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1.6 I primi reportage in Italia: Luigi Barzini, un provinciale in Cina
si è misurata con la polvere dei fatti, riflettendo la realtà e interpretandola. La terza pagina è vissuta nei nostri giornali per quasi un secolo, abbandonata definitivamente solo negli anni ‘90. Quando la realtà politica mondiale cominciò a scuotersi e si frantumarono le certezze civili, poco a poco la notizia che si faceva sempre più urgente avanzò nella successione numerica delle pagine, ottenne spazio sempre maggiore e spinse sempre più in là la vecchia terza. La terza pagina ha finito per occupare i cosiddetti paginoni al centro dei giornali, si è dilatata e moltiplicata negli inserti o si è sbriciolata tra politica e spettacolo. Non c’è più l’elzeviro, il taglio, la spalla ma lo spirito della vecchia terza aleggia a fior di pagina, continua a vivere nel giornalismo italiano che è un giornalismo più scritto degli altri, difficilmente separabile dalle influenze letterarie, dove la qualità della scrittura, che nasce dalla cosa, dal modo di osservarla, coglierla, capirla, fonde il vero giornalista e il vero scrittore, annullando la possibilità di separare le due figure11 .
Nella prima metà dell’Ottocento nelle pagine dei giornali italiani il fatto e la cronaca, intesi nel senso moderno del termine, erano inesistenti o del tutto marginali rispetto alla preponderanza di ambigui e indecifrabili pastoni politici e di articoli di politica estera riportati pari pari dai giornali stranieri. E’ solamente a partire dagli ultimi due decenni del
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11 Marabini Claudio, Letteratura bastarda, giornalismo, narrativa e terza pagina, Camunia, 1995 30
secolo, con la nascita di quotidiani quali il Secolo, il Corriere della Sera, il Messaggero, che in Italia il fatto diviene il fulcro fondamentale attorno a cui ruota l’informazione quotidiana. Gli anni Settanta e Ottanta divengono lo scenario in cui si realizza il primo timido manifestarsi della cronaca nazionale e locale e in cui fa il suo ingresso nel mondo del giornalismo la figura dell’inviato, per la copertura degli avvenimenti d’oltre confine. Il primo inviato speciale fu spedito dal giornale, la Gazzetta del popolo, nel 1869 in occasione dell’inaugurazione del canale di Suez12. Sarà la politica coloniale degli anni ’80 e la campagna d’Africa del decennio successivo a contribuire a definire meglio la nuova figura professionale, allora etichettata con l’appellativo articolista viaggiante. Il Secolo e il Corriere della Sera iniziano a spedire inviati oltre che in Africa anche nelle principali capitali europee, seguendo una consuetudine ormai affermatasi nella stampa straniera. Molti furono i problemi che i giornali italiani affrontarono per inviare i giornalisti al fronte. A proposito delle ultime fasi della campagna d’Africa, Licata scrive:
“Per inviare questa gente (...) occorsero preparativi quasi tartareschi per l’equipaggiamento: non si avevano idee precise su cosa si andava incontro, cosa occorresse per rendere davvero autonomo un corrispondente, come rifornirlo di valuta, come superare gli ostacoli frapposti alla censura; come salvaguardarne perfino l’incolumità (dotarli di armi o no?); come metterli al riparo della concorrenza. Correva voce che l’Eritrea, oltre che da bestie feroci, fosse allora infestata da micidiali branchi di topi di una specie sconosciuta. Per non dire delle zanzare, mosche, scorpioni.”
In questo nuovo contesto di giornalismo modernizzato la figura del giornalista comincia lentamente e faticosamente a risalire la scala del
12 Mazzanti Alessandro, L’obiettività giornalistica: un ideale maltrattato, Liguori, Napoli, 1991 31
prestigio sociale. Fino a quel momento ci si dedicava all’attività giornalistica non per scelta ma per ripiego, per fare lotta politica o per effettive ristrettezze economiche o per l’insuccesso in campo letterario. Quello del giornalista era considerato tutto al più un mestiere e non una professione di quanti non riuscivano a realizzarsi in altri campi della cultura.
