Storia del Design .02

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STORIA DEL

DESIGN

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A cura di: Roberto Fermi IED Firenze A.A. 2015 / 2016 Interior Design - II Anno STORIA DEL DESIGN II Prof. Leonardo Rossano


INDICE 03 Design americano anni I30: STREAMLINE 04 Design americano anni I50: FURNITURE DESIGN 06 Scuole di design: LA SCUOLA DI ULM 08 Organic design: IL DESIGN SCANDINAVO Focus: CHARLES & RAY EAMES 10

11 Design dopoguerra anni ‘50-’60: IL BEL DESIGN ITALIANO 12 L’innovazione nel design: MATERIE PLASTICHE 13 La regina della plastica: KARTELL Focus: FRANCO ALBINI 14

15 Design italiano anni ‘60-’70: RADICAL DESIGN 16 I maestri del design radicale: ARCHIZOOM ASSOCIATI 18 Le grandi produzioni: GUFRAM Focus: JOE COLOMBO 20

22 I maestri del design made in italy: CINI BOERI 23 I maestri del design made in italy: VICO MAGISTRETTI 24 I maestri del design made in italy: F.LLI CASTIGLIONI Focus:MARIO BELLINI 26

27 Design anni ‘70-’80: IL POSTMODERNO 28 Alessandro Mendini: GRUPPO ALCHIMIA 30 Il fondatore del gruppo Memphis: ETTORE SOTTSASS Focus: SHIRO KURAMATA 32

33 Il bambù & l’ECO DESIGN 34 L’idea di minimal design: JASPER MORRISON 36 Le origini dell’art design: IL READY MADE Focus: Philippe Starck 38



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DESIGN AMERICANO ANNI I30

STREAMLINE Streamline (o Streamlining), nel campo del disegno industriale indica un movimento di progettazione della cultura tecnica statunitense. Le linee che caratterizzano lo Streamlining sono originate dagli studi che si sviluppano a partire dagli anni venti, anche grazie all’invenzione della galleria del vento, sul Cx (Il coefficiente di resistenza aerodinamica). Streamline deve il suo nome alla ricerca delle forme aerodinamiche. Per molti anni da allora la parola “aerodinamica” viene usata nel linguaggio popolare al posto di “moderna”. Lo streamlining fu utilizzato per la prima volta agli inizi del XX secolo per migliorare le prestazioni, riducendo la resistenza, di aerei, locomotive, automobili, alle alte velocità. Negli anni trenta molti designer industriali usarono lo streamlining, più che per ragioni di fun-

zionalità, per dare agli oggetti forme più eleganti e seducenti che attraessero il consumatore. Successivamente alla crisi economica e al crollo della borsa di Wall Street i produttori americani preferirono migliorare o riprogettare i prodotti già esistenti sul mercato in modo da farli sembrare nuovi. Molti designer utilizzarono la bachelite per la realizzazione dei loro progetti, un materiale plastico termoindurentemoltoadattoallo stampaggio di forme curve e affusolate. Il movimento dello Streamlining, cioè della forma aerodinamica, è molto importante nella storia dell design americano. Le caratteristiche principali da ricordare per questo movimento sono: • elevato livello tecnologico • uguale tipologia di prodotti • carrozzeria protettiva • unità stilistica

“Lo Streamline rappresenta sicuramente un momento di svolta per l’idea comune di design, materia che dovrebbe unire al tempo stesso funzionalità ed estetica, infatti è qui che si inizia a produrre oggetti guardando non solo alla loro funzione ma con un occhio in piu di riguardo alla loro estetica, cercando di renderli il piu possibile accattivanti per favorire il commercio. “

http://www.designindex.it/definizioni/design/streamline.html https://sites.google.com/site/artisticwiki/cap-6---international-style


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DESIGN AMERICANO ANNI I50

FURNITURE DESIGN

Il concorso “Organic Design in Home Furnishing” è un evento giustamente ricordato come segno di svolta nel design statunitense, fu bandito nel 1940 dal Dipartimento di Industria Design del Moma, la giuria includeva nomi dello spessore di Alvar Aalto, Marcel Breur e Frank Parrish. I vincitori furono Charles Eames ed Eero Saarinen per i progetti di ben due categorie: sedute, e mobili per ambienti di soggiorno. Il modello più famoso è la poltrona di conversazione, la sua sagoma avvolgente fonde in un’unica scocca la seduta, i braccioli e lo schienale, fatto in modo da funzionare anche come poggiatesta. La novità sostanziale consiste nella ricerca di un prodotto dal costo di fabbricazione assai contenuto e quindi dal basso prezzo di vendita. Molti dei maestri del Bauhaus si erano trasferiti negli USA a seguito dell’avvento del regime hitleriano, tra questi Richard Neutra, che emigra negli USA nel 1923, il suo merito è quello di aver saputo

unire i principi architettonici con le caratteristiche della tradizione americana, infatti ben presto assieme al connazionale Rudolf Michael Schindler, diventa uno dei principali esponenti della cosiddetta scuola californiana, tendenza grazie alla quale le sue ville raggiungono in sintesi, fra artificio e natura. Infine il caso di Eliel Sarinen merita un discorso a parte, fondatore del romanticismo nazionale finlandese, nel 1922 vince il secondo premio del concorso per il progetto della sede del Chicago Tribune. Il successo ottenuto in quest’occasione lo spinse a trasferirsi negli USA, qui egli crea case, laboratori, scuole e studi in cui artisti e artigiani possono esprimere la loro creatività nello spirito dell’ Arts e Crafts inglesi e della Wiener Werkestatte viennese. In questo istituto si formerà la generazione di designer attiva nel secondo dopoguerra, tra cui Eero Saarinen e Charles Eames. Nel 1932 fu organizzata l’ International Exhibition of Modern Architecture, de-

dicata all’architettura europea ed americana del decennio 1922-32, questa manifestazione avrebbe prolungato l’eco del suo successo grazie al libro “The International Style”: l’aggettivo International derivava dal titolo del primo libro del Bauhaus pubblicato da Gropius, mentre il termine Style era invece il contributo con il quale gli autori intendevano dimostrare come la produzione architettonica dell’ultimo decennio avesse ormai raggiunto lo status di tendenza riconosciuta, così come il gotico, il rinascimento, il barocco ed ecc. L’organicismo proponendosi come una sorta di reazione allo styling della frase precedente fu uno dei tempi portanti del design americano degli anni ’40 e ’50. Per organico, la cultura americana, intendeva quel principio di una sana democrazia professato da Sullivan, Wright e da scrittori come Emerson. In ambito critico, il concetto di organicità ha orbitato intorno a due parametri: formale e ideologico esistenziale, entrambi

“Il Furniture Design è stato uno dei momenti piu alti del design americano, arrivando a consacrarsi a livello mondiale e imponendosi come design di eccellenza. Questo grazie sicuramente ai grandi designer come Eames e Sarineen, ma anche ad aziende come la Knoll International e la Herman Miller Furniture Company che hanno permesso la realizzazione e il commercio su scala internazionale dei loro prodotti.”

http://www.liceodechirico.it/materiali/DIDATTICO/Storia%20del%20design.pdf


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in opposizione al razionale. Il concetto di organicità ha finito quindi per essere il modello in grado di fornire una chiave interpretativa per una fenomenologia il più delle volte senza confini ben definiti, e che ciò sia vero lo testimonia proprio la linea International Style degli arredi di Eames e Saarinen. Infatti dopo l’esor dio al Moma, in cui riuscirono a fondere l’organicità di Aalto con il razionalismo di Breuer, sia Saarinen che Eames proseguono con la ricerca negli elementi dei mobili, ma interpretandola secondo il proprio pensiero. Il Furniture Design in ragione di queste componenti culturali e dell’assetto produttivo statunitense conquistò un nuovo status. I mobili di Gropius, Breuer e Mies Van de Rohe verranno si prodotti negli USA ma con un cambiamento di destinatario. Non saranno più i quartieri operai ne l’accogliente casa scandinava a ospitare il tubolare metallico e il legno curvato, ora sono le case degli intellettuali e gli uffici dei grandi manager ad accoglierli insieme ai nuovi arredi progettati dai designer americani. Una volta elaborata dalla fantasia e dalla matita dei designer statunitensi, la linea europea si sarebbe trasformata nel Furniture Design, lussuoso e costoso negli anni ’60. Tra le industrie che seguirono questa linea rivestivano un ruolo speciale la Knoll International e la Herman Miller Furniture Company. La prima nacque con la dimensione di un modesto laboratorio 24 avviato nel 1928 dal tedesco Hans Knoll, successivamente nel 1951 nascerà la Knoll International, l’azienda produrrà mobili di Eero Saarinen e di Henry Bertoia senza trascurare quelli di Mies Van de Rohe e Marcel Breuer. La Herman Miller era stata fondata nel 1905 e si era spe-

cializzata nella produzione degli arredi in stile ma ben presto grazie al contributo del designer Gilbert Rodhe prese a puntare su prodotti di alto livello destinati agli uffici, ma sarà George Nelson il personaggio destinato a imprimere una svolta decisiva alla produzione della Herman Miller. Grazie al Gran Prix de Rome vinto nel 1932 egli divenne designer-director della Herman Miller. Egli ritenne definitivamente superata la lavorazione semiartigianale di arredi in legno dell’azienda su una linea progettuale orientata al successo commerciale, una linea volta ad esaltare la responsabilità del designer come avveniva negli USA fin dagli anni ’30. Riprendendo il discorso dei mobili di Eames, egli durante il conflitto bellico aveva acquistato una notevole esperienza nella lavorazione del legno compensato, in particolare egli accolse suggerimenti da tecniche messe a punto dall’azienda automobilistica Chrysler, grazie alla quale sperimentò speciale sistemi di incollaggio a impulsi elettronici, e servendosi di dischetti di neoprene per conferire elasticità ai componenti delle sedie in legno. Presto furono messe appunto altre materie plastiche: l’americano John W. Hayt nel 1869 inventò la celluloide mentre nel 1909 il chimico belga Leo Hendrik Backeland arrivò all’invenzione della materia plastica interamente sintetica che venne battezzata bachelite. Con l’avanzare degli studi dalla fine degli anni ’20 alla metà degli anni ’40 la ricerca sui materiali plastici progredì rapidamente: il neoprene sostituì la gomma naturale, poi vennero il plexiglass, il nylon, il polistirolo ed ecc., tutti materiali destinati a trovare ampie applicazioni nell’architettura e nell’arredamento. Negli anni ’50 il materiale venne invaso dalla plastica, non tardò quindi ad en-

trare nelle case, sia sotto forma di oggetti sia di arredi. Tuttavia essa suscitò anche violente antipatie, tanto che Roland Barthes la definì un materiale sgraziato, un ibrido fra la gomma e il metallo. Eppure basterebbe considerare gli arredi di Eames e Saarinen per concludere che la plastica era invece un materiale pari al legno e al marmo. Si era inoltre rivelata come materiale più idoneo a una lavorazione del tutto industrializzata. Oltre ad entrare nei living di lusso sotto forma di tavoli, divani e poltrone, la plastica invase anche la cucina, il regno delle casalinghe americane, attratte dal miraggio del consumismo e del progresso del comfort. Questo materiale allegro e colorato si armonizzava benissimo con i nuovi elettrodomestici dell’industria americana, in particolare, a metà degli anni ’50 la Whirpool e la General Motors lanciarono la Miracle Kitchen e la Kitchen of Tomorrow. L’antagonismo rispetto ai materiali naturali era stato fin dall’inizio il vero problema della plastica, ma l’esposizione Plastic as Plastic tenutasi nel 1968 mise finalmente in risalto la conquistata autonomia di questo materiale liberato dalla schiavitù imitativa. Appariva ormai chiaro che la plastica poteva funzionare come incentivo per indurre le aziende a convertire i propri impianti adeguandoli ad una produzione industriale. In seguito nonostante le periodiche crisi dovute ai rincari del petrolio, la plastica non ha conosciuto tramonto, tanto è vero che in anni recenti sono stati proprio i materiali plastici ad attirare la maggior attenzione di progettisti e industrie. Quindi concludendo a 50 anni di distanza si può dire che le critiche di Roland Barthes nei confronti della plastica appaiono dunque ribaltate.


