Capire e progettare Pillole di percezione visiva e neuroscienze
Accademia Albertina di Belle Arti di Torino Scuola di Progettazione artistica per l’impresa
Tesi di diploma di I° livello
Capire e progettare Pillole di percezione visiva e neuroscienze
Candidato:
Relatore Prof:
ROBERTA CARRER
ROMEO TRAVERSA
13130T
Anno Accademico 2019-2020
INDICE
1. INTRODUZIONE
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2. IL SISTEMA VISIVO
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2.1 L’occhio
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2.2 Il cervello
23
3. COMINCIARE A VEDERE
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3.1 Lo sviluppo del sistema visivo
41
3.2 I neuroni bimodali, specchio e l’affordance
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4. LA NASCITA DELLE TEORIE DELLA PERCEZIONE VISIVA
51
4.1 Top-down
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4.2 Illusione e Gestalt
64
4.3 Bottom-up
75
4.4 Vedere, pensare, riconoscere
77
5. VEDERE
81
5.1 Come vediamo oggetti e volti
81
5.2 Come vediamo lo spazio
92
5.3 Come vediamo il movimento
107
6. IL COLORE
113
6.1 Come vediamo il colore
113
6.2 Come vediamo i grigi
128
7. IL LINGUAGGIO
133
7.1 Disegnare e pensare
133
7.2 Scrivere: Il rapporto tra grafica e scrittura
141
8. CONCLUSIONI
161
9. IL PROGETTO
165
10. BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA
173
Design for all
Per la stesura della tesi ho usato un font ad alta leggibilità per facilitare la fruizione del testo durante la lettura. Sia la tesi, sia l’elaborato cartaceo, sia il manuale interattivo in formato e-pub sono progettati con caratteri ad alta leggibilità e hanno un layout di impaginazione che segue i criteri di Massimo Vignelli. Il testo è senza sillabazione per rendere gli elaborati facilmente fruibili durante la lettura (Design for all); ecco perchè sia in questo testo, sia negli altri elaborati si potrebbero notare dei “nidi” ovvero spazi dovuti alla giustificazione del testo senza però la sillabazione. Questa scelta di trattare il testo in questa maniera è dovuta dal fatto che le sillabazioni e l’uso di bianco eccessivo tra le righe di testo rendono più difficoltosa l’esplorazione visiva (saccadi e foveazione all’interno di un testo). La mia decisione di creare degli elaborati con queste accortezze è per rendere il mio lavoro alla portata di tutti i tipi di lettori e per rendere la lettura meno difficoltosa.
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Font ad alta leggibilità Biancoenero
A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w y z 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 * & @ . ,
Italic Regular Bold http://www.biancoeneroedizioni.it/font/
9
01
INTRODUZIONE
Questa tesi nasce con l’intento di creare un lavoro di ricerca per completare quello che è la formazione di un progettista dal punto di vista tecnico. Infatti, spesso mi è successo di dare per scontato l’uso di determinate regole all’interno di un progetto senza però pormi alcune domande: perché succede? Perché è meglio usare determinate tecniche piuttosto che altre? Perché seguire determinate regole cromatiche, di impaginazione e uso di font per creare una comunicazione efficace? Per questo motivo ho deciso di creare una tesi di ricerca su questo campo e cercare di capire dal punto di vista scientifico come funziona la percezione visiva. Poiché la cultura umanistica ed artistica non può fare a meno di quella scientifica (e viceversa), è necessario imparare fin dall’inizio l’importanza della percezione visiva dal punto di vista neuroscientifico per formare la figura del progettista (che sia in ambito del design grafico, produttivo fino a figure come illustratori e artisti). Inoltre, per avere una comunicazione efficace penso sia vitale capire come funzionano determinati meccanismi fisiologici e celebrali. Da qui nasce l’intento di questa ricerca ovvero porre una base iniziale per comprendere come funzionano i nostri occhi e il nostro cervello e come utilizzare questo sapere per essere progettisti responsabili, curiosi e consapevoli.
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Questa ricerca vuole riassumere, attraverso l’uso di tavole esplicative e interattive e vari formati di pubblicazione, i concetti essenziali riguardo ai modi in cui funziona il nostro cervello in relazione a quello che vediamo. Vista la crisi della didattica che la pandemia ci ha fatto attraversare, il formato della guida era stato pensato in un primo momento cartaceo ma ho voluto creare una versione scaricabile in formato e-pub accompagnata da un sito web di presentazione da cui poter scaricare il file. Il lavoro di ricerca si è basato principalmente sui lavori di autori che ho ritenuto più importanti approfondire: Riccardo Falcinelli e Paola Bressan. Il primo, Riccardo Falcinelli (Roma, 25 Aprile 1973), noto grafico e teorico di comunicazione visiva e design. Il suo libro “Guardare, pensare, progettare. Neuroscienze per il design” è stato importantissimo per la costruzione della mia ricerca sulle basi della percezione visiva dal punto di vista di un graphic designer. La seconda autrice, Paola Bressan, è una psicologa e ricercatrice italiana e grazie al suo testo “Il colore della luna: Come vediamo e perché” ho potuto integrare conoscenze più specifiche dal punto di vista neuroscientifico
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Riccardo Falcinelli. Graphic designer (1973).
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COME FUNZIONA IL SISTEMA VISIVO
Al giorno d’oggi siamo circondati da immagini riprodotte, che chiamiamo comunemente fotografiche (dai social, diapositive, istantanee fino ai video su piattaforme streaming), il cui linguaggio condiziona ormai tutta la nostra esperienza visiva, tanto che ormai diamo per scontato l’esistenza di queste immagini come cose autonome e simili alla realtà e svincolate dal linguaggio e dal rapporto con gli altri sensi. Crediamo che le immagini parlino da sé senza differenziazione, ma c’è differenza tra osservare la foto di un paesaggio e vederlo nella realtà, tra vedere un oggetto o un volto e ancora c’è differenza tra un volto di una pubblicità rispetto al volto di una persona cara (in cui entra in gioco tutta la sfera emotiva e una sinestesia tra i sensi percettivi). Per questo è necessario chiedersi: cosa succede quando guardiamo? Pensiamo che l’azione del vedere sia facile e automatica ma è molto più complesso di così. Possiamo descrivere brevemente il sistema visivo “come un congegno in grado di trasformare la luce in messaggi interpretabili” 1
Piero Fornasetti. Serratura.
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Illustrazione del funzioamento di una camera oscura.
Il nostro sistema visivo è formato da tre parti: l’occhio; le vie visive; e le aree visive del cervello. La luce, che contiene dati grezzi, entra nell’occhio che converte questi dati in un segnale elettrico, che a sua volta è spedito attraverso le vie visive (o fascio ottico) al cervello in un’area chiamata corteccia visiva primaria che smista il segnale inviandolo ad altre aree specializzate. Come specifica Falcinelli nel suo libro “queste aree si occupano di aspetti specifici e costruiscono la visione secondo colore, movimento e posizione. In più, i neuroni contenuti in queste aree analizzano ulteriormente la scena secondo aspetti ancora più specifici” (Guardare, pensare, progettare). Contemporaneamente, un secondo percorso di informazioni, riguardante i movimenti dell’occhio, parte dal cervello e arriva all’occhio stesso. In conclusione, Possiamo definire la nostra visione un processo attivo: i nostri occhi si muovono per esplorare la scena e si focalizzano su determinati dettagli.
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2.1 L’OCCHIO
Ecco che il nostro occhio funziona un po’ come una camera oscura e per questo viene definito anche occhio a camera. Per capire come funziona un occhio, dobbiamo prima soffermarci sulla sua anatomia. Di norma, l’occhio si può definire come “una sfera la cui superficie è rivestita da tre membrane concentriche: sclera, coroide e retina” 2 La sclera è quella che più comunemente chiamiamo la parte bianca dell’occhio, ovvero lo strato più esterno che circonda e mette in risalto l’iride (la parte colorata). La nostra sclera ha un’unicità rispetto a quella di altri primati che, a differenza dell’uomo, hanno una sclera poco esposta e dello stesso colore della pelle. A differenza degli altri primati, per noi gli occhi sono molto importanti nella comunicazione e nella cooperazione con l’altro: ecco perché nel nostro caso “la forma e il colore dell’occhio rendono la direzione dello sguardo particolarmente evidente” 3. Già da una parte dell’occhio si evince quindi il nostro desiderio di comunicazione e interazione. Nella parte frontale dell’occhio la disposizione delle fibre cambia: la sclera, che diventa trasparente, prende il nome di cornea e, grazie alla sua densità diversa, fa sì che i raggi luminosi che la colpiscono subiscano una rifrazione. Al di sotto è presente una parte colorata detta iride.
1-2-3. Il colore della luna: come vediamo e perchè. Paola Bressan
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Cristallino
Iride Fovea
Umor acqueo
Pupilla
Umor vitreo
Cornea Nervo ottico
Retina
Anatomia occhio umano
L’iride, che come le impronte digitali, è unica per ciascun individuo grazie alla presenza di striature irregolari, è composta da piccoli muscoli che si distendono e contraggono aprendo e chiudendo così la pupilla, che regola la quantità di luce che entra nell’occhio (esattamente come il diaframma in una macchina fotografica). La grandezza della pupilla può variare anche dal punto di vista emozionale (per esempio con l’interesse o la repulsione nei confronti dell’oggetto guardato) uno stesso volto ci sembrerà più attraente se ha le pupille dilatate perché percepiamo in lui un interesse nei nostri confronti. Dietro l’apertura pupillare è situato il cristallino, una sorta di lente la cui funzione è quella di variare i raggi luminosi e proiettarli al fondo dell’occhio.
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Sul fondo dell’occhio è presente una superficie chiamata retina (il nome è dovuto dalla composizione intricata, che fa pensare a una rete, dei vasi sanguigni presenti all’interno). La composizione della retina è stratiforme: nel primo strato troviamo i fotorecettori (cellule sensibili alla luce) che convertono gli stimoli luminosi in segnali elettrici; nel secondo strato sono presenti le cellule bipolari che raccolgono i segnali provenienti dai fotorecettori e li trasmettono allo strato più esterno composto dalle cellule gangliari ed è da qui che inizia il vero lavoro della visione. La percezione inizia, appunto, quando la luce colpisce la retina e i fotorecettori il lavoro di un recettore è quello di contare i fotoni; alcuni rispondono meglio a certe lunghezze e meno ad altre. I recettori sono divisi a loro volta in coni e bastoncelli: mentre i primi lavorano con la luce diurna, i secondi lavorano invece sulle condizioni di scarsa illuminazione. I coni, che distinguono i dettagli fini e i colori, sono di tre tipi chiamati, in maniera semplice, rossi, verdi e blu. Il singolo cono registra una lunghezza d’onda, mentre i bastoncelli sono più sensibili alle onde corte (blu-verde). All’interno dei fotorecettori è contenuto il pigmento visivo, una molecola proteica che genera un segnale elettrico dopo essere stata colpita dal fotone. Questo segnale viene raccolto dalle cellule gangliari che elaborano il segnale e lo inviano al cervello, che costruirà infine l’immagine nitida.
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Tehos Draw ink, acrylic, on BFK rives fine Art paper 76*56 cm - Black eye 05
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Il punto in cui il fascio ottico passa attraverso la retina è chiamato punto cieco: qualunque cosa cada in quel punto quindi non viene vista e in quel caso interviene il cervello a completare l’immagine in base alle informazioni circostanti. Mentre il punto cieco non ha recettori, questi ultimi – ovvero i coni e i bastoncelli – sono invece contenuti nella fovea, circondata a sua volta da un’area leggermente più grande detta parafovea dove sono concentrate più della metà delle risorse visive del cervello. Grazie alla visione foveale siamo in grado di notare i dettagli minuti mentre le cellule periferiche ci permettono di percepire il movimento che entra nel nostro campo visivo: questo ci fa capire che il nostro cervello non vede in una sola volta tutta la scena che osserviamo ma elabora una piccola parte di campo visivo per volta. Ecco perché dobbiamo muovere i nostri occhi per esplorare la realtà che ci circonda. Questo processo viene chiamato foveazione e serve per evitare che il cervello venga sommerso da troppe informazioni tutte assieme. Potreste aver notato che quando siete in una sensazione di pericolo il cervello si concentra maggiormente sugli stimoli visivi, proprio perché in un momento di pericolo il cervello ha bisogno della massima concentrazione per uscire dalla situazione nella quale si trova.
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A
X
Gioco del punto cieco. Se avvicino il viso alla pagina, chiudo l’occhio destro e fisso la X con l’occhio sinistro; allontanando lentamente la pagina dal viso la A ad un certo punto scomparirà. Contintuando ad allontanarmi, invece, comparirà. In questo modo la A è caduta nel punto cieco e il cervello ha completato l’immagine con le informazioni circostanti. .
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La nostra visione si dimostra sempre di più un processo complesso, sensato e attivo perché è il cervello a decidere cosa fissare. Questa esplorazione avviene tramite tre movimenti dell’occhio: i primi due si chiamano saccadi e avvengono circa alla velocità di 900 gradi al secondo, durante la saccade la visione è soppressa e non viene inviato il segnale al cervello. L’occhio poi si ferma in quella che è chiamata fissazione che dura invece un decimo di secondo. Il terzo tipo di movimento, consistente in microsaccadi e simile a un tremolio costante, è un movimento che facciamo inconsapevolmente ed è essenziale per continuare a vedere le cose ferme. Per spiegare come mai il tremolio sia necessario per la visione di cose ferme, bisogna partire dal fatto che gli occhi sono progettati per individuare ciò che si muove: il tremolio serve quindi a far si che l’immagine, cambiando sempre posizione sulla retina, venga recepita dalle cellule come movimento “sarà poi il cervello a sottrarre l’informazione del tremolio, per costruire un immagine ferma” 4.
Illustrazione di alcuni movimenti oculari.
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Guardare è innanzitutto prestare attenzione e ognuno di noi esplora la scena anche in base alla propria esperienza (emotiva, culturale, sociale ecc.) “Di fronte ad un dipinto di natura morta con verdure e cacciagione, uno storico dell’arte compirà saccadi di un certo tipo, un cacciatore di un altro, un bambino di un altro” 5. Per tutti questi motivi un progettista (artista, designer) è incredibilmente allenato alle composizioni visive rispetto ai fruitori, ecco perché è importante la conoscenza del funzionamento dei principali strumenti che usiamo quotidianamente (occhi e cervello) perché spesso la produzione dei progettisti rischia di basarsi sulla loro esperienza personale e non su uno studio approfondito del fruitore. Come infatti afferma Falcinelli, “quando si progetta, da una parte bisognerebbe tener conto della base filologica che accomuna di tutti gli uomini; poi servirebbe chiedersi l’altro che cosa e come vedrà; bisognerà chiedersi quale cultura condividiamo con il nostro destinatario e infine, ovviamente, si dovrebbe pure rischiare e fare un po’ di testa propria”. Ecco quindi un primo punto di partenza che dovrebbe essere alla base delle conoscenze di un progettista.
4-5. Guardare, pensare, progettare. Riccardo Falcinelli (2011)
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2.2 IL CERVELLO
Il cervello nasce tramite sviluppo di cellule embrionali che, verso il sedicesimo giorno di vita, assumono caratteristiche delle cellule nervose ovvero i neuroni. “I neuroni hanno un corpo centrale da cui si dipartono dei bracci arboscenti, detti dendriti (che ricevono il segnale nervoso da altri neuroni) e un braccio più lungo detto assone che trasmette il segnale verso altri neuroni, costruendo così una rete fittissima. Gli assoni trasmettono l’informazione in direzione centrifuga, indirizzandola dal centro del neurone verso l’esterno, ad altri neuroni o a cellule muscolari. I dendriti invece la raccolgono e la indirizzano centripeta al corpo cellulare” 6 . Sarà lo sviluppo di queste connessioni a formare il cervello; questo sviluppo tuttavia non è determinato solo da fattori genetici ma anche da fattori fisici, chimici e ambientali. Cosa determina quindi ciò che siamo? Non possiamo attribuire tutto il merito alla genetica: infatti, ci sono fenomeni complessi come la socievolezza o la timidezza, il senso del ritmo, e in generale ciò che ci contraddistingue non può essere un merito interamente genetico; se così fosse fratelli o addirittura gemelli non diventerebbero delle persone così dissimili tra di loro al di fuori dell’aspetto fisico. Di fatto siamo un miscuglio naturale e culturale (come dice Falcinelli nel suo libro)
6. Guardare, pensare, progettare. Riccardo Falcinelli (2011)
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Tim Lahan, Illustazione per il New York Times.
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La maturazione del nostro cervello è lenta e richiede un processo di apprendimento per gestire il movimento, il ragionamento astratto, il linguaggio e le emozioni (lo sviluppo delle connessioni che gestiscono l’emotività non sarà pronto prima dei 18-22 anni). L’essere umano nasce senza istinto innato, a differenza delle altre specie animali, o più precisamente l’istinto dell’uomo può essere riconducibile al linguaggio che porta alla produzione di competenze trasmissibili: ecco che la cultura e la società diventano la natura dell’essere umano che viene al mondo senza abilità specifiche o istinti innati (come la caccia per il gatto) ma pronto a essere “educato” e acquisire conoscenze. L’ambiente, dunque, influisce sullo sviluppo umano. L’interazione con l’ambiente esterno inizia già durante la gestazione quando il feto sperimenta le prime sensazioni: infatti, a differenza di organismi meno complessi, noi siamo in grado di percepire piacere, dolore (eventi positivi o negativi che incoraggiano o inibiscono uno specifico comportamento) e tali sensazioni rappresentano vantaggi evolutivi. Dal punto di vista anatomico il cervello è composto da due emisferi che hanno funzioni diverse. Ogni emisfero si divide in lobi: parietale, occipitale, frontale e temporale. La visione è governata dall’occipitale e per altri aspetti dal temporale (come per l’udito), il parietale codifica la struttura del mondo esterno e le rappresentazioni tridimensionali mentre il frontale ha una funzione astratta perché vi risiedono le attività come il senso e la morale.
