Valerio Ferrari, 'l ööltim mignàan (versione ampliata)

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valerio ferrari ’l ö ö l t i m mignàan



A Valerio, ’l ööltim mignàan, grande maestro di vita



valerio ferrari ’l ö ö l t i m mignàan immagini di

roberto caccialanza



VALERIO FERRARI Desidero ricordare la scomparsa di Valerio, a distanza di oltre un decennio, pubblicando questa versione digitale del catalogo uscito nell’aprile 2002, cui seguì a breve distanza temporale una seconda edizione che a sua volta è andata rapidamente esaurita. Un ricordo del ‘Vale’ che non sia solo nel cuore ma anche nella pratica. Questo nuovo catalogo racchiude immagini non pubblicate sul precedente: alcune furono esposte nella mostra che si tenne dal 14 aprile al 9 giugno 2002 presso il Museo della Civiltà Contadina del ‘Cambonino’, altre sono del tutto inedite e recuperate dai negativi originali. I testi, invece, sono stati mantenuti di proposito identici a quelli delle edizioni cartacee.

Uno dei fini istituzionali del Gruppo fotografico Beltrami - Vacchelli è quello di documentare. Dal 1974 questo compito viene svolto scegliendo di volta in volta un argomento, indicato dal direttivo o da collaboratori esterni. Fra questi, Gianpaolo Gregori, ex responsabile della cascina-museo ‘Cambonino’, che incontrai e conobbi nel giugno 1999 durante i festeggiamenti -informali- per il venticinquesimo anniversario del GBV. Parlammo di vari argomenti; anche e soprattutto di fotografia, è ovvio! Fra i numerosi temi suggeriti, finì per caldeggiare la realizzazione di una ricerca su Valerio Ferrari, il mignàan di ‘Terra Amata’. Mi accompagnò nella bottega del ramaio solo pochi giorni dopo. Fui subito coinvolto dall’attività dell’artigiano e dall’ambiente in cui operava; la sensazione era quella di vivere nel passato, se non per la mia auto parcheggiata lì a pochi metri. Così, dedicai l’intero mese dell’agosto successivo per ritrarre più fasi della lavorazione del rame. Il clima non troppo caldo (anzi spesso ventilato) divenne complice di tanti scatti a ridosso della fucina. Valerio accettò la mia presenza come se ci conoscessimo da anni. Mi introdusse, in maniera generosa e altruista (proprie straordinarie caratteristiche), ad ogni aspetto del mestiere. Con pazienza, giorno dopo giorno, seguendo un sapiente filo logico (seppure mai dichiarato), mi guidò alla conoscenza della sua arte. Mi fece vivere e capire un lavoro d’altri tempi che si ostinava, nonostante l’età e gli acciacchi, a portare avanti e a far conoscere, partecipando con entusiasmo esemplare alle tante mostre dei vecchi mestieri che sono proposte di frequente alle sagre di paese. Un lavoro duro, pesante, che tuttavia ha amato fino all’ultimo.


