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4.2. Pianificazione e militarizzazione

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Bibliografia

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gne per la pace. A differenza dell’accordo firmato nell’agosto 1950 dai pochi esponenti ancora in libertà della Conferenza episcopale ungherese (che segnò un’importante vittoria del regime sulla resistenza cattolica), quello polacco garantiva ampi margini di libertà religiosa che il mondo cattolico non tardò a sfruttare.

La persecuzione più capillare e violenta colpì, tuttavia, gli aderenti alle sette neoprotestanti e ai movimenti millenaristici fioriti spontaneamente fra la popolazione in tutta l’Europa sovietizzata e nella stessa URSS 23. I pellegrinaggi e le appararizioni di santi attorno a luoghi di culto improvvisati testimoniavano l’esplosione di fede visionaria con la quale il mondo rurale rispondeva alla crisi scatenata dall’attacco ai suoi valori tradizionali 24 .

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4.2 Pianificazione e militarizzazione

4.2.1. ILSISTEMA “CLASSICO”: INDUSTRIALIZZAZIONEECOLLETTIVIZZAZIONEAGRICOLA

A partire dall’autunno 1947, la struttura economica dell’Europa orientale conobbe trasformazioni radicali. Il predominio del settore statale si estese in pochi anni oltre i limiti del dirigismo economico degli anni trenta o le requisizioni dei beni dei criminali di guerra. Entro il 1950 le autorità comuniste nazionalizzarono oltre il 90% delle attività produttive non agricole dei rispettivi paesi 25. L’unica eccezione, con un settore statale limitato al 75%, rimase fino alla metà degli anni cinquanta la Germania Est, in cui la stalinizzazione procedette a ritmo ritardato anche in campo economico 26. Oltre alle società e alle aziende confiscate dopo la guerra agli ex proprietari tedeschi, gli Stati comunisti si impossessarono di miniere, imprese, banche e assicurazioni, ma anche dei laboratori artigiani e degli studi professionali forensi, medici e notarili. Molte attività vennero espropriate senza compensazione a investitori privati o a Stati occidentali che ne detenevano quote maggioritarie o l’intera proprietà, soprattutto nei settori petrolifero, minerario, bancario e assicurativo.

La riorganizzazione delle economie in cicli di sviluppo quinquennali fu adottata trasferendo in un contesto assai diverso la politica di industrializzazione, collettivizzazione agricola e urbanizzazione accelerata adottata nell’Unione Sovietica degli anni trenta. I piani avviati in Cecoslovacchia e in Bulgaria nel 1949, in Polonia e in Ungheria nel 1950, in Romania e in Albania nel 1951, erano scanditi da ambiziosi

obiettivi concentrati sull’industria pesante (in particolare la produzione di ferro e acciaio) che richiesero la creazione di un nuovo organo burocratico interministeriale, l’Ufficio centrale per la pianificazione ispirato al Gosplan sovietico 27. A ogni settore industriale venne inoltre assegnato un apposito ministero, incaricato di coordinarne l’attività produttiva: negli anni cinquanta il numero dei ministeri oscillava intorno ai 30-40. A questo enorme apparato andava aggiunto il personale impiegato negli istituti di ricerca legati ai vari ministeri e negli organismi amministrativi locali. Alla guida delle nuove strutture produttive furono posti direttori di estrazione operaia, politicamente affidabili ma privi di competenze tecniche. Per coordinare e bilanciare lo sviluppo dell’Europa orientale con quello dell’Unione Sovietica, nel gennaio 1949 Stalin promosse la formazione di un organismo multinazionale, il Consiglio per la mutua assistenza economica (Comecon). Esso doveva contrapporsi alla struttura occidentale incaricata di distribuire gli aiuti del Piano Marshall, l’Organizzazione per la cooperazione economica europea (OEEC), un organo antesignano della più nota OCSE, istituita a Parigi il 16 aprile 1948. Al Comecon aderirono subito URSS, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania e Bulgaria. Ad esse si aggiunsero l’Albania (febbraio 1949), la Germania Est (dicembre 1950) e tre Stati socialisti extraeuropei, la Mongolia (1962), Cuba (1972) e il Vietnam (1978). Nonostante un avvio promettente (tre sessioni di lavoro nei primi due anni), il Comecon entrò alla fine del 1950 in uno stato di ibernamento durato fino al periodo successivo alla morte di Stalin. Il coordinamento delle economie rimase lettera morta fino all’inizio degli anni sessanta. Nel frattempo, l’embargo disposto dall’Occidente nel 1949 arrecava gravi danni alle economie pianificate attraverso il Comitato di coordinamento per il controllo multilaterale delle esportazioni (COCOM), che regolava l’esportazione verso il blocco sovietico e la Cina popolare di migliaia di prodotti e delle rispettive licenze 28 .