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I due emisferi sono connessi dal corpo calloso. Lo strato più superficiale è avvolto dalla corteccia cerebrale; le varie parti del cervello comunicano tramite vie nervose e tramite gli ormoni che raggiungono i recettori dei vari organi regolando l’attività di questi ultimi. Tutta l’attività ormonale è gestita dall’ipotalamo.
Lobo parietale Lobo frontale
Lobo occipitale
Lobo temporale
Cervelletto
Tronco encefalico
Anatomia cervello umano
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Nello strato superficiale troviamo la neocorteccia che è altamente specializzata nella visione e nel linguaggio (qui si compongono queste strutture); alla base del cervello è contenuto il sistema limbico, l’ipotalamo e il tronco dell’encefalo (che regolano le funzioni vitali) e tra le varie parti che compongono il sistema limbico troviamo l’amigdala. L’amigdala riveste una grande importanza ai fini del nostro discorso: “tramite risonanza magnetica si è visto che l’amigdala reagisce ad un volto che esprime paura, ma se il volto sorride l’amigdala si calma” 7. Questo dimostra che il rapporto con il mondo è per lo più emotivo. Dal punto di vista artistico, per esempio, un ritratto attiva in maniera diversa il cervello rispetto ad una natura morta. Oltre a queste attività nell’amigdala viene elaborato anche il piacere per il cibo e per il sesso. Ecco che questa conoscenza ci porta a un’altra domanda, che è molto importante per noi progettisti: che tipo di piacere è quello estetico? Come possiamo sfruttare queste conoscenze per una campagna di comunicazione o per la produzione di un oggetto? Al giorno d’oggi siamo provvisti di macchinari che possono aiutarci nello studio del cervello umano, come per esempio la TAC (Tomografia Assiale Computerizzata), la PET (Tomografia a Emissione di Positroni) o la NMR (Risonanza Magnetica Nucleare). Queste tecnologie ci aiutano a comprendere quali aree del cervello si attivano a seconda del compito svolto.
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“Il funzionamento in teoria è semplice: le sinapsi consumano energia, così individuando le aree che richiedono energia (sotto forma di afflusso sanguigno) si individuano i punti attivi del cervello mentre compie una determinata azione” 8.
Tomografia cervello umano.
7-8. Guardare, pensare, progettare. Riccardo Falcinelli (2011)
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Individuare le aree deputate a un’azione è un ottimo aiuto per iniziare a capire da dove partire per conoscere quali aree svolgono determinate funzioni durante la visione, anche se non possiamo ragionare semplicisticamente in base alle aree specifiche per spiegare una singola azione: infatti, per ogni azione il cervello può lavorare sotto diversi aspetti contemporaneamente. Per esempio, nominare un colore riguarda sia le aree della percezione cromatica sia quelle linguistiche. Secondo questo approccio possiamo parlare quindi di intelligenze diverse (linguistica, sociale, musicale, emotiva, spaziale) che interagiscono tra loro. Per capire dunque come funziona il cervello e l’intelligenza visiva in rapporto alle arti, alla progettazione e al design dobbiamo tenere conto di un approccio che racchiuda soluzioni di continuità tra faccende storiche, scientifiche, fisiologiche e culturali. L’importanza del rapporto con il mondo tramite il nostro corpo è comprovata: nello sviluppo motorio di un bambino il movimento non è solo un mero comando che il cervello dà al corpo per uno scopo ma è un mezzo per formare il pensiero e sviluppare le funzioni mentali, portando a un accordo tra corpo e cervello volto alla formazione di sinapsi che porteranno a una gestione complessa del corpo. Le sinapsi si formano quando memorizziamo qualcosa e di conseguenza le perdiamo quando dimentichiamo: questa è una produzione continua e ininterrotta nel corso del nostro ciclo vitale.
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Oltre alla predisposizione genetica conta molto anche la quantità di stimoli esterni che tengono vivi cervello e corpo: le pratiche artistiche in questo senso fondono esattamente questa ambivalenza tra corpo e cervello perché han sempre comportato un uso specifico del corpo nello spazio. Per il progettista non esiste un guardare/pensare senza un fare, poiché il corpo ha molta rilevanza nella stimolazione del pensiero creativo e quindi anche nella progettualità. Oggi ci appoggiamo quasi completamente a una risorsa come il computer. Sono d’accordo con Falcinelli per quanto riguarda il dubbio verso questo mezzo, poiché appoggiarci completamente a esso in quanto progettisti ci fa perdere tutta quella parte manuale che, come abbiamo visto, è determinante nell’ideazione di un progetto. Nel caso di un graphic designer scarabocchiare e abbozzare un logo piuttosto che produrlo direttamente tramite macchina o anche giocare con collage di carta o altri materiali può essere un aiuto e una stimolazione nella produzione di nuove idee.
Bozzetti studio del logo delle Ferrovie dello Stato
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Sappiamo che la percezione visiva viene gestita in diverse aree tutte corticali, tra le quali quelle adibite alla visione sono indicate con una v seguita da un numero progressivo, : V1, situata nel lobo occipitale, è l’area principale ed è il centro in cui vengono smistate le informazioni verso le altre aree specializzate ovvero movimento, forma, colore e così via. Nonostante questo, ci sono prove recenti che “hanno aperto la strada all’ipotesi che ci sia anche una via diretta dalla retina all’area del movimento V5, senza passare per V1, questo significa che si può percepire un movimento rapido (e la sua direzione) anche in casi di lesioni a V1” (Guardare, Pensare, Progettare Falcinelli). In base a tali ipotesi, si rende necessario ripensare alla vecchia idea di che cosa sia vedere, dato che ormai sappiamo che la scena visiva è scomposta in parti che il cervello elabora in parallelo e ricompone dandoci la sensazione di una vista omogenea. Come funzionano le aree visive? Le fibre provenienti dalla retina si incrociano nel chiasma ottico, da dove la metà destra del campo visivo viene inviata all’emisfero sinistro e processata, mentre la metà sinistra viene mandata all’emisfero destro. Due vie portano al cervello, una più recente e una più primordiale, rispettivamente la via ventrale e la via dorsale. Queste due vie sono state rinominate la via del “cosa” e del “dove”.
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La via del “cosa” porterebbe informazioni riguardo alla forma delle cose, all’identità degli oggetti e al colore; la via del “dove” elabora invece il movimento, lo spazio e l’ambiente. Il lavoro delle due vie è talmente coordinato che non ci rendiamo conto della sincronia.
Illusione di Titchener. un cerchio identico sembra più piccolo in rapporto alle dimensioni degli oggetti che lo circondano. .
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Parliamo ora della struttura della corteccia visiva, formata da lamine composte a loro volta da centinaia di milioni di cellule nervose disposte a strati che, secondo Falcinelli, sono per la precisione sei. Dalla corteccia striata i segnali, dopo essere stati processati, vengono successivamente inviati ad altre aree corticali. Le varie aree si possono definire, in base a una numerazione non gerarchica, V2, V3, V4, V5 e così via. Mentre l’area V1 è completa alla nascita, le altre invece si sviluppano successivamente poiché la maturazione della corteccia visiva dipende dalle esperienze. Neuronalmente movimento, colore e forma vengono percepiti assieme ma in tempi diversi e con una gerarchia temporale: prima il colore, poi forma e infine il movimento. Questa divisione in compiti succede per ragioni di efficienza e parrebbe una strategia per estrarre dal mondo caratteristiche essenziali. David Hubel (Neuroscienziato, Febbraio 1926 - Settembre 2013) scoprì, a tal proposito, una selettività delle cellule che compongono la corteccia: da studi effettuati sulle cellule che rispondono all’orientamento si apprende che bastano 18 gradi di variazione perché una cellula si interessi o meno a uno stimolo e quindi ci sono cellule che si interessano a linee con un certo orientamento, mentre cellule selettive al colore si disinteressano completamente al movimento. Da questi studi emergono dunque tre caratteristiche della recezione cellulare ovvero: posizione, forma e specificità.
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Possiamo immaginare il sistema visivo come un percorso: si parte dagli occhi fino al talamo, una parte a metà cervello verso la corteccia visiva primaria V1 che smista alle altre. Vediamo ora una dimostrazione della via del “cosa” e del “dove” e come il nostro sistema visivo percepisce le immagini. I mammiferi hanno un’area che elabora la brillanza, mentre solo i primati hanno, un’area per il colore. La via del “dove” è cieca al colore perché è più primordiale e, come dicevamo prima, codifica le informazioni di spazio, ambiente e movimento ragionando solo in quantità di luce riflessa (scala di grigio). È interessante notare come percepiamo due campiture colorate diversamente ma equiluminose: una di esse tenda a sfarfallare a causa di un conflitto tra la via del “dove”, che non riesce a individuare l’informazione colore ma solo la luminosità, e la via del “cosa”, che riesce a recepire l’informazione dei colori diversi. Questi segnali contraddittori creano questo effetto ottico.
SFARFALLIO STABILE 36
L’uso di questa tecnica e dei colori volutamente brillanti viene usata dai grafici per creare un effetto che attiri l’attenzione, anche se la leggibilità diminuisce: ecco un altro esempio di come conoscere i meccanismi del nostro cervello e della nostra percezione può rivelarsi estremamente utile per un progettista. Falcinelli porta come esempio una delle più grandi costumiste di Hollywood, Edith Head (1897-1981), nota per usare vistosi occhiali da sole scurissimi non tanto per vezzo quanto con il fine di sopprimere l’informazione del colore per capire meglio come sarebbero apparsi i costumi nel prodotto finale, ovvero il film in bianco e nero. Abbiamo parlato di “attenzione” che le cellule danno a certi stimoli: sempre su questo tema è utile citare anche il concetto di campo ricettivo “cioè la porzione di campo che attiva una determinata cellula o la inibisce… prescindendo dalla visione, si chiama più in generale campo recettivo quella parte del corpo che se stimolata da luogo alla reazione di un neurone” 9. Possiamo quindi definire la percezione come il risultato di informazioni provenienti da campi recettivi combinati.
9. Guardare, pensare, progettare. Riccardo Falcinelli (2011)
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Tra i vari stimoli che vengono elaborati dal cervello uno dei più importanti di cui comprendere il meccanismo è lo stimolo luminoso gestito dal meccanismo on-off. In breve, lo stimolo luminoso raccolto dai fotorecettori viene in un primo momento elaborato attraverso la retina, le cellule bipolari che raccolgono le informazioni dai foto recettori deviano l’informazione alle cellule gangliari (neuroni nella retina) che lavorano come una sorta di filtro elaborando già in un primo momento le informazioni prima di inviarle al cervello. Questo meccanismo lavora attraverso tre principi: l’adattamento, l’inibizione laterale e l’antagonismo centro periferia, principi con cui il nostro cervello non si limita solo a misurare il colore e la luce ma mette anche a confronto ogni punto con quello vicino e mantiene costanti i rapporti tra i toni e le tinte. Il lavoro vero e proprio della visione e della percezione è una combinazione di lavoro tra occhi e cervello che trasmettono e ricevono stimoli per costruire la nostra visione, con l’aggiunta di un lavoro combinato con gli altri sensi che ci porta a percepire determinate informazioni dal mondo, come per esempio la profondità. Per il nostro discorso riguardo al lavoro dei progettisti è interessante conoscere anche altri meccanismi, per esempio il fatto che il cervello sia costruito per individuare i contorni, spiegando il motivo per cui siamo in grado di cogliere la somiglianza tra un disegno al tratto e la cosa raffigurata.
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Griglia di Hermann La griglia è costituita da un reticolo di linee bianche spesse su sfondo nero. All’intersezione tra le linee bianche appaiono delle aree grigie che in realtà non esistono .
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In generale per il nostro cervello è più facile riconoscere i disegni lineari rispetto alle fotografie perché sopprimono le informazioni tonali e danno alla retina un immagine già stilizzata, in più l’alto grado di convenzionalità la rende subito riconoscibile. Falcinelli cita come esempio la mano guantata di Topolino che cogliamo al volo così come cogliamo al volo una lettera. Un altro meccanismo interessante è quello del completamento amodale ovvero la capacità del cervello di vedere contorni anche dove non ci sono come dimostra la tavola del triangolo di Kanizsa. In poche parole, certi indizi di contorno indurrebbero l’esistenza di un triangolo bianco al centro della tavola perché l’esistenza di questo triangolo sarebbe più sensata e possibile per il cervello rispetto ai tre cerchi mossi e le linee incomplete. Sono state individuate delle cellule responsabili al riconoscimento dei contorni fantasma (presenti in V2 e V3) e si pensa che queste cellule aiutino il cervello a interpretare la realtà. Ecco la dimostrazione che il mondo che ci pare tanto semplice è in realtà costruito anche grazie a cellule predisposte a interpretare e vedere cose che non ci sono, oltre che da un sistema complesso che tramite occhi e cervello codifica la realtà intorno a noi costruendone un’immagine visiva. Conoscere questi meccanismi ci rende delle persone più consapevoli di ciò che siamo e di ciò che ci circonda, oltre che renderci dei progettisti più responsabili e attivi.
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Il triangolo di Kanizsa crediamo di vedere due triangoli equilateri bianchi, l’uno sovrapposto all’altro, uno dei quali possiede il contorno in parte nero. Ma è solo un’illusione: nessuno dei due triangoli esiste perché non èeffettivamente disegnato
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COMINCIARE A VEDERE
3.1 LO SVILUPPO DEL SISTEMA VISIVO
Ora che abbiamo posto le basi anatomiche e funzionali di occhio e cervello, soffermiamoci su come si forma la visione. Come abbiamo già detto, lo sviluppo della visione dal punto di vista neuronale ha bisogno di stimoli e interazioni con l’ambiente esterno: i sensi come il tatto e l’udito alla nascita sono già praticamente sviluppati, mentre bisogna ancora costruire tutto ciò che è considerato visione. La corteccia visiva, come scritto nel capitolo precedente, non si sviluppa solo con l’atto del guardare ma in relazione al resto del cervello che fa esperienza anche attraverso la spazialità e la motoricità. Falcinelli afferma che il sistema visivo si sviluppa nei primi mesi di vita seguendo un programma genetico di sviluppo con tappe prestabilite, ma che è comunque necessario un periodo di sintonizzazione: gli stimoli nel contesto di crescita sono vitali poiché nello sviluppo del bambino ci sono momenti critici di formazione in cui, se un input non viene registrato, è perso per sempre.
Jean Jullien Mirror
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I neonati hanno come primo approccio con il mondo il volto dei genitori (è dimostrato che i livelli di attenzione dei neonati si fissano sui volti) e in generale prediligono figure curve e morbide rispetto ad angoli e spigoli. Se mostriamo dunque a un neonato uno smile possiamo ricevere un buon grado di attenzione rispetto a fargli vedere separatamente le stesse forme che lo compongono. I bambini imparano a vedere “secondo una costante interazione col mondo” e queste conoscenze verranno poi integrate con l’insegnamento degli adulti e con il linguaggio per dare forma al mondo che li circonda: è così che sviluppiamo il nostro sistema visivo. In altri esperimenti è stato dimostrato che i bambini potrebbero ragionare e prediligere determinati oggetti per associazione: “i bimbi piccoli, dopo aver utilizzato un succhiotto zigrinato, posti di fronte a due succhiotti completamente identici, tendono a fissare quello effettivamente zigrinato e non il suo gemello liscio” 10. Questi esperimenti dimostrano che non dobbiamo più pensare al sistema visivo e al suo sviluppo come una cosa a sé stante e che l’idea comune dei cinque sensi è frutto di una segmentazione culturale, essendo l’associazione tra sensi un’attività normale per il nostro cervello. Capire a pieno il meccanismo di come il cervello associ tra loro questi stimoli e percepisca sinesteticamente non è ancora chiaro ma sarà oggetto di ulteriori studi. 10. Guardare, pensare, progettare. Riccardo Falcinelli (2011)
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3.2 L’IMPORTANZA DEL MOVIMENTO, I NEURONI BIMODALI, SPECCHO E L’AFFORDANCE
Si è sempre pensato che le aree motorie e le aree sensoriali fossero separate e che a unire le informazioni provenienti da queste aree fossero le aree associative: secondo questa concezione il sistema motorio avrebbe un ruolo esclusivamente esecutivo, ma in realtà nel sistema motorio sono rimandate attività considerate “alte” come il riconoscimento delle azioni altrui, la comunicazione gestuale e vocale e l’imitazione; l’individuazione di neuroni che codificano atti completi è la prova che non si può ricondurre il movimento biologico a soli “neuroni del movimento” e questa organizzazione fa sì che il nostro cervello ottenga movimenti fluidi e dinamici (non riconducibili ai classici movimenti robotici). Tra i neuroni visuo-motori troviamo quelli definiti bimodali (somatosensoriali e visivi) che sembrano fatti apposta per “usare il mondo” come dice Falcinelli: questi neuroni infatti non solo rispondono alla stimolazione tattile e visiva ma codificano anche informazioni riguardanti principalmente la velocità e la direzione del movimento degli oggetti. Queste informazioni sono fondamentali per pianificare i movimenti adatti a raggiungere gli oggetti. Per un progettista, in relazione a queste conoscenze, è interessante conoscere e capire il fenomeno dell’ affordance. La nozione di affordance è stata introdotta da James Jerome Gibson già negli anni Cinquanta e poi formalizzata nel testo The ecological approach to visual perception del 1979.