Trascorse ore raccontandosi, sempre in un cremonese schietto e arricchito di vocaboli ormai dimenticati: iniziò l’attività sotto padrone; poi, divenuto esperto (“püsèe bràao de ’l me padròon”), si mise in proprio nella porzione di cascina giusto attaccato casa, “eh, ’ma ’l éera bèl!”; di quando dovette andarsene a causa del rumore provocato dal martellamento, trovando approdo a ‘Terra Amata’, fra il Migliaro e Castelverde, luogo suggestivo e quanto mai adeguato all’arte del Vale. Andava orgoglioso del nome punzonato in cima al Torrazzo: nel 1977 aveva infatti pulito la palla dorata, dentro alla quale è stata rinchiusa una padella con la sua firma, e forgiato il cono che la sostiene. Rifatta la croce, modellò anche le chiarine degli angeli che sovrastano il porticato della facciata del Duomo. “Alùura, Ròbert, ’ma vàala?”, si premurava vedendomi entrare nella sua bottega, due stanze in un edificio rurale: la più interna usata come magazzino; l’altra, il fulcro dell’attività, completamente annerita dalla fuliggine e stracolma di oggetti curiosi come i martelli di differenti forme, le incudini, le pinze per la fucina, i macàachi… Il macàaco, invenzione di cui andava fiero (forse da macàa, ammaccare), è un curioso martello in legno con una estremità molto allungata e ricurva, che arriva dove gli altri martelli non possono. “Incóo te laùret àan té. Ciàpa in màan el martél chél giöst”, esordì una volta: poi, apparentemente distratto, con un occhio e soprattutto le orecchie discretamente attenti, seguiva i colpi inferti quasi a caso sulla piastrina di rame, “cu ’l martél a bùla”, quello ‘giusto’ per antonomasia; in un paio d’ore divenne (stentai a crederlo!) un posacenere. Valerio impiegò appena venti minuti per modellarne uno più grosso che mi dedicò siglandolo. Conservo questi ricordi con affetto. Rimasi sbalordito in alcuni momenti del suo lavoro. Le procedure, lente ed accurate, per restituire forma a un grosso paiolo partendo da una lastra di rame assolutamente piatta “fàta còozer in sö ’l fóoch e lauràada cu ’l martél fìna a fàaghe ciapàa la fùurma, che pò ghe se tàca el cüül cu ’i ciòot de ràm, chéi fàt a màan”, fino a completarlo con tanto di orlo e manico per poter essere appeso di nuovo in chissà quale camino e sfornare chissà quali delizie. La fucina eruttava scintille e fumo, il quale vorticava su se stesso illuminato da un pallido sole pomeridiano che s’intrufolava dalla finestra rendendolo spettrale. “Àra, fàame en piazéer, impìsa la lüüs”, sogghignava divertito: la plafoniera era nera di fuliggine perciò la lampada non poteva illuminare! Nonostante l’odore acre e pungente emanato dal legno in fiamme, con le lacrime agli occhi, Valerio rimaneva tenacemente al lavoro. La fronte, imperlata di sudore che grondava copioso; la maglietta, madida. I momenti della lavorazione gli facevano assumere un ghigno sempre diverso. La magia della stagnatura, durante la quale il viso di Valerio si illuminava, certo della luce riflessa, ma in particolare dalla gioia di aver ridato vita e pre-


gio a un oggetto che qualcuno pensava di dover gettare in una discarica. Maneggiava quella bacchetta di stagno come se fosse magica, “che quàan’ té la piéeghet la fà ’n vèers che pàar che la crìida, sèentet?”. Le mani nude ‘giocavano’ nel fuoco. Angela, anziana amica che vive in una abitazione vicino, siciliana di origine, si presentava da ottima ospite, puntuale, alle 17 e 15, con tre squisiti caffè all’anice. La donna sapeva ritirarsi poco dopo, quando Ferrari tornava a martellare. “Fìidech ’sa ’l è bòon… La vèen sèemper a truàame, chéla póora dòna, l’è pràan bràava”. Ogni tanto, una pausa. Ne approfittava per chiedere “to pupà, stàal bèen?”. Non lo aveva mai visto, eppure questo argomento gli offriva lo spunto per parlare anche della sua famiglia, alla quale era profondamente legato. Voleva essere messo al corrente delle mie vicende personali. Avevamo raggiunto una grande confidenza. Valerio era una persona buona, fra le poche meritevoli di stima e rispetto. Non si poteva che volergli bene. Le nostre chiacchierate venivano interrotte di frequente dal viavai di amici e clienti che si affidavano alle sue mani esperte per “tiràa a lücit ’na quàal pügnàta, fàa ’l òorlo a ’na quàal padéla, méter el mànech nóof a ’n paróol o rifàaghe el fóont”. Più tardi arrivavano Pippo, suo figlio, e Fabio, un ragazzo neodiplomato medico, che prendevano immediatamente posizione alle incudini. Valerio confidava di tramandare loro la passione e le tecniche del ramaio… Nell’ottobre ’99, un intervento chirurgico lo costrinse a ridurre l’attività. Di recente era addirittura prigioniero della seggiola a rotelle, ma il suo unico desiderio era quello di tornare presto a ‘Terra Amata’. Valerio se n’è andato il 24 febbraio scorso. Proprio in quei giorni l’avrei informato che si sarebbe fatta la mostra, la cui organizzazione è stata rinviata varie volte per impegni precedentemente assunti con il Gruppo fotografico. Questo catalogo voleva essere una sorpresa di cui sarebbe andato fiero, per la consapevolezza che lui e la sua arte, pubblicati, divenivano immortali. Diceva sempre: “uramàai ghe n’è pö de mignàan in gìir. Mé sùunti ’l ööltim!”. R. C.