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SCUOLE DI DESIGN:

LA SCUOLA DI ULM La scuola di Ulm (“Hochschule für Gestaltung”, ossia “scuola superiore di progettazione”, di Ulm) è stata una scuola di progettazione grafica e di disegno industriale che ha raccolto nel secondo dopoguerra l’eredità delle scuole tedesche (Bauhaus) e sovietiche (Vchutemas), nate negli anni venti e trenta per l’esigenza di dare un carattere scientifico e accademico alla professione di progettista o tradizionalmente chiamato architetto e successivamente coniato in anglo-americano designer. La scuola fu fondata nel 1953 da Inge Aicher-Scholl grazie a sovvenzioni statunitensi, e funzionò fino al 1968. Inizialmente fu diretta da Max Bill, artista, architetto e grafico, progettista della sede della scuola, ex allievo del Bauhaus e ancora legato allo spirito del funzionalismo. Nel 1956 Max Bill si dimise a causa di alcuni contrasti con altri professori della stessa scuola come Tomás Maldonado, Hans Gugelot e Otl Aicher. Max

https://it.wikipedia.org/wiki/Scuola_di_Ulm

Bill intendeva contrastare lo Streamlining unendo arte e tecnica, secondo le indicazioni di Walter Gropius mentre Tomás Maldonado attraverso una metodologia meramente tecnico-scientifica. La direzione passò così a Tomás Maldonado, il cui obiettivo fu quello di sviluppare un’impostazione linguistico-informativa piuttosto che plastico-formalista: la scuola di Ulm (dal nome del piccolo comune situato tra le città di Augusta e Monaco di Baviera, nell’allora Germania Occidentale), oltre a curare l’aspetto tecnico-scientifico del disegno, svolse infatti ricerca nel campo della comunicazione visuale e scritta. La scuola fu in seguito diretta dal critico Gert Kalow e poi dal grafico Otl Aicher. La scuola ripropose la conciliazione di forma e prodotto del Bauhaus, arrivando a coinvolgere maggiormente la corporate image, ovvero coordinando il disegno del prodotto con l’immagine dell’azienda, senza prescindere

dallo studio del marchio. La didattica prevedeva, oltre a laboratori incentrati sull’acquisizione di un sapere pratico, lezioni teoriche che fornissero agli allievi un bagaglio culturale adeguato. Tra le materie alcune erano del tutto nuove all’interno di una scuola del progetto, per esempio teoria dell’informazione, semiotica, ergonomia. Maldonado, progettista architettonico-industriale ma soprattutto teorico e docente di semiotica e metodologia della progettazione, che fu a lungo direttore della scuola (rettore dal 1964 al 1966), riteneva che il mestiere del progettista fosse quello di un intellettuale tecnico che ha un importante ruolo sociale da cui derivano responsabilità nei confronti della collettività. Da cui la necessità di una forte impronta etica e di una base culturale ampia e solida capace di maggiore responsabilità nei confronti della tutela dell’ambiente e di una profonda critica contraria al nichilismo tecnocratico.


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ORGANIC DESIGN

DESIGN SCANDINAVO

Nasce intorno al 1920, rientrando nel Movimento Moderno, il Design Scandinavo. Nel periodo fra le due Guerre i designer di tutta l’Europa manifestavano un desiderio condiviso di modernità e innovazione nel design, con la necessità di porre il processo creativo della progettazione in relazione alle emergenti tecnologie industriali. I designer scandinavi ne sviluppano uno stile esemplare nonostante le loro particolarità. I principali fattori della loro diversità possono considerarsi: il non aver assunto come referente la “macchina”; la mancata frattura tra artigianato e industria; la volontà di non smentire la propria tradizione ma piuttosto di continuarla; l’uso prevalente di alcuni materiali, in particolare del legno; l’aver rivendicato al design degli oggetti domestici un posto nel disegno industriale; l’aver assunto come referente principale dei loro progetti la natura. Il concetto di Design Scandinavo viene però popolarizzato a partire dagli anni ‘50 attraverso l’esposizione “Design in Scandinavia” presentata tra il 1954 e il 1957 negli USA e in Canada. Il design scandinavo si concentra sulla realizzazione di un ogget-

to o mobile singolo che, finché accostato ad altri concepiti nello stesso spirito organico, si inserisce nell’ambiente diventando armonica parte di un tutto; ciò non funziona quando questo è accostato ad un pezzo estraneo. Gli oggetti nordici sono accomunati da una forte caratterizzazione organica che non rende possibile un’armonia con i meccanici prodotti esteri. Non è interesse di questo design realizzare oggetti icona, seriali, ma piuttosto di creare oggetti pensati in relazione all’ambiente in cui questi devono essere collocati, importante è creare un’armonia tra uomo, oggetto e ambiente. Il design nordico ambisce a raggiungere un equilibrio tra forma, funzione, colore, consistenza, robustezza e costi. Alvar Aalto, Tapio Wirkkala e Hans J.Wegner sono solo alcuni dei designer che hanno trovato nella natura un’inesauribile fonte di ispirazione. Semplicità, linee definite, unità tra forma e funzione si fondano con la passione per lo studio delle forme organiche. Lo stretto rapporto con la natura e la praticità rappresentano un tratto comune del design scandinavo; ciò nonostante, sia il design che l’architettura presenta-

http://insidesigngiuliabertolini.blogspot.it/2014/01/importanza-della-natura-e-dell-organic.html

no caratteristiche marcatamente variabili a seconda della nazione. Il legno è il materiale per eccellenza del design scandinavo poiché è una della poche materie prime disponibili in loco. Il suo impiego frequente non è dovuto soltanto alla sua facile reperibilità ma anche alle sue proprietà, in particolare quelle isolanti. Il legno venne utilizzato da tutti e in vari modi. Inizialmente non esistevano particolari innovazioni, i modelli infatti si fondavano sulla tornitura e sui sistemi di curvatura del legno. Con l’introduzione di sostegni metallici si vide un avvicinamento verso l’industria. Ma solo con lo studio di Alvar Aalto, prima sulla curvatura del legno utilizzando l’umidità naturale del legno di betulla finlandese e poi sul compensato, si raggiunge la vera espressione del design scandinavo. Queste sue ricerche gli permisero di trovare la soluzione al problema dell’incontro tra piani verticali e orizzontali creando una struttura unica. Per la prima volta si possono osservare sedie dalle curve morbide ed armoniose da contrapporre al rigoroso formalismo dell’International Style. Non si tratta di una differenza


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legata solamente alle forme e ai materiali utilizzati, ma nell’approccio dedicato al progetto: un rapporto olistico meno legato alla spiritualità ma maggiormente al rapporto emotivo che si crea con l’utente stesso. Anche il vetro e la ceramica sono due materiali molto usati dai designer scandinavi.

“Il design scandinavo ha saputo anticipare l’idea che oggi regna nel mondo del design, quella di guardare verso la sostenibilità, i materiali naturali e le forme semplici. Questo è stato possibile certamente grazie alla grande quantità del materiale naturale per eccellenza, il le-

gno, ma anche grazie alla capacità di coglierne le potenzialità e esaltarne le qualità. Alvar Aalto con i suoi studi sulla curvatura del legno ha aperto poi nuove porte ed è stato il primo promotore nel mondo di un design che ancora oggi viene apprezzato in tutto il mondo.”


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FOCUS

CHARLES & RAY EAMES

Con uno straordinario senso dell’avventura, Charles e Ray Eames hanno rivolto la loro curiosità e il loro entusiasmo senza limiti alle creazioni che li hanno imposti come uno straordinario team di design composto da marito e moglie. La loro sinergia esclusiva ha portato alla realizzazione di arredi dall’aspetto completamente innovativo. Snelli e moderni. Divertenti e funzionali. Eleganti, sofisticati e meravigliosamente semplici. Questo era ed è ciò che contraddistingue il “look Eames”. Quel look è iniziato con sedie in compensato modellato verso la fine degli anni ‘40 e comprende la sedia lounge Eames, conosciuta a livello mondiale, ora inclusa nella collezione permanente del Museum of Modern Art di New York. Charles e Ray hanno raggiunto il loro monumentale successo, affrontando ogni progetto nello stesso modo: Ci interessa e ci intriga? Possiamo migliorarlo? Sarà davvero divertente occuparsene?

http://www.hermanmiller.it/designers/eames.html

Amavano il loro lavoro, che era una combinazione di arte e scienza, design e architettura, processo e prodotto, stile e funzione. “I dettagli non sono dettagli”, diceva Charles. “Creano il prodotto”. Risolutore di problemi che incoraggiava la sperimentazione tra il suo staff, Charles una volta disse che il suo sogno era “vedere le persone lavorare a progetti inutili, poiché è da questi che germogliano nuove idee”. Le loro idee si sono evolute nel corso del tempo, non nello spazio di una notte. Come Charles notò in merito allo sviluppo delle sedie in compensato modellato: “Sì, è stato un guizzo di genio. Un guizzo durato 30 anni”. Con loro due, una cosa sembrava sempre condurre a un’altra. Il loro lavoro rivoluzionario con il compensato modellato ha portato all’innovativo lavoro delle sedute in fibra di vetro modellata. Un concorso di una rivista portò alla loro casa estremamente innovativa “Case Study”. Il design grafico

li condusse al design di showroom, al collezionismo di giocattoli all’invenzione di questi. Inoltre, un arnese composto da una tavola di legno, allestita dal loro amico e regista Billy Wilder per schiacciare un sonnellino, portò al design della loro acclamata chaise longue. Un critico di design, una volta, ha detto che questa coppia straordinaria “voleva semplicemente rendere il mondo un posto migliore”. Ci sono riusciti. Lo hanno anche reso molto più interessante. “Tra i piu importanti designers americani, se non i piu importanti, gli oggetti da loro disegnati sono riconosciuti come icone, e dal mio punto di vista sono ancora oggi di un attualità straordinaria. Hanno spaziato dall’organic design, con il concorso vinto al MOMA, al contract design, disegnando la classica sedia da ufficio (è grazie a loro che si deve l’introduzione dell’ergonomia) riuscendo sempre a spiccare grazie anche al loro entusiasmo.”


