Catalogo naturacultura /Galleria Marconi

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indice colophon 4 introduzione 5

madre terra 7 Roberto Cicchinè Paolo Consorti Armando Fanelli Giovanni M. Pastorello Josephine Sassu Gabriele Silvi

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allestimento 20 inaugurazione 24

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il potere modellante della parola 29 Daniele Duranti Carla Mattii Sabrina Muzi Giorgio Pignotti Giovanni Termini

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allestimento 40 inaugurazione 44

snaturati 49 Rocco Dubbini Ivana Spinelli Rita Soccio Rita Vitali Rosati Daniele Camaioni Giulia Corradetti Maicol e Mirco

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allestimento 64 inaugurazione 68

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colophon naturacultura è un progetto nato dalla collaborazione tra la Galleria Marconi e il Comune di Cupra Marittima.

Si ringraziano Amm.ne Comunale di Cupra Marittima Sindaco Domenico D'Annibali Vicesindaco Annamaria Cerolini Assessore alla Cultura Luciano Bruni Artisti Daniele Camaioni Roberto Cicchinè Paolo Consorti Giulia Corradetti Rocco Dubbini Daniele Duranti Armando Fanelli Maicol&Mirco Carla Mattii Sabrina Muzi Giovanni Manunta Pastorello Giorgio Pignotti Josephine Sassu Gabriele Silvi Rita Soccio Ivana Spinelli Giovanni Termini Rita Vitali Rosati Critici Dario Ciferri Gloria Gradassi Cristina Petrelli Collaboratori Ufficio stampa Galleria Marconi Allestimenti Marco Croci Traduzioni Patrizia Isidori Riprese Stefano Abbadini Catalogo Foto Marco Biancucci ◊ Progetto Grafico Roberto Montani ◊ Ultimo ma non ultimo Impegno e pazienza Franco Marconi

La foto di copertina è stata rubata da internet. Copyright agli aventi diritto.

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introduzione

Siamo lieti di aver condiviso con Franco la gioia di ospitare tanti artisti nella sua Galleria. Ci piace pensare a Cupra e ai suoi luoghi come un porto accogliente, dove ci si incontra, si scambiano opinioni, sguardi, opere di ingegno, arte e poesia. Certo si sono confrontati linguaggi diversi, ma volti tutti alla riflessione, all’interpretazione, all'illuminante metaforizzazione. L’argomento unificante delle tre mostre era davvero difficilmente circoscrivibile vista la sua infinita grandezza: ‘natura e cultura’. Però con umiltà, perizia e grande creatività, i numerosi e validi artisti, hanno proposto lavori bellissimi, sempre introdotti e sensibilmente interpretati da critici valenti. Ringraziamo con affetto ogni attore di questo evento, che questo catalogo ricorda e ricorderà per il contributo di ognuno, e auguriamo a tutti ogni bene, sia nell’ambito artistico che personale. Grazie Franco, e che il tuo approdo sia ancora e sempre più fecondo di amicizie e di incontri all’insegna della bellezza dell’umanità.

Normalmente non amo scrivere su ciò che faccio, preferisco che sia il lavoro, che svolgo e che ho svolto, a parlare per me, questa volta però ho sentito il bisogno di scrivere queste poche righe per il catalogo di Naturacultura: un progetto che mi ha coinvolto molto e che molto mi ha dato, sia sul piano umano che culturale. Voglio dare il mio ringraziamento più sincero all’Amministrazione Comunale di Cupra Marittima, che ha creduto in questo progetto e l’ha appoggiato, al Vicesindaco Anna Maria Cerolini e all’Assessore alla Cultura Luciano Bruni che hanno collaborato con noi sin dall’inizio con entusiasmo e tenacia e infine il ringraziamento più bello va al Sindaco Domenico D’Annibali, per l’incoraggiamento e il sostegno che ci ha dato nei momenti di difficoltà. Naturacultura non sarebbe poi stata possibile senza l’impegno tenace dei curatori e degli artisti. Al lavoro di questi ultimi ho da sempre dedicato tutte le mie energie, perché una galleria non può crescere senza buoni artisti e una società non può sviluppare senza un’arte che sia all’altezza di mostrarla, raccontarla e farla riflettere.

Luciano Bruni Assessore alla Cultura

Franco Marconi Galleria Marconi Sono amico di Franco da tantissimi anni, da sempre direi. Quindi nessuno più di me può ben dire quanto il suo lavoro sia stato negli anni forte e tenace, e di quanto la sua fede sulla funzione di una Galleria d’Arte lo abbia sostenuto. Per questo siamo contenti di riconoscergli il merito di aver creato a Cupra un punto di riferimento per gli artisti, che nel tempo si è accresciuto, divenendo importante — superando ogni confine — per molti artisti, critici e interessati all’arte contemporanea. La sua esperienza è in fondo un’opera d’arte: la galleria ospita gli artisti, gli artisti fanno conoscere la galleria, la galleria fa conoscere gli artisti, alcuni in galleria si sono scoperti artisti, aspiranti artisti che diventano critici, critici artisti... insomma un rimando importante di relazioni, idee, dinamismo di crescita di identità. Così anche Cupra si è aperta ed è stata conosciuta, sperando anche che abbia ispirato amicizia e buon lavoro. Ringrazio per tutto questo Franco, i suoi amici e collaboratori e tutti gli artisti che negli anni, e in questa occasione, hanno esposto e reso il nostro paese apprezzabile anche nel segno dell’arte. Domenico D’Annibali Sindaco di Cupra Marittima

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madre terra

Cura e testi

Dario Ciferri

Artisti

Roberto Cicchinè Paolo Consorti Armando Fanelli Giovanni Manunta Pastorello Josephine Sassu Gabriele Silvi