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Pur non trovando un termine italiano che traduca realmente l’idea, l’affordance è un invito all’uso, ovvero quell’insieme di azioni che l’oggetto chiama a compiere su di sé. Si tratta di uno fra i principi fondamentali alla base della progettazione sia nel design sia, al giorno d’oggi, nei sistemi di interfaccia di siti web e applicazioni (più comunemente chiamato user interface).
Blog demodern.com Esempi di affordance su oggetti fisici e interfaccia web
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Sulla scia degli studi della Psicologia della Gestalt (di cui parlerò più avanti) degli anni Venti e Trenta, Gibson assume l’idea che i sensi, secondo la sua teoria della percezione diretta, siano sistemi percettivi diretti che colgono gli elementi invarianti dell’ambiente che, a sua volta, offre informazioni, indizi su come vadano usati gli oggetti. Secondo Gibson, cioè, si tratta di relazioni naturali basate, da un lato, sulla capacità degli oggetti di suggerire l’insieme delle azioni che con esso si possono compiere, dall’altro, sulla visione che diventa l’attivatore di tali potenzialità. Questa teoria è stata poi ripresa da Donald Norman (Psicologo statunitense, Dicembre 1935) che si interroga sul come siamo in grado di interagire con oggetti sconosciuti. La riflessione di Norman è a cavallo di due concetti: la affordance reale e quella percepita. Nel primo caso si tratta di tutte le possibilità di azione che un oggetto permette di fare, mentre l’affordance percepita a riferimento alle azioni che un utente percepisce di poter fare. È su quest’ultima che si basa la progettazione delle interfacce digitali, per le quali Norman propone quattro principi fondamentali per garantire una buona affordance. Questi principi sono utili e validi nel ruolo della progettazione.
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Principi base
01 Rispettare le convezioni: sia nella scelta delle immagini, sia per le interazioni consentite. (L’uso di nuovi pattern di interazione potrebbe essere controproducente)
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Utilizzare testi che descrivano o spieghino l’azione desiderata. Affermazione che Norman discute rispetto all’interpretabilità e all’efficacia comunicativa delle immagini.
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Usare metafore. Suggerimento, forse, superato rispetto alla dimestichezza che le persone ormai hanno con gli ecosistemi digitali.
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Utilizzare un modello concettuale coerente che possa essere appreso agevolmente e che venga ripetuto all’interno delle altre interazioni.
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Oltre a i neuroni visuo-motori classici, tra gli anni Ottanta e Novanta furono scoperti i neuroni specchio, grazie alle ricerche di Gianni Rizzolati e alla equipe dell’università di Parma che ha messo in luce l’esistenza di un meccanismo di comprensione, grazie al quale le azioni eseguite dagli altri, captate dai sistemi sensoriali, sono automaticamente trasferite al sistema motorio dell’osservatore, permettendogli così di avere una copia motoria del comportamento osservato, quasi fosse lui stesso a eseguirlo.
Bruno Munari Illustrazione della copertina del libro Design as Art.
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Questa scoperta ha reso possibile una nuova concezione del sistema motorio, aprendo inoltre la via all’indagine neurofisiologica di campi prima appannaggio esclusivo di discipline umanistiche. Molteplici esperimenti hanno dimostrato che un meccanismo specchio è presente anche nell’uomo: prove in tal senso sono state ottenute sia mediante tecniche non invasive di neurofisiologia, sia grazie a esperimenti di brain imaging (visualizzazione dell’attività cerebrale in vivo). “Gli esperimenti di neurofisiologia hanno mostrato l’esistenza del meccanismo specchio nell’uomo; tuttavia, per la loro natura, non sono stati in grado di dare informazioni sulla sua localizzazione. Ciò è stato ottenuto usando tecniche di brain imaging: la tomografia a emissione di positroni o PET (Positron Emission Tomography) e la risonanza magnetica funzionale o fMRI (functional Magnetic Resonance Imaging). Mediante tali tecniche si è mostrato che il sistema specchio che codifica gli atti motori è costituito nell’uomo, come nella scimmia, da due grandi regioni: il lobulo parietale inferiore e l’area premotoria ventrale più la parte posteriore del giro frontale inferiore”11.
11. Gianni Rizzolatti, Sinigaglia 2006.
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Dal punto di vista evoluzionistico, la comparsa dei neuroni specchio ha significato la capacità di comunicare informazioni complesse: per esempio, quando assisto all’esecuzione dell’atto motorio sono in grado di anticipare nella mia testa possibili atti successivi, comprendendo il significato dell’azione e facendomi un’idea delle intenzioni dell’altro. Non solo dunque riconosco cosa fa l’altro, ma con un’ interazione con altri neuroni capisco anche il perché. Lo sviluppo dei neuroni specchio, come tutte le strutture neuronali, sarà diverso da individuo a individuo e la sua costruzione dipenderà dalle esperienze e le conoscenze imparate tramite la propria motoricità. Per quanto riguarda un progettista o un artista, questa scoperta fa crollare un luogo comune nel mondo dell’arte ovvero il fatto che i linguaggi visivi e artistici siano universali e parlino a tutti. Un ballerino o un musicista avranno un’eccitazione diversa rispetto a una persona non esperta in quel campo, così come nei linguaggi visivi gli addetti ai lavori avranno un’esperienza estetica diversa rispetto al solo osservatore: ecco perché è importante riconoscere questo meccanismo per poter comunicare efficacemente attraverso il progetto.
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LA NASCITA DELLE TEORIE DELLA PERCEZIONE VISIVA
Nel corso della storia si è cercato di capire il nostro rapporto percettivo col mondo e, tra le più antiche teorie sulla visione, troviamo quella degli “spiritelli” ovvero entità invisibili che escono dai nostri occhi e si dirigono verso le cose per conoscerle e toccarle, mentre altre teorie ancora stabilivano che fossero le cose a inviare delle piccole copie di loro stesse verso il nostro occhio. Questi continui studi e teorie hanno portato a una visione separata tra scienziati e umanisti: mentre i primi trattano il mondo come esistente a prescindere dall’esperienza di qualcuno, tra gli umanisti alcuni ritengono che il mondo esista solo se c’è qualcuno che lo pensa. Le due posizioni alla fine si riducono a forme non troppo dissimili della metafisica “ossia la certezza assoluta che la materia e l’anima esistano in autonomia” 12.
William Ely Hill La moglie e la suocera detta anche la giovane e la vecchia.
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La percezione per certi versi è una relazione soggettiva e oggettiva allo stesso tempo, “una costruzione del cervello guidata da continui feedback con l’esterno che ci rassicurano sulla stabilità delle cose” 13. Dalla visione metafisica della percezione siamo usciti relativamente da poco, poiché fino a metà Ottocento una branca della scienza definita “medicina umorale”, che perdurava sin dall’antica Grecia, cercava altrove le sedi per determinate sensazioni. Alla medicina umorale dobbiamo per l’esempio l’idea che la sede dei sentimenti e nello specifico dell’amore si trovi nel cuore (ad oggi, se vogliamo, il cuore è appunto rimasta iconografia principale per quanto riguarda l’amore e l’affetto) oppure l’idea che la rabbia facesse rodere il fegato: tali teorie hanno lasciato tracce ancora nel nostro linguaggio odierno.
12-13. Guardare, pensare, progettare. Riccardo Falcinelli (2011)
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Fisiognomica dei quattro temperamenti: flemmatico e collerico (in alto), sanguigno e melanconico (in basso)
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Ad oggi è stabilito che la sede di pensieri e sentimenti sia il cervello , ben più complesso di quello che possono essere fegato o cuore, essendo “un’organo materiale che costruisce qualcosa che pare immateriale” 14. Nella storia delle teorie della visione gli argomenti su cui sia filosofi sia scienziati si sono concentrati sono principalmente due: da una parte se la capacità di vedere fosse innata o acquisita, dall’altra se la visione fosse un fenomeno dal basso verso l’alto, dalle cose al cervello (bottom-up) oppure se fosse il cervello a influenzare la visione (top-down). Per quanto riguarda il primo argomento incentrato sulla visione, come spiegato nei capitoli precedenti, la genetica mette le basi ed è poi l’interazione con l’ambiente a consolidare il tutto; per quanto riguarda invece le teorie di bottom-up e top-down parliamo di due scuole percettive ben distinte. Per quanto riguarda il bottom-up parliamo di “percezione diretta”: a questa scuola di pensiero appartengono i teorici che ipotizzano un percorso diretto dalle cose al cervello senza alcun pensiero o ragionamento di mezzo.
14. Guardare, pensare, progettare. Riccardo Falcinelli (2011)
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Per il top-down, invece, parliamo di “psicologia costruttivista” che individua un ruolo chiave nel cervello, che dà determinate caratteristiche alle cose; la mente ha un ruolo attivo nel decifrare la realtà e darle forma. Per esempio, l’approccio gestaltico della buona forma che sta nella mente di chi guarda e non nelle cose guardate è un approccio top-down, così come l’approccio di Richard Gregory (1923-2010) secondo cui è la mente che deduce dai dati che cosa siano le cose che guardiamo. Ad oggi, come già ribadito, il rapporto con il mondo è di scambio continuativo e di feedback; come riconosciamo la visione soggettiva e oggettiva assieme possiamo ipotizzare che la visione di bottom-up e top-down si muovano in sincrono, ecco perché è importante riconoscerne le basi per implementare la conoscenza di un progettista.
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4.1 TOP DOWN
Secondo la teoria top-down, il cervello inferisce con le cose che vediamo, poiché l’immagine retinica che si crea guardando una cosa può avere molteplici interpretazioni che possono corrispondere a cose diverse. Uno degli studiosi di questa teoria fu lo psicologo Richard Gregory che sostenne che l’elaborazione è un processo di tipo top down. Noi non vediamo semplici configurazioni ma vediamo oggetti complessi, e perché questo sia possibile è necessaria una attiva ricerca della migliore interpretazione possibile delle caratteristiche disponibili. Secondo Gregory, tale interpretazione, definita «controllo delle ipotesi», non può che avvenire secondo un approccio top down grazie al quale «costruiamo» le nostre percezioni attraverso i nostri processi cognitivi [Gregory 1990]. Secondo Gregory quindi sono le nostre esperienze e conoscenze su uno stimolo, immagazzinate in memoria, che ci aiutano a fare “inferenze” creando cioè un’ipotesi percettiva sullo stimolo percepito, basata sulla sua memoria e sulle esperienze passate correlate a esso. Nel 1995 Richard Gregory e Jean Wallace usando come cavia un paziente cieco dalla nascita che aveva acquisito la vista grazie al progresso in campo scientifico, sperimentarono esattamente cosa vuol dire iniziare a vedere e si interrogarono se una persona cieca dalla nascita potesse riconoscere quello che la circonda senza averlo mai visto. Quello che scoprirono è che il paziente riusciva a riconoscere cose mai viste solo se alla visione si affiancavano altri sensi usati prima.
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Per esempio allo zoo riconosceva animali mai visti perché li associava a suoni e rumori già assimilati, riuscendo così in pochissimo tempo a vedere e riconoscere la forma delle cose. Invece, altri aspetti della visione come per esempio la percezione della profondità, che hanno una cablatura nella prima infanzia (come detto nel capitolo 2), rimasero incompleti. Se una persona che ci sta di fronte si allontana, sulla nostra retina vedremo l’immagine rimpicciolirsi con l’aumentare della distanza: questo rimpicciolimento, collegato alla percezione della profondità, non è un meccanismo ovvio poiché il nostro cervello impara a farlo con l’esperienza che acquisiamo fin da neonati fino a farlo diventare ovvio. Per il paziente di Gregory una persona che si muove sembra semplicemente rimpicciolirsi perché, il suo cervello - avendo egli riacquistato la vista in età adulta - non ha fatto esperienza di questo meccanismo fino a renderlo naturale; alla stessa maniera, il paziente pensava di poter toccare la strada vista dalla finestra semplicemente allungando il braccio e nelle azioni di tutti i giorni, in ogni caso, continuava a fidarsi di maggiormente degli altri sensi più sviluppati perché nel tempo erano diventati la sua consuetudine. Gregory così dimostrò che un uomo nato cieco, una volta riacquistata la vista, non riconoscerà gli oggetti senza averli prima toccati e potrà sì imparare a vedere, ma solo entro certi limiti, perdendosi le cablature che sarebbero dovute avvenire durante lo sviluppo.
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Questi processi di riconoscimento attraverso i sensi messi in atto dal cervello si riescono a spiegare attraverso immagini che oggi possiamo definire illusioni, utili a capire come il cervello costruisce o inferisce tramite meccanismo topdown. Una delle prime immagini che porto come esempio è il cubo bistabile: osservandolo si può vedere sia un cubo in assonometria sia un esagono diviso in sei spicchi, poiché il nostro cervello non riesce a inquadrare subito di che figura si tratta e deve “scegliere” che cosa sta guardando.
Cubo bistabile. Il cervello scommette se vedere un cubo in assonometria o un esagono diviso a spicchi.
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Lo stesso avviene in un’altra figura bistabile, la papera coniglio dove è impossibile vedere entrambe le immagini dovendo il cervello scegliere, inferire, dedurre. Gregory, grazie anche agli studi della Gestalt, ipotizzò che il cervello in realtà scommette sull’ipotesi più probabile, influenzato da ciò che conosce. Questo è il centro delle teorie top-down ovvero che la percezione è un intervento della mente sui dati grezzi.
Papera coniglio. La figura è composta da un’unica immagine che, alternativamente, può essere interpretata percettivamente come la testa di un’anatra (che guarda verso sinistra) oppure di un coniglio (che guarda verso destra).
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Un’altra illusione interessante è quella di Müller-Lyer. Le due linee, di lunghezza identica, appaiono più o meno lunghe a seconda della posizione aperta o chiusa delle due estremità a punta. Le ipotesi della percezione di questa illusione sono principalmente due. Secondo la prima teoria, sia la sfocatura ottica, determinata dalla ridotta acutezza visiva periferica, sia le interazioni neurali laterali modificano la forma percepita degli angoli in modo da spostare apparentemente il loro vertice all’interno dell’angolo stesso. L’altra teoria si basa invece sul concetto di lontananza. L’angolo convesso viene percepito come se fosse più vicino mentre quello ottuso più lontano e, poiché due oggetti a distanze differenti possono essere percepiti con la stessa proiezione solo se l’oggetto più lontano è anche più grande, ci rappresentiamo il segmento con i trattini verso l’esterno come più grande.
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Illusione di Müller-Lyer. Illusione visiva che consiste nella percezione di una linea più lunga o più corta a seconda che essa termini con la presenza di due segmenti inclinati formanti un angolo acuto oppure ottuso.
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Nella stanza di Ames, invece, vediamo un meccanismo topdown: la stanza è costruita in modo che, vista frontalmente, appaia come una normale stanza a forma di parallelepipedo, con due pareti laterali verticali parallele, una parete di fondo, e un soffitto e un pavimento paralleli all’orizzonte. In realtà la pianta della stanza ha forma di trapezio, le pareti sono divergenti, e il pavimento e il soffitto sono inclinati. Le inclinazioni e le proporzioni nella dimensione degli elementi posti alle diverse profondità sono calcolate tenendo conto delle regole della prospettiva. Per effetto dell’illusione una persona in piedi in un angolo della stanza appare gigante, mentre un’altra persona situata nell’angolo opposto sembra minuscola. L’effetto è così realistico che una persona che cammini da un angolo all’altro sembra ingrandirsi o rimpicciolirsi. Il cervello in questo caso accetta più facilmente il fatto di deformare le dimensioni della persona rispetto a riconoscere che quella stanza non è rettangolare perché abituato a stanze di quella forma: ecco che quindi il cervello scommette su ciò che è più plausibile. Queste illusioni hanno però alcuni limiti sperimentali: nonostante rivelino meccanismi interessanti del cervello, sono tuttavia casi rari da trovare in natura, in più sono figure immobili mentre il nostro guardare è sempre in movimento. Il rischio è quello di studiare la percezione in contesti lontanissimi da quella che è la nostra esperienza reale e quotidiana del vedere.
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La stanza di Ames. La stanza di Ames è una camera dalla forma distorta in modo tale da creare un’illusione ottica di alterazione della prospettiva.
