Donna Tartt - Il Cardellino

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la Scala


donna tartt Il cardellino Traduzione di Mirko Zilahi de’ Gyurgyokai


Proprietà letteraria riservata © by Tay, Ltd 2013 © 2014 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-17-07238-0 Titolo originale dell’opera: THE GOLDFINCH Prima edizione: marzo 2014 Illustrazione di copertina: © Il cardellino, 1654 (olio su tela), Carel Fabritius (1622–1654), Mauritshuis, The Hague, The Netherlands, riproduzione su licenza. The Bridgeman Art Library. Per le citazioni all’interno del libro: p. 9: © Camus, albert, Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano 2013, traduzione di Attilio Borelli; p. 243: © rimbaud, arthur, Opere in versi e prosa, Garzanti, Milano 2004, traduzione di Dario Bellezza; p. 429: © la roChefouCauld, françois, Massime, bur, Milano 2001, traduzione di Giovanni Bogliolo; p. 495: © sChiller, Johann Christoph friedriCh, I masnadieri, Garzanti, Milano 1991, traduzione di Enrico Groppali; p. 739: © nietzsChe, friedriCh Wilhelm, Opere complete, vol. 8: Frammenti postumi (1888-1889), Adelphi, Milano 1974, traduzione di Sossio Giametta. Questo libro è frutto dell’immaginazione dell’Autore. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi. Ogni riferimento a fatti o a persone reali, viventi o scomparse, è puramente casuale. Realizzazione editoriale: Librofficina, Roma


Il cardellino


Alla mamma, a Claude


I L’assurdo non libera: vincola. Albert CAmus


Capitolo 1

Ragazzo con un teschio


i

Quand’ero ancora ad Amsterdam, per la prima volta dopo anni sognai mia madre. Ero rimasto confnato nella mia stanza d’albergo per più di una settimana, terrorizzato all’idea di chiamare chicchessia o di mettere il naso fuori, il cuore che fremeva e sussultava anche al più innocuo dei rumori: il campanello dell’ascensore, l’andirivieni del carrello del minibar, persino i campanili delle chiese che scandivano le ore, de Westertoren, Krijtberg, un clangore dai contorni vagamente oscuri, come i presagi di sventura delle fabe. Durante il giorno me ne stavo sul letto e mi sforzavo di decifrare le notizie in olandese alla tv (impresa impossibile, dal momento che non conoscevo una parola di olandese) e, quando rinunciavo, mi sedevo accanto alla fnestra a fssare il canale, il cappotto di cammello gettato sui vestiti che indossavo, perché avevo lasciato New York in fretta e furia e le cose che avevo portato con me non erano abbastanza calde, nemmeno al chiuso. Fuori tutto era fermento e allegria. Era Natale, di sera le luminarie luccicavano sui ponti dei canali; dames en heren con le guance rosee, le sciarpe svolazzanti nel vento gelido, sferragliavano sull’acciottolato in sella alle biciclette, gli abeti legati ai portapacchi. Nel pomeriggio una piccola band amatoriale si esibiva in canti natalizi che indugiavano lievi e metallici nell’aria invernale. Il trambusto dei vassoi del servizio in camera; le troppe sigarette; la vodka tiepida presa al duty free. Nel corso di quegli irrequieti giorni di clausura avevo imparato a conoscere ogni centimetro del-