Sul piano quantitativo, il primo piano quinquennale fu un notevole successo. Nel periodo 1951-55 il prodotto nazionale crebbe a un ritmo annuo del 12-14% in Bulgaria, RDT e Romania, dell’8-9% in Polonia e Cecoslovacchia, del 5,7% in Ungheria. Gli investimenti, concentrati nell’industria siderurgica e nel settore militare, crebbero a ritmi da capogiro: 18% annuo in Romania, 10-12% nel resto del blocco 29. Le nuove economie pianificate funzionavano come un sistema chiuso e segmentato, privo o quasi di comunicazioni reciproche. Il commercio con l’estero era separato da quello interno e rappresentava il monopolio di un ristretto numero di società commerciali pubbliche, poste sotto la diretta sorveglianza del ministero del

Commercio estero. Gli scambi dei paesi dell’Europa orientale con l’Occidente, in calo sin dal 1948 in seguito all’intensificarsi del conflitto ideologico fra l’URSS e gli alleati occidentali, crollarono ovunque nel triennio successivo a meno del 20% dell’interscambio totale, a eccezione della Cecoslovacchia, dove ancora nel 1950 quasi la metà del commercio si svolgeva al di fuori del Comecon. Negli anni del dopoguerra l’Unione Sovietica utilizzò gli Stati satelliti come riserva di risorse naturali e materie prime alle quali attingere, sfruttando gli accordi commerciali bilaterali (nel caso di Ungheria, Romania e Bulgaria) e le società miste. Come notarono per tempo economisti come Warren Nutter, le cui stime sarebbero state confermate dagli archivi, il commercio bilaterale con l’Unione Sovietica costituì in questo periodo un’attività in grave perdita: i sovietici ricavarono dall’Europa orientale una somma superiore a quella ricevuta dai paesi europei occidentali grazie al Piano Marshall 30. Intere filiere della nascente industria pesante polacca e ungherese producevano in perdita per il mercato sovietico, mentre in Cecoslovacchia i vincoli ideologici prevalevano sulla razionalità economica: gli stabilimenti ˇ Skoda, la più importante, efficiente e tecnologicamente avanzata realtà industriale dell’Europa orientale, furono costretti a sospendere per alcuni anni la produzione di autovetture destinate al consumo privato 31 .

Il sistema economico socialista “classico”, per riprendere l’espressione di János Kornai, nacque dunque con numerose disfunzioni strutturali dalle quali non si sarebbe mai liberato a causa di fattori esterni (l’autarchia dettata dalla guerra fredda) e interni (l’ipercentralizzazione). Il giovane economista ungherese, liberatosi ben presto da ogni illusione per il nuovo regime, elaborò con chiarezza il concetto nella sua tesi di dottorato, pubblicata in Gran Bretagna nel 1959 e divenuta subito un punto di riferimento per la critica al modello economico pianificato 32. Particolarmente dannoso fu l’impatto delle nuove politiche sul settore agricolo, nel quale era impiegata oltre la metà dell’intera popolazione. Le riforme agrarie attuate dopo la guerra (a eccezione della Bulgaria, dove tale processo si era già compiuto nel 1919-23) avevano determinato la frammentazione dei latifondi e la creazione di un vasto ceto di piccoli proprietari terrieri, formato in buona parte da ex braccianti e affittuari. L’illusione della stabilità economica e sociale nelle campagne, messa alla prova dalla guerra e dalla siccità del 1946-47, durò pochissimo. Preceduti dall’avanguardia jugoslava, nel 1948 i partiti comunisti giunti al potere iniziarono a preparare la collettivizzazione del settore agricolo. La propaganda ufficiale iniziò a prendere di mira i kulaki, ovvero i contadini più facoltosi e influenti. Nella primavera del 1949, infine, venne lanciato