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4.2 ILLUSIONE E GESTALT
L’approccio top-down è utile per capire il funzionamento delle illusioni ottiche, ma cosa intendiamo esattamente con questo termine? Il termine “illusione” deriva dal latino illusio e, oltre a significare scherno, errore, dileggio, indica anche un errore proveniente da una percezione sensoriale che falsa la realtà. Le illusioni sono in pratica esperienze percettive anomale dove le informazioni date dagli stimoli esterni reali portano a una falsa interpretazione dell’oggetto o dell’immagine da cui proviene lo stimolo visivo o, in poche parole, le illusioni sono interpretazioni errate di una serie di dati sensoriali. Lo studio delle illusioni era oggetto di interesse già nell’antica Grecia ma fu solo nel XX secolo che le illusioni divennero oggetto di studio vero e proprio con l’avvento della psicologia sperimentale. Dal punto di vista neuroscientifico i recettori sensoriali presenti nel cervello rivelano luce, suono e in generale ogni stimolo sensoriale: a questi recettori sono legate aree specifiche del corpo che hanno la responsabilità di riconoscere i vari stimoli, e da questi organi sensoriali il cervello riceve stimolazioni che vengono interpretate, anche se può capitare che non vengano interpretate in maniera adeguata creando, appunto, l’illusione. Le illusioni percettive fanno parte della sfera visiva quindi ci sono immagini che vengono percepite in maniera diversa in seguito, per esempio, a stimolazioni esterne. Le illusioni percettive possono essere di tre tipi: ambigue, distorte e paradossali.
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Le illusioni ambigue sono immagini che permettono allo spettatore di avere due interpretazioni valide di ciò che l’immagine rappresenta (figure bistabili), però le due immagini non possono essere viste nello stesso momento costringendo il cervello a scegliere una delle due. Le illusioni di distorsione sono immagini o oggetti distorti nella loro geometria (dimensioni, lunghezza, posizione e curvatura). Infine le illusioni paradossali riguardano immagini o oggetti impossibili da rappresentare tridimensionalmente ma solo bidimensionalmente e in queste figure si riesce a falsificare la prospettiva fino a far emergere una dimensione inesistente. Numerose sono state le teorie formulate per spiegare il perché delle illusioni percettive. Secondo una di queste teorie, quando si verifica una illusione è facile che i movimenti oculari o le saccadi siano effettuati solo in una determinata direzione della figura, a scapito delle altre che sono ignorate o sottostimate, neurofisiologicamente: infatti, quando del cervello si conosceva poco si pensava che le illusioni percettive dipendessero da caratteristiche fisiologiche della retina. Successivamente, quando si dimostrò l’esistenza di neuroni specializzati nella rilevazione dell’orientamento dello stimolo all’interno della corteccia visiva, il livello di produzione dell’illusione fu spostato in questa area cerebrale. Tra le teorie che ci interessano di più, anche in base all’approccio top-down citato prima, analizziamo quella della psicologia della Gestalt su cui si sono basati manuali di stampo artistico e progettuale.
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La psicologia della Gestalt (dal tedesco “psicologia della forma”) nata e sviluppata agli inizi del XX secolo tra Germania e America, fu ideata da Max Wertheimer (1880-1943) e Kurt Koftka (1886-1941). Il principio fondante della psicologia della Gestalt è che l’insieme fosse differente e altro, non maggiore quantitativamente né migliore qualitativamente, rispetto alla somma delle singole parti: da qui nasce la famosa massima: “Il tutto è diverso dalla somma delle sue parti” (Das Ganze unterscheidet sich von der Summe seiner Teile). Per la psicologia della Gestalt non è giusto dividere l’esperienza umana nelle sue componenti elementari poiché occorre invece considerare l’intero come fenomeno sovraordinato rispetto alla somma dei suoi componenti. Il cervello quindi segmenta il reale e vede il mondo nella maniera più interessante per sé; alcune regole generali della psicologia gestaltica, chiamate regole di raggruppamento percettivo, descrivono come il cervello recupera dalla scena gli elementi più importanti, e si dividono tra regola della buona forma, regola del movimento indotto, regola della somiglianza, regola della buona continuità, regola del rapporto figura-sfondo e la regola dell’esperienza passata.
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La regola della buona forma (prägnanz ovvero pregnanza di significato) prevede che la struttura percepita sia sempre la più semplice perché la mente cerca figure stabili e regolari .
Buona forma.
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La regola della prossimità, prevede che gli elementi vicini siano interpretati in correlazione tra loro. Questa regola, come dice Falcinelli, è buona norma per esempio nella grafica dove bisogna tener conto che le cose vicine siano in relazione tra loro : per esempio nel frontespizio di un libro dove sono presenti autore, titolo, sottotitolo sarebbe buon senso che il sottotitolo fosse più piccolo del resto e posto vicino al titolo più di quanto il titolo sia vicino all’autore.
Prossimità. In questo esempio questi nove cerchi, disposti in questo modo, ci fanno percepire una forma quadrata, se li si separa con un po’ di spazio tra loro, diventano tre colonne.
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Alla regola della prossimità segue la regola del destino comune che raggruppa percettivamente gli elementi coerenti in movimento. Sempre legata al movimento c’è la regola del movimento indotto, uno schema di riferimento formato da alcune strutture che consente la percezione degli oggetti.
Destino comune. Nel principio del destino comune gli elementi con un movimento uguale tra loro e diverso dagli altri, vengono raggruppati tra loro.
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La regola della somiglianza ci porta invece a raggruppare gli elementi simili ovvero cerchi con cerchi, quadrati con quadrati ecc.
Somiglianza Questo principio fa sì che il nostro cervello raggruppi elementi con caratteristiche simili tra loro
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Segue la regola della buona continuità per cui gli elementi sono percepiti come appartenenti a un insieme continuo e coerente: per esempio, se vedo il muso di un animale e la parte posteriore dietro un albero il mio cervello mi darà il feedback di vedere una figura unica piuttosto che due figure nascoste per metà. Questo meccanismo è noto come “completamento amodale”, che compare nell’uomo dal quarto mese di vita.
Buona continuità La continuità ottica è un completamento del cervello, non appartiene alla linea in se
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Secondo la regola del rapporto figura-sfondo, tutte le parti di una zona si possono interpretare sia come oggetto sia come sfondo, anche se questa regola non si applica alla perfezione al mondo reale. Infatti, il nostro cervello ha imparato automaticamente a distinguere tra figura e sfondo e con un po’ di concentrazione si può invertire la priorità su quello che sto guardando anche se in alcune situazioni è davvero improbabile.
Rapporto figura sfondo. In una composizione tendiamo sempre a percepire alcune figure come un’immagine e le altre come uno sfondo.
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L’ultima regola è quella dell’esperienza passata, che prevede che le esperienze acquisite influenzano il guardare.
Esperienza passata.. In questo esempio non vediamo tre segmenti distinti, ma percepiamo in modo molto chiaro una lettera E maiuscola. Questo perché conosciamo la lettera E e le linee posizionate in quel modo stimolano il nostro ricordo e fanno sì che la percepiamo.
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Molti aspetti della psicologia gestaltica sono rimasti validi fino ai giorni nostri, anche se negli anni le scoperte scientifiche hanno integrato tali teorie: oggi sappiamo che abbiamo neuroni predisposti a questi meccanismi e che i nostri occhi esplorano la scena in successione tramite le saccadi, e sappiamo anche che tramite queste tappe, ricostruite poi dal cervello, creiamo l’immagine del mondo stabile e praticabile. Grazie alla psicologia della Gestalt e alle sue leggi siamo in grado di capire il perché di alcune illusioni percettive
La scritta Gestalt illustrata secondo le regole della psicologia della forma.
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4.3 BOTTOM UP
Nell’approccio di elaborazione bottom up, la percezione parte dall’input sensoriale ovvero dallo stimolo, è un tipo di percezione basata sui dati. Uno dei primi a studiare l’approccio bottom up fu James Jerome Gibson (1904-1979), il cui approccio, definito ecologico, prevede che ci sia un rapporto diretto con la scena senza elaborazioni: l’ ambiente, secondo Gibson, può fornire sufficienti dettagli relativi allo stimolo (per esempio dimensioni, forma, distanza, ecc.), senza che la percezione di quest’ultimo debba necessariamente dipendere dalla conoscenza pregressa o dall’esperienza passata dello stimolo stesso. Processi cognitivi quali la memoria per accedere all’esperienza passata non sarebbero quindi necessari per riconoscere lo stimolo, che avrebbe già un proprio «ordine interno» che ne consentirebbe una percezione diretta. Ecco che nasce, come già osservato, il concetto di affordance. Questa sarebbe ciò che permette all’osservatore di estrarre le caratteristiche che definiscono l’uso e le finalità dell’oggetto percepito. Sempre secondo la teoria della percezione diretta, l’affordance suggerita dall’oggetto all’osservatore si basa non soltanto sui fattori fisici posseduti dall’oggetto, ma anche sullo stato psicologico e fisiologico dell’osservatore. Secondo Gibson, inoltre, le illusioni ottiche sono immagini artificiali con cui ci rapportiamo: bisogna dunque pensare a flusso ottico ovvero noi non percepiamo immagini, quadri o figure ma tessiture in movimento.
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Questo è il punto focale delle teorie di Gibson: noi ci muoviamo nello spazio e quindi tutte le informazioni sono presenti nello scorrere del flusso visivo. Gibson critica gli esperimenti fatti sull’occhio fermo e studiato come entità isolata, mentre bisogna concepire il fatto che l’occhio sta dentro al corpo che si muove nello spazio e che è soggetto alla gravità: ecco che la visione raffigurata arriva solo dopo quella deambulatoria. Lo spazio geometrico diventa un’astrazione costruita a posteriori e gli indizi di profondità si riferiscono ai quadri e non alla percezione in atto. “Noi non percepiamo la qualità delle cose, la finalità della percezione non è la rappresentazione interiore del mondo, ma l’individuazione di affordance” 15.
15. Guardare, pensare, progettare. Riccardo Falcinelli (2011)
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4.4 VEDERE, PENSARE, RICONOSCERE
Ciò di cui le teorie Top down e Bottom up non tengono conto è che siamo in grado di formare immagini mentali: infatti, quando pensiamo si attuano varie strategie in contemporanea, tra cui alcune inconsce, e nello specifico, per quanto riguarda le immagini mentali, ne formuliamo in continuazione per esempio sognando a occhi aperti o nel sonno e queste immagini interne, per quanto poco tangibili, ci sembrano fortemente consistenti. Allo stesso modo dei tipi cognitivi, le immagini interne sono mobili e formate da elementi non solo visivi ma anche acustici, emotivi e tattili. Se in un’immagine mentale ci sforzassimo di vedere un colore o dei contorni ci renderemmo conto che in realtà non riusciamo a distinguere questi elementi. Per molti studiosi l’immaginazione equivarrebbe alla percezione visiva perché alcune proprietà sono in comune a livello neuronale. Tramite risonanza magnetica si è osservato da una parte che si accendono aree simili del cervello quando si vede o si pensa una stessa cosa, e dall’altra che quando ci figuriamo immagini mentali i nostri occhi sono in movimento perché, durante l’atto di immaginare, i tracciati oculari sarebbero simili a quelli che creiamo quando vediamo nella realtà l’immagine pensata. Un altro elemento di cui le teorie di top down e bottom up non tengono conto è la differenza tra vedere e riconoscere: infatti, non solo i confini tra le due attività sono molto labili, ma a questa complicazione si deve aggiungere anche un discorso di attenzione.
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Per “attenzione”, secondo il vocabolario, intendiamo “applicazione o concentrazione della mente e dei sensi sulla presenza o nell’attesa di un fatto”. Il nostro cervello non riesce a prestare attenzione a ogni cosa e usa determinate scorciatoie per elaborare le informazioni mancanti, ed è su questo che si basano gli illusionisti o la Quirkology. Quando osserviamo un gioco di prestigio sono in atto due tipologie di attenzione che possono essere manipolate, ovvero l’attenzione volontaria, responsabile delle nostre decisioni, e l’attenzione automatica, che risponde involontariamente a ogni stimolo inatteso. Il funzionamento della mente si basa sulla centralità del dialogo tra la mente e le cose: come abbiamo già detto, il cervello, che è stimolato da feedback ininterrotti, se riesce a lavorare in parallelo su questi stimoli potrebbe anche lavorare in top dow e bottom up allo stesso tempo. Ecco che diventa importante il come vediamo qualcosa: non solo vediamo secondo determinate angolazioni, interessi e aspettative, ma vediamo anche “come” occasioni, opportunità, desideri e somiglianze. Per vedere dobbiamo aver già visto e qui entrano in gioco i ricordi: la capacità di vedere infatti è sia innata sia acquisita e con il passare del tempo (quindi quando abbiamo raccolto più dati possibili sul mondo) verremo guidati sempre di più dall’esperienza nelle nostre esplorazioni visive.
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Questo avviene grazie alla memoria e sappiamo che il cervello ne possiede due tipi, ovvero la memoria dichiarativa principalmente corticale e una memoria procedurale sottocorticale che gestisce il corpo e lo spazio e che, per esempio, ci fa nuotare dopo anni che non lo facevamo più. Il rapporto tra immagini e memoria è antichissimo e su questo rapporto si basano metodi di studio associativo per immagini: “ecco che non possiamo parlare di percezione visiva ignorando il ruolo della memoria in rapporto alle immagini mentali, alla fantasia e all’immaginazione, tutte cose che sono parte integrante del vedere” 16.
16. Guardare, pensare, progettare. Riccardo Falcinelli (2011)
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VEDERE
5.1 COME VEDIAMO GLI OGGETTI E I VOLTI
Le teorie di bottom up e top down si applicano alla visione degli oggetti: in sintesi, gli oggetti nella scena vengono percepiti secondo le regole citate nel capitolo precedente: vicinanza, somiglianza, buona continuazione, chiusura, destino comune, esperienza passata e buona forma. Alcune leggi dell’organizzazione della figura aiutano a distinguere tra figura e sfondo (che fenomenicamente continua dietro la figura secondo il completamento amodale). Quando guardiamo un oggetto la costanza di forma ci permette di riconoscere l’oggetto nonostante la forma degli oggetti nella retina cambi a seconda dell’angolo visuale. Ecco che nell’azione del vedere si attuano programmi precisi e diversi a seconda di cosa stiamo osservando: il cervello scompone e lavora le cose in parallelo ma non tutto ciò che guardiamo è uguale.
Petra Eriksson, Colores, sombras y mucho té,entre Estocolmo y Barcelona
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Per noi esseri umani gli oggetti più importanti da guardare sono i volti dei nostri simili per un significato biologico e sociale talmente importante che parecchie regioni del cervello sono dedicate alla percezione e riconoscimento dei volti, per questo motivo sono stati sviluppati dal nostro cervello meccanismi appositi di riconoscimento. Oltre dunque a un sistema generale che raccoglie informazioni dalla scena come i contorni, colori e movimento, ci sono aree specifiche evolute per rintracciare volti e mani. Per il riconoscimento dei volti ci sono due moduli: di fronte e di profilo. Queste aree si attivano se nel loro campo recettivo entra un immagine riconoscibile come volto frontale o di profilo. Abbiamo detto nel secondo capitolo che i neonati sottoposti a segni grafici (triangolo, cerchio, quadrato ecc.) tendono a distogliere lo sguardo , mentre manifestano interesse se quei segni grafici abbozzano un viso (smiley, emoticon). Dal punto di vista grafico una qualunque forma munita di due puntini diventa subito un possibile personaggio. Questo ci dimostra che esiste un meccanismo predisposto già alla nascita al riconoscimento dei volti umani, che man mano si specializza: probabilmente già dalla preistoria, tale sistema serviva ai nostri antenati per individuare e distinguere eventuali predatori o partner e tale si è mantenuto fino all’odierno sviluppo sociale che, attraverso la comunicazione, ci espone continuamente ai visi ed espressioni.
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Oltre a quella dedicata ai volti, è presente nel nostro cervello un’area specializzata nel riconoscimento del corpo umano distinguendolo da quello animale. Quest’area, detta extrastriate body area, si attiva di fronte a dettagli di corpi femminili e non risponde né agli animali né agli oggetti. Ecco che il nostro cervello organizza il sistema visivo secondo una gerarchia, una pregnanza di significato in base al quale un dettaglio del corpo, un viso che rientrano nel campo visivo abbiano un significato più forte di un oggetto come potrebbe essere un cespuglio o una bottiglia..
Disegno di uno smiley.
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Il riconoscimento neuronale specifico per vedere un volto è solo una parte del processo, poiché riconoscere qualcuno va oltre al mero riconoscimento di una figura umana o di un volto aggiungendosi anche una componente emotiva. Questo riconoscimento emotivo dell’immagine, una volta inquadrata, avviene prima in una parte del cervello detta giro fusiforme poi in un’altra parte del cervello detta amigdala (il nucleo emozionale che gestisce la paura, l’affetto e il significato emotivo di ciò che guardiamo). La visione si dimostra frutto di attività veloci e simultanee di cui non abbiamo coscienza, questo fenomeno di riconoscimento emotivo prende il nome di fenomeno Homi: ritornando all’esempio della già citata stanza di Ames, se nella stanza entrava la moglie dello spettatore la stanza appariva come nella realtà, ovvero sghemba. Il coinvolgimento emotivo faceva apparire la reale altezza della moglie nella prospettiva più plausibile. Il cervello non sbaglia, non scommette se ha di fronte una persona amata. Il fenomeno emotivo appena citato dimostra come esista un rapporto tra elementi cognitivi e risposta emozionale e conferma come il cervello lavori in parallelo su più piani. La divisione dei sensi che abbiamo imparato a scuola è molto semplificata rispetto a quelle che sono le sensazioni che percepiamo, poiché queste ultime non viaggiano slegate le une dalle altre: il nostro stare al mondo è sempre multisensoriale, esploriamo il mondo sempre con molti sensi che lavorano in parallelo
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Karin Söderquist illustrazione volti semplificati.