Esposizione

Dal 23 Gennaio al 20 Febbraio 2011


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Roberto Cicchine L’interesse nei riguardi della natura nasce insieme al pensiero dell’uomo, alla sua ricerca spirituale, ai suoi riti legati alla caccia e alla fertilità. Per i primi filosofi greci l’origine del cosmo è negli elementi naturali (acqua, fuoco, aria, ἄπειρον). Agli elementi, al loro uso e al loro controllo, l’essere umano lega la crescita della propria specie, conquistando nel tempo l’agricoltura, la navigazione e con questi, lo sviluppo dell’utensileria e del commercio. Grazie alla comprensione della natura l’essere umano ha così dilatato la sua percezione dello spazio e del tempo. Anche per l’uomo contemporaneo il rapporto appare fondamentale, anche se a volte sembra che debba compiere un percorso all’inverso, un ridare spazio alla natura e ai suoi elementi per garantire al pianeta e a se stesso la sopravvivenza. Per raccontarci tutto questo e per permetterci di andare oltre, Roberto Cicchinè compie un passaggio attraverso gli elementi della natura. Partito dal fuoco che aveva tracciato le fasi della vita umana, si è spostato all’acqua e alla terra, mettendole in contatto attraverso la figura di un bambino. Siamo in un luogo sospeso, prima del tempo, su un passaggio che sembra ricongiungere l’uomo alle sue radici. Gli elementi della natura paiono fondersi con l’innocenza della vita, in un soffio rigenerante da cui emerge l’uomo come se fosse all’alba del mondo. Il volto del bambino esce dall’acqua e dalla sabbia come se venisse fuori da un bagno rigeneratore che lo riporta alle radici dell’esistenza. L’uomo si mette in contatto con gli elementi e le loro ambiguità, con l’acqua che gli permette di vivere, ma sa portare anche morte e distruzione e la sabbia che è sì terra ma non dà molti frutti arrivando ad essere anche sterile. La ricerca fotografica di Cicchinè con Sabbia e H2O porta il pensiero umano vicino alle ragioni dell’uomo, lì dove spirito e materia si toccano, il sostentamento umano si incontra con la ricerca spirituale, nelle opere vediamo il bambino che emerge dagli elementi e viene accolto dalla luce. ∫ Sabbia stampa lambda su dibond, cm 100x100, 2010

Le opere di Roberto Cicchinè riescono ad evocare forze e ritmi che superano la costruzione dell’immagine, forma e sostanza si fondono per mostrare un percorso ricco di suggestioni e una riflessione profonda sulla presenza dell’uomo e sul suo legame con il cosmo, la memoria e la Natura. E la memoria investe forse il ruolo più affascinante, una memoria personale, fatta di gusti, sapori, odori, che va a toccare una memoria collettiva (i tuffi e i giochi dell’infanzia) e che finisce per incontrare una memoria atavica che ci porta a guardare verso il rapporto con gli elementi fondanti la madre terra. Cicchinè riesce a raccontarci tutto questo, forse perché l’innocenza che esce dalle immagini è in fondo la sua innocenza, lui ci conduce nel suo percorso personale, nelle sue paure, nell’ansia di non poter uscire, nel terrore del futuro, e lo fa attraverso questo percorso in positivo dell’innocenza che emerge, del bambino che torna all’aria aperta, alla luce.

≤ H2O stampa lambda su dibond, cm 100x100, 2010

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Paolo Consorti

≤ Dentro le segrete cose frame da video, 2006

Time machine 2 mixed media on canvas, cm 120x180, 2009

Avere l’opportunità di tornare alle origini del tempo, in un luogo altro dove non c’erano violenza e si viveva in armonia, è un sogno che ha toccato innumerevoli pagine della letteratura, da Virgilio all’Arcadia. Riuscire a viaggiare nel tempo, vedere com’era e incontrare chi ha fatto la storia, anche questo in fondo è un sogno umano. Insomma avere la possibilità di vedere, toccare, sapere e di poter tornare al futuro, c’è tutto questo in Time machine di Paolo Consorti, un’opera ricca di suggestioni e immagini, vivida e vitale come il sogno di un bimbo. Saliti su questa macchina del tempo ci troviamo a una natura rigogliosa, a un’umanità primigenia che osserva i ruderi di una civiltà precedente e cose all’apparenza “inutili” come delle pagine stampate. Ma a che punto siamo della storia? La società distrutta è la nostra? Oppure è quella precedente o una successiva? Tutto questo non è possibile saperlo. Il ritorno in questa età primitiva offre un contatto diverso con la madre terra, qui non c’è inquinamento, ci sono pochi residui di civilizzazione, la osserviamo, però, con la consapevolezza che non ci appartiene e che noi non le apparteniamo. Il senso di sospensione attraversa quest’opera: il comportamento dell’uomo verso la natura appare ancora subordinato e passivo. Si osserva il paesaggio, l’uomo è al centro della scena, ma è la natura a dominarla, a conquistarla. Le tracce del progresso umano restano solo come una decorazione, un qualcosa destinato a sparire nel groviglio della foresta finché all’uomo non tornerà in mente di dominare la natura e i suoi ritmi e un’altra civiltà vedrà la sua fine. Ipotesi affascinanti. La vera domanda è però se l’uomo sarebbe in grado di imparare qualcosa se potesse fare un viaggio nel tempo?

Consorti non risponde a questa domanda ma la sua opera ha la forza di coinvolgere piani diversi, sensazioni, visioni, incubi e sogni, riesce a dare un volto all’umanità alle sue angosce, alle sue aspettative, ai suoi mondi possibili, ai suoi aspetti interiori. Il paesaggio non risulta solo un elemento decorativo ma è esso stesso un aspetto dell’interiorità umana. Time machine ci introduce a una possibilità per il destino dell’uomo, una delle tante, possiamo vederci un’umanità rigenerata dopo la fine di una civiltà, ma anche un uomo che resta ancora schiavo dei ritmi della natura e non ha ancora capito come usarla con le sue forze per evolversi, oppure il ritorno a una agognata età dell’oro, in cui tutto veniva all’uomo senza che lui dovesse compiere alcuna fatica per averlo. Si parlava di ritorno al futuro ed è forse in questa frase il gioco e la chiave di lettura di questo lavoro di Consorti: avere la possibilità di ingannare lo spazio-tempo e immaginare, creare, pensare un luogo diverso in cui far finire angosce o speranze irrealizzabili, avendo però la sicurezza che possiamo tornare al nostro tempo, pieno di problemi ma in cui esiste ancora l’opportunità di cambiare le cose.

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Armando Fanelli Camminare in mezzo a un bosco è sempre un’esperienza faticosa che però riesce a esaltare i sensi, osservare le diverse piante che lo abitano, la loro relazione, scoprire dettagli che non pensavamo di poter trovare. È dentro questo microcosmo che ci conduce Armando Fanelli con expedient. Il bosco delle escursioni della domenica, delle gite fuori porta, quello di castagni sui monti della nostra terra o di pini e querce sulle nostre colline. Tra gli alberi incontriamo un ragazzo che si muove da un tronco all’altro con secchio e spugna e comincia a lavare gli alberi. Il gesto è attento, ripetitivo e premuroso. È il tentativo di pulire un mondo sconvolto, di mettere a posto, di riconciliare l’essere umano con quello che dovrebbe essere il suo habitat. Allora sembra che lavando l’albero il ragazzo cerchi di scontare un peccato, di riparare al danno fatto e di ricreare un dialogo tra l’uomo e la madre terra, interrotto e violato dall’intervento umano sul pianeta. Lavare gli alberi per togliere loro di dosso lo sporco del nostro stile di vita, lo smog, l’inquinamento chimico, gli scarichi industriali, cercare di riparare uno stupro che si protrae da secoli. Lavare gli alberi anche per pulire noi stessi, per farci ritrovare un cammino armonioso, in sintonia con il pianeta e le altre specie. Lavare gli alberi certamente non è il rimedio, ma è il sintomo di una consapevolezza che si esprime in questo gesto per cercare di riparare a un danno. expedient è un video accusatorio; la specie umana non ha attenuanti, è colpevole e adesso paga per le sue colpe. I disastri ambientali, gli uragani, il buco nell’ozono, l’effetto serra sono qui a ricordarcelo. Avevamo un pianeta vivente, lo abbiamo avvelenato e lo stiamo uccidendo, ma senza non ci può essere futuro. Resta infine la domanda su come la natura potrebbe reagire a quest’operazione. ∫ expedient frame da video, 2010

