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postcomunismo
culturale abitato per quasi un quinto da ungheresi. Quando tuttavia la maggioranza romena della città ha scoperto che gli ungheresi non hanno intenzione di organizzare alcuna secessione e non basta dipingere lo spazio pubblico con il tricolore romeno per attirare investitori e creare posti di lavoro, hanno pragmaticamente voltato le spalle al “loro” sindaco ed eletto candidati più moderati 9. Bratislava e Budapest hanno alternato periodi di cordialità (1998-2006, governo conservatore europeista di Mikuláˇs Dzurinda) ad altri di forte tensione, in quanto i governi ungheresi hanno opposto resistenza alle politiche discriminatorie attuate nei confronti della minoranza ungherese in Slovacchia (1994-98, coalizione nazionalista di Vladimír Meˇciar; 2006-2010, governo socialdemocratico-populista di Robert Fico).
In Lettonia e in Lituania, l’ampia presenza di russofoni stabilitisi in varie ondate sul Baltico costituisce tuttora uno spinoso lascito del periodo sovietico. Le repubbliche baltiche guardano con preoccupazione alla presenza di vaste minoranze russe, ucraine o bielorusse (quasi il 30% dell’intera popolazione; addirittura la maggioranza nella capitale lettone, Riga, e il 40% in quella estone, Tallinn). Negli anni novanta i nuovi Stati negarono loro la cittadinanza, lasciandoli nella condizione di cittadini russi, o addirittura di apolidi. Solo su pressione dell’Unione Europea i governi baltici hanno modificato in senso più permissivo i criteri per la concessione della cittadinanza 10. I casi elencati non devono tuttavia far dimenticare che, nella quasi totalità dei casi, le élite e le popolazioni locali sono riuscite a evitare che le tensioni raggiungessero un punto di non ritorno. Le vertenze etnonazionali irrisolte (Paesi Baschi, Irlanda del Nord, Catalogna, Corsica, conflitto fiammingo-vallone in Belgio) e la sfida dell’immigrazione nella parte occidentale del continente suggeriscono che la gestione della diversità rappresenti ormai un problema globale, sul quale l’Occidente, alle prese con l’immigrazione e i problemi socioculturali ad essa legati, non pare avere troppo da insegnare alla “Nuova Europa”.
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7.2 Alla ricerca della stabilità: le dinamiche politiche del postcomunismo
Secondo Stephen F. Cohen, in seguito al crollo del blocco sovietico la politologia occidentale coniò per le trasformazioni in atto la definizione di «transizione postcomunista» e fu animata da una visione fortemente prescrittiva: il fine ultimo della transizione doveva essere la formazione, in Russia come in Europa orientale, di società capitaliste
di tipo occidentale 11. Laddove ciò non è avvenuto, o solo in parte, ovvero nella stragrande maggioranza dei vecchi e nuovi Stati dell’area, le colpe ricadono variamente sull’incapacità delle élite politiche, sul nazionalismo atavico delle popolazioni e sugli errori commessi dall’Occidente nell’esportare i propri modelli. Secondo i sociologi László Bruszt e David Stark, il 1989 non avviò tuttavia una transizione ma una trasformazione 12, che non rappresentava né una semplice imitazione dei processi di costruzione della società democratica negli Stati dell’Europa occidentale, né un’involuzione legata al semplice disfacimento della struttura preesistente 13. In realtà, del tutto nuovo era il compito di trovare soluzioni condivise e socialmente sostenibili al difficile problema della trasformazione di società industriali plasmate da decenni di socialismo reale.
Uno sguardo ai sistemi politici venutisi a creare nei primi anni novanta dimostra che il successo del trapianto della democrazia parlamentare in un contesto dove essa mancava di solide tradizioni storiche (cfr. CAP. 1) non rappresenta un elemento scontato, ma un merito da ascrivere ai governi postcomunisti di qualunque colore. Nell’Europa orientale postcomunista (e ancora più nelle ex repubbliche sovietiche) non si è trattato di rimettere in funzione una macchina della rappresentanza democratica inceppatasi 45 o 75 anni prima, ma prima ancora di spiegare la democrazia a una popolazione abituata a governi autoritari e spesso sensibile al mito dell’“uomo forte”. Anche ammesso che il rifiuto del sistema socialista fosse condiviso dalla maggioranza dei cittadini, i nuovi governanti si trovarono a maneggiare una macchina statale il cui funzionamento non conoscevano affatto. Nei paesi che prima del socialismo erano stati governati da una monarchia (Romania, Bulgaria, Albania) il ritorno ad essa non era neppure pensabile. I partiti democratici interbellici o post 1945 (i socialisti indipendenti polacchi, i socialisti nazionali cechi, i piccoli proprietari ungheresi, i nazional-contadini romeni) non si ricostituirono, o giocarono un ruolo marginale nella vita politica del postcomunismo. Il loro posto fu preso da movimenti o alleanze – la parola partito suonava in modo sinistro – dal profilo culturale e ideologico eterogeneo, che mescolavano con disinvoltura liberalismo e nazionalismo, adesione al libero mercato e protezionismo 14. Il sistema dei partiti si caratterizzò da subito come istituzionalmente forte ma socialmente debole, sebbene in grado di integrare le tendenze estreme 15. Le nozioni di destra e sinistra persero di valore per almeno un decennio, fatta eccezione per la Repubblica Ceca dove, accanto a un forte partito socialdemocratico, si conservò un partito comunista in grado di raccogliere il 10-15% dei consensi, e la Slovenia. Qui l’attuale sinistra
politica nacque dall’ala riformista del partito comunista e giocò un ruolo fondamentale nella creazione dello Stato indipendente, legittimandosi contemporaneamente sul piano nazionale e democratico 16 .