Sarà proprio sul finire dell’Ottocento che farà il suo ingresso nella storia del giornalismo italiano Luigi Barzini. Saranno i suoi sensazionali reportage ad attribuire prestigio definitivo alla figura del corrispondente e dell’inviato. La capacità di cogliere gli eventi e l’efficacia nel raccontarli, l’astuzia nello scovare fonti attendibili, il dono naturale di trovarsi nel luogo giusto al momento giusto, una curiosità divorante tale da rischiare anche la vita, tutte queste qualità fanno di Luigi Barzini un grande inviato, l’inviato speciale per eccellenza. Nato ad Orvieto nel 1874, Barzini a scuola non brillò e seppur intelligentissimo non fu certo tra i primi della classe. Già dai primi anni delle scuole tecniche si rivela la sua versatilità per l’italiano e la sua vena umoristica e polemica. Nel 1898 parte per Roma dove cominciò la sua carriera giornalistica come redattore del Capitan Fracassa e poi del Fanfulla. Fu notato da Luigi Albertini per un’intervista fatta alla celebre cantante Adelina Patti e fu assunto nel 1900 al Corriere della Sera, poi subito mandato come corrispondente a Londra:
“Albertini non si sarebbe probabilmente accorto della mia esistenza se le cose dettemi dalla Patti non avessero destato un interesse di cui divenni usufruttuario.
L’attenzione di Albertini fu richiamata sulla mia persona. Egli volle conoscermi (...) E due settimane dopo il nostro incontro, il Corriere della Sera mi offrì il posto di corrispondente a Vienna o a Londra, a mia scelta. Scelsi Londra13… “
13 Barzini Luigi, Vita vagabonda, 1948
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Senza conoscere la lingua inglese parte per la grande capitale con uno stipendio di 250 lire al mese e vi resta per un anno, periodo sufficiente oltre che per imparare la nuova lingua, per apprendere con l’esperienza come si fa l’inviato. Le testimonianze di Barzini sono fondamentali per capire come il cambiamento dei mezzi di trasmissione abbia influenzato e modificato lo stile giornalistico. Per inviare da Londra i propri pezzi Barzini come il resto degli inviati italiani si servì del telegrafo. Lo sforzo dei giornalisti era di conciliare la chiarezza e l’efficacia di un telegramma con la massima brevità, evitando abbellimenti letterari e creando uno stile semplice, diretto, rapido:
“La eccessiva verbosità annebbia il pensiero, e l’estrema laconicità lo tarpa: vi è un numero giusto di parole appropriate che conferisce all’espressione la massima luce, la più netta evidenza, il più grande rilievo... Insomma, il grande sviluppo dei servizi telegrafici sulla stampa italiana ebbe un’influenza notevole sulla prosa giornalistica14”
Il telegrafo, quindi, produsse effetti stilistici che premiarono la fattualità rispetto all’approccio di colore, ma con l’introduzione del telefono la situazione si capovolse:
“Ma poi venne il telefono...Le amministrazioni giornalistiche cominciarono a rimproverare i corrispondenti che non trasmettevano tanta materia da usufruire di tutto il tempo concesso dall’abbonamento (...) In giorni di magra, i corrispondenti erano costretti a cercare di dire in venti parole quello che si poteva dire in due dovendo imbottire di frasi il vuoto del notiziario. Mentre prima era uno sperpero mandare più parole del necessario, poi fu considerato uno sperpero non mandarle. La prolissità divenne obbligatoria. Fu una prolissità spesso abile, elegante, piacevole, e il corrispondente che riusciva a montare poca sostanza informativa, come si monta la panna, in una brillante vacuità servita fresca sopra un paio di colonne, era il meglio
14 Ibidem
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apprezzato e quotato. I corrispondenti cominciarono a parlare sopra tutto di sé stessi. Il compito di informare i lettori si complicò con il desiderio di distrarli, di divertirli, di intrattenerli...15”
Diventa rilevante lo stile personale del giornalista in grado di colorare gli avvenimenti per intrattenere il lettore, mentre l’arida cronaca di stampo anglosassone risulta meno adatta nel rappresentare dal vivo gli ambienti esotici d’oltre confine.
Barzini mostra di possedere una qualità rara per un italiano, quella di saper tenere separato il romanziere dal giornalista, di coniugare l’esattezza del fatto con la descrizione brillante, senza cadere nella retorica.