A questo risponde a suo modo Armando Fanelli attraverso i lavori fotografici che completano expedient. L’ambientazione è sempre quella del bosco, ma qui l’uomo non si vede. C’è la natura che cerca di parlare all’uomo attraverso i codici linguistici della specie umana. Siamo in un bosco, bello e lussureggiante, con pochi sentieri e dei semafori che tracciano in mezzo alla foresta degli incroci strani ed improbabili. Alberi artificiali e metallici avvertono l’uomo che è ora che si fermi, che la smetta di sfruttare, distruggere e violentare la natura per i suoi interessi e le lasci il suo spazio. Il contrasto tra la luminosità e il rigoglio delle immagini e la gravità del messaggio colpisce come un pugno alla bocca dello stomaco. Armando Fanelli con expedient ci porta a fare una riflessione amara sul destino dell’uomo: se non saprà intraprendere nuovi percorsi per lo sviluppo della propria civiltà, non ci potrà essere alcun futuro per la sua specie. Eppure l’opera apre a una visione positiva, la natura ci manda dei messaggi, sta all’uomo operare in maniera corretta in modo da avere un futuro non solo per sé ma anche per tutto il pianeta.

≤ expedient 2 stampa digitale su dibond, cm 70 x 50, 2010

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Giovanni Manunta Pastorello La percezione della natura cambia ogni giorno, l’umore, la luce, il tempo possono darci sensazioni che non sono mai uguali a se stesse. Nelle tele di Giovanni Manunta Pastorello i paesaggi sembrano avere una vita propria, tanto la luce li pervade. Non c’è nulla di superfluo, tutto concorre a dare questo senso lussureggiante e luminoso. Ma in questa serie di lavori vediamo un mondo perfetto soltanto in apparenza, quasi subito scopriamo inquietudini e paure. Siamo in presenza di un ambiente meccanico, tubolare, irreale dove i rami sembrano dita, i frutti microbi. Il paesaggio perde così di consistenza e si va a mutare in un luogo astratto dove si muovono mille forme colorate che sembrano ufo, farmaci, proiettili. L’artista ci ha condotto in un luogo onirico, in mezzo alle sue sensazioni, alle sue suggestioni, ai suoi bisogni. In questo percorso assume un ruolo fondamentale il rapporto dell’artista con la pittura che egli considera il centro del suo percorso artistico, un percorso che non è solo stilistico, ma anche concettuale e di linguaggio.

≤ senza titolo acrilico su tela, cm 80 x 120 cadauno, 2010

senza titolo acrilico su tela, cm 100 x 80, 2011

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In queste opere di Pastorello troviamo una velocità di esecuzione e un’urgenza comunicativa che nei lavori del passato non c’erano, c’è un bisogno pressante di esprimersi, di dire quello che serve, perché ci sono ancora tante cose da dire e da dover ancora cercare. Osservando le tele scopriamo che ogni singola pennellata è preziosa, e deve essere impressa sulla tela, ecco quindi ancora una volta l’uso di una tecnica che lo stesso artista ha creato per dare a ogni segno le diverse sfumature necessarie, usando un solo colpo di pennello. Eccoci allora a passare per paesaggi realizzati a due colori, in mezzo a rami intrecciati o vederci venire incontro una pioggia di oggetti colorati. Eccoci in un luogo fuori dal tempo in cui ciascuno trova dettagli inediti e visioni personali. La rappresentazione del paesaggio non è univoca, non vuole e non potrebbe esserlo. L’artista non vuole darci un messaggio chiaro ci mette davanti alle sue sensazioni, alla sua percezione della realtà, ma ci fa capire anche che queste cose sono solo un input, sono uno stimolo per far dire a noi stessi cosa vediamo, sentiamo, proviamo. Le nostre sensazioni allora si affiancano alle sue in uno scambio tra artista e fruitore che danno luogo a un rinnovamento continuo e in divenire delle idee e dei percorsi dell’artista, ben fissati sulla tela ma pronti a generare sviluppi futuri. Giovanni Manunta Pastorello ci offre però la possibilità di vedere l’altra faccia della medaglia, non solo l’innocenza, il rigoglio, la luminosità, ma anche l’inquietudine che si trova in ogni luogo e in ogni uomo. L’importanza del dubbio, la consapevolezza dell’incertezza sono fondamentali per leggere questi lavori (e in fondo per affrontare la vita senza timore). Non siamo a conoscenza del tempo che abbiamo di fronte, è per questo che non possiamo limitarci a fare quello che ci viene richiesto, ma dobbiamo trovare sempre lo spazio per dare forma ai nostri pensieri.

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Josephine Sassu

≤ Errori di valutazione stampa pvc, misure variabili, 2010

Errori di valutazione stampa digitale su tela, cm 200 x 100, 2011

Tutto appare fuori misura,: troppo grande, troppo piccolo, troppo vicino, troppo diverso. È un mondo dove tutto appare sbagliato come se qualcuno non avesse preso le misure giuste. Sono Errori di valutazione quelli che Josephine Sassu ha messo sulla tela, accostamenti improbabili di animali e piante, tutti perfettamente normali e riconoscibili, ma decisamente fuori luogo nella realtà. Coppie di animali messe insieme giocando sulle loro dimensioni per sottolineare l’innaturalità estrema dell’operazione. In questa prospettiva pervertita ecco trovarsi uno di fronte all’altro una chiocciola e un rinoceronte, chi è troppo grande? Chi troppo piccolo? Cosa c’è che non va? La natura e la madre terra ci appaiono in una deriva che non riesce ad arrestarsi, davanti a noi non c’è una provocazione ma un riflesso della realtà. È un universo fatto di immagini che non destano scandalo, visto quanto sono normali, e non possiamo accettare per quanto sono inquietanti. Ad apparire stravolta e manipolata non è la natura ma la percezione della realtà, non quello che esiste, ma quello che noi riusciamo a vedere, o, anche, che ci vogliono fare vedere.

