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4.2. I neri fra autobiografie e libri-intervista

Di questa stagione di violenza rossa si è raccontato molto, rappresentato scenicamente i “delitti eccellenti”, scandagliato i ricordi dei protagonisti della lotta armata, ricostruito spesso le identità e le storie di vita delle vittime e dei loro familiari che hanno assunto l’onore e l’onere della Memoria. Indagare lo stesso tema nell’alveo dello stragismo neofascista delle bombe al tritolo e dell’eversione nera che ha firmato omicidi, rapine e spedizioni punitive, è certamente più complesso. La produzione di memoriali da parte dei protagonisti armati di estrema destra è certamente interessante per il nostro lavoro pur nella consapevolezza che la loro scrittura è innegabilmente meno prolifera di quella degli “ex” dell’eversione rossa, anche se non trascurabile nell’indagine delle forme di rappresentazione pubblica della stagione delle bombe. Alcuni, infatti, a destra della destra, hanno tentato di raccontare da prospettive interne le ragioni della scelta armata, le molteplici declinazioni dell’universo eversivo neofascista, le ideologie e le colpe che hanno segnato le proprie vite di militanti neri. Proprio dai loro scritti prende il via il nostro percorso fra le “stragi a memoria d’uomo”.

4.2. I neri fra autobiografie e libri-intervista.

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“Non mi sono mai sentita una «terrorista», ma una dei tanti giovani di quella generazione che né a destra né a sinistra

hanno saputo dare una risposta di giustizia umana e sociale al loro profondo disagio di vivere”. 769

4.2.1. Raccontare e raccontarsi: le “storie nere” dalla fine dell’emergenza alla svolta del 2006.

Il primo a scrivere la sua storia è stato Vincenzo Vinciguerra770 autore della strage di Peteano del 1972 in cui restarono uccisi tre Carabinieri. L’autobiografia di Vinciguerra, unico responsabile di una strage a non aver beneficiato di sconti di pena e quindi ancora in carcere, è un profluvio di accuse più o meno esplicite ai suoi ex commilitoni che ritiene collusi con gli apparati statali e la Nato.

L’eco pubblica delle sue dichiarazioni, che inseriscono tutte le stragi italiane all’interno di una strategia internazionale anticomunista in cui neofascisti e apparati dello Stato si trovarono pienamente coinvolti per assicurare la tenuta di un certo status quo sullo scacchiere internazionale, è

769 F. Mambro, Nel cerchio della prigione.., op. cit., cit. p. 51. 770 V. Vinciguerra, Ergastolo per la libertà, Arnaud, Firenze 1989. 240

facilmente rinvenibile sfogliando i quotidiani pubblicati dopo il 1984, anno della confessione di colpevolezza per la strage di Peteano. Peraltro, ad oggi, Vinciguerra cura una sezione del sito internet archivioguerrapolitica.org, uno spazio virtuale di cui riteniamo utile riprodurre la presentazione offerta dei curatori, perché rappresentativa di un paradigma quanto mai diffuso sugli anni Settanta, quello dell’iper-narrazione vuota di contenuti:

C’è al giorno d’oggi un continuo parlare, nelle trasmissioni televisive e sui giornali, degli “anni di piombo” o della “strategia della tensione”. La sovraesposizione mediatica non è tuttavia garanzia di qualità del dibattito, ancor meno di diffusione di un’adeguata conoscenza degli eventi in questione. Al contrario, giornali e tv molto spesso contribuiscono a confondere lettori e telespettatori, facendo continuamente riferimento a nuove “scoperte”, banalizzando e decontestualizzando realtà estremamente complesse, oppure mettendo l’accento solo sugli aspetti più spendibili dal punto di vista dell’audience. Ne consegue che nonostante i notevoli progressi compiuti dalla ricerca negli ultimi anni, una buona parte degli italiani rimane convinta che la comprensione della storia della guerra politica sia preclusa ai comuni mortali […] Questo sito cercherà di far comprendere ai lettori che per quanto vasta e articolata possa essere, la nostra storia può essere comprensibile ed interpretabile, a patto che la si affronti con rigore scientifico.

Poco dopo l’autobiografia di Vinciguerra, nel 1990, è dato alle stampe il volume dell’Istituto Cattaneo, Ideologie, Movimenti, Terrorismi, che raccoglie anche il contributo di Maurizio Fiasco basato sulle testimonianze di una ventina di terroristi neri e dal quale emerge la teoria della “simbiosi ambigua”:

Il neofascista ha alle spalle un itinerario lungo il quale ha ritrovato nostalgici “continuistici” del vecchio fascismo e maìtre à penser, delinquenti comuni e agenti provocatori, vecchi professori e ufficiali golpisti. Ambisce a comunicare anche fuori dell’ambiente dei camerati. Non gli bastano le suggestioni ideologiche della destra. Talvolta cerca l’unità d’azione con i “rossi”; è affascinato dalla loro pratica sovversiva e vi proietta qualcosa del suo stesso sentimento di estraneità […] Ma vive nel militante di destra un bisogno insoddisfatto di differenziarsi […] Una simbiosi ambigua, questa..771

771 M. Fiasco, La simbiosi ambigua, cit. p. 153, in R. Catanzaro (a cura di), Ideologie, Movimenti, Terrorismi, Il Mulino, Bologna, 1990.

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Le fonti orali cui Fiasco ha dato spazio lasciano emergere quell’auto-rappresentazione che abbiamo spesso incontrato fra i terroristi di destra: i giovani militanti si raffigurano come appartenenti a un gruppo minoritario «che professa un’ideologia programmaticamente “perdente”»,772 come se

nell’anti-antifascismo i giovani dell’estrema destra avessero scoperto il massimo della ribellione al sistema.

Nel saggio si individuano tre aree del neofascismo eversivo romano degli anni Settanta: il gruppo di Tivoli da cui si è originata la corrente di “Costruiamo l’azione”, legata a Ordine nuovo e operativamente a cavallo fra Msi e destra extraparlamentare (Signorelli, Fachini, Calore); la sperimentazione armata da parte del Fuan-Nar (ispirata alle tematiche del campo Hobbit e alle nuove leve del 1977); le formazioni derivate dal movimento politico Ordine Nuovo e da Avanguardia Nazionale, come “Terza Posizione”, gruppo armato che sul finire del decennio si apre a tematiche care anche all’estremismo di sinistra. Comune a tutti i tre i filoni del terrorismo nero romano è di certo la vicinanza con la criminalità. Ma

c’è un’altra ambigua simbiosi da rilevare: quella con i settori deviati degli apparati statali di cui rendono conto alcune interviste e moltissimi atti processuali. Altrettanto complesso il rapporto fra i giovani e i membri più anziani dell’eversione fascista: una relazione di conflittualità/collaborazione. Fiasco riporta uno stralcio di intervista sul tema: «Dopo l’omicidio Occorsio e dopo che nel corso di una tentata rapina vi era stato un altro morto, gli anziani del gruppo si mostrarono molto preoccupati per le conseguenze giudiziarie … ci cominciarono a guardare con aria strana. E noi ci sentimmo, per questo, sempre più presi dal nostro tipo di ruolo.»773

Questo atteggiamento potrebbe indurre a ipotizzare un’evoluzione verso lo spontaneismo armato, il quale però, come evidenziato dallo studioso, emerge sempre più come una variante operativa sostenuta dagli ideologi del neofascismo anziché come una scelta autonoma dei giovani per ottenere il riconoscimento da parte dei capi storici della loro leadership d’azione. In tutto questo rientra anche il mito dell’“azione prima della politica”, paradigma particolarmente caro a Valerio Fioravanti e più volte ribadito in interrogatori e interviste. L’omicidio del giudice Occorsio funge da spartiacque per molte vite nere e costituisce la lente d’ingrandimento attraverso cui leggere la deprivazione sociale e affettiva seguita all’evento delittuoso (specialmente perché l’uomo intervistato da Fiasco trascorse un periodo di latitanza proprio con Pierluigi Concutelli, nel covo di via dei Foraggi).