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IL BEL DESIGN ITALIANO DESIGN DOPOGUERRA ANNI I50 - I60

È nel dopoguerra che l’Italia ha uno slancio verso quella che sarà la fase economica più lucente del paese. Per risollevarsi dagli anni di povertà e orrore che avevano invaso l’Italia con la seconda guerra mondiale, le menti più creative si attivano per attuare una rivoluzione che porterà il made in Italy nella Grande Mela. Nel 1946 la Triennale di Milano organizzò la mostra RIMA (Riunione italiana per le mostre di arredamento), dove giovani architetti impegnati nella progettazione di singoli arredi o alloggi tipo furono invitati a partecipare: si trattava del BBPR, e degli architetti Ignazio Gardella, Carlo De Carli, Vico Magistretti e Gabriele Mucchi, che proposero un repertorio di arredi producibili in serie e pensati per case minime con spazi sfruttati in modo razionale. Nel 1954 viene istituito il Compasso D’oro un premi a livello internazionale dove ancora oggi vengono premiati i progetti più creativi, innovativi e sicuramente esteticamente rilevanti. La vasta produzione di quegli anni calata in maniera forte nel contesto sociale contemporaneo vede il raggiungimento del suo apice nel 1972. In quest’anno al MOMA di New York viene allestita la mostra, voluta ed oragnizzata da Emilio Ambaz, intitolata: “Italy: the new domestic landscape”. Vi vengono esposti tutti gli oggetti prodotti fino a quell’anno e altri pensati per l’occasione come il Car-a-sustra di Bellini. L’evento segna un momento molto importante perché rappresenta un’occasio-

ne di promozione internazionale del prodotto industriale italiano e al contempo una riflessione sui nuovi fermenti intellettuali nel campo progettuale che risentivano del clima politico e sociale che l’Italia stava vivendo. Nel secondo dopoguerra si verificò in Italia una nuova alleanza tra piccole industrie e grandi disegnatori, impegnati nell’intento comune di arredare le nuove case e di progettare «dal cucchiaio alla città» secondo la massima di Rogers. Il design italiano è figlio del movimento Futurista degli anni venti. Da allora, la produzione industriale italiana si è spesso unita al design, e ha prodotto risultati che sono diventati quasi il simbolo dell’Italia moderna, come le caffettiere Bialetti del 1933, la poltrona Frau del 1930, la FIAT 500 del 1956, la Lettera 22 Olivetti del 1954 ed infine la Vespa del 1946. Questi sono anche gli anni in cui nascono movimenti di design ispirati alla contestazioni e ai movimenti delle avanguardie artistiche di quegli anni (la PopArt di Andy Warhol ed il New Dada) che vogliono estraniare dal loro contesto originario oggetti tipici della società dei consumi dando loro una nuova vita estetica. Così nel design si iniziano a riproporre oggetti, parti di oggetti o materiali e a riproporli in ambiti differenti da quelli in cui sono impiegati abitualmente. In Italia alcuni designer, legati al radical design, faranno propri i caratteri generali di questa contestazione realizzando oggetti molto originali.

https://goodesignblog.com/2014/06/06/gli-anni-doro-del-dopoguerra/


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L’INNOVAZIONE NEL DESIGN:

MATERIE PLASTICHE Nell’Italia degli anni Cinquanta si manifestò una profonda trasformazione del mondo imprenditoriale. Un’intera classe di piccoli imprenditori si diede a investimenti produttivi nelle industrie dei beni di consumo, concentrandosi sui processi relativi alla lavorazione industriale dei nuovi materiali. Questo fenomeno aprì la strada a quello che diventerà il modello di microimprenditoria tipico dell’Italia. Dalla fine della seconda guerra mondiale alla metà degli anni Sessanta la maggior parte degli arredi domestici era realizzata in legno, tubolare metallico, e imbottiti tradizionali, secondo processi già collaudati dalla produzione artigianale, destinati quindi a piccoli mercati locali e piccole serie. Diventava quindi necessaria una riorganizzazione della produzione, sia internamente all’azienda, sia attraverso le reti dei cosiddetti terzisti, per garantire una vera serialità e omogeneità dei prodotti, ma soprattutto per rispondere alla crescente esigenza di una produzione veloce. Queste profonde revisioni dell’ap-

“Capire il Design” di Andrea Branzi (Giunti Editore)

parato produttivo si intrecciavano con la necessità di reinterpretare le tipologie tradizionali di prodotti domestici alla luce delle possibilità (e dei limiti) dei nuovi materiali; reinterpretazione che venne svolta brillantemente dal design, che così, per la prima volta in Italia, fu un interlocutore strategico delle piccole e medie industrie tecnologiche. Si aprì quindi un periodo molto fertile sia per i progettisti che per le aziende, che da questo contesto trassero il vantaggio di poter presentare sul mercato un nuovo panorama merceologico, fatto di forme rinnovate per stili di vita ormai mutati. Infatti in quest’otica fu possibile elaborare un nuovo rapporto tra l’utente e gli oggetti quotidiani: si pensi al televisore Brionvega di Marco Zanuso, con la scocca leggera in plastica colorata, lo schermo inclinato che facilitava la visione anche se posizionato direttamente a terra, facilmente spostabile (con maiglia). Analoga concenzione anche per la macchina da scrivere Valentine di Ettore Sottsass che, prima di diventare un design icon internazionale, divenne cele-

bre perchè consentiva di operare con la massima mobilità, grazie a una scocca leggera, affidabile, accessibile. Anche Kartell immise sul mercato un ampio catalogo di oggetti per la cucina, leggeri e colorati. Questa generazione di oggetti (apparentemente) “sempre nuovi” sfruttava le caratteristiche dei nuovi materiali, distinguendosi in maniera netta dalle produzioni precedenti. Si trattava infatti di oggetti facilmente lavabili, impilabili, studiati per risolvere problemi di componibilità e flessibilità. La reazione socioculturale alle materie plastiche mutò radicalmente a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, in coincidenza con la grave crisi energetica internazionale, quando le materie plastiche divvennero più costose e sinonimo di inquinamento ambientale. Ciò nonostante è importante sottolineare come, nella fase d’esordio, i prodotti plastici vennero assunti a simbolo di nuovi valori quali pulizia, chiarezza, democrazioa. Valori importani nell’ambito della ricerca di un nuovo modello di società, basata su una modernità popolare ed economica.


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LA REGINA DELLA PLASTICA:

KARTELL

L’AZIENDA Azienda leader del design, fondata a Milano nel 1949 da Giulio Castelli, Kartell è da oltre 60 anni una delle aziende simbolo della progettualità made in Italy. Una storia di successo raccontata attraverso un’incredibile serie di prodotti - mobili, complementi d’arredo, illuminazione - diventati parte del paesaggio domestico, se non vere e proprie icone del design contemporaneo. Dal 1988, erede dello “spirito Kartell” è Claudio Luti, che avvalendosi della collaborazione dei più prestigiosi progettisti internazionali (la “squadra” è oggi composta da: Philippe Starck, Ron Arad, Antonio Citterio, Ferruccio Laviani, Piero Lissoni, Patricia Urquiola, Tokujin Yoshioka, Mario Bellini, Ronan ed Erwan Bouroullec, Alberto Meda, Patrick Jouin, Front, Nendo e Rodolfo Dordoni), continua con lo stesso fervore ed entusiasmo del fondatore la ricerca di nuove tecnologie, forme e stili, frutto di un

perfetto equilibrio tra l’esperienza progettuale dei singoli designer e le potenzialità e le esigenze dell’azienda. Colore, ironia, gioco dei sensi, trasparenze e forme uniche per oggetti unici: il prodotto Kartell è riconoscibile a prima vista in tutto il mondo per l’emozione che regala, la sua durevole funzionalità e l’indiscussa qualità. La continua evoluzione nell’utilizzo dei materiali e la sperimentazione di nuove tecnologie volte a scoprirne proprietà inedite sono fondamentali per lo sviluppo del prodotto. Kartell ha conquistato negli anni un’invidiabile serie d’importanti riconoscimenti internazionali, fra cui nove Compassi d’Oro. Negli ultimi 15 anni, un ambizioso piano di espansione ha rafforzato la rete distributiva e l’immagine del brand a livello mondiale: Kartell esporta oggi oltre il 70% del suo fatturato e conta 130 flagship store e 250 shop-in-shop, con una presenza in 126 paesi.

COLLEZIONE MADE IN ITALY Fin dalle sue origini, Kartell si è caratterizzata per la produzione industriale di oggetti di design in materiale plastico di altissima qualità, di notevole contenuto tecnologico e made in Italy. Dalla scelta di tecnologie all’avanguardia, all’uso di materiali termoplastici innovativi e certificati, spesso studiati insieme ai migliori produttori internazionali. La produzione degli oggetti Kartell è seguita in tutte le sue fasi da tecnici dell’azienda, che ne accertano e verificano l’adeguatezza tecnologica, l’industrializzazione e la qualità, cercando di conciliare le esigenze e le attese del consumatore finale, con i processi industriali utilizzati. L’alto grado di stabilità e ripetitività di tali processi, permette di minimizzare le inefficienze e gli sprechi, a favore di produzioni con scarsi residui inquinanti e, in ogni caso, completamente riciclabili.

https://www.architonic.com/it/profile/kartell/3100067


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FOCUS:

FRANCO ALBINI

Franco Albini nasce a Robbiate (Como) il 17 ottobre 1905. Uno dei più importanti e rigorosi architetti italiani del XX secolo aderente al Razionalismo italiano e come tale è riconosciuto internazionalmente attraverso un’ampia pubblicistica delle sue opere. Figlio di un ingegnere, si laureò in architettura nel 1929 al Politecnico di Milano, compiendo viaggi in Europa che gli permisero di conoscere personalmente personalità quali Le Corbusier e Ludwig Mies van der Rohe. Nel 1931 inizia la propria attività professionale con studio assieme agli architetti Giancarlo Palanti e Renato Camus, realizzando nei primi anni principalmente progetti di mobili d’arredamento. Entapresto in contatto con l’ambiente di Casabella (nel 1932 l’incontro con Edoardo Persico), che in quegli anni ebbe il ruolo di vero crogiuolo dell’architettura del Movimento Moderno italiano. Nel 1936 ebbe il primo incarico di rilievo progettando il quartiere Fabio Filzi a Milano. Alla fine degli anni ‘30 partecipa ad alcuni importanti gruppi progettuali quali alcuni piani urbanistici e concorsi per l’EUR (assieme

ad Ignazio Gardella, Giuseppe Pagano, Giovanni Romano e altri). Nel 1945 è tra i fondatori di Movimento Studi Architettura, un importante momento di rinascita culturale e, lanno successivo dirige per un breve periodo la rivista “Costruzioni Casabella” (assieme a Palanti). Nel 1952 entra far parte dello studio come partner Franca Helg, architetto con cui Albini condivise i successivi progetti. Nei primi anni ’50 ottiene incarichi importanti che che riscuotono ampio consenso dalla critica. La sistemazione delle Gallerie comunali di Palazzo Bianco a Genova è uno dei primi musei realizzati all’interno di una struttura storica e impostato secondo i principi del Movimento Moderno, realizzato con interventi in netto contrasto con l’edificio preesistente. Successivamente l’architetto ebbe numerosi prestigiosi incarichi, tra questi spiccano la sede della Rinascente a Roma (1957-61) e la stazioni della linea 1 della Metropolitana di Milano (1962-63) in collaborazione con Bob Noorda. Vanno anche ricordati i numerosi e magistrali allestimenti di mostre. Albini affianca all’attività di architetto quella di designer, soprattut-

http://www.designindex.it/designer/design/franco-albini.html

to di elementi d’arredo, per tutta la carriera. Alcuni mobili, quali la sperimentale libreria in tensistruttura del 1938, lo pongono come grande innovatore in questo campo. Alcuni degli oggetti progettati da Albini, mobili e altri oggetti, tra cui alcune famose maniglie, sono ancora in produzione e sono venduti in tutto il mondo. Albini svolge anche una importante attività didattica, da quando, nel 1949, quando venne chiamato da Giuseppe Samonà, insieme ad altri architetti importanti, allo IUAV (Istituto Universitario di Architettura di Venezia), in cui insegna negli anni 1949-54 e 1955-64. Insegna al Politecnico di Torino, nell’anno accademico 1954-55, per la prima volta come professore di ruolo, e dal 1964 al Politecnico di Milano. Membro dei CIAM, dell’INU, dell’Accademia di San Luca, dell’American Institute of Architects (AIA), dell’Istituto scientifico del C.N.R. per la sezione di museografia (1970). Numerosi sono i premi ed i riconoscimenti, tra questi: tre compasso d’oro (1955, 1958 e 1964); - il premio Olivetti per l’Architettura (1957); - il premio “Royal Designer for Industry” dalla Royal Society di Londra (1971).