Josephine Sassu ci offre un catalogo di immagini, un abbecedario degli animali e delle piante da cui si legge tutta l’insoddisfazione dell’artista. La rappresentazione della natura è sempre appartenuta al mondo dell’arte. Mostrarne la bellezza, la ricchezza, la grazia, ma anche le pieghe e le storture sono necessità che l’animo e la coscienza avvertono e realizzano. Nella nostra epoca però si è affacciata una nuova realtà, l’essere umano adesso è in grado (e lo sarà sempre più) di manipolare la natura per renderla conforme alla sua volontà e alle sue pseudo-esigenze. La genetica è riuscita a creare e a fare accettare accostamenti organici che sembravano impensabili, per aumentare la produttività o la resistenza alle avversità atmosferiche. Quando un’artista si trova di fronte a tutto questo come può trovare la chiave per raffigurarlo, come fa a parlarne? Apparentemente qualsiasi forma appare inadeguata perché rischierebbe sempre di essere superata dalla realtà. Gli Errori di valutazione di Josephine Sassu rispondono a questa domanda e utilizzano per farlo il linguaggio del ridicolo, mutano prospettive e dimensioni, scardinano idee accettate, tutto viene messo in discussione per andare a fare leva sulla percezione che abbiamo del mondo. Forse stiamo sfogliando un manuale di scienze naturali, di biologia. Potrebbero essere le illustrazioni di un libro, un cartellone in un aula o mille altre cose che possiamo vedere ogni giorno passando per strada, andando a lezione, facendo la spesa, nella pubblicità. È il gioco per comprendere quanto sia ridicolo il quotidiano. È uno zoo, un giardino botanico, in cui le creature presenti sono tutte assolutamente reali, tutte possibili, ma tutte radicalmente e ridicolmente Contro Natura.

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Gabriele Silvi È un equilibrio sottile quello che esiste tra uomo e natura, un rapporto che nei secoli si è complicato sempre più, l’essere umano ha col tempo cessato di seguire i ritmi che gli erano stati dettati dalla terra e ha iniziato lui ha dettare nuove regole, trasformando l’ambiente per produrre sostentamento per la sua specie. Inizialmente ha seguito il tempo circolare che apparteneva alla Natura, ma col tempo lo ha soppiantato con un tempo artificiale lineare che è entrato in contrasto con l’altro. All’idea della trasformazione e della rigenerazione che è alla base del tempo circolare, si è integrata e sostituita un’idea del consumo, un uso a senso unico delle risorse, che le consuma, le distrugge, con uno spreco che non si sa fino a che punto potrà proseguire. L’uomo in fondo è parte della natura anche se tende a portarsene fuori. Gabriele Silvi riflette sulla complessità di questo rapporto, di questo equilibrio che in fondo è poi tutto dentro all’animo dell’uomo. Come sopra ad una giostra si muovono e girano due komainu, demoni cane-leone che la cultura giapponese pone all’ingresso dei templi o sui tetti delle case come protezione dagli spiriti malvagi. A dettare il ritmo del loro muoversi c’è la musica in un alternarsi di suoni naturali e artificiali. I due demoni sono uno di fronte all’altro, si confrontano ma nello stesso tempo hanno anche lo stesso scopo. Il loro equilibrio è come se fosse l’equilibrio stesso dell’uomo, quello che lo mantiene all’interno della sfera naturale e fa sì che possa progredire senza prevaricare e distruggere nulla dentro e fuori sé stesso. C’è bisogno di dignità e coraggio, di forza e consapevolezza, per risvegliare nell’uomo la coscienza dell’universo di cui fa parte. Un tempo l’uomo rispettava i ritmi della terra e le stagioni. Esistevano le malattie e la morte, ma il futuro per la specie era garantito dall’idea di intoccabilità che apparteneva alla natura, era una certezza: qualsiasi cosa potesse succedere, sarebbe arrivata un’altra stagione, si sarebbero sciolti i ghiacci e i ritmi della terra avrebbero proseguito nel loro ciclo. Per l’uomo contemporaneo questo non è più certo, perché l’inquinamento distrugge l’ambiente, le piogge acide uccidono le piante, l’anidride carbonica trasforma la terra in una serra che fa salire la temperatura del pianeta e i raggi del sole non sono più solo portatori di luce e calore. L’uomo è in fondo artefice del suo destino e sta a lui decidere se vuole avere un futuro o meno. ∫ Adam VS Adam misure variabili, materiali vari, 2011

Nel lavoro di Silvi il dialogo dei due komainu assume allora un ruolo fondamentale per risvegliare l’uomo dalla follia autodistruttiva che ha intrapreso, per sganciarlo dal tempo artificiale che ha egli stesso creato, e per riportarlo all’interno del tempo circolare che segue i ritmi della natura. Solo in questa condizione c’è una speranza di salvezza e solo rispettando la natura, i suoi ritmi e i suoi cicli, c’è la possibilità di un vero progresso per la specie umana.

≤ World is yours misure variabili, materiali vari, 2010

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il potere modellante della parola Cura e testi

Cristina Petrelli

Artisti

Daniele Duranti Carla Mattii Sabrina Muzi Giorgio Pignotti Giovanni Termini

Esposizione

Dal 27 Febbraio al 27 Marzo 2011


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Daniele Duranti La pennellata sottile ed accurata riproduce immagini di eventi atmosferici, animali e paesaggi. Soggetti tratti da un viaggio che ha condotto l’artista negli Stati americani del Wyoming e del Montana nell’estate del 2009. Un’esperienza che ha portato Daniele Duranti (Ancona, 1974) a riflettere ancora una volta sull’ambiguità della rappresentazione. Tema caro all’artista è, infatti, il rapporto che intercorre tra l’osservatore e la visione. Una serie di dipinti ad olio e di delicati disegni a grafite sono stati eseguiti dall’artista al ritorno dal suo viaggio. Opere in cui ha rappresentato soggetti visti dal vero accanto a immagini scaricate da internet. Una volta che le opere sono esposte, non è dato alcuno strumento al fruitore per distinguere quale soggetto origini dalla visione diretta, goduta dall’artista nel suo soggiorno americano, e quale da una visione mediata. L’animo rimane insoddisfatto e le emozioni inespresse, così che si resta confinati nell’ambito delle apparenze. ≤ Tornado olio su tela, cm 20 x 50 , 2008