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Per esempio si è notato che determinati interventi sonori, associati alle immagini, possono influenzare ciò che percepiamo. Uno studio condotto presso il California Institute of Technology dimostra come la percezione visiva viene influenzata da elementi acustici: se su uno schermo sono proiettate linee verticali equidistanti che si spostano orizzontalmente e a queste è associato un ritmo (per esempio ta ta ta pausa ta ta), le linee sembrano più vicine a gruppi di tre e poi di due.
ta-ta-ta
ta-ta
Linee. Rappresentazione della distanza reale (sopra) e la distanza percepita (sotto) se all’immagine associamo un suono ritmico.
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Questo tipo di percezione è definita sinestetica e ha creato molto interesse per gli studiosi. Un esperimento condotto da Wofgang Köhler (1887-1976) prevede che a una persona siano mostrate due figure (le seguenti) e che la persona debba identificare le due figure in base alla domanda “chi è buba e chi è kiki?”. Nella statistica delle risposte la maggioranza associa kiki alla figura con le punte aguzze mentre buba a quella tonda. L’esperimento è stato condotto tenendo conto anche del fatto che alcune popolazioni non hanno la k aguzza nel loro sistema di scrittura.
Buba e Kiki. Osservando le due figure si associ ad esse chi è buba e chi è kiki
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Falcinelli spiega la questione dichiarando: “Possiamo dire che il cervello in riferimento a rapporti strutturali all’interno di una scala o di una matrice costruisce sempre delle relazioni di tipo sinestetico” (guardare pensare progettare falcinelli), ovvero tra due cose creiamo sempre dei rapporti di similitudine e di confronto e creiamo quindi delle associazioni anche nella nostro linguaggio. Questi rapporti sinestetici sono da tenere in considerazione per quanto riguarda la progettazione, poiché non ci dobbiamo affidare solo a quello che si può vedere ma anche alle sensazioni multisensoriali che un tipo di lavoro può dare al fruitore. Ecco che quindi i volti diventano gli oggetti che più attirano la nostra attenzione anche grazie a questo fattore di sinestesia emotiva e sensoriale. Nella comunicazione di massa aver scoperto che esiste un’area adibita al riconoscimento dei volti fa sì che questi ultimi siano considerati più efficaci per comunicare con il pubblico, tanto da farne un uso massiccio. Nelle strategie di marketing è comune la frase “metterci la faccia”, che nelle riviste e copertine diventa un mezzo comunicativo efficace. Un volto che ci guarda per il cervello ha una via preferenziale e quindi più efficace nell’attirare la nostra attenzione diventando un messaggio di affidabilità. Falcinelli riporta l’esempio di copertine di due note case editrici: Oscar Mondadori e Einaudi.
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Infatti, che le due case editrici abbiano target e prezzi diversi lo si può notare anche dalla strategia di costruzione della copertina per attirare il target giusto di lettori. Oscar Mondadori, che ha un target di prezzo più basso, mostra nella copertina un volto sorridente e affabile in modo che possa attirarti e incuriosirti nel comprare e conoscere quella storia, uno sguardo di intesa che vuole creare un legame con il possibile acquirente. Per quanto riguarda la copertina Einaudi, il focus è per lo più tipografico, poiché il target è un pubblico che conosce già la storia ed è attirato dal gusto grafico e la conoscenza più approfondita dell’autore.
Le copertine delle edizioni Mondadori ed Einaudi
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Le facce compongono la principale forma di comunicazione visiva nell’arco di una vita e tra riviste, soap, film ecc. pensiamo di essere ferrati su quello che può comunicare una persona ed è culturalmente più facile che chiunque possa essere attirato da un volto, cosa di cui tutti facciamo esperienza, piuttosto che da un quadro o da un oggetto specifico che richiede una conoscenza più approfondita.
Segni grafici e volti. Usando semplici segni grafici base e combinandoli, leggiamo subito dei possibili volti stilizzati, tranne nell’ultimo caso dove si torneranno a percepire delle semplici linee
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Dal punto di vista progettuale dobbiamo tenere conto del processo della globalizzazione, poiché per esempio un volto che poteva andare bene una trentina di anni fa ora è troppo stereotipato e rischia di ricadere nella massa: per poter avere una comunicazione sempre più efficace, il progettista deve dunque tenere conto dell’avanzare del mondo globalizzato che smonta canoni estetici portati avanti per anni.
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5.2 COME VEDIAMO LO SPAZIO
Nel mondo contemporaneo, il modo più diffuso per rappresentare lo spazio è la prospettiva lineare. Questo tipo di prospettiva viene usato sia nelle comunicazioni informative sia nei linguaggi di intrattenimento (dai fumetti, render architettonici fino alle scenografie computerizzate dei film). Ci appoggiamo a programmi di modellazione digitale e CAD che ampliano l’uso della prospettiva quattrocentesca e permettono rapide simulazioni spaziali, grazie anche a elementi di realismo fotografico. La modellazione introduce anche la possibilità di movimento del punto di vista all’interno del programma: ecco quindi che questi espedienti vengono usati nei videogiochi e ora anche sempre di più nel cinema. Questa tradizione prospettica influenza e ha influenzato la progettazione dello spazio, poiché viviamo in un mondo progettato e pensato per uno o più punti di vista preferenziali che, come dice Falcinelli è un mondo disegnato. Per capire come percepiamo lo spazio dobbiamo renderci conto del fatto che le nostre predisposizioni fisiologiche sono influenzate da movimento e gravità: questo stabilisce una tendenza alto-basso a cui si unisce il fatto che i nostri occhi sono disposti orizzontalmente dotandoci di una capacità di visione orizzontale più amplia rispetto a quella verticale. Infatti, il movimento orizzontale ci permette di guardare fino a 180 gradi mentre per vedere in verticale siamo obbligati a inclinare la testa e per questa ragione le larghezze ci appaiono più corte delle altezze.
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Oltre a questi fattori, ci sono dei meccanismi più complessi che si attuano quando guardiamo qualcosa nello spazio. Dobbiamo soffermarci su cosa significhi vedere lo spazio influenzati dal contesto moderno che è progettato secondo punti di vista precisi. La realtà è che nessuno ha disegnato prospetticamente quello che vediamo, essendo noi stessi a creare una visione a tre dimensioni del mondo attraverso la rielaborazione e l’esperienza. Per quanto riguarda lo spazio naturale valutiamo ciò che ci circonda basandoci sulla propriocezione ovvero la percezione di noi stessi in mezzo alle cose.
Ambientazione di un progetto di architettura. sketchup.com
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L’immagine retinica è bidimensionale e non contiene informazioni su distanza o profondità delle cose. Quando parliamo di profondità e distanza parliamo di concetti affini ma con delle differenze: per profondità intendiamo cosa sta davanti e cosa sta dietro, mentre con la distanza valutiamo quanto una cosa stia avanti o dietro. Per la profondità usiamo la cosiddetta parallasse di movimento e una visione stereoscopica, mentre per la distanza ci appoggiamo ad altri strumenti alcuni culturali, frutto dell’esperienza, e altri fisiologici. Gli indizi fisiologici di cui parliamo sono: accomodazione, convergenza e disparità binoculare. L’accomodazione è un processo per il quale il cristallino mette a fuoco la luce riflessa dagli oggetti che guardiamo, modificando la propria curvatura. La curvatura del cristallino rappresenta un indizio per la profondità perché avviene in base alla distanza dell’oggetto fissato, che viene calcolata dal sistema visivo attraverso la tensione dei muscoli ciliari. Per testarlo possiamo prendere una matita e, fissandola con un occhio solo, avvicinarla gradualmente. A un certo punto ci renderemmo conto che, per quanto ci sforziamo, non siamo più in grado di metterla a fuoco: questo è il punto in cui il cristallino ha raggiunto il massimo grado di curvatura e questa distanza massima dipende dall’età della persona. La presbiopia è dovuta proprio dalla perdita di elasticità del cristallino e dall’indebolimento dei muscoli ciliari e per questo si usano degli occhiali per aiutarci nella messa a fuoco.
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La convergenza fa sì che gli occhi convergano quando fissiamo un oggetto, in modo che l’immagine dell’oggetto fissato ricada sulla fovea di ciascun occhio. Anche in questo caso l’angolo di convergenza dipende dalla distanza dell’oggetto fissato. Il sistema visivo è poi in grado di calcolare questa distanza basandosi sulla tensione dei muscoli oculomotori; questa tensione è percepibile nel caso cerchiamo di fissare il nostro dito indice tenendo il braccio teso di fronte a noi e continuando a fissarlo mentre lo avviciniamo al naso. Il raggio di azione della convergenza è di 6 metri se la distanza dell’oggetto superato è maggiore dell’angolo formato dai due occhi è pari a zero e le pupille si trovano esattamente al centro degli occhi, mentre se l’angolo di convergenza diventa superiore a zero le pupille si troveranno più vicine al naso. La nostra accurata percezione delle distanze fra gli oggetti dipende dal fatto di avere due occhi che vedono da due punti di vista lievemente diversi. Di norma il cervello combina i dati ricevuti e non ci accorgiamo di questa diversità finché non osserviamo un oggetto prima con un occhio e poi con l’altro. Se tendiamo il braccio e fissiamo la mano prima con un occhio e poi con l’altro noteremo una lieve differenza tra le due immagini, ma se piegassimo il braccio in modo da avere la mano più vicina e richiudessimo prima un occhio e poi un altro la differenza delle immagini sarebbe maggiore. Questa differenza è la disparità binoculare e dipende dalla distanza dell’oggetto fissato, che è tanto più grande quanto l’oggetto è più vicino.
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Le informazioni retiniche sono inoltre di due tipi: binoculari, come già detto, e monoculari, tra le quali alcune si basano su indizi cinetici e altre su indizi pittorici. Degli indizi cinetici fa parte la parallasse di movimento ovvero la percezione del movimento delle cose rispetto al fondo in base all’angolo di spostamento dell’occhio. Quando appunto siamo in movimento e osserviamo una scena, gli oggetti vicini sembrano muoversi rapidamente, mentre quelli lontani sembrano muoversi lentamente e infine quelli lontanissimi ci paiono quasi immobili. Il nostro sistema visivo, tramite la parallasse di movimento, è in grado di calcolare le distanze a cui si trovano gli oggetti basandosi sulla rapidità con cui sembrano spostarci mentre ci muoviamo. Altri indizi cinetici sono la collinearità tra punti durante una rotazione e infine in base alla velocità dell’ingrandimento retinico capiamo quanto sono distanti gli oggetti da noi. Oltre agli indizi fisiologici e cinetici la nostra percezione si basa anche su indizi pittorici, chiamati in questo modo perché sono di natura bidimensionale e vengono usati nella pittura figurativa.
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Indizi pittorici
Interposizione o occlusione ovvero un oggetto che nasconde parte di un altro oggetto viene visto automaticamente come il più vicino dei due. Grandezza, quando oggetti più grandi sembrano più vicini di altri oggetti identici ma più piccoli. Questo avviene perché l’immagine retinica di un oggetto diminuisce man mano che l’oggetto si allontana La convergenza di rette parallele suggerisce una direzione verso l’orizzonte (presente nella prospettiva euclidea) La posizione in altezza rispetto all’orizzonte: se disegno un pallino su un foglio, uno più in alto e uno più in basso quello più in alto sembrerà più lontano. A questo si lega ancora il gradiente di dimensione se lo disegnassimo di una dimensione più piccola.
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Indizi pittorici
Il gradiente di tessitura che era alla base delle teorie di Gibson (bottom-up). Viviamo in un mondo non omogeneo dove le superfici, soprattutto quelle naturali, possiedono una grana o tessitura (superfici sia non uniformi per colore sia grinzose, pelose, bucate, bitorzolute, in poche parole irregolari). La texture è più o meno visibile in base agli oggetti che guardiamo e ci dà un indizio di profondità in base a quanto la rapidità del gradiente è legata al grado di inclinazione della superficie: un gradiente molto ripido (in cui cioè la densità aumenti rapidamente) corrisponde ad una superficie quasi parallela alla linea dello sguardo, mentre un gradiente meno ripido corrisponde a una superficie più inclinata.
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J. R. Eyerman 3-D Movie Viewers During Opening Night of Bwana Devil (1952).
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Indizi pittorici
Ombreggiatura, quando la luce colpisce un oggetto solido alcune parti dell’oggetto risultano più illuminate di altre. Il rapporto tra luci e ombre dipende dalla struttura tridimensionale dell’oggetto ed è in grado di creare un impressione di profondità nelle rappresentazioni bidimensionali. Le ombre sono uno degli indizi più rilevanti nella percezione della profondità oltre che essere indizio portante della costanza e del volume delle cose, comunicandoci la presenza di spigoli o avvallamenti, rivelandoci indizi sulla profondità spaziale e suggerendoci le precise qualità materiche e strutturali delle cose. Poi ci sono le ombre proiettate che sono cariche di informazioni sullo spazio e sulle forme essendo frutto sia della luce che delle cose.
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Sfere e cavità Se le ombre sono poste in basso i cerchi sono percepiti come convessi (sfere), se le ombre sono in alto i cerchi verranno percepiti come convcavi (cavità).
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Fanno parte degli indizi pittorici anche gli indizi prospettici. La prospettiva lineare è usata come accorgimento per simulare la profondità in un dipinto: le linee nella scena sono fisicamente parallele e convergono verso un punto situato all’orizzonte, anche se è difficile che si faccia caso alla presenza della prospettiva in scene reali (come dicevamo, la prospettiva è una prerogativa di un mondo disegnato e progettato in base all’uso di quest’ultima). Nella fotografia viene catturata la prospettiva geometrica che ci sembrerà poco naturale rispetto alla prospettiva usata nei quadri, modificata per dare una rappresentazione corretta (una via di mezzo tra quello che vedono gli occhi e una proiezione bidimensionale). Un secondo indizio di prospettiva è la prospettiva aerea che ci fa apparire i contorni di cose più distanti meno nitidi rispetto a quelli delle cose che stanno più vicine. Questo perché l’aria contiene delle particelle di polvere e umidità che deviano i raggi luminosi, facendo sì che le immagini degli oggetti molto distanti da noi debbano attraversare una quantità maggiore di aria subendo una diffusione maggiore: ecco che i dettagli di quegli oggetti ci appariranno più sfocati e vaghi. Tutti questi indizi entrano in gioco principalmente quando guardiamo un dipinto o una fotografia e questo è il motivo per cui sono definiti di tipo pittorico, mentre la convergenza di diversi indizi su un’unica interpretazione tridimensionale rende la nostra percezione della profondità rapida e accurata. La capacità di percepire la terza dimensione è innata ma può essere più efficace grazie all’apprendimento.
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Da quando i nostri occhi iniziano a esplorare l’ambiente, grazie alla capacità innata di usare degli indicatori di esplorazione, vediamo le cose a una certa distanza l’una dall’altra e a una certa distanza rispetto a noi e crescendo impariamo a usare sempre più indizi e a interpretarli in maniera più efficiente. Oltre a questi indizi, abbiamo predisposizioni innate o sociali che ci influenzano nel modo in cui analizziamo lo spazio. Per analizzare una scena, che sia essa artificiale o reale, siamo influenzati da una convenzione altamente radicata ovvero il verso della lettura che per noi occidentali va da sinistra verso destra: questa convenzione contribuisce alla creazione di un’abitudine nell’analizzare una scena che ci troviamo davanti. Soprattutto dopo l’alfabetizzazione di massa, il verso della lettura è diventato un fenomeno importante quanto la gravità a cui siamo soggetti non solo nelle strategie di marketing, pubblicità ma anche nei film o nelle immagini artificiali (quadri di paesaggi, ritratti o copertine di libri, formati video ecc).
Alcuni formati di utilizzo
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Una predisposizione alla quale siamo soggetti come la convenzione della lettura è quella della simmetria. Oltre al fatto che l’uomo esternamente è simmetrico, egli è in grado di vedere la metà di un tutto in base a un meccanismo legato a capacità matematiche innate. Un ultimo elemento che influenza come leggiamo lo spazio figurativo è il movimento con cui gli occhi esplorano la scena e da qui nasce la tendenza di tracciare traiettorie mentali tra elementi, perché abbiamo un meccanismo che ci permette di seguire con gli occhi uno stimolo visivo. Cerchiamo ora di riassumere cosa succede dal punto di vista neuronale quando leggiamo le composizioni figurative: le cellule on-off servono per vedere contorni, superfici e scarti luminosi, mentre le cellule end- stop ci permettono di vedere linee interrotte e spigoli e infine grazie alle cellule zoom percepiamo le cose che ci vengono incontro. In generale il senso della gravità, dell’equilibrio, della simmetria ci forniscono dati per leggere lo spazio che coordiniamo con l’esperienza quotidiana ela memoria.
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Dal punto di vista progettuale è utile sapere che quello che attira la nostra attenzione viene definito contrasto e gli artefatti visivi di maggior successo (estetico, funzionale e commerciale) si basano proprio sull’effetto del contrasto.
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tono/ tinta
Nitidezza
Deformazione
Ombra portata
Dimensione
Numerosità
Allineamento
Curvatura
Forma
Ombra propria
Parallelismo
Orientamento
Principali contrasti visivi basati sulla capacità fisiologica nell’individuare e confrontare contorni, direzione, movimento. Alcune di queste informazioni sono già pre-elaborate al livello delle cellule gangliari.