772 Ivi, cit. p. 159. 773Ivi, intervista a S.C., cit. p. 172.

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L’isolamento, racconta il testimone, era «compensato da una proiezione eroica», sino all’esaltazione estetica della violenza e della morte. In tutti questi percorsi la base di riferimento sembra essere il bacino delle risorse ideologiche proprie dell’estrema destra legale, per poi cedere il posto al gruppo dei camerati quali comunità di appartenenza, sino alla scelta della lotta armata in un continuum che Fiasco configura quale «crescita del proprio ruolo rispetto all’ambiente di riferimento».

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Le stragi attribuite all’eversione nera, sono interpretate dagli ex militanti come segno della persecuzione che il “sistema” infligge agli sconfitti, ai fascisti, appunto: altro tema che costituisce una sorta di leitmotiv della memorialistica di estrema destra.

Di diverso tenore, pubblicistico e non scientifico, è il volume che nel 1992 il giornalista Giovanni Bianconi dedica a Valerio Fioravanti e del quale abbiamo già reso conto in questo lavoro. Pochi anni dopo, nel 1995, sarà dato alle stampe il testo autobiografico della sua compagna di vita, Francesca Mambro, scritto a quattro mani con la brigatista Anna Laura Braghetti e corredato della trascrizione del loro epistolario. Dal capitolo scritto dall’ex Nar, “Se c’è una cosa che non mi piace…”, leggiamo:

Se c’è una cosa che non mi piace fare, e che non so fare, è parlare di me stessa. Eppure sto per farlo. Questo libro non nasce da un mio desiderio narcisistico ma dalla rabbia e dalla delusione. Ma sarà un racconto tranquillo, forse addirittura sereno, troppo forte è stato il disgusto per l’ultima sentenza, che ora sono scarica. Dopo quello che ho visto a Bologna più nulla può spaventarmi […] Gli amici dicono di non preoccuparmi perché in Italia le cose stanno cambiando e la gente non ha più voglia di essere presa in giro con verità di comodo…

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Si presenta quindi così Francesca Mambro e sin dalle prime righe il suo racconto appare come un’auto-assoluzione che potrebbe ben suscitare qualche perplessità laddove si ricordasse il lungo elenco di omicidi776 cui è stata condannata e di cui è reo-confessa: «ero talmente giovane quando questa “avventura” (consentitimi di chiamarla così per semplicità) è cominciata che non dovevo essere molto pericolosa per la società. Le cose sono poi cambiate. Sono cambiate? Non lo so, non ne sono sicura. Più cercano di descrivermi come “mostro” meno mi riconosco in quel ruolo».

777

774 Ivi, cit. p. 185. 775 A.L.Braghetti, F. Mambro, Nel cerchio della prigione, op. cit., cit. p. 30. 776 Escluso quello per la strage di Bologna, Francesca Mambro è stata condannata in via definitiva alla pena di otto ergastoli, per gli omicidi di: Franco Evangelista (28 maggio 1980); Mario Amato (23 giugno 1980); Francesco Mangiameli (9 settembre 1980); Enea Codotto e Luigi Maronese (5 febbraio 1981); Giuseppe De Luca (31 luglio 1981); Marco Pizzari (30 settembre 1981); Francesco Straullu e Ciriaco Di Roma (21 ottobre 1981); Alessandro Caravillani (5 marzo 1982). 777 A.L.Braghetti, F. Mambro, Nel cerchio della prigione…, op.cit., cit. p. 31. 243

Francesca Mambro dipinge un ritratto dettagliato e quasi bucolico della sua infanzia, dopo aver sintetizzato in pochissime righe quella che ritiene essere stata la sua «principale colpa giudiziaria»: aver co-fondato i NAR ed essersi posta come l’unica ragazza di destra con un ruolo differente rispetto a quello di “riposo del guerriero” o fiancheggiatrice. Racconta anche, appassionatamente, dei suoi eroi: Zorro, Sandokan, Robin Hood, Ivanhoe, La Freccia Nera, insomma, «tutta gente che per trovare giustizia deve prima porsi fuori dalla legge»; proprio come le Black Panthers e Jan Palach, perché non importa la fede politica, «sono tutti bravi, tutta gente che difende i propri amici dalle prepotenze».778

Nel romanzo di formazione della Mambro c’è spazio davvero per tutto: i film western in cui i perdenti (gli indiani d’America) hanno ragione; le signore del quartiere che, sfuggite ai rastrellamenti antiebraici, raccontano dei loro congiunti mai tornati dai campi di sterminio; il crimine orrendo del rogo di Primavalle, in cui due giovanissimi fratelli figli di un dirigente di sezione del Msi muoiono arsi vivi a causa dell’odio antifascista; gli anni dell’impegno politico al FUAN, delle aggressioni fra le opposte fazioni, dei morti e dello slogan “uccidere un fascista non è reato”, del carcere di Rebibbia nella sezione “nido”. C’è anche Acca Larentia che rappresenta il punto di non ritorno nei rapporti fra i giovani di estrema destra e le Forze dell’Ordine e il salto nel buio della morte per mano dei Carabinieri del giovane attivista missino Stefano Recchioni: da quel giorno niente «sarà più come prima». La Mambro racconta anche che Fioravanti e i suoi hanno creato una banda «praticamente anarchica», avallando così la tesi dello spontaneismo armato indipendente dalle gerarchie e dalle ideologie, materia molto distante dai riscontri giudiziari che invece evidenziano vicinanze con i leader della destra radicale e dell’eversione. La memoria della terrorista nera dissolve la violenza degli ultimi anni settanta in un clima in cui ci si interroga sul “dialogo con la sinistra” e che per cause “fortuite” culmina in quella che definisce «una vendetta solo parziale […] una prova di forza ma non di ottusità, e men che mai di odio».

Stiamo parlando dell’irruzione di Fioravanti e altri nella sede di una “radio nemica” che aveva fatto infelice e riprovevole ironia sul nome di Franco Ciavatta, giovane missino crudelmente ucciso nel gennaio ’78 proprio ad Acca Larentia. Si trattava di fare un breve discorso dai microfoni della radio e poi gambizzare i compagni presenti. Ma, scrive la Mambro, la situazione si presenta diversa da quella che il gruppo si aspetta perché in sede ci sono solo alcune ragazze di una trasmissione autogestita e nella «confusione totale» due ragazzi che dovevano fare da copertura a Valerio iniziano a sparare.

778 Ivi, cit.p. 33.

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Le ragazze di Radio Donna sono quindi raggiunte da numerosi colpi di mitra e pistola, due di loro sono ferite gravemente. Ma nella scia dei ricordi della pasionaria nera tutto questo viene omesso e si scrive soltanto che, in riferimento a Valerio, capisce «che non è stata colpa sua, che comunque anche di fronte all’imprevisto lui ha fatto il possibile perché le donne venissero trattate come “persone nemiche”, né meglio né peggio di come sarebbero stati trattati dei maschi al loro posto. È il suo concetto di femminismo “paritario”».