" Per un nomade, la frontiera tra i regni è puramente immaginaria. Lui parla alle rocce, venera gli alberi e le limpide sorgenti. Gli animali sono dei modelli che fiutano ogni sua minima emozione, forse in onore di un tempo che diffidava delle apparenze, quando l’illusione della luce e il senso di superiorità non tappavano gli occhi alla gente. A volte i regni sono talmente vicini da generare leggende. Ai confini delle steppe, un clan trovò un fanciullo che poppava da una giumenta. L’allevarono come uno dei loro. Aveva il dono di parlare ai cavalli e sapeva montare anche i più ribelli. Leggeva nel pensiero, fiutava le intenzioni. Danzava nelle tempeste. Lo chiamarono Gitano. Dopo una battaglia vinta dal Faraone, il Re sconfitto chiamò Gitano nella sua tenda, con lui c’era anche sua figlia, bella e ribelle. — Avrai mia figlia in cambio della tua mansuetudine e di un posto al mio fianco. Finì per cedere, il desiderio corre come il vento. La sua amata, che l’aveva seguito travestita da soldato, si gettò su una freccia fatale e gli affidò la sua anima. Lui la pose in sella al suo cavallo e, insieme ai suoi fidi, partì a spron battuto verso il deserto dove la seppellì. Dichiarato fuorilegge e traditore, rimase solo in una grotta dove, con il sangue, dipingeva il ritratto di colei che aveva tanto amato. Un giorno, come per miracolo, vi apparve una donna. — Sono Gitana, la tua cara sposa. Lui aprì lo scrigno dove ne aveva deposto l’anima: era vuoto. Dalla sua truppa fedele, dai suoi figli e dai suoi nipoti nacque un popolo errante. Egli li chiamò Gitani, li benedì e morì. Loro se ne andarono per le strade del mondo, conoscendo fortuna e sfortuna. Quel popolo, come lui, era figlio di un animale sacro, strano, straniero. Un popolo che, come la sua Gitana, rinasceva dalle proprie ceneri, e andava dove non andava nessuno, a tu per tu con gli orsi e la notte. Un popolo destinato ad essere perseguitato dalla paura di chi crede alle apparenze e teme le stelle, le tempeste e la vita. "

Omologazione olio su tela, cm 50 x 50 , 2011

— Tratto dal racconto Gitano, FISCHMANN P., Racconti dei saggi nomadi, edizioni L’ippocampo, Milano 2010, pp. 58-64

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Carla Mattii

≤ Type#8 nylon sinterizzato, resina poliuretanica, cm 69x73x34, 2009

ST#9 nylon sinterizzato, resina poliuretanica e ferro, cm 40x160x16,5, 2009 — Courtesy 1/9 unosunove arte contemporanea, Roma

Monumentali kit di montaggio dal biancore asettico, parti di piante e fiori, unite dalle esili stanghette, sono state attentamente selezionate dall’artista. Attraverso uno scanner 3D ogni elemento vegetale è stato acquisito nel computer. L’elaborazione digitale, così ottenuta, viene utilizzata dall’artista per creare dei modelli tridimensionali con una speciale macchina che spara nylon ad alta pressione. Un procedimento che permette a Carla Mattii (Fermo, 1971) di riprodurre perfettamente, con il nylon sinterizzato, ogni singolo petalo, pistillo e foglia. Il collocare, infine, questi elementi in delle griglie per modellismo pone l’invito ad assemblare a piacere le diverse parti. In tal modo viene ad essere reso, mediante l’espediente del gioco, l’atto creativo stesso, quasi l’uomo possa paragonarsi a Dio nel poter dar forma ad una natura incorruttibile che può prestarsi a soddisfare esteticamente ogni desiderio. Le singole scelte, tutte egualmente perfette, anche se vengono ad offrire infinite variabili, non possono in alcun modo sostituirsi al reale ciclo evolutivo. Tramite il progresso tecnico e scientifico l’uomo può, infatti, solo emulare il venire ad esistere senza mai riuscire ad infondere la vita. Quella scintilla, quel soffio, resta brivido profondo e mistero.

" Sì Mahjoub è vasaio. Ha il gesto lento e sicuro, anche se l’argilla gira veloce fra le sue mani delicate. Al calar della sera, quando finisce di lavorare, mette a posto i suoi vasi ancora umidi e racconta ai bambini la storia del primo vasaio. — È stato Dio stesso a insegnare all’uomo il mestiere di vasaio. Fino ad allora, il figlio di Adamo poteva bere acqua del pozzo solo con le mani. Un giorno, Dio gli disse: «Mi dispiace vedere l’acqua che ti scorre fra le dita. Ti insegnerò il mestiere». «Sì, Signore. Come devo fare?» «Come ho fatto io quando ti ho creato. Costruisci dapprima un tornio perfettamente rotondo, di legno di tuia, che possa girare sul suo asse, come io ho fatto le stelle, la luna, il sole e la terra che girano tutto il tempo che concedo loro». — E il figlio di Adamo costruì il primo tornio. Ne era stupito. Ma Dio gli disse: «Non hai ancora imparato nulla. Scava il suolo, prendi una zolla di bella argilla. Posala sul tornio e, stringendola delicatamente con le palme bagnate, falla salire». — Il vasaio obbedì. Quando ebbe finito quel primo lavoro, Dio gli disse: «Bene. Ma che cosa vedi sotto i tuoi occhi?» «Vedo una sorta di sesso maschile». «Benissimo. Continua a farlo girare accarezzandolo senza bagnarlo troppo. Con il pollice della destra, bucalo delicatamente e poi innalzalo arrotondandolo poco a poco. Ecco. Che cosa vedi adesso?» «Una sorta di ventre». «Sì, un ventre il cui cavo è più importante delle pareti». «Stacca il vaso dal tornio con la cordicella, prendilo delicatamente come la levatrice prende il neonato. Lascialo asciugare all’ombra qualche giorno perché elimini l’acqua». — Il vasaio esultava ma Dio gli disse: «Devi ancora cuocerlo. Sii paziente. Domani ti spiegherò il fuoco». " — Tratto dal racconto Il primo vasaio, ANDRÈ P., Racconti dei saggi del deserto, edizioni L’ippocampo, Milano 2010, pp. 112-114