PRESENTAZIONE Con il vocabolo Magnàan, o Mignàan, nel dialetto cremonese come in tutti gli idiomi padani, si fondono le tre arti, di per se distinte, del calderaio, del ramaio e del magnano-stagnino. Il calderaio, spiegava Giacinto Carena (1778 - 1859) nel Nuovo vocabolario delle arti e dei mestieri, è l’artefice «che fa utensili di rame, come a dire caldaie, paiuoli, casseruole, padelle, e simili, ad uso delle economie domestiche, e di varie arti». Il ramaio, benché il termine sia spesso usato come sinonimo di calderaio, è propriamente «quel fabbricante che riduce il rame in pani, in quadrelli, o in ampie lamine» (Carena). Il magnano, spiegava Francesco Baldinucci (1625 - 1696), è «l’artefice di ferro e di lavori minuti, ed è quello che fa i ferrami per chiuder le porte degli edifizi» (Vocabolario toscano dell’arte del disegno), in ciò confermato dalle Note al Malmantile (1688), dove si legge che il ‘magnano’ è il «fabbricatore di ferri minuti, e di piccoli ingegni, come chiavi, toppe; a distinzione del fabbro, che fabbrica ferri grossi, come zappe, vanghe, ecc., e del maniscalco che fabbrica ferri per le bestie». Si può capire così il senso del proverbio “Avere più segreti d’un magnano”, riferendosi il paragone «al fare il magnano i segreti alle serrature e alle toppe» (Dizionario della Crusca). D’altra parte, anche l’etimologia della parola, che deriva dal latino volgare manĭnus, da manĭa (lat. class. manŭa) = maniglia (Battaglia), convalida questa definizione. Il ‘magnano’ è dunque l’uomo delle maniglie, «qui dicitur Magniano», nel latino medievale d’un documento milanese dell’882 ricordato dal Muratori. Sarebbe giusto dire allora che l’arte del compianto Valerio Ferrari (e come non sottolineare l’attinenza del cognome con il mestiere?), fissata -purtroppo postuma- in questo libro dalle fotografie di Roberto Caccialanza, era quella del calderaio. Ma non si può dire scorretta la qualifica che Ferrari stesso amava darsi, perché la fusione delle tre arti pare molto antica. Già nel XIV secolo il fiorentino Antonio Pucci scriveva infatti: «Diciannovesima [arte] sono i chiavaiuoli, con calderai» (Il centiloquio). Quello della lavorazione del rame è mestiere più antico di quanto sia dato pensare. Il rame è stato il primo metallo impiegato dall’uomo, anche per le sue proprietà che permettono di poterlo lavorare a freddo mediante battitura. È ricordato nel libro dell’Esodo, dove si legge che Dio comandò agli Ebrei di fare con il rame molte delle parti e delle suppellettili del Santuario destinato a contenere l’Arca dell’alleanza, fra le quali anche una «conca di rame con il suo piedestallo di


