideali di uguaglianza delle opportunità educative del dopoguerra, e lo Yomiuri e il Nikkei, preoccupati principalmente di massimizzare il contributo delle scuole in funzione della supremazia economica del Giappone. I primi due facendo la voce grossa per il contenimento del bilancio della difesa all’uno per cento del PIL, gli altri invocando il riarmo. Oggi tutti parlano invece con la stessa voce neoliberale, con l’eccezione occasionale del Mainichi, invocano più deregolamentazione, un governo più ridotto, e sono tutti parimenti terrorizzati dalla Cina e invocano relazioni per la difesa più strette con l’America.
Tuttavia, se la la convergenza ha i suoi meriti, suppongo stia nel fatto che tutti hanno colorati supplementi domenicali. La ricchezza, in questo caso, sono sicuro, non è stata nemica del buon gusto. Gli articoli sugli anime, i film, la musica digitale, la cucina francese e sugli ultimi ritrovamenti archeologici sono di raffinatezza molto maggiore rispetto a quanto erano soliti essere un tempo e di pari valore culturale, comunque lo si misuri. E sull’Asahi del lunedì si può ancora trovare la gara di poesia waka, di cui Ishikawa Takuboku è stato il giudice iniziatore proprio 101 anni fa.6 E c’è ancora la soap opera per famiglie tutte le mattine sulla NHK, una rappresentazione di teatro nō recitata alla domenica mattina, e un opulento sceneggiato storico la domenica sera. Non ho visto molti film, ma ricordo che il bambino innocente che ho dentro di me si è enormemente divertito e meravigliato con To-
6 Devo a Suzuki Fujikazu queste e altre informazioni sui media giapponesi, e negli anni molte altre informazioni rivelatrici.
nari no Totoro e con Sen to Chihiro no Kamikakushi di Miyazaki. Ma ricordo anche alcuni film orribili e gratuitamente violenti di Beat Takeshi, e recentemente ho fatto l’esperienza di concedere un’intervista per un cosiddetto programma-dibattito del quale era il presentatore, montata in modo scandalosamente disonesto.7
Ma prima che continui a esporre i miei rancori e mal informati pregiudizi letterari e mi lanci in paragoni tra – per dire – i racconti realistici sulla società del dopoguerra di Ishikawa e le eroine nevrotiche di Murakami Haruki, fatemi tornare al mondo dell’economia che conosco un pochino di più.
Nel 1990 il Giappone era ancora generalmente conosciuto come il paese dell’impiego a vita. Shushin koyō. Ogni generazione che usciva dalla scuola superiore o dall’università faceva a gara per entrare nella migliore azienda o nel migliore dipartimento possibile all’interno del governo, dai più brillanti laureati dell’Università di Tokyo che competevano per entrare al Ministero delle Finanze o alla Mitsubishi, ai non così brillanti laureati delle università di provincia, come quel Nakamura che ho menzionato prima, che competevano per entrare nelle migliori piccole aziende locali, ai diplomati delle scuole superiori che puntavano ai migliori impieghi come operai nelle grandi compagnie. L’ottanta percento di loro ce la faceva. Trovavano lavori che promettevano sicurezza, una retribuzione lentamente crescente e una buona pensione. Molti di loro lasciavano il loro primo impiego nei primissimi anni, ma trovavano lavori migliori e altrettanto sicuri. La maggior parte delle persone aveva una varietà di opportunità prima di impegnarsi a diventare membro a vita di una particolare azienda. Meno del venti percento della popolazione era occupata in lavori temporanei o a tempo determinato e molti di loro erano persone che non volevano lavori da dipendente, che preferivano la libertà alla sicurezza.