“...Non si sente mai nei suoi scritti la preoccupazione di fare il componimento letterario (...) e non c’è nemmeno il difetto contrario, comune a troppi giornalisti, quello di voler essere spigliati...a tutti i costi. Egli ha il colpo d’occhio sicuro nel valutare i fatti, l’anima aperta a gustare le forme più disparate del bello, il giudizio sereno nel giudicare gli uomini, anche se non intende la lingua16. ”
Tornato da Londra, Barzini viene inviato dal Corriere in Cina, teatro della sanguinosa rivolta dei boxers. Una volta in Oriente si distinse per il fiuto e gli espedienti ai quali ricorse per assicurarsi gli scoop, per i suoi reportage a metà tra corrispondenza e diario di viaggio, in cui instaurava un affettuoso colloquio col suo lettore ideale. Fin dai primi pezzi, spediti mentre si trovava ancora a bordo del piroscafo che lo porterà in Cina, l’inviato riesce a trasferire con immediatezza nell’immaginario collettivo popolare dei lettori le meraviglie, le stranezze, i prodigi dell’Estremo Oriente. E’ un bel trapasso professionale per Barzini: dalle angustie di provincia alla
15 Ibidem 16 Caprin G., 1904
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copertura degli eventi internazionali. Mai un giornalista italiano si era spinto tanto lontano, seguendo una guerra dall’altro lato del mondo.
“Catapultare un provincialetto come Barzini in un mondo esotico, fra mille pericoli di ogni tipo, in modo che potesse riferirne, con tutta la sua sbigottita semplicità, a un pubblico ancor meno cosmopolita di lui: ecco qual era la posta della scommessa ( per quell’epoca fantasticamente costosa) fatta dal direttore del Corriere17.”
Dal 1904 al 1905 Barzini seguirà la guerra russo-giapponese e nel marzo 1905 sarà l’unico giornalista al mondo a testimoniare la sconfitta dei russi nella battaglia di Mukden. Nel 1906 è in Africa, un anno dopo partecipa con il principe Scipione Borgese al memorabile raid automobilistico Pechino-Parigi a bordo della storica Itala. Ecco di seguito uno stralcio del reportage che testimoniò quell’impresa, pubblicato il 25 luglio 1907 sul Corriere:
“ Incidenti e sorprese dopo la frontiera asiatica
Kasan, 23 luglio, ore 20,30 Erano le ore tre quando, discendendo la valle del fiume Kasanka, scorgemmo verso l’occidente che si era rasserenato dopo una lunga pioggia, scintillare le acque del Volga; e nella bruma luminosa, ergersi il profilo di una grande città: Kasan, finalmente, con le sue cupole singolari sulle chiese famose! Siamo giunti in questa città con un giorno di ritardo sul tempo preveduto... Domenica mattina avevamo lasciato Perm da un’ora appena, con tempo minaccioso, quando si scatenò un violento temporale. Attraversavamo interminabili foreste di abete che la brezza agitava; il cielo buio pareva toccasse le cime degli alberi; filtrava una luce crepuscolare come se fosse tornata la notte; rombava continuo il tuono e la pioggia impetuosa scrosciava con violenza di cateratta, inondando tutto. I nostri impermeabili erano inutili; eravamo immersi nell’acqua. La strada era allagata e dovemmo ridurre la velocità al passo d’uomo. L’automobile slittava sul fango, ed era
17 Ajello Nello, Storia della terza pagina,” Nord e Sud”, n°32 1962 35
impossibile dirigerla; camminava di traverso, si voltava con la fronte indietro, quasi fosse divenuta restia; aveva subitanee disobbedienze da cavallo capriccioso... La bufera continuò per quattro ore... Alle ore dieci il tempo si rischiara: ci rallegriamo. La strada è migliore, ma improvvisamente sentiamo uno scricchiolio alla ruota posteriore sinistra; pochi metri ancora e poi uno schianto...I raggi della ruota si sono completamente separati dal cerchione.
