Bruno Barbieri - Via Emilia via da casa

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Illustrazioni di Marina Cremonini

Rizzoli


Proprietà letteraria riservata © RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-17-06739-3 Prima edizione: gennaio 2014 Progetto grafico: PePe nymi Art Director: Stefano Rossetti Graphic Designer: Daniela Arnoldo Impaginazione: Fabio Varini Illustrazioni di Marina Cremonini Fotografie © Bruno Barbieri Fotografie di p. 14 e 133 © Luca Cattoretti



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Sono di Medicina, un paese dell’hinterland bolognese, ma poiché mio padre viveva in Spagna e mia madre lavorava a Bologna di fatto sono cresciuto dai miei nonni a Sirano, in località Piccolo Paradiso. Io e mia sorella Brunella, di 3 anni più grande di me, abbiamo vissuto con loro finché non ho iniziato la prima elementare. Ma, anche dopo, non appena possibile tornavo là: perché era la mia vita, la mia terra, il mio divertimento... Mia nonna è stata fondamentale per me. Ero molto legato a lei. Facevamo parecchie cose insieme: raccoglievamo i fiori e le erbe selvatiche, curavamo l’orto, gli animali del cortile, le sue piante. Si è trattato di un periodo favoloso, è stato allora che si è sedimentato in me il germe della passione per la cucina.

Dai miei nonni il cibo non si comprava, era tutto prodotto in casa: il pane, il latte e i formaggi, la pasta, le conserve, i più svariati derivati della lavorazione del maiale... Ho ancora ben impresso nella memoria gli odori di tutte le cose buone che giravano per quelle stanze: dei fichi, della conserva di pomodoro, della salsiccia matta, del tartufo, delle pagnotte appena uscite dal forno a legna, del mosto, delle ricotte, dei galletti alla cacciatora... Oggi i bambini crescono con l’ipad, noi crescevamo in mezzo ai conigli, vedevamo nascere e morire gli animali, un’esperienza molto forte e istruttiva... Da che mia nonna non c’è più faccio una gran fatica a tornare a Sirano. Il paesaggio è radicalmente cambiato: le villette a schiera hanno preso il posto dei campi di grano e di erba medica, degli albicocchi e degli altri alberi da frutto testimoni dei miei giochi d’infanzia. Però la canonica dove i miei nonni vivevano, la chiesa e altri tre o quattro casolari qua e là sono rimasti più o meno com’erano, e di tanto in tanto ci faccio una capatina. E porto con me le persone a cui voglio bene, perché lì ho i miei ricordi, le mie storie.


Io con la mitica maglia gialla e rossa del Medicina

In mutande a 4 anni davanti al porcile a casa della nonna

In posa con mia sorella Brunella il giorno della mia prima comunione


a vent’anni, giovane e ribelle, al Trigabolo di argenta

Mia sorella davanti al fienile Foto di gruppo con mia nonna, mia mamma, mia sorella Brunella e mia zia Fiorella quando avevo 6 anni


A mia nonna devo molto. Senza di lei non sarei chi oggi sono. Mio padre voleva che facessi l’ingegnere, la mia bisnonna ha sempre detto che avevo le mani da dottore... Lei era l’unica che aveva intuito fin dal principio qual era il mio destino. Leggeva nei miei occhi che questo mestiere era la strada giusta per me e, fino a che non è morta, ha sempre vegliato sui miei passi. E credo che lo faccia tuttora dall’aldilà. Era un’autentica azdora, in Emilia-Romagna figura importante, quasi mitologica, ormai in via di estinzione. L’azdora – detta anche arzdora o rezdora a seconda


