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Genio italico applicato alla guerra di mine

Le invenzioni e intuizioni italiane e i loro riflessi sulla tattica navale e la strategia marittima

Massimo Vianello

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La guerra di mine navale è una forma di lotta in cui, oltre alla interazione diretta tra l’ordigno e la nave, sussiste un continuo confronto tra due partiti contrapposti: da un lato il «minatore» che posa le mine e dall’altro lo «sminatore» che cerca di eliminarne il rischio per il naviglio. È una metodica lotta tra le «misure» e le conseguenti «contromisure», una logorante e rischiosa competizione che, sulla base di valutazioni statistiche, fa ricorso a particolari tattiche e tecniche ma dove trovano spazio anche l’acutezza e perspicacia del minatore che mette in atto la sua trappola (il campo minato) e l’intuizione dello sminatore che deve eliminarne gli effetti. Tale contesto ha da sempre stimolato l’attitudine italiana ad affrontare situazioni complesse ricorrendo a soluzioni geniali ed espedienti originali che, in questo caso, si è tradotta in importanti contributi tecnici e operativi nello sviluppo dei sistemi e delle procedure per la guerra di mine. Tuttavia, i tanti primati sono spesso poco conosciuti e ciò è probabilmente attribuibile alla connotazione particolarmente specialistica della componente di contromisure mine e alle situazioni operative poco visibili in cui opera: nelle fasi preparatorie delle grandi operazioni dei dispositivi navali e nelle fasi post belliche in cui corre l’obbligo di bonificare i tratti di mare riaperti al traffico marittimo, intervalli temporali che non hanno mai destato un particolare interesse da parte degli storici. Da una attenta analisi storica è possibile ricostruire il ruolo di primo piano rivestito dall’Italia sin dai primordi di tale forma di lotta valutandone gli effetti sulle tattiche navali, sulle tecniche specialistiche nonché sulla strategia marittima.

L’Italia e la guerra di mine

L’importante contributo italiano, allo sviluppo sia tecnico sia operativo della guerra di mine, ha, di fatto, attraversato due differenti fasi storiche caratterizzate da diversi fattori geopolitici tra cui gli eventi bellici, prima e l’adesione alla NATO, successivamente.

Nella prima, intensa attività di ricerca e sviluppo furono orientate prevalentemente verso la realizzazione di armi finalizzate non solo a rivestire un ruolo di deterrenza ma anche a costituire un efficace strumento di offesa del nemico. Nella seconda, invece, sulla base della consolidata esperienza maturata durante gli eventi bellici e in considerazione del mutato scenario geostrategico, si è affermata una componente di contromisure che ha conferito alla visione nazionale della guerra di mine una connotazione squisitamente difensiva. In entrambi i casi l’apparato specialistico italiano ha conseguito risultati di eccellenza che hanno segnato alcune delle tappe storiche di questa forma di lotta e tutt’oggi riveste un ruolo di riferimento nella regione mediterranea e ha una significativa valenza operativa nell’ambito dell’Alleanza atlantica.

I periodi bellici

Dopo la costituzione del Regno d’Italia, la nascente Regia Marina, formata dalla fusione delle Marine preunitarie, si trovava a doversi inevitabilmente confrontare sulla scena internazionale con le Marine già esistenti e tra di esse, in particolare, con quella francese, che rappresentava il più vicino e diretto metro di paragone. Di qui la scelta di riservare una particolare attenzione alla mina che, come disse il capitano di corvetta Quintino Bonomo in un suo scritto tecnico-specialistico del 1902: «per la sua straordinaria potenza unita a un costo relativamente basso, si presentava come arma livellatrice, dando essa al più debole il mezzo di avere talvolta ragione della prepotenza del più forte ».

Fu così che a pieno diritto la mina divenne parte integrante della visione strategica dell’ammiraglio Saint Bon che, nella sua veste di Capo di Stato Maggiore della

Ammiraglio di divisione in riserva. Ha frequentato la Scuola militare navale F. Morosini e l’Accademia navale. Ha conseguito la qualificazione in armi subacquee e la specializzazione in contromisure mine. È stato il comandante del MSC Mandorlo, MHC Gaeta, fregata Maestrale e di nave Vespucci. Nel grado di contrammiraglio ha comandato le Forze di CMM (Contromisure Mine) e il 29° Gruppo navale. Ha partecipato alle operazioni Golfo Persico, Allied Force e Mare nostrum.

