segno Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 00 in libreria ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910
E 5.
Anno XXXX
GEN/FEB 2015
251
Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea
Bellissima. L’Italia dell’alta moda 1945-1968 - MAXXI ROMA Martin Parr - STUDIO TRISORIO NAPOLI
gennaio/febbraio 2015 Daido Moriyama [32]
#251 sommario
in copertina
Bellissima L’Italia dell’alta moda 1945-1968 Lucio Amelio [34]
al MAXXI, Roma 2014
Martin Parr
The Amalfi Coast, 2013-2014
Giuseppe Panza di Biumo [38]
© Martin Parr/Magnum Photos/Studio Trisorio
courtesy Studio Trisorio, Napoli
2/25 News gallerie e istituzioni Italia ed estero a cura di Lisa D’Emidio e Paolo Spadano Arte Fiera Bologna / Art City Oriente/Occidente: Neo arcaismi Intervista a Marco Scotini (a cura di Sara Marchesi pag.16/17)
recensioni & documentazione
Ugo Mulas [46]
Nuove proposte al MAXXI (Ilaria Piccioni pag.26/29) Joan Jonas (Marilena Di Tursi pag. 30) David Linch (Francesca Cammarata pag. 31) Daido Moriyama (Paolo Ferri pag.32/33) Lucio Amelio (Raffaella Barbato pag.34/37) Giuseppe Panza di Biumo (Marta Paolini pag.38/41) Alighiero&Boetti (Simona Olivieri pag.42/45) Ugo Mulas (Stefano Taccone pag.46/49) Hermann Nitsch (Anna Imponente pag.50/51) Martin Parr (Stefano Taccone pag.52/53) Salviamo la pelle (doc.a cura di Lucia Spadano pag.54/55) Bianco-Valente (intervista a cura di Anna Saba Didonato pag.56) Rosa Barba (doc.a cura di Lucia Spadano pag.57) Nakis Panayotidis (Viana Conti pag.58) Mendini/Caberlon (dal testo di Marco Meneguzzo pag.59) Claudio Costa (Viana Conti pag.60/61) Franco Guerzoni (Francesca Cammarata pag.62/63) Lodola & Mathis (Viana Conti pag.64) Vania Comoretti (Viana Conti pag.65) Oltre la siepe (Ilaria Piccioni pag.65) San Sebastiano nel contemporaneo (Gabriele Perretta pag.66/67) Alfredo Serri (Lucia Spadano pag.68/69) Inventari (Matteo Bianchi pag.70) Michelangelo Galliani (doc.a cura di Lucia Spadano pag.71) Gianfranco Baruchello (Gianmarco Corradi pag.72) Rodolfo Aricò (Gianmarco Corradi pag. 73) Juxtapoz italiano (doc.a cura di Lucia Spadano pag.74) Collezione Esposito (doc. a cura di Lucia Spadano pag.75) Fernando De Filippi (doc. a cura di Lucia Spadano pag.76/77) Paolo Masi (Francesca Cammarata pag.78/79) Rita Vitali Rosati (pag.80/81) Paolo Scirpa (pag.82) Mariagrazia Pontorno (Giuliana Benassi pag.83) Vito Bucciarelli (doc.a cura di Lucia Spadano) Installazioni sonore al Maxxi (Paolo Aita pag.84) Loris Cecchini - Luigi Presicce (Ilaria Piccioni pag.85) Nicola Liberatore (doc.a cura di Lucia Spadano pag.86) Aurelio Amendola (Simona Caramia pag.87) Eppur si muove (Simona Caramia pag.87) Enrico Minguzzi (MariaLetizia Paiato pag.87) Centenari-Novello (Stefano Taccone pag.88) Jan Fabre (Paolo Aita pag.88)
Claudio Costa [60]
news e tematiche espositive su www.rivistasegno.eu
26/88 Attività espositive /
Collezione Esposito [75]
89/98 Documentazione Mostre in breve - Convegni - Libri e Interviste
Frieze Highlights (Piero Tomassoni pag.90) Arturo Schwarz (intervista a cura di Simona Olivieri pag.92-93) A tua insaputa: Un libro dedicato a Paola Turci (Ester Bonsante pag.94/97) Antonio Marchetti. Disegno dal vero (Virginia Cardi pag.98)
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>news istituzioni e gallerie< VENEZIA
56 Esposizione IntERNAZIONAle d’Arte a
ffidato l’incarico di curare, dal 9 magA gio al 22 settembre, la 56. Esposizione Internazionale d’Arte al critico, giorna-
lista e scrittore nigeriano Okwui Enzewor (dal 2011 Direttore della Haus der Kunst di Monaco di Baviera), il Presidente del Cda della Biennale Paolo Baratta ha dichiarato: “Ci rivolgiamo, per la prossima edizione, a una persona che ha già alle spalle numerose esperienze, con un vasto bagaglio di attività e studi rivolti ai molteplici temi relativi all’arte, e che si è confrontato criticamente col complesso fenomeno della globalizzazione, a fronte delle espressioni provenienti da radici locali. La personale esperienza di Enwezor è un punto di riferimento decisivo per l’ampiezza del raggio geografico di analisi, per la profondità temporale degli sviluppi recenti nel mondo dell’arte, per la variegata ricchezza del presente.”. Okwui Enwezor, che ha scelto come titolo e tema All the World’s Futures, afferma: “Nessuna manifestazione o mostra d’arte contemporanea è esistita in maniera
continuativa, al centro di così tanti cambiamenti storici nel campo dell’arte, della politica, della tecnologia e dell’economia come la Biennale di Venezia. La Biennale è il luogo ideale per esplorare tutti questi campi dialettici di riferimento, e la stessa istituzione Biennale è fonte di ispirazione per la progettazione della Mostra.” – aggiungendo in merito all’esposizione – “Al posto di un unico tema onnicomprensivo, All the World’s Futures è permeato da uno strato di Filtri sovrapposti, intesi come una costellazione di parametri che circoscrivono le molteplici idee che verranno trattate per immaginare e realizzare una diversità di pratiche. La 56. Esposizione utilizzerà come Filtro la traiettoria storica che la Biennale stessa ha percorso durante i suoi 120 anni di vita, un Filtro attraverso il quale riflettere sull’attuale stato delle cose e sull’ apparenza delle cose.”. L’incarico di curare il Padiglione Italia è stato affidato a Vincenzo Trione, Docente di storia dell’arte contemporanea e nuovi media all’università IULM di Milano, la cui proposta dal titolo Codice Italia è stata prescelta tra un’ampia rosa di candidature dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali. Giungono, inoltre, le prime notizie sui padiglioni nazionali: l’Austria sarà rappresentata da Heimo Zobernig, mentre il Belgio propone l’opera di Vincent Meessen, unitamente ad alcuni ospiti internazionali, in un’esposizione dal titolo Personnes et les autres, focalizzata non sul passato coloniale che unisce Belgio e Congo, ma sui fecondi risvolti culturali, la modernità e le interrelazioni con i radicalismi artistici. L’Australia si affida a Fiona Hall, la cui partecipazione sarà curata da Linda Michael. La Russia presenta, invece, la pittura e le installazioni di Irina Nakhova, attiva tra Russia e Stati Uniti e membro del gruppo spontaneo Moscow Conceptual School.