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Un atto che, così descritto, sembrerebbe quasi nobile. Nella sua autobiografia la Mambro tenta di spiegare anche l’origine della sigla NAR applicata al suo gruppo, ritenendo che dagli inizi del ’79 avesse assunto una chiave nuova, una valenza simbolica, utile a rinnegare nei fatti la logica degli opposti estremismi e a puntare dritti al “sistema”. In merito alla celeberrima questione della strumentalizzazione dei giovani di destra nella strategia della tensione, la Mambro afferma senza riserve che i NAR si propongono come forza ostile al regime che «attraverso la strategia della tensione [ha] attribuito a tutta la destra la responsabilità delle stragi […] Il messaggio che più ci preme lanciare è che i rivoluzionari esistono anche a destra e non sono il braccio armato di nessun potere, anzi contro i simboli del potere si spara». Passano i mesi e il gruppo decide, nei ricordi di chi scrive, di «riportare alla vita chi nel sistema è stato condannato alla morte civile, all’ergastolo». Il fortunato beneficiario di questo progetto di rinascita dovrebbe essere nientemeno che il terrorista pluriomicida Pierluigi Concutelli: la Mambro si affretta a precisare che per il gruppo Concutelli è un perfetto sconosciuto e che hanno pensato di liberarlo senza alcun significato politico, soltanto perché la sua evasione costituirebbe un atto fortemente simbolico. In ogni caso, l’evasione non avverrà mai e il 2 agosto a Bologna scoppierà l’inferno. Non una riga sulle vittime, ad eccezione dei numeri tristemente noti. Un lungo passaggio, invece, speso per affermare che a quel punto i NAR divengono nell’immaginario collettivo, e agli occhi degli investigatori, «i depositari di tutti i segreti e gli artefici di tutte le nefandezze»; che molti giovani «del tutto impreparati alla clandestinità» devono essere “supportati” perché temono l’accusa di strage e le carcerazioni preventive di questo «clima di vero terrore». E poi gli arresti. Di Valerio e il suo. La fine. Gli insulti delle terroriste rosse in carcere. Le parole di disprezzo per i magistrati bolognesi e quelle di rispetto per gli omologhi romani e fiorentini. I “troppi” pentiti che creano confusione, cosicché «la storia dell’estrema destra viene riscritta come quella di gruppi di filantropi rovinati dall’entrata in scena del cattivissimo Fioravanti e degna consorte».

779 Ivi, cit. p.p.43-44.

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E quando sembra ammettere delle colpe, di nuovo giunge provvidenziale l’auto-assoluzione: «Alla fine comprendiamo di aver sbagliato tutto o quasi: avevamo fatto i discorsi giusti nei posti sbagliati, alla gente sbagliata».780

L’eco mediatica della pubblicazione è immediata. Il “Corriere” dedica due articoli all’uscita del volume, offrendo la selezione di alcuni passi dell’epistolario fra le due terroriste che compone la seconda parte del libro. Nella scelta stessa dei passaggi messi a disposizione del lettore è evidente la volontà di rappresentare la rossa e la nera al di là delle loro responsabilità penali, e invece nel loro essere donne alla ricerca di una vita comune e di un amore da vivere liberamente. E se si sottolinea che il

frutto dello scavo memoriale e l’analisi delle lettere non apportano alcuna notizia inedita e non fanno menzione alcuna delle vittime e dei delitti, parimenti si evidenzia la portata “umana” del racconto, presentato come «la confessione impietosa, tra “un bacio con schiocco” e “cara topastrello mia” e piccole confidenze quotidiane, di un fallimento totale e irrimediabile». Di questa enfasi sulle doti umane delle autrici dell’epistolario è segno anche la chiusura dell’articolo che, in riferimento all’incontro dell’ex Presidente Cossiga con la brigatista, congeda il lettore con un laconico «Che spreco…».

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Quest’autobiografia è in linea con le numerose interviste che la Mambro ha rilasciato ai maggiori quotidiani nazionali per sostenere la sua innocenza, e quella di suo marito, in merito all’eccidio bolognese, ma non sembra allinearsi all’immagine pubblica che la Mambro offre di sé nelle interviste che interessano il dibattito pubblico sulla possibilità della grazia o dell’indulto agli ex terroristi, dove appare molto più cauta nei giudizi e certamente più severa nei confronti delle proprie responsabilità:

Il peggior nemico è il silenzio con cui molti sono tornati nella società senza un’autocritica. Insistere in un atteggiamento di legittimazione delle scelte fatte all’epoca è inaccettabile. Proprio perché avevamo gli strumenti culturali per leggere la realtà meglio di altri siamo più responsabili […] Noi non possiamo chiedere nulla. Nulla. I nostri reati sono lì. I morti sono morti. Gli omicidi sono omicidi.782

780 Ivi, cit. p. 50. 781 G. A. Stella, Noi TERRORISTE scrittrici per amore, “Corriere della Sera”, 05 novembre 1995, p. 25. 782 G. A. Stella, L’ex terrorista di destra. «Abbiamo ucciso, dobbiamo solo stare zitti», “Corriere della Sera”, 04 luglio 1997, p.7.

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L’immagine pubblica di Francesca Mambro e di Valerio Fioravanti pare circondarsi, nel tempo, e secondo le durissime parole pronunciate da Paolo Bolognesi nel diciassettesimo anniversario, da un «innocentismo più o meno romantico».783 Nel frattempo, nel 1996, sono pubblicate le memorie di un altro protagonista delle inchieste sull’eversione nera, Paolo Signorelli. Il professore affida i suoi ricordi alla carta stampata scegliendo un titolo che suggerisce immediatamente il suo ruolo di vittima della Giustizia e della macchina burocratica dello Stato: Professione imputato784 . Il testo riannoda i fili di tutti i processi che hanno visto coinvolto l’ideologo della destra nostrana, il quale, di fatto, è stato sempre assolto. Il giornalista Ugo Maria Tassinari, esperto di memorialistica della destra radicale, scrive a riguardo che seppure la narrazione di Signorelli risulta centrata sull’universo carcerario, lascia emergere «numerosi elementi di testimonianza storica: dal rapporto in carcere tra detenuti politici e grande malavita metropolitana […], alle dinamiche interne ai gruppi dei prigionieri politici neofascisti».

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D’altronde, come ricorda Tassinari, il professore è stato un uomo - chiave della trilogia curata da Nicola Rao sui neofascisti, con lunghe interviste che ne hanno ricostruito sia l’attività di collaboratore dell’Oas a fine anni Cinquanta sia l’appartenenza al movimento clandestino di Ordine nuovo molti anni dopo. Una ricostruzione decisamente meno storica e dal respiro fantasy è quella che porta la firma di un giornalista e noto cantautore della scena “nera” italiana, Gabriele Marconi. Il suo ruolo in Terza Posizione è un dato oggettivo così come la sua amicizia con i capi del gruppo, Nanni e Marcello De Angelis. Di fatto Marconi non ha subito accuse di rilievo penale e la sua scrittura trae spunto da elementi autobiografici per vestirsi da romanzo, raccontando il ritorno in patria di un fascista rivoluzionario punk che per caso s’imbatte in un archivio segreto dei servizi. Il coinvolgimento dei suoi vecchi camerati, con annessa descrizione a ritmo di flash back delle risse, delle spedizioni punitive ai danni dei rossi, delle battute sulle ragazze che frequentavano venti anni prima, culmina poi nel suggerimento di una pista, quella di Carlos lo Sciacallo, per la strage di Bologna. Ma prima di arrivare a questo, il protagonista e i suoi commilitoni riescono a ricordare tutti i delitti ai danni dei giovani militanti neri, con il peso storico inevitabilmente attribuito alla strage di Acca Larenzia:

783 M. Smargiassi, Bologna, i giorni dell’ira, “La Repubblica”, 03 agosto 1997, p.4. 784 P. Signorelli, Professione imputato (a cura di G. Compagno), Sonda, Torino, 1996. 785 U. M. Tassinari, La memorialistica della destra radicale, cit. pp. 149-150, in “Rivista di Politica” n.1, gennaiomarzo 2013, Rubbettino editore.

