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I rapporti tra la Svezia e la Nato dal dopoguerra a oggi
La tradizionale politica di neutralità seguita dalla Svezia si è profondamente modificata in questi ultimi anni in quanto la nuova politica estera di Mosca, improntata ad una linea più intraprendente ed assertiva, ha suscitato sempre più apprensione negli ambienti politici e militari svedesi. E con lo scoppio del conflitto in Ucraina l’adesione alla NATO, che in precedenza non incontrava l’approvazione unanime del mondo politico e della stessa opinione pubblica, oggi al contrario riscuote il favore del 51% degli svedesi.
La neutralità svedese nel dopoguerra e negli anni della «Guerra fredda»
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Le origini della neutralità svedese risalgono al XIX Secolo ma, a differenza dei casi di Austria e Svizzera, quella della Svezia non ha alcun fondamento legale non essendo espressa nella Costituzione o garantita da un trattato internazionale. Questa deriva essenzialmente da una scelta politica unilaterale del paese effettuata sulla base di elementi storici, strategici e geografici. Rimasta neutrale nel secondo conflitto mondiale, nell’immediato dopoguerra i dirigenti politici svedesi iniziarono a formulare un piano per la sicurezza nazionale in grado di assicurare la soluzione migliore per la Svezia, e questo con un opinione pubblica che in massima parte auspicava il ritorno alla neutralità esistente negli anni Trenta e davanti ad un Unione Sovietica che già nel 1945, con la richiesta inoltrata a Stoccolma di restituire i militari dell’Asse rifugiatisi in territorio svedese, aveva messo in evidenza quale fosse il suo atteggiamento verso il paese scandinavo (1). Sul piano militare, la Svezia non appariva comunque una nazione impreparata. Dopo la guerra, Stoccolma disponeva di un apparato militare di alto livello grazie al quale il paese possedeva la quarta aeronautica più ampia tra quelle esistenti oltre che una considerevole forza navale e terrestre. Era quindi evidente come nessun progetto di difesa della penisola scandinava non potesse escludere la partecipazione svedese data appunto l’importanza delle sue Forze armate.
La linea del governo di Stoccolma, e in particolare quella del ministro degli Esteri Östen Undén, era però di continuare con la politica di non allineamento, respingendo quindi ogni possibilità che il paese potesse schierarsi a fianco dell’occidente, una posizione che né il colpo di Stato attuato dalle forze comuniste a Praga nel 1948 né tantomeno il «Trattato Finno-Sovietico di Amicizia, Cooperazione e Mutua Assistenza ( FCMA )»sottoscritto poco dopo da Helsinki e Mosca contribuirono a mutare. Le ragioni della linea politica di neutralità assunta da Stoccolma andavano ricercate in una serie di ragioni, la più importante delle quali risiedeva proprio nella particolarità delle relazioni che si stavano delineando tra Finlandia e Unione Sovietica e l’influenza che queste avevano per la politica estera svedese. Secondo il governo di Stoccolma, un’eventuale adesione della Svezia alla NATO avrebbe probabilmente spinto Mosca a occupare la Finlandia o quantomeno a chiedere l’installazione nel suo territorio di basi militari, uno scenario questo che avrebbe portato ad un notevole aumento delle tensioni nella penisola scandinava. Dal lato diplomatico, va ricor-
dato comunque come tra il 1948 e il 1949 la Svezia aveva avviato dei negoziati per formare la «Scandinavian Defence Union», un progetto di alleanza, risoltosi poi in un insuccesso, che nelle intenzioni svedesi avrebbe dovuto costituire per Danimarca e Norvegia un modello alternativo di difesa rispetto alla NATO. Quando questi due paesi respinsero il progetto di Stoccolma, la stessa Svezia prese in considerazione l’idea di aderire all’Alleanza Atlantica, ma alla fine le considerazioni favorevoli al mantenimento di una politica di non allineamento prevalsero e, di conseguenza, la prospettiva di un ingresso nella NATO finì per uscire dall’agenda politica del paese. Come è stato sottolineato dalla gran parte dei commentatori, la decisione del governo svedese di seguire una politica di neutralità ha garantito al paese la più lunga fase di pace della sua storia, mentre sul piano politico la scelta di non aderire alla NATO è stata dettata essenzialmente dal timore che, nel caso un nuovo conflitto mondiale fosse esploso, la Svezia sarebbe stata obbligata a prendervi parte in quanto membra dell’Alleanza. Tuttavia, questa posizione di equidistanza non ha mai impedito a Stoccolma nel corso degli anni di tenere attivi contatti con la NATO in base a quella che gli analisti hanno definito come una politica di equilibrio tra «integrazione» nel sistema di difesa occidentale e «controllo» sull’azione di quest’ultimo così da rendere la scelta della neutralità più credibile agli occhi della popolazione (2). La politica adottata dalla Svezia all’inizio degli anni Cinquanta inizio però a incontrare delle critiche, anche se si trattava di settori minoritari del mondo politico.
A detta di questi, la scelta di Stoccolma di seguire una posizione di non allineamento era politicamente priva di senso, in quanto nell’ipotesi di un conflitto la Svezia sarebbe stata comunque tratta nelle ostilità, rimanendo inoltre al tempo stesso vulnerabile di fronte a un eventuale attacco sovietico in quanto priva di un apparato di deterrenza e della possibilità di richiedere l’assistenza militare della NATO. All’inizio degli anni Cinquanta l’atteggiamento dei paesi scandinavi verso l’Alleanza Atlantica appariva diversificato, andando a definire il quadro strategico che gli analisti avrebbero indicato con il termine di «equilibro nordico». All’interno di questo scenario, se la Svezia sembrava difatti orientata verso la neutralità, Danimarca e Norvegia, che pure formalmente avevano aderito alla NATO, tendevano analogamente a evitare una politica di confronto con Mosca dichiarandosi contrarie a ospitare sul loro territorio delle basi militari straniere proprio con l’obiettivo di perseguire una posizione intermedia tra la neutralità svedese e il pieno allineamento ai programmi dell’Alleanza Atlantica, una scelta questa resa comunque più agevole anche dal fatto che la NATO disponeva di una schiacciante superiorità militare la quale era in grado di assicurare la difesa della penisola scandinava (3). La posizione di neutralità e di sicurezza autonoma seguita dalla Svezia rimase incontrastata per i due decenni seguenti, anche se, in due occasioni, questa venne ridefinita a seconda delle esigenze politiche del momento, come accadde nel 1959 in seguito all’«affare Hjalmarson» e poi soprattutto negli anni Sessanta con l’avvio della «politica estera attiva» attuata dal Premier socialdemocratico Olof Palme (4). Così, se fino a quel momento la linea diplomatica seguita da Stoccolma si era basata sul realismo con l’obiettivo di tenere fuori il paese da un’eventuale conflitto e respingendo ogni pretesa di superiorità morale, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta la politica estera svedese assunse toni più radicali, come dimostrato dalle dure critiche espresse dallo stesso Palme agli Stati Uniti per la guerra del Vietnam, ma soprattutto impregnati di un idealismo anti-autoritario che suscitò forti critiche nelle capitali occidentali e portò a un allontanamento e a un sensibile raffreddamento delle relazioni tra la Svezia e la NATO (5). In seguito, un nuovo riorientamento della politica di sicurezza svedese si ebbe negli anni Ottanta, quando da un lato il Parlamento, in risposta a diverse intrusioni effettuate da minisommergibili sovietici, avviò un programma di difesa sottomarina (AWS) modificando anche in maniera più decisa le regola d’ingaggio per la Marina, dall’altro però, spinto dalla convinzione che l’uso della forza avrebbe avuto un ruolo sempre più ridotto sulla scena politica internazionale, approvò una progressiva riduzione degli effettivi militari che lasciò dal 1972 al 1986 il bilancio della difesa praticamente inalterato (6).
Sarà comunque con la fine della «Guerra fredda» che la politica estera e di difesa svedese subirà una profonda e completa trasformazione.
I rapporti con la NATO dal crollo dell’Unione Sovietica a oggi
All’inizio degli anni Novanta, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, dai documenti ufficiali rilasciati emerse come la Svezia, dietro la formula della neutralità, aveva comunque un accordo segreto per cui, in caso di conflitto, l’assistenza militare occidentale era ritenuta necessaria per la sicurezza del paese. In un simile scenario, il compito delle Forze armate di Stoccolma era essenzialmente quello di resistere finché le forze della NATO non fossero intervenute in appoggio di quelle svedesi. Di fatto, nonostante i diversi governi succedutisi dal 1949 in poi avessero sempre sostenuto il contrario, appariva dunque evidente come le Forze armate fossero state autorizzate a cooperare e a mantenere legami segreti con la NATO. Il nuovo quadro geopolitico che si stava delineando portò di conseguenza a un sostanziale cambiamento non solo della politica estera svedese ma anche dello stesso concetto di neutralità. Così nel 1992, il governo guidato da Carl Bildt avanzò quella che venne indicata come la «1992 Formula», un principio in base al quale la politica di neutralità, in caso di guerra, cessava di venire considerata come «inevitabile», diventando soltanto un’opzione tra le altre a disposizione. E alla luce di questo cambiamento, tre anni dopo la Svezia entrò a far parte dell’Unione europea aderendo inoltre come osservatore all’«Unione Europea Occidentale» e venendo coinvolta nei programmi «Partnership for Peace» e «Plannning and Review Process» della NATO. Tuttavia, nonostante questa importante ridefinizione della politica estera e di sicurezza, il consenso per un adesione a pieno titolo della Svezia nell’Alleanza Atlantica continuò a non incontrare l’appoggio del mondo politico, e questo per tutta una serie di ragioni. A favore della continuazione della politica di non allineamento, vi era in primo luogo la concezione, ormai radicata all’interno dell’opinione pubblica, che la neutralità aveva permesso alla Svezia di rimanere al di fuori dei conflitti esplosi nel XX Secolo, mentre sul piano militare la scelta di non entrare a far parte della NATO era ritenuta più consona alle esigenze del paese, in quanto avrebbe consentito alla Svezia una maggiore autonomia ed una politica estera più indipendente.
Infine, la maggior parte degli analisti riteneva come non esistessero immediati pericoli per la sicurezza svedese, dato che la prospettiva di un attacco russo non appariva prevedibile per almeno dieci anni e la stessa Russia non sembrava poi assolutamente in grado di condurre un’invasione della Polonia, della Finlandia o degli Stati baltici. Sul finire degli anni Novanta, era quindi opinione diffusa come la Svezia fosse capace di provvedere da sola alla sua difesa e che eventuali situazioni di crisi internazionali potessero essere risolte all’interno dell’ONU e dell’OSCE (7). Ma se fino agli inizi del XXI Secolo lo scenario per la Svezia appariva quantomai favorevole alla preservazione del non allineamento, dopo l’avvio da parte del Cremlino di una politica estera più intraprendente e dai tratti anti-occidentali anche l’atteggiamento di Stoccolma si è radicalmente mutato e nel paese si è incrementata la percezione che la Russia rappresenti una minaccia per la sicurezza nazionale, perce-
La corvetta della marina svedese HMS HELSINGBORG in visita a
Helsingborg (wikipedia.org).
zione ulteriormente aumentata dopo la crisi ucraina del 2014 (8). Davanti a questo nuovo scenario, i piani militari svedesi hanno ovviamente dovuto modificarsi ed adattarsi al mutato quadro strategico. Così sei anni fa il ministro della Difesa Peter Hultqvist e il capo di Stato Maggiore Micael Bydén hanno formulato il nuovo progetto di difesa, indicato come «Dottrina Hultqvist», il quale prevede il rafforzamento e il miglioramento delle capacità difensive del paese e una più stretta cooperazione regionale con la Finlandia, gli Stati Uniti e la NATO. E se nel 2014 il governo aveva già approvato il «Total Defence Service Act» con il quale si obbligava tutti i cittadini tra i 16 ed i 70 anni a contribuire alla difesa del paese nell’eventualità di una grave crisi internazionale, nel 2017 Stoccolma decideva di reintrodurre il servizio militare obbligatorio, mentre l’anno dopo lo stesso Bydén dichiarava come fosse necessario aggiungere al budget per la difesa almeno un Miliardo di € fino al 2021 altrimenti le già limitate capacità di difesa territoriale si sarebbero ulteriormente ridotte, aggiungendo inoltre che se si desiderava raggiungere un adeguato livello di deterrenza il bilancio avrebbe dovuto essere più che raddoppiato (9). Per gli analisti della NATO, l’ingresso della Svezia e della Finlandia nell’Alleanza Atlantica avrebbe sicuramente degli effetti politici e militari quantomai positivi. L’adesione di Stoccolma e Helsinki, che già cooperano attivamente con l’Alleanza (10), sul piano militare consentirebbe alla NATO di rafforzare la sicurezza della regione baltica permettendo inoltre un più stretto coordinamento tra i paesi scandinavi nel quadro della «Nordic Defence Cooperation» che fino a oggi non è stata invece priva di difficoltà, mentre lo stesso raggio d’azione della NATO si allargherebbe sensibilmente coprendo un’area che spazia dall’Atlantico al Baltico e dal mar Mediterraneo fino all’Artico.
Dal lato politico, la presenza della Svezia e della Finlandia contribuirebbe poi non solo a migliorare l’immagine della stessa NATO vista l’ottima reputazione dei due paesi e il loro tradizionale rispetto dei diritti umani e della democrazia, ma rappresenterebbe per gli altri paesi che aspirano a entrarne a far parte un segnale che l’Alleanza rimane disponibile ad accogliere nuovi membri.
Tra gli aspetti negativi dell’adesione della Svezia e della Finlandia vi sarebbe invece sicuramente un ulteriore peggioramento dei rapporti con Mosca, che con ogni probabilità aumenterebbe le pressioni contro i due paesi. E in proposito va ricordato come nel 2016 il ministro degli Esteri russo Lavrov aveva affermato che vi sarebbero state delle «conseguenze» se Helsinki e Stoccolma avessero aderito alla NATO (11), una posizione questa confermata due anni dopo anche dal ministro della Difesa Shoigu, secondo cui l’ingresso della Svezia e della Finlandia non avrebbe fatto altro che aumentare la sfiducia e distruggere l’attuale sistema di difesa costringendo Mosca a prendere delle contromisure (12). E nel Dicembre del 2018 il presidente della Commissione Esteri del Consiglio della Federazione — la Camera Alta del Parlamento russo — Konstantin
Kosachyov ribadiva come la Svezia avrebbe dovuto avere tutto l’interesse a rimanere neutrale in quanto così sarebbe rimasta al di fuori degli obiettivi militari di
Mosca, tra i quali sarebbe stata invece inclusa se avesse aderito all’Alleanza (13). Rimasta un argomento divisivo sia per l’opinione pubblica che per le forze politiche svedesi, la prospettiva dell’adesione della Svezia alla NATO con lo scoppio del conflitto in Ucraina è andata però guadagnando progressivamente consenso, tanto che il 18
Maggio il governo di minoranza guidato dalla Premier socialdemocratica Magdalena Andersson ha formalmente presentato la domanda di ammissione all’Alle-
EFFETTIVI DELLE FORZE ARMATE SVEDESI E SPESE PER LA DIFESA
*Include il personale impiegato nella logistica, negli staff e nei servizi d’intelligence. **Abolito nel 2010, il servizio militare è stato reintrodotto nel 2017. È previsto che ogni anno vengano arruolate 4.000 unità selezionate tra i cittadini maggiorenni di entrambi i sessi.
anza Atlantica (14). La reazione del Cremlino davanti al nuovo quadro strategico che si creerebbe nel Baltico con l’ingresso della Svezia e della Finlandia nella NATO è stata quantomai ambigua, in quanto se da un lato Putin ha affermato come l’adesione di Helsinki e Stoccolma non costituisce un «pericolo diretto» per la Russia, dall’altro ha però sottolineato che Mosca «risponderà» qualora venissero installate delle postazioni militari all’interno del territorio svedese e finlandese. Tuttavia per molti analisti le dichiarazioni di Putin starebbero a significare come il governo russo è disposto a tollerare l’ammissione dei due paesi nell’Alleanza Atlantica e che non dispiegherà delle truppe ai loro confini (15). Il percorso verso l’ingresso formale di Stoccolma ed Helsinki nella NATO presenta però ancora degli ostacoli, essendo richiesto il consenso di tutti i paesi membri perché l’adesione di Svezia e Finlandia possa essere completata. Difatti, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha espresso le sue riserve prospettando addirittura un suo eventuale veto in quanto accusando i due paesi non solo di dare ospitalità agli appartenenti del «Partito dei Lavoratori del Kurdistan» (PKK), una formazione considerata da Ankara come un gruppo terroristico, ma anche di aver imposto tre anni fa un embargo sulle forniture di armi alla Turchia dopo le azioni attuate dalle forze militari turche in Siria (16). 8
NOTE
(1) Il 2 Giugno 1945 l’Unione Sovietica richiese alla Svezia di estradare 150 militari estoni e lettoni appartenenti alle «Waffen SS» che erano stati arruolati dai tedeschi nel corso del conflitto. Il Parlamento svedese approvò la richiesta e il 25 Gennaio 1946 questi, insieme a 3.000 soldati tedeschi, furono imbarcati nel porto di Trelleborg e trasferiti in Unione Sovietica. Ma se i militari tedeschi erano da considerarsi «prigionieri di guerra», lo status degli estoni e dei lettoni era invece incerto, in quanto Mosca, ritenendoli cittadini sovietici, li considerava dei traditori avendo combattuto per la Germania e quindi punibili con la pena di morte. Anni dopo, la condotta svedese venne considerata «umiliante» dai commentatori, e nel 1994 alcuni superstiti vennero ricevuti a Palazzo Reale dove l’allora ministro degli Esteri di Stoccolma ammise che la consegna a Mosca era da considerarsi una palese ingiustizia. (2) Vedi su questo Magnus Petersson, Sweden and the Scandinavian Defence Dilemma, apparso su «Scandinavian Journal of History», Vol. 37, No. 2, Anno 2012, pagg. 221-229. (3) Sulla politica seguita dai paesi scandinavi verso la NATO nel dopoguerra vedi Nils Orvik, Scandinavia, NATO, and Northern Security, pubblicato su «International Organization», Vol. 20, No. 3, Estate 1966, pagg. 380-396. (4) L’«Affare Hjalmarson» esplose nell’estate del 1959 quando il governo Socialdemocratico decise di escludere dalla delegazione svedese all’ONU il leader conservatore Jarl Hjalmarson, in quanto la sua linea fortemente anti-comunista avrebbe potuto porre a rischio la neutralità di Stoccolma. In quell’occasione, il governo ribadì in modo incondizionato il rispetto della sua linea politica e negò categoricamente ogni contatto per un un’eventuale cooperazione in tempo di guerra con la NATO. (5) Su questo vedi Robert Dalsjö, The hidden rationality of Sweden’s policy of neutrality during the Cold War, pubblicato su «Cold War History», Vol. 14, No. 2, Anno 2014, pagg. 175-194. (6) Sulla politica estera e di sicurezza seguita dalla Svezia tra gli anni Sessanta e Ottanta vedi Paul M. Cole, Sweden’s Security Policy in the 1980s, pubblicato su «SAIS Review», Vol. 8, No 1, Inverno/Primavera 1988, pagg. 213- 227. (7) Sulla politica di sicurezza svedese negli anni Novanta e la posizione verso la NATO vedi Laura C. Ferreira-Pereira, Swedish Military Neutrality in the Post-Cold War: «Old Habits Die Hard», apparso su «Perspectives on European Security and Society», Vol. 6, No. 3, Anno 2005, pagg. 463-489. (8) Questo radicale mutamento nella politica svedese è riscontrabile dai rapporti della Commissione Difesa di Stoccolma, che se nel 2013 affermava come l’Europa attraversava uno dei momenti più pacifici della sua storia, un anno più tardi sottolineava invece che «….la politica di aggressione intrapresa dalla Russia costituisce il più grande pericolo per la sicurezza europea dal secondo conflitto mondiale….», aggiungendo come Mosca ambisse di nuovo a raggiungere uno status di grande potenza e per questo era pronta ad usare le minoranze russofone residenti nei paesi confinanti per raggiungere i suoi obiettivi in politica estera. Vedi su questo Barbara Kunz, Sweden’s NATO Workaround. Swedish security and defence policy against the backdrop of Russian revisionism, Institut Français des Relations Internationales (IFRI), Focus Stratégique No. 64, Novembre 2015. (9) Vedi su questo Charly Salonius-Pasternak, The Defence of Finland and Sweden. Continuity and Variance in Strategy and Public Opinion, Finnish Institute of International Affairs, Briefing Paper No. 240, Giugno 2018. (10) Il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg nel 2018 ha però dichiarato che, anche se Finlandia e Svezia intrattengono uno stretto rapporto di collaborazione con l’Alleanza, questa non ha alcun obbligo legale di assistenza militare verso Stoccolma in caso di grave crisi o di un conflitto, esistendo una simile obbligazione solo verso i paesi membri. Vedi su questo Nato has no legal duty to come to Sweden’s aid, says secretary-general, The Local, 15 Gennaio 2018. Il testo è consultabile al sito https://www.thelocal.se /20180115/nato-has-no-legal-duty-to-come-to-swedens-aid-says-secretary-general. (11) Su questo vedi Enlargement to the North? Sweden, Finland and NATO, Konrad Adenauer Stiftung, Berlino 2016. (12) Russia threatens response if Finland and Sweden join NATO, YLE News, 25 Luglio 2018. (13) Kosachyov suggests incentivizing European countries not entering NATO, Interfax, 18 Dicembre 2018. (14) In merito alla posizione delle forze politiche, i quattro partiti del centro-destra, i «Moderati», i «Liberali», il «Partito di Centro» e i «Cristiano-Democratici», si sono sempre dichiarati a favore di un ingresso della Svezia nella NATO, mentre nel centro-sinistra i Socialdemocratici, che in passato si erano opposti all’ingresso di Stoccolma nell’Alleanza Atlantica, ora hanno invece appoggiato la richiesta di adesione, anche se una parte dei suoi membri continua a esprimere delle riserve sostenendo come il paese dovrebbe mantenere il suo non allineamento e non entrare quindi a far parte della NATO. Contrari all’ingresso della Svezia restano poi i Verdi e il «Partito della Sinistra», la formazione degli ex-comunisti, che in passato ha auspicato l’interruzione di ogni forma di cooperazione con la NATO e ora sostiene come la proposta di adesione dovrebbe essere sottoposta al giudizio degli elettori attraverso un referendum popolare. Riguardo infine ai «Democratici Svedesi», il partito di estrema destra anti-immigrazione, questo in passato si era detto contrario all’ingresso nella NATO pur sostenendo l’incremento del bilancio per la difesa ma si è ora dichiarato favorevole all’ingresso della Svezia nell’Alleanza vista anche la richiesta di adesione presentata dalla Finlandia. L’atteggiamento degli elettori dei diversi partiti svedesi in merito all’adesione alla NATO è consultabile al sito https://www.statista.com/statistics/1293392/survey-perception-nato-membership-sweden-political-party/. (15) Putin signals acceptance of Finland and Sweden joining Nato, Financial Times, 16 Maggio 2022. (16) Il governo di Ankara ha avanzato alla Svezia cinque richieste, tra le quali la cessazione di ogni sostegno politico e finanziario al PKK e alle milizie curde attive in Siria unitamente alla fine dell’embargo sulla vendita di armi alla Turchia. Vedi su questo Turkey demands ‘concrete steps’ to back Nordics’ NATO bids, Associated Press, 25 Maggio 2022.