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Quello che più comunemente definiamo “brutto” è principalmente mancante di contrasto (o ce n’è troppo, o troppo poco, oppure è organizzato male) portando il nostro cervello a non capire su cosa basare la propria attenzione e di conseguenza ad annoiarsi. Tutti questi meccanismi sopracitati funzionano in sincrono e si influenzano vicendevolmente e sono sempre in rapporto con gli altri sensi e il linguaggio. 5.3 COME VEDIAMO IL MOVIMENTO
Così come noi ci muoviamo nel mondo, anche altre cose si muovono (spesso gli esseri viventi, ma non solo): la cosa che si muove chiede di entrare in relazione con noi e attiva subito la nostra attenzione, perché le cellule neuronali si sono evolute in primis per individuare il movimento. La rappresentazione fissa di una scena viene costruita poi a posteriori ma le immagini che si creano sulla retina sono sempre in movimento sia perché siamo esseri che si muovono sia perché quello intorno a noi si muove. Il cervello però riesce a percepire ciò che è realmente in movimento sottraendo all’immagine retinica il movimento relativo agli occhi e al nostro spostamento quindi il mondo non si muove quando spostiamo gli occhi. Una volta che il cervello ha individuato le qualità della scena visiva è in grado anche riconoscere se quello che si sta muovendo è un oggetto o un animale: questo avviene perché fin dalla nascita abbiamo imparato a riconoscere bene il movimento biologico.
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Il movimento di un essere vivente ha caratteristiche diverse e precise rispetto al movimento di oggetti inanimati, in più sappiamo riconoscere qualità diverse di movimento dei vertebrati o degli insetti. Nei vertebrati individuiamo, per esempio diverse caratteristiche che influenzano il movimento come gravità, inerzia, viscosità e rigidità del sistema muscolare e scheletrico. Gli studi che più ci hanno aiutato a capire come percepiamo il movimento (soprattutto dei nostri simili) è la tecnologia di motion capture che deriva da esperimenti ancora più semplici volti a fissare punti luminosi sulle giunture del corpo di soggetti posti al buio e vestiti di nero su fondo nero. Se quando i soggetti sono fermi vediamo solo una serie di lucine, quando invece inizia il movimento la nostra percezione si attiva e riconosciamo nei movimenti un essere umano, e addirittura riusciamo a riconoscere le azioni che sta compiendo (soprattutto se ci sono familiari). La tecnologia che poi si è evoluta nella motion capture viene sempre più usata nel cinema nella costruzione di personaggi postprodotti (per lo più per figure fantasy o di fantascienza): l’attore crea il movimento tramite i sensori e il personaggio viene modellato attorno a questo “scheletro”. Che sia un esperimento o un film, l’importante è che i sensori o le luci siano piazzati sulle giunture affinché il cervello estragga il movimento partendo da precise qualità geometriche dei corpi.
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Estratti dal documentario, Cosa ti dice il cervello. Disney Plus (2011)
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Il riconoscimento del movimento a livello neuronale avviene in V5: queste cellule ricevono l’informazione sul movimento dell’occhio per poi scartarla ed estrarre il movimento reale della cosa che stiamo guardando. Dal punto di vista delle illusioni esistono immagine statiche che possono indurre una percezione di movimento: questo avviene perché le saccadi sovrapporrebbero le immagini di una nuova accade con l’immagine postuma della precedente e la relazione tra le due immagini induce la sensazione di movimento. Della percezione del movimento abbiamo imparato tanto anche grazie all’invenzione del cinema e dei sistemi inventati per la riproduzione di immagini in movimento. Il cinema si basa su un effetto percettivo che si chiama effetto phi ed è un convincimento logico percettivo per il quale si crea un movimento indotto tra due immagini consecutive (ed è anche il principio su cui si sono basati i cartoni animati). Un grande studioso che aprì le porte all’utilizzo di queste scoperte fu Edweard Muybridge (18301904) che studiò il movimento e il dinamismo tanto umano quanto animale attraverso i suoi scatti: le sue sequenze fotografiche scompongono il movimento e lo fissano su carta rendendo possibile uno studio analitico e profondo del movimento e un fattore espressivo.
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Fall (1963) (dettaglio) Bridget Riley, Tate Modern
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IL COLORE
6.1 COME VEDIAMO IL COLORE
Uno dei temi più complessi che pone domande più frequenti, soprattutto per una persona che sceglie di intraprendere un percorso artistico progettuale, è quello del colore. Ovvero, perché vediamo i colori? Quanti sono effettivamente i colori che possiamo conoscere? Dal punto di vista evolutivo ci siamo sviluppati per avere una visione tricromatica : oltre a distinguere bianco, nero, giallo, blu percepiamo anche il rosso e il verde. Secondo studi recenti il motivo alle origini tale sviluppo dipende dal fatto che i primati, nutrendosi di foglie quando altri tipi di cibo scarseggiano, abbiano sviluppato la capacità di riconoscere mediante il colore le foglie più nutrienti: in poche parole in un mondo colorato è più facile trovare da mangiare. Il secondo punto da analizzare è che gli oggetti non sono colorati, essendo il colore un’esperienza soggettiva che dipende da due cose: la luce che gli oggetti riflettono e la proprietà del sistema visivo di chi guarda. Uno dei primi scienziati nel Seicento a intuire questo meccanismo fu Isaac Newton che, con il suo famoso prisma, notò che il fascio di luce che attraversa il prisma si scompone per formare “l’arcobaleno”.
Tavola sul colore, Interazione del colore. Josef Albers
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A questo esperimento, Newton aggiunse un secondo prisma che ricomponeva i colori producendo poi luce bianca. Da questo dedusse che la luce bianca è una somma di colori diversi e che il prisma è un mezzo per scomporli. Oggi sappiamo che quando la luce illumina un oggetto possono succedere tre cose: tutto lo spettro viene riflesso e l’oggetto appare bianco; tutto lo spettro viene assorbito e l’oggetto appare nero; una parte di spettro viene assorbita e l’altra parte riflessa facendo sì che l’oggetto appaia del colore della luce riflessa. Quando però parliamo di colore della luce riflessa dobbiamo tenere conto del fatto che i raggi luminosi non sono di per sé colorati, poiché il colore è legato alla capacità dei raggi di produrre risposte nel nostro sistema nervoso: gli oggetti ci paiono colorati perché la luce che riflettono viene catturata da un occhio e un sistema nervoso fatti in una certa maniera. Il termine “colore” viene usato in modo generico per indicare concetti differenti. Nello specifico, i colori si differenziano tra loro sulla base di tre caratteristiche: tinta, chiarezza, saturazione. La tinta è quella qualità che permettere di distinguere il rosso dal blu, dal giallo, dal verde ecc. e ha come grandezza fisica la lunghezza d’onda. Si definiscono colori cromatici quelli che possiedono una tinta mentre acromatici quelli che non la possiedono (bianco, nero, grigio).
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La chiarezza si riferisce a quanto un colore sia chiaro o scuro ed è collegata alla quantità di luce riflessa fisicamente da una superficie. Infine, la saturazione si riferisce a quanto un colore sia vivido (intenso, puro) o pallido (sbiadito). Ma cosa succede nel nostro cervello quando percepiamo il colore? Il nostro occhio deve cercare di tradurre lunghezze d’onda diverse in risposte neurali diverse. È stato dimostrato che la retina contiene tre tipi di recettori (coni) sensibili alla lunghezza d’onda, che rispondono in maniera più o meno vivace a un’ampia gamma di lunghezze d’onda dando una risposta massima alle lunghezze d’onda corte (blu-viola), medie (verde) e lunghe (giallo-verde e sono le uniche che rispondono al rosso). Ciascun tipo di recettore di per sé è insensibile al colore, anche se le curve di sensibilità dei tre tipi di coni sono in parte sovrapposte per cui quando una lunghezza d’onda stimola i tre recettori in maniera differente, al cervello arriva una tripletta di segnali ed è il rapporto fra questi segnali che determina un colore. A ogni colore corrisponde una miscela di tipo additivo dei segnali provenienti da questi tre sistemi che sono poi organizzati e rielaborati nel sistema visivo.
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Falcinelli parla di questo sistema come teoria basata sui segnali antagonisti secondo cui la retina percepisce i colori secondo tre coppie (blu-giallo, verde-rosso, bianco-nero) e queste informazioni si cancellano l’una con l’altra creando dei segnali opponenti: questo meccanismo avviene per ridurre l’energia metabolica usata e rende più efficienti le cellule che si dividono in due gruppi, poiché i segnali provenienti da uno o più coni arrivano alle singole cellule nervose che si eccitano o inibiscono in base alle coppie di tinte. Possiamo riassumere la nostra percezione dei colori come risultato di due operazioni consecutive: la prima si svolge a livello dei fotorecettori e consiste nell’attività di tre tipi di coni diversamente sensibili alle lunghezze d’onda, la seconda, si svolge invece a livelli successivi e organizza in maniera antagonistica le risposte delle diverse lunghezze d’onda. È questa complessa struttura a permetterci di distinguere i colori in maniera ancora più selettiva rispetto al livello dei coni. Come dicevamo l’esperienza del colore è soggettiva e dipende da determinati fattori. Per esempio esistono persone la cui percezione del colore differisce notevolmente dalla norma e questo fenomeno è chiamato discromatopsia: chi ne soffre non è in grado di distinguere fra loro certi colori (di solito rosso e verde) perché, nella maggior parte dei casi, l’occhio contiene lo stesso numero di coni ma si comporta come se solo due tipi fossero attivi, o quelli sensibili al rosso (protanopia) o quelli sensibili al verde (deuteranopia).
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In entrambi i casi il sistema antagonistico rosso-verde non funziona come dovrebbe e i due colori tendono a venir confusi l’uno con l’altro e vengono percepiti entrambi come gialli poco saturi e questo disturbo è comunemente chiamato daltonismo.
I primari psicologici. I sei colori primari detti “psicologici” nei tre segnali opponenti secondo Falcinelli.
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Nelle persone i cui coni si comportano normalmente, come spiegato prima, le tre coppie opponenti vengono definite primari psicologici e quando diciamo, per esempio, che il rosso è un primario psicologico dobbiamo sapere che non si tratta di un rosso preciso come quello dei pigmenti delle tempere ma parliamo di una gamma a cui appartiene la “rossezza”. Questa specifica serve per introdurre la differenza che l’educazione artistica ci insegna nel distinguere i colori primari e secondari, da cui possiamo generare altre tinte per mescolanza. Nel sistema educativo il discorso viene semplificato definendo come colori primari rosso, giallo, blu ma il sistema è in realtà più complesso. I colori primari non sono tinte precise ma sono tinte di base all’interno di uno specifico sistema di riferimento: per esempio i primari in quadricromia sono: magenta, ciano, giallo e nero mentre nei monitor rosso, blu e verde. Fin da piccoli però ci insegnano che i colori si classificano per tinte che possono essere ordinate secondo una scala (simile all’arcobaleno) e che di ogni tinta si può avere un tono chiaro e uno scuro e ancora ci viene insegnato a mischiare tinte diverse per ottenere altri colori (per esempio giallo+blu= verde) ma in natura le interazioni chimiche tra elementi producono risultati diversi a seconda delle sostanze usate. Invece i colori dell’industria coloriera sono stati selezionati negli anni per rispondere a una logica coerente alle teorie artistiche (giallo+blu= verde accade solo nella chimica delle tempere).
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I primari in quadricromia e RGB. Sono i colori più diffusi nella progettazione moderna. In quadricromia sono: ciano, magenta, giallo mentre in RGB sono rosso verde e blu. In più si aggiungono il bianco e il nero.
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Questa concezione che si insegna subito ai bambini è frutto di un’impostazione culturale tanto che anche l’industria ha finito per standardizzare sia gli impasti che le percezioni. Tornando al discorso riguardo a come vediamo il colore, sappiamo che il colore di un oggetto dipende dalla gamma di lunghezze d’onda che quell’oggetto riflette e questa dipenderà ancora dalla gamma di lunghezze d’onda che illuminano l’oggetto. La composizione spettrale della luce dipende anche dallo spessore dell’atmosfera e varia quindi a seconda dell’ora del giorno; per di più, viviamo in un mondo pieno di luce artificiale oltre a quella naturale (con uno spettro più o meno tendente verso al rosso o al blu, a seconda del modello della lampadina o della fonte di luce). Nonostante queste variazioni gli oggetti intorno a noi rimangono sempre dello stesso colore: una mela è sempre rossa, l’erba è sempre verde e i libri bianchi. Questo fenomeno per cui il colore di un oggetto tende a rimanere costante nonostante cambi la composizione spettrale della luce che lo illumina si chiama costanza cromatica. Questo fenomeno dipende da diversi fattori: intanto è importante precisare che per fattori culturali o per esperienza sappiamo il colore delle cose, quindi quello che sappiamo su un oggetto influenza la nostra percezione, anche se la costanza cromatica si verifica anche su oggetti non familiari.
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Il secondo fattore che contribuisce alla costanza cromatica è l’adattamento cromatico, ovvero quel fenomeno per cui il nostro occhio si adatta alle diverse lunghezze d’onda che incontriamo. Per l’adattamento ci vuole di solito qualche minuto mentre per la costanza cromatica bastano 25 millesimi di secondo. La costanza di colore è soprattutto un fenomeno relazionale dato che le cose che guardiamo non sono singole ma sempre inserite in un contesto quindi, quando l’illuminazione cambia in una scena, lo spettro dei singoli oggetti cambia ma il rapporto spettrale creatosi tra i medesimi rimane lo stesso. Tuttavia la costanza cromatica non è sempre perfetta, poiché certe luci fluorescenti o a neon possono creare una percezione diversa del colore rispetto alla luce del sole: infatti gli oggetti illuminati da una gamma molto ristretta di lunghezze d’onda assumono colori innaturali perché la costanza cromatica si è adattata, evolvendosi, alla luce naturale a cui siamo più abituati. Quando dunque abbiamo a che fare con un tipo di illuminazione completamente diverso rispetto a quella solare la costanza cromatica non è efficiente.
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La relatività del colore. I due quadratini sono dello stesso colore, nella tavola originale le due bande (blu scuro e gialla) si possono tirare su per mostrare che al di sotto i due quadratini in realtà sono una striscia di un unico colore. Tavola IV-1 pag 118. Interazione del colore di Josef Albers
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Caldo-freddo. Il rosso e il blu di solito rappresentano il caldo e il freddo. In questo caso vengono messi in modo alternato per dimostrare che entrambi i colori possono apparire sia caldi sia freddi. Tavola XXI-1 pag 222. Interazione del colore di Josef Albers
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Immagine postuma. Ruotando la pagina in modo da avere il cerchio rosso sulla sinistra se fisso il cerchio rosso per mezzo minuto e poi sposto lo sguardo sul cerchio bianco il bianco scompare. Il colore che si vedrà è un contrasto simultaneo del rosso Tavola VIII-1 pag 144. Interazione del colore di Josef Albers
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Ora che abbiamo più o meno spiegato come vediamo i colori, possiamo parlare del modo in cui questi influenzano moltissimi aspetti della nostra vita. È dimostrato che i colori sono in grado per esempio di alterare in modo netto il sapore di cibi e bevande: infatti, proviamo naturale repulsione per cibi di colori non canonici nonostante le loro proprietà nutritive siano invariate. Questa associazione cromatica con determinati tipi di cibo avviene già nell’infanzia e rimane per tutta la vita, per una questione di sopravvivenza poiché il colore ci aiuta a riconoscere un cibo buono da uno avariato. I colori modificano anche la concentrazione con la quale vengono percepiti i sapori (dolce, salato, acido e amaro): se in una stessa bevanda con l’identica concentrazione di zucchero cambio il colore, il sapore sarà percepito diversamente (per esempio una bevanda rossa sembrerà più dolce rispetto a una bevanda identica ma gialla). Inoltre il colore ha effetti anche su sensazioni e stati d’animo (una valigia nera è percepita più pesante rispetto a una bianca) ed è per questo che i colori sono usati negli spazi pubblici per cercare di mantenere uno stato d’animo o creare una sensazione particolare, (non si vede l’ora di uscire da una stanza rossa, mentre una stanza azzurra può indurre quiete e così via).
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Dal punto di vista progettuale è importante essere consapevoli di queste dinamiche ovvero non solo conoscere l’uso dei colori nel linguaggio comune e capire che tipo di colore usare a seconda del progetto, ma anche conoscere le mescolanze possibili, che sono di tre tipi: additive (sommo luce con luce) sottrattive (sottraggo luce) e partitive (genero colore per accostamento). È importante sottolineare che queste definizioni si riferiscono alle mescolane e non ai colori in sé. 128
Le mescolanze additive usano luci colorate: per esempio se alla luce di un faretto blu aggiungo la luce di un faretto rosso otterrò il magenta. Invece ottengo le mescolanze sottrattive tramite colori solidi e inchiostri dove se sommo un blu e un giallo otterrò un verde ma meno luminoso. Le mescolanze partitive sono infine quelle che accostano singoli colori facendo sì che l’effetto di mescolanza avvenga a livello percettivo (come nel mosaico). Un bravo progettista deve conoscere queste dinamiche per rendere più efficace la sua comunicazione: per esempio nella stampa non si ha la stessa libertà cromatica che nel digitale poiché vi sono in aggiunta diverse problematiche, a partire dall’instabilità di un colore RGB visto da due monitor diversi per modello e qualità. Bisogna conoscere e considerare le difficoltà dell’uso del colore e soprattutto capire che il colore non è una cosa ma un fenomeno percettivo.