Non ci poteva colpire un danno maggiore. Siamo in mezzo alla campagna disabitata, a 350 Km dalla ferrovia, dalla quale potrebbe venirci aiuto. Cosa fare?...Borghese immagina una ingegnosa riparazione sommaria...mentre si lavora, sopraggiunge un vecchio mujik, che osserva e quindi ci dice: ”Volete un uomo capace di farvi una ruota nuova? Egli è il più abile fabbricatore di slitte e di teleghe della regione.”... Impieghiamo quasi un’ora a giungere davanti all’isba del falegname, contornata di tettoie. Chiamiamo. Ne esce l’artefice, seguito da aiutanti con barbe patriarcali, lunghe capigliature e camiciole rosse dalle maniche rimboccate che mostrano braccia atletiche, capaci di abbattere alberi. Con nostra somma sorpresa, uno di essi ci rivolge la parola in latino.”Dove lo imparasti?”gli chiede Borghese. Quello, un uomo dall’aspetto selvaggio, gravemente risponde: ”Lo studiai da me, a casa, durante l’inverno”. Così, parte in russo, parte nella lingua di Cicerone, spieghiamo il lavoro da farsi....La ruota è smontata e pochi momenti dopo il cortile risuona di colpi d’ascia. Nessun altro ordigno è adoperato fuorché l’ascia, maneggiata con meravigliosa abilità... Sette ore dura l’opera incessante...I nuovi raggi non sono sagomati ed eleganti: rozzi, tozzi, grossolani...danno alla ruota un aspetto massiccio: sembra la ruota di un carroccio. Ma essa resisterà a tutti gli urti, a tutti gli sforzi. Alle sette della sera rimontiamo in macchina e partiamo per Dosvidania. ”Arrivederci!” ci gridano gli operai stendendoci le brave mani callose, che stringiamo con effusione. ”Salve!” esclama il latinista... Giungiamo in un villaggio e decidiamo di fermarci. Molte isbe sono già chiuse; gli abitanti dormono; qualcuno si affaccia e guarda con stupore il pauroso mostro che corre. L’ora tarda è propizia alla paura. Vediamo due giovanotti sulla strada: fermiamo l’automobile e il principe Borghese li interpella. Essi fuggono atterriti, facendosi il segno della croce; senza dubbio ci hanno presi per diavoli, forse anche a causa delle pellicce che ci ricoprono.
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Ecco sulla soglia di una casa alcune donne: le salutiamo addolcendo la voce per sembrare meno diabolici; le donne rientrano gridando per lo spavento e chiudono la porta. Tentiamo di bussare a una casa di aspetto agiato, sperando migliore accoglienza. Nessuno risponde. Udiamo all’interno dei passi precipitosi, il rumore degli usci sprangati...In breve tutto il villaggio è desto e spia il carro misterioso. Il principe Borghese richiamando in servizio attivo tutte le parole russe che conosce, intraprende ad alta voce la spiegazione dell’automobile...I più arditi si avvicinano; altri sopravvengono e si forma in breve un cerchio che comincia a persuadersi che noi siamo uomini in carne ed ossa. Due contadini, invitati, accettano eroicamente di salire sull’automobile e di farsi trasportare; si entusiasmano e non ne vorrebbero più discendere...Il ghiaccio è rotto: tutti diventano buoni amici; la casa barricata si schiude e siamo ospitati. Ci offrono tè, uova, latte, pane e burro. Sfamati, ci addormentiamo per terra, cosa alla quale siamo abituati, perché dormiamo in letto soltanto nelle rare occasioni di soste in grandi città.”
E’ questo un reportage che restituisce l’emozione di un grande viaggio attraverso la vivida descrizione di persone incontrate, di strade percorse, di villaggi sperduti, di città rumorose. Con una scrittura brillante Barzini conduce il lettore, chiuso nel contesto provinciale, in terre lontane, apre innanzi ai suoi occhi scenari nuovi, di gente diversa, che parla, mangia, veste, vive in maniera diversa, e lo fa con la curiosità e il rispetto di chi vive il confronto culturale come un’occasione di accrescimento
personale, di ampliamento dei propri orizzonti mentali. L’ormai celebre reporter viene inviato come corrispondente per il Corriere nel 1911 per coprire la guerra di Libia. In seguito, dimessosi dalla testata milanese, si trasferisce in America, dove dirige dal 1923 al 1931 il Corriere d’America. Tornato in Italia diviene direttore del
Mattino (1932-33) e poi senatore (1934). Forse il merito grande di Luigi Barzini è stato quello di aver strappato, con i suoi viaggi, le sue leggendarie imprese, le sue fatiche, l’Italia dalla
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