Marco Gemignani
Laureato con la lode presso l’Università di Pisa con una tesi in «Storia e tecnica militare» (1994), ha quindi conseguito con successo il Dottorato di ricerca in «Storia militare» presso l’Università di Padova e infine il post-dottorato di ricerca in «Scienze storiche e filosofiche» presso l’Università di Pisa. Dopo essere stato «cultore della materia» (dal 1994 al 1998) presso la cattedra di «Storia e tecnica militare» nell’Università di Pisa, è stato nominato docente di «Storia Navale» presso l’Accademia navale di Livorno (dal 1996 a oggi). È consigliere dello Stato Maggiore della M.M. per la pubblicistica navale; è consulente del Museo storico-navale di Venezia e del Museo tecnico-navale della Spezia; è membro del Comitato scientifico del Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della M.M., nonché membro ordinario del Comitato consultivo dello stesso Ufficio Storico; membro del Comitato scientifico della Rivista Marittima. Autore di circa centocinquanta pubblicazioni in Italia e all’estero, fra le quali otto opere monografiche di storia navale, nonché di alcune voci edite nel The Oxford Encyclopedia of Maritime History; collabora come autore con il Dizionario biografico degli Italiani (Treccani); come relatore, ha presentato proprie relazioni in oltre un centinaio di convegni.
Introduzione
Molte importanti Marine cominciarono ad annoverare fra il loro naviglio i battelli subacquei fra la fine dell’800 e l’inizio del 900. Tali unità inizialmente erano contraddistinte da notevoli deficienze per quello che concerneva il loro armamento, la quota operativa, la velocità e l’autonomia sia in superficie che in particolare in immersione.
Pure per il sommergibile, come quasi per qualsiasi mezzo di nuova ideazione, parallelamente alla sua immissione in servizio si svilupparono gli studi per incrementarne la sicurezza, per migliorare le prestazioni e per determinare quale avrebbe potuto essere la più valida dottrina d’impiego in una futura guerra.
Al contrario risultavano quasi del tutto inesistenti le ricerche per individuare le contromisure per sconfiggere i battelli subacquei, specialmente quando operavano sottacqua e pertanto, allorché il 28 luglio 1914 cominciò la Grande guerra, già dalle prime settimane di ostilità i sommergibili della Kaiserliche Marine germanica si misero in evidenza cogliendo importanti successi contro navi da guerra avversarie nel Mare del Nord e nella Manica. (1)
Tuttavia da lì a breve accadde un avvenimento che avrebbe cambiato per sempre la guerra sul mare, mostrando quanto i battelli subacquei avrebbero potuto in-
Il viceammiraglio Paolo Thaon di Revel, capo di Stato Maggiore della Marina dal 1° aprile 1913 all’11 ottobre 1915 e poi dal 9 febbraio 1917 fin oltre la fine della Grande Guerra, assommando a tale carica anche quella di comandante in capo delle forze navali mobilitate (USMM).
fluenzare l’andamento di un conflitto insidiando permanentemente il traffico mercantile avversario e ricoprendo in misura ancora più efficace il compito che per secoli avevano svolto le navi corsare. Infatti il 20 ottobre 1914 il sommergibile tedesco U 17 del tenente di vascello Johannes Feldkirchner intercettò a 14 miglia a ovest/sud-ovest dal porto norvegese di Skudeneshavn il vecchio piroscafo britannico Glitra, varato nel 1882 come Saxon Prince. Il mercantile era salpato da Grangemouth con destinazione Stavanger con un carico di ferro, carbone e olio e il comandante Feldkirchner, dopo averlo fermato senza difficoltà, vi inviò a bordo quattro suoi uomini i quali constatarono che la nave trasportava merci che potevano essere considerate di contrabbando. I tedeschi permisero all’equipaggio britannico di abbandonare il piroscafo e di allontanarsi con le scialuppe, dopodiché aprirono le valvole Kingston e lo fecero affondare, dimostrando come poteva essere facile fermare all’improvviso un mercantile, ispezionarlo e poi distruggerlo senza far correre grossi rischi al sommergibile. (2)
Quest’ultimo in effetti, per le sue ridotte dimensioni non era molto visibile durante la navigazione in emersione e, una volta che si fosse immerso, non era più individuabile se non quando alzava il periscopio oppure al momento del lancio dei siluri che, essendo questi ultimi muniti di motori ad aria compressa, lasciavano una scia di bolle che, salendo in superficie, svelava la posizione del battello. Inoltre all’epoca i sommergibili, quando agivano in immersione, non dovevano temere altro tipo di offesa da parte del nemico se non le mine e, se stavano in affioramento, la possibilità di essere speronati.
Poco dopo gli eclatanti risultati colti dai sommergibili tedeschi, anche i loro alleati austro-ungarici cominciarono a ottenerne alcuni nel bacino del Mediterraneo, sia pure in maniera assai più sporadica anche per il minor numero di battelli subacquei che avevano a disposizione, per le loro caratteristiche, per l’inaffidabilità dei siluri impiegati e per la scarsezza di bersagli. Il primo successo avuto dai sommergibili della Kaiserliche und Königliche Kriegsmarine asburgica fu il danneggiamento il 21 dicembre 1914, con uno dei due siluri lanciati dall’U 12 del tenente di vascello Egon Lerch, della moderna corazzata di tipo monocalibro Jean Bart, che in quel momento serviva come unità di bandiera del viceammiraglio Augustin Boué de Lapeyrère, comandante della Prima Armata Navale francese. (3)
Nei mesi successivi, anche in conseguenza delle operazioni condotte dai britannici e dai francesi all’imboccatura dei Dardanelli per costringere alla resa l’Impero Ottomano che nel novembre del 1914 si era schierato al fianco della Germania e dell’Austria-Ungheria, la Marina tedesca inviò nel Mediterraneo propri sommergibili. I primi di essi, l’UB 7 e l’UB 8 del tipo di piccola crociera armati di siluri, furono trasferiti nella primavera del 1915 tramite ferrovia a Pola smontati, dove vennero riassemblati dal personale germanico inviato a operare nella più importante base della Marina asburgica. Quasi in contemporanea i tedeschi iniziarono il trasferimento anche dei battelli di maggiori dimensioni, che giungevano nel Mediterraneo in navi-
gazione superando, senza grosse difficoltà, lo Stretto di Gibilterra. Fra di essi il primo che giunse nell’antico Mare Nostrum fu l’U 21 del capitano di corvetta Otto Hersing che, dopo essersi rifornito a Cattaro, fece rotta verso l’Egeo dove affondò un paio di corazzate britanniche di tipo predreadnought, la Triumph il 25 maggio e la Majestic due giorni dopo. (4)
Nel frattempo il governo italiano, retto da Antonio Salandra, dopo aver fatto firmare il cosiddetto Patto segreto di Londra il 26 aprile 1915 con il quale si impegnava a entrare nel conflitto a fianco dell’Intesa entro un mese, il 3 maggio aveva denunciato la Triplice Alleanza della quale faceva parte dal 1882 e che la legava alla Germania e all’Austria-Ungheria e il successivo 24 maggio aveva dichiarato guerra a quest’ultima. (5)
L’Italia, all’epoca come oggi, basava buona parte della sua attività economica sull’importazione di materie prime dall’estero e sull’esportazione di semilavorati o prodotti finiti via mare, attività che veniva svolta per poco più della metà del tonnellaggio dalla propria Marina Mercantile che, al 31 dicembre 1914, quindi pochi mesi prima dell’ingresso nel conflitto, contava quattromilasettecentosettantatre velieri e novecentoquarantanove piroscafi (dei quali settecentocinquantadue con scafo metallico e centonovantasette in legno) che assommavano, rispettivamente, a 348.959 e a 933.156 tonnellate di stazza netta. (6)
Nel 1914 il movimento delle merci nei porti italiani ascese a 21.483.605 tonnellate per l’importazione e a 7.674.771 per l’esportazione e il 54,4% di tali beni fu imbarcato su piroscafi e velieri nazionali. Fu calcolato che con l’ingresso in guerra dell’Italia vi sarebbe stata una diminuzione dell’importazione di beni voluttuari ma sarebbero aumentati quelli che servivano per lo sforzo bellico, per cui complessivamente venne stimato che il nostro paese avrebbe avuto necessità di circa 18.500.000 tonnellate di rifornimenti l’anno (specialmente carbone, cereali e metalli) per cui anche in queste condizioni la sola Marina Mercantile italiana non avrebbe potuto da sola garantire l’approvvigionamento del paese, sebbene potenziata dal naviglio commerciale nemico che sostava nei porti nazionali che sarebbe stato requisito all’apertura delle ostilità. (7) Pertanto sarebbe stato necessario confidare sul supporto dei piroscafi e dei velieri degli alleati, impiegare maggiormente i collegamenti ferroviari e comunque difendere
Il sommergibile posamine tedesco UC 14, iscritto nei quadri del naviglio militare austro-ungarico come U 18 e che causò serie perdite al naviglio militare
e mercantile dell’Intesa nel Mediterraneo. Trasferito negli ultimi mesi del 1916 alla U-Flotille Flandern che operava nel Mare del Nord e nella Manica, per un beffardo scherzo del destino sarebbe affondato il 3 ottobre 1917 davanti alla propria base di Zeebrügge al rientro da una missione a causa dell’esplosione accidentale di una sua mina che era rimasta incastrata a bordo nel pozzo che la conteneva (Collezione Fulvio Petronio).
nel miglior modo possibile i mercantili, specialmente dall’insidia dei sommergibili avversari.
I primi provvedimenti per la protezione del traffico mercantile italiano
Il capo di Stato Maggiore della Regia Marina, il viceammiraglio Paolo Thaon di Revel, nella primavera del 1915 in vista del prossimo ingresso nel conflitto dell’Italia, ben conscio della necessità di preservare la flotta mercantile italiana dal pericolo rappresentato dai battelli subacquei, fece redigere un elenco di disposizioni che si giudicava valide per parare tale minaccia e lo inviò alla Direzione generale della Marina Mercantile affinché, a sua volta, lo trasmettesse ai capitani di porto i quali, in forma riservata, lo avrebbero comunicato ai comandanti dei piroscafi italiani. (8)
Queste prescrizioni successivamente furono raccolte in una pubblicazione intitolata Norme ai Capitani delle navi mercantili ed a tutti i naviganti per premunirsi contro attacchi di sommergibili, distribuita dal luglio del 1915 e in seguito più volte aggiornata in base alle esperienze pratiche.
Nella premessa iniziale dell’opuscolo era riportato che quest’ultimo era stato dato alle stampe perché i bat-
telli subacquei dello schieramento avversario avevano cominciato ad attaccare anche i mercantili dell’Intesa e quindi era stato ritenuto opportuno informare i loro comandanti sulle tattiche impiegate dai sommergibili in modo da metterli in condizione di contromanovrare per fuggire o comunque per far fallire l’attacco. Poiché i sommergibili austroungarici e quelli tedeschi avrebbero operato nel Mediterraneo appoggiandosi prevalentemente alle basi asburgiche situate nell’Adriatico, i vertici della Marina Il piroscafo italiano RE UMBERTO mentre sta affondando spezzato in due il 4 dicembre 1915 per aver urtato una delle mine lasciate dall’UC 14 fra l’Isola di Saseno e la Penisola di Karaburun all’ingresso della italiana, di quella britannica e di quella francese si accordarono Baia di Valona (Museo Storico della Terza Armata). per creare uno sbarramento nel Canale di Otranto, tratto di mare fra la costa pugliese e quella albanese che, nella parte più ampia, era largo circa 40 miglia e che i battelli avversari erano obbligati ad attraversare all’inizio e alla fine delle loro missioni. Per vigilare il Canale i britannici all’inizio inviarono sessantacinque piropescherecci, chiamati drifter, su ognuno dei quali l’Arsenale di Taranto installò un cannone da 57 millimetri. Il 26 settembre 1915 essi cominciarono il pattugliamento, operando in gruppi di sei unità comandati da un ufficiale. Ogni drifter rimorchiava una rete indicatrice leggera di acciaio con maglie parecchio larghe, lunga circa 1.000 metri e alta 20; questa rete era formata da più sezioni di un centinaio di metri l’una, collegate fra loro in maniera tale che, se un sommergibile incappava in una di esse, questa si separava dalle altre e veniva trascinata dal battello subacqueo, la cui posizione era rivelata dai gavitelli galleggianti di vetro e dai fuochi indicatori montati sulle reti. Talvolta la rete era lasciata sospesa ai gavitelli che servivano a mantenere in affioramento la sua relinga superiore e il piropeschereccio la sorvegliava navigando nelle vicinanze. I gruppi dei drifter stavano a 3 miglia di distanza uno dall’altro e le unità di ognuna delle formazioni si mantenevano a un
Il cacciatorpediniere INTREPIDO, molto attivo in Adriatico nei primi mesi del conflitto, affondato anch’esso il 4 dicembre 1915 per aver urtato una mina depositata dall’UC 14 al largo di Valona (U.S.M.M.).
Il viceammiraglio Camillo Corsi, ministro della Marina dal 30 settembre 1915, che si trovò ad affrontare l’incremento delle perdite di naviglio militare e specialmente mercantile causato dai sommergibili avversari (U.S.M.M.).
intervallo tale da evitare che le reti si impigliassero l’una nell’altra.
Se un sommergibile avesse urtato una rete, assai probabilmente sarebbe stato obbligato a emergere, dove avrebbe trovato i drifter pronti a sparargli addosso con i loro cannoni, mentre se fosse rimasto sottacqua, sarebbe stato attaccato con le prime rudimentali bombe di profondità di cui questi piropescherecci erano muniti.
Tuttavia questo sbarramento non era molto efficace e il 30 settembre vi fu la prima perdita di un piroscafo italiano, quando il Cirene di 3.236 tonnellate di stazza lorda (tls) fu affondato a cannonate nelle acque dell’Isola di Koufonìsion, in Egeo, dall’U 39 tedesco comandato dal tenente di vascello Walther Forstmann, alla sua prima missione in Mediterraneo.
Occorre evidenziare che l’Italia in quel periodo non era in guerra contro la Germania (le ostilità sarebbero iniziate ufficialmente nell’agosto del 1916) ma quest’ultima, per appoggiare l’Austria-Ungheria contro la nuova avversaria, aveva disposto che alcuni suoi sommergibili con i propri equipaggi fossero iscritti fittiziamente nel quadro del naviglio militare della Kaiserliche und Königliche Kriegsmarine asburgica, cosicché potessero operare ai danni del naviglio militare e mercantile italiano. (9)
Nei mesi successivi, di fronte all’aumento delle perdite, le autorità navali italiane cominciarono seriamente a sospettare che esse non potessero essere tutte causate dai battelli austro-ungarici, ma che alzando la bandiera asburgica, se costretti a venire a galla, in realtà operassero unità subacquee tedesche. (10)
Il viceammiraglio Camillo Corsi, nuovo ministro della Marina dal 30 settembre 1915, era convinto di ciò e così, per eliminare qual-
siasi dubbio a livello operativo, dette disposizione che a partire dal 19 dicembre i comandanti delle navi italiane allorché avvistavano un sommergibile, a meno che non lo identificassero come appartenente alle Potenze dell’Intesa, dovevano considerarlo ostile, anche se avesse alzato la bandiera tedesca, situazione che poteva essere considerata uno stratagemma, ovvero una ruse de guerre.
I continui attacchi al traffico mercantile da parte dei sommergibili austro-ungarici e specialmente germanici fecero nascere la necessità di una più stretta collaborazione fra le principali Marine alleate impegnate nella protezione del traffico e così fu organizzato un incontro a Parigi fra i loro rappresentanti. Data la complessità delle questioni da affrontare, le riunioni si tennero dal 29 novembre al 3 dicembre 1915 e vi parteciparono per la Regia Marina il capitano di vascello Mario Grassi, per la Royal Navy il parigrado Percy Grant e per la Marine Nationale il viceammiraglio Pierre Alexis Ronarc’h.
Gli accordi presi e ben presto concretati riguardarono la suddivisione del Mediterraneo in diciotto zone che vennero ripartite fra le tre Marine, le quali dovevano cercare di pattugliare le rotte sulle quali venivano instradati i mercantili per spostarsi da un porto all’altro, la necessità di dotare di armamento i piroscafi, di limitare al minimo i viaggi per il trasferimento di truppe e materiali bellici, caricando al massimo i mercantili che dovevano navigare in gruppi di due o tre unità per potersi mutualmente soccorrere in caso di necessità. Inoltre fu stilato uno schema di servizio interalleato per le comunicazioni radiotelegrafiche per segnalare gli avvistamenti e gli attacchi effettuati dai sommergibili; fu stabilito che se un mercantile individuava un battello subacqueo avrebbe trasmesso «ALLO» ripetuto cinque volte, seguito dalle coordinate, dal gruppo orario e dal nome della nave che stava inviando il messaggio, mentre se l’unità fosse stata attaccata, il piroscafo avrebbe inviato il segnale «SOS SOS SOS SSSS» ripetuto tre volte e, come il primo tipo di messaggio, seguito dalle coordinate, dal gruppo orario e dal nome della nave attaccata, che era stata costretta a fermarsi e necessitava di soccorso. Inoltre, poiché all’epoca praticamente tutti i velieri e oltre la metà dei piroscafi non erano muniti di impianti per le radiocomunicazioni, furono convenuti i segnali che i semafori alleati posizionati lungo le coste avrebbero alzato per informare i mercantili che transitavano nelle acque a essi antistanti dell’eventuale presenza di battelli subacquei avversari.
Il viceammiraglio Corsi, ben deciso a rendere esecutive le decisioni prese a Parigi, nello stesso mese di dicembre fece convocare presso il Ministero della Marina a Roma i rappresentanti delle società armatrici italiane per informarli circa la necessità di installare sulle proprie navi le bocche da fuoco messe a disposizione dalla Forza Armata unitamente ai cannonieri e questa sua azione fece sì che entro un anno circa duecento piroscafi nazionali fossero armati con pezzi di artiglieria, i cui calibri più diffusi erano il 57, il 76 e il 102 millimetri.
In considerazione dell’importanza di coordinare gli sforzi italiani, britannici e francesi per la protezione del traffico, nei mesi successivi si tennero altre due riunioni di alto livello. La prima di esse si svolse a Malta (dal 2 al 9 marzo 1916) nel corso della quale fra le varie decisioni prese vi fu quella di proseguire l’uso delle rotte pattugliate che dovevano essere percorse dai mercantili, che esse fossero mantenute segrete e, se possibile, che corressero parallelamente a una decina di miglia dalla linea di costa dei paesi alleati, mentre era bene allontanarle dai litorali greci e spagnoli.
La seconda conferenza fu tenuta a Londra il 23 e il 24 gennaio 1917 e per la Regia Marina vi parteciparono il viceammiraglio Corsi, il contrammiraglio Paolo Marzolo, sottocapo di Stato Maggiore, i quali dopo aver evidenziato il progressivo aumento delle perdite dei mercantili dell’Intesa e neutrali nel bacino del Mediterraneo (nel secondo semestre del 1916 ben duecentocin-
Il contrammiraglio Paolo Marzolo, sottocapo di Stato Maggiore della Marina (U.S.M.M.).
Il piroscafo PRINCIPE UMBERTO, trasformato in trasporto truppe, silurato dal sommergibile austro-ungarico U 5 la sera dell’8 giugno 1916 mentre stava
trasportando dall’Albania in Italia alcuni reparti del 55° Reggimento Fanteria. A causa del suo rapido affondamento perirono quasi duemila militari (Museo Storico della Terza Armata).
quantasette navi, delle quali ottanta velieri e centoquarantacinque piroscafi alleati e cinque velieri e ventisette piroscafi appartenenti a paesi neutrali) sostennero che il sistema delle rotte pattugliate non stava dando buoni risultati e quindi era opportuno adottare quello dei convogli scortati. La Regia Marina pertanto scelse tale soluzione per i collegamenti tra i porti del Mar Ligure e Gibilterra, mentre per le altre destinazioni si mantenne il sistema delle rotte pattugliate, che dove possibile furono tracciate più a ridosso della costa cosicché i mercantili fossero eventualmente attaccati solo da un lato e in più si raccomandò ai loro comandanti di navigare di notte, perché ci si era resi conto che raramente i sommergibili agivano con il buio.