Oggi, al contrario, la sicurezza sembra essere quello che ognuno vuole, ma che molti non possono ottenere. Il precariato rappresenta un terzo della forza lavoro e una larga percentuale di esso è costituito da persone deluse che hanno provato a ottenere un lavoro permanente, ma hanno fallito. Il problema del hiseiki, come il precariato viene chiamato, è largamente ritenuto un problema sociale serio. Quel che lo rende ancora più serio è il fatto che viene riconosciuto come problema e che viene molto discusso. In questo modo un terzo dei giovani si sente stigmatizzato come fallito, mentre nel 1990 il venti percento di coloro che non avevano lavori permanenti non si sentiva mai particolarmente stigmatizzato.
Temo di annoiarvi con le mie geremiadi, pertanto lasciatemi provare per un momento a fare lo studioso piuttosto che l’editorialista da giornale, e chiedermi perché tutti questi cambiamenti hanno avuto luogo. Un’ovvia parte della risposta è che si tratti di uno straripamento della rivoluzione neoliberale che è dilagata in America e Gran Bretagna, i cuori del capitalismo anglosassone, dai giorni di Reagan e della Thatcher. I meccanismi principali di trasmissione erano stati le business school e i
7 Nippon Terebi, 21 febbraio 2011.
dipartimenti post laurea di economia e scienze politiche delle università americane. Centinaia, probabilmente migliaia, di giapponesi erano stati spediti negli anni ’60 e ’70 a prendersi diplomi americani. Entro il 1990 i ministeri o le grandi compagnie che avevano pagato per la loro istruzione all’estero, li stavano nominando a posizioni decisionali potenti nelle loro aziende, nei dipartimenti all’interno del governo e nelle università. Nei dipartimenti di economia delle università giapponesi questi economisti formatisi in America rimpiazzarono i marxisti che avevano dominato nelle università nell’immediato dopoguerra, e cominciarono a produrre in proprio i loro economisti fautori del libero mercato. Matsushita, il famoso produttore degli articoli Panasonic, creò nel 1979 il suo Matsushita Seikeijuku, l’Istituto Matsushita di Governo e Management, e cominciò a formare politici orientati al libero mercato. Venticinque dei suoi diplomati sono attualmente membri del partito di governo nella Dieta, compresi il primo ministro e Maehara che ho menzionato prima per essere ben più a destra del leader dell’opposizione conservatrice.
L’effetto di questi processi di trasmissione ideologica, o di americanizzazione se vi piace chiamarla così (perché Gran Bretagna, Australia o Canada, gli altri paesi principali del capitalismo anglosassone, avevano molto poco a che fare con essa) furono molto più profondi che in Italia, Germania o Francia. Una ragione va ricercata nel contesto internazionale. Al fine di liberarli dell’occupazione americana attraverso il Trattato di Pace di San Francisco del 1951, i giapponesi erano stati messi sotto pressione per firmare contemporaneamente un trattato sulla sicurezza che consentiva agli americani di continuare a occupare Okinawa e anche di mantenere proprie basi militari in Giappone. Essi avevano cooperato militarmente con gli Stati Uniti negli anni ’50 con qualche riluttanza, successivamente sostituita da un entusiasmo crescente dal momento che l’accordo originario di affitto delle basi venne trasformato in un’alleanza, vista come un mezzo essenziale di difesa, per un Giappone non dotato di armi nucleari, contro l’Unione Sovietica.
Oggi, gli obiettivi di difesa comuni sono naturalmente contro la Cina anziché contro la Russia. Il Giappone con la sua enorme superiorità tecnologica ha sfruttato estremamente bene le fasi iniziali dell’industrializzazione in Cina, con joint venture e investimenti in fabbriche interamente di sua proprietà che si avvantaggiarono del costo del lavoro cinese molto più basso. Ora che la Cina sta recuperando sotto il profilo tecnologico a un tasso molto più veloce di quanto il Giappone abbia fatto negli anni sessanta e settanta, è molto meno riconoscente per gli investimenti e il know how giapponesi. E in Cina gli stipendi stanno crescendo rapidamente. Inoltre è ovvio che la Cina, non il Giappone, sarà economicamente e diplomaticamente la nazione più potente in Asia, e quasi altrettanto ovvio che sarà anche militarmente la potenza dominante. Appena due settimane fa, un politologo di Princeton in un controeditoriale apparso sul New York Times, avvertiva che, a meno che l’America non aumenti, invece di tagliare, le spese per la difesa, incorrerà nell’ovvio pericolo di perdere il controllo del Pacifico occidentale. Perderebbe in tal modo la fiducia dei suoi alleati nell’area, perché diventerebbe incapace di difenderli. Suona come un argomento che sarebbe
attraente per i repubblicani sciovinisti, ma non abbastanza da convertire i membri del Tea Party in sostenitori di maggiore deficit e di tasse più alte.