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la mia stanza, come un prigioniero impara a conoscere la propria cella. Era la mia prima volta ad Amsterdam e non avevo visto quasi nulla della città, eppure la camera piena di spifferi, con la sua bellezza grezza e cupa, trasudava un sentore di Europa del Nord, come un modello dell’olanda in miniatura: la specchiata probità protestante mescolata al lusso colorato e sgargiante delle merci sbarcate dall’Est. trascorrevo un’irragionevole quantità di tempo a osservare due quadretti a olio dalle cornici dorate – il primo con dei contadini che pattinavano su un laghetto ghiacciato vicino a una chiesa, l’altro con una barca a vela sballottata da un mare invernale in tempesta – appesi sopra lo scrittoio: due semplici copie senz’altra ambizione che quella di fungere da ornamento, niente di speciale, ma io le studiavo come se racchiudessero, tradotta in un qualche linguaggio cifrato, la chiave d’accesso al cuore degli antichi maestri famminghi. Fuori, una pioggerella ghiacciata picchiettava contro il vetro della fnestra e gocciolava sopra il canale; e malgrado la ricchezza dei broccati e la soffce carezza dei tappeti, la luce portava con sé una gelida eco di quella del ’43, un sentore di privazione e austerità, tè annacquato senza zucchero e a letto senza cena. ogni mattina, all’alba, quando fuori era ancora buio, prima che lo staff prendesse servizio e la hall cominciasse a riempirsi di gente, scendevo per i giornali. Il personale dell’hotel si muoveva con passo leggero sussurrando appena, lanciandomi sguardi che mi attraversavano freddi, quasi non mi vedessero realmente – l’americano della stanza 27 che non usciva mai durante il giorno –, e io cercavo di convincermi che il portiere di notte (completo scuro, capelli a spazzola e occhiali dalla montatura di corno) avrebbe fatto qualunque cosa pur di evitare complicazioni o sceneggiate. L’«Herald tribune» non riportava notizie che riguardassero il guaio in cui mi ero cacciato, ma la storia era su tutti i quotidiani olandesi: densi blocchi di quella lingua ignota, provocantemente sospesi al di fuori del raggio della mia comprensione. Onopgeloste moord. Onbekende. tornavo di sopra, mi rimettevo a letto – vestito, perché la stanza era ghiacciata – e aprivo i giornali sulle coperte: foto di macchine della polizia, nastri gialli a delimitare la scena del


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crimine, persino le didascalie erano indecifrabili e, anche se non citavano il mio nome, non c’era modo di capire se riportassero una mia descrizione o se le autorità, pur essendo in possesso di quelle informazioni, avessero preferito non renderle pubbliche. La stanza. Il termosifone. Een Amerikaan met een strafblad. L’acqua verde oliva del canale. Dal momento che ero malato e perennemente intirizzito, e non avevo nulla da fare per gran parte del tempo – oltre ai vestiti caldi avevo dimenticato di portare un libro –, di giorno più che altro restavo a letto. La notte sembrava calare nel bel mezzo del pomeriggio. Spesso – cullato dal fruscio dei giornali sparsi ovunque – futtuavo tra sonno e veglia, e i miei sogni erano contaminati dalla stessa ansia indefnita che fltrava nelle mie ore diurne: procedimenti giudiziari, valigie che si aprivano di scatto sull’asfalto sparpagliando ovunque i miei abiti e interminabili corridoi d’aeroporto che percorrevo a rotta di collo per raggiungere voli che, ne ero certo, non sarei riuscito a prendere. Per via della febbre facevo sogni strani e straordinariamente vividi, contorcimenti convulsi e sudati durante i quali perdevo qualsiasi cognizione del tempo. Ma nel corso dell’ultima e più terribile di quelle nottate avevo sognato mia madre: una visione breve e misteriosa, che somigliava a un’apparizione. Mi trovavo nel negozio di Hobie – o meglio, in un inquietante spazio onirico sommariamente ricalcato sul modello del negozio di Hobie –, quando lei era comparsa all’improvviso alle mie spalle e ne avevo colto il rifesso in uno specchio. Vedendola ero rimasto paralizzato dalla gioia; era lei fn nei più piccoli dettagli, persino la disposizione delle lentiggini era esatta, e mi sorrideva, più bella e per nulla invecchiata, i capelli neri e quel curioso modo di atteggiare le labbra, l’angolo leggermente curvato all’insù. Non era un’illusione, ma una presenza che riempiva la stanza: una forza a sé, un’espressione vivente di alterità. E per quanto lo desiderassi, sapevo di non potermi voltare, sentivo che guardandola direttamente avrei violato le leggi del suo mondo e del mio; era venuta a farmi visita nella sola forma che le era concessa, e i nostri occhi s’incontrarono nello specchio in un lungo, immobile istante; ma proprio quando sembrava sul punto di parlare – con


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un sorriso tra il divertito, l’affettuoso e il frustrato sul volto – una cortina di vapore si srotolò tra noi e mi svegliai.

