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3.2. L’Europa orientale nella sfera di influenza sovietica

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Bibliografia

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3.2 L’Europa orientale nella sfera di influenza sovietica

3.2.1. I PROGETTISOVIETICIEOCCIDENTALIPERILDOPOGUERRA

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L’Europa orientale giocò un ruolo secondario nella pianificazione politica del dopoguerra, iniziata negli Stati Uniti e in Gran Bretagna (nella primavera del 1942) e in Unione Sovietica (nell’autunno del 1943), con la creazione di una commissione del Politburo sui trattati di pace e l’ordine postbellico presieduta dall’ex ambasciatore a Washington, Makim Litvinov. Secondo Ignác Romsics e András D. Bán, gli Alleati partivano da un presupposto comune: il sistema degli Stati nazionali e delle economie chiuse, semiautarchiche, andava sostituito da forme confederative 26 . Nel 1942 Otto d’Asburgo progettò la creazione di una confederazione danubiana modellata sulla monarchia asburgica (a capo della quale poneva sé stesso), mentre Beneˇs e il polacco Sikorski avanzarono l’idea di due distinte confederazioni: una balcanica, con al centro Jugoslavia e Grecia, e l’altra centro-europea, i cui pilastri sarebbero stati Cecoslovacchia e Polonia. Nel giugno 1942 l’Advisory Committee on Post-War Foreign Policy di Washington, presieduto dal segretario di Stato Corden Hull, presentò il progetto per un’“Unione degli Stati dell’Europa centro-orientale” compresi fra la Germania e l’URSS, che avrebbe dovuto includere anche Austria e Grecia. La nuova formazione si sarebbe divisa in due sottounioni (settentrionale, con Polonia, Cecoslovacchia e Stati baltici; e meridionale, con al centro Austria e Ungheria). L’Unione avrebbe avuto un presidente comune e organi decisionali collegiali in materia economica e politica. Nello stesso periodo operò il Foreign Research and Press Service, un centro di ricerca creato presso il Balliol College di Oxford sotto gli auspici del Royal Institute of International Affairs e diretto dallo storico Arnold Toynbee, il quale vi radunò i migliori specialisti dell’area, tra i quali Robert W. Seton-Watson e Carlile A. Macartney. Anche secondo i britannici, i quali sino al 1944 non prevedevano l’occupazione militare sovietica dell’Europa orientale, le confederazioni avrebbero rappresentato una barriera agli appetiti delle grandi potenze continentali.

A rendere impraticabili i piani occidentali fu l’opposizione sovietica, espressa durante la conferenza di Mosca dell’ottobre-novembre 1943, all’idea inglese di confederazione, che Mosca percepiva come la riproposizione del “cordone sanitario” anticomunista del dopo Versailles. Proprio l’affermazione della tesi secondo cui i piccoli Stati dell’Europa orientale non sarebbero stati in grado di decidere del proprio destino segnò l’inizio della divisione del mondo in sfere d’influenza 27 .

Pesava, inoltre, la realtà venutasi a creare sul campo in seguito alla controffensiva dell’Armata rossa a partire dal 1943: fu proprio la vittoria di Stalingrado a imprimere una svolta alla politica estera sovietica. Nel maggio 1943 Stalin ordinò lo scioglimento del Komintern come gesto distensivo nei confronti degli alleati occidentali. A gestire i rapporti tra i partiti comunisti venne chiamato un Dipartimento per le relazioni internazionali, creato in seno al Comitato centrale del partito sovietico. Il Komintern aveva fallito l’obiettivo di esportare la rivoluzione bolscevica: dopo il breve episodio ungherese del 1919, l’unico caso di parziale successo e solo in un contesto extraeuropeo era stata la creazione della Repubblica popolare di Mongolia, nel 1923. Come è stato tuttavia notato, il Komintern contribuì a gettare le fondamenta dell’espansione comunista nell’Europa orientale postbellica. Le purghe del 1937-38 e l’assoluta lealtà all’URSS imposta ai vari partiti nazionali forgiarono, o consolidarono, i gruppi dirigenti e i leader stalinisti che avrebbero diretto la sovietizzazione dell’Europa orientale 28 .