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… i compagni ci sparavano e gli sbirri, invece di difenderci, ci sparavano pure loro? I giornalisti, poi, ci massacravano sulla carta? Bene, allora avremmo fatto per conto nostro. Ci saremmo difesi da soli […] Fra le lacrime e i vortici di fumo/ da quei giorni la promessa di restare tutti figli di nessuno.786

Della strage alla stazione, Marconi fa dire al suo personaggio che

fu quello l’inizio della fine. La fine dei sogni e, per molti, la fine della libertà. E al segnale stabilito si dà il via alla grande caccia/ i fucili che ora puntano alla faccia/ le retate in grande stile dentro all’occhio del ciclone/ tra le spire della santa inquisizione. Per alcuni di noi, di lì a poco, fu la fine della vita.787

Il nuovo millennio vede proliferare le scritture degli ex della lotta armata nera con un significativo boom delle pubblicazioni a partire dal 2006, lo stesso anno in cui abbiamo già rilevato un intensificarsi del dibattito attorno ai protagonisti dell’eversione e del terrorismo sulla carta stampata quotidiana. Apre il ventunesimo secolo il volume autobiografico di due leaders storici del gruppo armato “Terza Posizione”, Gabriele Adinolfi e Roberto Fiore, una rielaborazione della memoria difensiva presentata dallo stesso Adinolfi nel processo per banda armata. A riguardo si noti pure che la prima edizione è firmata da Marcello De Angelis, da noi già citato in relazione a Gabriele Marconi, e parlamentare di centro destra per il Popolo della Libertà dal 2006 al 2013.

L’intento del libro è sostenere che il numero ridotto di militanti che passarono da Tp alla lotta armata non consente di configurare il gruppo come eversivo, né tantomeno colpevole di associazione a banda armata788 .

Più storico il volume che Adinolfi dedica al pubblico francese e francofono per raccontare la storia della destra radicale italiana, a partire, e questo è un paradigma ricorrente nella narrazione sul tema, dal “risorgimento tradito”.

789

786 G. Marconi, Io non scordo, (1°ed. Settimo Sigillo, 1999), Fazi editore, 2° ed., 2004, cit. p. 57. 787 Ivi, cit. p. 173. 788 G. Adinolfi, R. Fiore, Noi, Terza posizione,Settimo Sigillo, Roma, 2000. 789 G. Adinolfi, Nos belles années de plomb, Aencre, Paris, 2004. 248

Nel 2001 il grande pubblico incontra la ricca pubblicazione di Tassinari, Fascisteria790 , un percorso che dalla metà degli anni Sessanta giunge alle soglie del nuovo millennio raccontando (parafrasando il sottotitolo) i protagonisti, i movimenti e i misteri dell'eversione nera in Italia. E fra i protagonisti, in quegli anni, c’è anche chi sceglie di introdurre le sue memorie con un articolo di giornale a premessa di ogni capitolo, quasi per dare oggettività ed evidenza pubblica ai suoi ricordi soggettivi e privati. A farlo è Luigi Ciavardini, all’epoca della bomba del 2 agosto 1980 ancora diciassettenne. Giudicato dapprima innocente, poi colpevole per l’eccidio, oggi attende le tre date fissate per la richiesta di rinvio a giudizio da parte della Procura di Bologna (20 e 27 settembre, 6 ottobre 2017): una nuova inchiesta, trentasette anni dopo il sabato di sangue alla stazione. Quando affida la sua autobiografia a Gianluca Semprini, che poi si spenderà per integrarla con documenti e raccolta di interviste e contributi, attende il verdetto della Corte di Cassazione che arriverà il 17 dicembre 2003: condanna definitiva per associazione a banda armata finalizzata all’esecuzione della strage di Bologna. Verdetto di colpevolezza riaffermato anche l’11 aprile 2007. Nel momento in cui racconta la sua storia, l’ex Nar oggi padre di famiglia in semilibertà, descrive anche le rapine di autofinanziamento compiute con l’aiuto della delinquenza comune romana: «dalla malavita romana, da quel mondo di delinquenti che ha più o meno gravitato intorno all’estrema destra (e qualche volta anche a sinistra) erano arrivate vere e proprie lezioni, teoriche e pratiche […] se il bersaglio diventava comune, allora estremisti e malviventi potevano darsi una mano». 791

Ciavardini conosce Mambro e Fioravanti nel gennaio 1980 e nella sua ricostruzione dell’incontro affiorano tutti i paradigmi diffusi sullo spontaneismo armato e la leadership carismatica della coppia. Leggiamo che

I Nar non hanno gerarchie precise, sono autodidatti, senza riferimenti e appoggi. Vivono la loro rivoluzione per strada, rapinano per autofinanziarsi, comprarsi armi. Hanno già sparato e ucciso. Una decisione si prende perché qualcuno del gruppo ha avuto un’idea. Gli altri non la contrastano, anzi […] Sono molto diversi rispetto alle altre anime della destra eversiva come Avanguardia Nazionale, il Fuan, la stessa Terza Posizione dalla quale provenivo. Quelli sono rigidamente organizzati, ci sono gerarchie e procedura da rispettare […] lo spirito dei Nuclei

790 U.M.Tassinari,Fascisteria,Castelvecchi, Roma, 2001. 791 G. Semprini, la strage di Bologna e il terrorista sconosciuto. Il caso Ciavardini, Bietti, Milano, 2003, cit. pp.49-50. 249

Armati Rivoluzionari mi conquista, la loro mentalità è semplice e nello stesso tempo attraente.792

Il capitolo “L’agguato” sfrutta in apertura “La Repubblica” del 29 maggio 1980 e si abbandona all’infelice constatazione che «Quel giorno non abbiamo conquistato neanche il titolo principale». Questo perché, a poche ore di distanza dall’omicidio dell’agente Francesco Evangelista, detto Serpico, di cui i Nar sono artefici, le Brigate Rosse uccidono Walter Tobagi. Ciavardini propone ai suoi lettori il contenuto del volantino di rivendicazione793 e una spiegazione che si avvicina a quelle incontrate nelle interviste proposte nel contributo di Maurizio Fiasco: «La logica dell’azione ha una valenza fondamentale per quel contesto storico-culturale: bisognava mostrare con un’azione eclatante che la destra non aveva rapporti con lo Stato, i servizi segreti, la polizia.»794

Di nuovo torna, quindi, il tema dell’estraneità alla strategia della tensione, della contrapposizione alle Istituzioni, dell’autonomia rivendicata con ostinazione. Per spiegare i mutati rapporti fra Mambro, Fioravanti e Mangiameli, che verrà assassinato in settembre, l’ex Nar ricorre ad un episodio che appare fin troppo ingenuo e fragile: «per spiegare la poca affidabilità del siciliano, e anche la sua cattiva maniera di comportarsi, mi venne raccontato un episodio, quello delle telline». I frutti di mare, pescati dai due giovani, sono infatti offerti dal cattivo Mangiameli ad altre persone, un gesto che testimonierebbe ingratitudine verso Mambro e Fioravanti. Ma c’è un altro aneddoto: il capo di Tp sarebbe stato “un po’ tirchio” e avrebbe approfittato della generosità della coppia per un viaggio in autostrada del quale non avrebbe contribuito a pagare il pedaggio. Questo racconto, a tratti paradossale, prosegue sino a imbattersi nel capitolo aperto dall’annuncio dell’arresto di Ciavardini a Roma, sulle pagine del “Corriere della Sera” del 5 ottobre 1980. E l’appena diciottenne, catturato, parla. Fa i nomi di tutti quelli che con lui hanno fatto parte del commando killer dell’agente Evangelista e a questo segue la condanna da parte dei Nar, come delatore. Nonostante questo, aggiunge Ciavardini, il suo gesto verrà presto compreso: «poi mi è stato riconosciuto: ho circoscritto ai Nar

792 Ivi, cit. p. 56. 793 “Un Gruppo organizzato per l’azione diretta ha intercettato annientato e disarmato una postazione di mercenari al servizio della repressione che svolgevano il loro ignobile compito di sorveglianza e di spionaggio al liceo Giulio Cesare”. 794 Ivi, cit. p.60.