di dove ci si trovi, se in Romagna o Emilia – era una donna di polso, per nulla passiva. Era la “reggitrice” del desco, l’addetta all’organizzazione della casa. Se il mondo contadino era patriarcale e con una netta divisione dei ruoli, nonostante al capofamiglia spettasse il compito di guidare e provvedere alle necessità dei propri cari, era l’azdora la vera colonna portante da cui dipendeva l’armonia familiare, colei che teneva le chiavi della dispensa, che gestiva il patrimonio della casa. Era lei che si occupava di tutto: fare la spesa, decidere cosa sarebbe finito in tavola, accudire i bambini, tener pulita la casa, badare all’orto e agli animali dell’aia, vendere uova, pane, formaggio e quant’altro da lei prodotto. Mia nonna è stata tutto questo. Una donna meravigliosa, che coinvolgendomi nella sua vita di tutti i giorni mi ha dotato di un bagaglio incredibile, gastronomicamente parlando, e mi ha insegnato l’importanza non solo di conservare e condividere le tradizioni e le conoscenze, ma anche di saper ascoltare e osservare i gesti altrui, perché non c’è niente di peggio che pensare di essere già capace di fare tutto: al contrario non si smette mai di imparare, soprattutto ai fornelli.


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i bambini a Piccolo Paradiso non ce n’erano tanti, e di fatto giocavo soprattutto con mia sorella. I giochi erano quelli di campagna: arrampicarsi e costruire capanne sugli alberi, dar noia agli animali che vivevano allo stato brado nel cortile, esplorare i ruscelli e i terreni attorno alla canonica ma anche le cantine che si estendevano sotto la casa e la chiesa di cui mia nonna era la perpetua. Nel week-end e durante le vacanze ci raggiungeva mio cugino Claudio, che noi chiamavamo “Claude”. Più grande di qualche anno, con la erre moscia, era un punto di riferimento, anche perché a differenza nostra viveva nel mondo civilizzato, che a quei tempi per noi coincideva con Bologna: era quello informato sui fatti, colui che mi fece scoprire l’america. Insieme giocavamo a baseball e davamo la caccia alle lucertole: dalle balle di fieno estraevamo un filo di spagnara alta ed essiccata, facevamo un nodo scorsoio e tentavamo di prendere al lazzo le povere bestiole. Mettermi alla prova con invenzioni ed esperimenti mi è sempre piaciuto. Con mia sorella inventammo persino un chewing gum artigianale a base di grano. Il metodo testato era semplicissimo: bastava prendere una spiga di grano, sgranare i chicchi e farne scivolare una manciata in bocca. a furia di masticare l’impasto assumeva la consistenza di un chewing gum... Era sufficiente un niente per divertirsi per l’intera giornata. a ogni modo passavo anche parecchio tempo solo, perché mia sorella frequentò le medie in collegio. Fu un momento duro quello, che vissi come l’ennesima separazione. Qualche volta m’incupivo, mi arrabbiavo, ma semplicemente perché provavo nostalgia della mamma, di mia sorella, del papà. Per fortuna la nonna, molto tenera e attenta, trovava sempre un modo per diradare i miei dubbi e mi distraeva dalle mie malinconie, coinvolgendomi in qualsiasi attività. le mansioni contadine erano ripartite precisamente tra i nonni. Mia nonna era addetta a tutte le attività legate alla casa, alla chiesa, al cortile. Si prendeva cura degli animali dell’aia e dell’orto, preparava i formaggi di varie stagionature e il pane nel forno a legna, che come le uova e il latte – perché avevamo le mucche, una quindicina di razza romagnola – vendevamo anche ai vicini. E soprattutto si occupava di quello che sarebbe finito in tavola. lavoratrice indefessa, era capace di tenere tutto sotto controllo. Due persone incantevoli i miei nonni, ma per la nonna Mina – si chiamava Mimì ma era da tutti detta Mina – avevo una vera e propria adorazione. la seguivo come un’ombra, da mattina a sera. Il nonno invece si occupava di tutto quanto si svolgeva al di fuori 20


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del cortile: oltre a prendersi cura del cimitero che sorgeva poco distante, gestiva in qualità di fattore la campagna di proprietà di una famiglia facoltosa della zona, nonché direttamente i terreni attorno alla canonica, dove avevamo campi di grano, di erba medica e patate, alberi da frutto. C’era di tutto: ciliegi, peschi, albicocchi, pruni, fichi, meli, meli cotogni, peri. E per finire c’erano le vigne, da cui i nonni ricavavano il vino a uso della casa.