ii

Le cose sarebbero andate per un verso migliore se lei fosse vissuta. Ma è morta quand’ero bambino; e benché la colpa di tutto ciò che è accaduto in seguito sia solo mia, perdere lei fu come perdere l’unico punto di riferimento in grado di guidarmi verso un luogo più felice, verso un’esistenza più ricca di legami e più congeniale. La sua morte ha tracciato una linea di demarcazione tra il Prima e il Dopo. E benché sia deprimente ammetterlo dopo tutti questi anni, non ho mai più incontrato nessuno in grado di farmi sentire tanto amato. In sua compagnia ogni cosa prendeva vita; emanava una luce incantata, simile a quella che uno vede a teatro, e il mondo attraverso i suoi occhi acquistava colori più vividi. Ricordo una cena a tarda sera, in un ristorante italiano del Village, qualche settimana prima che morisse; mi aveva afferrato il braccio di fronte all’inattesa, quasi dolorosa bellezza di una torta con le candeline accese portata in processione dalle cucine, il fevole cerchio di luce che avanzava tremolando lungo il sofftto scuro, poi la torta che calava a risplendere sulla famiglia, beatifcando il volto di quell’anziana signora, e tutti intorno a sorridere mentre i camerieri arretravano con le mani dietro la schiena… Una tipica cena di compleanno, come tante a cui può capitare di assistere in uno qualunque dei locali alla mano della città. Sono certo che l’avrei dimenticata, se lei non fosse morta poco dopo; invece dalla sua morte non ho fatto che pensarci e ripensarci, e probabilmente continuerò a farlo per il resto della vita: quel cerchio di luce proiettato dalle candeline, un tableau vivant della quotidiana, banale felicità che avevo perso insieme con lei. E poi era bella. È un fatto quasi secondario, ma è la verità. Quand’era arrivata a New York dal Kansas aveva cominciato a lavorare part time come modella, anche se davanti all’obiettivo era troppo a disagio per poter pensare di farsi strada in quel mondo: qualunque dono possedesse, non era trasferibile su pellicola.


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Eppure era assolutamente unica: una rarità. Non ricordo di aver mai incontrato nessuna che le somigliasse. Aveva capelli neri, un incarnato pallido che d’estate si copriva di lentiggini, luminosi occhi blu cobalto, e l’insolito taglio degli zigomi evocava un tale, eccentrico miscuglio tra il celtico e il tribale, che la gente a volte le attribuiva origini islandesi. In realtà era per metà irlandese e per metà cherokee, era nata in una cittadina del Kansas vicina al confne con l’oklahoma, e le piaceva farmi sorridere dando a se stessa della contadinotta, nonostante fosse splendida, fera ed elegante come una puledra di razza. Questa sua natura esotica, ahimè, emerge un tantino troppo aspra e prepotente dalle fotografe – le lentiggini sotto il trucco, i capelli raccolti in una coda bassa simile a quella di un nobiluomo uscito dalla Storia di Genji – mentre non traspare affatto il suo calore, il suo spirito allegro e imprevedibile, tutto ciò che più amavo di lei. È evidente dall’immobilità che trasuda in ogni scatto quanta diffdenza nutrisse nei confronti dell’obiettivo: ha l’aria vigile e tigresca di chi si prepara a reagire a un attacco. Ma nella vita di tutti i giorni non era così. Si muoveva a velocità impressionante, con gesti improvvisi e leggeri. Stava appollaiata sul bordo delle sedie come un elegante uccello palustre, pronto a fuggire al minimo segno di pericolo. Amavo il suo profumo al sandalo, acre e inaspettato, e il fruscio delle sue camicie inamidate quando si chinava a baciarmi la fronte. ovunque andasse, gli uomini la spiavano con la coda dell’occhio, e a volte la osservavano apertamente, in un modo che mi infastidiva. È morta per colpa mia. Gli altri sono sempre stati fn troppo solerti nell’assicurarmi che, andiamo, ero solo un bambino, chi avrebbe potuto immaginarlo, un terribile incidente, maledetta sfortuna, sarebbe potuto accadere a chiunque, tutto assolutamente vero, ma io non ho mai creduto a una sola parola. È successo a New York, il 10 aprile di quattordici anni fa. (La mia mano esita di fronte a questa data, devo costringermi a scriverla, imporre alla penna di continuare a scorrere sul foglio. Era un giorno come tanti, ma da allora buca il calendario come un chiodo arrugginito.) Se la giornata fosse andata come previsto, sarebbe scivolata via