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duri e puri la colpevolezza per l’omicidio di Serpico. Una formula per evitare di coinvolgere gli altri».795

Inizia così il racconto del carcere. Dei, carceri. Al plurale. Con i trasferimenti, le perizie, i rapporti fra camerati detenuti e il mondo esterno. Ma anche con i processi, le accuse, le smentite, le rivelazioni dei pentiti ritrattate o confermate. L’ultima sezione dell’intensa autobiografia s’intitola, non a caso, “Verdetto”. L’incipit è affidato a un articolo di Paolo Cascella, tratto da “La Repubblica” del 10 marzo 2002: “Strage di Bologna. Ventidue anni dopo l’ultima condanna. Luigi Ciavardini (Nar) mise la bomba alla stazione.” La chiusura, invece, si avvale di una perentoria affermazione d’innocenza: «Non ho messo la bomba a Bologna».796

4.2.2 - Una nuova stagione di memorie per il «popolo post-missino».

L’avvio di un’inedita centralità accordata alle storie di vita neofasciste, è legato a doppio filo al lavoro del giornalista Luca Telese: Cuori neri.797

Tre anni di ricerche e di scrittura con l’intento dichiarato di raccontare ventuno storie che «vanno

sottratte alla memoria di parte (legittima) di una sola comunità, per essere restituite alla memoria condivisa (e necessaria) di un intero paese».798

Il racconto delle giovani vite interrotte si propone l’obiettivo di ricondurre queste morti alla loro dimensione storica, e non solo: «Né angeli né criminali, i “cuori neri” oggi possono tornare alla dimensione umana, nel consesso di una memoria condivisa».799 A comporre i mosaici delle singole storie Telese chiama familiari delle vittime, loro conoscenti, amici, ex militanti, persone che oggi sono parte del sistema politico dei partiti di destra (Alemanno, Bornacin…). Numerose sono le citazioni tratte dalla canzone alternativa dei neri e da diverse testate giornalistiche, da “Lotta Continua” a “Il Messaggero”, dal “Secolo d’Italia” al “Corriere della Sera”, da “L’Unità” a “Il Tempo”.

795 Ivi, cit. p. 89. 796 Ivi, cit. p. 135. 797 L. Telese, Cuori neri, Sperling & Kupfer, Milano, 2006. 798 Ivi, cit. p. XI. 799 Ivi, cit., p. XVIII.

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Merito di Telese è stato certamente aver dato spazio e voce a quelli che definisce i delitti dimenticati degli anni di piombo, la cui memoria pare essere coltivata soltanto dai rituali della destra e dei vecchi militanti.

D’altra parte, a suggellare l’interesse pubblico per la storia dei neri sarà la trilogia di Nicola Rao che proprio nel 2006 si presenta all’opinione pubblica. Il primo volume della triade curata dal giornalista s’intitola La fiamma e la celtica800 e incontra un successo inaspettato di vendite: trentamila copie vendute e decine e decine di presentazioni pubbliche in tutta Italia. Il volume è la nuova versione, aggiornata e ampliata, di Neofascisti (edito nel 1999), e inizia da una fine, dal funerale di una figura chiave del neofascismo e della destra italiana: Giuseppe Dimitri. La descrizione del rito funebre proietta il lettore in un tempo distante in cui croci celtiche, rune e guerrieri vichinghi sembrano tornare in vita: eppure siamo nell’attualissimo 2006 e nel centro di Roma a salutare Peppe ci sono tutti, proprio tutti. Ci sono il ministro Alemanno, l’attivista Adinolfi e i volti celebri di Terza Posizione: su tutti Gabriele Marconi e il futuro uomo politico De Angelis (sarà eletto di lì a pochi giorni). Si incontra tra la folla persino il volto di Andrea Insabato, che nel 2000 restò ferito nel tentativo di piazzare una bomba alla sede de “Il Manifesto”. Il sacerdote scelto ad officiare l’estremo saluto è un uomo decisamente particolare, un servitore di Dio che ha scritto un libro dedicato alla conversione cattolica del Duce prima della sua morte. Fra la gente, tanta gente, «siccome Peppe aveva attraversato tanti mondi, compreso quello armato, a salutarlo ci sono anche ex cattivi ragazzi che venticinque anni fa o anche più imbracciarono le armi.»801 Ministri, deputati, gente comune ed ex terroristi. Perché la destra italiana ricorda. Celebra. Commemora.

Così, mentre sono pubblicate nuove edizioni di opere dedicate ai “neri”, rivedute e aggiornate agli esiti giudiziari802, esce in libreria anche il volume di Caprara e Semprini, Destra estrema e criminale803, che ricostruisce le storie di diciotto personaggi legati al mondo della destra eversiva804 .

800 N. Rao, La fiamma e la celtica. Sessant’anni di neofascismo da Salò ai centri sociali di destra, Sperling & Kupfer, Milano, 2006. 801 Ivi, cit. p. 8. 802 L’ultima edizione di G. Bianconi, A mano armata, op. cit., è del 2007; nello stesso anno, P. Corsini, I terroristi della porta accanto, Newton Compton, Milano, 2007 (versione riveduta e ampliata di Storia di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, Tullio Pironti editore, Napoli, 1999. 803 M. Caprara, G. Semprini, Destra estrema e criminale, op. cit., prima edizione 2007. 804 Stefano Delle Chiaie, Franco Freda, Paolo Signorelli, Mario Tuti, Pierluigi Concutelli. Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Francesco Anselimi, Cristiano Fioravanti, Alessandro Alibrandi, Gilberto Cavallini, Giorgio Vale, Luigi Ciavardini, Walter Sordi, Massimiliano Taddeini, Roberto Nistri, Massimo Carminati. 252

Nel pubblico dibattito interviene poi il testo innocentista (pro Mambro e Fioravanti) di Andrea Colombo, di cui abbiamo già discusso, e quello della giornalista Mary Pace dedicato al giornalista e uomo del SID, Guido Giannettini. Dell’ex informatore la donna scrive una biografia basata su tredici anni di amicizia nati da una consulenza su armi e apparecchiature militari per un libro cui la stessa lavorava. A innescare la molla della scrittura sarebbe stata una trasmissione televisiva dedicata alla “strage di Stato” in cui si evidenziava il ruolo di Giannettini nella stessa. È per raccontare «la verità, la verità di un amico», che nasce quindi il libro. Un testo che offre al lettore tesi dal sapore complottista e assolutamente non sostenute dai riscontri giudiziari, come quella che legherebbe Giangiacomo Feltrinelli alla strage di Piazza Fontana con tanto di coinvolgimento del Mossad nella morte dell’editore e anche in quella del commissario Calabresi.805

Nello stesso anno, a reclamare uno spazio pubblico per le sue memorie è uno degli “irriducibili” fra i killer neri, uno fra i più efferati terroristi della parabola eversiva: Pierluigi Concutelli, il carnefice del giudice Vittorio Occorsio. Non siamo di fronte ad uno stragista, ma le sue memorie sono indubbiamente interessanti per ricostruire l’immaginario dell’eversione nera italiana. Io, l’uomo nero

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si avvale dell’introduzione del giornalista siciliano Giuseppe Ardica, che ha sostenuto centinaia di colloqui con l’ex terrorista in quasi un anno di lavoro. Ad uno dei primi incontri Concutelli dichiara perentoriamente: «Io non rinnego niente e non mi sono mai inginocchiato chiedendo perdono allo Stato. Sono e rimango una persona seria anche se diversa, molto diversa da quella di trent’anni fa. E non sono un mostro. Nonostante quello che può pensare la gente.»807 È lo stesso sentimento che aveva animato Francesca Mambro: nelle presentazioni, gli ex della lotta armata nera, rivendicano con forza la loro umanità.