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DESIGN ITALIANO ANNI I60 - I70

RADICAL DESIGN L’origine del Radical design va cercato nell’esperienza di alcuni giovani designer di “opposizione” che, in linea con le lotte politiche e studentesche cha animano il 1968, cercano di emergere attraverso la progettazione di oggetti ironici ed eccentrici nei linguaggi e nelle forme e innovativi nelle funzioni d’uso. Oggetto della contestazione è la produzione del design Razionalista, dominante in questo periodo, rappresentata dai grandi nomi dell’italian style che vanno affermandosi nel mondo. Il Radical design, detto anche Anti-design o Contro-design, si diffonde inizialmente a Firenze con

i gruppi Archizoom e Superstudio , si espande influenzando Milano, l’Europa ed infine tutto il panorama internazionale. Spunti e modelli di riferimento sono la Pop art, le avanguardie artistiche (cui il design Radicale riconduce, almeno nella sua prima fase) e il lavoro di Ettore Sottsass che fa della materia e del colore strumenti essenziali del progetto, chiamato a comunicare emozioni. Dal 1970 il design radicale trova ampio spazio nelle pagine della rivista Casabella, diretta da Alessandro Mendini che aderisce al movimento. Tra gli altri designer che sposano la vocazione sperimentale e il compito di tra-

sformazione dei modelli culturali dei radicali anche Gaetano Pesce, Buti, Strum, Dalisi e Raggi, tutti presenti alla mostra Italy: the new domestic landscape allestita al MoMa di New York nel 1972. Il movimento si esaurisce infine verso la metà degli anni Settanta, quando i radical-designer cominciano ad abbandonare la sperimentazione e l’avanguardia per inaugurare un nuovo indirizzo, quello della collaborazione pragmatica con il mondo della produzione. Nasce così il Neomodern, o design Neomoderno, rappresentato in primo luogo dall’esperienza di Alchymia e dello studio Memphis.

http://design.repubblica.it/timeline/nasce-il-radical-design/


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I MAESTRI DEL DESIGN RADICALE

ARCHIZOOM ASSOCIATI Archizoom Associati è un gruppo costituito nel 1966 a Firenze nel 1966 da 4 architetti: Andrea Branzi, Gilberto Corretti, Paolo Deganello e Massimo Morozzi che opera nel campo della cosiddetta “architettura radicale”. Archizoom firma una ricca serie di progetti di design, abiti, architettura e di visioni urbane a scala territoriale. Nel 1968 si aggiungono i designer Dario e Lucia Bartolini. Nel 1967 progettano la mostra “Superarchitettura” a Pistoia e nel 1968 a Modena e sempre nello stesso anno alla Triennale di Milano, diretta da Giancarlo De Carlo, progettarono il “Center of Eclectic Cospiracy”. La loro esperienza inizia presso la Facoltà di Architettura di Firenze, quando si delineano molte delle problematiche che caratterizzeranno le loro opere successive, dalla megastruttura

alla città utopica, ad un tipo di design che contesta quello convenzionale insegnato in facoltà. Risale al 1969-71 il progetto “Nonstop-city”. la Poltrona Safari e nel 1969 la Poltrona Superonda, sempre del 1969 è la Poltrona Mies (prodotta da Poltronova, Agliana) in aperto contrasto con le teorie allora in voga del funzionalismo. Il gruppo si scioglie nel 1974. L’analisi di inediti schizzi di studio, progetti, modelli, prototipi e oggetti dimostra come, in un arco di tempo brevissimo, gli Archizoom abbiano saputo farsi interpreti originali di alcune delle istanze fondamentali del dibattito internazionale. Il gruppo incarna l’idea di un’architettura e di un design policromi e festosi, definibili come “pop”, che si affermano alla mostra della Superarchitettura del

http://www.designindex.it/designer/design/archizoom-associati.html

1966, e la successiva ricerca di altri orizzonti culturali e figurativi. Insieme a Superstudio, Archizoom inventato “Superarchitettura”, avallando processi creativi lungo le linee di Pop in sviluppo architettonico e del design, esemplificata da oggetti come il “Superonda” divano, (ancora fatta da Poltronova), che invita a posture non convenzionali per la sua forma ondulata . I «letti da sogno» e «Gazebo» sono il risultato di “Superarchitettura” trasformato in un sistema produttivo, che per la creazione di oggetti eclettici e kitsch, si impegna la distruzione del patrimonio critica funzionalista e il concetto spaziale del movimento moderno. Un sistema che conduce infine Archizoom alla scoperta del concetto del vuoto e di neutro, caratteristico per i progetti di loro ultimo periodo di attività.


TERZO CAPITOLO

La ricerca di Archizoom culmina nella «No-Stop-City», una delle visioni più enigmatiche e radicali della città del futuro, senza confini, illuminata artificialmente e aria condizionata. Per utilizzare e popolare No-stop-City continua superfici Archizoom ideato e re-

alizzato mobili multifunzionali e abbigliamento per gli abitanti del ambiente altamente artificiale. L’attività di Archizoom abbraccia molti settori della creatività e della progettazione, dal disegnodi oggetti, all’abbigliamento, dal design del mobile alle grandi

proposte a scala urbana, un patrimonio che interpreta gli ideali di una generazione che crede in una umanità liberata dai vincoli dell’architettura, la lotta per affermare concetti culturali alternativi, sperando in uno stile di vita anticonformista e di totale libertà.


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LE GRANDI PRODUZIONI:

GUFRAM

Nacque nel 1966 come marchio del laboratorio creativo per la produzione di arredamento moderno della ditta dei Fratelli Gugliermetto, già attiva nella fabbricazione di sedie e sedute a partire dal 1952 a Grosso (TO). Influenzati agli inizi degli anni ‘60 dall’avanguardia culturale artistica presente a Torino e alla sperimentazione architettonica radicale di quegli anni, i Fratelli Gugliermetto iniziano a studiare con il supporto di architetti e artisti emergenti dell’epoca nuove forme e nuovi materiali da utilizzare nella produzione di progetti di design. L’utilizzo nell’industria dei trasporti come isolamento del poliuretano e la definizione verso il 1970 del sistema di stampaggio a freddo dello stesso permettono alla Gufram di avviare la produzione durabile di sedute dall’estetica rivoluzionaria, che stringe l’occhio alla Pop art, imbottite o strutturate con il poliuretano espanso. A partire dal 1966 la Gufram si avvale della direzione artistica di Giuseppe Raimondi che firma per l’azienhttps://it.wikipedia.org/wiki/Gufram

da diversi prodotti e contribuisce a coinvolgere altri artisti e architetti nel disegno e nella progettazione dei primi prodotti e prototipi dell’azienda. Nel 1968 la Gufram presenta i suoi prodotti sotto il nome di Multipli (oggetti d’arte riprodotti industrialmente in edizione limitata) alla XIV Triennale di Milano, riscuotendo un notevole successo di pubblico e stampa che stimola l’azienda ad approfondire la filosofia e il metodo di produzione esplorato fino a quel momento. La consacrazione internazionale avviene nel 1972 con la mostra dedicata al design italiano intitolata “Italy: The New Domestic Landascape” curata da Emilio Ambasz allestita al Museum of Modern Art (MOMA) di New York in cui vengono prima esposti ed in seguito acquisiti per la collezione permanente del museo diversi Multipli. Da quel momento in poi i prodotti della Gufram entrano ufficialmente nella storia del design e nelle principali collezioni di riconosciute ed autorevoli istituzioni museali

europee ed americane quali tra gli altri: il Vitra Design Museum, la collezione permanente della Triennale di Milano, il Centre Pompidou di Parigi, il Denver Art Museum, a New York al Metropolitan Museum of Art[1], al Museum of Modern Art e il Cooper-Hewitt National Design Museum. Nell’arco di 30 anni la Gufram implementa il suo catalogo di prodotti con nuove collaborazioni mantenendo la sua sede in Piemonte fino al 2009 quando la gestione del marchio già di proprietà della Poltrona Frau Group viene affidata alla società Cassina, altra azienda del Gruppo Frau, fino alla fine del 2011. A partire dagli ultimi mesi del 2011, dopo essere stata acquistata da imprenditori del settore che intendono contribuire al rilancio di un marchio storico del design italiano, il marchio Gufram ritorna in Piemonte installandosi nella nuova sede di Barolo.cromi e festosi, definibili come “pop”, che si affermano alla mostra della Superarchitettura1966, e la successiva ricerca di al


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tri orizzonti culturali e figurativi. Insieme a Superstudio, Archizoom inventato “Superarchitettura”, avallando processi creativi lungo le linee di Pop in sviluppo architettonico e del design, esemplificata da oggetti come il “Superonda” divano, (ancora fatta da Poltronova), che invita a posture non convenzionali per la sua forma ondulata . I «letti da sogno» e «Gazebo» sono il risultato di “Superarchitettura” trasformato in un sistema produttivo, che per la creazione di oggetti eclettici e kitsch, si impe-

gna la distruzione del patrimonio critica funzionalista e il concetto spaziale del movimento moderno. Un sistema che conduce infine Archizoom alla scoperta del concetto del vuoto e di neutro, caratteristico per i progetti di loro ultimo periodo di attività. La ricerca di Archizoom culmina nella «No-Stop-City», una delle visioni più enigmatiche e radicali della città del futuro, senza confini, illuminata artificialmente e aria condizionata. Per utilizzare e popolare No-stop-City continua superfici Archizoom ideato e re-

alizzato mobili multifunzionali e abbigliamento per gli abitanti del ambiente altamente artificiale. L’attività di Archizoom abbraccia molti settori della creatività e della progettazione, dal disegnodi oggetti, all’abbigliamento, dal design del mobile alle grandi proposte a scala urbana, un patrimonio che interpreta gli ideali di una generazione che crede in una umanità liberata dai vincoli dell’architettura, la lotta per affermare concetti culturali alternativi, sperando in uno stile di vita anticonformista e di totale libertà.