ovunque il primo attacco alla società contadina tradizionale. Le operazioni, condotte con metodi militari (i villaggi prescelti venivano circondati dagli agitatori e dalle forze di polizia; i renitenti malmenati pubblicamente, o addirittura giustiziati come esempio per i villaggi; i kulaki e le loro famiglie, schedati e vessati da una tassazione discriminativa), vennero interrotte da temporanee ritirate provocate dalla resistenza popolare 33. Milioni di persone abbandonarono la coltivazione della terra, ma i contadini in fuga dalle campagne si misurarono con difficoltà e impedimenti di ogni genere. Le città furono trasformate in “zone chiuse”, nelle quali era possibile risiedere solo con speciali permessi rilasciati dalle autorità. Il risultato fu un calo generalizzato del tenore di vita non solo nelle campagne, afflitte da piaghe antiche (mortalità infantile, analfabetismo) e recenti (sottoalimentazione, stress psicologico legato alla collettivizzazione), ma anche presso i ceti urbani. Dal 1948 al 1953 il potere d’acquisto dei salari crollò di quasi un quarto in Ungheria e di oltre il 10% nel resto del blocco sovietico, a eccezione della Polonia e della Romania. Non esistendo programmi statali di edilizia popolare, gli inurbati (nella maggior parte dei casi giovani operai) erano costretti a coabitare in baracche sovraffollate o in appartamenti comunali privi di servizi.

Nonostante le molte tragedie individuali legate alle repressioni anticontadine, durante la prima ondata di collettivizzazione il tasso di violenza dispiegato dalle autorità restò assai inferiore a quello sovietico dei primi anni trenta, una circostanza spiegata con l’approccio più «cauto e sofisticato seguito in Europa orientale» 34. In Ungheria e in Romania, dopo un tentativo iniziale di riprodurre il modello staliniano del livello di cooperazione più elevato, quello dei kolchoz, nei quali i contadini entravano dopo aver ceduto non solo il proprio appezzamento di terreno, ma anche gli strumenti di lavoro e gli animali, le autorità ripiegarono dal 1952 su un modello di cooperazione più blando, simile alle TOZ (associazioni per la coltivazione comune della terra) sovietiche. In Cecoslovacchia, al contrario, la collettivizzazione nella sua forma più estrema accelerò proprio negli ultimi mesi di vita di Stalin. La prima ondata di collettivizzazione, dal 1949 al 1953, ottenne risultati nel complesso deludenti. Alla morte di Stalin la percentuale di terreno arabile collettivizzato raggiungeva il 62% in Bulgaria, il 48% in Cecoslovacchia e il 37% in Ungheria, mentre altrove si attestava su livelli marginali (24% in Jugoslavia, 21% in Romania, 17% in Polonia, 8% in Germania Est) 35. I livelli di produttività, tradizionalmente inferiori a quelli dell’Europa centro-occidentale, in modo particolare nei Balcani, calarono ulteriormente, soprattutto a causa degli scarsi investimenti nel settore agricolo per nuove sementi,

fertilizzanti, strumenti e mezzi meccanizzati. Mentre l’industria pesante e le costruzioni assorbivano quasi due terzi degli investimenti pubblici (peraltro elevatissimi rispetto al reddito nazionale), la quota di denaro pubblico allocata nel settore agricolo oscillava, a seconda dei paesi, intorno al 10-15% 36 .

4.2.2. PREPARATIVIMILITARIECOLLASSOECONOMICO, 1951-53

La riorganizzazione cui furono sottoposti i fragili sistemi produttivi dell’Europa orientale spiega soltanto in parte il declino economico in cui il blocco sovietico si avvitò nel triennio 1950-52, le cui estreme conseguenze furono evitate solo grazie alla morte di Stalin. Il quadro internazionale, già teso a partire dal 1947, si deteriorò ulteriormente con la rottura tra Stalin e Tito e l’espulsione della Jugoslavia dal Kominform, cui seguì la crisi di Berlino del 1948-49 e, nel giugno 1950, l’invasione della Corea del Sud da parte delle forze nord-coreane e cinesi, sostenute dall’Unione Sovietica. Le economie dell’Europa orientale si trovarono coinvolte in un processo di militarizzazione in vista di un possibile conflitto armato con l’Occidente o con la Jugoslavia ribelle. Alla terza e ultima conferenza del Kominform (1949), la questione jugoslava come problema di sicurezza militare emerse con chiarezza nelle comunicazioni dei leader comunisti presenti, in particolar modo dell’ungherese Rákosi e del romeno Gheorghiu-Dej. Il sovietico Suslov definì imminente la «terza guerra mondiale» 37 .