Saba INgrEDIENTI mosto d'uva bianca o rossa PrOCEDIMENTO la saba, detta sapa a Cesena e rimini, non è altro che il mosto d’uva bianca o rossa – generalmente emiliana come il Trebbiano o il lambrusco – cotto molto lentamente in una capiente pentola d’acciaio. lo si fa caramellare e restringere a fiamma bassa per circa 6 ore, schiumando e rimescolando con un lungo mestolo di legno e gettandoci dentro della mollica di pane per assorbire le impurità. Quando si è ridotta di almeno due terzi della quantità iniziale, assumendo una consistenza simile a quella del caramello, la saba è pronta. Da 10 litri di mosto si ricavano più o meno 3 litri di saba. Una volta raffreddata può essere imbottigliata. Si presta a diversi usi: di accompagnamento non solo a formaggi e bolliti, può essere impiegata nella preparazione di sughi, salse, ripieni e dolci, come condimento per l’insalata o il pollo, si può tagliare con l’aceto balsamico, spruzzare sopra il gelato. aggiunta all’acqua fresca è molto dissetante. Durante gli inverni della mia infanzia, quando nevicava, noi bambini raccoglievamo la neve e ci facevamo le granite con la saba! Era buonissima... Un giorno scoprimmo anche l’alchermes e lo Strega, liquori dai colori intensi 21


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– rispettivamente cremisi e giallo paglierino – che la nonna utilizzava nella preparazione dei dolci e che ci facevano impazzire... E il fatto di dover sgraffignare dalla credenza ciò che non ci era lecito maneggiare dava alle granite che ci sparavamo di nascosto quel gusto in più! Insomma, come potete vedere, con la saba si possono fare mille cose. Non avete che da sperimentare a vostro piacimento!

appena conclusa la vendemmia, fatta la saba, con i prodotti del frutteto la nonna preparava il savor, la regina delle confetture di sua produzione, tutte comunque deliziose. Si tratta di una composta tipica delle famiglie contadine romagnole di un tempo, abituate a non sprecare nulla di ciò che la terra dava e che nell’avvicendarsi delle stagioni conservavano tutti gli ingredienti che sarebbero potuti finirci dentro, dandole quel sapore ricco che la contraddistingue: le bucce essiccate di meloni e cocomeri, la frutta secca, l’uva passa... Ho un ricordo vivido di quando mettevamo a far asciugare in cantina i grappoli d’uva da moscato che finiva in tavola a Natale: bisognava trovare l’appropriata collocazione, con il giusto grado di umidità, di modo che non ammuffisse, e una volta appesa non toccarla più. Il savor, oltre a poter essere utilizzato nelle preparazioni di dolci, in abbinamento a formaggi, bolliti e arrosti, è perfetto come ripieno della pasta all’uovo, ma a me da bambino piaceva tanto anche semplicemente spalmato sul pane appena sfornato.

La composta mia nonna la faceva così: il savor INgrEDIENTI 4 pere volpine • 4 mele • 4 mele cotogne • 10 fichi freschi • 2 arance • 200 g di uva di Corinto o sultanina • 200 g di rose 22


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essiccate • 200 g di violette essiccate • 200 g di zucchero di canna • scorza di limone non trattato • 100 g di gherigli di noce • 100 g di mandorle pelate • 1 stecca di cannella • 3 l di saba (vedi p. 21) PrOCEDIMENTO In una grossa pentola tagliate la frutta a pezzi e conditela con lo zucchero di canna. grattugiateci sopra la scorza delle due arance e unite il succo spremuto, quindi la frutta secca, la cannella (che andrà poi tolta prima di invasare), le rose e le violette essiccate. Dopo circa 4 ore aggiungete la scorza di limone (a piacere) e la saba, ponete la pentola sul fuoco a fiamma bassissima e fate bollire il tutto per almeno 2-3 ore. Per controllare la cottura fate cadere qualche goccia di composta su un piattino: se, una volta raffreddata, non fa acqua e presenta una consistenza gelatinosa, quasi caramellata, è pronta. Fate però attenzione a non caramellarla troppo altrimenti diventa amara! rose e violette essiccate si trovano in erboristeria, mi raccomando non utilizzate fiori di dubbia provenienza: quelli acquistati dal fioraio o presso i vivai sono generalmente sottoposti a trattamenti che li rendono tossici. Solo se avete un giardino o un balcone fiorito, meglio se in campagna, e non somministrate alle vostre piante pesticidi, anticrittogamici e concimi chimici usate a cuor leggero i vostri fiori!