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FOCUS:

JOE COLOMBO Quando il design era ancora agli albori e forse si guardava agli oggetti d’arredamento più in funzione della loro utilità che della loro bellezza, Joe Colombo capovolse il concetto mettendo in primo piano l’estetica e l’originalità, pur senza nulla togliere alla funzionalità. Secondo genito di una famiglia benestante della Milano degli anni Venti, Cesare “Joe” Colombo nacque a Milano il 31 luglio del 1930. Dopo un’infanzia relativamente tranquilla, il giovane Joe dal

1948 al 1955 studiò pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera e in seguito frequentò la facoltà di architettura al Politecnico di Milano, dove divenne amico di Sergio d’Angelo e Enrico Baj, con cui nel 1952 fondò il movimento dei Nucleartisti. Tra le mostre e progetti sviluppati a Milano e Parigi, nel 1953 Colombo realizzò il soffitto di un jazz club presso Santa Tecla, per poi l’anno dopo presentare il suo progetto Edicola Tele-

http://www.milanofree.it/milano/personaggi/joe_colombo_alle_radici_del_design_italiano.html

visione alla decima edizione della Triennale di Milano. Nel 1956 il giovane architetto entrò a far parte del comitato Mac Espace diretto da Bruno Munari, uno dei più noti designer del Novecento italiano, mentre lavorò al suo unico impegno nel campo architettonico, un palazzo situato in Via Rosolino Pio a Milano. Dopo aver rilevato nel 1959, in seguito alla morte del padre, l’azienda di famiglia in comproprietà con il fratello Gianni, Colombo avviò


TERZO CAPITOLO

una serie di sperimentazioni con la plastica rinforzata ed altri materiali. Nello stesso anno l’architetto si sposò con Elda Baiocchi, con cui andò a vivere in un appartamento presso via Tristano Calco a Milano, che era stato ideato proprio da lui. Dopo aver lasciato nel 1961 l’azienda paterna, Colombo aprì nel centro della sua città uno studio dedicato alla progettazione architettonica, che ebbe un grande successo, L’anno dopo realizzò con il fratello la prima lampada “Acrilica” per la O-Luce, mentre nel 1963 ottenne per i contenitori “Combi-Center” e “Minikitchen” una medaglia d’oro e d’argento alla Biennale di Venezia. Nel 1964 Colombo iniziò la produzione della sedia “Elda”, oggi considerata il simbolo del mar-

chio Colombo, mentre ricevette il premio Arch per la decorazione degli interni di un hotel in Sardegna, creata con il perspex. Sempre attivo, Colombo continuò a progettare e ideare nuovi oggetti, come la lampada “Spider” nel 1965 e “Continental” libreria composta da una serie di piani perpendicolari formanti una calotta sferica a casellario. Inoltre nel 1967 l’architetto creò per la Kartell “Universal” la prima sedia a materiale plastico e nel 1969 sviluppò uno dei primi concetti abitativi unitari con la cucina “Kitchenbox-block” e la casa “Central Living block” ridefiniti secondo un nuovo concetto dello spazio. Gli ultimi anni della carriera di Colombo lo videro orientato verso nuovi materiali e modula-

rità, come nel caso delle poltrone “Tube Chair” e “Multi Chair”, mentre nel 1971 realizzò il primo interno abitativo unitario. Il 31 luglio del 1971, ad appena 41 anni, Joe Colombo mori nella sua casa di Milano per un infarto. Un anno dopo vennero presentate al museo di arte moderna di New York le sue ultime opere, che ancora oggi fanno parte integrante della collezione del museo. Col tempo sono state dedicate numerose mostre al suo lavoro e alla sua vita, tra cui “L’arte di Joe Colombo” alla XV triennale di Milano nel 1973, “I Colombo. Joe e Gianni” presso la Galleria di Arte moderna di Bergamo nel 1995 e nel 2005 una mostra itinerante che dalla Triennale di Milano è arrivate nel 2008 alla Kunsthaus di Graz in Germania.


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I MAESTRI DEL DESIGN MADE IN ITALY

CINI BOERI Boèri, Cini (nata Mariani). - Designer e architetto italiano (n. Milano 1924). Esponente di rilievo del design italiano, ha iniziato la sua attività professionale collaborando con M. Zanuso (1954-63). Attiva anche nel campo dell’architettura e della progettazione d’interni, ha insegnato progettazione architettonica e disegno industriale-arredamento al Politecnico di Milano (1981-83), e ha tenuto lezioni e conferenze presso numerose università straniere. Ha vinto il Compasso d’oro nel 1979 (con il progetto di imbottiti La famiglia degli Strips per Arflex), nel 1978 e nel 1984 il premio Roscoe e nel 1985 il premio Design ‘85Stoccarda. Tra i progetti di de-

http://www.treccani.it/enciclopedia/cini-boeri/

sign più significativi si ricordano: l’imbottito Bobo (1967), il tavolo Lunar per Knoll (1970) e il sistema di sedute Serpentone (1971) per Arflex, il sistema di porte Rever per TrePiù (1981), la poltrona in vetro curvato Ghostper Fiam (1987), la maniglia Novantaquattro per Fusital (1994), il sistema di mobili ME per Rosenthal (1999) e il divano Meterper Molteni (2000). “E’ riuscita ad affermarsi come donna nel mondo del design e dell’architettura, che negli anni ‘60 era principalmente maschile, e questo aspetto è visibile in ogni sua architettura o oggetto disegnato, ponendo uno sguardo piu sensibile nella progettazione.”


QUARTO CAPITOLO

I MAESTRI DEL DESIGN MADE IN ITALY

VICO MAGISTRETTI Nato il 6 ottobre 1920 a Milano, si laurea in architettura nel 1945 al Politecnico di Milano. Allievo di Ernesto Nathan Rogers ha studiato anche presso il “Champ Universitarie Italien de Lausanne”. Oltre ad essere architetto e designer, Vico Magistretti è noto per essere uno degli urbanisti di maggior successo in Italia. Nel 1956 è stato tra i fondatori dell’ADI, l’Associazione per il Disegno Industriale. Diventa membro del CIAM nel 1958. Fra i premi conferiti a Vico Magistretti: Medaglia d’Oro alla IX Triennale 1951; Compasso d’Oro 1967; Due Compassi d’Oro 1979; Due Compassi d’Oro alla Carriera 1995; Due Medaglie d’Oro e due d’Argento al Wiener Mobelsalons International 1970; Sedia d’Oro al Mobelsalons di Colonia 1982; Gold Medal S.I.A.D. di Londra; Medaglia d’Oro “Apostolo del design” Milano 1997. Sue opere di design sono presen-

ti nelle collezioni permanenti del MOMA di New York e di altri 13 musei americani ed europei. Da uno schizzo alla forma: Vico Magistretti non ha mai fatto disegni tecnici, ma schizzi che esprimono l’idea. Convinto che certi pezzi siano concettualmente semplici da poter essere comunicati per telefono. Schizzi, tracciati a volte casualmente sul retro di una busta, sulla pagina di un giornale, sul biglietto della metropolitana. Il suo modo di operare lo porta quindi a parlare con tecnici e produttori, in un confronto e in uno scambio di idee sulla realizzazione del prodotto: “Design vuol dire parlare assieme”. Nel campo dell’Industrial Design ha collaborato e collabora con molte aziende fra cui: Artemide, Cassina, De Padova, Flou, FontanaArte, Kartell, O-Luce, per cui disegna alcuni tra i prodotti più significativi della produzione di serie del disegno indu-

striale italiano: sedie, lampade, tavoli, letti, cucine, armadi, librerie. Quasi tutti ancora in produzione. “Nel design ciò che conta è il concetto espresso con uno schizzo. Questo pensiero di Vico Magistretti racchiude quello che era e quello che per lui era il design, un idea raccontata. Riflettendoci in effetti, trovo sia veramente cosi, il design nasce nella testa del designer e se chiaro, uno schizzo ben fatto può raccontare tutto.”

http://www.designindex.it/designer/design/vico-magistretti.html


QUARTO CAPITOLO

I MAESTRI DEL DESIGN MADE IN ITALY

F.LLI CASTIGLIONI Livio (1911-1979), Piergiacomo (1913-1968) e Achille Castiglioni (1918-2002) sono tre architetti e designer milanesi, di cui il più conosciuto è il più giovane dei tre, ovvero Achille Castiglioni. Figli dello scultore Giannino, i tre fratelli si sono tutti laureati in architettura al Politecnico di Milano. Piegiacomo Castiglioni, dopo essersi laureato in architettura nel 1937, collaborò dall’anno successivo con il fratello Livio e Luigi Caccia Dominioni alla progettazione di apparecchi radio per Phonola. Dal 1944, anno della laurea di Achille Castiglioni, i tre fratelli aprirono uno studio in Piazza Castello, dove si dedicarono

insieme alla realizzazione di progetti di urbanistica e architettura e al product design fino al 1968, anno in cui Achille Castiglioni decise di continuare da solo la propria attività per concentrarsi sul furniture e sull’industrial design. Achille e Piergiacomo Castiglioni hanno collaborato insieme in molteplici occasioni riuscendo a farsi portatori di un’inventiva unica unita alla capacità di cogliere le esigenze del marketing e del pubblico. Questa loro attenzionelampadina e capacità di interpretazione li ha condotti a realizzare prodotti che gli hanno permesso di vincere numerosi premi, di stringere importanti collaborazioni (come:

Kartell, Zanotta, Flos, Bernini, Siemens, Knoll, Poggi, Lancia, Ideal Standard, Arflex, Alessi) e quindi di ottenere una fama internazionale. Alcune delle opere più importanti dei fratelli sono lampade, aspetto per il quale Achille e Piergiacomo Castiglioni sono conosciuti come tra i più grandi designer della luce. Un esempio sono la lampada Tubino del 1951, che rappresenta la prima applicazione da tavolo di una luce fredda, la Lampadina per le luci del 1957, che ha una dimensione maggiore rispetto a una lampadina normale e che per questo motivo costringe a ripensare il senso dell’uso della lampadina

http://www.milanofree.it/milano/personaggi/i_fratelli_castiglioni_il_design_milanese_di_fama_internazionale.html


QUARTO CAPITOLO

stessa e la lampada da terra Toio, che richiama i motivi artistici del ready-made di Marcel Duchamp vendo come base un trasformatore e un faro d’automobile per lampada. Tra le lampade più importanti ve ne sono poi due progettate per Flos, azienda italiana di illuminazione e di arredamento. La prima è la lampada Arco, che, progettata nel 1962, rappresenta un oggetto icona del design italiano e fa parte delle collezioni permanenti del Triennale Design Museum di Milano e del MoMA di New York; la seconda invece è la lampada Parentesi, che, progettata da Achille Castiglioni con Pio Manzù nel 1969, venne premiata col Compasso d’Oro nel 1979. Di altri oggetti progettati dai due fratelli si ricordano anche i design di sedie come Mezzadro e Sella (1957), la poltrona Sanluca (1959), il sedile Allunaggio (1962), i bicchieri Ovio e Paro (1983). Alla sua morte, il 2 dicembre 2002,

Achille Castiglioni è stato sepolcastiglionito nel Cimitero Monumentale di Milano. Quattordici delle sue opere principali si trovano al MOMA di New York, ma anche molte altre importanti gallerie di tutto il mondo espongono le sue opere. “I fratelli Castiglioni hanno dato un contributo fondamentale alla storia del design italiano. Livio, il maggiore ha lavorato quasi sempre da solo, mentre gli altri due, Piergiacomo e Achille, hanno saputo lavorare insieme e dar vita ha prodotti bellisimi, specializzandosi sopratutto nel campo dell’illuminazione, e disegnando lampade senza tempo come l’Arco Flos o Luminator (sempre per Flos). Achille, il minore probabilmente era il piu dotato e per questo ha spiccato molto nel mondo del design anche senza il fratello Piergiacomo, famosi sono prodotti come Parentesi (Flos) oppure Taraxacum 88, ancora una volta prodotto da Flos.”