Secondo Aleksei Filitov, nel 1943-44 gli esperti sovietici prevedevano una cooperazione interalleata durevole, in particolare con la Gran Bretagna. Nei loro documenti mancava qualunque riferimento a termini come “rivoluzione”, o anche “democrazia”, mentre veniva spesso utilizzata genericamente l’espressione “sfere d’influenza”. Seguendo un memorandum del novembre 1943, quella sovietica avrebbe potuto comprendere Finlandia, Svezia, Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, Jugoslavia, Albania e Turchia. Un documento del gennaio 1944 precisava gli obiettivi strategici dell’URSS nel dopoguerra: creare una situazione di pace durevole che consentisse all’URSS di rafforzarsi; trasformare in senso socialista l’Europa continentale entro trenta-cinquanta anni, escludendo ogni rischio di guerra; ottenere frontiere strategicamente difendibili in Cecoslovacchia e Polonia 29. Vojtech Mastny sostiene che nella strategia di Stalin l’insicurezza (spinta talora ai confini della paranoia) si combinava a concezioni imperiali tipicamente russe, assai lontane dal pensiero di Lenin. Paradossalmente, le proposte delle commissioni Majskij e Litvinov ragionavano in termini più radicali dello stesso Stalin: prevedevano un’estensione dell’influenza sovietica all’Europa settentrionale, intendevano smembrare e ridurre in schiavitù economica la Germania e volevano subito una Polonia socialista 30. La Cecoslovacchia emerse nuovamente come architrave della sicurezza sovietica con il trattato di amicizia firmato nel dicembre 1943, che prevedeva il ristabilimento delle frontiere ante Monaco e l’espulsione collettiva dei tedeschi. Nel caso del conflitto romeno-ungherese sulla Transilvania, i sovietici favorirono la Romania per i propri interessi strategici: nell’estate 1944

l’occupazione militare della Romania era considerata un fatto scontato, a differenza di quella dell’Ungheria 31 .

3.2.2. DALL’“ACCORDODELLEPERCENTUALI” AITRATTATIDIPACEDEL 1947

L’URSS iniziò a sciogliere le contraddizioni della propria strategia europea alla Conferenza di Teheran, che dal 28 novembre al primo dicembre 1943 riunì Stalin, Churchill e Roosevelt. La diplomazia sovietica uscì rafforzata dall’incontro: la proposta britannica di firmare una dichiarazione di rifiuto della creazione di sfere di influenza fu respinta e gli USA accettarono le nuove frontiere polacche. I tre grandi concordarono l’istituzione di un’organizzazione internazionale in luogo della Società delle nazioni e la spartizione della Germania in cinque Stati. Stalin ottenne, inoltre, il riconoscimento da parte di Churchill della leadership di Tito in Jugoslavia. Nel 1944 l’aiuto militare alleato segnò una svolta nella guerra di liberazione jugoslava 32. Secondo Mastny, in questa fase «Stalin tentò di realizzare i propri intenti insieme e non contro gli alleati occidentali» 33. Fino a quando gli USA fossero stati interessati alla cooperazione economica e politica con l’URSS, i loro obiettivi potevano ritenersi compatibili.

Il successivo incontro bilaterale fra Stalin e Churchill, avvenuto a Mosca il 9-10 ottobre 1944, cadde nel momento cruciale dell’offensiva sovietica in Europa centrale: l’Armata rossa era penetrata nei satelliti dell’Asse (Romania, Ungheria e Slovacchia) e puntava verso Praga e Vienna. Il risultato del vertice fu il cosiddetto “accordo delle percentuali”. Al termine dell’incontro del 9 ottobre, Churchill mostrò a Stalin una proposta di distribuzione percentuale della rispettiva influenza nei Balcani. All’URSS era assegnato un peso decisivo in Romania (90%, contro il 10% alla Gran Bretagna) e in Bulgaria (75% e 25%); la Grecia veniva, invece, attribuita alla Gran Bretagna nella misura del 90%, mentre in Ungheria e Jugoslavia Churchill proponeva una gestione “paritaria”. Stalin approvò: anche se, il giorno dopo, la diplomazia sovietica riuscì a ottenere alcune modifiche (dal 75% al 90% di influenza in Bulgaria, dal 50% all’80% in Ungheria) 34 .