Forza armata, ne intravedeva le potenzialità di difesa degli interessi nazionali e di attuazione del blocco navale a scapito dei potenziali nemici. La bontà della scelta strategica trovò conferma nell’importante impatto, diretto o indiretto, avuto dalle operazioni di minamento sugli esiti della Prima guerra mondiale. Sulla base dell’esperienza acquisita, nel periodo tra le due guerre vennero perfezionate e potenziate le capacità del minamento offensivo tramite la posa occulta da parte dei sommergibili e le mine vennero diffusamente impiegate sia nel Mediterraneo che altrove. L’industria nazionale realizzò sia modelli di mine sia sistemi di posa dedicati alle differenti classi di sommergibili: appositi tubi orizzontali oppure verticali (pozzi), a seconda dei casi, arrivando così a dotarsi di una buona capacità di minamento offensivo.

Il periodo post bellico

Al termine della Seconda guerra mondiale gli obblighi posti dal diritto internazionale in tema di sminamento aprirono le porte a una stagione di lunghe operazioni di bonifica degli ordigni precedentemente posati che portò alla riorganizzazione e al consolidamento delle capacità di dragaggio nazionali. Peraltro, il mutato scenario internazionale portò ovviamente ad abbandonare il concetto del minamento offensivo per passare a una postura operativa che tuttora privilegia l’esercizio delle contromisure mine, in accordo con gli indirizzi della NATO e con la costituzione della Repubblica Italiana che «ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà dei popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». La necessità di disporre di efficaci assetti di contromisure mine, già palesatasi con la missione Mar Rosso nel 1984 e con l’operazione Golfo 1 nel 1987-88, si rafforzò in esito alla partecipazione ai dispositivi internazionali intervenuti nei più recenti scenari di crisi per condurre vere e proprie bonifiche post belliche (come nel caso della Guerra del Golfo nel 1991 e in quello delle operazioni in Adriatico nel 1999-2000 contestuali alla crisi in Kosovo). Non da ultimo, l’avvento della lotta asimmetrica, nell’ambito della quale la mina costituisce una delle armi privilegiate per l’offesa al traffico marittimo, ha rinnovato l’attenzione sull’opportunità di continuare a disporre di adeguati mezzi specialistici per salvaguardare il commercio nazionale e internazionale. Non è un caso che ormai da tempo la NATO si avvalga di due Gruppi navali di Contro Misure Mine (CMM), di cui uno dislocato nelle acque del Mediterraneo, con l’intento di vigilare sulla libertà di navigazione a tutela delle linee di comunicazione marittime. L’interpretazione italiana della guerra di mine in chiave difensiva è passata attraverso uno spiccato spirito di iniziativa che ha consentito alla Marina di essere in tale settore costantemente al passo con l’evoluzione della tecnologia e delle procedure operative, arrivando in alcune circostanze anche ad anticipare importanti sviluppi di tale forma di lotta grazie alle intuizioni che di seguito verranno descritte.

A tal punto, appare del tutto evidente come l’excursus storico che segue debba inevitabilmente partire dall’esame dell’impegno italiano nel minamento per poi passare a quello nelle contromisure mine.

Rappresentazione semplificata del sistema «Pugliese» per la protezione degli scafi dalle esplosioni subacquee mediante una struttura longitudinale, a murata, contenente dei cilindri assorbitori immersi in un liquido (autore).

Il contributo italiano all’invenzione della torpedine ancorata

Nel 1797, l’inventore americano Robert Fulton fu il primo che diede alle armi subacquee il nome di «torpedine», in origine nome di un pesce che ha la particolarità di emettere scariche elettriche. Tutt’oggi le torpedini vengono convenzionalmente suddivise in mine navali, se agiscono staticamente o in siluri, se sono autopropulse. Le armi subacquee nacquero dall’esigenza di difendersi, con ridotte risorse finanziarie, da forze navali superiori e come per il caso delle mine terrestri, anche la mina navale è da considerarsi un’invenzione tutta italiana. L’idea fu quella di impiegare le cariche di polvere esplosiva delle mine terrestri anche sott’acqua per distruggere o danneggiare le navi.