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Sabrina Muzi Osserva senza intervenire. Sabrina Muzi (San Benedetto del Tronto, AP, 1964) predilige l’elemento naturale colto nel suo habitat, evitando qualunque alterazione del contesto, e lo isola agendo unicamente tramite il medium artistico. L’interesse predominante è verso la giusta inquadratura. L’artista sceglie il soggetto per la specifica valenza d’immagine che esprime e, solo successivamente, per il proprio portato semantico. Questo incedere, mosso dall’istinto più che dalla ragione, sottolinea la capacità di rendere quanto di simbolico e archetipico vi sia negli elementi vegetali. Una caratteristica che ha indotto l’artista a eleggere la natura ad ambito privilegiato di ricerca. Nel video To the last breath, realizzato in Egitto nel 2009, si vede una palma sferzata da un vento incessante. Tormentata, scossa, ferita la piccola pianta resiste, unica presenza vitale nell’aria irrespirabile del deserto, ma chissà fino a quando. Sabrina Muzi, avvicinando maggiormente il punto di vista, torna ad insistere sull’elemento del tronco d’albero anche in Let me dance. Una serie di tredici scatti, realizzati nell’autunno 2010 durante una residenza in Cina, nati in seguito all’osservazione delle file di piante che costeggiano le strade. Nella parte bassa del fusto, punto privilegiato dall’inquadratura, si trova una corda di bambù, stretta intorno a della plastica, che viene usata per far crescere dritti gli alberi. In queste foto, di grande armonia compositiva ed equilibrio cromatico, emerge la condizione di un elemento inserito in un sistema. Il soggetto sembra indicare, nello stesso tempo, la sottomissione alle regole e anche la reazione ad esse. I germogli che spuntano dal tronco testimoniano la capacità di adattamento di una specie che, nonostante il controllo, tende inevitabilmente a diffondersi e riprodursi. L’andamento ritmico costituito dalla sequenza fotografica esalta la qualità di sintesi dell’immagine in cui l’artista riesce a cogliere tutto il potere evocativo espresso dalla natura. ∫ Let me dance installazione di 13 stampe fotografiche al pigmento, 33 x 25 cm cadauno, 2010

" Quando il vento della sera è propizio, le donne del villaggio posano sulle soglie i bracieri perché possano ravvivarsi. Una volta che le braci sono state ben arrossate dal vento, li riportano dentro per cucinare. Meriem era malvista dalle vicine perché lasciava troppo a lungo il suo braciere sulla soglia. Il fuoco diventava troppo rosso, lanciando scintille che volavano nella strada assai dopo l’imbrunire e le vicine dicevano: «Meriem non è una brava donna di casa. Meriem spreca il suo carbone di legna. Se fossi il marito di Meriem, io…». Meriem si curava poco di tutti quei pettegolezzi. Riprendeva il suo braciere per cuocervi ciò che voleva e come voleva. E il suo uomo e i suoi figli ne erano molto contenti. Una sera in cui il braciere era rimasto sulla soglia ancora più del solito, una vecchia maldicente le disse: «Dovresti vergognarti! Le tue braci sono quasi consumate e non hai ancora fatto da mangiare!» Meriem ribatté: «È vero. Ma guarda la notte: il mio braciere ha acceso le stelle!» " — Tratto dal racconto Il braciere di Meriem, ANDRÈ P., Racconti dei saggi del deserto, edizioni L’ippocampo, Milano 2010, pp. 119-120

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Giorgio Pignotti

≤ 58945 olio e smalti su tela, cm 210 x 180, 2010

senza titolo olio su tela, cm 120 x 158, 2011

Guardare il volto di uno sconosciuto. Giorgio Pignotti (Ascoli Piceno, 1979) prosegue la sua ricerca concentrando ancora una volta la propria attenzione sul ritratto. Ma, in questa ultima produzione, possiamo parlare di ritratto? L’artista ha lavorato a lungo su foto segnaletiche tratte da database americani degli anni 1930-1940 traendone delle opere pittoriche di grandi dimensioni in cui il referente veniva reso esplicito. Nel fissare il viso dell’effigiato l’osservatore era consapevole di essere di fronte ad un individuo che si era macchiato di un crimine, anche se l’artista non rivelava quale fosse. In tal modo venivano alimentate supposizioni e fantasie in un processo morboso che, ora, viene portato all’estremo. Nella serie più recente, infatti, i lineamenti si fanno più generici e non vengono forniti ulteriori elementi per identificare la persona rappresentata. Per quanti sforzi possano venire fatti, le nostre domande restano senza risposta e più proseguiamo nella ricerca più l’immagine dichiara la propria natura transitoria. Reso con pennellate materiche e spesse, l’incarnato è livido e i tratti somatici sono talmente ambigui da non poter essere ricondotti ne al sesso ne all’età. Impossibile dire se si tratti di un ragazzo, di una donna o di un uomo. Il volto si qualifica come una maschera, una sorta di schermo su cui proiettare le nostre ipotesi.

" Il giocatore di rombo ha fatto roteare la sua tavoletta ed essa è sparita. È diventata un turbine sibilante e nell’aria si è diffusa la voce fruttata del frangipane. La forma degli esseri umani, come quella delle cose, è cangiante. Un pezzo di legno sballottato dalle onde può trasformarsi in coccodrillo. Basta che sia animato da una forza invisibile, basta che sorga un Dema. Se lo si uccide e lo si sotterra, ne nascerà una palma sago. Forse il giocatore di rombo ha intagliato il suo bell’ornamento nasale nella zanna di un porcellino, aggiungendovi il ciuffo di peli dell’opossum da lui stesso cacciato. Ma niente è certo, tutto può rivelarsi Dema. Quell’uomo laggiù, con quel becco da tucano, la faccia dipinta e le grandi piume? Chissà? Ha un’aria strana. È già accaduto: incontri un vecchio con un cappello a testa d’uccello, gli parli e quello ti strappa lo scudo pettorale e vola sopra la casa degli spiriti. Sono cose già successe. Si sono visti tamburi kundu diventare lucertole, sonagli da gamba trasformarsi ai piedi delle danzatrici dai capelli scarlatti: i sonagli diventavano serpenti che strisciavano nella boscaglia e ne uscivano in forma d’aquila. Ci sono esseri che escono dal sogno fin dall’inizio. Qui si dice Dema, laggiù Uaropo, Kugi o Amai: è la stessa cosa. Ovunque tu vada riporti sempre storie di Dema. Presso gli Asaro, gli Huli, i Marind-Anim, i Dugum Dani, gli Oksapmin, i Nangamp … Ci sono pietre che sono esseri soprannaturali, oggetti, antenati venuti da tempi mitici, tappi di flauto da cerimonia che parlano come tamburi. Ci sono cose da dire. " — Tratto dal racconto La sposa di Lamua, FISCHMANN P., Racconti dei saggi nomadi, edizioni L’ippocampo, Milano 2010, pp. 163-164

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Giovanni Termini Un dialogo fra pieno e vuoto, appoggiato e sospeso, passaggio e ostacolo. Attraverso i suoi elementi istallativi, Giovanni Termini (Assoro EN 1972) opera nell’ambiente creando un’interazione fra le parti. L’uso di materiali dotati di qualità specifiche, quali metallo, legno, vetro, permette all’artista di costruire delle strutture che occupano lo spazio. Proprio questa presenza fisica, a ben guardare, appare del tutto temporanea. Pedane, casse e pareti, infatti, sono tenute insieme da cinghie elastiche e ventose, facendo affiorare il dubbio che, se chiudessimo un momento gli occhi, ciò che è di fronte a noi potrebbe sparire. Si tratta di strutture che si estendono nello spazio dando vita a luoghi provvisori dove, l’abile gioco di pesi e misure condotto dall’artista, finisce per risolversi nel paradosso, nel punto irrisolto fra stabilità e divenire. ≤ Doppio nodo legno, corda in nylon e ferro zincato, istallazione dimensione ambiente, 2011 ≤ Doppio nodo legno, corda in nylon e ferro zincato, istallazione dimensione ambiente, 2011 particolare