L’intesa di Mosca è stata da molti ritenuta il trionfo della più cinica Realpolitik e quella di Churchill una mossa avventata e sconveniente. In realtà, la proposta di Churchill si inseriva in una politica tradizionale dell’equilibro di potenza e partiva dal presupposto di un’Europa indivisa 35. L’accordo si limitava a fotografare la situazione sul campo ed era stato preceduto da un serie di intese militari locali

nell’estate del 1944 36. Nei Balcani il quadro di fatto era chiaro: influenza occidentale in Grecia, prevalenza sovietica in Romania, Bulgaria, Ungheria e Jugoslavia. Nell’ottobre 1944 la simultanea presa del potere comunista in Jugoslavia e in Bulgaria sembrò addirittura spianare la strada a una confederazione tra i due paesi, fortemente voluta da Tito, il quale nutriva intenti egemonici su vaste regioni danubianoadriatiche: l’Austria meridionale, l’Istria e Trieste, il distretto carbonifero di Pécs in Ungheria, l’intera Albania, la Macedonia greca e Salonicco. Dopo qualche esitazione, Stalin negò il proprio appoggio al progetto, che si attirò anche l’ostilità degli occidentali e suscitò forti perplessità tra i comunisti bulgari guidati da Dimitrov 37. Assai meno chiara era la situazione in Polonia. Stalin esitò a lungo prima di abbandonare l’idea di collaborare con il leader contadino anticomunista Miko/ lajczyk al quale aveva personalmente offerto, nel 1944, la presidenza del nuovo governo e un quarto degli incarichi ministeriali. Il partito comunista polacco (ricostituito nel 1943) veniva ritenuto da Mosca settario, radicale nel programma di riforma agraria e poco radicato nella società. Il netto rifiuto di Miko/ lajczyk convinse i sovietici a puntare sul governo di Lublino, anche a costo di affrontare un duro conflitto politico e militare con il governo clandestino.

Le difficoltà incontrate dai sovietici nel plasmare la nuova Europa orientale si acuirono fra la conferenza di Jalta (4-11 febbraio 1945) e la firma del trattato di pace con i cinque alleati minori della Germania (Italia, Finlandia, Ungheria, Romania e Bulgaria) il 10 febbraio 1947. A Jalta gli Alleati decretarono lo smembramento, il disarmo e la smilitarizzazione della Germania: una misura considerata il principale prerequisito per la pace futura. In Polonia si decise l’insediamento di un “governo democratico provvisorio”, ma le elezioni furono rimandate a dopo la fine della guerra. In Romania e in Bulgaria, Stati sconfitti, vennero allestite Commissioni alleate di controllo (Allied Control Commission – AAC), dominate di fatto dall’URSS, che avrebbero presieduto alla loro ricostruzione politica ed economica. Per la Jugoslavia, infine, venne approvato l’accordo firmato il 16 giugno 1944 fra Tito e il capo del governo monarchico in esilio, Ivan ˇ Subaˇsi´c, con la conseguente fusione dei due esecutivi in un nuovo governo a guida comunista e il riconoscimento dell’Armata popolare di liberazione di Jugoslavia come unico esercito nazionale 38 .

Jalta non significò la divisione del mondo: sottolineò, piuttosto, la volontà degli Alleati di continuare a collaborare anche in presenza di conflitti ideologici e strategici sempre più evidenti sul futuro dell’Europa. Il Consiglio alleato dei ministri degli Esteri, istituito nel 1945, riuscì dopo un anno e mezzo di lavoro a trovare un accordo sui trat-

tati di pace relativi agli alleati europei della Germania che, compiacendo i piani sovietici, confermarono sostanzialmente l’assetto territoriale del 1938. Nessun passo avanti venne fatto sulle due questioni più spinose: la Germania e Berlino rimasero divise in zone d’occupazione, mentre Trieste e il suo circondario, contesi fra l’Italia e la Jugoslavia, vennero denominati “Territorio libero di Trieste” (TLT) e divisi in una “Zona A” (affidata a un’amministrazione militare britannica e comprendente il capoluogo giuliano) e una “Zona B”, amministrata dallo Stato jugoslavo, che comprendeva la parte nord-occidentale dell’Istria con al centro Koper/Capodistria.