Tra i tanti Italiani che, per primi, progettarono mine subacquee, ci fu un certo ingegnere Giovanni Battista Isacchi (1), inventore e scrittore militare al servizio di Luigi Pico della Mirandola, conosciuto per avere descritto nel 1578 le caratteristiche tecniche e operative della prima «mina sotto l’acqua». Se è vero che il progetto di Isacchi non portò ad alcuna realizzazione pratica, è altrettanto evidente che gettò le basi per ulteriori studi sia in Italia sia in altri paesi. In attesa che gli studi per la realizzazione di un vero e proprio ordigno subacqueo progredissero, fu italiana anche la prima applicazione pratica di impiego di primordiali mine galleggianti, i cosiddetti «brulotti esplodenti». Nel 1585, Federico Giambelli (2), ingegnere militare e poi consigliere tecnico al servizio di Elisabetta I d’Inghilterra, durante l’assedio di Anversa, lanciò due pontoni carichi di esplosivo (Speranza e Fortuna) per distruggere un ponte gettato sul fiume Schelda.

Il brulotto del Giambelli aprì la strada a successive configurazioni di ordigni, prima galleggianti (barilotti esplosivi) e quindi ancorati, frutto degli studi americani di Bushnell e Fulton che poi portarono alle torpedini, prevalentemente fluviali, realizzate durante la guerra di secessione americana (1862-65). Ma l’iniziale intuizione di mina subacquea di Isacchi si tradusse veramente in pratica solo grazie ai congegni realizzati prima dal valente fisico elettrotecnico prussiano Jacobi e poi dal colonnello austriaco Ebner che sostituì le cariche di esplosivo in polvere con i cartoccieri di fulmicotone, mettendo in opera diversi tipi di torpedine ancorata. Con la liberazione di Venezia, la Regia Marina, avendo ereditato le conoscenze della Marina austro-veneta, ebbe modo di continuare a sviluppare gli studi dell’Ebner e con un lungimirante investimento tecnico-culturale, istituì nel 1875 la Regia Scuola dei Torpedinieri, inizialmente a bordo della pirocorvetta Caracciolo e successivamente alla Spezia.

Le prime torpedini ancorate erano esclusivamente del tipo ad «ancoramento ordinario» cioè caratterizzate dal fatto che, in base alla profondità dello specchio d’acqua da interdire e alla quota prefissata per la carica esplosiva, era necessario regolare preventivamente la lunghezza di ciascun cavo di ormeggio che collegava ogni singolo ordigno alla rispettiva ancora. Tutto ciò si traduceva all’atto pratico in una preliminare operazione di scandagliamento del fondale cui faceva seguito l’ancoramento di ogni torpedine con un significativo dispendio di tempo e di personale. La necessità di ricorrere a un uso intensivo di torpedini in tempi ragionevolmente brevi, portò alla progettazione della torpedine ad «ancoramento automatico» volta a consentire la posa degli ordigni senza la necessità del preventivo scandagliamento. In tal senso, furono condotti numerosi studi in diversi paesi, seguendo due differenti approcci: il primo, secondo le teorie dell’austriaco Petrusky, prendeva la superficie del mare come riferimento per la regolazione dell’ormeggio dell’ordigno mentre il secondo, in accordo con l’idea del capitano di corvetta Rossellini, prendeva a riferimento il fondo del mare. Alla fine, tra i tanti progetti, fu quello del tenente di vascello Giovanni Emanuele Elia (3), brevettato nel 1890, che portò all’invenzione della prima vera e propria torpedine ad ancoramento automatico. La torpedine venne sottoposta a una severa campagna di prove, prima in vasche ideate dallo stesso Elia e poi in mare. Si arrivò così a verificare che una nave, attrezzata con ferroguide e carrelli di movimentazione in coperta, riusciva a realizzare uno sbarramento di torpedini con tempi e risorse di personale nemmeno lontanamente confrontabili con quelli precedentemente richiesti. Per la posa della torpedine non era necessario conoscere la profondità del mare ma bastava semplicemente regolare l’immersione dell’involucro contenente la carica (normalmente per bersaglio di superficie = 3 m). L’involucro veniva gettato a