" All’inizio, quando la terra era morbida, i giganti dei primi tempi berberi camminavano nella bruma. In mezzo a paesaggi incerti, torbidi e balbettanti, preparavano l’ordine del mondo. Molto più tardi, quando la pietra si fu indurita e la terra fu pronta, giunse Amamellen. In groppa al suo mehari, l’eroe berbero dal turbante cavalcava in compagnia del figlio e l’accompagnava anche il suo brillante nipote Adlesagh, figlio della sorella. Quando furono nel deserto, Amamellen si girò verso i ragazzi e disse: — E adesso date al deserto la vostra parte: la parte del nomade. Il figlio si sollevò dal tappeto della sella, aprì la grande borsa di cuoio e gettò sulla sabbia tutte le sue provviste. Adlesagh fece schioccare gli speroni e si diresse verso lo zio. Appena l’ebbe raggiunto, si lanciò in un appassionato racconto che era la sua versione della perdita dell’Eden e dove si parlava del rispetto per la terra. Si fermò per attingere dal silenzio una di quelle riflessioni che fanno vibrare il saggio. Ne estrasse parole di miele e di sale, profumate, splendenti. Narrò il percorso verso il pozzo e il percorso nomade, i cerchi, aperti sul vuoto, alle orecchie delle donne, i bracciali, gli anelli, i vestiti azzurri della notte, i tre tè dell’amaro, dell’amore e del soffio di morte. Descrisse l’istinto della partenza, quando l’erba s’assottiglia e il flauto si ricorda di provenire dalle carovane. Tacque. Il sole declinava già tra le dune. Amamellen si fermò e disse: — Pianteremo qui l’accampamento. Avanti, tirate fuori dalle borse le provviste e mangiate i vostri datteri e i vostri meriti. Sollevò le pieghe della veste ed estrasse le provviste. Il figlio si agitò sulla sella: Padre! — esclamò. — Ci avevi detto di dare al deserto la nostra parte, la parte del nomade e per obbedirti ho gettato tutto nella sabbia! Estraendo le proprie provviste, Adlesagh rispose al cugino: — La parte dell’erranza, l’obolo sacro offerto al viaggio, è la conoscenza che innalza verso l’umano, la luce sul senso del nostro viaggio nel movimento dell’universo. L’arte della parola è la parte nomade di cui parlava tuo padre, il latte tiepido che versiamo sul vuoto, un nutrimento dell’anima. " — Tratto dal racconto La parte del nomade, FISCHMANN P., Racconti dei saggi nomadi, edizioni L’ippocampo, Milano 2010, pp. 117-123

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Cura e testi

Gloria Gradassi

Artisti Rocco Dubbini Ivana Spinelli Rita Soccio Rita Vitali Rosati Daniele Camaioni Giulia Corradetti Maicol&Mirco Esposizione

Dal 3 Aprile al 1 Maggio 2011


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Rocco Dubbini ≤ Termosifone acceso stampa lambda, 90x130 cm, 2008

La perdita dell’equilibrio tra uomo e natura, apre le porte a scenari in cui l’arte rappresenta le derive del presente, tra denuncia, constatazione, ribellione e immaginazione. L’ambiente naturale, originaria estensione della vita dell’uomo, ci è escluso e il sistema di produzione-mercificazione globale trasforma gesti semplici come il toccare la terra con le mani, camminare in un bosco, raccogliere le olive in merci da vendere con l’etichetta di esperienze-bio, una deformazione che ha il carattere drammatico della privazione. “Snaturati” in questa mostra sono gli artisti, orfani di un contatto diretto con l’ambiente della vita e con i suoi meccanismi semplici e complessi. Di fronte a questa distanza dal senso materiale e spirituale dell’esistenza, assumono atteggiamenti differenti, ma comunque orientati a integrare appieno la natura nella loro arte, assumendone il linguaggio, usandola come materia, o come soggetto per parlare di un presente pieno di contraddizioni. Bisogna sapere da che parte stare, qual è l’estremità migliore. Gli artisti in mostra, snaturati per condizione, osservano da posizioni differenti, ponendo la domanda o tentando soluzioni. Obiettivamente il potere dell’arte può essere quello di comunicare, sollecitare le coscienze, intervenire in modo simbolico nella realtà gettando dei semi. Il gesto estetico antesignano di ogni attuale riflessione artistica sulla natura lo compì Beuys nel 1982 a Kassel con l’opera “7000 querce”. Un’idea di una forza straordinaria e struggente, una volontà di ricreare materialmente la natura non solo attraverso proclami ma effettivamente facendo in modo che 7000 vere querce venissero piantate per divenire, dopo centinaia di anni, un bosco, attraverso la volontà di chi acquistando una pietra di basalto ha potuto finanziare un atto di fede nell’uomo. Le 7000 querce stanno crescendo e sono una promessa che deve essere alimentata perché esse diventino molte di più. Sognare un mondo più verde all’alba di Fukushima è un diritto che l’arte deve perseguire anche di fronte ad una realtà cupa e apocalittica, di fronte all’egoismo e alla superficialità che mettono al primo posto nella scala dei valori il profitto e il potere legato all’economia. Sarebbe bellissimo ad esempio che un paese come l’Italia facesse un salto nel riconoscere e difendere la propria identità fondata sulla bellezza, storica, artistica e naturale, e che da questa comprensione derivassero scelte politiche rivolte alla difesa del nostro patrimonio artistico e naturale. Gli artisti in mostra, raccolgono il testimone e s’impegnano, ognuno secondo la propria sensibilità, perché la fiamma resti accesa.

senza titolo installazione dimensione ambiente, 2010

Proprio come nel lavoro di Rocco Dubbini che accende in senso letterale un termosifone di cera, metafora di energia e natura. Sottraendo il termosifone al suo uso quotidiano, restituisce il senso del calore ad una dimensione intima e naturale, estranea all’oggetto metallico posto nelle case. Rocco Dubbini da sempre lavora sulla trasformazione e sull’energia, costruendo attraverso questi concetti un suo linguaggio in cui natura, materia e spiritualità s’incontrano. Le sue immagini sono spiazzanti e visionarie, e dal gioco linguistico sanno far emergere un respiro profondo, un quesito universale, sia che esso riguardi l’essere nel cosmo, o l’oggetto quotidiano. Questa forza creativa ha molto a che fare con i misteri della natura e dell’energia, intesa come vitalità inscindibile dall’essere, e produce un’arte che solleva e anima la materia.