La creazione dell’Ispettorato per la Difesa del Traffico Marittimo Nazionale e la sua organizzazione centrale
Nello stesso periodo nel quale si stava svolgendo l’appena citata conferenza di Londra, le autorità militari e politiche della Germania e dell’Austria-Ungheria si stavano accordando per scatenare una terza offensiva con i sommergibili contro il naviglio mercantile dell’Intesa che, annunciata ufficialmente il 31 gennaio 1917, iniziò il giorno successivo. (11)
Il governo italiano e i vertici della Regia Marina, ben consci di tale pericolo e della necessità di coordinare nel miglior modo possibile anche a livello nazionale la protezione dei mercantili che portavano i rifornimenti vitali per la sopravvivenza della popolazione e per la continuazione dello sforzo bellico al fianco dell’Intesa, decisero l’istituzione di un organismo apposito, basandosi sul Reparto Antisommergibili dell’Ufficio del Capo di Stato Maggiore della Marina, che fino ad allora si era occupato di tale attività. (12) Il nuovo ente fu denominato Ispettorato per la Difesa del Traffico Marittimo Nazionale con il Decreto Luogotenenziale n. 332 del 27 febbraio 1917 firmato dall’ammiraglio Tomaso di Savoia duca di Genova. (13)
L’ente fu creato su proposta del ministro della Marina, il viceammiraglio Camillo Corsi, di concerto con il ministro dell’Interno Vittorio Emanuele Orlando, con quello della Guerra, il generale Paolo Morrone, con quello di Grazia e Giustizia e dei Culti, l’avvocato Ettore Sacchi, e con quello dei Trasporti Marittimi e Ferroviari, istituito recentemente con Regio Decreto n. 756 del 22 giugno 1916, il banchiere Enrico Arlotta.
Nel medesimo provvedimento legislativo era stabilito che i servizi riguardanti la difesa contro i sommergibili che insidiavano il traffico marittimo erano riuniti e posti alle dipendenze dirette di un ufficiale ammiraglio che avrebbe avuto il titolo di ispettore per la Difesa
Il battello austro-ungarico U 5, che prima di affondare il PRINCIPE UMBERTO aveva colato a picco l’incrociatore corazzato francese LÉON GAMBETTA al largo di Santa Maria di Leuca il 27 aprile 1915 e il sommergibile italiano NEREIDE vicino all’Isola di Pelagosa il 5 agosto successivo (Collezione Fulvio
Petronio).
del Traffico Marittimo Nazionale, il quale avrebbe preso tutti i provvedimenti e compiuto le operazioni necessarie per salvaguardare il movimento dei mercantili. Il primo che resse tale incarico fu il contrammiraglio Giuseppe Mortola dall’8 marzo 1917 fino al 21 febbraio 1918, quando fu sostituito dal parigrado Pio Lobetti Bodoni che lo resse fin dopo la cessazione delle ostilità. (14)
L’ammiraglio, attenendosi agli ordini impartiti dal capo di Stato Maggiore della Marina, poiché comunque il nuovo ente era sottoposto gerarchicamente all’Ufficio del Capo di Stato Maggiore della Marina, avrebbe pertanto sovrinteso alla predisposizione, alla distribuzione e all’impiego dei mezzi di difesa e di offesa navali, subacquei, aerei e terrestri per contenere le azioni dei sommergibili avversari e avrebbe stabilito i cosiddetti porti e punti di rifugio. Egli avrebbe poi continuato l’attività per dotare di un armamento efficace le unità mercantili italiane così da metterle in grado di fronteggiare i battelli subacquei e per proporre un premio in denaro per le navi che avessero affondato o danneggiato uno di questi ultimi. (15)
L’ispettore avrebbe dovuto sottoporre alle superiori autorità eventuali schemi per sottoscrivere accordi con i paesi neutrali riguardanti il trattamento che essi avrebbero riservato ai mercantili italiani dotati di armamento difensivo allorché avessero attraversato le loro acque territoriali e infine a lui sarebbe spettato il compito di emanare le disposizioni per disciplinare la navigazione dei mercantili nella maniera che avrebbe ritenuto più opportuna al fine di garantirne la tutela. Egli, per ottenere ciò, avrebbe potuto contare sul concorso dei prefetti e delle locali autorità sia civili che militari per la sollecita esecuzione delle sue disposizioni.
Infine, nel citato Decreto Luogotenenziale, era riportato che il Ministero della Marina avrebbe provveduto con un apposito decreto all’unificazione e al riordinamento degli uffici che sarebbero confluiti nel nuovo Ispettorato.
Il viceammiraglio Corsi, ben consapevole dell’importanza di quest’ultimo organismo, con il Decreto Ministeriale del 23 marzo 1917 stabilì che esso fosse strutturato su una segreteria e su tre reparti.
La segreteria, retta da un tenente di vascello, si sarebbe occupata delle pratiche generali, avrebbe conservato l’archivio ordinario e quello con la documentazione classificata, avrebbe mantenuto la corrispondenza con gli addetti navali delle Marine alleate e il carteggio ri-
guardante eventuali proposte di invenzioni per migliorare la lotta antisommergibile, si sarebbe occupata della compilazione di pubblicazioni e di disegni e della gestione del personale.
Il primo reparto, comandato dall’ufficiale dell’Arma di Artiglieria del Regio Esercito distaccato presso l’Ufficio del Capo di Stato Maggiore della Marina, avrebbe avuto il compito di sovrintendere al servizio dei cannoni sistemati nei porti e nei punti di rifugio in base alle direttive ricevute dall’ispettore per la Difesa del Traffico Marittimo Nazionale e di mantenere i contatti con i vari enti dell’Esercito per favorire i provvedimenti di loro competenza.
Il secondo reparto, posto agli ordini di un ufficiale superiore di Marina del Corpo dello Stato Maggiore coadiuvato da un tenente di vascello del Ruolo Normale o di Complemento, si sarebbe occupato degli studi relativi al convogliamento del traffico, alle pratiche riguardanti la condotta delle navigazioni comprendenti le rotte consigliate e le pubblicazioni inerenti, la raccolta delle informazioni concernenti l’attività dei sommergibili avversari (attacchi da essi effettuati ed eventuali relativi affondamenti), loro avvistamenti e sospetti tentativi di rifornirli in maniera illegale e scoperta di mine, eventi che sarebbero stati riportati in appositi bollettini redatti con scadenza giornaliera, mensile e semestrale. Inoltre tale reparto avrebbe redatto verbali, questionari e impiantato pratiche concernenti il personale della Marina Mercantile.
Il terzo reparto, anche questo al comando di un ufficiale superiore dello Stato Maggiore assistito da un tenente di vascello del Ruolo Normale o di Complemento, era quello maggiormente operativo. Esso infatti doveva sovrintendere all’organizzazione dei convogli, a stabilire le date di partenza e di arrivo, all’assegnazione delle scorte e all’installazione a bordo dei mercantili dei pezzi di artiglieria, degli apparati fumogeni, di quelli radiotelegrafici e in seguito anche dei paramine; aveva il compito di gestire le telecomunicazioni sia in mare che a terra inerenti i segnali di soccorso; garantire la difesa del traffico impiegando caccia, torpediniere, mas, navi pattuglia, sommergibili e aeromobili; sovrintendere alla protezione dei porti tramite ostruzioni fisse e occasionali, e rastrellamenti delle acque a essi antistanti, e infine assicurare la vigilanza costiera impiegando distacca-
Le forze subacquee della Kaiserliche und Königliche Kriegsmarine asburgica, oltre ad essere potenziate dall’iscrizione nei suoi quadri di sommergibili
tedeschi, riuscirono a rimettere a galla e far entrare in servizio anche il sommergibile francese CURIE, affondato mentre stava cercando di penetrare dentro la base di Pola il 20 dicembre 1914. Esso operò sotto bandiera austro-ungarica con la nuova designazione di U 14 e, fra le unità che affondò, vi fu anche il vapore MILAZZO da 11.477 tsl, una delle navi più grandi della flotta mercantile italiana, silurato il 29 agosto 1917 a 250 miglia a est di Malta
(Collezione Fulvio Petronio).
menti di vedette del Regio Esercito e i necessari collegamenti telefonici e telegrafici.
Nel medesimo Decreto Ministeriale era stabilito che l’ispettore per la Difesa del Traffico Marittimo Nazionale si sarebbe avvalso della collaborazione del capo del Terzo Reparto dell’Ufficio del Capo di Stato Maggiore per ciò che atteneva l’installazione dell’armamento sui mercantili e le notizie sui loro movimenti, mentre per quello che riguardava le questioni di natura legale e diplomatica concernenti l’attività dei sommergibili avversari, l’applicazione delle sanzioni disciplinari ma anche penali a carico dei comandanti e dei membri degli equipaggi delle unità mercantili italiane, la trasmissione dei verbali al Ministero dei Trasporti Marittimi e Ferroviari per la cancellazione delle matricole delle navi perse e la compilazione delle statistiche dei mercantili nazionali, alleati e neutrali affondati avrebbe potuto contare sull’assistenza del personale dell’Ufficio del Capo di Stato Maggiore competente nei vari settori. (16)
La giurisdizione dell’Ispettorato e il suo ordinamento periferico
Questo ente, al momento in cui fu istituito, ebbe come area assegnata quella che andava dalla frontiera fra l’Italia e la Francia fino a Punta Stilo in Calabria, comprendendo la Sardegna e la Sicilia e le altre isole minori; da Punta Stilo iniziava il settore affidato al Comando in capo del Dipartimento marittimo di Taranto e al Comando in capo dell’Armata.
La struttura periferica dell’Ispettorato si basava, per quello che concerneva l’esecuzione delle sue direttive generali, per il controllo diretto sui movimenti dei convogli e per l’approntamento e l’impiego di tutti i mezzi per la protezione del traffico, nel tratto di mare di propria giurisdizione dai Comandi superiori, ovvero dai Comandi in capo dei Dipartimenti Marittimi di Spezia (dal confine italo-francese fino a Torre Canneto), di Napoli (da Torre Canneto a Capo Suvero, comprendendo le Isole Pontine e quelle Partenopee) e di Taranto (da Fiumara Assi a Capo Santa Maria di Leuca e la congiungente da questa località a Prevesa), dal Comando Militare Marittimo della Maddalena (l’intera Sardegna), dal Comando dei Servizi della Regia Marina in Sicilia (tutta questa isola e la parte continentale da Capo Suvero a Punta Stilo) e dal Comando superiore navale in Libia (dal Golfo di Sollum a est e Ras Agir a ovest fino alla congiungente fra Ras el Hamama e Ras Makhabez).
Da tali organi dipendevano i Comandi Difesa Traffico istituiti nei principali porti nazionali, cioè dal primo Genova, Livorno e Civitavecchia, dal secondo Napoli, dal terzo Taranto, dal quarto La Maddalena, dal quinto Messina e Palermo, dal sesto Tripoli. Essi avevano compiti solamente di natura esecutiva e la diretta responsabilità della gestione del servizio nelle acque di propria giurisdizione regolando i trasferimenti dei mercantili, la formazione dei convogli, l’as-
Il cacciatorpediniere CORAZZIERE, che fu intensamente impiegato per
scortare i convogli che trasportavano truppe e rifornimenti al contingente italiano che si era insediato nel campo trincerato di Valona (U.S.M.M.).
segnazione delle scorte, diramando le istruzioni delle rotte da seguire ai capi convoglio e facendo eseguire il dragaggio delle zone dove si riteneva che l’avversario avesse allestito dei banchi di mine. Inoltre i Comandi Difesa Traffico si occupavano dell’impiego dei mezzi antisommergibile facendo loro svolgere delle apposite crociere volte alla caccia dei battelli subacquei avversari e organizzando pattugliamenti per la protezione dei mercantili.
Questi Comandi godevano di un’ampia autonomia per lo svolgimento delle attività a essi affidate per essere il più possibile flessibili in considerazione delle mutevoli condizioni alle quali dovevano quotidianamente far fronte così da evitare di far intervenire le autorità superiori o quelle centrali, la cui intromissione poteva risultare intempestiva.
Poiché le aree di competenza di alcuni di questi Comandi Difesa Traffico erano parecchio estese, a loro volta essi avevano sottoposti gli Uffici Difesa Traffico ubicati nei porti di minore importanza. Pertanto dal Comando Difesa Traffico di Genova dipendevano gli Uffici Difesa Traffico di Porto Maurizio e di Savona, da quello di Livorno era sottoposto Portoferraio, da quello di Taranto sottostavano Crotone e Gallipoli, da quello della Maddalena dipendevano Cagliari e Golfo Aranci, da quello di Messina Siracusa, da quello di Palermo Trapani, e da quello di Tripoli dipendevano Bengasi e Tobruk; inoltre vi era l’Ufficio Difesa Traffico di Spezia che, in considerazione della presenza della locale base navale, era autonomo.
La collaborazione con gli altri enti alleati
L’attività svolta dall’Ispettorato per la Difesa del Traffico Marittimo Nazionale era indipendente e assoluta per quello che si riferiva ai movimenti dei mercantili nelle acque territoriali italiane e si armonizzava con quella delle autorità navali francesi e britanniche per quei servizi che necessariamente si allacciavano alle corrispondenti attività delle due Potenze alle quali l’Italia si era unita. Pertanto avevano un carattere interalleato il servizio di convogliamento sulle grandi linee di traffico di interesse dell’Intesa e le relative norme organiche, pure quando qualcuna di esse era specificamente assegnata alla Regia Marina, alla Marine Nationale francese oppure alla Royal Navy britannica, la gestione delle notizie riguardanti l’attività dei battelli subacquei avversari e il servizio delle comunicazioni radiotelegrafiche.
Proprio per assolvere nel miglior modo possibile questi compiti l’Ispettorato era in contatto diretto con la Direction Générale de la Guerre Sousmarine istituita presso il Ministero della Marina d’oltralpe e la Trade and Convoy Division dell’Ammiragliato britannico. Inoltre, sempre per tale scopo, furono creati nei porti esteri di maggiore importanza per il traffico mercantile riguardante l’Italia degli appositi organismi, chiamati Uffici Regia Marina all’Estero, comandati da ufficiali del Corpo dello Stato Maggiore che svolgevano la funzione di collegamento con i locali rappresentanti delle Marine alleate, esercitavano un’attività di tutela del traffico nazionale che si svol-
Un idrocaccia Macchi che, come altri velivoli e dirigibili della Regia Marina, concorse validamente alla difesa del traffico mercantile lungo le coste italiane (U.S.M.M.).
geva nel tratto di mare di competenza, provvedevano a impartire le opportune istruzioni ai mercantili italiani, cercavano di dirimere le questioni che poteva sorgere nel porto dove risiedevano relative all’imbarco e allo sbarco dei rifornimenti e far pervenire all’Ispettorato per la difesa del traffico qualsiasi informazione di competenza.
Nel corso del 1917 furono istituiti questi uffici a Gibilterra, a Port Said in Egitto e a Villafranca in Francia; successivamente, durante il 1918, ne vennero aperti altri sei a Barcellona in Spagna (che ebbe la speciale denominazione di Regio Consolato Generale d’ItaliaUfficio Navale), a Biserta in Tunisia, a New York negli Stati Uniti, e a Corfù, al Pireo e a Salonicco in Grecia (questi ultimi tre ospitati a bordo di una nave stazionaria della Regia Marina).
L’alto controllo della gestione e della protezione del traffico dell’Intesa nel Mediterraneo era stato assegnato all’ammiraglio comandante in capo delle forze navali britanniche in questo mare, il quale era assistito da un ammiraglio italiano e da uno francese, che dovevano rappresentare le necessità riguardanti i traffici direttamente interessanti i rispettivi paesi. Essi, unitamente a un ammiraglio nipponico, costituivano la Commissione interalleata di Malta. (17)
Tale ente, poiché era stato accettato che l’Ispettorato per la difesa del traffico dovesse occuparsi in modo indipendente della protezione dei mercantili nelle acque italiane, esercitava la sua azione di controllo sul resto del bacino del Mediterraneo e, dall’inizio del 1918, pure su tutte le grandi linee di traffico.