mare unitamente al carrello da cui poi si separava posizionandosi alla profondità voluta mentre quest’ultimo, affondando, fungeva da ancora una volta raggiunto il fondo. Dopo diverse versioni prototipiche, si arrivò alla mina ormeggiata dell’immaginario collettivo ossia quella che tutti hanno visto almeno una volta nei film o nei documentari, costituita da una sfera con gli urtanti e collegata con un cavo a un parallelepipedo posato sul fondo. Tutt’oggi gli urtanti altro non sono che degli involucri di piombo contenenti una fiala che, al contatto con lo scafo della nave, si spezza lasciando defluire un liquido elettrolita all’interno di una pila la cui corrente innesca l’esplosione della carica di scoppio. Il carrello di forma parallelepipeda invece, conteneva i congegni meccanici per la regolazione dell’immersione dell’ordigno, rivisti da Elia ma del tutto simili a quelli del tipo perfezionato dal sottotenente di vascello Francesco Passino.

La torpedine «Elia» segnò una svolta epocale nella guerra di mine e nei primi del Novecento entrò in servizio presso le Marine statunitense, inglese, francese, spagnola e italiana. Tale arma, grazie alla semplificazione delle operazioni di posa, consentiva di attuare oltre ai minamenti protettivi nelle proprie acque territoriali anche il blocco navale nelle acque del nemico e per questo venne denominata «torpedine da blocco».

La Regia Marina impiegò le «Elia» durante la Prima guerra mondiale unitamente alle mine «Bollo», frutto degli studi e ricerche dell’ammiraglio Girolamo Bollo (4), altro ufficiale che dedicò la sua carriera alla ricerca e sviluppo delle armi subacquee. Successivamente, questi due tipi di mina ormeggiata, debitamente ammodernati, continuarono a essere impiegati anche durante la Seconda guerra mondiale, andando a integrare il parco torpedini composto dalle mine della serie «P» (prodotte dalla ditta Pignone e denominate: P-200, P 150 CR e P-125 a seconda del quantitativo di esplosivo), dalle torpedini per sommergibili (modelli della serie «T» della ditta Tosi e le P-150 e UC-200 ) nonché dalle altre mine residuali del Primo conflitto mondiale (le «Harlè» di costruzione francese e le ex-austriache C-15). Le mine ormeggiate P-200 e la loro versione modificata in P-5 (per via dei 5 urtanti) restarono in servizio fino ai primi anni Novanta, quando vennero dismesse per lasciare posto alle sole più moderne mine da fondo.

Le intuizioni italiane sulle mine

La minaccia della guerra di mine non è costituita unicamente dalle mine ormeggiate, bensì da una ampia varietà di altri ordigni collocabili sul fondo del mare, sulla superficie o in volume. Anche in tale ambito non sono mancate brillanti intuizioni italiane, inizialmente inerenti alle mine galleggianti, oscillanti e rimorchiate e più recentemente per quanto attiene alle mine da fondo.

Particolarmente efficaci si rivelarono, durante la Prima guerra mondiale, le mine a galleggiamento temporaneo (denominate anche «torpedini da getto») il cui sviluppo culminò nel modello realizzato dall’ingegnere Ceretti in configurazione aviolanciabile e che, a loro volta, vennero sostituite dalle mine oscillanti «Tosi». Per mantenere l’ordigno in un prefissato intervallo di quote, a differenza dei sistemi oscillanti svedese e inglese, che impiegavano un disco aneroide e un’elichetta calettata su un motorino elettrico, quello italiano utilizzava la variazione di volume di un polmone di gomma. Per il contrasto dei sommergibili venne anche realizzata, dal tenente di vascello Ginocchio, una versione italiana di «torpedine da rimorchio» che prevedeva l’esplosione dell’ordigno, trainato a una profondità prefissata, per l’urto contro il battello, a differenza di quella inglese che ne contemplava la chiusura di un circuito elettrico di accensione.

Importanti contributi italiani furono forniti anche per quanto attiene ai «ginnoti», la cui paternità si fa risalire al colonnello americano Samuel Colt. Si trattava di sbarramenti di torpedini che venivano innescate a distanza tramite dei circuiti elettrici asserviti a dei sistemi ottici di traguardo del bersaglio. Alla fine dell’Ottocento, fu il tenente di vascello Carlo Scotti (5) che, perfezionando altre precedenti soluzioni italiane, realizzò un sistema di traguardo denominato «Congiuntore a Base Verticale» che ebbe diffuso impiego anche presso altre Marine.