Senza pretendere di esaminare in dettaglio l’assetto istituzionale di una dozzina di Stati (ex Jugoslavia esclusa), possiamo individuare alcune linee di tendenza. Gran parte delle nuove democrazie dell’Europa orientale approvò Costituzioni democratiche nel periodo 1989-93: la prima fu l’Ungheria, che nell’ottobre 1989 modificò in senso pluralista la Costituzione “popolare” del 1949; l’ultima fu la Lettonia, che nel luglio 1993 ripristinò la Costituzione del 1922. La Polonia e l’Ucraina attraversarono un processo costituente più laborioso. Nel caso polacco, la codificazione della carta fondamentale avvenne in due fasi: gli emendamenti temporanei, approvati nel 1992 (“piccola Costituzione”) con lo scopo di annullare gli effetti giuridici della Costituzione del 1952, furono sostituiti da un testo organico solo nel 1997. In esso l’affermazione dei valori nazionali e sociali tradizionali, come il matrimonio, si coniuga con l’affermazione di una netta separazione tra Stato e Chiesa e della difesa delle minoranze etniche e religiose. In Ucraina, la Costituzione “sovietica” del 1978 fu sostituita da un nuovo testo solo nel 1996. La complessità del processo costituente riflette la frattura tra ucrainofoni (greco-cattolici, nazionalisti, residenti nelle regioni occidentali e nella capitale Kyiv) e russofoni (ortodossi, filorussi o nostalgici dell’URSS, in maggioranza nelle regioni industriali del Sud-Est). Diversamente da molti Stati della “Nuova Europa”, l’Ucraina non ammette nel proprio ordinamento giuridico la doppia cittadinanza nel timore che essa possa incoraggiare la secessione dei 15 milioni di russofoni (il 30% della popolazione). Nel tentativo di rafforzare il sentimento di appartenenza nazionale, l’ucraino viene proclamato unica lingua ufficiale dello Stato, nonostante buona parte della popolazione e della stessa classe politica padroneggi tuttora meglio la lingua russa 17 .
Il modello politico al quale si ispirano i paesi dell’Europa centroorientale postcomunista si accosta a quello tedesco, con una presidenza della repubblica investita di poteri di mera rappresentanza. Negli anni novanta l’incarico presidenziale è stato ricoperto da figure altamente simboliche della resistenza non violenta e della transizione democratica: Václav Havel in Cecoslovacchia (1990-92) e successivamente nella Repubblica Ceca (1993-2003); Lech Wa/l˛esa in Polonia (1990-95); lo scrittore Árpád Göncz in Ungheria (1990-2000); il musicologo Vytautas Landsbergis in Lituania (1990-92). In seguito la carica è stata assunta per lo più da politici di professione. L’equilibrio fra potere legislativo, esecutivo e giudiziario, nel quale un ruolo cen-
trale di controllo e contrappeso viene svolto dalla Corte costituzionale, non era dettato solo dalla volontà di adeguamento agli standard europei, ma anche dal timore di restaurazioni autoritarie. Le eccezioni più significative al modello riguardano ancora una volta l’Ucraina, che ha seguito quello costituzionale russo e concesso ampi poteri esecutivi al presidente, mentre la Polonia e la Romania hanno adottato un sistema semipresidenziale alla francese, in cui il presidente viene eletto direttamente e governa in una dialettica spesso conflittuale con l’esecutivo.