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6.2 COME VEDIAMO I GRIGI
Una volta compreso il meccanismo che ci permette di percepire il colore soffermiamoci su come percepiamo l’acromia, ovvero i bianchi, neri e grigi. Come per i colori, quando la luce colpisce un oggetto parte di essa viene assorbita e parte riflessa: le superfici che riflettono le varie lunghezze d’onda in modo diverso appaiono colorate mentre le superfici che riflettono le varie lunghezze d’onda in modo uguale appaiono acromatiche, ovvero bianche, grigie o nere. L’unica differenza fra superfici acromatiche è la percentuale di luce che riflettono questo fenomeno è detto riflettanza. Ogni oggetto assorbe una certa quantità di luce che lo colpisce e ne riflette un’altra parte: la percentuale di luce che un oggetto riflette è detta appunto “riflettanza”. Gli oggetti con riflettanza minore del 10% ci appaiono neri mentre oggetti con riflettanza maggiore del 80% ci appaiono bianchi. La riflettanza apparente di una superficie, cioè il suo colore acromatico, così come a noi appare (bianco, nero, grigio) invece è detta chiarezza. Quindi la riflettanza di un oggetto non è altro che il rapporto fra due quantità assolute, per esempio nel caso di un foglio di carta: la luce riflessa dalla carta e la luce che colpisce la carta , in questo modo abbiamo informazioni sulla quantità di luce riflessa dall’oggetto, che arriva al nostro occhio, ma non sulla luce che lo colpisce; come facciamo quindi a “vedere” la riflettanza di un oggetto, cioè a sapere quanto è chiaro o scuro?
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Dobbiamo usare un indizio che sia indipendente dall’illuminazione, ovvero il rapporto fra la luce riflessa dalla carta e la luce riflessa dalle altre regioni della scena. Le regioni vicine ricevono la stessa illuminazione, il rapporto fra le quantità assolute di luce che esse riflettono non cambia anche se cambia l’illuminazione (sia in breve che lungo periodo, per esempio accendendo una lampadina o durante una giornata). Tuttavia questo rapporto può crearsi in infinite coppie di oggetti così, per sopperire a questo problema, si è ipotizzato che il cervello presuma che la regione che riflette più luce sia bianca e assegni alle altre regioni valori di grigio proporzionali. Questo fenomeno è stato dimostrato attraverso l’esperimento di Adhèmar Gelb (1887-1936) che si divide in due fasi. Nella prima fase un disco dipinto di nero viene sospeso in una stanza semi buia e illuminato tramite un proiettore, facendo in modo che il fascio di luce finisca esattamente sul disco e non in altre parti della stanza e che il disco ci appaia così bianco. Nella seconda fase inserendo nel fascio di luce e avvicinando al disco un pezzo di carta bianca, il disco ci apparirà grigio. L’osservatore in presenza di un solo oggetto che riflette la luce percepisce quell’oggetto come bianco. Quando al disco nero viene sovrapposto un cartoncino bianco i due colori, ovvero il nero del disco e il bianco del cartoncino, appaiono agli occhi dell’osservatore: questo dimostra che la chiarezza di una superficie è dunque computata in funzione del rapporto tra la luce riflessa dalle due superfici.
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Una volta levato il cartoncino, il disco ritorna bianco e l’esperienza passata non ha un ruolo prioritario in questo processo di percezione visiva. Il fatto che la chiarezza di ogni regione venga quindi sempre determinata in maniera relativa, cioè rispetto alle regioni vicine, ha un vantaggio e uno svantaggio: il vantaggio è la costanza di chiarezza ovvero la chiarezza di una regione tende a rimanere costante al variare dell’intensità della luce che la illumina e dunque al variare dell’intensità della luce che essa riflette; lo svantaggio è il contrasto di chiarezza ovvero quando la chiarezza di una regione dipende dalle regioni vicine. Perciò se vediamo lo stesso oggetto su sfondi di luminanza diversa senza che vari l’illuminazione si genera un’illusione percettiva. Secondo Paola Bressan, quando guardiamo una scena, è in atto un doppio ancoraggio: uno alla massima luminanza e uno alla luminanza dello sfondo. Queste relazioni fra scale di grigi percepiti e valori di luminanza vengono gestiti in varie fasi dal sistema visivo e più nello specifico dalle cellule centro-periferia tramite meccanismo eccitatorioinibitorio. La chiarezza verrà poi aggiustata nel percorso tra retina e corteccia in base anche ad altre informazioni (anche non luminose). Il nero e grigio, quindi, non sono rappresentazioni di assenza di luce ma vengono costruiti quando la quantità di luce riflessa dall’oggetto è più bassa rispetto alla quantità media della scena circostante
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On-off. Il quadratino grigio ha lo stesso tono in entrambi i campioni, ma ci appare diverso a seconda del contesto che lo circonda.
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07
IL LINGUAGGIO
7.1 DISEGNARE E PENSARE
Il discorso che affronteremo in questo capitolo risulta estremamente importante, tanto che Falcinelli ha sottolineato quanto disegnare sia un fatto importantissimo per la comunicazione progettuale e quanto sia utile per articolare e comporre un pensiero. Comunemente quando parliamo di disegnare o nello specifico definiamo che una persona sa disegnare si intende “figurativamente”. Tuttavia rimane una visione ristretta rispetto a una realtà molto più vasta, complessa e articolata; la differenza tra disegni figurativi, scarabocchi e scrittura è molto meno marcata di quello che si crede e di quanto le pratiche artistiche mettano in evidenza nell’educazione attuale. Rudofl Arnheim nel suo libro “Arte e percezione visiva” parla di quanto i disegni infantili dei bambini siano molto simili ai primi linguaggi artistici primordiali: questo tipo di disegni è estremamente interessante perché non viziate dalle regole e dalle tecniche di “un’arte matura”.
Copertina del canone di Vignelli
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Falcinelli parla del piacere duplice che i bambini traggono dalle varie attività grafiche essendo queste sia un piacere fisico e motorio (poiché, come dicevamo nei capitoli precedenti, lo stimolo motorio nei mesi e anni di formazione è importante nella costruzione della la percezione) sia un benessere nel rilasciare una traccia del proprio passaggio (che possiamo immaginare sia lo stesso istinto che ha spinto i primitivi a creare i primi segni). All’inizio si tratta di creare segni e scarabocchi fino a passare ad attività più definite. Bisogna anche considerare il fatto che i bambini creano disegni sotto input precisi e codici che ormai sono fortemente consolidati.Nessun bambino disegna al naturale, ogni disegno è simbolico e concettuale e il passaggio da scarabocchi a disegni più definiti fino alla scrittura è frutto di una maturazione del sistema nervoso, del raffinamento dell’attività motoria, dello sviluppo della percezione dello spazio e del rapporto col linguaggio.
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28 mesi
37 mesi
37 mesi
41 mesi
43 mesi
46 mesi
Scarabocchi. Simulazione dello sviluppo degli scarabocchi dei bambini. Si parte da degli scarabocchi circolari fino a creare campiture e divisione in linee.
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I primi scarabocchi rappresentano intrecci di linee, vortici circolari, cerchi più o meno completi, ovvero forme che si possono definire elementi minimi su cui poi si costruiranno forme più complesse ed elaborate. Questi elementi hanno caratteristiche fondamentali di riconoscibilità e differenziazione per il cervello, essendo i mattoni di base su cui si costruirà l’architettura neuronale nello sviluppo. Possiamo inoltre affermare che i disegni dei bambini raffigurano le informazioni basiche e più utili sulle cose. Le cose vanno intese non come proiettate sulla retina ma come ricostruite e pensate dal cervello (senza prospettiva). I vari punti di vista vengono combinati per descrivere e creare un’informazione. Quando poi il bambino si sviluppa e da grande dice di voler imparare a disegnare intende un tipo di disegno mimetico frutto di fattori culturali che arrivano dall’antica Grecia. In questo tipo di disegno sono comunque presenti vari fattori e attività diverse, dal disegnare en plein air, al disegnare guardando la realtà fino al disegnare a memoria e molte volte queste attività sono usate insieme. Indipendentemente dai risultati e dalla tecnica, disegnare ci insegna a vedere accuratamente e analizzare quello che ci circonda e questo crea contrasti e problematiche che anche il disegnatore più esperto deve affrontare.
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Bisogna opporsi a quello che al cervello viene naturale, cioè la costanza di forma, e concentrarsi sulla pura proiezione retinica; non a caso uno degli esercizi basici che viene insegnato nei licei artistici (e che anche io ho realizzato) è quello di copiare un immagine rovesciandola, perché si cerca di attenuare un riconoscimento e focalizzarsi sulle linee strutturali, i chiaroscuri. Disegnare comporta un accordo tra mente e mano ovvero un’attività di coordinamento corporeo allo stesso livello delle attività sportive. Come dicevamo, nello sviluppo il rapporto con lo spazio crea le basi percettive su cui si consolida la visione e anche disegnare è un’attività pertinente al movimento nello spazio quindi può creare un rapporto con la memoria procedurale, con la percezione dello spazio e con l’archiviazione mnemonica. Capita spesso a chi disegna, e a Falcinelli per primo, di riguardare un proprio lavoro o schizzo e ricordarsi delle sensazioni, rumori, pensieri che si percepivano mentre si stava disegnando portando a ipotizzare che ci sia un ruolo del disegno nei processi mnemonici e, visto che disegnare e scrivere sono due facce della stessa medaglia come si dirà più avanti, anche la scrittura ha un ruolo in questi processi. Il confine tra disegno e scrittura, dice Falcinelli, è per lo più disciplinare gli usi che facciamo quando usiamo una penna o una matita, sono molteplici.
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Quando prendiamo appunti, scarabocchiamo per segnare dei concetti oppure per un progettista, l’attività di progettare, mettiamo in atto pratiche diverse che però hanno confini labili tra di loro. Le attività grafiche sono il modo in cui imprimiamo e organizziamo un pensiero su un foglio e questo apre una critica verso i mezzi moderni a cui ci affidiamo cioè i computer. Scrivere, progettare, prendere appunti, abbozzare delle idee esclusivamente al computer (tablet o anche tavolette grafiche se vogliamo) ci porta a perdere esperienza su quella che è la libertà di pratiche miste della carta e della penna. Per un progettista, così come per Falcinelli, nello specifico è fondamentale poter sperimentare più materiali, usi, tecniche possibili per creare un’idea, esprimere un pensiero e in generale comunicare efficacemente. Poter accartocciare un foglio di carta, strapparlo, sperimentarne la grana, o ancora la violenza o la delicatezza di un segno danno una libertà e una spazializzazione del pensiero (espressione coniata da Falcinelli). Gli usi misti e complessi che superano sia il mimetismo del disegno sia l’obbligo lineare della scrittura possono essere strumenti efficaci per la realizzazione di un idea o un concetto. Per fare ciò non è obbligatorio saper disegnare (intendendo con ciò disegnare in maniera artisticamente corretta e piacevole), poiché l’importate è tracciare segni che portino a “ragionare scrivendo” ovvero un momento fondamentale di qualsiasi progettazione, creando cioè una funzione illustrativa che serve a dare forma a un’idea o a un concetto.
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Disegnare è un modo per ragionare che amplia il raggio di azione e la possibilità delle idee, tanto che Falcinelli critica fortemente l’idea di progettazione sempre più svolta al computer e il fatto che gli studenti siano sempre più perplessi nell’usare uno sketchbook anche dal punto di vista progettuale, e il segno come indagine.
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Ciò avviene probabilmente perché anche dal punto di vista sociale siamo abituati a vedere il bello, il perfetto, il risultato finale e non la complessità di costruzione e analisi che c’è dietro. Siamo in un periodo storico in cui le immagini sono sempre più perfette e siamo tartassati da standard estetici di perfezione che a mio avviso creano frustrazione quando li guardiamo come esempi. In prima persona ho sperimentato cosa voglia dire ammirare il progetto di un’altra persona vedendo il risultato finito del lavoro ma senza avere idea del lavoro progettuale e di costruzione che c’è dietro. Ci sono perfino professionisti del settore che costruiscono modelli e bozzetti a posteriori che sono curati e belli visivamente. La realtà è ben diversa, molto taccuini di schizzi e progetti sarebbero impubblicabili ma hanno una valenza progettuale talmente importante per l’ideazione di un progetto che non bisognerebbe lasciarla indietro come pratica a favore dell’immediatezza del progresso digitale, che prevede la rinuncia tanto a una pratica motoria e spaziale molto importante per noi quanto alle potenzialità di ragionamento che nascono dall’uso delle mani e del corpo. Per Falcinelli è come smettere di camminare dopo l’invenzione dell’automobile.
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7.2 SCRIVERE: IL RAPPORTO TRA GRAFICA E SCRITTURA
Nel linguaggio comune parliamo di scrittura glottica ovvero quel tipo di scrittura che traduce in segni i suoni del parlato il cui risultato è l’alfabeto. Tuttavia la scrittura non è la mera traduzione del parlato, poiché la scrittura (intesa anche quella alfabetica) è formata anche da segni, come la punteggiatura che non ha alcun rapporto con la pronuncia di un testo ma gli conferisce un’organizzazione spaziale e una struttura logica su come vada costruito. A questo si aggiungono neretti, corsivi, sottolineature o basti pesare alle “virgolette” che hanno una funzione di sottolineare, attirare l’attenzione su un concetto. Nel caso specifico delle virgolette, che sono un elemento puramente tipografico, il loro uso è poi traslato nella gestualità tramite le due mani alzate con indice e medio che “grattano l’aria” in modo da sottolineare un significato traslato o ironico di cosa si sta dicendo e vengono usate come segno mimato. Perfino la comunicazione orale non è una cosa a se sé stante e non può prescindere dai gesti dalle espressioni del viso o dai toni usati. Vi è poi una serie di simboli che non traducono un suono ma hanno un significato che si impara contemporaneamente alla forma (come con gli ideogrammi). Tutti questi fattori che compongono la nostra scrittura creano un malinteso, ovvero che la scrittura sia puramente lineare e che sia composta da un filo conduttore che si sviluppa come un discorso.
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Eppure i modelli di spazializzazione della scrittura sono molteplici e ne usiamo diversi ogni giorno come per esempio le tabelle, gli indici, le mappe. Nello specifico analizziamo gli scontrini oppure gli orari del treno: la posizione e la struttura del testo di questi esempi veicola una comunicazione precisa, poiché certi numeri o testi indicano cose diverse se si trovano in una colonna piuttosto che in un’altra. Per capire che cos’è la scrittura dobbiamo prendere atto che la trascrizione dei suoni come segni è solo un pezzo del puzzle. Falcinelli definisce la scrittura l’insieme di tutti quei segni che sono ovviamente sempre immagini ma che hanno assunto un valore convenzionale e analitico; le lettere sono a tutti gli effetti delle figure e la scrittura ha sempre una forma. Nella comunicazione di massa odierna la forma ha lo stesso valore del contenuto, ma ci sono delle distinzioni ipotizzate dal linguista britannico Roy Harris (1931-2015) interessanti da analizzare. Harris distingue all’interno dell’insieme più vasto dei segni grafici da una parte i segni figurativi e dall’altra i segni scrittori, sottolineando come il confine tra figurazione e scrittura non sia tuttavia così netto, perché si baserebbe su un grado di convenzionalità e analiticità.
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Dettaglio della mappa della metropolitana di New York progettata da Massimo Vignelli
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La scrittura è più cose con finalità diverse, non esistendo una scrittura universalmente solo comunicativa così come allo stesso modo anche l’arte non comunica universalmente nulla se non c’è un accordo tra le parti. Le forme espressive mantengono sempre un certo rapporto con il linguaggio: in questa maniera un cartello con la scritta “uscita” e una pittura antica sono due facce della stessa medaglia di un sistema in cui si strutturano tutti i segni grafici e l’uso che ne facciamo. Non esiste arte o comunicazione senza un linguaggio, ecco che Falcinelli crea una distinzione tra immagini e figure, dove per “immagini” intende tutti i segni possibili e per “figure” i segni mimetici ed espressivi. Su questo proposito lo storico dell’arte americano James Elkins (1955) propone un modello tripartito che divide i segni in tre categorie principali: writing, picture, notation ovvero scritture, figure e notazioni sottolineando come l’intersezione e la sovrapposizione tra queste tre categorie nella comunicazione sarebbe la norma. Secondo questo schema una pianta di un palazzo sarebbe sia una figura sia una notazione. La scomposizione tra scrittura e figura sarebbe un retaggio culturale soprattutto occidentale che deriva dalla mimesis greca: il fatto che ci sia una distinzione presuppone che ci siano specifiche convenzioni e usi in ogni ambito culturale e sociale, ma le figure non hanno alcuna priorità naturale nella comunicazione rispetto alla scrittura perché bisogna sempre accordarsi sul codice usato.
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Gli studi più recenti danno quasi per certa un’origine simbolica della scrittura, ovvero un simbolo è qualcosa su cui ci mettiamo d’accordo senza per forza che abbia una somiglianza con le cose. Per Falcinelli la scrittura non è riconoscere nel segno la cosa raffigurata ma il cosa sta a significare. A ogni scrittura però corrispondono diversi attributi e diversi modi di usare lo spazio in cui si scrive: le discipline grafiche hanno sottolineato che la linearità della scrittura (che già abbiamo citato prima) sia in realtà un tipo di uso tra i tanti possibili.