805 M. Pace, Piazza Fontana. L’inchiesta: parla Giannettini, Armando Curcio Editore, Roma, 2008. Sul Mossad: «la vicenda ebbe inizio da un incontro avvenuto nell’agosto 1971 tra Leonid Breznev e il cancelliere tedesco Willy Brandt,a Oreanda, cittadina sul Baltico. Brezhnev indusse Brandt ad abbandonare l’appoggio alla sinistra extraparlamentare europea: i servizi segreti tedeschi erano stati rilevati dal Mossad israeliano e ciò comportava una accurata epurazione della sinistra extraparlamentare non assimilabile. Tali operazioni erano eseguite da elementi dei servizi tedeschi occidentali, che erano, inoltre, interessati alla liquidazione di Feltrinelli. L’altra persona da eliminare per il Mossad era Luigi Calabresi, che proprio per gli indizi lasciati da Feltrinelli e la lunga indagine che stava svolgendo in Germania sarebbe venuto a conoscenza di fatti scottanti, uno scandalo colossale a carattere internazionale. Le sue rivelazioni avrebbero fatto crollare tutta la montatura della cosiddetta pista nera e in Italia si sarebbe capovolta la situazione politica: l’apertura a sinistra sarebbe fallita, proprio quella che auspicava il Mossad», cit. p. 35. 806 P. Concutelli, Io, l’uomo nero. Una vita tra politica, violenza e galera, Marsilio editori, Venezia, 2008. 807 Ivi, cit. p. 10.

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E di nuovo, nell’album di famiglia del terrorismo neofascista, affiora l’immagine controversa dei legami con gli apparati deviati dello Stato e dei Servizi segreti: «Per noi fascisti, essere uno stragista era la più infamante delle accuse. Anche e soprattutto per questa ragione Buzzi è morto».808

Degli omicidi Occorsio e Buzzi, e delle altre sue colpe, l’uomo nero fornirà nel corso del volume la sua privatissima visione, ma sono le righe introduttive del suo racconto a suggerire il peso della violenza assunta a categoria interpretativa della Vita stessa:

Sono un assassino. È terribile, brutale, lo so. Eppure è la verità […] se e quando ho fatto certe cose, le ho fatte con lucidità, razionalmente: per perseguire, in quegli anni cupi e soltanto in quegli anni, scopi che consideravo prioritari, “nobili” […] ho ucciso sapendo sempre quello che stavo per compiere. Ero fanatico, ubriaco fradicio di politica. Ho ucciso per scelta, spinto da un’ideologia che all’epoca era, e non solo per me, totale e totalizzante. Lo ripeto spesso: sono stato giudice, boia e per frazioni di secondi ho sostituito persino Dio […] Non sono un “pentito” per una ragione semplicissima che a qualcuno farà storcere il naso: i sensi di colpa non fanno parte del mio modo di essere, della mia storia personale, della mia vita […] Quando qualcuno trova il coraggio e osa chiedere, rispondo sempre che non mi considero né innocente né colpevole [...] Ero determinato, feroce, irrefrenabile. Oggi sono un’altra persona. Diversa. Mi guardo indietro e a volte non mi riconosco più.809

Nel lungo racconto di Concutelli affiora più volte il tema delle aspettative deluse. Dapprima in relazione all’appoggio che Almirante fornì a Michelini al congresso di Pescara del 1965: «La mia missinità, se c’è mai stata, è nata morta. Un aborto spontaneo che ha radici lontane, affondate nell’acqua grigia del Mare Adriatico». Quel giorno nacquero, secondo Concutelli, «i giovani turchi del neofascismo rivoluzionario italiano, le teste calde, gli estremisti […] Non del tutto sfamati da quelle monetine da cinquanta lire che con rabbia lanciammo su Giorgio Almirante, l’uomo del compromesso, il venduto, il voltagabbana.»

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Ma è con Valle Giulia che il giovane sublima la sua delusione nei confronti del Msi e si avvicina sempre più al fronte di Junio Valerio Borghese, perché, a suo dire, come i vecchi partigiani cedevano le armi ai brigatisti, i reduci di Salò, «quelli più riottosi e rancorosi verso la democrazia italiana», rifornivano più facilmente i giovani di pistole, mitra e bombe a mano.

808 Ivi, cit. p. 13. 809 Ivi, cit. pp. 17-18. 810 Ivi, cit. pp. 36-38.

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L’immagine che Concutelli suggerisce è quella di un’intera generazione che si prepara alla Rivoluzione nella stessa maniera, ma su sponde opposte. Con la differenza che se gli ex partigiani «affidavano ai rossi il testimone della rivoluzione proletaria incompiuta e della resistenza tradita», i “vecchi” trasmettevano ai neri soltanto «un oscuro desiderio di rivalsa. Di fare giustizia contro chi li aveva messi all’indice».

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Nella storia di vita di Concutelli i giovani non sanno nemmeno come chiamarsi, se post-fascisti, neofascisti o “afascisti”. Un vuoto d’identità che permetterà loro ben presto di trasformarsi in quelle che definisce “belve feroci e rabbiose”. “Verso la lotta armata” è il titolo di un capitolo che introduce il tema delle stragi. È interessante soffermarsi sulla ricostruzione, del tutto soggettiva, di quei primi “terribili” anni Settanta:

Prevalse la tesi, alimentata da “autorevoli” commentatori e da giornali “democratici”, che le bombe che stavano insanguinando l’Italia, che uccidevano indiscriminatamente, alla cieca, erano bombe con il marchio di fabbrica fascista […] Sempre colpa loro, sempre colpa dei camerati, dei fascisti. Responsabili che, come dimostreranno anni e anni di processi lunghissimi, non abbiamo mai avuto. Eppure, per l’opinione pubblica, eravamo diventati i mostri, i nemici della democrazia, i pazzi e pericolosi bombaroli da chiudere in galera e da eliminare. Anche fisicamente […] Tutto era lecito nei confronti di chi si professava post-fascista o neo-fascista812 .

Questo “clima da guerra civile” in un contesto in cui “lo stato faceva spallucce”, alimenta, nei ricordi del terrorista, le paure della gente comune e dei militanti. La versione di Concutelli è permeata di un’aura auto-assolutoria in cui la violenza nera è quasi un peccato d’ingenuità – «“A piazzale Loreto c’è ancora posto” cantavano minacciosi nei cortei. Incitavano all’odio. E noi, coglioni, e forse troppo giovani, cascavamo puntualmente nel tranello. Rispondendo alla violenza con la violenza» - e riaffiora la questione dell’appartenenza a una minoranza:

Tutto questo continuava a farci sentire, ogni giorno, minoranza ingiustamente perseguitata. Senza diritto di parola […] Eravamo esclusi da tutto perché “neri”: una specie di razzismo ideologico terribile. E noi cominciavamo a pensare che qualcuno desiderasse davvero la nostra

811 Ivi, cit. p. 52. 812 Ivi, cit. p. 68.

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fine politica e fisica. È stato anche questo (certo non solo questo) a trascinare alcuni di noi verso rive oscure. A farci diventare latitanti e poi “terroristi” e assassini.