3.2.3. RIVOLUZIONEATAPPE? DEMOCRAZIEPOPOLARIESOVIETIZZAZIONE

«Questa guerra è diversa da tutte quelle del passato; chiunque occupa un territorio gli impone anche il suo sistema sociale. Ciascuno impone il suo sistema sociale, fin dove riesce ad arrivare il suo esercito; non potrebbe essere diversamente» 39. La confidenza fatta da Stalin nell’aprile 1945 alla delegazione jugoslava in visita a Mosca, riportata da Milovan –Dilas nelle sue celebri Conversazioni con Stalin (1962), viene spesso invocata per dimostrare l’inevitabilità dell’instaurazione di regimi politici di tipo sovietico in Europa orientale. La storiografia discute da decenni sul grado di pianificazione dell’egemonia sovietica e gli eventuali margini di manovra dei paesi occupati dall’Armata rossa. Secondo Hugh Seton-Watson e Zbigniew Brzezinski, fino dal 1944-45 Stalin puntava a creare una situazione rivoluzionaria che gli consentisse di soggiogare militarmente e politicamente buona parte dell’Europa. L’URSS avrebbe attuato un preciso piano di estensione della propria influenza inteso a eliminare qualunque forma di opposizione interna 40. Le truppe e i consiglieri politico-militari sovietici sul campo si comportarono in tal senso e ottennero l’immediata distruzione di gran parte dell’opposizione. In Cecoslovacchia, Ungheria e Romania i sovietici ottennero per i partiti comunisti locali il controllo dei dicasteri cruciali: Interno, con le forze di polizia e gli apparati di sicurezza, Propaganda e Istruzione. Ovunque venne data grande importanza al monopolio sulle organizzazioni giovanili.

François Fejt˝o ha sostenuto che nella concezione strategica sovietica l’esigenza di sicurezza interna prevaleva sulla spinta espansiva e che Stalin prevedeva per questi paesi una fase di transizione mediolunga di “democrazia popolare” 41. I dirigenti sovietici intendevano rifarsi all’esperienza della collaborazione in chiave antifascista tra for-

ze socialiste e borghesi nei fronti popolari di Francia e Spagna negli anni trenta. Questo modello venne ripreso e ampliato per la formazione, dopo l’aggressione nazista all’URSS, di fronti nazionali, che includevano anche i monarchici. Contrariamente alle aspettative dei comunisti esteuropei di una rapida presa del potere sul modello della “dittatura del proletariato”, le istruzioni fornite nel 1943-44 dal Dipartimento per le relazioni internazionali del PCUS, guidato da Dimitrov e dall’ucraino Manuil’skij, prevedevano governi retti da coalizioni parlamentari e riforme agrarie moderate, intese a espropriare i latifondisti criminali di guerra ma non la piccola e media proprietà. Ancora nel 1946, soprattutto in Polonia, Stalin raccomandò prudenza, nella convinzione che la peculiare situazione del paese, materialmente distrutto e privato delle sue tradizionali élite, favorisse una transizione graduale e pacifica al socialismo.

Lo schema interpretativo di una fase democratica autentica, alla quale seguì una sovietizzazione violenta e imposta dall’esterno, proposto negli anni cinquanta da Fejt˝o e accettato da numerosi autori, era modellato sulla Cecoslovacchia postbellica, in cui una coalizione governava, con il partito comunista in posizione eminente ma non egemone. Secondo Brzezinski, tuttavia, i sovietici utilizzarono l’espressione “democrazia popolare” per distinguere i sistemi politici da essi patrocinati e offrire così ai paesi caduti sotto il loro controllo una nuova struttura politico-economica, né borghese, né socialista, ma in tensione dinamica dalla prima verso la seconda. Secondo lo storico russo Leonid Gibianskij, il concetto di democrazia popolare venne strumentalmente utilizzato da Stalin per ingannare l’Occidente e i partiti non comunisti dell’Europa orientale 42. Joseph Rothschild offre una visione più articolata. L’Unione Sovietica avrebbe inteso le democrazie popolari come una particolare categoria storico-evolutiva a metà strada fra l’“arretrato” Occidente e la più avanzata URSS. Con ciò la leadership staliniana raggiunse due obiettivi: giustificò la dipendenza politica e ideologica di quei paesi dall’URSS e creò le condizioni per poter intervenire nel caso le politiche qui attuate venissero giudicate un arretramento «controrivoluzionario» rispetto allo stadio di sviluppo già raggiunto 43 .