Per quanto attiene invece alle mine da fondo, furono le Marine inglese e americana e poi quella tedesca che, a partire dalla Prima guerra mondiale, realizzarono le prime «mine a influenza» che dapprima percepivano semplicemente l’intensità magnetica del bersaglio e in un secondo tempo il gradiente. Da queste, in breve si arrivò alla mina da fondo, caratterizzata da un maggior quantitativo di esplosivo e da acciarini a influenza magneto-acustica.

L’avvento dell’elettronica porterà via via, le mine da

fondo a diventare dei sofisticatissimi ordigni in grado di percepire influenze magnetiche, acustiche e bariche e altre caratteristiche fisiche del bersaglio sino ad arrivare ai giorni nostri, in cui il trattamento del segnale consente di gestirne il momento del fuoco nonché di selezionare il tipo di bersaglio in funzione della programmazione preliminare. L’effettivo contributo italiano allo sviluppo delle mine da fondo iniziò tra gli anni Sessanta e Settanta, con la progettazione della mina sperimentale «Cupella» che, pur essendo poco conosciuta, segnò il punto di partenza per la realizzazione, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, della MR-80. Successivamente, l’elettronica della MR-80 fu utilizzata per trasformare gli ordigni aviolanciabili tipo MK-13 in moderne mine da fondo ma soprattutto, condusse alla realizzazione della MP-80 che negli anni Ottanta rappresentò un prodotto di eccellenza del comparto industriale specialistico nazionale. Tuttavia, nonostante l’elevato livello tecnologico della MP-80, la genialità italiana trovò la sua massima espressione nella realizzazione della «Manta», una semplice mina antisbarco magneto-acustica che però, grazie alla caratteristica forma troncoconica e alla sua predisposizione all’allagamento e infangamento, risulta tutt’oggi estremamente insidiosa perché difficilmente scopribile dai sonar.

I riflessi sulla tattica navale e sulla strategia marittima

Ricordando che Clausewitz definisce la strategia come «l’impiego delle forze per gli scopi della guerra» e la tattica come «l’impiego delle forze per gli scopi della battaglia», si può affermare che le mine, quando vengono impiegate in campi aventi lo scopo di interdire nel medio o lungo termine il traffico navale nemico o di proteggere le proprie acque territoriali o i propri interessi economici, sono armi eminentemente strategiche. Viceversa, se impiegate limitatamente nello spazio e nel tempo, si configurano come armi tattiche.

Da un punto di vista storico l’invenzione della torpedine ad ancoramento automatico di Elia, consentendo la messa in opera di significativi sbarramenti e l’interdizione di importanti tratti di mare, ha di fatto inaugurato l’impiego strategico della mina.

Risale all’ammiraglio Simone Pacoret de Saint Bon l’idea del blocco navale realizzato con le mine che poi sarà ripresa dall’ammiraglio Bettolo, sostenitore del progetto di Elia. Non è un caso che la parte fissa dello storico sbarramento antisommergibile del Canale d’Otranto, attuato da Italia, Francia e Inghilterra, durante la Prima guerra mondiale, fosse costituito da mine del tipo «Elia».

Rappresentazione del sistema di posa delle torpedini ad ancoramento automatico (autore).

Anche nel Mare del Nord l’impiego di tale ordigno, per sbarramenti antisommergibile, da parte delle Marine nordeuropee, consentì lo sbarco senza danni di truppe alleate, distruggendo 27 sommergibili tedeschi. Negli anni Venti fu il Sottocapo di Stato Maggiore della Marina, Romeo Bernotti, che studiò con Elia la possibilità di uno sbarramento strategico sugli altissimi fondali dello Stretto di Sicilia, tema che successivamente verrà più volte ripreso in esame.

Non da ultimo, la realizzazione della mina «Elia» diede il via a strategiche collaborazioni tra industrie di differenti paesi, portando alle versioni italo-inglese «Vickers-Elia» e italo-francese «Breguet-Elia». Lo stesso Giovanni Emanuele Elia, quando lasciò la Marina per dedicarsi totalmente ai suoi studi, arrivò a rivestire un importante ruolo all’interno della ditta Pignone di Firenze che realizzò i successivi tipi di mine ormeggiate.