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Una tesi già avallata da una certa vulgata che cerca di trovare a tutti i costi una “perdita dell’innocenza”, a sinistra come a destra e con le rispettive varianti, per giustificare una scelta violenta che la storiografia ha già ampiamente dimostrato essere negli anni in questione una violenza diffusa, accettata, praticata, compresa nei linguaggi e nelle pratiche di molti militanti, ancor prima di Piazza Fontana e ancora prima della “caccia ai fascisti” di cui parlano i neri. L’omicida del giudice Occorsio scrive di un mondo popolato da una cultura “pseudo - resistenziale” in cui i fascisti sono ancora demonizzati e nel quale in molti (non lui, ovviamente) iniziano a temere per la propria incolumità. Un mondo in cui si è dentro un fortino con alte palizzate di legno tutt’attorno, mentre fuori i nemici attendono di eliminare i “malvagi”. Un universo in cui il canto dei Repubblichini “Vogliamo andare all’inferno in compagnia”, è una sorta di mantra per esorcizzare il terrore e in cui lo Stato che nel ‘74 si proponeva di sventare il pericolo neofascista è uno Stato Nemico. A questo punto, per descrivere il Nemico, di nuovo la scrittura di Concutelli si serve di immagini e sceglie quella della piovra: al centro una testa dura e coriacea con tentacoli che mano a mano che ci si allontana dal corpo principale si fanno invece più deboli e fragili. Concutelli decide che il mostro, il regime democratico, non va quindi attaccato al cuore dello Stato – parafrasando i Brigatisti – ma che ne vanno recise le cinghie di trasmissione, i tentacoli, appunto. Si deve partire dalle periferie. Dai sabotaggi. Dai simboli del sottogoverno democristiano e del potere. Nascono molte sigle, s’intensificano le azioni. Ci si avvia verso la lotta armata vera e propria e a Concutelli spetta selezionare i camerati più fidati. Diffida dei veneti «personaggi ambigui, spesso in contatto con qualcuno dei servizi segreti», ma anche dei lombardi tra i quali «il tanfo degli inquinamenti dei servizi segreti era nauseante». Li sceglie ad uno ad uno. Iniziano le rapine e i sequestri di finanziamento, come quello del banchiere pugliese Mariano che di fatto ha avviato la fusione fra il Movimento Politico Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. Arrivano i giorni della riunione di Albano Laziale (settembre 1975) e sono allo stesso tavolo i rappresentati dell’intero “gotha” dell’eversione nera: Concutelli e Delle Chiaie su tutti. Un’unione che col senno di poi l’ex terrorista considera un errore strategico e politico. Ad ogni modo si arriva al ‘76 e al rientro a Roma da latitante con la necessità di riorganizzare il “suo” Ordine Nuovo. Per dimostrarne la forza Concutelli decide di compiere

813 Ivi, cit. p. 69.

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un’azione di propaganda armata, di colpire un nemico, scritturando per questo ruolo il giudice Vittorio Occorsio ritenuto «il braccio armato della DC, l’uomo che da piazza del Gesù avevano mandato avanti per annullarci».814

La descrizione dell’“azione” è quasi tecnica. Piatta. Lineare. E anche quella del «dopo Occorsio», in cui appare evidente all’omicida la necessità di «mettere la parola fine al libro del velleitarismo parolaio e continuare la strada imboccata dopo il bivio rappresentato dal delitto». Eppure sarà l’inizio della fine. Il Msi lo considera ormai un corpo estraneo e lui sente di non avere di chi fidarsi finendo con appoggiarsi ai “ragazzi di Tivoli” e a Sergio Calore, che diverrà uno dei più importanti pentiti fra i neofascisti italiani assieme ad Aldo Tisei e Paolo Bianchi.

Nel febbraio 1977, l’arresto. Inizia il racconto dei trent’anni di carcere di cui Concutelli denuncia le durissime condizioni. Nel giorno del rapimento di Aldo Moro giunge la sentenza di condanna all’ergastolo per l’omicidio del giudice romano, con il successivo trasferimento al carcere dell’Asinara prima, e a Trani poi. Qui diventa amico di Freda e instaura un rapporto cordiale ma freddo con Giannettini, mentre nell’estate dell’ 80 rimbalza ovunque la notizia della strage cui segue quella dell’omicidio dell’amico Ciccio Mangiameli. Trasferito al supercarcere di Novara, Concutelli diventa «er sentenza. Un soprannome che dava il senso di cosa ero realmente in quegli anni: un uomo determinato, spietato, feroce.»815 Ermanno Buzzi, come sappiamo, verrà improvvidamente trasferito proprio nella stessa struttura, nonostante la condanna a morte annunciata su “Quex”, la rivista carceraria dell’ultra-destra. Nel cortile morirà per mano di Concutelli e Tuti, strangolato nell’ora d’aria. Il racconto dell’omicidio segue la stessa logica piatta e lineare dell’omicidio Occorsio. Antefatto, movente - «Ammazzammo Buzzi perché sapevamo con certezza che era una spia. Uno stragista (l’accusa peggiore che potesse correre tra noi), un doppiogiochista che frequentava troppo spesso e da parecchi anni la Questura» - modalità d’azione, conseguenze. Stessa gelida struttura per il resoconto di un’altra condanna a morte eseguita in carcere da Concutelli, quella dell’esponente di “Avanguardia Nazionale” Carmine Palladino, nell’agosto del 1982, sul quale pesava il sospetto di essere un confidente della Polizia. Infine, il bilancio di una vita. Che assomiglia a tanti bilanci di tante vite di tanti ex terroristi: «Un fallimento su tutti i fronti, ora posso dirlo. Ho fatto una guerra generazionale e ora sono un vecchio. Ho fatto una lotta che a modo mio era di libertà e vivo da prigioniero […] ho creduto di combattere

814 Ivi, cit. p. 109. 815 Ivi, cit. p. 195.

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per un futuro migliore e non ho futuro. Ho solo un passato che pesa sulle spalle e che non ho mai ripudiato». Concutelli avanza anche una proposta di analisi sul perché degli anni di piombo in Italia. E la risposta che suggerisce condanna e assolve tutti nello stesso momento. Scrive, infatti, di errori reciproci, di qualcuno che ha sottovalutato minacce e di qualcun altro che si è lasciato sfuggire di mano «una tigre». Scrive anche che «chi doveva assicurare un confronto democratico e sereno tra i giovani ha sbagliato.»816 Dei Nar dà un giudizio del tutto negativo, negando loro di aver agito con consapevolezza, ma soltanto per dimostrare al mondo la propria esistenza. Il suo rammarico, aggiunge nelle battute finali, è quello di essere stato un cattivo esempio per i giovani. Dell’autobiografia di Concutelli troviamo un’eco pubblica sulle pagine del “Corriere della Sera”, che alla recensione affianca un giudizio che esula dalla veridicità del racconto dell’ex terrorista: «il libro […] ha interesse soprattutto come resoconto di un delirio politico-ideologico: a cominciare dalla percezione, non priva di tratti paranoidi, di un accerchiamento, di una minaccia mortale da parte dello Stato».817 Se le memorie di Concutelli avvincono comunque il pubblico di destra, il secondo volume della trilogia scritta da Nicola Rao ne scuote invece le fondamenta. Il sangue e la celtica818, a differenza del libro edito nel 2006, non piace al popolo post missino, anzi, ne agita le coscienze e ne anima i peggiori istinti. Il giornalista apprezzato per la ricostruzione delle varie anime del neofascismo italiano appena due anni prima, è ora insultato, minacciato e criticato dai suoi vecchi estimatori. La sua colpa è aver dedicato il nuovo lavoro al tema dello stragismo incrociando interviste ai protagonisti dell’eversione nera e atti giudiziari. Il risultato è una disamina puntale e obiettiva che porta Rao a riconoscere la colpevolezza dei neofascisti per le stragi di Milano e di Brescia. Della pioggia di critiche giunte principalmente attraverso i canali di CasaPound e in particolare dal suo guru, Gabriele Adinolfi, si accorge anche un cronista di “Panorama” che dedica al polverone scatenato dal libro un articolo dal provocatorio titolo: «Libri scomodi: un caso Pansa a destra». Ma Rao è un instancabile giornalista e l’anno successivo dà alle stampe un nuovo volume della sua complessa opera, Il piombo e la celtica.819 Nella sua ultima fatica l’autore esamina il terrorismo neofascista in un breve arco temporale che va dalla metà degli anni settanta all’inizio degli anni