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senza lasciar traccia, inghiottita dalla memoria insieme al resto del mio ultimo anno di scuole medie. Cosa ne ricorderei, ora? Poco o nulla. E invece ogni particolare di quel giorno, persino l’umida consistenza dell’aria, è più nitido del presente. La notte prima era piovuto, un temporale spaventoso, c’erano negozi allagati e un paio di stazioni della metropolitana inagibili. Noi due ce ne stavamo sulla passatoia zuppa all’esterno del palazzo dove abitavamo, mentre il suo portiere preferito, Goldie – che nutriva per lei una vera adorazione –, camminava all’indietro sulla Cinquantasettesima col braccio alzato, fschiando per fermare un taxi. Le macchine sfrecciavano sollevando schizzi d’acqua sporca; nuvole cariche di pioggia rotolavano oltre le cime dei grattacieli diradandosi e aprendosi su squarci di cielo azzurro, e giù, sulla strada, tra i gas di scarico, il vento era bagnato e lieve come la primavera. «Ah, questo è occupato, signora» urlò Goldie sopra il frastuono del traffco, facendosi da parte mentre un taxi svoltava l’angolo sollevando alti spruzzi e la luce sul tettuccio si spegneva. Era il più minuto dei portieri: un piccoletto pallido, magro e pieno di vita, un portoricano dalla carnagione chiara, ex peso piuma. Anche se aveva il viso gonfo per l’alcol (ogni tanto si presentava al turno di notte che puzzava di j&b), era ancora forte, sinuoso e veloce; sempre pronto a scherzare o a concedersi una sigaretta all’angolo del palazzo, sempre intento a saltellare da un piede all’altro alitandosi sulle mani guantate di bianco quand’era freddo o a raccontare barzellette in spagnolo per far ridere i colleghi. «Ha molta fretta stamattina?» domandò a mia madre. Il suo cartellino di riconoscimento diceva burt d., ma tutti lo chiamavano Goldie per via di quel dente d’oro e perché di cognome faceva De oro. «No, abbiamo tutto il tempo, nessuna fretta.» Però aveva l’aria esausta e le mani le tremavano mentre riannodava la sciarpa strattonata dal vento. Anche Goldie doveva averci fatto caso, perché (mentre me ne stavo un po’ in disparte accanto al vaso di cemento cercando di posare lo sguardo ovunque tranne che su di lei) mi lanciò un’occhiata di vaga disapprovazione.


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«Non prendi la metro?» mi chiese. «oh, dobbiamo sbrigare delle commissioni» rispose mia madre evasiva, quando si accorse che non sapevo cosa dire. Di solito non prestavo attenzione a com’era vestita, ma quel che indossava quella mattina (un trench bianco, una sciarpa di chiffon rosa e dei mocassini bianchi e neri) è impresso a fuoco nella mia memoria, tanto che ancora oggi faccio fatica a ricordarla vestita in modo diverso. Avevo tredici anni. Detesto pensare all’imbarazzo che c’era tra noi in quelle ultime ore, talmente palpabile che persino il portiere lo aveva avvertito; in un giorno normale avremmo chiacchierato tranquillamente, ma quella mattina non avevamo granché da dirci perché io ero stato sospeso da scuola. Il giorno prima l’avevano chiamata in uffcio; era tornata a casa silenziosa e irritata; e la cosa peggiore era che non avevo idea del motivo della sospensione, anche se ero sicuro al settantacinque per cento che il signor Beeman (lungo il tragitto dal suo uffcio alla sala professori) avesse guardato fuori dalla fnestra del primo piano nel momento sbagliato e mi avesse visto fumare. (o meglio, mi avesse visto in compagnia di tom Cable mentre lui fumava, il che, nella mia scuola, era considerato quasi altrettanto grave.) Mia madre odiava il fumo. I suoi genitori – di cui mi piaceva ascoltare le storie, e che ingiustamente erano morti prima che potessi conoscerli – erano stati una coppia di amabili addestratori di cavalli che viaggiavano per l’ovest del Paese e si guadagnavano da vivere allevando purosangue di razza Morgan: tipi vivaci, amanti dei cocktail e dei tornei di canasta, che ogni anno andavano al Derby del Kentucky e tenevano le sigarette dentro astucci d’argento disseminati per casa. Poi, un giorno, di ritorno dalle stalle, mia nonna si era piegata su se stessa e aveva cominciato a tossire sangue; e per il resto dell’adolescenza di mia madre c’erano state bombole d’ossigeno impilate sul portico e stanze da letto con gli scuri accostati a tutte le ore del giorno. Ma – sospettavo – la sigaretta di tom era solo la punta dell’iceberg. Era un pezzo che avevo guai a scuola. tutto era iniziato – come la classica palla di neve che piano piano diventa valanga – nel momento in cui, mesi prima, mio padre se n’era andato di casa. A me e alla mamma non era mai piaciuto davvero e, a conti fatti, era-