ARGENTINA/CILE
Bienal del Fin del Mundo orte della partecipazione di oltre 140 F artisti provenienti da 35 nazioni, la IV edizione della Bienal del Fin del Mundo,
dal titolo Contrasts & Utopias, si impernia sulle tematiche riguardanti la cultura, l’ambiente e l’ecologia in ossequio al motto “pensare, alla fine del mondo, quale altro mondo è possibile”, e inscrivendosi nel progetto di ancor più ampio respiro Polo Australe per delle Arti, le Scienze, il Turismo e l’Ecologia. In questo contesto, a Mar del Plata (fino al 28 febbraio) e Ushuaia (dal 7 al 28 febbraio) in Argentina, Valparaiso (dal 31 gennaio al 31 marzo) e Punta Arenas (dal 3 febbraio al 31 marzo) in Cile, l’Italia gioca il ruolo di ospite d’onore proponendo una serie di progetti speciali sviluppati tra il nostro paese e il Sud America. La mostra Italian Perspectives raccoglie lavori di personalità estremamente eterogenee: Matteo Basilè, Ivan Berlanfante, Marco Bolognesi, Anita Calà, Francesco Candeloro, Daniele Cestari, Teresa Emanuele, Stefania Fabrizi, Angelo Marinelli, Fabio Mauri, Sebastiano Mauri, Ilaria Morganti, Fabrizio Passarella, Fabio Pennacchia, Daniela Perego, Alessandro Scarabello, Marinella Senatore e Marco Zanin. Vittoria Blasi cura At the Confines of the Sky I Placed the Gifts of White, progetto focalizzato sull’importanza delle possibili relazioni da stringere nel “transumanesimo” socio-storico del nostro tempo, con opere di: Rossella Piccinno e Fiorella 4 - segno 251 | GENNAIO/FEBBRAIO 2015
Filippo Centenari, Millions of Colors, courtesy l’artista
Rizzo, Carlo Bernardini, Valentina Colella, Giulio De Mitri, Franco Ionda, Emanuela Lena, Daniela Monaci, Cristian Vitale (Italia), Amrit Chusuwan (Tailandia), Isabelle Fordin (Francia), Soon Yul Kang (Corea), Ana Rewakowicz (Canada), Jill Rock (UK), Toshihiko Kato (Giappone). Electronic Visions, a cura di Alessandro Demma, è uno spazio critico dedicato alla video arte con lavori di: AfterAll, Filippo Centenari, Paolo Grassino, Paolo Leonardo, Eleonora Manc, Moio & Sivelli. Alla performance è dedicato Vision Gymnastic, a cura di Paolo Angelosanto, con Opiemme, Eleonora Chiesa e Mauro Romito. Diversi i progetti espositivi di marca tricolore. Borders, Formal and Conceptual Ruptures, curato da Micol Di Veroli, è una riflessione sul concetto di confine e sui conflitti che esso genera; The Rhythm of Art Lies Somewhere in Between, di Fortunata Calabrò, esplora il concetto di extraterritorialità e la fragilità dell’esistenza; Comics, What a Passion!, è dedicata ai maestri del fumetto italiano dagli anni ’30 a oggi,
Maria Iorio e Raphaël Cuomo i vincitori della decima edizione del Premio Furla
milano
Premio Furla ono Maria Iorio e Raphaël Cuomo S i vincitori della decima edizione del Premio Furla, che quest’anno ha avuto
come madrina Vanessa Beecroft e per titolo The Nude Prize. Secondo la giuria “Il lavoro prescelto crea un ponte tra la storia e le istanze del presente più rilevanti in Europa e nel mondo. Esplora questioni come la migrazione (immigrazione/emigrazione), le pratiche d’archivio nei musei, la memoria e la costruzione culturale di questi temi, controbilanciando il modo in cui sono normalmente trattati nella società dei mass media e introducendo nuove prospettive.”. Fitto il programma di impegni per il duo svizzero: innanzitutto, assieme ai vincitori delle nove edizioni precedenti parteciperanno, dal 5 marzo al 12 aprile, alla mostra retrospettiva dedicata al Premio Furla che si terrà a Palazzo Reale; il loro lavoro sarà presentato, successivamente, al pubblico in occasione di Miart, la Fiera Internazionale d’Arte Contemporanea, dal 9 al 12 aprile; lo stesso, infine, avverrà alla Fondazione Querini Stampalia, nel mese di maggio, in concomitanza con la 56. Biennale di Arti Visive di Venezia. a cura di Maurizio Scudero; Tibet Pavilion di Ruggero Maggi; Mar del Plata’s Contemporary Art di Loredana Manca, ruota attorno al concetto chiave di integrazione. Al di là delle proposte italiane, molte sono le occasioni internazionali, tra le quali: l’esposizione Neither Drums nor Tambourines!, a cura di Rafael Raddi, rompe attraverso le opere degli artisti brasiliani Elisa Bracher, Cadu, Renato Dib, Renata Padovan, Susana Quiroga, Ana Ruas, Carlos Emilio de Sá e Silva e del tedesco Haralampi G. Oroschakoff i modelli sistematici, nel tentativo di trasformare la “pura verità dell’infinito” allorché il proposito sia di raggiungere a toccare l’anima delle cose. Utopia As a Stage and As a Legend propone, a cura di Yin Rong, lavori video di Qiu Anxiong, Chen Qiulin, Utopia Group
>news istituzioni e gallerie< Napoli
Rewind on la curatela di Angela Tecce, a CaC stel Sant’Elmo, Rewind. Arte a Napoli 1980-1990, mostra dedicata alla nuova
generazione di artisti napoletani attiva negli anni Ottanta e a tutti coloro che in quel decennio hanno propiziato una svolta radicale del linguaggio figurativo che ha fatto parlare di “fine dell’avanguardia”. Circa cento le opere per proporre una riflessione e ricostruire, attraverso affondi tematici e focus specifici, la complessa e ampia storia artistica a Napoli negli anni Ottanta del Novecento. Opere, tra gli altri di: Carlo Alfano, Mimmo Paladino, Luigi Mainolfi, Nino Longobardi, Ernesto Tafafiore, Francesco Clemente. La scena partenopea, vivacissima, ha fatto della città un crocevia per i più interessanti nomi dell’arte, in mostra a descrivere adeguatamente il contesto culturale dell’epoca. Tra i non napoletani presenti Gino De Dominicis, Alberto Burri, Jean Michel Alberola, Joseph Beuys a Hermann Nitsch, Sol LeWitt, James Brown, Ronnie Cutrone, Kenny Scharf, Luigi Ontani. Fino all’8 febbraio.
Blow Up l Museo Pignatelli ospita Blow up. FotoIcostituisce grafia a Napoli 1980-1990, mostra che l’occasione per il progetto Villa
Pignatelli-Casa della fotografia di rileggere il contributo che il capoluogo campano ha dato alla cultura fotografica italiana e internazionale. L’esposizione presenta 140 fotografie, frutto di interventi fotografici di artisti italiani e stranieri presenti a Napoli nel corso degli ’80, accostando al reportage nuove modalità narrative e di ricerca artistica. Ai maestri invitati nei primissimi anni ’80 per un ciclo di mostre curate da Cesare De Seta, quali Gabriele Basilico,
(Deng Dafei & He Hai), Wang Xieda dedicata al drago, creatura mitica nel folklore cinese. “Simple Rigors” - The Presence of Arte Povera in Current Brazilian Art presenta lavori di Marcelo Cidade, Maxim Malhado e Marcos Chaves, artisti che operano con materiali ordinari e sono influenzati dalla cultura popolare, a cura di Daniel Rangel. La Bienniale rende, inoltre, omaggio a quattro padri dell’arte contemporanea argentina: León Ferrari, Eduardo Pla, Rogelio Polesello e Clorindo Testa.