816 Ivi, cit. p. 215. 817 G. Belardelli, «Un killer nero contro Almirante». L’autobiografia del neofascista che nel 1976 uccise il giudice Vittorio Occorsio, “Corriere della Sera”, 18 febbraio 2008, p.33. 818 N. Rao, Il sangue e la celtica, Sperling & Kupfer, Milano, 2008. 819 N. Rao, Il piombo e la celtica, Sperling & Kupfer, Milano, 2009. 258

ottanta. Non guarda più al terrorismo delle stragi ma a quello dei gruppi romani, specialmente dei NAR, individuando un passaggio decisivo dell’evoluzione violenta ed eversiva neofascista, nella morte del giovane militante Mikis Mantakas avvenuta nel 1975. Oggetto della trattazione sono quindi gli ultimi anni del terrore neofascista e della sua storia criminale e politica. Nella settimana a cavallo fra il settembre e l’ottobre del 2009, l’ultimo capitolo della trilogia si trova al quattordicesimo posto nella classifica della saggistica italiana presentata sul “Corriere”, fra Zygmut Bauman e Dario Fo, mentre a godersi il primo posto resta Roberto Saviano. L’impatto pubblico, insomma, c’è. La Destra italiana dal dopoguerra a oggi ha una Storia e una sua Memoria che costituiscono ormai un vero e proprio genere letterario. Nel 2010 si inserisce nel nuovo filone narrativo il lavoro di tre giovani giornalisti che l’anno precedente hanno attraversato l’Equatore per incontrare il generale del SID Gian Adelio Maletti, nel suo buen retiro sudafricano. È scappato a Johannesburg trent’anni prima, per sfuggire all’arresto dopo l’inchiesta per i depistaggi relativi alla madre di tutte le stragi, quella consumatasi in Piazza Fontana.

Maletti era stato condannato nel ‘79 per aver fatto fuggire due neofascisti coinvolti nell’indagine: Marco Pozzan e Guido Giannettini. Nel 2001 tornò in Italia per il quanto processo sulla bomba di Milano, forte di un salvacondotto che lo rendeva di fatto intoccabile nonostante le condanne. E rese una dichiarazione che ammutolì l’Aula:«Dietro la strage, c’era l’ombra della Cia. Gli americani sapevano tutto. Conoscevano i neofascisti, e li incoraggiavano. Furono loro a fornire l’esplosivo»820 . Non si tratta di un’autobiografia nera, né di una testimonianza raccolta fra le fila dell’eversione neofascista. Nondimeno abbiamo ritenuto il testo meritevole d’attenzione perché legge le stragi e i tentativi golpisti alla luce di una prospettiva privilegiata e interna agli apparati statali, nell’ottica di una strategia internazionale in cui il neofascismo ha avuto un ruolo di prim’ordine e non subalterno. Del resto Maletti racconta anche che la strage di Brescia fu opera di neofascisti della stessa cordata di quelli di piazza Fontana, cosa che l’ultima sentenza di Brescia ha definitivamente convalidato con l’ergastolo confermato per Maggi (assieme a Tramonte) il 20 giugno 2017, a 43 anni di distanza dalla bomba.

Nel 2012 si aggiunge un’altra autobiografia “illustre” al panorama di quelle finora esaminate: a tracciare nero su bianco il filo delle sue gesta è Stefano Delle Chiaie, “Er caccola”, chiamato in causa in quasi tutte le inchieste sull’eversione neofascista e sulle stragi.

820 A. Sceresini, N. Palma, M. E. Scandaliato, Piazza Fontana. Noi sapevamo. Golpe e stragi di Stato. Le verità del generale Maletti, Alibertieditore, Roma, 2010, cit. p. 27.

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Il racconto inizia dal 5 giugno 1944, dalla liberazione di Roma, dalla «profonda malinconia che non riuscirò mai a cancellare dalla memoria».821

Prosegue con l’infanzia segnata dalle fughe da casa in cerca di avventura e l’esperienza del collegio in cui si avvicina al mondo missino. Nelle pagine di Delle Chiaie compaiono quindi gli anni di Ordine Nuovo, della prima militanza, della nascita di Avanguardia Nazionale, le stragi degli anni Settanta e oltre, i rapporti coi servizi segreti italiani, le numerose attività di cui è protagonista soprattutto in America Latina ma anche in Portogallo e in Spagna. Acclamato dalla stampa di destra, il volume è invece criticato dalla giornalista Silvana Mazzocchi, sulle pagine de “La Repubblica”:

mentre si dilunga su una versione dei fatti e misfatti dell' epoca, ben poco aggiunge alla verità storica su mezzo secolo di misteri d'Italia, su un rocambolesco curriculum di ricercato speciale e sul coinvolgimento dei "cuori neri" chiamati in causa dalle vicende giudiziarie per stragi e complotti. Un compendio di memorie, in gran parte già esternate nelle sedi processuali e dinanzi alle Commissioni parlamentari, che resta comunque un documento assai intenso per quanti siano interessati a conoscere quel magma da guerra fredda che nel nostro paese rese tutto possibile pur di fermare il fantasma dell'avanzata comunista, nonché gli ambienti e le convinzioni in cui si dipanò quel tempo esplosivo, popolato da servizi segreti deviati, infiltrati, provocatori e intrecci mai chiariti […] Ma poco o nulla risulta utile per svelare quel filo oscuro che lega i tanti misteri italiani le cui vittime, nella maggior parte dei casi, sono rimaste senza giustizia.822

Delle stragi Delle Chiaie non rivela molto, anche se suggerisce il coinvolgimento degli ordinovisti veneti.

Di lì a breve, invece, un’ex della destra eversiva avrebbe scritto un libricino con l’ambizioso intento di far luce sull’eccidio di Brescia. La firma in calce al testo è di Gabriele Adinolfi, il titolo scelto è suggestivo quanto lontano dagli esiti giudiziari e dalla realtà storica ormai acclarata: Quella strage fascista. Così è se vi pare.823

Nell’aprile 2014 il quotidiano di destra, “il Secolo d’Italia” si spende in difesa del volume dell’ex leader di Terza Posizione, elencandone i punti di “forza” nel sostenere che forse la strage non fu fascista ma “rossa”: «Una conversazione intercettata sul telefono dell’ambasciatore cubano. La

821 S. Delle Chiaie, L’aquila e il condor (con M. Griner e U. Berlenghini), Sperling & Kupfer, Milano, 2012, cit. p. 1. 822 S. Mazzocchi, Delle Chiaie: ci proposero di rapire Moro nel 1964, “La Repubblica”, 29 maggio 2012, p.60. 823 G. Adinolfi, Quella strage fascista. Così è se vi pare, Ed. Youcanprint, 2013. 260

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