L’Ispettorato aveva contatti diretti con la Commissione interalleata di Malta grazie all’ammiraglio italiano membro della stessa. 8
NOTE
(1) In particolare il 5 settembre 1914 il battello subacqueo tedesco U 21 comandato dal tenente di vascello Otto Hersing colpì con un siluro l’incrociatore leggero britannico Pathfinder mentre stava uscendo dal Firth of Forth in Scozia causando l’esplosione del suo deposito munizioni prodiero; l’unità affondò in soli quattro minuti con la quasi totalità del suo equipaggio. Poco più di due settimane dopo, il 22 settembre, si ebbe un’ancora più importante vittoria ottenuta da un sommergibile germanico, quando l’U 9 del tenente di vascello Otto Weddigen, al largo della costa dei Paesi Bassi, affondò i tre incrociatori corazzati britannici Aboukir, Hogue e Cressy causando la perdita di millequattrocentocinquantanove uomini dei circa duemiladuecento che vi erano imbarcati. Nel frattempo pure la Marina tedesca aveva avuto modo di sperimentare l’efficacia dei battelli subacquei avversari, allorché il 13 settembre fu la volta del sommergibile E 9 della Royal Navy britannica comandato dal capitano di corvetta Max Kennedy Horton a colare a picco con un siluro il vecchio incrociatore leggero tedesco da poco rimodernato Hela a 6 miglia a sud-ovest dell’Isola di Helgoland, vedi Marco Gemignani, Considerazioni sull’impiego dei sommergibili nel primo conflitto mondiale, in «Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare», XII (1998), 2, pp. 139-141. (2) All’azione condotta dall’U 17 assistette la torpediniera norvegese Hai, la quale doveva pattugliare le acque territoriali del suo paese e non intervenne in difesa del piroscafo in quanto era stato fermato dal battello tedesco fuori di esse. La torpediniera, una volta che l’U 17 si fu allontanato, prese a rimorchio le lance con a bordo l’equipaggio del Glitra, che condusse in salvo a Skudeneshavn, vedi Daniel Allen Butler, The Age of Cunard: A Transatlantic History 1839-2003, Annapolis, Lighthouse Press, 2003, p. 211. (3) Michael Wilson-Paul Kemp, Mediterranean Submarines. Submarine Warfare in World War One, Wilmslow, Crécy Publishing, 1997, pp. 30-31. (4) Ivi, pp. 34, 51-55, 57-59. (5) Il 10 maggio 1915 a Parigi i rappresentanti della Marina italiana, di quella francese e di quella britannica avevano sottoscritto un accordo navale con il quale le ultime due si impegnavano a dare il loro concorso alla prima fino alla distruzione della flotta asburgica o alla cessazione delle ostilità, vedi Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare (d’ora in poi AUSMM), Raccolta di base, busta 356, fascicolo 1: «Convention Navale». (6) Sulle condizioni della Marina mercantile italiana al 31 dicembre 1914. Relazione del direttore generale della Marina mercantile a S.E. il Ministro per i Trasporti Marittimi e Ferroviari, Roma, Officina Poligrafica Italiana, 1916, p. 103. (7) AUSMM, Raccolta di base, busta 404: lettera del viceammiraglio Leone Viale al ministro degli Affari Esteri Sidney Sonnino redatta a Roma il 21 maggio 1915, con n. di prot. 12497 A e avente oggetto «Trattamento delle navi mercantili nemiche presenti nei porti del Regno e Colonie allo scoppio delle ostilità». (8) Ivi: lettera del viceammiraglio Paolo Thaon di Revel al direttore generale della Marina Mercantile Carlo Bruno redatta a Roma il 19 maggio 1915, con n. di prot. 12.694 e avente oggetto «Norme per evitare attacchi di sommergibili». (9) Anche la prima e la terza perdita subite dalla Regia Marina attribuite a battelli subacquei avversari, il sommergibile Medusa e l’incrociatore corazzato Amalfi, silurati il 10 giugno e il 7 luglio 1915 rispettivamente dagli austro-ungarici U 11 e U 26, furono in realtà vittime di battelli tedeschi, l’UB 13 e l’UB 14 comandati in tempi diversi dal sottotenente di vascello Heino von Heimburg vedi Danilo Pellegrini-Pierpaolo Zagnoni, I sommergibili Medusa: due vicende parallele, in «Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare», VIII (1994), 4, pp. 100-104; AUSMM, Raccolta di base, busta 462, fascicolo 8: rapporto del contrammiraglio Umberto Cagni al viceammiraglio Leone Viale, redatto a Venezia il 14 luglio 1915, con n. di prot. 260 RR e avente oggetto «Circa perdita dell’Amalfi»; Danilo Pellegrini-Pierpaolo Zagnoni, L’ultima crociera della R.N. Amalfi, in «Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare», V (1991), 3, pp. 197-214. Per completezza si riporta che in quelle stesse settimane le Regia Marina perse altre tre unità a causa dei battelli subacquei, in tali casi realmente austro-ungarici: la torpediniera 5 PN affondata dall’U 10 il 27 giugno, l’incrociatore corazzato Giuseppe Garibaldi silurato il 18 luglio dall’U 4 e il sommergibile Nereide colpito dall’U 5 il 5 agosto, vedi AUSMM, Raccolta di base, busta 2770bis, fascicolo 29: «Stato Maggiore della Marina. Ufficio Storico. Unità della Marina Militare italiana perdute in Mediterraneo durante la Prima guerra Mondiale (24.5.1915-4.11.1918)»; ivi, busta 463, fascicolo 4: lettera del viceammiraglio Ernesto Presbitero al viceammiraglio Luigi Amedeo di Savoia redatta a Taranto il 13 agosto 1915, con n. di prot. 740 RR e avente oggetto «Affondamento del sommergibile Nereide». (10) La prova di tale supposizione si ebbe nel marzo del 1916 quando il 16 di quel mese uno di questi sommergibili tedeschi del tipo posamine, l’UC 12 del tenente di vascello Eberhard Fröhner, ribattezzato U 24 nella Marina austro-ungarica, fu urtato da una delle torpedini che stava rilasciando mentre provvedeva a minare navigando in immersione le acque antistanti Taranto. L’esplosione dell’arma spezzò in due il battello uccidendo istantaneamente tutti i membri dell’equipaggio e i tronconi furono recuperati dai mezzi della Regia Marina e portati nel locale Arsenale. Durante la loro ispezione fu appurata la reale nazionalità del sommergibile, ma il governo italiano preferì non protestare a livello diplomatico perché all’interno dei due tronconi furono rinvenuti importanti documenti classificati e il battello, riparato, rientrò in servizio il 13 aprile 1917 come X 1, primo sommergibile posamine della Regia Marina, vedi Aldo Casanova Fuga, Taranto, 16 marzo 1916. Un sommergibile misterioso, in «Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare», V (1991), 4, pp. 191-207. (11) La prima campagna era iniziata il 18 febbraio 1915 ed era cessata il 18 settembre successivo e il successo più eclatante colto dalla flotta subacquea tedesca in quel periodo fu l’affondamento del transatlantico britannico Lusitania, silurato il 7 maggio dall’U 20 del tenente di vascello Walther Schwieger che aveva causato la morte di millecentonovantotto persone, fra le quali centoventotto di nazionalità statunitense; la seconda campagna era cominciata nel febbraio del 1916, ma era cessata già nell’aprile seguente per le proteste sollevate dal governo di Washington dopo la perdita del traghetto francese Sussex nella Manica il 24 marzo a opera dell’UB 29 del sottotenente di vascello Herbert Pustkuchen, evento nel quale erano rimasti feriti tre cittadini statunitensi, vedi Alberto Santoni, Storia e politica dell’età contemporanea, Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1993, pp. 99, 101-104; Paul G. Halpern, A Naval History of World War I, Annapolis, Naval Institute Press, 1994, pp. 298-302, 307-308. (12) AUSMM, Raccolta di base, busta 751, fascicolo 4: «Ispettorato per la Difesa del Traffico Marittimo Nazionale. Promemoria», redatto a Roma il 28 dicembre 1917. (13) L’atto fu riportato sulla «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia» del 6 marzo 1917, n. 54, pp. 1107-1108. L’ammiraglio Tomaso di Savoia, zio del re Vittorio Emanuele III, era divenuto luogotenente generale del Regno con il Regio Decreto n. 699 del 25 maggio 1915, pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia» del 26 maggio 1915, n. 131 (Straordinario), p. 3253 perché il nipote aveva deciso di lasciare Roma e spostarsi nelle retrovie del fronte per poter seguire meglio l’andamento delle operazioni belliche. Così il sovrano aveva affidato allo zio, rimasto nella capitale, parte delle sue funzioni, attività che Tomaso di Savoia continuò a svolgere ben oltre la cessazione delle ostilità, ovvero fino al 7 luglio 1919, vedi il Regio Decreto n. 1082 del 6 luglio 1919, pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia» il 7 luglio 1919, n. 160, p. 1909. (14) AUSMM, Biografie ufficiali, busta M 3, fascicolo 41 bis: «Mortola Giuseppe»; ivi, busta L 1, fascicolo 18: «Lobetti Bodoni Pio». (15) La scelta già ricordata anche da parte delle autorità italiane di proseguire l’installazione dell’armamento sui mercantili derivò dall’analisi delle statistiche redatte dai britannici, nelle quali venne evidenziato che su duecento mercantili attaccati dai battelli subacquei avversari nel 1916, si erano verificati ben cento affondamenti fra i centoventidue disarmati e solamente sette perdite fra i settantotto muniti di artiglieria. Tuttavia l’installazioni di bocche da fuoco sui piroscafi produsse dei problemi a livello diplomatico perché anche se alcuni Stati con i quali le Potenze dell’Intesa mantenevano cospicui rapporti commerciali, come ad esempio il Brasile, il Messico, il Perù e l’Uruguay non mostrarono remore ad accogliere nei loro porti i bastimenti armati, ve ne furono altri, come il Cile e la Colombia, che li avrebbero ammessi esclusivamente se preavvisati, oppure, come l’Argentina, che avrebbe concesso l’ingresso soltanto se avessero sbarcato il munizionamento all’entrata delle rade. I Paesi Bassi, attenendosi in maniera rigida alla loro dichiarata neutralità, non permisero che i mercantili dotati di armamento si trattenessero nei loro porti più di ventiquattro ore, vedi Marco Gemignani, La guerra antisom dell’Intesa nel Mediterraneo durante il primo conflitto mondiale, in «Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare», XIX (2005), 4, pp. 51-52. (16) Il Decreto Ministeriale del 23 marzo 1917 è riportato in Il traffico marittimo, vol. II, Roma, Ufficio del Capo di Stato Maggiore-Ufficio Storico, 1932, pp. 221-223. (17) Il Giappone era entrato nel conflitto schierandosi a fianco dell’Intesa il 23 agosto 1914 perché era interessato a occupare alcuni arcipelaghi che i tedeschi possedevano nel Pacifico e la loro concessione in Cina. I nipponici, dopo aver ottenuto quanto desideravano in quell’area, non avevano più fattivamente partecipato alla guerra fino a quando, su richiesta britannica, nell’aprile del 1917 inviarono nel Mediterraneo otto cacciatorpediniere e l’incrociatore protetto Akashi, ai quali si aggiunsero nell’agosto successivo altri sei caccia, dei quali un paio ceduti dalla Royal Navy, e l’incrociatore corazzato Idzumo che rimpiazzò l’Akashi come nave di bandiera della formazione. Le unità giapponesi furono intensamente impiegate per la protezione del traffico dell’Intesa, subendo il serio danneggiamento del caccia Sakaki, colpito l’11 giugno 1917 al largo di Creta da un siluro lanciato dal sommergibile austro-ungarico U 27 del tenente di vascello Robert Teufl von Fernland, vedi Norman Friedman, Japan, in All the World’s Fighting Ships 1906-1921, a cura di Robert Gardiner, London, Conway Maritime Press, 1985, p. 242.
FOCUS DIPLOMATICO
Scenari mediorientali e nel mercato globale dell’energia. La visita di Biden nella regione. I precedenti.
Il Medio Oriente è stato in modo crescente un’area di interesse primario per gli Stati Uniti a partire dagli anni successivi alla Prima guerra mondiale quando le risorse petrolifere diventavano sempre più importanti nell’economia e nella politica internazionale. Compagnie petrolifere americane entravano già negli anni Venti e Trenta soprattutto in quella che stava diventando l’Arabia Saudita ma anche in paesi in cui predominante era il controllo britannico come l’Iraq e l’Iran.
Questo interesse aumentò enormemente con lo sviluppo della motorizzazione di massa, della petrolchimica e dell’uso del petrolio durante il Secondo conflitto mondiale. Per tale sviluppo le risorse americane e dell’area caraibica erano sempre meno sufficienti.
Lo storico incontro nel 1945 a Suez di Roosevelt di ritorno da Yalta con il re Ibn Saud segnò l’inizio di quel rapporto privilegiato tra i due paesi basato sulla garanzia di sicurezza americana alla monarchia saudita in cambio di approvvigionamenti petroliferi sicuri e a buon mercato gestiti da società statunitensi che negli anni successivi avrebbero costituito entità congiunte con i sauditi.
Parallelamente la costituzione dello Stato di Israele determinava l’impegno americano a garantirne la sicurezza e a farne un punto centrale della presenza di Washington nella regione soprattutto dopo che gli Stati Uniti a seguito della crisi di Suez avevano sostituito i britannici e i francesi nella loro posizione egemonica in Medio Oriente. Washington riusciva così a gestire con sostanziale successo la contemporanea alleanza con l’Arabia Saudita e con Israele malgrado la durezza della retorica e dei comportamenti nei rapporti tra i due paesi, mitigati tuttavia nella sostanza dalla comune avversione ai regimi repubblicani e di orientamento radicale che si insediavano negli anni Cinquanta e Sessanta dall’Egitto alla Siria all’Iraq all’Algeria alla Libia e allo Yemen del Sud, e che pur professando il non allineamento avevano più o meno intensi rapporti con l’Unione Sovietica sui piani politico, economico e militare. Questo dato di fatto travalicava la solidarietà di facciata dell’Arabia Saudita e altre monarchie nell’ambito della Lega Araba e delle Nazioni unite contro Israele e il sionismo e a sostegno dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, soprattutto dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania e del Sinai a seguito della guerra dei sei giorni. I profughi palestinesi venivano in realtà utilizzati nelle rivalità interarabe e nelle trattative con l’Occidente ed erano frequentemente vittime di marginalizzazioni e stragi. Dopo la riaffermazione del principio dei due Stati, già presente nella Risoluzione delle Nazioni unite alla base della nascita di Israele, rigettata allora dagli Stati arabi, gli americani, al pari degli europei, cercarono di avviare processi per la soluzione della questione palestinese. Il punto più alto si ebbe con gli accordi di Oslo del 1993 seguiti anche dopo l’assassinio del primo ministro Rabin dai tentativi condotti soprattutto da Clinton con Barak e Arafat, dalle attività e proposte del «Quartetto» formato da Stati Uniti, UE, Russia e ONU, e da una iniziativa della Lega Araba per un riconoscimento dello Stato di Israele entro i confini del 1967 in cambio della costituzione dello Stato Palestinese con Gerusalemme Est come capitale. Non vi furono tuttavia risultati concreti anche perché, accanto alle ambiguità di Arafat, la politica dell’incoraggiamento degli inse-
diamenti nei territori occupati da parte dei Governi del Likud, con relativi presidi di sicurezza, vanificava progressivamente la prospettiva dei due Stati.
L’Arabia Saudita aveva intanto mantenuto il suo ruolo centrale per gli Stati Uniti. Nel 1973 aveva innescato assieme agli altri paesi produttori il primo shock petrolifero. L’occasione fu l’embargo contro i paesi occidentali che sostenevano Israele nella guerra del Kippur, ma la ragione sottostante del forte e improvviso aumento dei prezzi era lo scarto tra il grande aumento della domanda dovuto ai grandi progressi economici e sociali negli anni precedenti sulle due rive settentrionali dell’Atlantico e in Giappone, consentiti in buona parte dai bassi costi dell’energia, e le carenze dell’offerta dovute alla scarsità di investimenti per i quali era necessario un aumento di quei prezzi.
Negli anni successivi l’Arabia Saudita e le nuove monarchie del Golfo riuscirono abilmente, d’intesa con le grandi compagnie petrolifere, a mantenere prezzi e conseguenti profitti adeguati ai nuovi necessari investimenti, ma non fino al punto da favorire nuove entrate nel mercato dell’energia dal lato dell’offerta. Vi era inoltre la preoccupazione di non aggravare la crisi economica nei paesi occidentali (stagflazione) innescata dall’aumento dei prezzi del petrolio le cui conseguenze si ripercuotevano ovunque e danneggiavano gli stessi esportatori. Questa politica di calmieramento, facilitata da bassi costi di estrazione rispetto ad altri teatri produttivi, contrastava nell’ambito dell’OPEC con quella di altri paesi, in genere quelli che anche sul piano politico avevano posizioni di maggiore contestazione nei confronti dell’Occidente, come l’Algeria, l’Iraq e l’Iran dopo la rivoluzione islamica del 1979, cui si aggiungeva il Venezuela, più interessati a profitti immediati e meno sensibili a considerazioni di lungo periodo. Per quanto riguarda l’Iraq e l’Iran i loro comportamenti nel cartello dei produttori erano inoltre influenzati dalla guerra che li opponeva nel corso degli anni 80 e dai relativi costi.
Nell’insieme, il peso delle produzioni di Arabia Saudita e paesi del Golfo e l’offerta determinata dagli investimenti dovuti all’aumento di prezzi e profitti negli anni precedenti avevano a loro volta determinato una stabilizzazione e poi una riduzione dei prezzi stessi. Questo ha avuto effetti non soltanto sulla ripresa economica verificatasi in quegli anni in Occidente, ma anche sul peggioramento delle condizioni dell’Unione Sovietica che con una fortissima dipendenza dall’esportazione di idrocarburi aveva beneficiato dei precedenti aumenti dei prezzi e ora si trovava nelle gravi difficoltà che assieme a vari altri noti fattori hanno accelerato il suo collasso.
Sugli equilibri mediorientali e a livello globale hanno inoltre influito a partire dagli anni Settanta-Ottanta l’aumento del ruolo del gas per la produzione di energia elettrica grazie ai tubi dall’ dell’Unione Sovietica, dal Mare del Nord e dall’Algeria, nonché alle nuove tecnologie per la liquefazione e la rigassificazione di cui ha beneficiato soprattutto il Qatar che in termini politici è giunto negli anni successivi a sfidare l’Arabia Saudita con proprie agende di egemonia regionale, ad allearsi con la Turchia e a entrare in rotta di collisione con gli Emirati in Libia e nel Corno d’Africa. Non ne ha beneficiato invece che in misura limitata l’Iran, altro grande detentore di riserve di gas, a causa delle sanzioni cui era sottoposto.
I prezzi degli idrocarburi sono rimasti sostanzialmente stabili nel corso degli anni Novanta dopo la breve impennata dovuta alla Prima guerra del Golfo causata dall’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di
Saddam Hussein che con l’acquisizione delle risorse petrolifere di tale paese costituiva una minaccia intollerabile per l’Arabia Saudita che pur aveva sostenuto Baghdad durante la sua guerra con l’Iran.
La ferma reazione di una vasta coalizione guidata dagli Stati Uniti e formata da paesi occidentali e arabi respinse l’aggressore fuori dal Kuwait e con un severo regime sanzionatorio ne indebolì fortemente le capacità militari ed economiche. La situazione cambiò in parte all’inizio di questo secolo, apertosi con l’attacco terroristico di Al Qaeda agli Stati Uniti l’11 settembre del 2001. Gli organizzatori e gli esecutori degli attentati erano quasi tutti sauditi. L’Amministrazione Bush jr. ne trasse la conclusione che accanto a quello saudita fosse opportuno un nuovo centro di influenza americana in Medio Oriente per contenere l’Iran e prevenire la penetrazione cinese rimuovendo Saddam Hussein e insediando in Iraq un sistema politico democratico e filooccidentale.
Sappiamo che questa azione non ha prodotto i risultati voluti da Washington facendo tra l’altro crescere l’influenza iraniana nella regione.
Si consolidava contemporaneamente la grande crescita economica della Cina e di altri paesi asiatici iniziata nei due decenni precedenti con un forte aumento delle loro importazioni di petrolio e gas liquefatto dal Medio Oriente. Questo determinava un nuovo aumento dei prezzi degli idrocarburi, con un suo arresto a causa della crisi economico-finanziaria del 2008-2009 e dei suoi seguiti in Europa e poi per la paralisi delle attività economiche nel 2020 dovuta alla pandemia quando il prezzo del greggio diventò in un giorno addirittura negativo. La ripresa post-pandemia produsse nel 20212022 un nuovo aumento della domanda e quindi dei prezzi, accentuato dalla guerra in Ucraina e dalla riduzione delle importazioni di idrocarburi russi in Europa, in Giappone e in Corea del Sud solo in parte compensate da quelle di petrolio di Cina e India.
La fine della dipendenza energetica diretta degli Stati Uniti dal Medio Oriente e le sue conseguenze politiche
Un altro fattore nell’equazione energetica globale con effetti di relativa stabilizzazione dei prezzi che compensavano parzialmente il loro aumento dovuto alla domanda asiatica è stato lo sviluppo negli Stati Uniti a partire dall’inizio di questo secolo dell’estrazione di petrolio e gas attraverso la frammentazione di rocce bituminose (shale oil e shale gas).
Questo ha comportato che gli Stati Uniti sono tornati a essere in pochi anni il primo produttore di idrocarburi a livello mondiale assieme alla Russia e, per il petrolio, all’Arabia Saudita. A questo si è aggiunto, sotto le Amministrazioni democratiche e negli Stati controllati da quel partito, lo sviluppo di energie rinnovabili e di misure per l’efficientamento energetico nel quadro del contrasto ai cambiamenti climatici. È quindi venuta meno la dipendenza energetica americana dal Medio Oriente con una conseguente minore attenzione primaria alle sue vicende mentre cresceva quella per l’AsiaPacifico in conseguenza della crescita della potenza economica, politica e militare della Cina. Tale riduzione dell’attenzione non va tuttavia esagerata considerato il ruolo di potenza globale degli Stati Uniti, anche sotto il profilo del suo interesse al controllo di quella che rimane la principale area di presenza di risorse per la produzione di energia nel mondo, con un aumento delle quote di esportazioni verso l’Asia. Come ebbe a dire Obama nel suo intervento all’Assemblea generale delle Nazioni unite nel settembre del 2013, «gli Stati Uniti sono pronti a usare tutti gli elementi del loro potere per assicurare l’interesse fondamentale al libero flusso di energia dal Medio Oriente verso il mondo che dipende ancora dai rifornimenti dalla regione una cui interruzione destabilizzerebbe l’intera economia globale».
Rimane inoltre la preoccupazione per l’espansionismo iraniano e per la possibile acquisizione da parte di Teheran di una capacità militare nucleare e di vettori missilistici per il suo impiego, accanto all’esigenza di garantire la sicurezza di Israele.
Obama aveva affrontato la questione, malgrado le opposizioni di Israele e dell’Arabia Saudita, con la conclusione dell’Accordo del 2015 (JCPOA) dopo un lungo negoziato assieme agli europei, alla Cina e alla Russia e un duro regime sanzionatorio (a dimostrazione che se mirate per scopi specifici e ottenibili le sanzioni funzionano). Sulla base di tale accordo l’Iran aveva fer-
mato l’arricchimento dell’uranio oltre una soglia minima sufficiente per usi pacifici ai sensi del Trattato di non proliferazione in cambio della progressiva rimozione delle sanzioni.
Questo avveniva allorché gli Stati Uniti con gli alleati occidentali inclusa la Turchia con le sue particolari agende, la Russia, i Governi arabi della regione, l’Iran e diversi attori locali, dai curdi a varie forze siriane islamiste o nazionaliste, dovevano affrontare il nemico comune costituito dall’Isis il cui insediamento territoriale tra l’Iraq e la Siria era il risultato di una genesi nei cui sviluppi vi erano state complicità e strumentalizzazioni di varia natura vicine e lontane nel tempo.
Sconfitto l’Isis sul campo tutte le contraddizioni tra le forze che lo avevano combattuto si sono palesemente manifestate.
Riguardo all’Iran, la successiva decisione di Trump di uscire dal JCPOA e di introdurre nuove sanzioni unilaterali ha rafforzato le tendenze più radicali del sistema politico iraniano che hanno strumentalizzato l’inaffidabilità degli impegni americani e ripreso l’arricchimento dell’uranio portandolo pericolosamente ad avvicinarsi alla soglia utile alla produzione di bombe nucleari.
Biden, spinto dagli altri membri del gruppo negoziale, ha cercato di riattivare l’accordo, ma i condizionamenti reciproci e, dopo l’aggressione russa all’Ucraina e le conseguenti sanzioni occidentali, un diverso atteggiamento di Mosca, ne hanno finora impedita la conclusione ostacolata anche da una accentuazione dei comportamenti repressivi del regime iraniano.
Come fermare l’ulteriore avvicinamento dell’Iran alla soglia nucleare militare e i conseguenti rischi di un pericolosissimo processo di proliferazione nella regione e oltre? Le sanzioni non sembrano questa volta avere effetto mentre sale la tensione con
Israele, accentuata dalle azioni terroristiche antiisraeliane di Hamas e Hezbollah, sostenute e armate dall’Iran, nonché da uccisioni mirate di scienziati iraniani impegnati nel programma nucleare.
È in questo stato di cose che si è verificata la visita appena conclusasi del presidente Biden nella regione, mentre la guerra in Ucraina, con le sue conseguenze sull’economia mondiale, ha fatto crescere l’esigenza di disporre in misura maggiore delle risorse energetiche mediorientali nella fase di transizione verso la decarbonizzazione.
Le finalità e gli esiti della visita di Biden in Medio Oriente
La visita ha avuto diverse finalità. Nell’ordine cronologico delle diverse tappe queste si possono articolare come segue con l’indicazione dei risultati conseguiti allo stato attuale delle conoscenze. 1. La rivitalizzazione dei rapporti con Israele da parte di un presidente democratico dopo il forte allineamento che vi era stato tra Trump e Netaniahu, e al tempo stesso l’implicito sostegno al primo ministro pro tempore Lapid in vista del suo probabile confronto elettorale con lo stesso Netaniahu.
Secondo le prevalenti valutazioni della stampa israeliana e internazionale l’empatia è scattata anche se non su tutto. In particolare sulle modalità per il raggiungimento di certi obbiettivi non è stata registrata una perfetta identità di vedute. Biden ha ribadito l’inflessibile impegno americano a garantire la sicurezza di Israele, anche con nuove forniture militari, e la volontà di intensificare i rapporti in tutti i campi. Ha evidenziato l’importanza degli accordi di Abramo e di un loro allargamento ad altri paesi arabi, cosa certamente gradita agli interlocutori israeliani.