Dal momento che il nonno passava gran parte della giornata nei campi ora a falciare e fare le balle di fieno, ora a seminare, zappare, potare le piante, raccogliere le patate, sistemare i 23


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filari nella vigna e via discorrendo a seconda della stagione, la nonna spesso optava per cotture prolungate nel coccio. Tale scelta permetteva da un lato di preparare cibi con il necessario apporto nutritivo per lo svolgimento delle attività faticose, dall’altro di avere una pietanza pronta da scaldare non appena il nonno riusciva a rincasare. Premetto che tendenzialmente sono per le cotture veloci che non stressano il prodotto, ma oggi come allora adoro gli intingoli di ogni sorta e trovo che alcune cotture lente, finite un po’ nel dimenticatoio come quella nel coccio, vadano riprese e utilizzate per esempio con moscardini, polpi, lumachine di mare che ben si prestano per piatti davvero interessanti.

Lepre alla cacciatora con polenta agli aromi INgrEDIENTI PEr 4 PErSONE 4 cosce di lepre disossate • 25 spugnole (oppure porcini o galletti) • 100 g di guanciale a cubetti • 100 g di lardo di montagna battuto a coltello • 100 g di pecorino di Pienza semistagionato • 4 scalogni • 1 patata medio-grossa • salamoia bolognese (vedi p. 223) • ½ bicchiere di vino bianco • brodo vegetale qb • erbe aromatiche (timo, alloro...) • 2 spicchi d’aglio Per la polenta 300 g di farina di mais per polenta • 1,5 l di acqua • 1 rametto di rosmarino • olio extravergine d’oliva • 10 g di sale PrOCEDIMENTO Tagliate le cosce di lepre disossate a cubettoni grossi. In un tegame di coccio fate insaporire il battuto di lardo di montagna, il guanciale, gli scalogni tagliati a julienne e l’aglio con un filo di olio extravergine (se cucinate su fornelli a gas e non elettrici usate sempre il retino frangifiamma in modo che il coccio non si crepi. ricordatevi anche che le pentole in coccio 24


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vanno messe a bagno nell’acqua fredda per almeno 12 ore prima del loro utilizzo). Unite la carne e fatela rosolare bene su tutti i lati, quindi salatela con la salamoia bolognese. aggiungete il vino bianco e, una volta sfumato, coprite col brodo. a questo punto abbassate la fiamma e continuate a cuocere. Dopo circa una mezz’oretta, a tre quarti di cottura, aggiungete le spugnole (se le adoperate secche, ricordatevi di reidratarle in acqua tiepida per una ventina di minuti circa prima dell’uso) e terminate la cottura. Per la polenta In un paiolo di rame fate bollire l’acqua aggiungendo un goccio di olio, sale e un rametto di rosmarino che toglierete prima di unire la farina di mais. Versatela a pioggia e mescolate con una frusta in modo da non far formare grumi. appena riprende il bollore, portate a cottura continuando a mescolare con un cucchiaio di legno o, se disponete di un paiolo elettrico a motore, mettendo in azione la pala. PrESENTazIONE In un tegame di coccio adagiate sul fondo uno strato di polenta, sovrapponetevi l’intingolo di lepre e coprite con un altro strato di polenta. Per terminare aggiungete una spolverata di pecorino di Pienza semistagionato, qualche fiocco di burro e passate il tutto al grill del forno. le spugnole sono funghi molto diffusi sugli appennini. amano i terreni sabbiosi e gli ambienti umidi. Si trovano soprattutto tra le colline basse, nei boschi e vicino ai fiumi. ricordo che mio nonno ne raccoglieva a manetta vicino al Setta in primavera, più o meno tra marzo e l’inizio di giugno. Sono funghi di prestigio, difficili da adoperare per via del sapore deciso, forte, dall’intenso sentore di corteccia, di paglia bagnata: sono funghi che non hanno “amici di pentola”, non amano stare, per esem25


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pio, insieme con il ragù, preferiscono la solitudine in padella. Si abbinano bene con la pasta, con le classiche tagliatelle, mal si addicono invece ai formaggi troppo intensi e stagionati, meglio associarli a formaggi vaccini leggeri, a parmigiani di massimo 18 mesi. Stanno da dio con gli asparagi, ossia con sapori leggermente minerali, metallici. Per pulirle, vale lo stesso accorgimento che si usa per i porcini e gli altri funghi in generale: non passatele mai sotto l’acqua corrente, eliminate con un coltellino gli eventuali residui terrosi e passatele con un panno inumidito. E ricordatevi che crude sono velenose, perché contengono una tossina nota come acido elvellico, vanno dunque consumate solo dopo essere state cotte! In 5 minuti di padella comunque la tossina contenuta viene annientata.