Per descrivere i rivolgimenti politici e sociali intervenuti nel secondo dopoguerra in Europa orientale si utilizza frequentemente il termine “sovietizzazione”, che condensa impropriamente fenomeni storici diversi: l’espansione militare sovietica del 1944-45, la creazione di regimi comunisti in Europa orientale e l’integrazione socioculturale di quest’area nello spazio sovietico. In realtà, il termine sovietizzazione si addice più propriamente ai territori annessi e/o militarmente oc-

cupati dall’URSS nel periodo 1939-45 (Estonia, Lettonia, Lituania, Bessarabia e Bucovina settentrionale romene, Carelia finlandese, Prussia orientale tedesca, Galizia orientale e Belarus occidentale polacca, Ucraina subcarpatica cecoslovacca). Qui il potere sovietico si impose durante la guerra con tempi rapidi e metodi brutali: espropri, collettivizzazione agricola e deportazione di parte della popolazione preesistente. Sovietizzazione resta, tuttavia, un termine inadeguato al fine di descrivere la complessa e talvolta contraddittoria sequenza di cambiamenti intervenuti fra il 1945 e il 1948 in Europa orientale. La conquista del potere da parte dei comunisti non fu predeterminata da un singolo piano valido per tutta la regione, ma ebbe luogo attraverso una serie di tappe intermedie come prodotto finale di tre spinte: la pressione sovietica e dei partiti comunisti locali sugli eventi politici; la resistenza delle forze non comuniste, appoggiate solo a intermittenza dall’Occidente, e il deteriorarsi dei rapporti tra gli Alleati, che condusse alla creazione di blocchi politico-militari contrapposti.

L’obiettivo di Stalin non era, nel breve periodo, il raggiungimento della rivoluzione politica e sociale, quanto, piuttosto, «il controllo dei nuovi governi dell’Europa centro-orientale, dai quali dovevano essere banditi, o confinati all’impotenza, uomini politici anti-sovietici o filooccidentali» 44. Nelle parole del leader comunista tedesco Walter Ulbricht, «tutto deve sembrare democratico ma dobbiamo avere tutto sotto il nostro controllo» 45. Il problema della sicurezza militare sovietica come fattore cruciale dell’espansione politica viene ribadito nell’analisi di Kramer. La decisione di Stalin di incoraggiare la formazione di regimi di tipo sovietico sarebbe stata influenzata da una serie di considerazioni tattiche, più che ideologiche. L’Europa orientale rappresentava per la direzione sovietica un’unica fascia di sicurezza; i conflitti territoriali e nazionali nella regione vennero congelati a partire dal 1947. La priorità sovietica divenne la stabilizzazione dei confini europei e del nuovo assetto statale e sociopolitico. Un’importanza particolare rivestirono sul piano militare e strategico la Germania, la Polonia e la Cecoslovacchia. Questo asse sarebbe divenuto, negli anni cinquanta, il nucleo industriale più sviluppato e insieme il fronte settentrionale delle truppe del Patto di Varsavia, contrapposto alla Germania Occidentale. Da un punto di vista politico, l’URSS occupò nel 1945 il vuoto di egemonia lasciato dalla Germania sconfitta; a differenza del periodo interbellico, l’Unione Sovietica era ora in grado di stabilire un dominio effettivo e duraturo sulla regione. I partiti comunisti erano generalmente usciti rafforzati dalla guerra, le leadership locali si mostravano fedeli a Mosca e in molti casi facevano ritorno in patria dopo un lungo periodo di emigrazione in URSS. L’atteggiamen-

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