Ha ribadito la posizione americana in favore della soluzione dei due Stati senza peraltro dare indicazioni, almeno pubblicamente, sulla volontà di riavviare un processo per la sua realizzazione. Né pubblicamente ha riaffermato la posizione americana sugli insediamenti. Sull’Iran ha affermato l’impegno americano a impedire con ogni mezzo l’acquisizione dell’arma nucleare da parte di Teheran, ma non ha aderito alla richiesta israeliana di fissare una data per la fine della trattativa sulla riattivazione del JCPOA né a quella di avviare una pianificazione congiunta per un «piano B» dopo la fine di tale trattativa. Biden sa che un attacco militare preventivo avrebbe conseguenze disastrose sotto tutti i profili. Ma la via diplomatica, che oltretutto introdurrebbe nel mercato degli idrocarburi risorse preziose per un calmieramento dei prezzi, richiederebbe una volontà delle parti di superare co-
(ispionline.it).
raggiosamente punti di dissenso che al momento non appare vicina. 2. Riprendere un dialogo con l’Autorità nazionale palestinese sostanzialmente inesistente dall’avvento della presidenza Trump. Anche a Betlemme, ove
Biden ha incontrato Abu Mazen, la riaffermazione della soluzione dei due Stati non è stata accompagnata dall’impegno ad adoperarsi per un suo rilancio essendo anzi stato detto che non vi sono al momento le condizioni. Biden ha comunque attribuito agli Stati
Uniti il merito di aver convinto gli israeliani a fermare alcuni interventi a Gerusalemme Est ove, ha detto, sarà riaperto il Consolato americano chiuso da
Trump, cosi come sarà consentita la riapertura dell’ufficio dell’ANP a Washington. Tutto questo, assieme a un rilancio degli aiuti in particolare in campo sanitario ma non solo, ha costituito una rottura del ghiaccio ma resta lontano da quel che vorrebbero i palestinesi dalla principale potenza mondiale. 3. Ottenere dall’Arabia Saudita un maggiore avvicinamento a Israele fino all’adesione agli accordi di
Abramo e la costituzione di un più strutturato fronte di contenimento dell’Iran, un aumento sostanzioso della produzione di greggio per calmierarne il prezzo i cui livelli costituiscono una seria preoccupazione di politica interna per il Presidente americano, e ristabilire per queste finalità un rapporto appannato dalla vicenda Khassogi e dalle critiche rivolte dallo stesso Biden al principe ereditario Mohamed bin Salman per le sue responsabilità rilevate dall’intelligence statunitense.
Sul primo punto qualche risultato simbolico vi è stato, come l’apertura dello spazio aereo saudita ai voli civili israeliani, ma non vi sono stati progressi sull’adesione agli accordi di Abramo rimanendo la condizione saudita a una piena normalizzazione dei rapporti alla soluzione della questione palestinese sulla base della già menzionata proposta della Lega Araba. Anche in mancanza di riconoscimenti formali non mancano tuttavia rapporti di fatto su temi di interesse comune soprattutto in materia di sicurezza.
Sull’Iran la posizione saudita non è diversa da quella americana, ma Riad non sembra volere la costituzione di un fronte strutturato e formalizzato. Tra Arabia Sau-
dita e Iran sono stati avviati contatti in Iraq, con i buoni uffici del primo ministro Mustafa Khadimi che non risulta siano stati ostacolati dagli Stati Uniti, per una normalizzazione dei rapporti e nella prospettiva di un assetto di sicurezza regionale. Rimangono naturalmente profonde differenza, ma alcuni risultati sembrano conseguiti, come la tenuta del cessate il fuoco in Yemen, di cui lo stesso Biden ha rilevato l’importanza, le facilitazioni dei pellegrinaggi reciproci delle rispettive popolazioni sciite, rapporti tra think-tank dei due paesi. Sul secondo punto vi sarebbe stato l’impegno saudita ad aumentare del 50% la sua produzione di petrolio ma anche l’affermazione della volontà di non interrompere il dialogo e laddove possibile il coordinamento con la Russia nell’ambito dell’OPEC+.
Questi elementi, sia riguardo al petrolio che alla questione iraniana, sono stati sostanzialmente confermati nell’incontro con i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo allargato a Egitto, Giordania e Iraq, nel quale soprattutto sul secondo aspetto paesi come l’Oman, il Qatar e ovviamente l’Iraq hanno da tempo rapporti economici e diplomatici con Teheran, anche con la volontà di facilitare un dialogo sulla sicurezza regionale mentre gli stessi Emirati Arabi, membri originari degli accordi di Abramo e protagonisti di una intensificazione dei rapporti con Israele in tutti i campi, hanno annunciato il prossimo invio di un loro ambasciatore a Teheran.
Freddo, almeno nelle apparenze, è stato l’incontro di Biden con Mohamed bin Salman, assai più caloroso quello con il Re.
Il Presidente americano, incalzato in patria da parlamentari e opinionisti, ha detto di aver sollevato il caso Khassogi e ha affermato l’interesse della sua Amministrazione al rispetto dei diritti umani e a una evoluzione delle libertà politiche e degli assetti istituzionali in senso democratico. Bin Salman ha successivamente affermato che simili interferenze non sono gradite.
La missione di Biden in Medio Oriente sembra quindi aver avuto nel suo complesso esiti solo moderatamente positivi rispetto agli obbiettivi perseguiti. Quello principale dell’aumento della produzione petrolifera e quindi del calmieramento dei prezzi, di importanza primaria per l’economia globale e per la politica interna americana, sembra raggiunto fino a prova contraria, ma senza le auspicate prese di distanza dalla Russia né dalla Cina con i quali tutti i paesi della regione intrattengono rapporti di vario tipo.
Sull’Iran Biden non ha aderito a tutte le richieste di Israele, continuando a voler privilegiare, almeno fin quando possibile, la sia pur difficilissima via diplomatica da sostenere anche con un aumento della deterrenza attraverso maggiori forniture militari. A questa linea sembrano aderire anche i paesi arabi sunniti, con intensità diverse, inclusi alcuni di quelli che dentro o fuori gli accordi di Abramo stanno intensificando i rapporti con Israele.
Resta sullo sfondo la questione palestinese, sempre strumentalizzabile. È comunque da ritenere che il mantenimento in tempi indefiniti dello statu quo grazie a una assoluta, per quanto necessaria, superiorità militare, non basti ad assicurare pace e sicurezza ai cittadini di Israele, alla regione e quindi anche a noi europei che dovremmo probabilmente riattivare, auspicabilmente assieme agli Stati Uniti, un ruolo di facilitazione di una soluzione, ben sapendo che quella dei due Stati è praticamente vanificata dalla politica degli insediamenti.
Su un piano più generale il tempo dirà se la visita di Biden e i suoi seguiti avranno effettivamente contribuito a rafforzare la posizione degli Stati Uniti e la sicurezza nella regione.
Maurizio Melani, Circolo di Studi Diplomatici
L’ambasciatore Maurizio Melani è stato direttore generale per la Promozione del sistema paese del ministero degli Esteri, ambasciatore in Iraq, rappresentante italiano nel Comitato politico e di sicurezza dell’UE, direttore generale per l’Africa, ambasciatore in Etiopia, capo dell’Ufficio per i rapporti con il parlamento nel Gabinetto del ministro degli Esteri, capo della Segreteria del sottosegretario di Stato delegato alla cooperazione. Ha prestato servizio nella Rappresentanza permanente presso la CEE, nelle ambasciate ad Addis Abeba, Londra e Dar es Salaam e nelle Direzioni generali dell’Emigrazione, degli Affari politici e degli Affari economici. Docente di Relazioni internazionali e autore di libri, saggi e articoli su temi politici ed economici internazionali. Il Circolo di Studi Diplomatici è un’associazione fondata nel 1968 su iniziativa di un ristretto gruppo di ambasciatori con l’obiettivo di non disperdere le esperienze e le competenze dopo la cessazione dal servizio attivo. Il Circolo si è poi nel tempo rinnovato e ampliato attraverso la cooptazione di funzionari diplomatici giunti all’apice della carriera nello svolgimento di incarichi di alta responsabilità, a Roma e all’estero.
OSSERVATORIO INTERNAZIONALE
Tokyo e la visione FOIP nell’impalcatura securitaria dell’Indo-Pacifico. Il Giappone rientra in scena quale leader strategico regionale.
Nell’ultimo decennio, il ruolo del Giappone nell’impalcatura securitaria dell’Indo-Pacifico ha visto importanti trasformazioni. Se, in passato, Tokyo veniva caratterizzata come una potenza «reattiva», «adattabile» o «riluttante», sotto la guida dell’ex premier Abe Shinzō, il paese ha progressivamente adottato un approccio «proattivo» che ne ha riconfigurato l’immagine di leader strategico regionale (1). Esempio chiave di questa trasformazione è la visione per un Indo-Pacifico Libero e Aperto (FOIP) lanciata da Tokyo nel 2016 e successivamente assorbita dagli Stati Uniti di Donald Trump (2). La FOIP ambisce a garantire la pace, stabilità e prosperità della regione oggi definita Indo-Pacifico, rendendola un esempio di «bene pubblico internazionale», ovvero un’area il cui accesso e utilizzo rimangano aperti equamente a tutti i membri della comunità internazionale (3). Di base, si tratta quindi di una visione strategica in chiave economica, politico-diplomatica e securitaria volta a sostenere, ma anche modellare, l’ordine regionale in funzione degli interessi e dei valori di Tokyo.
Il teatro d’azione in cui questa visione si manifesta è quello marittimo. Come affermato nel Libro Bianco emesso dal ministero della Difesa giapponese (2019), «garantire la sicurezza del traffico marittimo è fondamentale per l’esistenza» di un arcipelago dipendente per il 99.6% dal trasporto via mare (p.178) (4). Alla luce di tale dipendenza, si può quindi affermare che, per una potenza marittima quale il Giappone, l’ordine regionale è sinonimo di un ordine navale fondato sullo stato di diritto. La dimensione marittima di questa visione ne permea sia la nomenclatura che le origini. Già nel 2007, in un discorso di fronte al parlamento indiano, Abe aveva parlato della «confluenza dei due mari» e della necessità di mantenere queste acque libere, aperte e trasparenti (5). Nello stesso anno, l’allora primo ministro aveva spinto per la formazione del famoso Quad, il Dialogo di Sicurezza Quadrilaterale, ovvero un «concerto di potenze marittime capaci di bilanciare la proiezione navale cinese negli oceani Pacifico e, in misura minore, Indiano» (p.39) (6). Una volta ritornato al potere nel 2012, Abe aveva riproposto questa «strategia in base alla quale l’Australia, l’India, il Giappone e lo stato americano delle Hawaii [avrebbero dovuto] unirsi nel tutelare il tratto di acque in comune che si estende, a forma di diamante, dalla regione dell’Oceano Indiano alla parte occidentale del Pacifico» (7). Anche il discorso preparato per la visita di Abe a Jakarta nel 2013 reiterava questa necessità di consolidare i legami con altre potenze marittime della regione (8). Intervenendo alla tredicesima edizione dello Shangri-La Dialogue, il premier giapponese si fece infine portavoce di tre principi a sostegno dello stato di diritto proprio in un contesto marittimo: 1) avanzare rivendicazioni sulla base del diritto internazio-
nale; 2) astenersi dall’uso della forza o coercizione nell’avanzare le proprie rivendicazioni; 3) risolvere le controversie con mezzi pacifici (9). Nella visione di Abe, il Giappone avrebbe dovuto quindi necessariamente trasformarsi da un «paese protetto dai mari» in «paese che protegga i mari» (10).
L’ideazione di una specifica iniziativa etichettata come FOIP vuole pertanto delineare e rendere operativi i parametri di questa visione preesistente. La centralità della sicurezza e stabilità dei mari e oceani che circondano il Giappone permea chiaramente i tre cardini dell’iniziativa FOIP: 1) promuovere lo stato di diritto, la libertà di navigazione e il libero scambio; 2) perseguire la prosperità economica rafforzando la connettività e gli accordi di scambio tra gli attori regionali; 3) promuovere la pace e stabilità della regione. Il primo cardine rimanda indirettamente ai tre principi avanzati da Abe allo Shangri-La Dialogue e pone particolare enfasi sulla libertà di navigazione. Sebbene Tokyo non partecipi direttamente alle Freedom of Navigation Operations americane, il paese condivide la definizione di tale principio promossa dagli Stati Uniti secondo cui il diritto di transito non offensivo è applicabile sia nel caso di imbarcazioni commerciali che militari. Le forze marittime di autodifesa giapponesi effettuano, inoltre, scali in diversi porti dell’Indo-Pacifico e partecipano a numerose esercitazioni navali sia con attori regionali che extra-regionali.
Il secondo cardine, in particolare, prevede la realizzazione di infrastrutture di qualità, tra cui porti, in aree chiave della regione. Osservando la mappa di tali iniziative, è chiaro che uno degli obiettivi principali è facilitare la realizzazione di quei corridoi e infrastrutture che si colleghino alle principali rotte marittime da cui il paese dipende. Anche, la realizzazione di corridoi via terra nel Sud-Est asiatico, quali ad esempio l’East-West Economic Corridor, o il Southern Economic Corridor, vuole diversificare le rotte commerciali, riducendo la dipendenza dallo Stretto di Malacca, uno dei principali chokepoint della regione. Pertanto, la connettività regionale è promossa in funzione della diversificazione, accesso, utilizzo e sicurezza delle rotte che collegano gli hub emergenti dell’economia globale all’arcipelago giapponese. Anche il terzo cardine ha una componente marcatamente marittima. Difatti, l’obiettivo di promuovere la pace e stabilità regionale viene portato avanti attraverso programmi di Capacity-building e Maritime Domain Awareness rivolti alle guardie costiere dei paesi che si affacciano sulle acque del Mar Cinese Meridionale, e dell’Oceano Indiano. Tra i paesi con cui Tokyo ha attuato progetti per la sicurezza marittima si annoverano, quindi, Myanmar, Malesia, Indonesia, Brunei, Cambogia, Vietnam, Thailandia, Filippine, Sri Lanka, Djibouti e Kenya (11).
L’importanza attribuita al teatro marittimo non è una novità, vista la conformazione geografica dell’arcipelago giapponese. Già durante la guerra fredda, la stabilità dei mari e oceani attorno al Giappone ricopriva un ruolo cruciale per l’allora emergente potenza economica nipponica. È però la crescente assertività cinese (12) nel Mar Cinese Orientale e Meridionale a confermare l’importanza della governance marittima quale centro di gravità della strategia di Tokyo (13). Alla luce di ciò, la FOIP di Abe può essere interpretata come una reazione duplice alle attività cinesi. Da un lato, questa vuole rispondere all’espansionismo cinese nelle acque dell’Indo-Pacifico sia a livello pratico che normativo. Come sottolineato in precedenza, la visione FOIP è divenuta la cornice di riferimento per l’approfondimento delle relazioni con gli stati del litorale asiatico così come per la cooperazione con varie potenze marittime regionali ed extraregionali. L’avvio della visione FOIP è stato, ad esempio, seguito dal rilancio del Quad e dall’estensione della collaborazione tra le quattro forze navali partecipanti a questo meccanismo (14). Tokyo si è inoltre avvicinata ai paesi che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale sia bilateralmente, che attraverso l’iniziativa Vientiane, la quale è stata incorporata all’interno della FOIP. Attraverso questa visione, inoltre, Tokyo ha incoraggiato la presenza navale europea nell’Indo-Pacifico quale risposta al comportamento assertivo di Pechino. Sia la marina francese che quella inglese, e più recentemente quella tedesca e quella olandese, hanno fatto scalo al porto giapponese di Yokosuka e hanno preso parte a esercitazioni navali congiunte a cui partecipano anche le forze di autodifesa di Tokyo. A livello normativo, la FOIP rappresenta, invece, il mezzo con cui Tokyo si è fatta promotrice di
un modello di condotta marittima opposto a quello cinese, ovvero uno che sia fondato sul rispetto per le norme e regole del diritto internazionale. In altre parole, il Giappone si è proposto come fautore di un modello che, al contrario di quello attribuito alla Cina, rigetta la risoluzione delle dispute e controversie regionali attraverso misure coercitive e unilaterali (15).
Dall’altro, la FOIP vuole anche essere un’alternativa alla BRI (Belt and Road Initiative) cinese, in modo particolare, alla direttrice marittima di questa iniziativa. La BRI di Pechino si sviluppa, infatti, in due direzioni, una terrestre che attraversa l’Asia Centrale, e una marittima che collega via mare la Cina ai principali scali portuali dell’economia globale. In confronto, le iniziative per la connettività avanzate all’interno della FOIP si concentrano proprio in quei punti nevralgici che corrispondono allo spazio coperto dalla via della seta marittima. Anche in questo caso, le iniziative pratiche sono accompagnate dal tentativo di promuovere gli standard normativi per la realizzazione di infrastrutture critiche che facilitino il trasporto di merci e risorse energetiche attraverso le importanti rotte dell’Indo-Pacifico. Questo obiettivo è dettato dalla volontà di minimizzare il rischio che Pechino controlli queste infrastrutture, le militarizzi e, in caso di una crisi, ne limiti l’accesso e utilizzo. Tale preoccupazione scaturisce dalle modalità con cui Pechino porta avanti i propri investimenti. Nel 2017, ad esempio, lo Sri Lanka, impossibilitato a ripagare il debito per la realizzazione del porto di Hambantota, raggiunse un accordo che prevedeva la cessione alla Cina dei diritti di utilizzo del porto per un periodo di 99 anni (16). Simili episodi, che i critici hanno definito una forma di Debt Trap Diplomacy cinese, avrebbero quindi spinto il Giappone a rispondere con un proprio brand contrapposto al modello cinese (17).
Alla luce di ciò, in molti vedono la FOIP come una strategia per contenere Pechino. Il governo di Tokyo si oppone, però, a questa interpretazione sostenendo che la propria visione non sia orientata a escludere alcun attore specifico. Tokyo menziona, a prova di ciò, la possibilità che il Giappone collabori con la Repubblica Popolare Cinese nella realizzazione di progetti infrastrutturali in paesi terzi. Tuttavia, questa collaborazione rimane condizionale al rispetto da parte della Cina degli standard prefissati da Tokyo. Inoltre, le due potenze asiatiche continuano a competere per l’appalto di questi progetti infrastrutturali (18). Vari ricercatori ritengono, pertanto, che la visione FOIP presenti contemporaneamente caratteristiche sia cooperative che competitive (19). Se il fattore Cina rimane sicuramente un elemento centrale, è però importante riconoscere come questa visione si caratterizzi per un outlook sfaccettato. Dissuadere Pechino e bilanciarne il crescente peso e influenza nella regione sono sicuramente una componente importante della FOIP. Altrettanto importante è però la volontà di Tokyo di riproporsi come una potenza stabilizzatrice e garante della stabilità regionale.
La FOIP ambisce, infatti, anche a rilanciare l’immagine del paese nella comunità internazionale. Avanzando questa visione, il Giappone vuole prendere le distanze dalle storiche critiche secondo cui Tokyo sarebbe un attore passivo
e incapace di rispondere adeguatamente alle sfide che affliggono la comunità internazionale. Pertanto, la FOIP sarebbe quindi la manifestazione pratica della linea politica avviata da Abe nel 2013 volta a trasformare il paese in un attore che offra un «contributo proattivo alla pace» in qualità di «alleato alla pari» degli Stati Uniti (20). Va inoltre aggiunto che, sebbene il governo di Tokyo presenti la FOIP come una visione inclusiva e aperta a tutti, di base, questa rimane un brand marcatamente legato alla figura dell’ex primo ministro e, per estensione, al paese. Sin dal suo lancio, l’apparato diplomatico giapponese ha, quindi, speso un enorme capitale diplomatico per diffondere questa visione e assicurarsi che rimanga l’etichetta standard per comprendere e analizzare l’ordine regionale e la stabilità nell’Indo-Pacifico. Emblematico a riguardo è il tentativo, ben riuscito, di convincere l’Amministrazione Biden a non abbandonare il termine FOIP durante la turbolenta transizione dalla presidenza Trump (21).
La visione FOIP è inoltre sopravvissuta a due cambi di governo e, a 6 anni dal suo lancio, continua a rimanere un elemento centrale che guida l’approccio strategico giapponese. Questa costituisce, difatti, il fondamento su cui l’attuale premier Kishida intende realizzare la propria «Visione per la Pace», ed è lo strumento attraverso cui portare avanti quella che il primo ministro ha definito una pragmatica «diplomazia realista per la nuova era» (22). Attraverso questi due slogan, Kishida vuole infatti estendere il raggio d’azione della FOIP piuttosto che prenderne le distanze. Il governo giapponese ha, quindi, annunciato che presenterà un «Free and Open Indo-Pacific Plan for Peace» entro il prossimo anno in cui andrà a delineare nel dettaglio le aree in cui il paese si impegna a investire e collaborare per sostenere la stabilità e pace regionale. In linea con la visione attuale, la sicurezza nel teatro marittimo manterrà un ruolo di primo piano. Sicuramente la visione FOIP non è esente da critiche così come contraddizioni. Secondo alcuni, questa è infatti una visione strategica che manca di chiarezza e risultati pratici (23). Nonostante queste critiche, la FOIP continuerà a informare le iniziative avanzate dal governo di Tokyo e a rappresentare il brand di riferimento non solo per bilanciare il crescente peso cinese nella regione, ma anche per rilanciare l’influenza di Tokyo quale attore responsabile, leader e garante della sicurezza e stabilità regionale.
