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2.4. Collaborazionismo e resistenza nei paesi occupati
co e nel 1944 tra la popolazione polacca). In Ucraina, una commissione statale calcolò il numero delle vittime in 4,5 milioni, di cui oltre 3 milioni classificati come civili 35 .
La Shoah distrusse, secondo Antonio Ferrara, le comunità ebraiche come «pilastro del vacillante edificio dell’antico regime dei rapporti tra nazionalità e classi sociali dell’Europa centro-orientale». Il loro sterminio «costituì uno degli atti più rivoluzionari compiuti dal regime nazista – cui baltici, ucraini e altri cooperarono per le stesse ragioni per cui cechi, polacchi e altri avrebbero poco dopo appoggiato l’espulsione dei Volksdeutsche». Gli ebrei dell’Europa orientale, infatti, avevano sempre avuto stretti legami col mondo di lingua tedesca. La Shoah fu dunque, involontariamente, «una tappa della de-germanizzazione (destinata a concludersi nel dopoguerra) dell’Europa centro-orientale» 36 .
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2.4 Collaborazionismo e resistenza nei paesi occupati
2.4.1. CECOSLOVACCHIAEPOLONIA
L’annuncio del patto sovietico-tedesco nell’agosto 1939 e la successiva, fruttuosa collaborazione fra i due regimi totalitari in Polonia lasciò interdetta l’opinione pubblica progressista europea e paralizzò a lungo l’attività dei comunisti illegali ancora operanti in Europa orientale. Il Komintern, una pura cinghia di trasmissione della politica estera sovietica, ricevette da Stalin l’ordine di sostenere la posizione di Mosca e non prendere parte ai movimenti di resistenza ai tedeschi 37 . Nei primi due anni di guerra, a guidare – con scarso successo – il fronte civile antinazista furono i governi democratici in esilio: il Consiglio nazionale cecoslovacco guidato da Beneˇs, creato a Parigi nell’ottobre 1939 e riconosciuto nel luglio 1940 dal governo britannico come governo provvisorio, e il governo polacco a Parigi, e in seguito a Londra, guidato dal generale W/ ladys/law Sikorski. Soprattutto per quest’ultimo si poneva il dilemma del rapporto con l’Unione Sovietica. Stalin aveva deportato centinaia di migliaia di polacco-ucraini nel 1935-38 e un numero ancora maggiore di polacchi dalle zone conquistate nel 1939. Con l’invasione tedesca dell’URSS, il quadro ideologico tornò più chiaro e la strategia del Komintern si adeguò alle esigenze dello sforzo militare sovietico. I governi in esilio non comunisti si sforzarono di giungere a un accordo con l’Unione Sovietica.
Il compito si rivelò più agevole per Beneˇs, bendisposto verso i sovietici per inclinazione politica generale e per l’evoluzione della situazione interna del Protettorato di Boemia e Moravia. Dopo oltre tre anni di tiepida collaborazione con le autorità di occupazione, la popolazione civile aveva qui iniziato a dare segnali di rivolta in seguito all’arrivo a Praga nel settembre 1941 di un luogotenente assai temuto, Reinhard Heydrich. L’integrazione dell’economia in quella del Reich e l’aumentata repressione antiebraica si aggiunsero al tentativo di liquidare ogni residuo spazio politico rimasto alla popolazione ceca. Il 27 maggio 1942 due partigiani inviati da Londra riuscirono ad assassinare Heydrich, il dirigente nazista di più alto grado mai eliminato da un movimento di resistenza europeo 38 . Nonostante la reazione degli occupanti, che rasero al suolo due villaggi scelti a caso e ne massacrarono l’intera popolazione, funzionasse da deterrente sino alle ultime fasi della guerra, Beneˇs fu molto abile a conquistare alla sua opera di ricostituzione di una Cecoslovacchia indipendente un consenso che spaziava dalle forze politiche locali (agrari, socialisti nazionali, socialdemocratici, comunisti) fino ai governi occidentali e, soprattutto, all’URSS. Nel dicembre 1943 egli firmò con Stalin, a Mosca, un importante trattato bilaterale di amicizia, che prevedeva la ricostituzione dello Stato ceco-slovacco entro i confini pre 1938 e l’espulsione della popolazione tedesca dalla regione dei Sudeti 39 . Dalla catastrofe politica di Monaco Beneˇs aveva tratto l’insegnamento che la presenza di ampie minoranze non assimilate (vere e proprie “quinte colonne”) aveva costituito la causa scatenante del conflitto mondiale, e convenne con Stalin sulla necessità di dare alla futura Europa centro-orientale una forma il più possibile “nazionale”, cioè monoetnica, e al proprio paese un’impronta finalmente “slava”, ripulita da influenze germaniche e ungheresi 40 .