Per conciare o mettere sotto concia le carni tutte le azdore una volta usavano la salamoia: un sale aromatizzato. Nella lavorazione del maiale se ne servivano per esempio per fare le pancette. Poi, col tempo, si è imparato a utilizzarla anche per altre preparazioni. la sua straordinarietà consiste proprio nella sua grande versatilità: la si può usare per il pesce come per la carne, per gli arrosti come per le cotture alla griglia, per le marinature, per insaporire le verdure. al di là della qualità di sale che uno sceglie, è consigliabile sempre adoperare un sale che sia il meno bagnato possibile, perché tende già a inumidirsi quando si aggiungono le erbe aromatiche. la salamoia bolognese non presenta regole o dosaggi precisi, segue il gusto personale: in base a quanto vi piace speziata o meno potete aumentare o diminuire la quantità degli aromi. Se usate l’alloro, ricordatevi che la foglia va lasciata intera e non tritata (né utilizzata nella cottura), in quanto è velenoso. Trovo che la concia, altro nome con cui ci si riferisce alla salamoia bolognese in Emilia-romagna, illustri in maniera semplice e chiara quanta fantasia e libertà sia concessa ai fornelli, 26


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quanto la cucina possa rappresentare chi vi si cimenta. Certo, gli ingredienti bisogna saperli adoperare: non è che il sale alla vaniglia puoi metterlo dappertutto. Sta bene con le capesante, sui gamberi e i conchigliacei con il loro retrogusto molto minerale e metallico. Potete mettere per esempio un granello di sale alla lavanda su un’ostrica slavata con una gelatina di aneto, giusto per suggerirvi due cose top. Ma solo sperimentando, senza troppo timore di una cattiva riuscita, lasciando le briglie sciolte alla propria creatività, ai propri sentimenti – e perché no, talora anche all'aggressività – si arriva a intuizioni simili... Bisogna sempre andare alla ricerca dell’io in quello che si fa, anche nel piatto.

Fagiano alla diavola INgrEDIENTI PEr 4 PErSONE 1 fagiano possibilmente giovane • 1 mazzo di radicchio • 1 barattolo di mostarda (è preferibile quella inglese) • 200 g circa di mollica di pane fresco (passata al setaccio) • 2 bicchieri di gin • succo di 2 limoni • salamoia bolognese (sale grosso, aglio, rosmarino, pepe nero, salvia, scorza di limone, coriandolo. Vedi p. 223) • 3-4 spicchi d'aglio PrOCEDIMENTO Pulite il fagiano, apritelo a metà dalla parte del dorso e battetelo con un batticarne avendo cura di non spaccare le ossa. Marinatelo con la salamoia bolognese e, dopo circa 2 ore, bagnatelo con il gin, con il succo di limone e aggiungete gli spicchi d'aglio in camicia schiacciati. lasciatelo così macerare per altre 2 ore. Quindi togliete il fagiano dalla marinatura e trasferitelo in una padella di ferro calda con un filo d’olio. Cuocetelo a fuoco vivo, coprendolo con un coperchio leggermente più piccolo della padella. Se necessario ponete sopra il coperchio 27


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un peso, in modo che il fagiano brasi rimanendo il piĂš piatto possibile. a tre quarti di cottura, dopo 30-40 minuti, toglietelo dal fuoco, spennellatelo con la senape inglese e cospargetelo con la mollica di pane. Passatelo per circa 10 minuti in forno a 210 °C per terminare la cottura e renderlo croccante. PrESENTazIONE Tagliate il fagiano a piccoli pezzi e servitelo accompagnandolo con un’insalata di radicchio di primo taglio, condita semplicemente con olio, aceto di lamponi e sale.

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