Alice Dell’Era
NOTE
(1) Si veda: https://bit.ly/3Nd0sGE. (2) Si veda Dell’Era A. Il Giappone e il QUAD - Intervista al Prof. Giulio Pugliese (EUI-Oxford). (2021) Consultabile su: bit.ly/3p6FFeY. (3) Ministry of Defense. Defense of Japan 2019. (2019) Consultabile su: https://bit.ly/3OsrXx9. (4) Kantei, Annual Report 2019 «Japan’s Actions against Piracy off the Coast of Somalia and in the Gulf of Aden». (2020) Consultabile su: https://bit.ly/3Oz8735. (5) Abe S., «Confluence of the Two Seas» Speech by H.E. Mr. Shinzo Abe, Prime Minister of Japan at the Parliament of the Republic of India. (2007) The World and Japan Database. Consultabile su: https://bit.ly/3y9C6JJ. (6) Pugliese G., Il Dialogo di Sicurezza Quadrilaterale nell’Indo-Pacifico. Focus Euroatlantico XII, (2021), p.39. (7) Abe S.,. Asia’s Democratic Security Diamond. Project Syndicate. (2012) Consultabile su: https://bit.ly/3OxwqhW. (8) Abe S., The Bounty of the Open Seas: Five New Principles for Japanese Diplomacy. (2013) The world and Japan Database. Consultabile su: https://bit.ly/39HakuF. (9) Abe S., The 13th IISS Asian Security Summit -The Shangri-La Dialogue - Keynote Address by Prime Minister Abe. (2014) The World and Japan Database. Consultabile su: https://bit.ly/3xLVECD. (10) Abe S., Message from Prime Minister Shinzo Abe on the Occasion of Marine Day. Kantei (2013) Consultabile su: https://bit.ly/3bkBS9u. (11) Si vedano i documenti relativi alla visione FOIP consultabili su: https://bit.ly/3NbOxJt. (12) A riguardo si rimanda a: Natalizia G. e Termine L., Tracing the modes of China’s revisionism in the Indo-Pacific. Italian Political Science Review/Rivista Italiana di Scienza Politica, (2021) pp. 83-99. Per la timeline delle attività cinesi, si veda: https://on.cfr.org/3HEMo7X. (13) Si rimanda a tal proposito https://bit.ly/3tR63f5. (14) Nel 2021, ad esempio, un cacciatorpediniere delle forze di autodifesa giapponesi ha per la prima volta scortato una fregata australiana durante un’esercitazione navale bilaterale al largo dello Shikoku. Si veda: https://s.nikkei.com/3Nr0bQR. (15) Si veda: Envall H. D. P., e Wilkins T. S., Japan and the new Indo-Pacific order: the rise of an entrepreneurial power. The Pacific Review, (2022) 1-32. (16) Si veda: https://nyti.ms/3ObVQ4R. (17) Nagy S., Sino-Japanese Reactive Diplomacy as Seen Through the Interplay of the Belt Road Initiative (BRI) and the Free and Open Indo-Pacific Vision (FOIP). China Report, Vol. 57 n.1, (2021) pp. 7-21. (18) Si veda a riguardo: Insisa A., e Pugliese G., The Free and Open Indo-Pacific versus the Belt and Road: Spheres of Influence and Sino-Japanese Relations. The Pacific Review, vol. 35 n.3, (2022) pp. 1-29. (19) A riguardo, si rimanda a: Koga K., Japan’s Indo-Pacific Question: Countering China or Shaping a New Regional Order?, International Affairs, Vol. 96 n.1, (2020) pp. 49-73. (20) Abe S., Japan is Back: Policy Speech by Prime Minister of Japan Shinzo Abe at the Center for Strategic and International Studies. (2013) Ministry of Foreign Affairs. Consultabile su: https://bit.ly/3zU9FRa. (21) L’Amministrazione Biden aveva infatti cercato di prendere le distanze dalle politiche e iniziative del predecessore Trump, inclusa la strategia FOIP, preferendo riferirsi all’Indo-Pacifico con l’espressione «sicuro e prospero» invece che «libero e aperto». Si veda a tal proposito: https://bit.ly/3Os50tK. (22) Si veda: https://bit.ly/3QCfbxT. (23) Si rimanda a: Rossiter A., The «Free and Open Indo-Pacific» Strategy and Japan’s Emerging Security Posture. Rising Powers Quarterly, Vol. 3 n. 2, (2018). Si veda anche: https://bit.ly/2w5I4Li.
ITALIA Rientro di Nave Duilio dopo intensa attività negli USA
Il caccia lanciamissili Caio Duilio (D 554) ha fatto rientro alla base navale di La Spezia lo scorso 22 luglio dopo una lunga attività iniziata con l’esercitazione Mare Aperto dello scorso maggio e che poi, si è protratta fino al rientro, portando l’unità ai comandi del C.V. Jacopo Rollo, a percorrere più di 8.000 mn in piena integrazione con il CSG (Carrier Task Group) 10 dell’US Navy incentrato sulla portaerei George H.W. Bush (CVN 77) classe «Nimitz», e a impegnarsi in un’attività addestrativa intensissima, che ha visto il coinvolgimento di 14 unità di superficie, 3 sottomarini di cui uno brasiliano e uno colombiano, 72 velivoli nonché la 26th Marine Expeditionary Unit per oltre un mese, dando vita a scenari operativi con caratteristiche multi- dominio e multi-minaccia, come ha rimarcato il comandante della Prima divisione navale, contrammiraglio Lorenzano Di Renzo, al rientro dell’unità. Nave Duilio ha partecipato all’esercitazione COMPTUEX (Composite Training Unit Exercise), terza e ultima fase del processo di addestramento e integrazione delle navi che costituiscono il gruppo portaerei (Carrier Strike Group) americano. Un percorso addestrativo molto complesso, finalizzato al conseguimento della piena interoperabilità tra i vari assetti navali, nonché alla piena integrazione con il CSG George H.W. Bush. Missione compiuta dunque per nave Duilio, la prima unità della Marina Militare a condurre questo ciclo addestrativo negli Stati Uniti, arricchendo il patrimonio di esperienze operative della Forza armata e aprendo nuove vie di collaborazione nel dominio marittimo. Tale attività rientra nel percorso che la Marina Militare sta portando avanti e si inserisce nel più ampio contesto della difesa nazionale: contribuire a proiettare il Sistema Paese al centro dello scenario internazionale, rendendo l’Italia protagonista delle operazioni marittime a elevata complessità.
Rientro a La Spezia per la fregata Rizzo
Al termine di un impegno operativo in Golfo di Guinea della durata di 124 giorni, dopo aver percorso circa 18.000 miglia, contribuendo ad assicurare la libertà di navigazione e la sicurezza delle linee di comunicazione marittima, ha fatto rientro alla base navale di La Spezia la fregata Luigi Rizzo (F 595). Tale attività si è specificata nell’intervento condotto dalla fregata Rizzo sotto il comando del C.F. Andrea Cecchini, nella notte tra il 3 e il 4 aprile in soccorso al mercantile Arch. Gabriel, unità bat-
Il caccia lanciamissili CAIO DUILIO (D 554) ha fatto rientro alla base navale di La Spezia lo scorso 22 luglio dopo una lunga attività iniziata con l’esercitazione
«Mare Aperto» e poi protrattasi fino al rientro dagli USA, dove l’unità ha preso parte integrandosi nell’ambito dell’attività addestrativa preparatoria e certificativa
all’impiego del CSG (Carrier Strike Group) 10 della US Navy, incentrato sulla portaerei GEORGE H.W. BUSH (CVN 77) classe «Nimitz» (US Navy).
La fregata LUIGI RIZZO (F 595), al termine di un impegno operativo in Golfo di Guinea della durata di 124 giorni, dopo aver percorso circa 18.000 miglia, con-
tribuendo ad assicurare la liberta� di navigazione e la sicurezza delle linee di comunicazione marittima, ha fatto rientro alla base navale di La Spezia lo scorso 25 giugno.
tente bandiera delle Marshall Islands e vittima di attacco pirata a circa 280 mn a sud di Lagos, Nigeria. L’intervento della fregata ha assicurato l’incolumità dell’equipaggio e la riconsegna del controllo della nave al proprio comandante. Nel periodo di presenza dell’unità italiana nell’area non sono stati registrati rapimenti di marittimi, evento purtroppo ricorrente negli anni passati e fonte di grande preoccupazione per la gente di mare. Grazie all’intensa e proficua collaborazione con il cluster marittimo nazionale sono state svolte numerose esercitazioni di antipirateria con la collaborazione delle navi battenti bandiera nazionale, impiegando gli elicotteri organici di bordo per l’invio sui mercantili del boarding team della Brigata Marina San Marco (BMSM).
Taglio lamiera per la seconda unità LSS
Con una cerimonia tenutasi presso lo stabilimento Fincantieri di Castellammare di Stabia lo scorso 22 luglio, è stata celebrato il taglio della prima lamiera della seconda unità da supporto logistico (LSS, Logistic Support Ship) classe «Vulcano» che ha ricevuto il nome Atlante. Questo primo importante traguardo avviene soltanto a sette mesi di distanza dalla firma dell’emendamento al contratto LSS n°5 siglato il 20 dicembre scorso tra OCCAR e il Consorzio temporaneo di industrie composto da Fincantieri e Leonardo. Questo particolare evento rappresenta l’entrata in produzione della seconda unità tipo LSS per la Marina Militare, a cui è previsto venga consegnata nel 2025. Il programma franco-italiano LSS è guidato da OCCAR per conto della DGA, la direzione generale degli armamenti francese, e della sua controparte italiana, NAVARM. Il programma prevede lo sviluppo e la produzione di 6 navi (2 per l’Italia e 4 per la Francia) e il supporto in servizio, a cui s’aggiunge una terza unità per la MM.
Compagnia Fucilieri del San Marco in Kosovo
Dopo quasi vent’anni dall’ultimo dispiegamento della Brigata San Marco nei Balcani, nell’ultima decade di luglio, la 3a Compagnia An-Nasiriyah del 2°
Battaglione Assalto Venezia - 1° Reggimento San Marco è stata dispiegata in Kosovo prendendo parte all’operazione KFOR-Joint Enterprise, alla quale partecipano 28 paesi NATO e partner, con un impegno complessivo di circa 3.800 uomini e donne. I fucilieri di Marina impiegati, sotto la guida del Reggimento Piemonte Cavalleria (2°) dell’Esercito Italiano, in attivita ̀ di pattugliamento dell’area di operazione, congiuntamente alle altre forze alleate e dell’ordine locali, a difesa e protezione del Villaggio Campo Italia presso la località di Belo Polje, in attività di difesa e protezione del monastero di Visoki Dečani e nel garantire una Quick Reaction Force nell’area di operazione.
Partecipazione agli SNMG2 e SNMCMG2
La LSS Vulcano (A 5335) e la fregata Martinengo (F 596) rispettivamente ai comandi del C.V. Alberto Maria Mancini e del C.F. Edoardo Ristori hanno fatto ritorno alle rispettive basi navali di stazionamento (La Spezia e Taranto) dopo aver preso parte al Secondo gruppo navale permanente della NATO (SNMG2) per tutto il mese di luglio. Le due unità hanno partecipato alle attività operative e addestrative con il dispositivo NATO guidato — dal 1 luglio — dal Rear Admiral Michael Scott Sciretta (US Navy) e composto da assetti navali forniti dalle nazioni facenti parte dell’Alleanza, chiamate a dare il loro contributo a salvaguardia della sicurezza nel Mediterraneo. Durante il periodo di assegnazione, oltre alle significative interazioni con il Carrier Strike Group 8 guidato dalla portaerei Harry S. Truman (CVN 75) sono state condotte anche numerose interazioni con unità navali e assetti aerei esterni al dispositivo NATO, in particolare con le Marine greca e turca. Il cacciamine Alghero (5556) si è invece aggregato all’inizio del mese di luglio al Secondo gruppo navale permanente di Contromisure mine della NATO (SNMCMG2), che fornisce all’Alleanza una pronta capacità operativa, indispensabile per assicurare il libero accesso ai porti e la sicurezza della navigazione nel Mediterraneo dalla possibile presenza di mine.
Conclusa la campagna «High North 22»
Dopo oltre 80 giorni di attività scientifica in Oceano Artico e 12.400 mn percorse, nave Alliance (A 5345) ha fatto rientro a La Spezia portando a termine due importanti campagne alle alte altitudini: la sesta campagna di ricerca del programma «High North» e la campagna «NREP 22». Con un equipaggio di 47 elementi al comando del capitano di fregata Pasquale Perrina, l’unità polivalente di ricerca idro-oceanografica che opera a favore della NATO e della MM, alle dipendenze del Comando delle Forze di contromisure mine della Marina Militare, una volta giunta nel porto di Tromsø, ha visto l’alternarsi di due team scientifici, quello composto da personale del CMRE (Centre for Maritime Research and Experimentation) della NATO, che ha portato avanti il Sea Trial NREP22 (Nordic Re-
cognized Environmental Picture 22), e quello dell’Istituto Idrografico della Marina Militare che invece ha continuato l’annuale campagna «High North 22». Durante le attività sono stati impiegati sensori di ultima generazione, in un’area di operazioni a latitudini elevate comprese tra lo Stretto di Fram, Mar di Groenlandia, le Isole Svalbard e lo Yermak Plateau per definire la mappatura di aree inesplorate, le caratteristiche e le dinamiche della colonna d’acqua e del fondale in relazione ai processi sedimentari, alla circolazione e alla distribuzione dei ghiacci. Punto di forza della campagna «High North 2022» è stata la presenza di otto giovani aspiranti idrografi, imbarcati in tirocinio formativo, tra ufficiali e sottufficiali della Marina Militare, personale di marine estere e studenti dell’Università di Genova che, a chiusura del corso del corso specialistico-accademico riconosciuto internazionalmente di FIG/IHO/ICA Hydrographic Surveyor hanno potuto effettuare il loro tirocinio pratico a bordo, arricchendosi di un bagaglio professionale e culturale senza paragoni e portando a termine la loro prima campagna idro-oceanografica.
Campagna idrografica in Libano per nave Magnaghi
Nel corso del mese di luglio, nave Magnaghi (A 5303) e il suo equipaggio al comando del C.F. Alessandro Peveri, hanno collaborato alla raccolta di dati per la realizzazione della carta nautica del porto di Tripoli in supporto alle istituzioni libanesi e per la sicurezza della navigazione costiera e dei traffici commerciali, nel più ampio contesto del piano di cooperazione Italia/Libano. Durante tutta l’attività, un sottufficiale della marina libanese in formazione presso l’Istituto Idrografico della Marina di Genova, ha operato a bordo integrato nell’equipaggio per il tirocinio pratico necessario a conseguire la qualifica di idrografic surveyor.
ARABIA SAUDITA Consegnata la seconda corvetta classe «Al Jubail»
Il gruppo Navantia ha consegnato alla Marina Saudita la seconda delle cinque corvette classe «Al Jubail» lo scorso 26 luglio presso il sito cantieristico di Navantia a San Ferdinando (Cadice). Si tratta dell’unità Al Diriyah (830), la cui costruzione è stata lanciata nel maggio 2019 a distanza di tre anni dalla firma del contratto nonostante la pandemia e le problematiche di approvvigionamento materiali. Alla cerimonia ha partecipato fra le diverse personalità militari e civili, il comandante in capo della Marina Saudita, l’ammiraglio Fahad Bin Abdullah Al-Ghofaily, il quale ha rimarcato come il programma «Alsarawat» legato alla
Dopo oltre 80 giorni di attività scientifica in Oceano Artico e 12.400 mn per-
corse, nave ALLIANCE (A 5345) ha fatto rientro alla fine di luglio a La Spezia,
portando a termine due importanti campagne alle alte altitudini: la sesta campagna di ricerca del programma «High North» e la campagna «NREP 22».
costruzione e messa in servizio delle cinque corvette, relativo supporto e trasferimento di tecnologie è un importante contributo al raggiungimento dei traguardi fissati dalla Vision 2030 del governo Saudita, incrementando le capacità navale ma al tempo stesso le capacità dell’industria nazionale. A distanza di 18 mesi dall’esecutività del contratto, nel luglio 2020 è stata varata la prima unità seguita dalle altre quattro a un intervallo di quattro mesi una dall’altra. Nel frattempo circa 500 unità del personale saudita sono state addestrate in Spagna presso il Centro addestrativo di Navantia. La corvetta Al Diriyah è stata sottoposta a un’intensa attività di prove in mare a partire dallo scorso gennaio che secondo le immagini divulgate dallo stesso Ministero della Difesa saudita avrebbero compreso almeno un lancio di missile superficie-aria MBDA VL MICA.
CINA Varata la portaerei classe «Fujian»
Con una grande cerimonia tenutasi presso i cantieri Jiangnan del gruppo cantieristico China Shipbuilding Industry Corporation di Shangai, la Marina della Repubblica Popolare Cinese ha varato la terza portaerei battezzata Fujian dal nome della provincia più vicina a Taiwan. Il progetto «Tipo 003» rappresenta un significativo salto tecnologico e capacitivo da parte della PLAN (People’s Liberation Army Navy) in quanto in aggiunta a un dislocamento di circa 80.000-90.000 tonnellate, una lunghezza di circa 320 metri e un sistema propulsivo convenzionale, l’unità è equipaggiata con tre catapulte tipo EMALS (Electromagnetic Aircraft Launch System), due ascensori principali ed è in grado d’impiegare il più recente velivolo imbarcato da combattimento cinese Shenyang «J-35» in fase di sviluppo nonché velivoli ad ala fissa AEW (Airborne Early Warning). Lo sviluppo del nuovo progetto di portaerei cinese che ha dimensioni e dislocamento molto vicini a quello delle portaerei della US Navy è da inserirsi nel piano di potenziamento della capacità della PLAN e delle Forze armate cinesi che consentirà a queste ultime di estendere la capacità di controllo e strike navale sulle acque dell’Oceano Pacifico e Indiano.
COREA DEL SUD Creato il Comando Aeronavale
La Marina della Corea del Sud ha istituito lo scorso 15 luglio il Naval Air Command, trasferendo al medesimo i reparti e le piattaforme aeree ed elicotteristiche in servizio. Destinato a potenziare le capacità antisom della Forza armata, il nuovo Comando riceverà a partire dal 2023 i sei nuovi velivoli ASuW/ASW Boeing «P-8A Poseidon» destinati ad affiancare e in futuro rimpiazzare i velivoli «P-3» in servizio mentre a partire dal 2025 è previsto l’arrivo dei 12 «MH-60R Seahawk» destinati a essere acquisiti a breve. Nel frattempo al nuovo Comando oggi basato sul 6th Air Wing sono stati trasferiti i velivoli ASuW/ASW «P-3C» e «CK», i velivoli da trasporto «F-406 Caravan II», gli elicotteri «AW 159 Wildcat», «Super Lynx/Lynx», «UH-60P» e «UH-1H».
GIAPPONE Nuovi OPV per la JMSDF
Secondo quanto annunciato dal Ministero della Difesa giapponese, quest’ultimo ha assegnato lo scorso 30 giugno un contratto per la costruzione della nuova generazione di OPV ai cantieri Japan Marine United. Questi ultimi verranno impiegati per attività di sorveglianza e monitoraggio del naviglio militare straniero nel Mare del Giappone, Mar Cinese Orientale e Oceano Pacifico in tempo di pace, attività oggi svolta dalle unità di prima linea, oltre a portare a termine altre missioni fra cui il supporto alla popolazione in caso di calamità. Secondo quanto comunicato, ciascuna
Il gruppo Navantia ha consegnato il 26 luglio alla Marina Saudita la corvetta
AL DIRIYAH (830), seconda delle cinque unità classe «Al Jubail» presso il
sito cantieristico di Navantia a San Ferdinando (Cadice) (Ministero Difesa saudita).
piattaforma avrà un dislocamento di circa 1.920 tonnellate, una lunghezza e larghezza rispettivamente di 95 e 12 metri, un sistema propulsivo in configurazione CODLAD (Combined Diesel-eLectric And Diesel) in grado di assicurare una velocità massima superiore ai 20 nodi. L’armamento sarà incentrato su di un cannone da 30 mm e disporranno di un ponte di volo poppiero con hangar, un equipaggio ridotto a circa 30 elementi grazie a un’elevata automazione nonché spazi e attrezzature per l’imbarco di carichi containerizzati per attività HADR (Humanitarian And Disaster Relief).
Varo del secondo OPV classe «Shunkou»
Con una cerimonia tenutasi presso i cantieri di Shimsoneki del gruppo MHI (Mitsubishi Heavy Industries) è stato varato il secondo degli OPV classe «Shunkou» per la Guardia Costiera giapponese. Si tratta dell’unità Asanagi (PLH 43) che al pari del capoclasse ha un dislocamento di circa 6.700 tonnellate, una lunghezza e larghezza rispettivamente di 140 e 16,5 metri, un sistema propulsivo con quattro motori diesel IHI-SEMT Pielstick «16 PC2.4 V 400» su due assi, in grado di assicurare una velocità massima di 25 nodi, ponte di volo poppiero e hangar per accogliere elicotteri della classe «AS332/EC225» (due in hangar), nonché armamento basato su di un cannone «Bofors» da 40 mm e due da 20 mm.
GRAN BRETAGNA Droni a bordo della portaerei Prince of Wales (R 09)
Il gruppo QinetiQ ha ricevuto un contratto dalla Royal Navy per la sperimentazione dei droni bersaglio «Banshee Jet80+» quali velivoli senza pilota nell’ambito delle operazioni dei Carrier Strike Group. Tale sperimentazione, strettamente collegata con il programma «Vampire Phase 1» della Royal Navy, vedrà QinetiQ Target Systems utilizzare i sistemi «Banshee» in missioni addestrative e ISR (Intelligence, Surveillance and Reconnaissance), emulando nel primo caso missili da crociera e velivoli da combattimento per stimolare e testare la risposta del sistema di combattimento delle unità navali oltre a essere impiegati come decoy. Nel secondo caso, i Banshee verranno impiegati come piattaforme per compiti ISR di rapida identificazione ottica di tracce radar, il tutto gestito dal sistema di comando e controllo MAPLE. Tale sperimentazione verrà realizzata da bordo della portaerei Prince of Wales nel corso dell’imminente dispiegamento nelle acque antistante la costa orientale degli Stati Uniti.
Primi test del sistema laser «Dragonfire»
Il programma Dragonfire destinato allo sviluppo e dimostrazione delle capacità di un sistema d’arma a energia diretta laser (LDEW, Laser Directed Energy Weapon) lanciato dal Ministero della Difesa britannico e gestito da un team industriale guidato dal gruppo MBDA, ha avviato con successo una serie di prove per dimostrare la precisione e la potenza della nuova arma laser. Secondo quanto comunicato da MBDA, il consorzio Dragonfire che rappresenta una collaborazione fra il Ministero della Difesa UK con il DSTL (Defence Science and Technology Laboratory) e un team industriale comprendente MBDA, Leonardo e QinetiQ, ha recentemente condotto il primo test a bassa potenza del sistema, dimostrando che il medesimo può tracciare con successo bersagli aerei e sul mare con una precisione eccezionalmente elevata. La fase successiva vedrà condurre un test laser statico ad alta potenza, mantenendo l’elevata precisione del sistema di puntamento. Il passo ancora successivo sarà invece rivolto a combinare i risultati di queste due prove, accoppiando la precisione di tracciamento recentemente testata e il laser ad alta potenza, coinvolgendo bersagli in scenari operativamente rappresentativi.