QUARTO CAPITOLO

FOCUS:

MARIO BELLINI Mario Bellini nasce a Milano nel 1935 dove si laurea in architettura nel 1959. Nel 1962 apre il proprio studio professionale a Milano e avvia l’attività di designer come consulente della Olivetti e di alcune tra le più importanti aziende italiane e internazionali. Si occupa di diversi aspetti della progettazione, dal disegno urbano e architettonico al disegno degli arredi e dei prodotti industriali. Notissima la sua attività di designer, iniziata nel 1963 con Olivetti e con Cassina e proseguita con diverse aziende italiane e internazionali (Artemide, B&B Italia, Brionvega, Cassina, Yamaha, Renault, Rosenthal, Vitra etc.). Premiato più volte con il Compasso d’Oro e altri riconoscimenti internazionali, è presente con moltissime opere nella collezione permanente del Museum of Modern Art

di New York che nel 1987 gli ha dedicato una retrospettiva personale. Dagli anni ’80 lavora prevalentemente nel campo dell’architettura in Europa, Giappone, Stati Uniti. Tra le sue opere più note, in Italia, ricordiamo il nuovo quartiere Portello della Fiera di Milano e il centro congressi di Villa Erba a Cernobbio. Ha vinto due concorsi internazionali per la nuova National Gallery of Victoria a Melbourne, ora in avanzato stato di costruzione, e per il quartiere sud-ovest della Fiera Internazionale di Essen, completato nel 2001. In questo stesso anno ha vinto il concorso per il centro culturale di Torino comprendente la nuova Biblioteca civica centrale e un teatro. In fase di progettazione due edifici per uffici e terziario inseriti nell’Urban Entertain-

http://www.designindex.it/designer/design/mario-bellini.html#2

ment Center di Francoforte e la sede italiana della Natuzzi. Dal 1986 al 1991 è stato direttore di Domus, prestigiosa rivista mensile internazionale di architettura, design, arte.

“Il suo curriculum vitae parla per lui, ha vinto innumerevoli premi e concorsi per i progetti piu prestigiosi. Viene considerato da molti tra i migliori designer e architetti italiani (se non il migliore secondo alcuni), e questo grazie alla semplicità e al modo in cui si approccia a qualsiasi progetto. Si è dedicato all’attività di designer specialmente nei primi anni della carriera lavorando per Olivetti e Cassina, e riuscendo ad emergere subito tra i migliori.”


QUINTO CAPITOLO

DESIGN ANNI I70 - I80

IL POSTMODERNO

Benvenuti nel Postmoderno, un mondo in cui tutto è possibile: il design lussuoso e colorato e quello che pare sopravvissuto alla catastrofe; l’ architettura classica più rigorosa che si sposa con l’ eccentrico in un imprevedibile bricolage; Grace Jones, icona della discomusic degli anni Ottanta che reinterpreta La vie en rose di Edith Piaf vestita con un abito creato per lei da Jean-Paul Goude, un ibrido tra Depero e Mazinga; grattacieli che sorgono nel deserto e busti barocchi rivisitati in acciaio inossidabile. Cosa sia esattamente il Postmoderno forse nonè tanto facilmente definibile. È stato un modo per uscire dal Modernismo, che sognava di cambiare il mondo e magari di crearne uno migliore, nutrendosi di un’ utopica idea di progresso. Il Postmoderno è fatto di frammenti diversi, addirittura ostili tra loro perché, come sosteneva nel 1979 Jean-Francois Lyotard ne La condizione postmoderna, se lo stesso idioma si può utilizzare con significati ogni volta differenti, non esisterà più un

solo punto di vista. Gli esordi del movimento sono architettonici: come ricorda Paolo Portoghesi il termine viene utilizzato in questo senso nel 1977 da Charles Jencks. Gli stili che ci stanno alle spalle devono quindi essere riutilizzati, manipolati, restituiti all’ attenzione e allo sguardo. E questo succede nel modo più libero, mettendo insieme la cultura “alta” e quella popolare. Non ci sono regole né teorie predeterminate. Quello che conta è soltanto quello che riesci a vedere e a toccare, è il trionfo del culto del “qui e ora”. Gli architetti e i designer postmodernisti sono anche degli infaticabili bricoleur che recuperano quelli che LéviStrauss definiva «gli avanzi residui delle imprese umane». Un esempio glorioso di questa attività è il mobile del belga Pieter de Bruyne che abbina un truciolato laccato al frammento di un cassone dell’ Ottocento, già copia di un esempio barocco. C’ è chi fruga nel passato e chi nelle discariche: lo fanno l’ inglese Bill Woodrow, che ha trasfor-

mato una lavatrice in una “natura morta con strumento musicale”, un concentrato di energia punk. Oppure Bernhard Schobinger che costruisce gioielli con vetri rotti, acciaio, ferri ritrovati, e Ron Arad che ricopre oggetti come un giradischi, delle casse e degli altoparlanti di cemento armato. Michele De Lucchi, Ettore Sottsass, Alessandro Mendini hanno ideato elementi di arredo colorati e vitali, in cui non c’ è più quella rigida consonanza tra aspetto e funzionalità. Si tratta di “oggetti spirituali” che devono stimolare il pensiero e invece della razionalità cercano la contraddizione. Come la Sedia Proust dove Mendini si “appropria” della stesura pointilliste di Signac per dipingerne la tappezzeria. C’ è un momento, il più difficile da mandar giù, in cui il Postmoderno si converte a una religione delle merci il cui sacerdote è Jeff Koons. Tutto si può patinare, lucidare, rendere brillante e artificiale. Ai designer si affiancano esperti in strategie di marketing. È la vittoria della superficie, il riscatto dell’ involucro.

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/03/04/post-modernismo-quello-stile-sovversivo-che-rese.html


QUINTO CAPITOLO

ALESSANDRO MENDINI

GRUPPO ALCHIMIA

Per il gruppo Alchimia oggi è importante l’atto del “disegnare”. Disegnare, ovvero emettere segni, non è “design” e non è “progetto”: è invece un libero e continuo movimento del pensiero, quando si esprime visivamente. Un movimento “motivato”. Per Alchimia il suo compito di gruppo che disegna è quello di consegnare agli altri una testimonianza del “pensiero sentimentale”. La motivazione del lavoro non sta nella sua efficienza pratica, la “bellezza” dell’oggetto consiste nell’amore e nella magia con cui esso viene proposto, nell’anima che esso contiene. Per Alchimia l’uomo e la donna di oggi vivono in stato di turbolenza e di squilibrio, ma sopratutto la caratteristica della loro

vita è quella del “dettaglio”: frammenti organizzativi, umani, industriali, politici, culturali.... Quest’epoca di transizione li vede immersi nella paura indefinita dovuta alla scomparsa di molti valori considerati come certi. Occorre ritrovare se stessi, Alchimia lavora sui valori considerati negativi, della debolezza, del vuoto, dell’assenza e del profondo, oggi intesi come cose laterali rispetto a ciò che è esteriore, pieno e violento, come cose da rimuovere. Se la labilità dei tempi non permette che esistano obiettivi certi, se anche la filosofia sembra chiusa al futuro, se è impossibile pensare a trasformazioni generali e razionali, il gruppo di Alchimia si concentra in se stesso, cerca dettagli di pensiero dentro di sé, con la sola intenzione di segnalare la sua vocazione poetica.

http://www.ateliermendini.it/index.php?mact=News,cntnt01,detail,0&cntnt01articleid=240&cntnt01detailtemplate=AnniDett&cntnt01lang=en_US&cntnt01returnid=186

Svolge il suo atto di introversione, il suo arbitrio creativo minimale, al di là di qualsiasi giudizio. Questa è la “nuova moralità” di Alchimia. Per Alchimia le discipline non interessano quando sono considerate al l’interno delle loro regole. Anzi, è importante indagare nei grandi spazi liberi esistenti fra di essere. Per Alchimia non bisogna mai sapere se si sta facendo scultura, architettura, pittura, arte applicata, teatro o altro ancora. Il progetto agisce ambiguamente al di fuori del progetto stesso, in uno stato di spreco, di indifferenza disciplinare, dimensionale e concettuale: il progetto è solo ginnastica del disegno. Per Alchimia la memoria e la tradizione sono importanti. Ma il nuovo disegno è autonomo da ogni cedimento retorico, che stile formalistico e caleidoscopico.


QUINTO CAPITOLO

Alchimia raggela e decanta in uno Per Alchimia vale la despecializzazione, ovvero l’ipotesi che debba no convivere metodi di ideazione e di produzione “confusi”, dove possano mescolarsi artigianato, industria, informatica, tecniche e materiali attuali e inattuali. Per Alchimia vale il concetto di “variazione”. Data l’insufficienza del disegno a fronteggiare il mondo, il disegno stesso diventa un’opera continua, senza principio, senza fine e senza giustificazione. I giochi linguistici e di comportamento si intrecciano, si combinano e si ripetono all’infinito nell’immagine bidimensionale e tridimensionale dell’oggetto disegnato, in un sistema di ordinato disordine, valido solo “all’interno di sé”. L’aspetto visivo vince sulla radice culturale e sulla motivazione, vale l’immagine depura-

ta, raffreddata e “staccata” dal peso antropologico e rituale dell’artista. L’errare indeterminato della fantasia dà luogo alla costruzione di un meccanismo rappresentativo, nell’attitudine eterna dell’uomo, che Alchimia fa propria, a ridisegnare incessantemente l’immagine del mondo e le sue matrici ornamentali. Per Alchimia gli oggetti devono essere assieme “normali” e “anormali”. La loro componente di qualunquismo li fa confluire nel quotidiano, nel reale e nel bisogno di appiattimento, la loro componente di eccezione li toglie dalla consuetudine e li collega al bisogno dell’imprevisto, dell’incidente, della differenza, della trasgressione. Per Alchimia il disegno è un ciclo: tutto quanto accadrà è già avvenuto, e la fantasia individuale, base della sopravvivenza del mon-

do, può percorrere in tutti i sensi ogni cultura e luogo, purché operi in maniera innamorata. Per Alchimia il progetto è delicato, non si impone, ma affianca e accompagna dolcemente l’andamento della vita e della morte delle persone cui quel progetto piace.

“Un movimento di rottura con il passato e tutto ciò che era stato fino a quel momento, in pieno stile postmoderno. E’ stato un gruppo fondamentale nella crescita del design italiano, si cessa di pensare gli oggetti guardando alla loro funzionalità e si inizia a pensare esclusivamente alla loro estetica. Forte nei loro progetti anche l’uso del colore derivato dall’influenza della Pop Art che in quegli anni spopolava in America.”


QUINTO CAPITOLO

IL FONDATORE DEL GRUPPO MEMPHIS

ETTORE SOTTSASS Figlio d’arte, Ettore Sottsass Jr. (1917-2007) nasce ad Innsbruck, compie gli studi universitari a Torino, laureandosi al Politecnico nel 1939 e nel ‘45 inizia l’attività professionale al fianco del padre. Dopo l’apertura del suo studio a Milano, inizia l’interesse verso il disegno industriale e l’arredamento. I suoi lavori sulla ceramica e i gioielli si caratterizzano per forza espressiva e per una personale ricerca ed analisi delle cromie (rimane una costante dell’intera sua opera) Superando l’indirizzo razionalista del periodo, Sottsass compie un particolare percorso progettuale creando oggetti, anche molto differenziati tra loro, con un’importante componente emozionale. Nella storia del design le sue collaborazioni con la Triennale di Milano e soprattutto con l’Olivetti (dal 1957) che lo porta a progettare celebri modelli di macchine da scrivere, tra le quali Praxis 48, Lettera 36, Valentine. Sempre per l’Olivetti progetta Elea 9003, il primo calcolatore italiano, col quale si aggiudica il Compasso d’Oro nel 1959 (un secondo nel 1970 per Valentine).