Scritture
Figure
Notazioni
Scritture, figure e notazioni. L’incrocio possibile tra figure, scritture e notazioni.
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Falcinelli prende per esempio riviste e giornali che presentano testi disposti per moduli non lineari o cita la moderna scrittura via sms o chat che crea limiti con le vecchie concezioni. La chat sembrerebbe rappresentare più un ibrido che non è né scrittura né oralità, usando in questo contesto anche tutti i linguaggi dati dalle emoticon a cui attribuiamo determinati significati per dare un tono al messaggio. Se nell’uso della grafica e della pittura si presuppone che l’educazione artistica dia insegnamenti su cosa e dove devo guardare, nella scrittura invece apprendiamo i codici spaziali dandoli poi per scontati facendo sì che diventino invisibili, impariamo sul canone della struttura lineare ma poi ci viene naturale leggere una bolletta o uno scontrino e in generale, la maggior parte dei testi che leggiamo oggi non sono libri nella loro forma classica. Ecco che la scrittura lineare presenta dei limiti, può andare bene per alcuni utilizzi ma non per altri e in alcuni casi risulta meno efficiente. Giunti questo punto possiamo cercare di capire che cosa accade nel cervello quando leggiamo. Di solito di fronte a un testo impieghiamo meno di 250 millesimi di secondo per estrarre dalla parola il significato e le informazioni utili per il testo, indipendentemente dalla font usata perché siamo abituati a tantissime forme diverse di caratteri. In generale quando leggiamo non siamo concentrati sulle singole lettere ma sull’insieme della parola.
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Inoltre, nelle situazioni ambigue il cervello estrapola la parola in base al contesto questo tipo di studio ed esperimento è stato condotto da Lera Boroditsky, dottoressa psicologa alla Stanford University, che conduce esperimenti legati la linguaggio e al riconoscimento delle parole/frasi.
?
Lettere ambigue. Il nostro cervello non ha problemi ad interpretare il segno centrale come una H o una A a seconda del contesto in cui è inserito.
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IUMRMING TO GQNGIUSIQNS IUMRMING TO GQNGIUSIQNS
Frasi ambigue. In questo caso percepiamo la frase JUMPING TO CONCLUSION ma la realtà è diversa.
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Il nostro cervello è abituato a leggere molte forme di scrittura e non ha problemi a destreggiarsi tra le varie possibilità, motivo per cui possiamo leggere testi con font diversi. L’origine di questa trasversalità si attribuisce, secondo lo studioso di neuroscienze Stanislas Dehaene, a un riciclo neuronale messo in atto durante la lettura. Secondo studi recenti i neuroni che si attivano di fronte a una forma rispondono anche a una sua semplificazione: come abbiamo già detto i neuroni rispondono a porzioni di scena visiva (campi recettivi) e si attivano o inibiscono da determinati orientamenti, direzioni o colori; ora però sappiamo anche che possono rispondere a configurazioni complete. La corteccia a questo punto sembrerebbe composta, secondo Falcinelli, di un mosaico di rilevatori visivi sensibili a forme semplici, ed è l’interazione complessa tra questi rilevatori che ci permette di vedere le cose. I segni della scrittura ricadrebbero in alcune di queste forme semplici, ecco che quindi i neuroni che rispondono a cerchietti sovrapposti rispondono anche ad un 8, due neuroni sensibili a due linee incrociate risponderebbero anche di fronte a una T e così discorrendo. Questo meccanismo funziona con qualsiasi tipo di scrittura dato che è basata su pezzetti semplici, non solo con l’alfabeto.
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Per quanto riguarda il meccanismo in atto quando leggiamo, noi Italiani abbiamo un rapporto coerente tra testo scritto e pronuncia quindi siamo agevolati al riconoscimento delle così dette non parole (parole a cui non si attribuisce alcun significato o a cui non siamo in grado di attribuirlo, ad esempio borla, valo, nore ecc), anche se ovviamente più si amplia la conoscenza delle lingue più ampliamo la conoscenza del leggibile. In breve esistono neuroni che rispondono a un repertorio immenso di varietà di forme: la corteccia non si è evoluta apposta per leggere ma dato che leggere consiste nell’imparare ad attribuire significati a forme, la predisposizione del nostro cervello ricicla i sistemi già messi in atto. Secondo Falcinelli la scrittura non era prevista ma potenzialmente possibile con la comparsa dell’homo sapiens. Ci sono circa una decina di aree del cervello adibite alla lettura e operano per riconoscere visivamente i segni, per estrarre il significato e per integrare le parole nella frase per capirne il significato; nelle aree del cosa quindi ci sarebbe una regione “della forma visiva della parola” che si attiva di fronte ai segni scritti e questo ci permette di riconoscere le non parole. Quest’area è uguale per tutti e si sviluppa man mano che progrediamo nella competenza della lettura: la velocità e l’abilità di lettura è quindi frutto di abitudine ed esperienza, per esempio di fronte a un testo di una disciplina a noi nota possiamo essere lettori veloci ma al momento in cui incontriamo un termine desueto a cui non siamo abituati o leggiamo un testo lontano dalle nostre competenze rallenteremo il processo di lettura.
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Oltre a questa dinamica, ci sono determinati neuroni che rispondono a una cosa vista sia di profilo sia di fronte; questi neuroni ci permettono di riconoscere le cose indipendentemente dalla loro posizione, ma nel processo di lettura creano delle problematiche come per esempio la difficoltà di riconoscere lettere specchiate (b d), difficoltà particolarmente forte per persone che soffrono di dislessia. Grazie a queste conoscenze, dal punto di vista grafico, si è notato che i caratteri tradizionali graziati facilitino il processo di lettura di fronte a queste problematiche: ecco che di nuovo conoscenze neuroscientifiche possono aiutare il progettista a risolvere problematiche e a scegliere un tipo di font rispetto a un altro non concentrandosi solo sull’estetica a dispetto dell’efficienza.
LETTURA Lettura Leggibilità. La differenza di leggibilità tra un carattere come l’helvetica e un carattere più disordinato come il BadaBoom.
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Quando leggiamo, alcuni neuroni leggono le singole lettere mentre altri moduli cerebrali riconoscono la parola intera come una cosa: questo è dimostrato grazie ad alcuni esperimenti che spostano le lettere all’interno di una frase, ma se la prima e l’ultima lettera delle parole rimangono le stesse riusciremo comunque a leggere e capire il testo secondo il fenomeno chiamato scrambled english o italian nel nostro caso. Nel primo capitolo abbiamo imparato come funziona l’occhio durante l’esplorazione di una scena e questi meccanismi avvengono anche durante la lettura: di fronte a un’apparente linearità del testo i nostri occhi compiono delle saccadi alternate a fissazioni e spesso non procedono in maniera lineare ma tornano indietro e saltano da una riga all’altra e questi movimenti avvengono così velocemente che non ce ne rendiamo conto. Dunque quando leggiamo compiamo le stesse azioni di quando esploriamo una scena.
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Duantre la letutra, cmoe duratne qualsiasi esplorazione dllea scena visiva, l’occhio non srrocoe lugno il tetso fluiadmente ma atrlena le veloccisime scacdi alle fissazioni non prodece in un unico vreso ma spesso trona idnietro con movienmti di regressione
Scrambled italian. Sembra un testo normale, e riusciamo a leggerlo senza problemi ma se ci soffermiamo sulle parole ci rendiamo conto le le lettere (tranne la prima e l’ultima) sono invertite.
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Dal punto di vista progettuale ci sono degli accorgimenti per creare una buona impaginazione di un testo e in questo caso la composizione tipografica diventa cruciale per una buona esplorazione fluida; per esempio una riga non dovrebbe superare le 80 battute per evitare di farci muovere la testa, è importante creare un percorso utile per le saccadi perché l’occhio anticipa già la frase successiva mentre sta leggendo quella corrente, per farsi un’idea dell’insieme.
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Gli aspetti tipografici diventano importantissimi perché il testo ha sempre una forma. Gli studi di questo campo distinguono tra visibilità e leggibilità: la visibilità è il grado per cui un testo può essere individuato con chiarezza, contrasto e illuminazione, mentre la leggibilità invece riguarda la facilità di lettura (in generale comunque leggiamo meglio se siamo più allenati). Come già abbiamo detto i caratteri con le grazie aiuterebbero nella lettura perché facilitano il processo di creazione di parole come oggetti all’interno di un testo lungo. Altre specifiche che permettono la facilità di lettura sono: l’illuminazione, il contrasto con il supporto, il tipo di carta utilizzata, le dimensioni del carattere, la spaziatura tra riga e riga e parola e parola. Oggi siamo abituati a leggere font diverse, su piattaforme diverse (da libro, lettore e-book, monitor) e questo ci rende lettori più versatili: ecco che, quando un progettista deve pensare a impaginare un testo scritto, deve tenere conto anche di tutte queste variabili per creare un contenuto adatto al tipo di fruizione che se ne deve fare così come si deve interessare, secondo Falcinelli, non solo alla parte nera del testo ma anche al supporto bianco sui cui questo è stampato (la grana della carta, gli spazi tra parole e righe, il fatto che sia un libro cartaceo oppure un file su un lettore e-book ecc. ). Molte volte questi accorgimenti sono più utili della scelta della font giusta, anche i troppi a capo rischiano di rendere meno fluida la lettura perché interrompono i vantaggi delle informazioni parafoveali.
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Allo stesso modo anche l’uso di grassetti, corsivi e gerarchie tra corpi è importante per l’esplorazione della lettura perché agisce sui meccanismi di riconoscimento di contrasti e contorni. Il grassetto è un contrasto di chiarezza, l’area con maggior densità di grigio crea un risalto, il corsivo invece crea un risalto più attenuato agendo su un contrasto di orientamento. Le norme tipografiche e ortografiche funzionano perché derivano da precisi sistemi neuronali e questo vale anche per tutti i contrasti grafici. Falcinelli definisce la grafica e la scrittura “spazializzazioni del pensiero” e questi meccanismi di costruzione dovrebbero venire spontanei. Se si dà troppo spazio alla decorazione ignorando questi meccanismi quello che dovrebbe comunicare efficacemente rischia di rimanere muto.
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CONCLUSIONE
Questo progetto vuole essere una riflessione su quello che è importante conoscere per essere un progettista. Per Falcinelli, il maggior ispiratore e fonte di questa tesi, vedere e guardare sono due attività diverse: il vedere è passivo e avviene semplicemente tenendo gli occhi aperti, guardare invece è un processo attivo che ci porta a capire le cose e porci delle domande. Allo stesso modo ritengo che un progettista oltre a una base tecnica, debba raggiungere un certo grado di consapevolezza nella progettazione. Quando parlo di “progettista” intendo designer, grafici, artisti, architetti ovvero tutte quelle figure che attraverso l’uso di tecniche, regole e padronanze acquisite vogliono comunicare il proprio lavoro, la propria idea e così come Falcinelli ritengo sia importante per tali figure acquisire oltre alle competenze tecniche anche una buona base culturale che comprenda conoscenze più specifiche che possono sembrare lontane dal nostro campo. Per questo motivo ho deciso di affrontare questa tesi da un punto di vista più “scientifico e divulgativo” creando una ricerca basata su immagini e animazioni che racchiuda questi principi e possa essere d’aiuto per interfacciarsi a questo mondo.
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Spero che il percorso creato partendo dai meccanismi dei nostri occhi, del cervello fino alle teorie conosciute di percezione visiva dia un’idea di insieme di quello che serve per poter progettare efficacemente, ovvero capire come il nostro cervello funzioni dal punto di vista neuroscientifico e percettivo quando guardiamo una scena, riconosciamo dei volti o degli oggetti, come percepisca il movimento fino a capire i meccanismi in atto quando leggiamo. Tutto ciò mi ha dato molti spunti su cui riflettere e imparare e con la mia tesi ho voluto creare non solo un’esposizione teorica riguardo ai meccanismi che ci portano a percepire le cose ma anche mettere in pratica tali conoscenze attraverso la realizzazione degli elaborati. Quest’ultima parte è composta da diversi progetti: innanzitutto una parte di tavole illustrative e gif animate fino all’elaborazione di un progetto cartaceo graficamente efficace; poi una parte interattiva volta alla spiegazione del lavoro di ricerca attraverso immagini dinamiche; infine, la creazione di un sito blog, che presenti tutto il lavoro, pensato per avvicinare le persone a questo tipo di conoscenza.
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IL PROGETTO
Il progetto completo comprende, oltre a questa tesi, un elaborato grafico. Una sorta di “manuale” per la divulgazione delle informazioni trattate all’interno della tesi. Il lavoro sarebbe indirizzato a studenti e ragazzi che vogliono avvicinarsi o hanno iniziato a seguire questo percorso di studi, o per chi è semplicemente curioso di capire come funziona la percezione visiva. Sia la tesi, sia l’elaborato cartaceo, sia il manuale interattivo in formato e-pub sono progettati con caratteri ad alta leggibilità e hanno un layout di impaginazione senza sillabazione per rendere gli elaborati fruibili ( Design for all ) ecco perchè sia in questo testo, sia negli altri elaborati si potrebbero notare dei “nidi” ovvero spazi bianchi dovuti alla giustificazione del testo senza però la sillabazione. Questa scelta di trattare il testo in questa maniera è dovuta dal fatto che, come spiega anche Falcinelli, le sillabazioni e l’uso di troppi spazi bianchi nel testo rendono più difficoltosa l’esplorazione visiva (saccadi e foveazione all’interno di un testo). Per la presentazione dell’intero lavoro di tesi ho deciso di creare un sito web 17.
17 https://capireeprogettare.webflow.io/
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Impaginato
Copertina e prime pagine dell’impaginato in “pillole. L’elaborato è pensato per essere, in un futuro, commercializzato ed usato per la divulgazione dei contenuti della tesi.
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Indice e struttura. Per il layout di impaginazione ho adoperato le griglie di Massimo Vignelli tratte dal manuale “The vignelli canon”. I capitoli trattati sono degli estratti dal testo della tesi, il lavoro può essere strutturato per un eventuale commercializzazione e potrebbe prevedere più volumi, trattando la percezione visiva e il metodo progettuale su più livelli.
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Impaginato
Design for all. Come per la tesi, anche l’elaborato in “pillole” è progettato per una facile fruizione alla portata di tutti. Per questo motivo ho usato, anche in questo elaborato, un font ad alta leggibilità ma che tuttavia sia anche graficamente gradevole.
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Gli estratti in pillole. Nelle pagine colorate ho inserito degli “strilli” in maniera che possano comunicare alcuni estratti di particolare interesse sia dal punto di vista neuroscientifico sia dal punto di vista progettuale. Il font usato è lo stesso che ho usato anche in alcuni punti della tesi, per creare un legame tra i due elaborati.
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Impaginato
Le illustrazioni. Ho deciso di ricreare io stessa le illustrazioni da inserire all’interno dell’elaborato, il design delle illustrazioni è semplice e pensato per creare armonia ed equilibrio tra testo e immagini, oltre che dare supporto immediato al testo.
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Le illustrazioni. Alcune illustrazioni sono estrapolate da tavole che spiegano alcuni fenomeni della percezione visiva, ho ricreato anche delle tavole che raffigurano alcune famose illusioni ottiche.
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BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA
BIBLIOGRAFIA
- Josef Albers, Interazione del colore, Il saggiatore, 2013 - Rudolf Arnehim, Arte e percezione visiva, Feltrinelli, 2008. - Paola Bressan, Il colore della luna: come vediamo e perchè, Editori Laterza, 2007. - Riccardo Falcinelli, Guardare Pensare Progettare. Neuroscienze per il design, Roma, Stampa alternativa & Graffiti, 2011. - Ludovica Lumer, Semir Zeki, La bella e la bestia: arte e neuroscienze, I libri festival della mente, 2011
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SITOGRAFIA
-http://docenti.unimc.it/stefano.damico/ teaching/2018/19708/files/lez_2 - https://www.amedeolucente.it/meccanismo-della-visione. html - https://www.iltascabile.com/scienze/neuroni-specchio/ -http://www.anisn.it/matita_ipertesti/visione/illusioni.htm -https://www.di.univr.it/documenti/OccorrenzaIns/matdid/ matdid484252.pdf -http://www.lbollini.it/appunti-sul-digital-e-visualdesign/affordance-da-gibson-a-bagnara-e-porteantincendio/ -https://www.treccani.it/enciclopedia/neuronispecchio_%28XXI-Secolo%29/ - https://www.stateofmind.it/tag/gestalt/ - http://www.didatticarte.it/Blog/?p=2020 -https://www.neuroscienze.net/percezione-visiva-e-design/
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-https://www.stateofmind.it/2019/01/top-down-bottomup-percezione/l’elaborazione. -https://www.stateofmind.it/2016/03/gestalt-teoriaterapia/ -https://www.gestalt.it/definizione-psicoterapia-gestalttherapy-hcc-italy-psicologia-cosa-e/ - https://psicologiaapezzi.com/illusioni-ottiche/ -https://www.donatosaulle.it/percezione-psicologo-milano/ - https://www.stateofmind.it/2016/03/illusionipercettive/ - https://www.stateofmind.it/tag/neuroestetica/ - https://www.didatticarte.it/Blog/?p=3210 - https://nuovoeutile.it/tag/comunicazione/ - https://elearning.unipd.it/scuolapsicologia/pluginfile. php/201916/mod_resource/content/2/6.%20outline_ Bressan_cap4.pdf
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https://capireeprogettare.webflow.io/
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