rame» (Es. 38). Addirittura mestiere antidiluviano, che nella Bibbia è fatto iniziare con la nascita, dalla discendenza di Caino, di Tubalkàin, il fabbro, padre di quanti lavorano il rame e il ferro (Gen. 4, 22). E siccome Tubalkàin era fratello di Jubal, padre di tutti quelli che suonano la cetra e la zampogna, breve fu il passo, per alcuni degli studiosi che fra XV e XVIII secolo per primi studiarono il popolo zingaro, tradizionalmente dedito - fra gli altri - a questi due mestieri, per determinarne le origini “razziali” dalla stirpe di Caino. Sappiamo oggi che il luogo di partenza del popolo zingano è l’India, e che tra i tanti nomi con cui si distinguono vi è in effetti, fra le tribù Rom, anche quello di kalderaša, calderaio (François de Vaux de Foletier, Mille anni di storia degli zingari, 1970). L’idea del calderaio-zingaro è solidamente radicata nella memoria popolare e letteraria, anche se il mestiere di calderaio-stagnino sarebbe stato adottato tardi da questo popolo, benché certamente ben accolto nella sua mentalità, in quanto collegato all’ancestrale rapporto fra metallurgia e forze soprannaturali, fra stregoneria e magia (Enciclopedia Italiana). Poiché nell’Europa cristiana le relazioni fra magia e male, fra male e demonio, erano pressoché automatiche e dato che il popolo zingaro era senza legge e senza terra, si formò un’aura “maligna” attorno all’arte che Tomaso Garzoni (1549 - 1589), nel Cinquecento, denominò dei «calderari, o fabri ramarii». L’aspetto esteriore di questi artigiani al lavoro, d’altra parte, colpiva l’immaginario collettivo. “L’è ströt ‘m’en migàan” afferma un vecchio detto, e il Garzoni scriveva: «...sono anco sporchissimi per i lavori del continuo, perché da un magnano a un spazzacamino si trova poca differenza veramente, e il volto loro è tanto unto, et nero, che s’assomigliano al vòlto d’una padella, o frisora unta di grasso, et sporca di fumo, più che altra cosa» (La piazza universale di tutte le professioni del mondo Discorso XLVI). Le fotografie di Caccialanza lo confermano, mostrando come, dopo ore di lavoro, il fuoco e il fumo della fucina lasciassero il segno anche sul volto di Ferrari. A questo proposito, è utile citare quanto Ludovico Antonio Muratori (1672 - 1750), nel formulare una sua errata etimologia, riferiva circa gli effetti di questo inquietante aspetto del magnano sulla sensibilità della gente lombarda: «Vocabolo lombardo tengo io che sia “magnano”. Una volta si dava questo nome, non già ai ferrari e battirame, ma a quei soli che colla bolgia andavano in volta in volta col volto tinto di nero, e con orrida voce facevano intendere la loro arte, come fanno anche oggidì. Cominciarono le femmine a chiamare costoro col nome suddetto per far paura ai loro fanciulli, così anche ai dì nostri dicono “È qui il magnano”; ed essi spesso tacciono e ubbidiscono a udir la loro voce, o ad ascoltar quella minaccia. Furono dunque appellati “magnani” dal lombardo


“magnare”, cioè “manducare”: facendo credere da’ figli che costoro mangiavano i fanciulli disubbidienti.» (Dissertazioni sopra le antichità italiane). L’uomo nero, il babau al quale ricorrevano gli adulti per intimorire i bambini capricciosi o disubbidienti è associato dal Muratori ad un’altra parola simbolo: Bolgia. Aiutati dal ricordo della Commedia dantesca è facile mettere in relazione questa parola con l’ambiente infernale e scoprire forse l’attinenza col famoso proverbio: “El diàol el fà i paróoi, ma mìia i quèerc”, nel quale è implicita l’attribuzione del mestiere di calderaio al diavolo stesso. D’altra parte anche il dio pagano Vulcano (sovente assimilato in ambito cristiano al diavolo) era stato definito “dio magnano” o “magnano celeste”. La bòlgia del magnano era comunque la bisaccia (Tommaséo, Dizionario dei Sinonimi) in cui portava i suoi arnesi. È nominata anche negli Statuti et ordini dell’Università del ferrari di Cremona del 1591, nei quali è stabilito che «non vi sia persona fuori di detto paratico che habbia ardire di portar la bolza per la città o distretto di Cremona se prima non haverà pagato al Massaro, o Tesoriero dell’arte lire trei imperiali et fatto descrivere nel libbro del paratico». Poteva essere anche arte ambulante quella del magnano, esercita in questo caso non tanto dagli zingari ma più spesso, dalle nostre parti, dai montanari-pastori che durante le transumanze invernali si prestavano a riparare e stagnare pentole e paiuoli. Era innanzitutto, almeno sino alle riforme settecentesche, mestiere di artigiani iscritti ad una corporazione, riconosciuta e regolata dagli ordinamenti cittadini. Persino negli Statuti della città di Cremona (1579) se ne trova un’indiretta menzione alla Rubrica 645, dov’è stabilito che chi vendeva «parolos, & vasa rami» doveva farlo senza i manici di ferro, che andavano venduti a parte; e ancora, che i vasi di rame dovessero avere «auriculas de ramo, & non de ferro». Per concludere la presentazione di questo bel volume, con il quale s’intende consegnare al futuro il ricordo dell’arte dell’ultimo magnano cremonese, bisogna dire qualcosa su ciò che le fotografie non riescono a comunicare. Scriveva il Garzoni che «...i calderari, o fabri ramari sono quelli, che per forza di martello cavano dalla massa del rame tutti i lavori loro al principio, nel mezzo, et nel fine [...] Nella qual cosa oprandosi con gran fatica, et industria, occorre spesso servirsi di martelli grossi; et quando piccioli, et quando con quelli lunghi di gambo di ferro, e corti di manico, o tirar il lavoro a lungo, o stregnerlo, o allargarlo col modo, et attitudine del battere, battendosi hor di dentro, hor di fuori,