Il gruppo QinetiQ ha ricevuto un contratto dalla Royal Navy per la sperimentazione dei droni bersaglio «Banshee Jet80+» quali velivoli senza pilota nell’ambito delle operazioni dei Carrier Strike Group (UK MoD Crown Copyright).
Via libera alla terza fase programma «Proteus»
Il Ministero della Difesa britannico, attraverso i suoi dipartimenti responsabili dei programmi di approvvigionamento e sviluppo delle capacità future, ha assegnato a Leonardo un contratto quadriennale del valore di 71 milioni di euro (60 milioni di sterline) relativo alla terza fase del programma per lo sviluppo di un dimostratore tecnologico ad ala rotante a pilotaggio remoto (RWUAS - Rotary Wing Uncrewed Air System). Il programma prevede lo sviluppo di un prototipo avanzato modulare con un peso fino a 2-3 tonnellate, destinato ad attività dimostrative in volo e denominato «Proteus» negli ambienti della Difesa britannica. Caratterizzato da un’elevata capacità di carico e ampio volume, unitamente alla capacità di operare in condizioni ambientali difficili, il prototipo duale RWUAS potrà effettuare diversi tipi di missione nel campo della difesa e degli impieghi di pubblica utilità, fra cui intelligence, sorveglianza e ricognizione, missioni navali, supporto logistico. Si tratta di un elemento centrale nella «vision» delle future capacità dell’Aviazione navale britannica nel contrasto alle minacce sottomarine.
INDIA Consegnata la portaerei Vikrant (R 11)
Con una cerimonia tenutasi presso i cantieri CSL (Cochin ShipYard Limited) di Cochin lo scorso 28 luglio, è stata consegnata alla Marina indiana la portaerei di produzione nazionale (IAC, Indigenous Aircraft Carrier) Vikrant (R 11). Coincidente in termini temporali con il 75° anniversario dell’indipendenza della nazione e battezzata con il nome della prima portaerei che ha svolto un ruolo principale nel conflitto del 1971, con la consegna della portaerei Vikrant, la cui entrata in servizio è prevista a breve, l’India entra nel ristretto club della nazioni in grado di costruire una portaerei e costituisce un’importante traguardo nell’ambito dell’iniziativa del «Made in India» con oltre il 76% dei sistemi imbarcati nonché gli stessi materiali costruttivi, fra cui il ferro dello scafo, prodotti localmente. Con un dislocamento a pieno carico vicino alle 45.000 tonnellate, una lunghezza e larghezza rispettivamente di 262 e 62 metri, ben 14 ponti di cui 5 nelle sovrastrutture per un’altezza totale di 59 metri, l’unità dispone di un sistema propulsivo incentrato su quattro turbine a gas General Electric «LM2500+», per il cui progetto è stato interessato il gruppo Fincantieri, in grado di assicurare una velocità di crociera e massima rispettivamente di 18 e 28 nodi e un’autonomia di 7.500 mn. Progettata internamente dalla Marina indiana, l’unità dispone di un ponte di volo e sistema per il lancio e recupero dei velivoli ad ala fissa tipo STOBAR (Short Take-Off but Arrested Landing) ed è in grado di accogliere un gruppo di volo con 30 macchine fra cui velivoli «MiG-
Il Ministero della Difesa britannico ha assegnato a Leonardo un contratto quadriennale del valore di 71 milioni di euro relativo alla terza fase del programma per lo sviluppo di un dimostratore tecnologico ad ala rotante a pilotaggio remoto (RWUAS - Rotary Wing Uncrewed Air System). Qui ripreso il dimostratore «SW-4 Solo» di Leonardo utilizzato nelle precedenti fasi (Leonardo). Con una cerimonia tenutasi presso i cantieri CSL (Cochin ShipYard Limited) di Cochin lo scorso 28 luglio, è stata consegnata alla Marina indiana
la portaerei di produzione nazionale (IAC, Indigenous Aircraft Carrier) VIKRANT (R 11) (Ministero Difesa indiano).
29K», elicotteri «Kamov Ka-31» per la scoperta aerea lontana, multiruolo Sikorsky «SH-60R» in aggiunta a velivoli di produzione nazionale, in particolare l’elicottero ALH (Advanced Light Helicopters) e il caccia imbarcato LCS (Light Combat Aircraft). Caratterizzata a un alto livello di automazione in termini propulsivi, conduzione e sopravvivenza, l’unità dispone di un equipaggio di circa 1700 elementi con alloggi per ufficiali donne.
INTERNAZIONALE Accordo italo-francese per supporto cannoni da 76/62 mm
Nell’ambito della cooperazione bilaterale tra Italia e Francia e dell’incontro avvenuto lo scorso 7 luglio, presso la sede della Direction Centrale du Service de Soutien de la Flotte francese, fra il Comandante Logistico della Marina ammiraglio Giuseppe Abbamonte e l’omologo della Marine Nationale Française IGAHC Guillaume de Garidel-Thoron, questi ultimi in qualita ̀ di delegati dei rispettivi Ministeri della Difesa, e l’ing. Marco De Fazio, Managing Director di Leonardo Electronics Division - Defence Systems Business Unit, hanno sottoscritto un protocollo di intesa trilaterale tra Marina Militare, Marine Nationale e la società Leonardo. In base a quest’ultimo, le parti si impegnano a proseguire nella fruttuosa cooperazione iniziata nel 2015 per la manutenzione presso gli enti tecnici della Marina alla Spezia (MARINARSEN e CSSN) dei sistemi «Super Rapido» da 76/62 mm installati sulle unità francesi della classe «Forbin», «Aquitaine» e sulle prossime FDI (Frégates de défense et d’intervention) classe «Amiral Ronarc’h».
Finanziamento europeo per il programma EPC
La Commissione europea ha annunciato lo scorso 20 luglio i programmi nel settore della difesa e sicurezza che sono stati selezioni nell’ambito dell’EDF (European Defence Fund) 2021. Fra questi l’European Patrol Corvette (EPC) coordinato dalla società Naviris Italy, joint-venture fra Fincantieri e Naval Group e comprendente questi stessi gruppi in aggiunta a Navantia e società medio-piccole greche, norvegesi e danesi. Il programma della durata di 24 mesi e destinato a un finanziamento comunitario massimo di 50 milioni di euro vedrà la realizzazione di studi preliminari e più evoluti per la realizzazione di unità di seconda linea, in particolare corvette, caratterizzate da avanzate tecnologie e capacità modulari per soddisfare i requisiti dei paesi (Italia, Francia, Grecia e Portogallo quale osservatore) che prendono parte al programma PESCO.
ISRAELE Droni VTOL per la Marina israeliana
La società israeliana Steadicopter è stata selezionata dalla Marina israeliana per la fornitura di velivoli senza pilota a decollo e atterraggio verticale (VTOL, Vertical Take-Off and Landing) «Black Eagle 50E». Con un peso massimo di 50 kg di cui 30 dedicati al carico utile e batterie, i velivoli «Black Eagle 50E» si caratterizzano per
La Marina Militare, Marine Nationale e Leonardo hanno siglato un accordo per proseguire nella fruttuosa cooperazione per la manutenzione presso gli enti tecnici della MM dei sistemi «Super Rapido» da 76/62 mm installati sulle unita� francesi della classe «Forbin», «Aquitaine» qui ripresa, e sulle prossime FDI (Fre�gates de de�fense et d'intervention) classe «Amiral Ronarc’h» (Naval Group). La società israeliana Steadicopter è stata selezionata dalla Marina israeliana per la fornitura di velivoli senza pilota a decollo e atterraggio verticale (VTOL, Vertical Take-Off and Landing) «Black Eagle 50E» (Steadicopter).
una propulsione elettrica in grado di assicurare un’autonomia di circa due ore. Il carico utile per missioni di sorveglianza e designazione bersagli dovrebbe essere basato su di un sensore elettro-ottico diurno/notturno.
QATAR Consegnato secondo OPV classe «Musherib»
Alla presenza del vice Primo ministro e ministro della Difesa del Qatar H.E. Khalid bin Mohamed Al Attiyah e del ministro della Difesa Lorenzo Guerini, si è svolta lo scorso 7 luglio presso lo stabilimento di Muggiano (La Spezia) la cerimonia di consegna dell’OPV Sheraouh (Q 62), seconda unità della classe commissionata a Fincantieri dal Ministero della Difesa del Qatar nell’ambito del programma di acquisizione navale del valore complessivo di quasi quattro miliardi di euro che comprende oltre ai due OPV, le quattro corvette classe «Al Zubarah», un’unità LPD e un ampio pacchetto di supporto e addestramento.
RUSSIA Consegnato il sottomarino Belgorod (K 329)
Con una cerimonia tenutasi l’8 luglio scorso presso i cantieri Sevmash di Severodvinsk, alla presenza del C.S.M. della Marina della Federazione russa, ammiraglio Nikolai Yevmenov, è stato consegnato il sottomarino Belgorod (K 329) «Progetto 09852». Impostato nel luglio 1992 e varato nell’aprile 2019, l’unità avrebbe effettuato le prime prove a mare nella prima metà del 2022 e sarebbe stata assegnata alla 29° Divisione Sottomarini che rappresenta uno speciale reparto, il braccio operativo del GUGI, il Direttorato Principale per le ricerche su alti fondali, il quale dipende direttamente dal Ministero della Difesa russo. Una versione modificata del sottomarino a propulsione nucleare «Oscar II» («Progetto 949A»), la speciale piattaforma che nel corso del suo sviluppo e costruzione ha subito un consistente allungamento fino alla lunghezza di 184 metri (e circa 18 metri di larghezza), superiore a quella dei sottomarini SSBN classe «Typhoon» (Progetto 941) più corti di circa 11 metri, presenta un sistema propulsivo nucleare e dispone di un sistema di aggancio e trasporto sotto la pancia per il veicolo subacqueo autonomo a propulsione nucleare «Poseidon» («Kanyon» per la NATO). Precedentemente noto come progetto «Status-6», il «Poseidon» è stato sviluppato dal bureau Rubin ed è capace di trasportare carichi sia convenzionali che nucleari. Sebbene il Belgorod venga definito dal Ministero della Difesa russo come piattaforma per ricerche, spedizioni scientifiche e soccorso in aree remoto del Globo, l’unità insieme al «Poseidon» è stata definita dal presidente Putin come una delle armi a disposizione dell’arsenale nucleare russo.
Alla presenza del vice Primo ministro e ministro della Difesa del Qatar H.E. Khalid bin Mohamed Al Attiyah e del ministro della Difesa Lorenzo Guerini, si e� svolta lo scorso 7 luglio presso lo stabilimento di Muggiano (La Spe-
zia) la cerimonia di consegna dell’OPV SHERAOUH (Q 62), seconda e ul-
tima unita� della classe (Fincantieri). STATI UNITI Prima dispiegamento per unità LCS nel Golfo
Con l’arrivo dopo un viaggio di circa 10.000 mn nel Bahrein il 25 giugno dell’unità Sioux City (LCS 11) classe «Freedom» è iniziato il primo dispiegamento operativo in Medio Oriente di un’unità tipo LCS (Littoral Combat Ship).
Con l’arrivo dopo un viaggio di circa 10.000 mn nel Bahrein il 25 giugno
dell’unità SIOUX CITY (LCS 11) classe «Freedom», è iniziato il primo di-
spiegamento operativo in Medio Oriente di un’unità tipo LCS (Littoral Combat Ship) (US Navy).
Entra in servizio l’unità Fort Lauderdale (LPD 28)
Con una cerimonia tenutasi lo scorso 30 luglio presso i cantieri di Huntington Ingalls alla presenza dell’Assistant Commandant dell’USMC, generale Eric Smith, è stata immessa in servizio l’unità anfibia tipo LPD (Landing Platform Dock) Fort Lauderdale (LPD 28). Si tratta della dodicesima unità «Flight I» della classe «Sant’Antonio» che incorpora una serie di miglioramenti produttivi e modifiche sviluppate per il programma «LX(R)» destinato allo sviluppo e produzione delle nuove unità destinate a rimpiazzare le navi tipo LSD (Landing Ship Dock) delle classi «Whidbey Island» e «Harpers Ferry».
Assegnato contratto per programma DDG(X)
I gruppi General Dynamics e Huntington Ingalls Industries hanno rispettivamente annunciato lo scorso 22 luglio che le proprie divisioni Bath Iron Works e Ingalls Shipbuilding hanno ricevuto un contratto di valore non precisato dalla US Navy per lo sviluppo ingegneristico e la progettazione della prossima generazione di caccia lanciamissili nell’ambito del programma DDG(X).
L’US Naval Sea Systems Command ha esercitato l’opzione per la terza unità classe «Constellation», as-
Con una cerimonia tenutasi lo scorso 30 luglio presso i cantieri di Huntington Ingalls alla presenza dell’Assistant Commandant dell’USMC, generale Eric
Smith, è stata immessa in servizio l’unità anfibia tipo LPD (Landing Platform Dock) FORT LAUDERDALE (LPD 28) (US Navy).
segnando il 16 giugno a Fincantieri Marinette Marine un contratto del valore di 536 milioni di dollari per la costruzione della fregata Chesapeake (FFG 64). Nel frattempo il programma ha superato con successo il traguardo della CDR (Critical Design Review) per l’unità capoclasse che si accinge al lancio della fase costruttiva.
Inizio costruzione capoclasse e nuove navi T-ATS
Presso i cantieri Austal USA si è tenuta lo scorso 11 luglio la cerimonia del taglio lamiera per la prima unità della classe «Navajo». Si tratta di unità da rimorchio e salvataggio tipo T-ATS di nuova generazione di cui sono in corso di acquisizione quattro unità di cui la seconda coppia è stata ordinata ai cantieri Austal USA nello stesso mese di luglio.
Accettazione di nuove unità
Nell’ultima decade del mese di luglio, la US Navy ha preso in carico due unità navali di diverso tipo. Si tratta della sedicesima Littoral Combat Ship (LCS) costruita dai cantieri Austal USA che riceverà il nome Santa Barbara (LCS 32), consegnata lo scorso 21 luglio. A quest’ultima ha fatto seguito la rifornitrice di squadra capoclasse John Lewis (T-AO 205) il 26 luglio che offre alla Marina americana un significativo salto di qualità e capacità nel settore del supporto logistico della Flotta. Si tratta della prima di 20 unità di cui risultano in diverse fasi costruttive e di allestimento altre tre navi a cui s’aggiungono ulteriori due già contrattualizzate. Queste due unità sono state precedute il 9 giugno dalla consegna da parte del gruppo Textron Systems del nuovo SSC (Ship to Shore Connector) LCAC (Landing Craft, Air Cushion) 104 destinato a essere impiegato principalmente dalle unità anfibie, di cui risultano in produzione le gemelle LCAC 105 a LCAC 116.
Nuove munizioni da 30 mm
La US Navy ha assegnato un contratto alla controllata americana del gruppo tedesco Rheinmetall per lo sviluppo del nuovo munizionamento Airbust da 30 mm x 173 «Mk 340 MOD 0» KEET (Kinetic Energy Electronically Timed) destinato a incrementare significativamente le capacità degli attuali e futuri sistemi d’arma contro bersagli navali e aerei.
SVEZIA Impostazione del sottomarino AIP capoclasse «Blekinge»
Con una cerimonia tenutasi presso i cantieri Saab Kockums a Karlskrona lo scorso 30 giugno, è stato impostato il primo dei due battelli AIP classe «Blekinge». Esattamente a cinque anni dal lancio del programma con l’assegnazione del relativo contratto, i cantieri Saab Kockums hanno congiunto due delle cinque sezioni in cui è realizzato lo scafo dei battelli di nuova generazione caratterizzati da avanzate soluzioni e tecnologie nel settore subacqueo. Il raggiungimento di questo importante traguardo nella costruzione del primo battello dimostra che l’industria navale svedese mantiene la capacità di costruire unità subacquee, ca-
Lo scorso 26 luglio i cantieri NASSCO hanno consegnato alla US Navy la rifornitrice di squadra capoclasse JOHN LEWIS (T-AO 205) che offre un signi-
ficativo salto di qualità e capacità nel settore del supporto logistico della Flotta alla Forza armata (US Navy).
Con una cerimonia tenutasi presso i cantieri Saab Kockums a Karlskrona lo scorso 30 giugno, è stato impostato il primo dei due battelli AIP classe «Blekinge» (Ministero Difesa Svedese).
Il gruppo Roketsan specializzato nello sviluppo e produzione di sistemi missilistici ha completo con successo lo scorso inizio luglio il lancio di una nuova versione del sistema antinave/attacco terrestre «Atmaca» (Roketsan).
pacità riconosciuta a poche nazioni al mondo. L’unità capoclasse è destinata alla consegna nel 2027 seguita dalla seconda l’anno successivo.
TURCHIA Lancio della nuova versione del sistema «Atamca»
Il gruppo Roketsan specializzato nello sviluppo e produzione di sistemi missilistici ha completo con successo lo scorso inizio luglio il lancio di una nuova versione del sistema antinave/attacco terrestre «Atmaca». Si tratta della versione per impiego da batteria missilistica costiera e caratterizzato da un nuovo sistema di guida con sensore all’immagine termica (IIR, Imaging Infrared).
La Marina turca e gli UAV
Con la consegna da parte del gruppo TAI (Turkish Aerospace Industries) del terzo velivolo senza pilota a lunga autonomia e impiego a medie altitudini tipo «Aksungur» sale a 21 il numero degli UAV in servizio di cui dieci Baykar Technologies «Bayraktar TB2», quattro «AnkaS» e quattro «Anka-B» forniti dal gruppo TAI in aggiunta ai tre «Aksungur». Questi ultimi, caratterizzati da un’apertura alare e una lunghezza rispettivamente di 24 e 11,6 metri e un peso massimo al decollo di 3300 kg, sono equipaggiati con due motori diesel TEI «PD-170» da 170 hp ciascuno in grado di assicurare una velocità di crociera di 250 km/h un’altitudine operativa di oltre 12.000 m nonché un’autonomia di volo con un carico di 750 kg pari a 12 ore o senza di oltre 50 ore di volo. L’UAV dispone di tre punti d’attacco per sezione alare rispettivamente da 500, 300 e 150 kg. La piattaforma è dotata di un sistema EO/IR di sorveglianza e designazione bersagli a favore di bombe a guida laser, missili «L-UMTAS» anch’essi a guida laser, munizioni smart «MAM-L» e «MAM-C» oltre a razzi guidati «Cirit» e SDB (Small Diamter Bomb).