La produzione su vasta scala delle torpedini italiane ebbe i suoi effetti anche sullo sviluppo industriale del paese determinando la trasformazione di alcune grandi officine e fonderie in veri e propri stabilimenti industriali. Alcune intuizioni italiane hanno avuto riflessi anche nell’impiego tattico delle mine. Le mine galleggianti, così come quelle oscillanti «Tosi», si rivelarono particolarmente utili nelle fasi di disimpegno dei mezzi veloci di superficie che, dopo gli attacchi alle unità maggiori, le rilasciavano a mare per fare desistere le navi inseguitrici. Un apposito congegno delle mine «Bollo», che consentiva il recupero in sicurezza e il reimpiego delle mine sganciatesi dagli ormeggi, si dimostrò particolarmente utile per il «rinfresco» dei campi minati di logoramento destinati a mantenere impegnate le forze di contromisure mine del nemico.

Più recentemente, la mina antisbarco «Manta», grazie alle sue caratteristiche fisiche che la rendono difficilmente scopribile dai sonar, ha di fatto dato il via alla applicazione dello «stealth» nella guerra di mine. Successivamente, versioni similari sono state realizzate, nella configurazione da esercizio, da altre Marine per addestrare in maniera specifica gli operatori ecogoniometristi alla scoperta sonar e altre ancora, come la Marina svedese, hanno invece realizzato configurazioni «in guerra» concepite con gli stessi criteri (tipo «Rockan»).

Le Contromisure Mine

Indipendentemente dalla valenza strategica o tattica che la mina possa rivestire a seconda delle situazioni, come normalmente avviene, la creazione della minaccia ha conseguentemente portato alla realizzazione delle relative contromisure. Tuttavia, per la particolare insidiosità di tale arma e la portata degli effetti che il suo impiego ne può comportare non è stato sufficiente sviluppare, nelle diverse epoche, sistemi e apparecchiature di cui dotare le navi (paramine, cilindri di assorbimento dell’esplosioni subacquee, impianti di compensazione magnetica, sistemi di silenziamento acustico, visori IR, sonar «mine avoidance») ma si è reso necessario creare delle navi dedicate esclusivamente al contrasto delle mine.

È così che sono nati i dragamine, piccole unità navali amagnetiche dotate di apparecchiature per il dragaggio meccanico e di apparecchiature a influenza magnetica e acustica volte a neutralizzare rispettivamente le mine ormeggiate e quelle da fondo. Successivamente, la crescente complessità e sofisticazione delle mine moderne ha fatto passare in secondo piano il dragamine per ragioni sia di efficacia sia di sicurezza e ha portato all’impiego dei cacciamine, anch’esse piccole unità amagnetiche con trascurabile segnatura acustica ed elevato «schock factor», in grado di scoprire le mine tramite apposito sonar per poi neutralizzarle in condizioni di sicurezza. Anche in questo campo l’Italia ha conseguito primati e traguardi sia nell’ambito tecnico specialistico e della dottrina tattica sia nel perseguimento di obiettivi di carattere potenzialmente strategico. Di sicura valenza strategica sono le capacità a tutt’oggi maturate dal comparto industriale specialistico. Se da un lato alla fine degli anni Novanta si sono ridotte le potenzialità dell’industria nazionale nel campo dei sensori acustici, dall’altro si sono invece consolidate le capacità in tutti i rimanenti settori, conseguendo un buon livello di indipendenza tecnologica. La cantieristica degli scafi di CMM in GRP (Glass Resistent Plastic) è, di fatto, una nicchia di eccellenza dell’industria italiana, così come gli impianti di compensazione magnetica, i veicoli filoguidati e il munizionamento di CMM trovano un vasto consenso sul mercato internazionale e le potenzialità per quanto at-

Il disegno rappresenta un battello che attraversa uno sbarramento di mine ormeggiate (autore).

tiene agli USV (Unmanned Surface Vehicles) sono promettenti. Un importante ruolo strategico è altresì rivestito dal MWDC (Mine Warfare Data Center) del Comando delle Forze di CMM dove, tramite un software realizzato dalla stessa componente CMM nazionale, viene monitorato lo stato del fondale delle principali rotte di accesso ai porti italiani e che attraversano i punti nevralgici del traffico navale nel Mediterraneo centrale, dando un importante contributo nell’esercizio della funzione strategica del Sea Control.