Nel caso cecoslovacco, la mancata integrazione della componente slovacca aveva contribuito alla disgregazione dello Stato e le vicende slovacche del 1939-44 dimostravano quanto la questione fosse complessa. Lo Stato slovacco indipendente di Jozef Tiso godette di un notevole consenso almeno fino al 1942. Si trattava di un regime autoritario di forte ispirazione cattolica, nel quale gli elementi di conservatorismo sociale e politico, uniti al nazionalismo anticeco e antiungherese, prevalevano sui postulati ideologici. Il regime di Tiso si caratterizzò in senso antisemita soprattutto dopo il settembre 1940, quando una legge costituzionale autorizzò il governo a legiferare per decreto in materia di “arianizzazione”. Per i quasi 100.000 ebrei slovacchi ciò significò la spoliazione economica, la privazione del passaporto e la concentrazione in campi speciali in attesa del loro trasferimento coatto in Palestina. Dopo l’invasione dell’URSS una nuova legge
andò a regolare minuziosamente la discriminazione e l’esclusione degli ebrei dalla vita economica, sociale e culturale. Nell’ottobre 1941, circa 15.000 ebrei vennero deportati da Bratislava in campi di lavoro, mentre nel marzo-giugno 1942 le autorità slovacche disposero la deportazione a Lublino e ad Auschwitz di 52.000 ebrei (solo parzialmente attuata per l’intervento del Vaticano e delle organizzazioni sioniste) 41. Fino al 1944 la Slovacchia fu un debole ma fedele alleato della Germania e i gruppi della resistenza agirono nell’isolamento dalla popolazione. La svolta fu provocata dall’offensiva sovietica nei Carpazi. Il 29 agosto 1944 venne proclamata un’insurrezione cui partecipò un’ampia ed eterogenea coalizione di forze: comunisti, volontari legati al governo di Londra, nazionalisti slovacchi e militari che avevano rotto con il regime di Tiso. L’insurrezione, forte di 60.000 uomini in armi, si trasformò presto in una guerra semiregolare di circa due mesi contro le unità slovacche e tedesche inviate a reprimerla, costò oltre 10.000 morti da entrambe le parti e fu seguita da una dura repressione 42. La Slovacchia sarebbe stata liberata dalle truppe sovietiche provenienti dall’Ungheria e dalla Romania solo nel marzoaprile 1945.
Per gli uomini di governo polacchi, l’accordo con l’Unione Sovietica si presentava assai più problematico e moralmente scabroso. Sulla scia dell’esperienza storica della resistenza successiva alle tre partizioni della seconda metà del Settecento, la società polacca aveva messo a punto meccanismi burocratici e dispositivi militari clandestini che funzionarono in modo efficiente sino a tutto il 1944, non solo nel territorio del Governatorato generale, ma anche in tutto quello dell’ex repubblica polacca interbellica. Divisa in numerose fazioni e correnti (dal 1944 addirittura in due eserciti, uno filo-occidentale e l’altro filosovietico), la resistenza polacca all’occupazione tedesca fu la più attiva in Europa insieme a quella jugoslava e raggiunse risultati militari importanti: i sabotaggi impedirono a un trasporto su otto di raggiungere le truppe tedesche impegnate sul fronte orientale. Reparti irregolari polacchi tennero impegnato mezzo milione di soldati tedeschi e contingenti militari dell’armata del generale Anders combatterono in tutta Europa a fianco degli Alleati; il secondo corpo militare contribuì in modo decisivo alla liberazione di Bologna, il 21 aprile 1945 (il cimitero monumentale posto alla periferia orientale della città ospita i resti di quasi 1.500 soldati polacchi).