Con un’approfondita ricerca formale, l’attenzione continua alle neoavanguardie, alla sperimentazione e all’arte concettuale, Sottsass è protagonista ed ispiratore di molte correnti del design degli anni Sessanta, italiano ed europeo. Crea mobili sperimentali (anche in pezzi unici) e partecipa nel 1972 alla celebre mostra al MoMA di New York Italy. The New Domestic Landscape (sull’habitat domestico del futuro). All’inizio degli anni Ottanta dà vita al gruppo Memphis, attivo nella produzioni di oggettistica e mobili, e allo studio Sottsass Associati che realizza architetture oltre che design. Fondamentali, per inquadrare il suo ampio profilo professionale, le collaborazioni ed amicizie con artisti e critici. Dagli anni Novanta, la sua ricerca progettuale si è rivolta in prevalenza all’architettura, in particolare verso residenze e aspetti urbanistici. Nella lunga carriera ha ricevuto numerosissimi premi e riconoscimenti: si segnalano il titolo di Chevalier de l’ordre des arts et des lettres in Francia (1992); la laurea ad

honorem alla Rhode Island School of Design in USA (1993) e al Royal College of Art di Londra (1996). LA NASCITA DI MEMPHIS. Memphis è il grande fenomeno culturale degli anni 80 che ha rivoluzionato le logiche creativo-commerciali del mondo del Design. Nata da un’operazione culturale avviata da Ettore Sottsass e da un gruppo di giovani architetti e designers milanesi a cui si sono aggiunti, poco dopo, alcuni fra i più famosi designers della scena internazionale, Memphis ha sconvolto e ribaltato tutti quanti i presupposti esistenti fino allora circa l’idea dell’abitare. Con Ettore Sottsass come colonna portante del gruppo, il design ha acquisito una nuova concezione espressiva legata a nuove forme, nuovi materiali e nuovi patterns ribaltando i precedenti limiti creativi imposti dall’industria. Il movimento Memphis è così diventato il simbolo quasi mitico del “Nuovo Design”. La sua influenza è ancora evidente in moltissimi settori della produzione e non solo.

“Per me, il design è un modo di discutere la vita. È un modo di discutere la società, la politica, l’erotismo, il cibo e persino il design. Infine, è un modo di costruire, una possibile utopia figurativa o di costruire una metafora della vita. Certo, per me il design non è limitato dalla necessità di dare più o meno forma a uno stupido prodotto destinato a un’industria più o meno sofisticata; per cui, se devi insegnare qualcosa sul design, devi insegnare prima di tutto qualcosa sulla vita e devi insistere anche spiegando che la tecnologia è una delle metafore della vita. Questa citazione di Ettore Sottsass fa capire che tipo di persona fosse, non un semplice designer ma nel complesso un vero e proprio artista a tutto tondo, che ha spaziato nel corso della sua carriera in varie discipline. Ha sempre cercato di vedere oltre, e la grande dimostrazione si ha con la creazione del Gruppo Memphis, con cui ha potuto sperimentare nuove forme e materiali dando vita a capolavori del design come la libereria Carlton (1981), assolutamente rivoluzionaria se si pensa anche al tempo in cui è stata pensata.”

http://www.floornature.it/architetti/biografie/ettore-sottsass-jr-14/ http://www.memphis-milano.it/


QUINTO CAPITOLO


QUINTO CAPITOLO

FOCUS:

SHIRO KURAMATA

Dal 1931 al 1991, Shiro Kuramata ha trascorso la sua fin troppo breve vita a Tokyo, dove ha lavorato come designer, ricercando spazi che non erano né case private né luoghi pubblici, come scuole o ambienti di lavoro, e conferendo loro un valore unico grazie ai suo progetti. In poche parole, il suo ambito d’azione era costituito da bar, ristoranti e negozi di moda. Tuttavia, a differenza di un qualunque designer di interni, Kuramata creava ogni elemento di questi spazi partendo da zero, per cancellare ogni traccia di ordinaria routine e per liberare le persone dal compiacimento della quotidianità. Interrogato riguardo all’idea alla base di un progetto – domanda brutale e diretta che gli veniva posta con preoccupante frequenza – rispondeva semplicemente: “Se potessi esprimerlo a parole, non lo progetterei.” O anche: “E’ com-

pito dello spettatore riflettere sul significato”. Shiro Kuramata non riproduceva un’idea preesistente, né ricomponeva simbolicamente delle metafore, ma generava le cose stesse in loco davanti a noi; eventi ed oggetti come fenomeni unici nel tempo – proprio come la nostra vita. Per questa ragione, Kuramata aveva particolarmente a cuore quelli che lavoravano concretamente. Su sua richiesta, Takao Ishimaru fondò una società di contracting per gestire tutti i sui lavori per interni e realizzare i suoi progetti d’arredo e di accessori per la casa. Sotto la sua supervisione, molti laboratori e professionisti di talento hanno trasformato il vetro, l’acciaio, i materiali acrilici e il legno in oggetti meravigliosi, diventando essi stessi veri e propri artigiani attraverso la realizzazione delle sfide progettuali di Kuramata. Queste opere, ora riproposte

http://www.livingdivani.it/IT/Designers/shiro_kuramata_p530.aspx

da Living Divani, celebrano l’impegno di queste collaborazioni. Niente opere prova, né work-inprogress — tutto quello che rimane sono queste pure cristallizzazioni della forma. Non si tratta del fatto che Kuramata stesse semplicemente giocando con nuove tecniche e materiali; essi erano per lui funzionali ad esprimere la trasparenza tra la presenza e l’assenza. La curvatura quasi animata dei tubi, la delicatezza diafana del metallo espanso: strumenti importanti per operare metamorfosi e generare fenomeni. Il significato? Ha lasciato a noi lo spazio per vedere e dare la nostra personale interpretazione. Amava il colore dei suoni, assaporava il mondo attraverso il tatto. I suoi sensi erano molto più liberi di tutto quello che la maggior parte di noi percepisce. O meglio, non lui, ma i suoi progetti.


SESTO CAPITOLO

IL BAMBU &

L’ECO-DESIGN Negli ultimi anni uno dei maggiori trend del design è sicuramente stato l’eco, il green e il sostenibile. Ma cos’è esattamente l’eco-design? È un tipo di design alla cui base sta un processo ed una filosofia responsabile sotto molti punti di vista: quello ambientale in primis, ma anche dal punto di vista etico e sociale. Fare eco-design significa ideare e produrre oggetti di design pensando al benessere dell’ambiente e della società. Inteso in questo modo, l’eco-design è applicabile a tutte le discipline del design che vogliono studiare e progettare soluzioni per ridurre il loro impatto ambientale, conferendo alla società maggior valore di quanto non sia stato sottratto all’ambiente, e non solo, durante l’intero processo produttivo. I principi dell’eco-design si applicano a tutte le fasi del ciclo di vita del prodotto, con l’intento di ridurne l’impatto ambientale complessivo: dall’approvvigionamento e impiego delle materie prime, che devono essere riutilizzabili, biodegradabili, riciclabili e non tossiche, e preferibilmente reperite in loco; alla loro lavorazione nel processo produttivo

e alla distribuzione, che devono rispettare la direttiva dell’UE sull’eco-design (Direttiva 2009/125/CE), in termini di efficienza energetica (ridotto consumo energetico nella fase produttive) e di ridotto impatto ambientale. Anche il consumo del prodotto e la possibilità di riutilizzo concorrono nel definirlo eco e sostenibile: il ciclo di vita di questo infatti deve essere allungato al massimo, attraverso un riciclaggio e riutilizzo potenzialmente infinito. In alternativa il prodotto dovrà risultare biodegradabile al 100%, in modo da rientrare completamente nel ciclo naturale. Non bisogna però dimenticare il consumatore in tutto ciò: il prodotto rientra in un’eco-sistema in cui anche il consumatore svolge un ruolo fondamentale. Egli deve infatti effettuare un acquisto e un consumo consapevole e responsabile, occupandosi anche della parte di riciclaggio e riutilizzo. Le aziende devono cominciare a considerare il consumatore come vero e proprio agente di cambiamento, coinvolto all’interno del processo e del ciclo di vita del prodotto, e che deve perciò contribuire a rendere effettivamente eco e sostenibile.

La sensibilità e la consapevolezza riguardo i temi dell’ecologia e della sostenibilità sta crescendo, e le stesse aziende devono farsi promotori di questi nuovi modi di produrre-consumare-vivere rendendo partecipi gli stessi consumatori. IL BAMBU L’industria del bambù in Giappone è da molti anni in declino ma ora sta cercando di diversificarsi all’estero, puntando in particolare sul mercato dell’Interior Design europeo. Il suo centro tradizionale è Kyoto, dove resiste una vocazione artigianale all’insegna del monozukuri , la fattività manuale, che produce articoli di eccellenza. Una delle aziende più interessanti è la Yokoyama Bamboo Products, nata nel 1919, che ha cominciato a esportare tre anni fa e ha ora un agente a Londra. Dalle lampade ai bastoncini per il cibo, dai flauti alle attrezzature per la cerimonia del tè, fino a divanetti e sedie. Ma il bambù non è adatto solo per articoli specifici, ma anche per vaste o anche complete soluzioni di arredamento. Yokoyama ha collaborato con architetti e designer famosi come Kengo Kuma.

http://www.arbos.it/eco-design-principi-e-applicazioni-del-design-sostenibile/ http://video.ilsole24ore.com/SoleOnLine5/Video/Notizie/Asia%20e%20Oceania/PIANETA-GIAPPONE/2015/02/bambu-kyoto/bambukyoto.php


SETTIMO CAPITOLO

L’IDEA DI MINIMAL DESIGN

JASPER MORRISON

Prima di tutto bisogna “saper vedere”: saper vedere la bellezza quotidiana attorno a noi. Credo che questo sia oggi il messaggio più forte di Jasper Morrison. Un messaggio silenziosamente altruista: la bellezza attorno a noi è di tutti, è per tutti, non viene firmata da un designer (nemmeno da uno straordinariamente bravo come Jasper Morrison). Per questo motivo Jasper posta su Instagram brevi momenti di banale iconicità: oggetti, architetture, silenzi. Ha raccolto queste immagini in un libro The Good Life: Perceptions of the Ordinary (Lars Müller Publishers, Zurigo, 2014). Per questo motivo Jasper organizza, nel piccolo shop di fianco al suo studio londinese, esposizioni di oggetti “impeccabilmente qualunque”: una mostra di vassoi, una mostra di caraffe. Per questo motivo, nella mostra di Zurigo di cui parleremo a breve, Jasper opera una selezione di oggetti dalle colle-

zioni del mu- seo stesso. Perché un “oggetto in mostra” si guarda con occhi diversi (si comincia a guardarlo e si smette di vederlo soltanto!). Perché, dice Jasper, imparare a vedere è un percorso: un percorso progressivo. I nostri occhi stanchi e confusi, bombardati, vanno rieducati. Per questo motivo Jasper manda, a tutti, segnali da lontano. Non grida, però, affinché qualcuno li ascolti: ascolterà solo chi vorrà, capirà solo chi vorrà. Gli altri saranno liberi di tornare a disegnare monumenti alla complessità e allo spreco, gli altri saranno liberi di tornare a comprare oggetti pesanti e inutili. Ecco quindi un’ulteriore, significativa, caratteristica di Jasper: Jasper non fa proclami, non scrive manifesti, lancia solo dei segnali. Ogni oggetto che disegniamo, ogni oggetto che acquistiamo entra nel nostro panorama, ne influenza l’atmosfera. «Objects should make good atmosphere»

http://icondesign.it/storytelling/jasper-morrison-designer/

(«Gli oggetti dovrebbero contribuire a creare atmosfere positive»). Non si tratta solo di un bicchiere o di una sedia, si tratta in realtà di un “perturbatore di atmosfere”. Da molti anni ormai Jasper ha conformato il suo modo di disegnare su questi principi “anti-perturbativi”. I suoi oggetti sono parchi, semplificati, carichi di una storia sedimentata. A volte sono parziali riletture di oggetti anonimi: in questi casi l’anonimo reperto viene da lui analizzato, soppesato, traguardato, se ne definiscono pregi (grandi) e difetti (piccoli) e poi si lavora di cesello, fino a raggiungere il risultato sperato. Il disegnare di Jasper è infatti sempre un processo lungo e articolato, il “tempo” ne è uno degli attrezzi. Il tempo, per Jasper Morrison, sta accanto alla matita e al computer: voi produttori di tutto il mondo non crediate quindi, come ormai siete soliti fare con altri progettisti, di chiedere a Jasper, in set