Nel campo della ricerca e sviluppo, il poligono per la guerra di mine del Comando delle Forze di CMM tutt’oggi costituisce una risorsa privilegiata per lo studio dell’interazione tra mina e bersaglio, che sta alla base della valutazione e progettazione dei nuovi sistemi per la guerra di mine. A tale risorsa, in passato, ha fatto riferimento anche la NATO per lo sviluppo del «mine jamming» (contromisura che agisce sulla logica di attivazione delle moderne mine da fondo).

Dal dopoguerra sino a oggi, molte sono state anche le intuizioni italiane che hanno portato utili contributi alle tattiche e alle tecniche specialistiche della NATO. Tra le principali: l’ideazione di una apparecchiatura per il dragaggio a influenza denominata «F.A.» che ottimizza l’effetto combinato dei componenti magnetici e acustici; la sperimentazione di un’apparecchiatura per il dragaggio meccanico a quota profonda; lo sviluppo di un procedura per la guida vettoriale dei dragamine su contatto sonar di mina mantenuto da un cacciamine («dragaggio d’intervento»); definizione di una dottrina sulla valutazione degli effetti della vegetazione subacquea sulla scoperta sonar delle mine.

Altre intuizioni, se da un lato non hanno portato a vere e proprie invenzioni, hanno comunque determinato la realizzazione di sistemi di contingenza che, all’occasione, hanno evidenziato sul campo la loro efficacia. È il caso dell’apparecchiatura di dragaggio a ramponi, utilizzata per le operazioni di bonifica delle acque dell’Alto adriatico dalle bombe di aereo, scaricate in mare, durante la crisi del Kosovo nel 1999.

Conclusioni

L’ingegnosità di tanti italiani ha contribuito in maniera determinante alle più importanti invenzioni e sviluppi sia tecnici sia procedurali, che hanno segnato la storia della guerra di mine, sia nel passato sia nei tempi più recenti. Di conseguenza, la storica conoscenza della minaccia ha consentito, negli ultimi decenni, il consolidamento di una solida capacità di contromisure mine che ha portato l’attuale componente di CMM nazionale a rivestire una posizione di primo piano nel Mediterraneo e un importante ruolo per sostenere la visione strategica della Forza armata.

Nel tempo, tanti ufficiali e ingegneri, con la loro appassionata inventiva e dedizione, hanno consentito la crescita di una cultura specialistica che tutt’oggi rappresenta una caratteristica connotazione degli esperti del settore. Tra tutti spicca, per l’inesauribile energia, la figura di Giovanni Emanuele Elia che, oltre a quanto già descritto, migliorò progressivamente la sua torpedine ad ancoramento automatico, brevettando anche il «Sistema di ancoraggio con scandaglio», l’«Ancora di sicurezza per torpedini» e i «Sistemi di accensione per torpedini», nonché progettò tanti altri dispositivi per armi subacquee tra cui una torpedine antisommergibile. Ma tanti altri, seppure meno conosciuti, con le loro intuizioni hanno fattivamente contribuito alle continue innovazioni che in alcuni casi sono state messe a sistema dallo stesso Elia per la realizzazione delle sue torpedini. Tra i principali: il sottotenente macchinista della riserva navale Tito Novero (6) a cui si deve la realizzazione di una ingegnosa torpedine con carica esterna, pienamente rispondente ai requisiti posti dalla VIII Convenzione dell’Aja del 1907; il tenente di vascello Carlo Susanna (7), inventore della «Torpedine Elettrica Automatica mod.1890», dotata di un congegno per la prevenzione dello scoppio per simpatia degli ordigni, che troverà ampia diffusione nei successivi modelli di mina; il capitano di vascello Morin (8) che progettò il «Ginnoto mod.1884».

Oggi, l’importante bagaglio storico e culturale ereditato dal passato, riveste un valore inestimabile e costituisce un sicuro riferimento per i futuri sviluppi della componente CMM nazionale che lasciano ulteriore spazio all’ingegnosità italiana. 8