MILANO
Miart 2015 a fiera internazionale d’arte moderna e L contemporanea di Milano giunge alla sua XX edizione. Diretta per il terzo anno
da Vincenzo de Bellis, continua l’opera di rinnovamento del format e dell’incremento della qualità delle proposte e delle gallerie partecipanti. Di peso i nuovi ingressi nel comitato di selezione: Annette Hofmann (Lisson Gallery, Londra-Milano-New York), Olivier Babin (CLEARING, New York-Bruxelles) e, per la sezione Object, Patrizia Tenti (Erastudio & Apartment-Gallery, Milano). Novità anche nel team di curatori per le sezioni speciali, con l’ingresso di Dan Byers (Modern and Contemporary Art, Carnegie Museum of Art, Pittsburgh), Ruba Katrib (Sculpture Center, New York) e Isabelle Valembras (Design Consultant, Milano-Parigi). Interessante novità è la prima edizione del Premio Herno, frutto della collaborazione tra miart e Herno S.p.A., assegnato allo stand con il miglior progetto espositivo. Il riconoscimento è pensato come modo per dare nuovo valore
Arnaud Claas, Mario Cresci, Franco Fontana, Joan Fontcuberta, Lee Friedlander, Luigi Ghirri, Guido Guidi, Claude Nori, Charles Traub, si affiancano grazie al lavoro delle gallerie private locali i grandi nomi internazionali Clegg & Guttmann, Andreas Gursky, Robert Mapplethorpe, Helmut Newton, Thomas Ruff, Cindy Sherman e Thomas Struth. Fino all’8 febbraio.
roma
6 adei nostri Fondazione Pastificio Cerere presenL ta, da febbraio 2015 a marzo 2016, 6 dei nostri, ciclo espositivo in sei appunta-
menti, concepito in occasione dei suoi 10 anni di attività e dei 110 anni dalla costruzione del Pastificio Cerere. L’iniziativa, a cura del direttore artistico della Fondazione Marcello Smarrelli, celebrare la ricchezza del patrimonio culturale di questo luogo attraverso il lavoro degli artisti che lo hanno reso celebre, quelli cioè del “Gruppo di San Lorenzo”: Bruno Ceccobelli, Gianni Dessì, Giuseppe Gallo, Nunzio, Pizzi Cannella, Marco Tirelli. A partire dagli anni Settanta, la fabbrica dismessa è stata spontaneamente ripopolata dagli artisti che hanno deciso di stabilirvi i loro studi. Vi sono state condivise (e si continua tuttora), vite ed esperienze artistiche di diversa natura.Agli storici residenti, tutti ancora in piena attività, non è stato indicato alcun concept preciso, ma si è lasciata la possibilità presentare un percorso all’interno della loro articolata ricerca. Le mostre saranno viaggi nell’immaginario, nelle fonti di ispirazione e nell’universo di ognuno di loro, intrecciati ai racconti e alle testimonianze degli anni vissuti nell’ex Pastificio in rapporto con la città, con gli amici, con i collezionisti e i galleristi e tutti quelli che hanno avuto un ruolo significativo nel tessere le trame di queste storie.
all’exhibition making, ponendo in risalto la ricerca di qualità e il saper fare. La giuria è composta da Chus Martinez (Direttore dell’Institute of Art della FHNW Academy of Art and Design di Basilea), Marco Scotini (Direttore del Dipartimento di Arti Visive, Performative e Multimediali alla NABA di Milano) e Ute Meta Bauer (Founding Director del NTU Centre for Contemporary Art di Singapore). “La collaborazione tra miart e Herno – dichiara il Presidente di Fiera Milano, Michele Perini - va ad arricchire il bouquet di premi e fondi acquisizione realizzati in collaborazione con partner istituzionali di prestigio; si tratta di un premio che sarà in grado di catalizzare ulteriormente l’attenzione e l’interesse del settore verso miart 2015.”. Il Premio Herno va, quindi, ad affiancarsi al Fondo di Acquisizione Giampiero Cantoni di Fondazione Fiera Milano (giuria internazionale composta da importanti curatori ed esperti d’arte contemporanea); al Premio Emergent, destinato alla galleria della sezione Emergent più meritevole per la promozione di giovani artisti; al Premio Rotary Club Milano Brera per l’arte contemporanea e i giovani artisti, che nel 2015 giunge alla settima edizione, dedicato all’acquisizione di un’opera di un giovane artista per il costituendo MAC, Museo d’Arte Contemporanea di Milano. Dal 10 al 12 aprile.
Bruxelles
Art Brussels a 33ma edizione di Art Brussels, previL sta tra il 25 e il 27 aprile, vedrà la partecipazione complessiva di 190 gallerie,
provenienti da 33 paesi. Confermatissime le sezioni principali: Prime, con 88 espo-
Torino
P. Calzolari ell’ambito del ciclo di incontri e moN stre a cura di Elena Volpato Videoteca GAM, il primo appuntamento del 2015 ha
come protagonista Pier Paolo Calzolari che ripercorrerà lo sviluppo del suo ciclo di opere Day after Day a Family Life, da cui sono tratti i lavori Cucù (1972/’73), Aeroplano (1972) e Lettere di Tiziano (1974), provenienti dall’Archivio della Fondazione Calzolari, proiettati alla GAM fino al 22 marzo, unitamente a un quarto filmato, tratto da Identifications (1970), nato dalla collaborazione tra Calzolari e Gerry Schum.
Giuseppe Gallo, Senza Titolo, 2012 encausto su tavola, cm.187x252 Nunzio, Senza Titolo, 2012, combustione su legno
sitori che presentano lavori di artisti ben conosciuti; Young, con 88 gallerie che propongono artisti emergenti; Solo, spazio per la presentazione di 30 progetti personali. La grande novità di quest’anno è la nascita della sezione Discovery, alla quale parteciperanno 14 gallerie in rappresentanza di artisti poco noti o molto giovani, selezionate da un comitato di curatori internazionali, capeggiato da Katerina Gregos, Direttore Artistico di Art Brussels, e composto da Daria de Beauvais (Palais de Tokyo, Parigi), Chris Fitzpatrick (Objectif Exhibitions, Anversa, e Kunstverein, Monaco di Baviera), Nathalie Hartjes (Nieuwe Vide, Haarlem, De Appel Arts Centre, Amsterdam) e Johan Holten (Staatliche Kunsthalle, Baden-Baden).
LOS ANGELES
LA20 gallerie ArtdaShow 22 paesi, oltre 20.000 le 1 opere in esposizione all’edizione 2015 di LA Art Show per celebrare i venti anni dalla nascita dell’evento. Le Sezioni vanno da Littletopia, che presenta una selezione di gallerie a cura di Noah Antieau, a Works on Paper e Project Spaces. Di notevole interesse il progetto espositivo speciale Past Forward: Contemporary Art from the Emirates, proposto dal Guest Country, gli Emirati Arabi, che intendono esaltare il proprio ricchissimo retaggio culturale e la grande spinta propulsiva che le arti contemporanee hanno avuto nel paese negli ultimi decenni. Dal 14 al 18 gennaio. GENNAIO/FEBBRAIO 2015 | 251 segno - 5
25 FEB / 1 MAR 2015
INTERNATIONAL CONTEMPORARY ART FAIR /
ORGANISED BY
www.arco.ifema.es
GALLERIES /
Updated December 29, 2014.
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GENERAL PROGRAMME
#ARCOCOLOMBIA
OPENING
SOLO PROJECTS
>news istituzioni e gallerie< MADRID
Molto atteso il Global Art Forum, co-diretto da Turi Munthe, Sultan Sooud Al Qassemi e Shumon Basarche, che quest’anno avrà come tema la tecnologia e il suo impatto sul mondo dell’arte e della cultura, sviscerando il “mito del progresso tecnologico”.
più di 70 proposte dedicate a personali o bipersonali. Il Programa General vedrà impegnate, dal 25 febbraio al 1 marzo, 160 gallerie, una proposta ricca e variegata a cui vanno aggiunte le 10 gallerie di Arco Colombia, le 22 di Opening e le 24 di SoloProjects a rafforzare ancor più il ruolo di una delle fiere più interessanti dell’anno. Tra gli artisti più attesi per esposizioni personali troviamo Esther Ferrer, Fernando Bryce, Javier Téllez, Jimmie Durham, Leonor Antunes, Lotty Rosenfeld, Mariana Castillo Deball, Nicolás Robbio e Pavel Büchler. Nella sezione dedicata alla Colombia David Peña, Icaro Zorbar, Marcela Cárdenas e Ricardo León. Artisti come Anna Maria Maiolino, Armando Andrade Tudela, Jaime Davidovich o Sergio Zevallos faranno parte del programma SoloProjects curato da Irene Hofmann, EE.UU, Lucía Sanromán, Messico, Miguel A. López, Perú, Kiki Mazzucchelli, Brasile, ed Emiliano Valdés, Guatemala.