All’interno del paese, la resistenza si attivò per cercare di salvare la popolazione ebraica. La diffusa convinzione che gli ebrei fossero un “corpo estraneo” nella società polacca lasciò il posto a sentimenti di pietà che portarono nel 1942 una scrittrice cattolica,
distintasi in precedenza per il suo nazionalismo e antisemitismo, a fondare un movimento clandestino di aiuto agli ebrei 43 . I suoi attivisti riuscirono a salvare quasi 10.000 ebrei dal ghetto di Varsavia in condizioni di pericolo. Come sottolinea Carla Tonini, si trattò del «più grande atto di resistenza contro il progetto di sterminio di un intero popolo» 44 . Alla rivolta del ghetto di Varsavia dell’aprile-maggio 1943 seguì, nell’agosto-settembre 1944, una massiccia ribellione cui partecipò gran parte della popolazione della capitale e costò la vita a oltre 200.000 persone. I combattimenti terminarono il 2 ottobre, mentre i rivoltosi attendevano inutilmente l’intervento delle truppe sovietiche accampate sulla sponda destra della Vistola 45 . Proprio le reciproche diffidenze e la malcelata ostilità di Stalin nei confronti dei polacchi amareggiarono una cooperazione necessaria in chiave antitedesca ma sempre conflittuale. Nonostante Sikorski firmasse nel giugno 1941 un patto di collaborazione con l’ambasciatore sovietico a Londra, Majskij, i due paesi restavano divisi dalla questione cruciale delle frontiere. Stalin chiedeva che l’URSS conservasse i territori ex polacchi situati a est della linea di confine dei riti uniate e ortodosso, ovvero il confine polacco-russo proposto dal ministro degli Esteri inglese Curzon nel 1920, e questa posizione trionfò alla conferenza interalleata di Teheran svoltasi dal 28 novembre al primo dicembre 1943. La Polonia, che perse a vantaggio dell’URSS 110.000 km2 di territorio sulla frontiera orientale, fu compensata con 60.000 km2 delle terre più fertili dei prosperi possedimenti tedeschi situati a est dei fiumi Oder e Neisse 46 .
Al conflitto sulle frontiere si aggiunse un episodio solo apparentemente minore: nell’aprile 1943 i polacchi furono informati dai nazisti del massacro di Katyn e dell’identità dei suoi perpetratori, che la propaganda tedesca indicò (una volta tanto, correttamente) nelle forze speciali sovietiche. La sconcertante rivelazione causò aspri contrasti fra il governo di Londra (e la sua emanazione militare in Polonia, l’Armia Krajowa – AK, antifascista e filo-occidentale) e le forze partigiane organizzate dal partito comunista, ricreato nel 1942 da militanti e agenti sovietici. La morte del primo ministro Sikorski nel luglio 1943 indebolì il governo in esilio, costretto a collaborare militarmente con i sovietici in posizione sempre più subordinata man mano che il fronte avanzava verso ovest. Il 22 luglio 1944 venne creato a Lublino, su iniziativa sovietica, il Comitato nazionale di liberazione polacca (PKWN) incaricato di amministrare i territori liberati dall’Armata rossa; il 31 dicembre esso si trasformò in governo provvisorio. Il nuovo primo ministro del governo in esilio a Londra, Sta-
nis/law Miko/ lajczyk, si trovò in una situazione disperata: l’assetto territoriale del paese dipendeva unicamente dalla benevolenza di Stalin, mentre il minuscolo partito comunista polacco si metteva al servizio dell’Armata rossa nella sovietizzazione dei territori orientali già liberati. Qui il grosso della repressione (60.000 arresti, 50.000 deportati in Unione Sovietica) si verificò prima ancora della fine della guerra. L’occupazione tedesca e sovietica aveva fatto tabula rasa dell’élite militare e amministrativa e nel 1945 il paese non disponeva più di una propria macchina statale.