NOTE

(1) Giovanni Battista Isacchi: nato a Reggio Emilia e vissuto nel XVI secolo. Ingegnere e scrittore militare del Ducato di Ferrara, Modena e Reggio che progettò la difesa di Ferrara dalle incursioni della Repubblica Marinara di Venezia nel delta del fiume Po’. (Ernesto Simion, L’adozione e l’evoluzione delle armi subacquee nella Marina Militare, in Rivista Marittima, aprile 1927, pp.445-485). (2) Federico Giambelli: nato a Mantova e vissuto tra il XVI e il VII secolo. Ingegnere e militare che lavorò in Spagna, Paesi Bassi spagnoli e Inghilterra. (Luigi Caretti, Armi Subacquee in Enciclopedia Italiana, vol.32/1936). (3) Giovanni Emanuele Elia: nato a Torino il 15/3/1866 e promosso guardiamarina nel 1885, lasciò la Regia Marina nel 1890 con il grado di tenente di vascello. Nel 1895 avviò la produzione di torpedini presso lo stabilimento della Pignone di Firenze di cui poi diventò il presidente. Per le tante invenzioni e brevetti fu insignito della Medaglia d’Oro di 1a classe al Valore di Marina. Negli anni Venti fu presidente della Società Geografica Italiana (Walter Polastro, «Elia», in Dizionario Biografico degli Italiani, vol.42/1933). (4) Girolamo Bollo: nato a Moneglia il 30/4/1866 e promosso guardiamarina nel 1884. Studioso di armi subacquee e di apparati elettrici, fu insignito della Medaglia d’Argento di 2a classe per lavori utili alla Marina. Prese parte alla guerra italo-turca (1911-12). Dopo l’invenzione di un primo modello di torpedine, gli fu conferita dal governo francese l’onorificenza della legione d’onore per meriti scientifici. Cessò il servizio attivo nel 1917 con il grado di viceammiraglio (Ernesto Simion, L’adozione e l’evoluzione delle armi subacquee nella Marina Militare, in Rivista Marittima, aprile 1927, pp.445-485). (5) Carlo Scotti: ufficiale della Regia Marina che si distinse per l’intensa attività di ricerca e sviluppo nel campo delle armi subacquee nell’ambito della quale, tra le altre cose, progettò e realizzò un modello di controtorpedine e una torpedine da blocco e difesa prodotta, in un numero ridotto di esemplari, dalla FIAT- San Giorgio nel 1913 (Luigi Caretti, «Armi Subacquee» in Enciclopedia Italiana, vol.32/1936). (6) Tito Novero: titolare di ditta della Spezia produttrice di attrezzature marinaresche nei primi anni del Novecento (P.P., Torpedini da blocco ad ancoramento automatico, in Rivista Nautica, 1908, pp.158). (7) Carlo Susanna: ufficiale della Regia Marina che si distinse per l’intensa attività di ricerca e sviluppo nel campo delle armi subacquee nell’ambito della quale perfezionò anche un «congegno a gavitello» per l’ancoramento automatico delle torpedini (Ernesto Simion, L’adozione e l’evoluzione delle armi subacquee nella Marina Militare, in Rivista Marittima, aprile 1927, pp.445-485). (8) Enrico Costantino Morin: nato a Genova il 5/5/1841, fu viceammiraglio e figura di spicco della Regia Marina. Venne nominato ministro della Marina, ministro degli Esteri e senatore della Repubblica. Nella sua carriera si occupò anche di studi e sperimentazioni e fu il comandante della nave scuola torpedinieri Caracciolo (Ernesto Simion, L’adozione e l’evoluzione delle armi subacquee nella Marina Militare, in Rivista Marittima, aprile 1927, pp.445-485).

BIBLIOGRAFIA

Ettore Bravetta, Sottomarini Sommergibili e Torpedini, Fratelli Treves editori, 1915. Walter Polastro, «Elia», in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 42/1933. Luigi Caretti, «Armi Subacquee», in Enciclopedia Italiana, vol.32/1936. Cristiano D’adamo; Regia Marina Italiana - Armi; 1996. Gruppo Insegnamento A/S; AN-3-46; Poligrafico Accademia Navale, 1982. Bruno Spadi; Le Mine Navali e di Sbarramento; ICSM articoli; 2017. Ernesto Simion, L’adozione e l’evoluzione delle armi subacquee nella Marina Militare, in Rivista Marittima, aprile 1927, pp.445-485. P.P., Torpedini da blocco ad ancoramento automatico, in Rivista Nautica, 1908, pp.158. Ministero della Marina, Manuale del Torpediniere, Roma 1939. Ministero della Marina, Prontuario-Indice delle Torpedini, Roma 1938.

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