NEW YORK
ARCOmadrid ’edizione 2015 di ARCOmadrid conferL ma la forte impronta dedicata all’indagine dei progetti di singoli artisti, con ben
DUBAI
Art Dubai a nona edizione di Art Dubai, in proL gramma tra il 18 e il 21 marzo, vedrà la partecipazione di 91 selezionatissimi
espositori provenienti da 40 paesi, suddivisi nelle sezioni Modern, Contemporary e Marker. Fa da corollario un fitto programma che include progetti speciali, residenze d’artista, iniziative educative, l’esposizione speciale per i vincitori de The Abraaj Group Art Prize e il Global Art Forum. Tra le gallerie che tornano ad esporre, troviamo Athr Gallery (Jeddah), Experimenter (Kolkata), Galerie Chantal Crousel (Parigi), Galerie Krinzinger (Vienna), The Third Line (Dubai), Sfeir-Semler (Amburgo / Beirut), Galleria Continua (San Gimignano/Les Moulins/Beijing), Victoria Miro (Londra), Galleria Franco Noero (Torino), Gallery SKE (Nuova Delhi/Bangalore), Green Art Gallery (Dubai), Grey Noise (Dubai), Carbon 12 (Dubai) e Galerie Rodolphe Janssen (Bruxelles). Per la sezione Marker, programma curatoriale che mette a fuoco ogni anno un particolare tema o un’espressione geografica, tocca in questa edizione all’America Latina. La curatrice Luiza Teixeira vuole rappresentare l’ampio respiro della scena artistica sudamericana, spaziando tra perosnalità e modalità espressive molto diverse tra loro: Tijuana e The State (Brasile ed Emirati Arabi), Videobrasil (Brasile), Maria Jose Arjona (Colombia), Marina Buendia (Brasile) e Maria Quiroga (Colombia). Art Dubai Commissions, programma curato da Lara Khaldi, proporrà lavori site-specific nello spazio fieristico e in quello cittadino, a opera di Jumana Emil Abboud, Maria Thereza Alves, Fari Bradley & Chris Weaver, Mehreen Murtaza e del collettivo Umashankar and the Earchaeologists.
Armory Show dizione numero diciassette per l’ArE mory Show, la kermesse newyorkese propone, tra il 5 e l’8 marzo, un’ampissi-
ma rosa di 197 espositori, oltre cento dei quali dedicati prettamente all’arte contemporanea. Sotto la direzione di Noah Horowitz, la lista degli espositori annovera importanti conferme come Blain | Southern (Londra, Berlino), Marianne Boesky Gallery (New York), Luciana Brito Galeria (Sao Paulo), James Cohan Gallery (New York, Shanghai), Massimo De Carlo (Milan, Londra), Sean Kelly (New York), Kavi Gupta (Chicago, Berlino), Galerie Peter Kilchmann (Zurich), Lehmann Maupin (New York, Hong Kong), Lisson Gallery (Londra, New York, Milano), Victoria Miro (Londra), Galleria Lorcan O’Neill (Roma), Galerie Thaddaeus Ropac (Parigi, Salzburg), Jack Shainman Gallery (New York), Sies + Höke (Dusseldorf), Sprüth Magers (Berlino, Londra, Los Angeles),David Zwirner (New York, Londra). Tra i nuovi partecipanti si segnalano gallerie quali The Breeder (Atene), Ben Brown Fine Arts (Londra, Hong Kong), Cherry and Martin (Los Angeles), Carl Freedman Gallery (London), Johann König (Berlin), Andrew Kreps Gallery (New York), Metro Pictures (New York), Monitor (Rome), Galerie Nordenhake (Berlino, Stoccolma), Regen Projects (Los Angeles), Galerie Micheline Szwajcer (Bruxelles), Rachel Uffner (New York) e Axel Vervoordt Gallery (Anversa, Hong Kong). A Omar Kholeif, curatore alla Whitechapel Gallery di Londra, è affidata la curatela della sezione Focus, che giunge al sesto anno di vita. Focus MENAM (Middle East, North Africa, and the Mediterranean) sarà presentato in collaborazione con Edge of Arabia (piattaforma culturale non-profit che lavora per connettere artisti e idee tra il Medio Oriente e l’Occidente) ed esaminerà, attraverso esposizioni personali, progetti site-specific e simposi, la dinamica scena culturale e artistica di una regione del mondo che, nell’ultimo decennio, ha accresciuto sempre più la propria forza attrattiva e propulsiva. Sempre nell’ambito del MENAM, la scelta del Commissioned Artist, Lawrence Abu Hamdan, che darà all’intera fiera una identità visiva. Nato in Giordania e attivo tra Beirut e Londra, Abu Hamdan proporrà uno speciale on-site project e un’opera in edizione limitata i cui profitti andranno a beneficiare il MoMA.
Shanghai
Shanghai Biennale ituata all’interno della colossale S Power Station of Art (42.000 metri quadrati di spazio espositivo), la X edizione della Shanghai Biennale ha come titolo Social Factory ed è curata da un team internazionale composto da Anselm Franke, Freya
Chou, Cosmin Costinas e Liu Xiao, con Hila Peleg e Zhu Ye a coordinare il calendario di proiezioni video e gli eventi collaterali. Il programma culturale della kermesse cinese si interroga su cosa caratterizzi la produzione del “sociale” e su cosa costituisca i “fatti sociali”. Ampio spazio, quindi, alle riflessioni sulla relazione tra socialità e fiction, sulla capacità umana di creare relazioni, provare affetto e imporre un’educazione. Tra gli artisti più attesi: Ablinger, Abu Hamdan, Amorales, Arceneaux, Art & Language, Avikainen, Beck, Beloufa, Wang Bing, KP Brehmer, Bussmann, CAMP (Shaina Anand e Ashok Sukumaran), Castaing-Taylor and Paravel, Chanarin & Broomberg, Yin-Ju Chen, Chen Chieh-jen, Chihying, Chopel, Hou Chun-Ming, Coburn, Cornell, Dobai, Domanovic, Farocki, Fahrenholz, Friedl, Gao Shiqiang, Zheng Guogu, Hajas, He Xiangyu, Ho Tzu Nyen, Hu Liu, Huang Ran, Huang Wenhai, Huang Mingchuan, Jacobs, Ji Yunfei, Kaul, Ko and Ryusuke, Jutta Koether, Lai, Lawler, Li Xiaofei, Linke, Liu Ding, Jen Liu, Liu Chuang, Lockhart, Narimane Mar, Martin, Melis, Myre, Pak Sheung Chuen, de Rooij, J.P Sniadecki and Cohn, Chang Saetang, Sadr Haghighian / Schwarzer / Williams, Song Ta, Steinbrecher, Sun Xun, Sun Yat-sen Project & Yuan Wenshan, Ten Miles Inn / Crook & Crook, Treister, Vatamanu e Tudor, Vidokle, Wang Ziyue, Willats, Ming Wong. Fino al 31 marzo.
ROTTERDAM
Art Rotterdam ll’interno della Van Nellefabriek, la A fiera Art Rotterdam raggiunge quota sedici edizioni e lo fa confermando le sezioni principali, la Main Section e New Art Section, Projections (dedicata alla video arte) e il Mondriaan Fund (spazio aperto ai talenti più giovani). La novità risiede in Intersections, palcoscenico per iniziative e progetti specifici che raccoglie installazioni, performance e eventi interattivi. Dal 5 all’8 febbraio.
SAN PAOLO
SP-Arte 2015 orna, dal 9 al 12 aprile, con la sua T XI edizione all’interno del padiglione Ciccillo Matarazzo (disegnato da Oscar
Niemeyer), SP-Arte. Oltre 140 le gallerie a esporre, 112 delle quali nel Main Sector. Showcase, al suo terzo anno, mette in risalto il lavoro di artisti emergenti, mentre la sezione Solo, curata da María Inés Rodriguéz e Rodrigo Moura, si dedica a esposizioni personali. Le novità del 2015 sono Open Plan, sezione incentrata sulle installazioni, a cura di Jacopo Crivelli Visconti (Cuenca Biennial) e Performance, coordinata da Cauê Alves, curatore del padiglione brasiliano alla 56. Biennale di Venezia, e a cura di Marcos Galon. Tra gli espositori più attesi, gallerie come Gagosian Gallery, David Zwirner, Lisson Gallery, Marian Goodman Gallery, Mendes Wood, Luisa Strina e Vermelho.