L’affluenza alle urne rappresenta una spia importante del radicamento democratico, ma il dato va maneggiato con precauzione. Nel 1990 l’affluenza maggiore (Bulgaria, 90%; Romania, 86%) si registrò in due paesi ancora semiautoritari, nei quali fronti nazionali dominati da gruppi di potere ex comunisti si aggiudicarono facilmente le elezioni davanti a un’opposizione debole, disorganizzata e priva di copertura mediatica. Soprattutto nelle campagne e nei piccoli centri urbani il voto ricordava qui l’unanimismo delle consultazioni monopartitiche pre 1989. La partecipazione al voto risultò elevata in Cecoslovacchia (oltre l’80%), dove la “rivoluzione di velluto” aveva emotivamente coinvolto milioni di cittadini e il partito comunista si presentava al voto senza camuffamenti ideologici. In Ungheria e in Polonia, dove i cambiamenti si erano avviati con largo anticipo e la lotta politica iniziava già, nel 1990, a infastidire una popolazione desiderosa di stabilità, l’affluenza fu rispettivamente del 65% e del 43%. A partire dalla seconda tornata elettorale (1993-96), il numero dei votanti ha iniziato a calare nei paesi in cui essi raggiungevano la quasi totalità del corpo elettorale, mentre si è mantenuto stabile, o è lievemente aumentato, in Ungheria e in Polonia. La partecipazione al voto del primo ventennio democratico fu mediamente del 60%, una percentuale modesta ma vicina alla media europea. Come nel resto d’Europa, valori sensibilmente più bassi contraddistinguono generalmente il voto amministrativo e, soprattutto, quello per il Parlamento europeo.
Quanto ai risultati elettorali, è possibile delineare alcune tendenze generali a partire dal primo scrutinio del 1990-91. Le prime elezioni pluraliste furono contraddistinte dalla presenza di numerosi partiti dal programma a volte bizzarro (celebre l’exploit del Partito dei bevitori di birra, che conquistò 16 seggi alla Camera bassa del Parlamento polacco). In seguito, il quorum elettorale fu ovunque elevato al 4-5% e ormai il numero dei partiti rappresentati in Parlamento non supera in nessun paese la decina, attestandosi su una media di 4-8 gruppi. I partiti comunisti, sebbene non proibiti né ostacolati nella loro azione, sono politicamente scomparsi, mentre formazioni di sini-
stra alternative (ecologisti, movimenti antiglobalizzazione) mantengono tuttora una scarsa presa sull’elettorato. Nei primi anni novanta la vittoria andò a coalizioni di movimenti che facevano riferimento al composito schieramento anticomunista, moderato o radicale (genericamente definibile di centro-destra), a eccezione della Romania e della Bulgaria, dove le formazioni postcomuniste legate alla sinistra conservarono il potere, rispettivamente fino al 1996 e al 1997, e in Ucraina dove, per affermarsi elettoralmente, le forze filo-occidentali dovettero attendere la “rivoluzione arancione” del 2004-05.
I governi dei primi anni novanta fronteggiarono il compito di traghettare i propri paesi fuori dalla grave crisi economica seguita al crollo del sistema socialista. Con amara ironia, il primo ministro ungherese József Antall (1990-93) paragonò il proprio esecutivo nazionalconservatore a un gruppo di kamikaze. La loro prestazione, oggetto di molte critiche negli anni novanta, viene oggi valutata come positiva. Nel primo ciclo postcomunista furono poste le basi istituzionali e giuridiche dello Stato di diritto e creati gli organismi di controllo dell’esecutivo (Corte costituzionale, Corte dei conti, l’ufficio di Ombudsman, autorità di garanzia sui media pubblici e le telecomunicazioni). Il ritorno degli ex comunisti nella seconda tornata elettorale del 1993-96 rappresentò un fenomeno prevedibile 18. Nella Polonia scossa dalla “terapia shock”, che divise profondamente Solidarno´s´c, si affermò l’Alleanza della sinistra democratica (SLD) guidata dal giovane e dinamico Aleksander Kwa´sniewski, eletto presidente della repubblica nel 1995 e confermato nel 2000. In Ungheria, nel 1994 il partito dell’ex premier Antall, il Forum democratico, subì un tracollo dal 42% dei seggi a meno del 10%, mentre i socialisti dell’ex ministro degli Esteri Gyula Horn triplicarono i consensi del 1990 e raggiunsero la maggioranza assoluta dei seggi. Nella seconda metà degli anni novanta Kwa´sniewski e Horn, a capo di coalizioni social-liberali dal programma economico riformatore e liberista, lavorarono con il pieno sostegno occidentale e avvicinarono i rispettivi paesi alle istituzioni europee.
Anche nella Slovacchia, da poco divenuta indipendente, nel 1994 trionfarono i partiti di sinistra di ispirazione postcomunista, ostili all’eccessiva privatizzazione dell’economia. Il principale di essi, il Movimento per una Slovacchia democratica (HZDS), dominò per un decennio la vita politica del paese sotto la guida dell’ex funzionario di partito Vladimír Meˇciar, primo ministro slovacco della breve Federazione ceco-slovacca nel 1990-92 e premier dal 1994 al 1998. A conferma della difficoltà di applicare allo spazio postsovietico le categorie politologiche occidentali, i partiti ex comunisti o socialisti slovacchi, ro-