Come andrà a finire la relazione triangolare Stati Uniti-Giappone-Cina è troppo presto per dirlo, ma un fattore che non può essere escluso nel lungo periodo è la comune eredità confuciana che Cina, Giappone e Corea condividono. Fatemi raccontare solo un episodio che mi si è fissato nella mente a proposito dell’ultimo primo ministro giapponese che aveva la possibilità di sviluppare con i leader cinesi un tipo di relazione personale che ricordasse in fiducia e franchezza la relazione personale tra Berlusconi e Putin o, per dire, tra la Merkel e Sarkozy, Fukuda. Quando visitò la Cina nel 2007, andò al luogo natale di Confucio. Le fotografie lo immortalarono mentre mostrava uno striscione che aveva vergato nella sua calligrafia piuttosto rispettabile con una quasi citazione dai Dialoghi di Confucio. L’aforisma originale era “Promuovi la tradizione e comprendi il nuovo”. Fukuda sostituì “comprendi” con “crea”. Egli infatti creò molte cose durante quella visita, comprese le premesse per un accordo per l’esplorazione congiunta dei giacimenti di petrolio sotto il mare dove le acque territoriali di Giappone e Cina si incontrano. Se non avesse dovuto abbandonare dopo un anno il ruolo di primo ministro, le recenti discordie sulle isole Senkaku non avrebbero mai raggiunto la dimensione che hanno avuto. Ma l’accordo è stato abbandonato dal suo successore sciovinista che molto semplicemente ha adottato la visione americana secondo la quale “la crescita della Cina” è una minaccia per l’Occidente.
Credo sia ora di spiegare che cosa volessi dire con quell’“ancora” nel mio titolo. Un significato è sfortunato. Nel 1990, prendere il Giappone seriamente significava imparare dalle ammirevoli caratteristiche della società giapponese. Oggi significa, più probabilmente, non fare quel che ha fatto il Giappone. Imparare da quelli che ora sono visti come gli errori in politica economica del Giappone nel lasciare che la deflazione si radicasse, nel permettere alla domanda di contrarsi, alla disoccupazione di crescere e alla crescita economica di stagnare o di arretrare. Il New York Times di una settimana fa8 iniziava così il suo commento economico:
“Giapponizzazione” è in breve il trascinarsi verso il mix malsano di bassa crescita e debito alto di quel paese. L’ultimo numero dell’Ekonomisuto del Mainichi ha intitolato la sua copertina “Iyo iyo hajimatta Beikoku no nihonka”. 9
Il Giappone è diventato quello che i giapponesi chiamano hannmen kyoshi. Purtroppo sembra che nessun governo al mondo stia prendendo a cuore quella lezione, sono tutti troppo occupati a tentare di calmare i mercati obbligazionari parlando di riduzione del deficit e del debito.
Hannmen kyoshi in un senso forse, ma anche zenmen kyoshi, nella misura in cui ci dà lezioni su come minimizzare le conseguenze sociali negative derivanti dal seguire
8 Alan Wheatley, “Time to act to rescue the euro zone”, International Herald Tribune, 6 settembre 2011. 9 Ekonomisuto, 6 settembre 2011.