Ming Wong, Windows On The World (Part 2), 2014, still da video, installazione, courtesy Vitamin Creative Space, Beijing
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art brussels Sat 25 â&#x20AC;&#x201C; Mon 27 April Vernissage Fri 24 April Brussels Expo
Photo: Nick Hannes
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>news istituzioni e gallerie< FRIBURGO
Nakache / Satterwhite Barricades of Life
La Fri Art Kunsthalle ospita, a cura di Balthazar Lovay, la prima grande monografica di Hayan Kam Nakache. In mostra ampio corpus di disegni di piccolo formato realizzati nell’ultimo quinquennio. La video room è dedicata al lavoro di Jacolby Satterwhite. Fri Art ha, inoltre, invitato lo spazio d’arte indipendente UP STATE (diretto da un insieme di artisti piuttosto eterogeneo), a presentare i propri lavori. Il risultato è la mostra Barricades of Life, a Pool Outside che racchiude opere di Marc Hunziker, Chantal Kaufmann, Rafal Skoczek, Mia Špindler e Urban Zellweger.
notevole influenza creativa esercitata dagli anni ’60, non è mai stato pienamente “accettato” nel novero degli artisti mainstream.
LISBONA
Rui Sanches
Alla Fundação Leal Rios, Nada é Imutável, approccio alla ricerca scultorea sviluppata da Rui Sanches nell’arco di trent’anni, con particolare enfasi sulle modalità attraverso le quali l’artista crea un dialogo tra i vari elementi delle sue composizioni. Il principale corpus di opere in mostra è composto da lavori in compensato o multistrato, materiali che grazie alla sovrapposizione di svariati pannelli, contribuiscono alla tridimensionalità del risultato finale.
GRAZ
Todo por la Praxis, Infopoint a Can Batlló courtesy Fabra i Coats, Barcellona
BARCELLONA
Futurs Abandonats
Al Fabra i Coats - Centre d’art contemporani de Barcelona, Futurs Abandonats, rassegna a cura di Martí Peran volta a tracciare una storia dell’idea di futuro, concentrandosi sulla fallacia di tale nozione, poiché ogni qual volta si sia tentato di lanciare uno sguardo al domani, si è irrimediabilmente andati incontro a categoriche smentite. Gli artisti che hanno tentato di analizzare la “dittatura del presente” e immaginare futuri alternativi sono Xavier Arenós, Anna Artaker / Meike S. Gleim, Joan Bennàssar Cerdà, Jordi Colomer, Eva Fàbregas, Claire Fontaine, Gustav Klucis, Jordi Mitjà, Dani Montlleó, Société Réaliste, Rirkrit Tiravanija, Todo por la Praxis e Oriol Vilanova.
BASILEA
Paul Gauguin
Si preannuncia come uno dei maggiori eventi culturali europei del 2015, la grande esposizione che la Fondation Beyeler dedica, dall’8 febbraio al 28 giugno, a Paul Gauguin. L’opera di uno tra i più grandi e affascinanti artisti di sempre è compendiata in cinquanta capolavori, riuniti grazie alla disponibilità delle più importanti collezioni museali e private. Dipinti divenuti icone dell’arte moderna, veicolo di una eccezionale armonia tra natura e cultura, misticismo ed erotismo, sogno e realtà, ci raccontano di una ricerca artistica turbolenta a cavallo tra mondi culturali diversi e segnata da passione e avventura.
BERLINO
Clare Woods
Timischl / Tsilidis
Alla Künstlerhaus, Halle für Kunst & Medien, They were treating me like an object. As if I were some sextoy or shit. I don’t wanna see them again., esposizione delle più recenti installazioni scultoree del giovane artista austriaco Philipp Timischl. In occasione della mostra, pubblicato anche un libro d’artista. Nello spazio Raum D, Image Pack, mostra fotografica di Christina Tsilidis, i cui scatti creano un’analogia tra i soggetti e i mezzi e materiali utilizzati per rielaborarli fotograficamente.
KARLSRUHE
Gianfranco Baruchello
ZKM | Museum of Contemporary Art ha presentato il lavoro dell’artista multimediale Gianfranco Baruchello. L’esposizione Certain Ideas ha spaziato su oltre mezzo secolo di produzione del maestro livornese, il quale nonostante la
La galleria Esther Schipper ha proposto l’esposizione quasi-objects, di Philippe Parreno, artista francese il cui lavoro si compone di oggetti la cui esistenza è inseparabile dalla relazione col contesto nel quale sono esposti, concetto speculativo che tenta la ridefinizione del rapporto tra oggetto e soggetto.
Tate Liverpool ha proposto Transmitting Andy Warhol, ricognizione sul lavoro di Andy Warhol, il più influente e controverso artista del XX secolo attraverso oltre 100 emblematici lavori. L’intento: gettare nuova luce sulla profondità dei suoi processi artistici, ma anche sulla sua filosofia e le implicazioni sociali politiche ed economiche della sua figura.
londra
Gianfranco Baruchello, Deserter from the Légion, 1974, tecnica mista, legno, vetro, cm.50×70×16, courtesy Fondazione Baruchello, Roma
Prima personale britannica per l’artista berlinese Jens Wolf. Alla Ronchini Gallery, tra il 13 marzo e il 25 aprile, in mostra i suoi lavori più recenti, dipinti geometrici e una pittura murale site-specific. I lavori di Wolf esplorano i concetti di colore, forma e piattezza; contengono deliberatamente imperfezioni, in aperto contrasto con i referenti artistici da cui derivano e ai quali rimandano, Josef Albers e Frank Stella.
MONACO DI BAVIERA
Jan Fabre
Paco Knöller
Philippe Parreno
LIVERPOOL
Transmitting Andy Warhol
Jens Wolf
Alla Buchmann Galerie sono stati presentati in mostra i lavori più recenti di Clare Woods. Nell’esposizione Hanging, Hollow and Holes, l’artista britannica si è destreggiata attraverso tre differenti declinazioni del linguaggio pittorico: il ritratto, il paesaggio e la natura morta, sempre prendendo le mosse da materiale fotografico in bianco e nero di svariata derivazione. I chiari riferimenti alla figurazione scultorea sono il metodo attraverso cui creare una sorta di “doppia astrazione”. Lo spazio Buchmann Box ha ospitato, invece, i lavori di Raffi Kalenderian, focalizzando l’attenzione sui disegni dell’artista di Los Angeles. Galerie Thomas Schulte presenta la prima ricognizione dell’opera grafica di Paco Knöller. La mostra, dal titolo mit der Linie ziehen. 19892014 è divisa in sette capitoli. Fino al 7 marzo.