et quando con la penna, et quando con la bocca piana, garbeggiando, et dando gratia ai vasi il più possibile sia. Questo metallo adoprato dai maestri è dolce, et flessibile, et al martello tenace, et s’arrende con certa nervosità [..]. Un valente maestro in tai lavori si scorge, quando fa lavori d’un pezzo giusto, uguale, per tutto sottile, et ben garbato, senza molti colpi disordinati del martello posti in qua, et in là, o maggiori più l’uno che l’altro.». Ciò che il Garzoni spiegava è che il valore dell’artigiano, e del prodotto che dimostra di saper fabbricare, non dipende tanto dagli arnesi che usa ma è piuttosto in funzione della qualità dell’intenzione e dei gesti che egli sa compiere e che sono frutto della sua intelligenza. In questa sorta di “elogio dell’intelligenza” artigiana, bisogna pur dire che non tutti quelli che apprendono gli insegnamenti d’un maestro riescono ad essere buoni artigiani, come non tutti quelli che frequentano un’accademia d’arte diventano artisti, perché alle nozioni apprese devono essere aggiungete idee e capacità non comuni di autonomia. Il buon artigiano, infatti, non ripete pedissequamente gli insegnamenti del maestro ma ne migliora il metodo e le tecniche, inventandone magari di nuove. Il buon artigiano è, insomma, colui che riesce ad ottenere dalle proprie mani ciò che il suo cervello gli comanda. Il giudizio non è portato sulla semplicità o sul grado d’elaborazione dell’oggetto realizzato ma sul capire quali siano i gradi di cognizione e di abilità tecnologica che sono bagaglio del bravo artigiano, quelli che gli consentono d’ottenere il prodotto voluto mediante gesti utili, coerenti e conseguenti, con il minore dispendio di tempo e d’energie. Ripeto. Dai gesti con cui l’artigiano usa i propri strumenti si riconosce la sua intelligenza, che dimostra fra l’altro l’intera storia dell’evoluzione umana perché, come ha scritto il paleontologo Jean Chavaillon, «La diversificazione degli strumenti ha portato necessariamente alla moltiplicazione dei gesti atti a [...] utilizzarli. Il cervello comanda sempre meglio la mano docile nell’esecuzione dei gesti sempre più precisi e spesso legati a una catena operativa più che mai complessa. La mano riceve gli ordini dal cervello; è l’intermediario tra il cervello e qualsiasi cosa venga utilizzata [...] La mano rappresenta senza dubbio la parte del corpo che offre la maggior parte dei rapporti intellettuali col cervello» («Gli strumenti e l’inizio della grande avventura umana», in: Homo, viaggio alle origini della storia, 1985). GIANPAOLO GREGORI 31 marzo 2002






































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Progetto grafico: Roberto Caccialanza info@robertocaccialanza.com Versione digitale: ©2013 Roberto Caccialanza Edizione digitale (ampliata) del volume pubblicato nell’aprile 2002




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