Luca Peruzzi
CHE COSA SCRIVONO GLI ALTRI
«Timeless Battle, Evolving Interpretations»
NAVAL HISTORY, JUNE 2022
Non ci volle molto perché Midway iniziasse a essere riconosciuta come molto più di una semplice vittoria. Fu una «battaglia decisiva» e un «punto di svolta» in tutta la guerra. Non c’è da stupirsi che nel 1948, l’analisi del Naval War College degli Stati Uniti (nota come «Bates Report») si riferisse già a Midway come «una delle più importanti battaglie navali della storia». Le grandi linee di Midway sono state ben comprese per generazioni. I giapponesi, intenti a portare gli americani al tavolo delle trattative e porre fine alla guerra alle loro condizioni, stavano cercando di sferrare un colpo finale contro la Marina degli Stati Uniti. Con le corazzate americane già affondate o paralizzate a seguito del suo attacco a Pearl Harbor, l’ammiraglio Isoroku Yamamoto (comandante in capo della flotta combinata giapponese) sperava che il modo più sicuro per infliggere un nuovo colpo decisivo al morale americano fosse quello di distruggere le restanti portaerei della US Navy. E quale modo migliore per portare quelle navi in battaglia se non organizzare una grande operazione aeronavale vicino alla loro base principale a Pearl Harbor? Sfortunatamente per i piani giapponesi, i codebreaker statunitensi avevano già compromesso il principale codice operativo navale del Giappone: JN25b. Il 14 maggio, appena tre settimane prima che Yamamoto aprisse la sua nuova offensiva, gli americani iniziarono a venire a conoscenza di un’imminente operazione mirata su Midway. Ciò diede a Nimitz poco tempo per mettere insieme un piano di battaglia e racimolare le forze necessarie. Stava correndo rischi spaventosi. Se infatti avesse perso le sue rimanenti portaerei ora, a soli sei mesi dall’inizio della guerra, non sarebbero state sostituite fino alla metà del 1944! Nimitz, però, era determinato a dare battaglia. Riparata la p. a. Yorktown dai danni che aveva subito nella battaglia del Mar dei Coralli del mese precedente, con le altre due portaerei disponibili — l’Enterprise (CV-6), e la Hornet (CV-8) — si dispose in una posizione perfetta, a circa 320 miglia nautiche a NE di Midway per tendere un’imboscata al gruppo portaerei giapponese (Kidō Butai) se avesse sferrato l’attacco, come previsto, da NO dell’atollo. Allo stesso tempo, Nimitz si affrettò a disporre una dozzina di sottomarini in posizione nelle vicinanze, rinforzare sostanzialmente la potenza aerea e terrestre di Midway, ordinando alla sua pur considerevole guarnigione dei Marines di scavare e prepararsi per la battaglia. Nel giro di poco tempo, il palcoscenico era pronto. La mattina del 4 giugno, quasi esattamente dove e quando i codebreaker statunitensi avevano previsto, la potente forza di quattro portaerei del vice ammiraglio Chūichi Nagumo — Akagi, Kaga, Hiryū e Sōryū — si materializzò lanciando un attacco all’alba contro l’atollo. La battaglia era iniziata. Ma le fasi iniziali del mattino sembravano tutti andare per la strada del Giappone. Midway fu pesantemente bombardata, la sua forza di caccia decimata. Numerosi attacchi americani contro il Kidō Butai furono sconfitti con pesanti perdite e nessun danno inflitto ai giapponesi. Ma subito dopo, con una serie di eventi quasi inimmaginabilmente fortunati, la Marina degli Stati Uniti riuscì a sorprendere il Kidō Butai con attacchi da parte di due gruppi di aerei dalla Yorktown e dall’Enterprise. Nel giro di soli sette minuti, Akagi, Kaga e Sōryū rimasero paralizzati, in fiamme e alla fine condannati. L’Hiryū avrebbe fatto la stessa fine nel tardo pomeriggio. Quando la battaglia si concluse finalmente il 7 giugno, i risultati erano assolutamente sbilanciati. Il Giappone aveva perso quattro portaerei, un incrociatore pesante, 248 aerei e 3.057marinai, mentre le perdite americane ammontarono alla sola p.a. Yorktown, un cacciatorpediniere, circa 150 aerei e 307
marinai. Era stata una disfatta per la Martina imperiale giapponese! «Non solo, era stata una disfatta che ha frenato lo slancio del Giappone, consentendo agli americani di intraprendere la loro successiva offensiva intorno a Guadalcanal — commenta l’Autore dell’articolo, Jonathan Parshall, coautore del libro «Shattered Sword. The Untold History of the battle of Midway» (2005) insieme ad Anthony Tully —. In buona sostanza, dopo Midway, l’America sarebbe sempre stata all’offensiva, il Giappone sulla difensiva. Dopo la rapida ma incisiva rievocazione in termini strategici della battaglia, l’Autore passa poi in maniera dettagliata all’analisi della storiografia della battaglia stessa, mettendo in evidenza quali siano stati i principali contributi apparsi sulla comprensione della battaglia negli ultimi ottant’anni dai fatti, in un lungo percorso critico di correzione di errori e millanterie nel frattempo apparsi (come i pretesi affondamenti di portaerei giapponesi da parte dei bombardieri ad alta quota B-17 dell’aviazione dell’esercito o del sommergibile USS Nautilus), ma successivamente smentiti, tanto da fargli auspicare che, anche del suo libro, fra mezzo secolo, si possa poter dire: «un’opera preziosa, ma da allora superata nel suo apprezzamento di [questo] o [quello] a seguito della scoperta
delle fonti X, Y e Z — un giudizio che dichiara — di accogliere davvero con favore, «perché significherebbe che la storia sta facendo quello che dovrebbe fare: aggiornarsi e cambiare se stessa per riflettere nuove conoscenze». Mentre i contributi che i codebreaker statunitensi hanno dato alla vittoria di Midway sono ben noti, sempre sul periodico in parola si segnala l’articolo di John Prados, Give Credit Where It’s Due, in cui si pone in risalto come i crittoanalisti abbiano Immagine artistica dell’attacco dei bombardieri in picchiata SBD Dauntless della portaerei USS YORKTOWN contro la giapponese Sōryū (usni.proceedings.org). svolto un ruolo altrettanto importante, anche se meno apprezzato, nel determinare le intenzioni giapponesi che hanno portato alla battaglia del Mar dei Coralli («Lo scontro navale del 4-8 maggio 1942 che divenne il primo in cui le navi da guerra contendenti non si videro mai», sottolinea l’Autore).
«Dopo Putin. L’invasione dell’Ucraina e la guerra d’Europa»
IL FOGLIO - SUPPLEMENTO, 7 MAGGIO 2022 Nel 72° giorno di guerra in Ucraina (e mentre si stendono le presenti note siamo arrivati già al quinto mese e la pace sembra ancora lontana!), il quotidiano Il Foglio, fondato da Giuliano Ferrara nel 1996 e ora diretto da Claudio Cerasa, nel supplemento in parola, a cura di Paola Peduzzi e Matteo Matzuzzi, in venti contributi critici, ci offre un quadro d’insieme della situazione ucraina da diverse angolazioni (geopolitiche, strategiche e geo-economiche) e di cui porremo in risalto alcuni punti chiave. Interessante innanzitutto si presenta l’analisi della
«visione» che sta alla base dell’aggressione russa. «Putin ha invaso l’Ucraina perché non la considera una nazione indipendente e sovrana: è roba sua, roba della Federazione russa, da sola non esiste — scrive Paola Peduzzi, vicedirettrice del quotidiano — ha sbagliato i calcoli militari perché, non contemplando l’esistenza dell’Ucraina, non ha messo in conto che esistesse un popolo ucraino pronto a combattere e a difendersi […] e se la premessa è questa, un piano d’attacco quasi non serve, spiegare ai soldati che devono battersi non serve, persino utilizzare la parola «guerra» non serve: basta riferirsi a un’operazione per restaurare l’ordine, tanto il castello di carte verrà giù con un soffio […ma non riuscendo a ottenere quello che voleva con l’esercito, Putin è passato al terrore, cioè] da un’invasione territoriale a un progetto di sterminio all’insegna del motto “stermineremo chi resiste”», riducendo a un cumulo di carta straccia le norme di quel diritto umanitario dei conflitti armati, messo laboriosamente a punto dalla comunità internazionale dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale. Sul fronte asiatico Giulia Pompili ci ricorda che, se l’economia è sempre una priorità per la Cina, (donde la necessità di non venire isolata dai mercati internazionali), sotto il profilo prettamente politico-strategico, la sua finalità resta sempre quella di «marginalizzare» l’America e i suoi irriducibili alleati. É la guerra a quello che viene considerato «il poliziotto del mondo», la volontà di minare dalle fondamenta il sistema a guida americana e creare un’alternativa che risponda a criteri più cinesi, quindi anche più autoritari. Il riavvicinamento tra Cina e Russia, la partnership tra Xi Jinping e Vladimir Putin, nasce proprio su questa base, cioè la revisione dell’ordine internazionale liberale! Dopo le roboanti dichiarazioni sull’amicizia «senza limiti, salda come una roccia», schierandosi con Mosca contro quelle che sono state definite «le unilaterali illegali sanzioni imposte alla Russia» dall’Occidente e votando contro la sospensione della Russia dal Consiglio Onu sui diritti umani, Xi però si è mantenuto nel corso della crisi ucraina in una posizione di «cauto equilibrismo», arrivando poi a convenire, nelle nota telefonata col presidente Macron del 10 maggio, «sul rispetto dell’integrità territoriale e la sovranità dell’Ucraina e sull’urgenza di raggiungere un cessate il fuoco» (https://www.adnkronos.com/ucraina-telefonata-macron-xi-urgentearrivare-a-cessate-il-fuoco), senza però passare dalle parole ai fatti in termini di pressioni politiche sul Cremlino (e, più recentemente, di fronte all’esplicita richiesta del segretario di Stato americano Blinken avanzata al margine del summit del G20 a Bali, rifiutandosi però, con la posizione assunta dal ministro degli Esteri cinese Wang Yi, di condannare esplicitamente l’aggressione russa). Certo enormi sono le differenze tra i due personaggi nel senso che «Putin è muscolare, mentre Xi non ama il rischio. Putin è uno scommettitore […] che in politica, soprattutto se la posta in gioco è alta, può perdere male, ma anche vincere molto: basti pensare al 2014 con la Crimea, ottenuta a costi bassissimi»! A sua volta il direttore Cerasa al punto di domanda se la pandemia prima e la guerra poi hanno contribuito a far saltare la globalizzazione spingendola verso un buco nero senza futuro, sul filo dell’ottimismo confida «in una globalizzazione diversa, non morta, forse persino più vitale, all’interno della quale forse gli stessi paesi che hanno messo insieme il 60% del Pil globale per sfidare il modello autocratico dalla Russia avranno il dovere di dimostrare che la forza messa in campo dall’Occidente contro Putin è una forza replicabile anche su un’altra scala: quella economica. E così la globalizzazione del futuro sarà costretta a ridisegnare le catene di approvvigionamento, accorciando le distanze, orientando le proprie delocalizzazioni guidati non più dalla logica del dove si risparmia di più ma dove si rischia di meno, passando rapidamente dalla logica della produzione just in time (si produce quello che serve al prezzo più basso possibile) a quella del just in case (si produce più di quello che serve a costi leggermente più alti per avere degli impianti più vicini in grado di sopperire all’eventuale mancata produzione degli impianti più lontani). Nel «mondo dopo Putin» varrà ancora il principio per cui «diffondere la libertà economica resterà ancora a lungo il modello migliore per garantire la prosperità dei paesi liberi».
IAI AFFARI INTERNAZIONALI, 22 MAGGIO 2022
Dalla fine della Guerra fredda le marine militari europee hanno subìto un ridimensionamento delle proprie capacità in esito a una netta riduzione dei loro bilanci. Tra le cause principali la necessità di allocare risorse in settori diversi dalla difesa, l’inizio della guerra principalmente terrestre e in parte aerea contro il terrorismo dopo i fatti del 9/11 e la connotazione principalmente terrestre degli interventi di stabilizzazione nei Balcani, Medio Oriente e Africa. L’Europa ha quindi, in una certa misura, «marginalizzato il ruolo delle marine militari» rendendo i loro compiti di deterrenza, controllo del mare e difesa collettiva secondari. Allo stesso tempo è gradualmente diminuita la consapevolezza politica e culturale nei confronti delle marine in quanto attori chiave per garantire la sicurezza e la difesa europea, un fenomeno che prende il nome di «sea blindness» [cioè in termini di dottrina statunitense: «an inability to appreciate the central role the oceans and naval power have played in securing our strategic security and economic prosperity»]. In questo contesto rapidamente delineato, scrive la studiosa Flavia Pace, «le marine europee si sono focalizzate su missioni a basso livello di intensità, come ricerca e soccorso in mare e contrasto alla pirateria. Si stima che tra il 1999 e il 2018 le marine europee abbiano perso il 32% dei loro mezzi combattenti di superficie». Numerosi invero sono i casi in cui le marine europee hanno dovuto ridimensionale le loro flotte nel corso del ventunesimo secolo: la flotta olandese, per esempio, è passata dall’essere una delle migliori della Guerra fredda a una di secondo livello; la Spagna, sempre a causa dei tagli al bilancio, ha dovuto dismettere la sua unica portaerei, mentre la Germania si è dovuta accontentare di una flotta relativamente piccola e la Marine nationale ha
riscontrato numerose difficoltà a causa del rinvio dell’acquisto di nuove fregate e dalle limitazioni dovute alla presenza di un’unica portaerei. Ai nostri giorni — ben viene sottolineato dall’Autrice — gli sviluppi geopolitici in atto richiedono però un maggiore impegno delle marine militari europee in diversi scacchieri, dall’Artico (che ha visto un significativo incremento della presenza della flotta russa) al Mediterraneo allargato, ragion per cui le marine europee non si debbono far trovare impreparate. Lo scorso marzo il Consiglio dell’Unione europea ha adottato lo «», il documento strategico per rafforzare la politica di sicurezza e difesa europea nei prossimi 5-10 anni. Un documento che riveste una particolare importanza per delineare anche il futuro della sicurezza marittima e delle marine militari europee, mirando ad «aumentare gli impegni dell’UE in mare», migliorare l’interoperabilità delle forze navali attraverso esercitazioni e organizzando all’uopo scali Gruppo portaerei Nato in navigazione fotografato il 6 febbraio 2022 nel Mediterraneo. Al centro la portaerei italiana CAVOUR, a sinistra la francese CHARLES DE GAULLE, a destra la statunitense HARRY S. TRUMAN (www.osservatorelibero.it). portuali per le navi militari europee. In sintesi «nel quadro dello Strategic Compass le marine devono ambire a quattro principali obiettivi: preparare le forze a operazioni anfibie per la gestione di crisi in nuove aree; rafforzare la loro resilienza combinando e attuando le strategie già esistenti e facendo riferimento a un’unica Maritime Task Force europea; investire in capacità navali di fascia alta e realizzare un quadro di cooperazione flessibile per la difesa di aree strategiche». Con tali finalità «è però essenziale per gli stati europei — conclude l’Autrice — aumentare i propri investimenti nelle marine — e non solo nella strategia dei mezzi — ma anche nella comune consapevolezza dello stretto legame che intercorre tra il dominio marittimo e la sicurezza, il commercio, la libertà e una crescita socio-economica a livello europeo». Il futuro delle marine militari europee deve dunque essere basato sul superamento della «sea blindness». Ezio Ferrante
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
Matteo BRESSAN - Giorgio CUZZELLI (a cura di)
Da Clausewitz a Putin: la guerra nel XXI secolo
Riflessioni sui conflitti nel mondo contemporaneo Ledizioni editore 2022 pp. 190 Euro 18,90
Ogni capitolo è affrontato da autorevoli esperti e studiosi, tra cui, Emanuele Gentili, Fiammetta Borgia, Germano Dottori, Virgilio Ilari, Stefano Felician Beccari, Niccolò Petrelli, Claudio Bertolotti, Flavia Giacobbe ed Emanuele Rossi, i quali analizzano sia i conflitti convenzionali, che quelli ibridi e asimmetrici, ma anche i nuovi campi di battaglia, la guerra cibernetica o l’information warfare, la Space War, e dei casi studio come il ruolo della Wagner, la fine della guerra in Afghanistan e la conquista talebana, ma anche Israele e Hamas o ancora l’Iran e gli Hezbollah.
Gli autori individuano un filo conduttore che unisce tutte le diverse forme di conflitto cui assistiamo, ovverosia l’imposizione della propria volontà con la forza verso l’avversario, rivelando che nonostante l’effetto che il progresso tecnologico ha avuto sui campi di battaglia, o la stessa evoluzione dei luoghi di battaglia, le idee di Clausewitz trovano ancora fondamento nel nostro tempo.
Proprio ai nuovi luoghi della battaglia è dedicata la seconda parte del libro, che affronta temi come la Space War, la guerra cibernetica e l’information warfare, quest’ultima analizzata da Emanuele Rossi, il quale mette in luce come la nuova organizzazione della società e l’influenza sempre maggiore che i media e i social network hanno sulla vita delle persone, abbiano di fatto reso la guerra dell’informazione uno dei campi di battaglia più complessi e in sempre più rapida evoluzione. L’infowar infatti, rappresenta oggi una parte integrante dei conflitti ibridi.
La quarta e ultima sezione del libro è dedicata ai case studies, tra questi Matteo Bressan analizza il caso della Wagner e la diffusione delle Private Military and Security Companies (PMSC), sulle quali, in campo di diritto internazionale, il dibattito è ancora aperto e la legislazione tutt’ora carente. Le PMSCs russe sono diventate dei veri e propri strumenti della guerra ibrida e sebbene l’Occidente gli abbia rivolto l’attenzione soltanto negli ultimi anni, non sono uno strumento nuovo nella storia della Russia, risalente addirittura all’epoca degli Zar. Una particolare attenzione è rivolta alla Wagner, la più nota PMC russa, della quale Bressan traccia un’attenta analisi, partendo proprio dal suo manager principale, lo «chef di Putin», Prigozhin.
Tra gli altri casi di studio che il libro ci offre, Claudio Bertolotti affronta il conflitto in Afghanistan a partire dal suo inizio fino alla caduta di Kabul e la definitiva conquista talebana. L’ultimo case study analizzato, nonché ultimo capitolo del libro, è l’attualissimo spettro della Cina, trattato da Stefano Felician Beccari.
Da Clausewitz a Putin: la guerra nel XXI secolo, offre un quadro completo sui conflitti contemporanei, sull’evoluzione e l’insorgere di nuove guerre a partire dalla fine del confronto bipolare, ribaltando così le facili illusioni dell’epoca in cui viviamo, cresciuta con l’idea di vivere in una società senza rischi in cui la guerra, sia essa tradizionale o irregolare, è esclusa.
Sarah Ibrahimi Zijno
Maria Cristina LOCORI (a cura di)
Un abbraccio forte Luciano
Lettere di un alpino italiano 1941-1943
Tralerighe libri - Andrea Giannattasi editore Lucca, 2020 pp. 160 Euro 14,25 Il momento storico e geopolitico in cui recensiamo questo libro bellissimo e toccante lo rende drammaticamente attuale, anche alla luce dei recenti accadimenti di conflitto nel cuore d’Europa. Questa raccolta epistolare tra un soldato disperso nell’inverno russo della Seconda guerra mondiale e i suoi angosciati genitori ci consegna uno spaccato storico, umano, intimo e introspettivo del rapporto tra Luciano Giorgio Trefiletti e i suoi affetti più cari. Egli si rivolge con la tenerezza e la ricerca quasi fisica di questo legame affettivo, pur nella lontananza, tipiche di un fanciullo verso la sua
amatissima madre. Ella è già provata dalla grave malattia del marito Paolo, sottufficiale della Regia Marina, la precoce morte di una delle figlie, del fratello Giuseppe nella Grande guerra, già prima di veder partire per il medesimo destino il figlio Luciano Giorgio. Le tradizioni di una tipica famiglia siciliana sono onorate dando al primogenito Luciano il nome del nonno paterno, e l’appartenenza alla Marina del padre è altresì onorata col secondo nome Giorgio, nome della nave su cui era imbarcato alla nascita di Luciano. Egli scompare in un campo avverso che ingoia migliaia di giovani militari assiderati e senza equipaggiamento, che servono la patria come possono. E oggi, ahimè, che la guerra è così vicina, ci appare più vicina anche la storia interiore di questo ragazzo della provincia ligure per il quale, come descrive la curatrice, «...la famiglia è il perno intorno al quale ruotano i sentimenti, le aspettative, le relazioni...». Forse in questo momento storico siamo più motivati a guardare nell’animo di un militare italiano che, sotto una bandiera, quella della sua terra trasversale ai secoli, in terra o imbarcato in mare, potrebbe non tornare mai più dai suoi cari e di cui resta solo memoria della sua esistenza e del suo sacrificio nella corrispondenza. Leggendo questa raccolta epistolare, messa a disposizione dalla sorella ancora in vita del giovane soldato, Paola, ci appare tutta la tragedia e la sofferenza della guerra, pur mai esplicitata da Luciano per non dare dolore alla madre Maria. La immaginiamo solo questa sofferenza leggendo qua e là della sua gioia per aver ricevuto dalla madre un sapone, o dei francobolli o della cioccolata. Questo militare di leva, sottolinea la curatrice, non quindi volontario o mosso da una adesione fideistica al regime fascista, vuole però fare il suo dovere. Egli mostra una inaspettata maturità quando cerca in tutte le sue lettere, sempre ironiche, fino all’ultima a inverno avanzato e prima di svanire nel nulla, la forza di nascondere ai propri genitori e alla madre in particolar modo, le sofferenze, le paure, la stanchezza, il freddo, la disperazione. La prima cosa che colpisce è che tutte le lettere siano animate da grande forza d’animo, ottimismo, positività e invito alla madre, che immagina molto angosciata, a rasserenarsi, a restare tranquilla. Appare incredibile la resilienza di questo ragazzo di 20 anni proiettato nelle immani sofferenze di una guerra invernale nelle steppe russe che, anche dopo aver sopportato 40 ore di treno e diversi giorni di marcia, non proferisce il minimo lamento o disagio pur di dare notizie liete alla propria mamma. La lettera n. 56 ne è la rappresentazione plastica più alta. Il figlio anziché cercare conforto e consolazione nella amatissima madre, invertendo i ruoli è lui a farsi maturo uomo che, al contrario, della madre si prende cura facendo di tutto per placare le preoccupazioni di questa «...sii tranquilla per il tuo alpino. Vedo con piacere che i miei scritti sono riusciti a tranquillizzarti e desidero che riescano sempre a darti quella nota di calma e tranquillità...il tempo così tanto dichiarato avverso si mantiene magnifico e favorisce le nostre fatiche!». Il tenore commovente, quanto di improbabile sincerità ed enfasi, con cui obnubila qualsiasi sofferenza o doglianza o paura o difficoltà non muta nelle lettere del mese del dicembre russo, che immaginiamo terribile. L’unica sofferenza di cui Luciano esprime il peso è quella di non avere scritti della sua mamma per un mese, come nella lettera n. 78 del 3 dicembre 1942 «...questo tuo scritto mi ha sollevato moltissimo. Debbo dirti perciò tutta la mia gioia e tranquillità. Non so come ringraziarti…Ho trascorso un mese tristissimo - lo ricorderò finché vivrò - in attesa di una tua parola di conforto e tuo perdono...». Le sue uniche gioie sono le parole e i gesti a lui rivolti di mamma e papà, come nella lettera n. 84 del 19 dicembre 1942 «…Il sapermi così ricordato da voi mi dà grande gioia e forza d’animo che uniti al morale splendido mi rendono (a mio parere) contento di tutto…». Commovente Luciano il 28 dicembre scrive ancora in lettera n. 87 «…come vedi è una vita che si conduce abbastanza bene malgrado il sacrificio di qualche ora di sonno, è una vita calma che noi trascorriamo con la necessaria disinvoltura…». Una brusca interruzione fa seguire l’ultima lettera da un austero comunicato del Comandante del Reggimento che risponde alle richieste di notizie dei genitori di Luciano dandolo per disperso. Però, dopo tante lettere di quotidiano e quasi gioioso afflato di intima relazione con la famiglia, quasi ci appare non come un addio o la certezza del tragico epilogo di una vita spezzata in guerra senza la pietas di un ultimo tributo o abbraccio, ma un saluto, come vivesse per sempre nella memoria di chi lo amava, un distacco temporaneo che ci fa immaginare Luciano incamminarsi verso la battaglia quasi sereno, pensando già alla prossima lettera che scriverà alla mamma a sera, nella sua branda di ritorno dalla battaglia. Non dimenticatemi, sembra dire Luciano in queste lettere parlando alla madre e al padre. E noi aggiungiamo, non dimentichiamo la storia dei nostri militari caduti.
Rita Silvaggio