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1.7 Il regime fascista e il reportage di tavolozza

chiusura e dalla ristrettezza del provincialismo per immergerla nelle tensioni mondiali del ‘900 che si apriva. Così scrive nel 1948 Luigi Barzini jr nella prefazione ad un’opera autobiografica del padre:

“ L’Italia era divorata da un desiderio impaziente di riconoscimento, di avventura, di gloria, di grandezza...Luigi Barzini aveva portato nelle case degli italiani, tra l’odore delle vivande e i canterani di noci, tra gli ingrandimenti fotografici e i fiori di carta, la meravigliosa favola degli avvenimenti contemporanei, le uniformi rosse della guardia del Re d’Inghilterra, il divampare degli incendi in Manciuria, il lampo delle cannonate, il tramonto sui grattacieli di Nuova York, il sangue di un fucilato messicano, il nastro di seta e il sigillo di ceralacca di un trattato internazionale. Leggere Barzini significava affacciarsi al mondo, uscire dalla prudente vita della provincia, mescolarsi alle grandi avventure.”

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Il primo grande inviato della storia del giornalismo italiano fu un provincialetto che viaggiò con la curiosità di un bambino e seppe trasmettere ai suoi lettori quella voglia di scoprire sempre viva, raccontando tante storie, le storie di cui fu testimone in giro per il mondo, anche a rischio della propria vita.

1.7 Il regime fascista e il reportage di tavolozza

Il regime fascista produce una degenerazione della funzione del colore nel giornalismo italiano. Agli inizi del secolo, infatti, il colore nei pezzi di Barzini e di molti dei suoi colleghi è efficace strumento per veicolare agli occhi dei lettori realtà completamente sconosciute e complementari a quelle offerte dalle notizie. In questa fase pionieristica del nostro giornalismo il soggettivismo degli articoli, la forte descrittività, gli stati

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d’animo personali sono frutto della mediazione che il giornalista opera tra la realtà e il pubblico dei lettori, filtrando attraverso la propria esperienza personale fatti e avvenimenti così sensazionali e spettacolari. Con il fascismo i colori dilaganti e trasgressivi degli inizi divengono opachi e vuoti in quanto mezzi per occultare quella realtà su cui è obbligatorio tacere. Il fatto di cronaca viene completamente bandito dalla censura come elemento che può destabilizzare l’ordine costituito. L’immobilismo, le reticenze e il disimpegno politico voluti dal regime trovarono attuazione soprattutto all’interno della terza pagina. Elzeviri incomprensibili, critiche letterarie, saggi, racconti si confondevano l’uno con l’altro, trattando uomini, situazioni, condizioni meteorologiche senza collegamenti con il resto del mondo, ma badando unicamente alla qualità della scrittura. I giornalisti-scrittori accettarono l’isolamento nel salotto buono, pur di godere dei loro ludi stilistici, di quei vantaggi intellettuali riconosciuti dal regime.

“Lo spirito di conventicola letteraria che circolava nelle terze pagine non si concretò mai in una posizione di battaglia culturale, in una funzione attiva sul piano politico. I letterati non seppero essere, all’interno del regime, quello che oggi si definirebbe un “gruppo di pressione”...L’adesione al regime era data per scontata; l’apologia diventava di rado polemica, e solo ad opera dei più entusiasti e dei più sprovveduti. Il compito dei letterati-giornalisti, nei momenti “terribili” e “magnifici” della vita del Paese, consisteva nel fare della terza pagina “lo specchio dell’olimpica serenità con cui il popolo italiano attende il compimento dei suoi destini18.”

Elemento fondamentale della terza pagina durante il regime era il reportage di tavolozza, cioè un reportage più o meno esotico che, con una scrittura brillante e spettacolare, descriveva per l’occhio del lettore

18 Ajello Nello, Storia della terza pagina, “Nord e Sud”, n°32 1962 39

realtà, costumi, modi di vita, curiosità appartenenti ad altri mondi19. A proposito del giornalismo di viaggio di quel periodo Pietro Pancrazi

osserva:

“...i diritti del colore e della letteratura nel giornalismo viaggiante aumentarono fino a diventar prepotenti. Le condizioni di prima si rovesciarono: lo scrittore fu tutto e le cose che egli diceva o non diceva quasi nulla. Le immagini tennero vece dei ragionamenti, le impressioni valsero più della logica. Se gli piaceva, il giornalismo letterato poteva andare al polo, all’equatore o sulla luna soltanto per raccontarci una settimana dopo l’altra, per colonne e colonne, le reazioni della sua epidermide o della sua retina a quelle latitudini. Nelle corrispondenze di viaggio, tutto o quasi tutto potè ridursi a fatto personale. E se qualcuno poteva scegliere e trattare il fatto personale come avviso a anticipo di una realtà maggiore, i più giovani e disarmati, finirono per darci un giornalismo tutto d’impressione e di tavolozza (...) Anche giornalisti della vecchia guardia e assai intelligenti, girando il mondo, per non rompere i vetri, impararono allora a fare uso parco e cauto dell’intelligenza loro; riflettere, confrontare, prevedere, nel tempo fascista, era certamente molesto, e poteva diventare pericoloso. Accadeva così che, invece di leggere i loro articoli, chi poteva preferisse andare ad ascoltare quei giornalisti a quattr’occhi al loro ritorno. Il facile segreto di questo fatto molto palese era che il regime aveva le sue buone ragioni per favorire nel giornalismo viaggiante (e anche in quello di casa) un’inflazione letteraria. Oltre e meglio che con quello retorico e tambureggiante, con questo giornalismo soltanto letterario e di colore esso si illudeva di poter nascondere o ricoprire gli spazi lasciati in bianco dalla ragione.(...) E così tutti i giornalisti impararono a fumare senza nicotina. Dovessi ora fare un augurio ai giornali di domani, direi: sillogismo e meno tavolozza. Ossia augurerei loro di tornare ad essere, sempre soprattutto e a ogni costo, giornali ragionevoli20.”

Questo tipo di reportage dipingeva luoghi e situazioni senza fornire chiavi di lettura, si presentava come esercizio di stile per intrattenere il

19 Mazzanti Alessandro, L’obiettività giornalistica: un ideale maltrattato, Liguori, Napoli, 1991 20 Pancrazi Pietro, L’inviato-speciale, “Corriere della Sera”, 21 settembre 1947 40

lettore, per consentirgli di gettare un’occhiata sulla realtà più che osservarla e comprenderla. In quegli anni dietro le descrizioni, talvolta eleganti, di paesaggi esotici, tramonti sul mare, albe tra le dune, piogge uggiose si nascondeva il proposito del regime di occultare i fatti, di distrarre i lettori attraverso un giornalismo sterile in grado di produrre soltanto un grande vuoto informativo, di intrattenere più che informare. Un esempio di reportage paesaggistico di quel periodo è la corrispondenza di Cesco Tomaselli dalla Spagna per il Corriere della Sera, intitolata Escursione fra i tori di Miura ; eccone riproposto un

passo:

“...La giornata è nuvolosa con formazioni temporalesche all’orizzonte. Verso Siviglia un acquazzone confonde il lontano profilo della campagna così che la brughiera sembra da quella parte incamminarsi verso l’infinito. Ora i cavalli pigliano il trotto impolverando le agavi ai lati della strada. Ma perché questi cavalli? E che bisogno abbiamo noi di questa scorta di cavalieri con il capello cordovano, le gambiere di ferro e lunghe aste infilate nella sella? Ve lo dirò: andiamo a visitare la ganaderia di Miura, il più rinomato allevamento di tori della Spagna. I tori di Miura hanno fama di possedere straordinarie qualità combattive. Quando scendono in lizza i tori di Miura, la corrida assume un carattere più severo, gli aficionados accorrono da tutta la provincia, i toreri abbondano in preghiere alla Vergine Santissima e gli impresari aumentano il prezzo del biglietto. Il capo di questi butteri d’Andalusia, che si chiamano cabestreros, alza un braccio e la cavalcata si arresta di colpo davanti a una specie di cancello di filo spinato: è il varco da cui si entra nella prateria dove pascolano i tori. Eccoli laggiù. Nell’isolamento della brughiera, si vede una cosa nera e lontana, rimpicciolita dalla distanza, una cosa immobile che sembra appartenere alla terra come i ruderi di un bosco carbonizzato. I tori stanno pascolando in quella gran solitudine21”.

21 “Corriere della Sera”, 18 gennaio 1933

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