2.4.2. LOTTADILIBERAZIONEEGUERRECIVILI NEIBALCANI
La resistenza militare all’invasione delle forze dell’Asse assunse un ruolo centrale in Grecia e in Jugoslavia dove, entro il 1942, nacquero veri e propri eserciti partigiani di liberazione nazionale, diretti dal partito comunista e sostenuti da vasti settori della popolazione. La sorte di tali movimenti non dipese dalla fortuna militare ma dalla collocazione geopolitica dei rispettivi paesi. In Grecia, dove la resistenza era iniziata già nell’autunno del 1940, all’indomani della tentata invasione italiana, il gruppo armato più consistente era rappresentato dai comunisti dell’Esercito popolare di liberazione (ELAS), l’organizzazione militare del Fronte nazionale di liberazione (EAM), e nella primavera del 1944 le forze congiunte comuniste e filomonarchiche/liberali controllavano gran parte del territorio nazionale.
In Jugoslavia la resistenza armata, attiva sin dall’estate del 1941, si organizzò intorno a due nuclei ideologicamente incompatibili sul lungo periodo. I “cetnici” 47 (ˇ ceta significa “truppa”), guerriglieri monarchici serbi guidati dal colonnello Draˇza Mihajlovi´c, nominato capo del governo dal re Pietro II, miravano a creare dopo la liberazione del paese una “Grande Serbia” che comprendesse anche la Bosnia e parti della Croazia; mentre i partigiani comunisti, capeggiati dal segretario del partito, Josip Broz (pseudonimo “Tito”), miravano alla creazione di uno Stato di tipo sovietico. Anche la tattica di combattimento differiva notevolmente: i cetnici preferivano non condurre attacchi indiscriminati alle postazioni tedesche, mentre i comunisti agivano in modo più spregiudicato, rischiando l’incolumità propria e della popolazione civile. Proprio questa temerarietà guadagnò ai partigiani di Tito un numero crescente di sostenitori e, verso la fine del 1943, persuase anche il governo britannico, fino a quel momento alleato di Mi-
hajlovi´c, a puntare sui comunisti. La resistenza armata ebbe subito i propri centri nella Serbia centrale e soprattutto nei monti della Bosnia. A Biha´c, il 25 novembre 1942, delegati provenienti da tutto il paese crearono il Consiglio antifascista di liberazione popolare della Jugoslavia (Antifaˇsistiˇcko vije´ce narodnog oslobod ¯ enia Jugoslavije – AVNOJ), formalmente in rappresentanza di un’ampia coalizione di partiti (come richiesto da Stalin). Alla conferenza tenutasi a Jajce, un anno dopo, esso si proclamò governo provvisorio, con il compito di dirigere il paese sino alla liberazione. Il regio governo in esilio a Londra venne rimosso dalle sue funzioni. Al momento della liberazione di Belgrado da parte dell’Armata rossa e delle truppe partigiane, nell’ottobre 1944, i guerriglieri di Tito superavano ormai largamente i cetnici per forza numerica, armamento e sostegno internazionale 48 .
Tito emerse dal conflitto come il leader carismatico di un grande partito fortemente radicato sul territorio, un caso unico nell’Europa centro-orientale. Nato in una famiglia contadina nel 1892 a Kumrovec, in Croazia, da madre slovena e padre croato, egli venne a rappresentare con la sua stessa biografia la volontà del paese di rinascere come Stato multinazionale. Dopo aver conosciuto il movimento comunista durante la prigionia in Russia, nel 1918, una volta tornato in patria aveva partecipato alla fondazione del partito comunista e alla sua attività clandestina. Negli anni trenta, prima di assumere la segreteria del partito nel 1937, aveva lavorato per il Comitato centrale del partito, a Vienna, e per la sezione balcanica del Komintern, a Mosca, sotto la guida di Dimitrov. Tito era quindi tutt’altro che sconosciuto a Stalin e ai vertici del movimento comunista internazionale, che lo rispettavano e, al tempo stesso, ne temevano la crescente influenza.