Rui Sanches, O Rei e a Rainha, 1988, courtesy Leal Rios Foundation, Lisbona. Foto João Biscainho
Clare Woods, The Wrong Box, 2014, olio su alluminio, cm.100x99, courtesy Buchmann Galerie, Berlino Paco Knoller courtesy Galerie Thomas Schulte, Berlino
La Galerie Klüser propone Do we feel with our brain and think with our heart?, esposizione di Jan Fabre. Le opere in mostra sono il frutto di un lungo e intenso dialogo con il neuroscienziato Giacomo Rizzolatti, scopritore dei neuroni specchio. Un lavoro molto denso che ha il suo fulcro in un film di quattordici minuti in cui Fabre e Rizzolatti esplorano gli effetti e i limiti di neuroni anche sulla auto-sperimentazione. Il secondo spazio espositivo della galleria ospita Lineare Funktionen di Constantin Luser, in cui sono esposti disegni e collages dell’artista austriaco, strutture complesse, multi-layer, caratterizzate da un preciso e meticoloso complesso di linee, in particolare l’ultima serie di opere che comprende delicate sculture di filo. Fino al 28 febbraio. Jan Fabre, Laughter and Bread Mirror, 2014, silicone, pigmenti, era, filo metallico, vernice, legno, ragno, cm.33,7x50x45, courtesy Galerie Klüser, Monaco di Baviera
Philippe Parreno, Disklavier Piano, 2013, courtesy l’artista ed Esther Schipper, Berlino. Foto Andrea Rossetti
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>news istituzioni e gallerie< NEW YORK
Matt Sheridan Smith
La sede newyorkese della Galleria kaufmann repetto ha presentato Cyclist. Fig.2 Ep.1 di Matt Sheridan Smith, esposizione in cui i lavori traggono spunto dalla storia del ciclista Ottavio Bottecchia, dai successi al Tour de France alla tragica e misteriosa morte. La storia narrata si è rarefatta fino a lasciare dietro di sé solo una scia, cristallizzata in segni, motivi, residui. L’artista, anziché combinare questi elementi, li accumula e ripete all’infinito dando vita alle dicotomie presenza/assenza, solido/liquido, realtà/ finzione, lasciando a quella tra immaginazione e ricordo una consistenza equiparabile a vari stadi di viscosità.
Loris Cecchini
Alla Leila Heller Gallery, personale di Loris Cecchini dal titolo Emotional Diagrams and Other Micrologies. L’artista Milanese, da anni operante a Berlino, ha proseguito la sua ricerca sulle qualità dello spazio in relazione alla natura, alla tecnologia e, ovviamente, all’arte. Componente fondante in questi lavori è l’elemento biologico, esplorato nella sua materialità e come pratica minimalista, partendo da studi ad acquerello o in 3D e, con piglio da scienziato, avanzando nell’esame delle caratteristiche più profonde degli elementi naturali.
Keith Sonnier
Alla Leo Castelli Gallery, Castelli Warehouse 1970/Castelli Gallery 2015, esposizione di Keith Sonnier che torna in galleria con le sue luci ultraviolette non per duplicare la mostra del 1970, ma per offrire una esperienza del tutto originale e ancorata al suo concept originale, investigando la maniera in cui è mutata a distanza di 45 anni la percezione di quei lavori. Fino al 28 marzo.
Erwin Olaf, Mimmo Rotella, Julian Schnabel, Hiroshi Sugimoto e Gérard Traquandi.
PRINCIPATO DI MONACO
Grisha Bruskin
Nel novero dell’anno dedicato a Montecarlo alla cultura russa, Marlborough Gallery ha proposto una personale del pittore e scultore Grisha Bruskin dal titolo H-Hour. In esposizione due importanti progetti: H-Hour, il cui debutto fu nel 2012 al Museo d’Arte Multimediale di Mosca, composto da 40 bronzi dipinti di bianco a esaminare il “mito del nemico” nelle sue diverse manifestazioni; Archaeologist’s Collection, corpus di sculture create tra il 2001 e il 2003 presentate come ritrovamenti archeologici e corredate da una serie di fotografie.
Cameron Gray, Coming and Going Mike Weiss Gallery, New York
VIENNA
Madoz / Haberpointner / Höller
Mario Mauroner Contemporary Art offre al pubblico The Hidden Face of Things di Chema Madoz. Le fotografie dell’artista spagnola non sono solo fatte per concedersi allo sguardo, ma soprattutto per stimolare una meditazione e invitare, in tutti i sensi, alla contemplazione. In contemporanea, nel nuovo spazio AAA della galleria i nuovi lavori in legno dell’artista austriaco Alfred Haberpointner, mentre il pianoterra è dedicato ai collage e alle “sculture cartacee” do Jochen Höller.
I Santillana
Presentata da Le Stanze del Vetro e dalla Fondazione Giorgio Cini, l’esposizione I Santillana al MAK costituisce la prima ricognizione austriaca sull’opera dei fratelli Alessandro Diaz de Santillana e Laura de Santillana. Gli artisti, che hanno scelto il vetro come medium, seguono strade molto personali: mentre Laura crea sculture che “consumano lo spazio” e figure antropomorfe, Alessandro Diaz lavora su oggetti da muro e specchi ciechi (dipinti su specchi neri).
Chema Madoz, Senza titolo, 1985, stampa fotografica, cm.60x50
Maurizio Nannucci
Alla Hofstätter Projekte, a cura di Edelbert Köb, Similarities & Differences, mostra di Maurizio Nannucci. I neon formano la spina dorsale dell’esposizione, definendo, interpretando e controllando lo spazio grazie alla loro materialità, che da ai concetti espressi una sostanza fisica, tangibile.
Gareth Long
Jeff-Koons, Hulk (Organ), 2004/2014 courtesy l’artista. Foto Silvia Neri
PARIGI
Jeff Koons
Al Centre Pompidou, prima grande retrospettiva europea dell’opera di Jeff Koons. L’esposizione, curata da Bernard Blistène e ideata in collaborazione con il Whitney Museum of American Art, è alla seconda tappa dopo New York la scorsa estate e proseguirà il suo percorso verso Bilbao l’estate prossima. Le trentacinquennale carriera di Koons è ripercorsa in circa 100 lavori, una storia artistica che inizia negli Anni Ottanta e prosegue ancora attraverso momenti creativi diversi, riflessioni, passioni, provocazioni. Il nucleo più cospicuo delle opere in mostra proviene dalla Fondation François Pinault di Venezia, ma i prestiti sono di provenienza mondiale e coprono praticamente tutte le principali serie dell’artista statunitense.
Et une autre vestira
Alla Ma Galerie Et une autre vestira, ricchissima esposizione che affronta le relazioni tra materia e forma. Nelle opere selezionate, le originali fattezze degli oggetti si dissolvono lasciando immutate le qualità dei materiali, proprio come scompare la sostanza a beneficio del sentimento artistico. Opere di Alighiero e Boetti, Cesar, Antoni Clave, Francesco Clemente, Corneille, Erro, Keith Haring, Yayoi Kusama, André Masson, François Morellet, Yoshitomo Nara, Edouard Odier,
Kidnappers Foil è il titolo di oltre 200 pellicole del filmaker Melton Baker, girate in tutti gli Stati Uniti tra la metà degli anni ’30 e i primi anni ’70, sempre uguali, eppure sempre differenti. La maggior parte di questi filmati sono andati perduti, ma 14 sono stati preservati e Gareth Long li ha proposti alla Kunsthalle Wien per la prima volta in assoluto. La proiezione simultanea, su più schermi affiancati ha consentito di indagare con lo sguardo l’interazione tra i vari elementi, di apprezzare costanti e varianti nel lavoro di Baker e, aspetto non marginale, usufruire di un intrigante documentazione estetica, sociale e tecnica degli States lungo un’ampia fetta del ‘900.
Alfred Haberpointner, W-Cris, 2014, legno di peccio, cm.200x200, courtesy MAM, Vienna
ZURIGO
Stéphane Kropf
La Galerie Andrea Caratsch propone, fino al 27 febbraio, una personale di Stéphane Kropf dal titolo Omnia Volvit. Tre sono, invece, le opportunità nella sede espositiva di St. Moritz: Olivier Mosset Julian Schnabel, Senza titolo (Shiva), 2008
Gareth Long, Kidnappers Foil. Childress, Texas version, 1936, filmato da Melton Barker, courtesy Texas Archive of the Moving Image, Austin
presenta The Kitchen Paintings; Rolf Sachs propone i suoi dipinti in Camera in Motion: from Chur to Tirano, esposizione organizzata in collaborazione con la galleria Von Bartha (Basilea, S-Charf), mentre Attilio Codognato è protagonista di The Art of Codognato.