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vamo molto più felici senza di lui, ma la gente sembrava scioccata e addolorata per la maniera brutale con cui ci aveva lasciati (all’improvviso, senza denaro né assegni di mantenimento o un recapito), e gli insegnanti della mia scuola nell’Upper West Side si erano mostrati così amareggiati per l’accaduto, e così ansiosi di offrire comprensione e sostegno, da concedere a me – che benefciavo di una generosa borsa di studio – ogni genere di attenuante, di proroga, di seconda e di terza possibilità: io avevo fnito per approfttarmene e tirare troppo la corda, e nel giro di pochi mesi ero riuscito a scavarmi la fossa. Quindi entrambi – mia madre e io – eravamo stati convocati a scuola per un colloquio. L’incontro era fssato per le undici e mezza, ma dato che lei aveva dovuto prendersi la mattinata libera stavamo andando nel West Side in anticipo per fare colazione (e, immaginavo, per darle occasione di sottopormi a una strigliata coi focchi) oltre che per cercare un regalo per una delle sue colleghe. Quella notte era rimasta in piedi fno alle due e mezza, i lineamenti tesi nel bagliore del computer, a scrivere email e a portarsi avanti col lavoro. «Non so lei» le stava dicendo Goldie con un certo trasporto, «ma io ne ho abbastanza della primavera e di questa umidità. Pioggia, pioggia…» Rabbrividì, fece il gesto di stringersi il bavero del cappotto attorno al collo e guardò il cielo. «Dicono che nel pomeriggio migliorerà.» «Sì, lo so, ma io sono pronto per l’estate.» Goldie si sfregò le mani. «Col caldo le persone scappano dalla città, non la sopportano, si lamentano, io invece… io sono un uccello tropicale. Più caldo fa, meglio è. Avanti, fermati, amico!» Batté le mani, arretrando sui talloni lungo il marciapiede. «E… sa qual è il momento che preferisco in assoluto? Luglio, quando tutto è tranquillo… e gli edifci sono vuoti e addormentati, ha presente?» Schioccò le dita mentre un altro taxi passava oltre. «Ecco la mia idea di vacanza.» «Ma d’estate non cuoce qui fuori?» Il mio scontroso papà odiava la propensione della mamma a conversare con cameriere, uscieri e coi vecchietti asmatici della lavanderia a secco. «Voglio dire, se non altro in inverno può indossare un cappotto in più…» «Mi dia retta, lavorare alla porta in inverno? Be’, sa che le dico,