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Ivana Spinelli Ivana Spinelli in questa mostra è presente con un disegno ispirato alla sezione di una radice al microscopio. Se lo volessimo osservare secondo le categorie tradizionali di figura/astrazione dovremmo considerarlo un lavoro astratto. L’artista non considera la radice per il suo possibile valore simbolico di elemento immerso nella terra o come origine, ma la impiega come puro elemento estetico, dunque un oggetto astratto che diviene pretesto linguistico da sottoporre a successive ibridazioni. Il disegno è diviso a metà. Una parte è quasi trasparente e invisibile, tracciata appena col segno della matita, l’altra è inchiostrata e nettamente definita. Questa duplicità tra evidenza e parte nascosta è da mettere in relazione con tutto il lavoro della Spinelli sul branding e sui meccanismi culturali che mettono in evidenza solo gli stereotipi della realtà, mettendoci in guardia rispetto ad un atteggiamento troppo pilotato dai media sull’emergenza ambientale e invitandoci a rifondare un’idea più profonda di natura.

≤ Nucleoradice matita e inchiostro su carta, 150x150 cm, 2010

Nucleoradice matita e inchiostro su carta, 150x150 cm, 2010 particolare

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Rita Soccio Il senso di privazione torna nelle sottrazioni di paesaggio messe in opera da Rita Soccio. Sono porzioni di terra viste dal satellite, dalle quali scompaiono dei fazzoletti che diventano aree vuote, veri e propri furti di natura che alludono allo sfruttamento dei terreni attraverso la loro occupazione con i pannelli solari che di fatto cancellano le superfici verdi. Rita Soccio, che da anni lavora con ironia e profondità sui meccanismi della comunicazione pubblicitaria, operando appropriazioni d’immagine e piccoli spostamenti di senso che invertono significati e messaggi, con questo lavoro approda ad una costruzione rigorosa ed essenziale che apre diverse prospettive nel suo lavoro. Sfruttando le tecnologie rese di uso comune dal web, come la visione satellitare, costruisce una nuova anatomia del paesaggio. Un paesaggio fatto a pezzi e ricomposto secondo geometrie innaturali. ≤ Assenze stampa lambda su dibond, cm 140 x 72, 2011 ≤ Assenze stampa lambda su dibond, cm 140 x 72, 2011

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Rita Vitali Rosati

≤ Charlie's angel stampa lambda su dibond, 175 x 118 cm, 2011

The winter collection stampa lambda su dibond, 123 x 185 cm cadauna, 2010

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Di natura in senso umano ci parla Rita Vitali Rosati, che mostra l’immagine di una ballerina, metafora di delicatezza e armonia, la cui essenza è chiusa nella violenza di una corda che le stringe i polsi dietro la schiena. La figura umana è centrale nel suo lavoro e diviene metafora di molteplici racconti provocatori, spesso a carattere autobiografico, attraverso i quali s’interroga sul ruolo dell’artista o sulle ipocrisie della società e della sua rappresentazione. Non è dunque la natura in senso stretto ad essere soggetto centrale del suo lavoro, quanto il senso delle azioni umane e le contraddizioni che scatenano la violenza intrinseca dell’uomo contro se stesso. Sia quando è protagonista del suo lavoro, che quando usa modelli, Rita è contro Rita, in una lotta ad libitum a svelare inganni e a tentare di liberare lo sguardo dall’indifferenza.

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Daniele Camaioni L’immaginazione surreale di Daniele Camaioni conduce lo sguardo in paesaggi post-apocalittici. Usa il mezzo digitale con abilissimo virtuosismo simulando visioni di luoghi in cui la natura, elemento base del suo immaginare, è reinventata, scomposta e ricomposta in forme diverse. Alterazioni dello sguardo, piccoli shock del vedere, sono i meccanismi in cui scivola la riconoscibilità. Nella produzione recente uomo e natura sono fusi in forme di vita ibride che anelano ad una rinascita. Come in “bodhisattva”, riferito “ad un essere che nasce dalla terra ed aspira ad ottenere l’illuminazione favorendola anche in tutti gli altri esseri” (D.C.). L’illuminazione è dunque nel ricongiungimento, non privo di sofferenza, con la materia prima della vita: la terra. Un percorso che escludendo il superfluo chiude il cerchio attorno al corpo, forza e punto di equilibrio.

≤ Bodhisatva stampa inkjet su carta fotografica, 100x70 cm, 2010

The reef stampa inkjet su carta fotografica, 60x60 cm, 2008

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Giulia Corradetti La materia digitale è l’oggetto delle elaborazioni di Giulia Corradetti. Nella produzione recente il processo costitutivo dell’immagine è maturato in figure dalla credibilissima corporeità. All’artificialità del digitale si è affiancato un immaginario di forme biologiche e naturali, ricreate nello spazio illusorio dell’immagine virtuale. La sua materia mostra la caratteristica di volersi scollare dalla superficie piatta, in una tridimensionalità seducente e vivida. La figurazione controllata, fresca e sempre sul filo della sperimentazione, è sempre alimentata dall’illusione della tridimensionalità, quasi che le forme avessero una loro reale consistenza. Nel suo progetto di ridisegnare nuove forme viventi, Giulia Corradetti tende a ricercare un’armonia tra tecnologia e natura, immaginando un possibile futuro in cui il biologico e l’artificiale avranno trovato un loro equilibrio.

≤ Ecosystem #1 #2 #3 stampa inkjet su carta fotografica, 45x150 cm cadauno, 2010

Artificial nature #4 stampa inkjet montata su dibond, 100x70 cm, 2010

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Maicol e Mirco

≤ Hanchi world #1 pennarello su carta 80 x 110 cm, 2010

Hanchi world #2 pennarello su carta 80 x 110 cm, 2011

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Maicol e Mirco, con giocosa ed amara ironia, inventano un pianeta fatto di vegetali e rocce in cui tre figure elementari cercano di sopravvivere. Una boutade che, estremizzando la nostra condizione di vita, rappresenta l’esistenza come lotta per la sopravvivenza biologica riportando l’essere umano ad uno stadio di esistenza quasi primitiva. Questa volontà di ridurre il racconto ad una provocatoria favola per bambini diventati adulti è caratteristica già a lungo sperimentata da Maicol e Mirco, anche attraverso il fumetto, genere che li ha visti protagonisti in importanti rassegne. Le opere in mostra pongono una domanda insistente sull’identità dell’uomo considerato nel contesto naturale. Con una freschezza disarmante e fanciullesca gli esserini che sbucano tra il fogliame vegetale sembrano persi e incapaci di trovare il posto adatto a loro.

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