Alla guerra di liberazione nazionale jugoslava si associò una serie di conflitti in parte ereditati dalla prima esperienza jugoslava (il problema del Kosovo, la rivalità serbo-croata in Bosnia), in parte frutto della progressiva radicalizzazione di una guerra carica di elementi etnici, religiosi e sociali. Quella jugoslava del 1941-45, in cui perse la vita circa un milione di persone, fu una guerra di liberazione in cui prevalse, in virtù della sua forza e degli accordi internazionali, la fazione comunista fautrice di uno Stato jugoslavo unitario. Ma essa fu anche un conflitto civile e una sanguinosa resa dei conti tra gruppi rivali. Secondo Noel Malcolm, solo in Bosnia furono eliminate, nel 1945-46, circa 250.000 persone, vittime di eccidi, campi di detenzione e «marce della morte» 49 .
Un elevato numero di vittime fu causato nel 1944-45 dalle vendette organizzate da gruppi di partigiani, a volte sostenuti dalle nuove autorità, contro i collaborazionisti (ex militari appartenenti a unità
utilizzate nella lotta antipartigiana) e le nazionalità “infedeli”, soprattutto croati, sloveni, ungheresi e tedeschi (questi ultimi dichiarati collettivamente colpevoli). Nell’ottobre-novembre 1944, in Vojvodina, reparti della sicurezza statale (Odelenje za Zaˇstitu Naroda – OZNA) massacrarono oltre 15.000 civili di etnia ungherese per vendicare l’eccidio di Novi Sad del 1942, e si ritirarono soltanto dietro ordine di Tito 50 . La popolazione tedesca del Banato serbo e della Vojvodina (che comprendeva, oltre a quasi 300.000 civili, due divisioni SS composte da locali) venne decimata da agguati ed eccidi nel corso del suo esodo dalla Jugoslavia, durato oltre un anno: il numero dei morti viene stimato intorno ai 50-70.000, mentre la lingua tedesca scomparve dalla regione 51. Vendette di natura politica colpirono anche la popolazione serba, come nel caso dei massacri di Belgrado successivi alla liberazione della città, il 20 ottobre 1944, dove persero la vita alcune decine di migliaia di persone. L’episodio più sconcertante e ancora oggetto di accese controversie avvenne tuttavia in territorio austriaco, a Bleiburg, fra il 7 e il 15 maggio 1945. In seguito alla fuga da Zagabria di Ante Paveli´c, il 6 maggio 1945, circa 70.000 militari croati, seguiti da colonne di civili, soprattutto croati e sloveni, timorosi di vendette e ritorsioni, ricevettero l’ordine di non arrendersi ai partigiani ma di raggiungere il territorio austriaco controllato dall’esercito britannico. Essi vennero, tuttavia, restituiti al governo jugoslavo dalle autorità britanniche e costretti a percorrere a ritroso il cammino intrapreso. Secondo le ricostruzioni più attendibili, disattendendo gli ordini di Tito, i comandi locali passarono per le armi oltre 10.000 militari, mentre altri 26.500 soldati e quasi 7.000 civili caddero successivamente vittime delle “marce della morte” 52. Senza intendere sminuire la portata degli eccidi perpetrati ai danni degli italiani dell’Istria e della Dalmazia (il cui teatro più tristemente noto furono le cosiddette “foibe”, imbuti di roccia carsica, e alcuni campi di concentramento in Slovenia), né il dramma del loro successivo esodo in massa verso l’Italia, bisogna ricordare il quadro generale di indicibile violenza nel quale essi si collocano.
Analogamente a Trieste e alla Venezia-Giulia, anche in Kosovo si scontrarono sanguinosamente gli obiettivi di due movimenti partigiani, quello jugoslavista (serbo) e quello nazionalista albanese. Come la Bulgaria e la Croazia, anche l’Albania vedeva nell’Asse il principale garante del proprio disegno espansionistico, espresso da Tirana rispetto al Kosovo. La resistenza comunista fu inizialmente debole. Nell’ottobre 1941 Tito riorganizzò il movimento comunista locale, del quale divenne segretario Enver Hoxha alla testa di appena 130 iscritti 53. Nel 1942-43 esso riuscì a imbastire un fronte nazionale