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fa freddo. Per quanti cappelli e cappotti possa mettermi addosso. Starsene qui fuori a gennaio, a febbraio, col vento che soffa dal fume? Brr.» Mi mordicchiavo l’unghia del pollice in preda all’ansia, osservando i taxi sfrecciare oltre il braccio sollevato di Goldie. Sapevo che l’attesa fno all’appuntamento delle undici e mezza sarebbe stata estenuante, e tutto quello che potevo fare era restare al mio posto ed evitare di fare domande impulsive e compromettenti. Non avevo idea di cosa mi sarebbe potuto piovere in testa una volta messo piede in quell’uffcio; la semplice parola, colloquio, evocava accuse e confronti incrociati, lo spettro dell’espulsione. Perdere la borsa di studio sarebbe stata una catastrofe; eravamo al verde da quando mio padre se n’era andato, avevamo a malapena i soldi per l’afftto. Ma ad assillarmi era il terrore che il signor Beeman avesse scoperto chissà come che io e tom Cable, quand’ero stato a casa sua negli Hamptons, avevamo fatto irruzione in alcune case approfttando dell’assenza degli affttuari. Dico «fatto irruzione» anche se in realtà non avevamo forzato alcuna serratura né provocato altri danni (la madre di tom faceva l’agente immobiliare, eravamo entrati usando le chiavi di riserva prese dallo scaffale del suo uffcio). Non ci eravamo limitati a frugare negli stanzini e nelle cassettiere, ma avevamo preso qualche birra dal frigorifero, dei giochi della Xbox, un dvd (Danny the Dog, con Jet Li) e del denaro, novantadue dollari in tutto: banconote stropicciate da cinque e da dieci da un barattolo in cucina e mucchietti di monete dai locali lavanderia. ogni volta che ci pensavo mi veniva la nausea. Erano passati mesi da quando ero stato da tom, eppure, per quanto continuassi a ripetermi che il signor Beeman non poteva sapere quel che avevamo fatto – non poteva! –, la mia immaginazione galoppava. Non volevo fare la spia e mettere nei guai tom (anche se non ero così sicuro che lui non avesse già provveduto a mettere nei guai me), ma questo mi relegava a una posizione scomoda. Perché ero stato così stupido? Effrazione e violazione di proprietà privata erano reati; chi veniva pizzicato a commetterli andava in galera. La notte precedente ero rimasto sveglio a torturarmi per ore, girandomi e rigirandomi nel letto mentre raffche di pioggia intermittenti picchiavano contro il


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vetro, pensando a cosa avrei risposto se mi avessero chiesto spiegazioni. Ma come potevo difendermi se non avevo la più pallida idea di cosa sapevano? Goldie fece un sospiro, abbassò il braccio e raggiunse mia madre. «Incredibile» le disse, con un’occhiata esasperata alla via. «SoHo è allagata, ha sentito, vero? E Carlos dice che hanno chiuso diverse strade dalle parti delle Nazioni Unite.» Scoraggiato, osservai alcuni impiegati riversarsi fuori dall’autobus come uno sciame di malinconici calabroni. Forse avremmo avuto maggior fortuna se ci fossimo spostati verso ovest di un isolato o due, ma io e mia madre conoscevamo Goldie abbastanza da sapere che si sarebbe offeso se ce ne fossimo andati rinunciando al suo aiuto. E proprio in quell’istante – così all’improvviso che sobbalzammo tutti – un taxi con la luce accesa attraversò di taglio la corsia e si fermò davanti a noi sollevando una cortina d’acqua che puzzava di fogna. «Attenzione!» fece Goldie con un salto di lato mentre la macchina inchiodava. Poi notò che mia madre non aveva l’ombrello. «Aspetti un attimo» disse, precipitandosi nell’atrio, verso la collezione di ombrelli persi o dimenticati che custodiva in un’ombrelliera d’ottone vicino al camino per distribuirli nei giorni di maltempo. «No» gli urlò dietro lei, frugando nella borsa in cerca del suo ombrellino pieghevole a righe bianche e rosse. «Non serve, Goldie, sono a posto…» Lui si affrettò di nuovo all’esterno e chiuse la portiera del taxi. Bussò al fnestrino. «Le auguro una buona giornata» disse rivolto a mia madre.

iii

Mi piace credere di essere una persona dotata di una sensibilità non comune (lo stesso vale per il resto del mondo, immagino) e mentre butto giù queste righe sono tentato di aggiungere alla scena la lieve ombreggiatura di una premonizione, un senso di minaccia incombente. Ma la verità è che in quei momenti ero cieco e sordo;


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