WAkefieLd
Lynda Benglis
The Hepworth Wakefield presenta la prima esposizione in un contesto museale britannico del lavoro dell’artista greco-americana Lynda Benglis. Icona femminista, personaggio impostosi in un ambiente artistico prettamente maschile, la Benglis ha operato una revisione radicale della pratica pittorica e scultorea agendo con materiali come cera e latex, ma anche lavorando sull’autoritratto e confrontandosi con le politiche femministe. 50 le opere in mostra che coprono l’intero arco della sua carriera. Fino al 5 luglio. GENNAIO/FEBBRAIO 2015 | 251 segno - 11
>news istituzioni e gallerie< Bologna
Arte Fiera 2015 rte Fiera 2015 conferma il trend di rilancio e il ruolo di
A
completa manifestazione dell’arte moderna e contemporanea italiana, con la partnership ufficiale dell’Associazione Italiana delle Gallerie di Arte Moderna e Contemporanea. L’ambizione di Arte Fiera di voler essere vetrina della migliore arte italiana, trova in questa edizione conferma nella ricca partecipazione alla Main Section in cui i galleristi di casa nostra espongono più di 200 opere di artisti italiani contemporanei, protagonisti di quotazioni clamorosamente raggiunte sui mercati internazionali. Per il presidente di BolognaFiere Duccio Campagnoli, “i risultati premiano il format sul quale abbiamo reinvestito: una fiera curatoriale con un progetto di direzione artistica rivolto alla valorizzazione innanzitutto dell’arte italiana e delle gallerie italiane, ma sopratutto del ruolo del collezionismo.”. “Una tendenza già anticipata dalle precedenti edizioni - sottolinea Claudio Spadoni (direttore artistico della sezione arte moderna) - per realizzare non solo una esposizione, ma proposte di nuovi interessi di mercato e proposte per il collezionismo.”. Per Giorgio Verzotti (direttore artistico della sezione contemporanea) un nuovo aspetto qualificante della Fiera è quello della stretta relazione con i collezionisti, che con il prestito di loro opere hanno consentito di realizzare una mostra originale dedicata all’arte dei Paesi del Middle East. La Mostra, realizzata con le opere messe a disposizione da oltre 60 collezionisti, intitolata “Too early, too late”, è curata da Marco Scotini, responsabile anche del Focus East in Fiera, ed è ospitata fino al 12 aprile dalla Pinacoteca Nazionale di Bologna. Un’altra particolare attenzione è dedicata al rapporto tra gallerie e collezionismo in un nuovo spazio ai “Protagonisti”, cioè alle gallerie che hanno segnato una presenza determinante nel percorso dell’arte italiana, selezionate e proposte per quest’anno da un collezionista, Lorenzo Paini, e da un curatore, Marco Scotini. Completa il progetto curatoriale, il programma delle Arte Fiera Conversations, quest’anno coordinato dalla giornalista di Art Economy Riccarda Mandrini che presenta nove incontri, di grande rilievo internazionale, dedicati ai temi del mercato e dell’investimento pubblico e privato in arte, con particolare attenzione alle esperienze dei mercati emergenti di Asia e Medio Oriente. Ai talk parteciperanno: Patrizia Sandretto Re Rebaudengo (Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) e Nadia Brodbeck (Fondazione Brodbeck, Catania) per parlare del Comitato per le Fondazioni d’Arte Contemporanea: una nuova realtà nel panorama artistico italiano; Ramin Salsali (Salsali Museum, Dubai), Arsalan Mohammed (Harper’s Bazaar Arabia) su Art Collector Conversation. Come si costruisce un museo privato; Renate Wiehager (Daimler corporate collection), Urs Stahel (MAST, Bologna) e la curatrice e storica dell’arte Lea Mattarella discutono di Mecenatismo culturale e modi di collezionare; Todd Levin (Levin Art Group) parla di Arte in portfolio ed art advisory; Mohamed Rachdi (Société Général, Marocco) ed Elsa Dispney (Fondazione Kamel Lazaar, Tunisi) su
Namsal Siedlecki, Rejoining, 2012, conchiglia, acqua di mare, cm.40x25x30, courtesy Galleria + Oltredimore, Bologna Paolo Gotti, interpretazione per Robinson Crusoe, courtesy l’artista
12 - segno 251 | GENNAIO/FEBBRAIO 2015
discutono L’Arte Moderna e Contemporanea, nelle scelte di Fondazioni e Corporate Collection; su Modernizzazione e democratizzazione: geografie a confronto. Il Medio Oriente si incontrano gli artisti Vahap Avsar (Turchia), Bisan Abu Eisheh (Palestina) e Hany Rashed (Egitto); per Il mercato dell’arte. Le analisi Skate’s - art market research ospite Sergey Skaterschikov (Skate’s); Uncommon Grounds: pratiche artistiche nel Medio Oriente è un incontro con Anthony Downey (direttore di Ibraaz) e Sara Raza (curatrice ed editor di ArtAsiaPacific Magazine). Un evento speciale sarà l’anteprima nazionale, alla presenza del regista Mike Leigh, di Turner, film sulla figura del maestro britannico, tra i più importanti artisti del XIX secolo; appuntamento fortemente voluto dalla produzione e dal regista a riconoscimento della valenza di Arte Fiera sulla scena internazionale. • Il cuore della Fiera è rappresentato dalla Main Section, che vede la partecipazione di 127 Gallerie, 40 delle quali provenienti dal nostro paese. • Il Focus East, curato da Marco Scotini, si concentra quest’anno sulla produzione artistica proveniente dalle culture del Mediterraneo e del Medio oriente, con una qualificata partecipazione di espositori dell’Est europeo come Amt Project di Bratislava, Erika Deak Gallery di Budapest, Galerie Iragui di Mosca, ma anche le italianissime Boccanera (Trento), Laveronica (Modica) e The Gallery Apart (Roma). • Confermata la sezione Fotografia, realizzata in collaborazione con MIA Fair e curata da Fabio Castelli, che vede quest’anno un incremento degli espositori, ben 24, a conferma del trend mondiale che vede un significativo incremento di interesse per la fotografia come linguaggio dell’arte contemporanea. • La sezione Solo Show è pensata come uno spaccato dell’arte italiana e internazionale, con 14 gallerie che propongono monografiche di grandi interpreti, dal moderno al contemporaneo. La simbiosi tra gallerista e artista è esemplificata da: Antigallery (Mestre) con Franco Costalonga, Armanda Gori Arte (Prato) con Umberto Mariani, Artra (Milano) con Claudio Olivieri, Giampiero Biasutti (Torino) con Giorgio Griffa, Cavana (La Spezia) con Mark Tobey, Galleriapiù (Bologna) con Michele Giangrande, Iaga (Cluj-Napoca) con Marco La Rosa, Michipasto Arte (Campo Ligure) con Christo Javacheff, Morotti (Daverio) con Ivan De Menis, Nicola Pedana (Caserta) con Shozo Shimamoto, Pinksummer (Genova) con Luca Vitone, Richard Saltoun (Londra) con Leonardo Cremonini, Spazio Testoni (Bologna) con Ester Grossi, Caterina Tognon (Venezia) con Maria Morganti. • Lo spazio Nuove Proposte ospita 10 Gallerie, tutte rigorosamente italiane, che presentano giovani di età inferiore ai 35 anni, a fondamentale testimonianza del ruolo di ricerca, scoperta e valorizzazione di nuovi talenti e nuovi linguaggi: A+B (Brescia), Annarumma (Napoli), Thomas Brambilla (Bergamo), Car drde (Bologna), Umberto Di Marino (Napoli), Doris Ghetta (Ortisei), Massimodeluca (Mestre/Venezia), Mario Mazzoli (Berlino), Nam Project (Milano), Rizzuto Gallery (Palermo). n
Marco Bolognesi, Sendai City, courtesy ABC, Bologna Alessandra Spranzi, Vendesi #440, 2007, foto montata su alluminio, cm.30x45, ed.of 3+2pda, courtesy P420, Bologna
>news istituzioni e gallerie< Bologna