queste politiche e dall’aver creato tale depressione economica. La disuguaglianza è infatti cresciuta in Giappone come ho descritto. Ma in confronto con gli Stati Uniti o con la Gran Bretagna, i redditi più alti non sono schizzati via dalla mediana come hanno fatto nei paesi anglosassoni. Il Giappone ha tenuto la disoccupazione attorno al cinque percento perfino nel momento più profondo della recessione dei tardi anni ’90 e degli ultimi tre anni. E questo in gran parte a causa di una umana riluttanza a licenziare i dipendenti perfino dopo che il loro lavoro era diventato non più necessario a causa della caduta della domanda. Ho citato precedentemente i dati per il 2005, quando il rapporto tra i redditi dei top manager e quello dei dipendenti ordinari è raddoppiato. Ma dal 2005, con l’insorgere della crisi economica, il rapporto è sceso nuovamente. In altre parole, i top manager stavano apportando tagli ai loro compensi e ai bonus più cospicui di quelli dei dipendenti – nuovamente un evidente contrasto con gli Stati Uniti dove il gap dirigente/dipendente è andato sempre ampliandosi anche grazie al salvataggio da parte del governo, delle grandi banche e della General Motors.
Ma quel che ha portato il Giappone sulle prime pagine dei nostri giornali quest’anno è, naturalmente, il terremoto, il terribile tsunami e gli eventi successivi. Una volta ancora il popolo giapponese ha mostrato la sua forza nell’affrontare le avversità. È molto difficile valutare la risposta burocratica e politica, perché i resoconti sono stati distorti dalla caccia al capro espiatorio, i politici biasimando le compagnie energetiche, le compagnie energetiche biasimando i burocrati e i giornalisti biasimando chiunque, ma la mia impressione è che quel disastro nucleare sia stato gestito nell’unico modo possibile. Per quanto riguarda il fatto se sia stato un errore all’origine costruire delle barriere antitsunami alte solo 11 metri, quando alcuni archeologi sostengono che un migliaio di anni fa, nel periodo Nara, ci fu uno tsunami di 13 metri, (ebbene) nessuna società può vivere senza accettare qualche rischio.
Ma la cosa più impressionante riguardante il disastro, è stato il modo in cui le persone normali hanno cercato di aiutarsi l’una con l’altra, sia la preoccupazione per il prossimo che hanno mostrato sia la loro efficienza nel canalizzarla. Ho ricevuto un e-mail da un amico che descriveva come la gente nei centri per i rifugiati non stesse aspettando passivamente gli aiuti ufficiali, ma creasse le proprie organizzazioni autonome e si dividesse il lavoro necessario per rendere le loro vite più vivibili, ed egli ha così commentato “il senso di comunità, che sembrava essersi così attenuato dopo trent’anni di neoliberalismo, sembra essere rinato”.
Se appunto dobbiamo pensare seriamente a qualcosa che c’è in Giappone che dovremmo cercare di emulare, mi sembra che sia questo. Come costruire istituzioni che lavorino per dare alla gente un senso di appartenenza a una comunità densa di significato, e come fare in modo che esse sentano la responsabilità verso i loro concittadini e verso loro stesse.
[Traduzione di Luca B. Fornaroli]
Should We Still Take Japan Seriously?
Twenty years ago il Mulino published my Bisogna prendere il Giappone sul serio? [Taking Japan Seriously]. Everybody, from Fiat to the government of Malaysia talked about “learning from Japan”. Today, the only thing people want to learn from Japan is: how to avoid the mistakes Japan made that got it into twenty years of deflationary stagnation? But what those mistakes actually were is hotly in dispute. I offer my version.
今なお日本を真剣に 受け止めるべきか。
ロナルド・ドーア
20年前ムリノ出版から私の著書「Bisogna prendere il Giappone sul serio?(日本を真剣に受け止めるべきか。)」が刊行された。かつて フィアットからマレーシア政府まで誰もが「日本から学ぶ」ことを意識 していた。だが現在、人々が日本から学ぼうとしているのは唯一、日 本を20年間に渡るデフレ不況に導いた同国が犯した失敗をいかにして 避けるか、である。しかしながら、実際のところ日本の犯した過ちと は何であったかについてはいまだ論争が続いている。それについて私 の見解を述べたい。