Alla radice degli squilibri negli indici della pianificazione industriale, sempre più sbilanciati verso il settore militare e della difesa, stavano preparativi militari la cui portata e le cui conseguenze di lungo periodo sono recentemente emerse nella storiografia internazionale. Esse risultarono particolarmente gravi nel caso dei paesi sconfitti confinanti con la Jugoslavia (Ungheria, Romania e Bulgaria), le dimensioni dei cui eserciti erano limitate dai trattati di pace del 1947. L’esercito ungherese, composto nel 1948 da 70.000 reclute e ufficiali, venne gonfiato fino a raggiungere alla fine del 1952 la cifra di 211.411 effettivi su poco più di 8 milioni di abitanti. L’obiettivo della preparazione militare ungherese era il fronte meridionale del blocco sovietico. Le autorità ungheresi ricevettero dai consiglieri militari sovietici il progetto di una vera e propria “cortina di ferro” e di un sistema integrato di difesa che comprendeva il minamento delle aree di confine “sensibili” (la Jugoslavia) lungo un fronte di 660 chilometri. L’intero sistema avrebbe assorbito il 22,5% di tutti gli investimenti previsti dal piano quinquennale. Negli anni seguenti, una parte del

sistema venne effettivamente costruita ma errori di progettazione e sprechi di risorse resero inutilizzabili le strutture 38 .

Il responsabile economico e numero due del partito ungherese, Ern˝o Ger˝o, affermò in seguito di aver ricevuto a partire dal 1948, direttamente da Stalin, assieme al primo segretario Rákosi, informazioni sull’«inevitabile» scoppio di un conflitto armato 39. In questo contesto di generale paura e incertezza, nel gennaio 1951 Stalin convocò a Mosca l’ultimo incontro internazionale prima della sua morte, al quale parteciparono i segretari dei partiti comunisti e i ministri della Difesa dei paesi dell’Europa orientale e nel quale si discusse la situazione militare del blocco sovietico. In assenza di una documentazione inoppugnabile, gli obiettivi dell’incontro sono tuttora controversi. Secondo l’allora ministro cecoslovacco della Difesa, Stalin avrebbe detto che l’Unione Sovietica poteva godere per soli tre-quattro anni della superiorità militare nei confronti degli occidentali. Bisognava «approfittarne per moltiplicare il potenziale militare del blocco sovietico, in modo da lanciare un’operazione che miri all’occupazione di tutta l’Europa» 40. Gli storici Mastny, Kramer e Roberts sono cauti sull’ipotesi di guerra preventiva. Stalin avrebbe parlato in termini solo generici dell’inevitabilità della guerra, ammonendo gli alleati che avevano pochi anni a disposizione per prepararsi ad essa 41 . Geoffrey Roberts conferma le imponenti proporzioni del riarmo approntato entro il 1953-54 in Unione Sovietica e nei paesi satelliti: a suo avviso, tuttavia, esso nasceva essenzialmente da preoccupazioni di difesa 42. Secondo David Holloway, invece, Stalin avrebbe affermato che occorreva intensificare gli sforzi per un’invasione dell’Europa occidentale entro tre-quattro anni, prima che gli Stati Uniti potessero rafforzarvi le loro posizioni 43 .

Anche il leader comunista ungherese Rákosi menziona questa importante riunione nelle sue memorie 44. Secondo Rákosi, i dirigenti esteuropei furono colti di sorpresa 45. Alcuni di essi, come il ministro della Difesa della Polonia, il generale sovietico di origine polacca Rokosovskij, lamentarono il ritmo troppo rapido imposto al potenziamento militare previsto per la fine del piano sessennale, nel 1955. Stalin ribatté affermando che, se Rokosovskij avesse potuto garantire una situazione di pace fino al 1956, i polacchi sarebbero stati liberi di attuare il loro piano originario: in caso contrario, «avrebbero fatto meglio ad accettare le proposte sovietiche» 46. Alle autorità ungheresi fu intimato di svuotare entro pochi giorni un territorio di 2.000 km2 , evacuando i suoi 140.000 abitanti 47. I dirigenti ungheresi convinsero a stento i consiglieri sovietici dell’impossibilità di evacuare in pochi giorni quasi il 2% della popolazione 48. Sebbene viziata da un chiaro

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