SETTIMO CAPITOLO

tembre, un oggetto per il Salone del Mobile di aprile! I suoi tempi, o forse dovrei dire genericamente “i tempi del progetto”, sono altri! L’approccio di Jasper al design risulta in realtà incomprensibile a molti. Se Jasper impiega tanto tempo, o forse dovremmo dire “il tempo necessario”, per disegnare un nuovo oggetto, anche a chi guarda quest’oggetto è richiesto un contributo di tempo. Il design di Jasper è infatti volutamente “fuori moda”, “fuori tempo massimo”. Secondo me è “fuori-classe”. I fuoriclasse non hanno epoca! Il design di Jasper assomiglia a Jasper, invecchia con pochi segni (giusto i capelli un tempo biondo-cenere si sono fatti bianco-cenere). I suoi oggetti sono destinati a farci compagnia a lungo e a essere, poi, trasmessi ai nostri figli. Jasper lo sa. Così come sa che questo è il modo migliore di “praticare” l’ecologia: far durare, nel tempo, le cose. Potremmo chiamare sul banco degli imputati la Basel Chair, disegnata nel 2008 per Vitra, come rilettura di quelle sedie popolari

così diffuse da cambiare nome a seconda del loro destino (sedie “da trattoria”, ma anche sedie “da chiesa”). O ancora i piccoli tavoli in sughero (Cork Family, Vitra, 2004): uno in particolare, che altro non è se non un tappo da vino ingrandito (dicevamo appunto che per progettare bisogna “saper ve- dere!”). O ancora il lavabo a colonna Bonola, per Ceramica Flaminia, del 2013; una fontanella da giardino, nessuna meraviglia se vi si posasse un passerotto. Ma i riferimenti di Jasper possono essere anche più “elevati”: come la Terra, o un altro pianeta, comunque schiacciato ai poli, per la lampada Glo-Ball di Flos del 1998, o il lavoro di Mariano Fortuny per l’apparecchio Superloon, sempre per Flos, del 2015. Allontanarsi dall’egocentrismo smisurato del designer è oggi più che mai necessario: «We designers are all guilty of promoting our own cause (...), the author’s ego» («Noi designer siamo tutti colpevoli di promuovere la nostra stessa causa (..) l’ego dell’autore») spiega Morrison, il quale, in un’intervista di qualche

anno fa, disse: «Mi interessa dimostrare che non sono un artista... “Jasper Morrison, il grande creatore”: non è veramente il mio ruolo! La mia passione sono le cose comuni, fatte dall’uomo, che ci circondano e che rendono bello il nostro ambiente»*. In sintesi, disegnare concependo una “thingness” è oggi più che mai importante. “E’ proprio con un prodotto di Jasper Morrison (Plywood Chair, Vitra, 1988) che si inizia a parlare di minimalismo alla fine degli anni ‘80, e guardando l’innumerevole carrellata di prodotti del designer inglese non poteva essere altrimenti. Si nota subito come tutto il suo linguaggio parli la lingua del minimalismo. La sua è una ricerca della semplicità, una ricerca che deve obbligatoriamente portare alla creazione di prodotti che portino vibrazioni positive nella vita del fruitore dell’oggetto. Una filosofia questa, che gli ha permesso di essere oggi uno dei migliori designer in circolazione, apprezzato in tutto il mondo.”


SETTIMO CAPITOLO

LE ORIGINI DELL’ART DESIGN:

IL READY-MADE Il termine ready-made è un anglismo traducibile come già fatto, confezionato, prefabbricato o pronto all’uso. Dal 1915 il termine fu usato in ambito artistico per categorizzare un oggetto comune prefabbricato isolato dal suo contesto funzionale, defunzionalizzato e rifunzionalizzato tramite il solo atto di selezione di un artista ad opera d’arte («[...] elevato allo status di arte [...]», per Thierry De Duve è un oggetto industriale privo di connessioni con la tradizione artigianale rifunzionalizzato come “puro Simbolo”). Questi oggetti per lo più appartenenti alla realtà quotidiana sono lontani dal sentimentalismo e

https://it.wikipedia.org/wiki/Ready-made

dall’affezione e possono essere modificati (in questo caso si parla di ready-made rettificato) o meno. Il ready-made è quindi un comune manufatto di uso quotidiano (un attaccapanni, uno scolabottiglie, un orinatoio, ecc.) che assurge ad opera d’arte una volta prelevato dall’artista e posto così com’è in una situazione diversa da quella di utilizzo, che gli sarebbe propria (in questo caso un museo o una galleria d’arte). Il valore aggiunto dell’artista è l’operazione di scelta, o anche di individuazione casuale dell’oggetto, di acquisizione e di isolamento dell’oggetto. Ciò che a quel punto rende l’oggetto comune e banale (si pensi alla latrina capovolta che Du-

champ intitolerà “Fontana”) un’opera d’arte, è il riconoscimento da parte del pubblico del ruolo dell’artista. L’idea di conferire dignità ad oggetti comuni fu inizialmente un forte colpo nei confronti della distinzione tradizionale, comunemente accettata e radicata, tra ciò che poteva definirsi arte e ciò che non lo era. Nonostante ai nostri tempi questa pratica sia ampiamente accettata dalla comunità artistica, continua a destare l’ostilità dei media e del pubblico. Duchamp utilizzò per primo in ambito artistico il termine ready-made nel 1913 in relazione alla sua opera Bicycle Wheel (categorizzabile come ready-made rettificato, in quanto si tratta di una


SETTIMO CAPITOLO

ruota di bicicletta imperniata su di uno sgabello tramite le forcelle del telaio). Il primo ready-made puro è Bottle Rack (“Lo scolabottiglie”, del 1914), semplicemente firmato. L’originale dello scolabottiglie non esiste più. Esso fu semplicemente buttato via dalla sorella di Duchamp (alla quale lui regalò nel 1914 il Readymade Infelice — Unhappy Readymade —) mentre questi, nel 1915, era negli Stati Uniti ed ella aveva compiuto una “pulizia generale” dello studio del fratello. Ma lo stesso Duchamp lo sostituì poi con un altro esemplare. Questa tecnica fu ben presto accolta e sviluppata da altri artisti dadaisti, tra i quali Man Ray e Francis Picabia che la combinò con l’arte pittorica tradizionale applicando dei ciuffi di criniera animale su un dipinto per rappresentare i capelli. Importante opera di Man Ray è il “regalo” un ferro da stiro con 14 chiodi che sporgono dalla piastra, rendendolo inutilizzabile; era stato dato un nuovo ruolo a questo oggetto, cioè quello di “ridurre un abito in brandelli”.


SETTIMO CAPITOLO

FOCUS:

PHILIPPE STARCK Nato a Parigi, è considerato un importante designer europeo. Philippe Starck lavora anche come architetto progettando locali in tutto il mondo. Mentre studia al Notre Dame of Saint Croix in Neully, crea una società di strutture gonfiabili finanziata dall’attore francese Lino Ventura. Nel 1970 crea il sistema luminoso “Easy Light”, prima delle sue realizzazioni ad essere edita. Nel 1981, l’incontro con JeanLouis Costes, permette a Starck

di concepire, tre anni dopo la ristrutturazione del famoso Café Costes, in Place des Innocents, nella prima circoscrizione di Parigi. Geniale autodidatta, l’uomo che ha in definitiva creato il design francese (prima di lui non vi erano grandi nomi in questo settore), ha detto di se stesso e della sua formazione: “... mio padre era un inventore, disegnava aerei e la sola eredità che mi ha lasciato non è stata una grande somma di danaro, come generalmente avviene con l’aviazione - per me è stato il

http://www.designindex.it/designer/design/philippe-starck.html

contrario - ma mi ha lasciato l’idea che uno dei mestieri più belli che si possa fare è un mestiere creativo. Con la creazione si può effettuare una ricerca interiore e lavorare su sé stessi. E creando degli aerei, mi ha insegnato delle cose preziose: per far volare un aereo occorre crearlo, ma per non farlo cadere occorre essere rigorosi”. Dopo insomma un ottimo ingresso nel mondo del design ed essere ben conosciuto dagli addetti ai lavori, Starck è venuto all’onore


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delle cronache più popolari per avere collaborato nel 1982 alla realizzazione dell’arredamento di alcune stanze degli appartamenti privati del Presidente Mitterrand al Palazzo dell’Eliseo. Ma, a parte questo lavoro che si aggiunge a molti altri progetti ed allestimenti, Starck è noto e stimato in patria e fuori per le sue qualità di designer, di intelligente e colto autodidatta, di poetico creatore libero da conformismi, (considerato “enfant terrible”), ma dalla controllatissima professionalità. Dal modo di concepire di Starck, si comprende che non ha senso dare un’età ai suoi mobili ed ai suoi oggetti di design. Opere recenti derivano da disegni magari rimasti in gestazione per anni. Una seconda ragione di essere di Starck come designer è l’idea

del servizio. Un oggetto di Starck è leggero, economico in materia ed energia dalla produzione al consumo, passando dal packaging al trasporto. Starck ha la coscienza di essere diverso, di avere “sfondato” per un puro bisogno di esprimersi. Sue caratteristiche sono il gusto del gioco e del divertimento; ama meravigliarsi e meravigliare gli altri, anche tramite le sue opere architettoniche. È vincitore di importanti premi quali il Grand Prix National de la Création Industrielle (1988) e l’Honor Award dell’American Institute of Architetcts nel 1992, per il Paramount Hotel di New York. È titolare di un’importante attività didattica. Nel 2000 ridisegna l’intera collezione della Emeco, l’azienda ame-

ricana considerata un American classic, che produce la leggendaria Navy chair, la sedia in alluminio rifinita a mano concepita per la Marina statunitense che si ritrova nei film di Hollywood, nei bar newyorkesi, nelle ville di Frank Gehry. “Attualmente il designer più conosciuto al mondo, tanto che possiamo tranquillamente definirlo la star degli ultimi anni. Il suo successo viene dalle grandi capacità di designer unite a un innata capacita nel sapersi vendere. Ha saputo crearsi un immagine e vendersi nel migliore dei modi alle piu importanti aziende. Tutto ciò che firma viene apprezzato e riconosciuto quasi come opera d’arte, il che, spesso, porta a defiinire le sue opere piu come oggetti di art design che di uso quotidiano.”





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