ArtornaCity Bologna anche quest’anno, dalla collaborazione tra Comune
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di Bologna e BolognaFiere, Art City Bologna, ricchissimo programma istituzionale che va ad affiancare ArteFiera con mostre, eventi e iniziative culturali. La formula è quella di un complesso “museo diffuso” che attraversa tutto il centro storico e si apre all’intero contesto urbano, con gallerie e musei che offrono aperture speciali, orari ampliati e ingresso gratuito per i possessori di biglietto o card della fiera. • Al MAMbo sono allestite le due monografiche Lawrence Carroll. Ghost House, dedicata all’artista statunitense di origine australiana con una selezione di circa sessanta opere prodotte dalla metà degli anni ‘80 ad oggi, e Franco Guerzoni. Archeologie senza restauro (vedi recensione su questo numero), focalizzata sugli esordi e la produzione più recente dell’artista modenese, oltre a Morandi e l’Antico, dialogo tra antico e contemporaneo. • Alla Pinacoteca Nazionale, Too early, too late. Middle East and Modernity, appendice espositiva fieristica (vedi intervista a Scotini). • Manifesto Anatomico è una incursione nelle stratificazioni sedimentate nel patrimonio storico-artistico cittadino di Sissi, dislocata nelle diverse sedi delle Collezioni Comunali d’Arte, dal Museo Civico Archeologico, al Museo di Palazzo Poggi e alla Biblioteca dell’Archiginnasio, sede che ospita anche Nanni Menetti con Criografie: il lavoro del gelo. • A Casa Morandi, Ada Duker con Imprevedibili nature morte, a cura di Alessia Masi, omaggio al maestro bolognese, alla città e ai suoi portici fra i quali l’artista olandese si avventura con la macchina fotografica, mentre la GAM ospita Francesca Galliani con Transformation. • A Villa delle Rose, con la curatela di Ludovico Pratesi e Angela Tecce, per la seconda edizione del progetto Museo Chiama Artista, Marinella Senatore presenta Jammin’ Drama Project. • Gli spazi della Fondazione del Monte propongono Oggetti su Piano, riflessione sulle modalità con cui alcuni artisti dell’ultima generazione abbiano indagato pittoricamente l’oggetto. • Al Padiglione de l’Esprit Nouveau My house is a Le Corbusier, progetto a lungo termine di Cristian Chironi che metterà insieme tutte le esperienze possibili all’interno delle case progettate da Le Corbusier (potenzialmente 30 opere abitabili in 12 nazioni); prendendo spunto da un fatto realmente accaduto, l’artista individua e moltiplica il potenziale narrativo del concetto di comunicazione, lettura e interpretazione. • Al Museo Internazionale e Biblioteca della Musica, Public art, spazi urbani e relazioni sociali, progetto a cura di Leonardo Regano e AnnaMaria Tina. • A Palazzo Accursio, Giovanni Romagnoli. L’eterna giovinezza del colore, mostra promossa da Associazione Bologna per le Arti. • Nella Salaborsa – Auditorium Enzo Biagi, Incontro con Fabrizio Plessi a cura di Renato Barilli. • Nosadella.due e Ateliersì propongono nello Spazio Sì l’installazione Verde, di Luca Bertolo. • Nel foyer del Teatro Duse la mostra Stories. Un viaggio tra fotografia e letteratura del fotografo Paolo Gotti. L’esposizione prende ispirazione dalle trame avvincenti di alcuni tra i più celebri romanzi di tutti i tempi a livello internazionale. 13 immagini per 12 romanzi di autori differenti che Gotti ha amato, che in qualche modo hanno scandito la sua storia personale, così come i suoi viaggi e le sue fotografie, che il fotografo compie ormai da quarant’anni attraverso tutto il pianeta. Il monumentale repertorio fotografico di Gotti conta infatti oltre 10.000 fotografie scattate
ZED1, Survival, courtesy Spazio San Giorgio, Bologna
Luciano Ventrone, Regole condivise, cm. 60x60 courtesy Stefano Forni, Bologna Flavio de Marco, Paesaggio, 2014, pennarello su carta courtesy Studio G7, Bologna
in oltre 70 paesi nei cinque continenti. • Per il progetto di Martina Angelotti ON 14|15, Do elephants ever forget?, Luca Vitone presenta al Ponte di Galliera Souvenir d’Italie (lumières), mentre nell’Oratorio di San Filippo Neri troviamo Public Collection - Bologna di Alexandra Pirici e Manuel Pelmus˛. • CUBO Centro Unipol Bologna presenta MACROCOSMI Ordnungen anderer Art, Organismi fuori centro, progetto a più voci che si muove ungo un asse di creatività e congiunzione tra Bologna a Berlino, in concomitanza con Arte Fiera e, a settembre 2015, in occasione della Berlin Art Week. Partendo dallo Spazio Arte di CUBO, diverse gallerie bolognesi accolgono un processo condiviso con alcune selezionate gallerie berlinesi: i lavori esposti a L’Ariete arte contemporanea (Lemeh 42), alla Galleria Studio G7 (Flavio de Marco), allo Spazio Testoni La 2000+45 (Pozzoli, Reich, Holterman), da Adiacenze (Elsa Salonen), alla Galleria Contemporary Concept (Annalù, Montanino, Biagi) e allo Spazio Duepuntilab (Isaksson Garnell, Zetterman, Dawidsson, ILindergård, Holmström) troveranno sponda a Berlino da Galerie Grundemark-Nilsson, Galerie JanineBean, Galerie JordanSeydoux, Galerie Gilla Lörcher, Werkstattgalerie Berlin. Tra le tante gallerie da visitare durante Art City White Night, ne indichiamo alcune. • Lo Studio G7 ospita Marina, personale di Flavio de Marco che si confronta col tema del paesaggio ponendo l’accento sul concetto di artificialità, che ammanta il paesaggio, rispetto a quello di natura; l’artista si sofferma sulla mole di informazioni evidenziando il dialogo tra tecnologia, multimedialità e retaggio del passato (sotto forma di clichè e modelli figurativi). • Da ABC il secondo capitolo di Sendai City. Alla fine del futuro, progetto espositivo postmoderno e cyberpunk di Marco Bolognesi, a cura di Valerio Dehò; il pubblico entra e interagisce con le ambientazioni e i personaggi di Sendai. Punto focale della mostra, la macroinstallazione del grande plastico della città. • Lo Spazio San Giorgio arte contemporanea presenta il progetto Second Skin dello street artist ZED1, live performance, opera sull’opera con doppi strati di disegno, di pittura, di carta, in cui solo l’interazione del fruitore o lo scorrere del tempo possono rivelare quanto sia profondo lo scavare in superficie. • Da Art Forum Contemporary viene proposta Attraversamenti di Peter Demetz. ➥ GENNAIO/FEBBRAIO 2015 | 251 segno - 13
Galleria Paola Verrengia Padiglione 25 Stand B/62
artisti: Carlos Aires, Filippo Centenari, Piero Gilardi, Luigi Mainolfi, Maria Elisabetta Novello, Rosy Rox, Amparo Sard
Carlo Aires, Disaster CI, Stampa digitale su banconota originale, 2014, 25 x 33 x 3,5 cm.
➦ • Alla Galleria Cinquantasei, Nikolay Karakhan l’Uzbeko. Opere dal 1920 al 1970. • Da De’ Foscherari, Pier Paolo Calzolari, Giorgio Morandi e Claudio Parmiggiani sono protagonisti di una mostra/omaggio che affianca a un artista che è, allo stesso tempo, grande maestro capace di affascinare le giovani generazioni e “pittore inattuale”, cui si affiancano due artisti contemporanei ai quali la deEmil Otto Hoppé, Rotary Kilns Under Construction in the Boiler Shop, finizione di inattuale sembra Vickers-Armstrongs Steel Foundry, quasi cucita addosso. Tyneside, 1928, stampa digitale, • Alla Galleria +, Oltredimocourtesy E.O. Hoppé Estate Collection re, tema dell’alterità con un occhio alla sensibilità di genere, nella mostra Altrimenti che essere, a cura di Andrea Bruciati, con opere di Patrick Angus, Tomaso De Luca, Didier Faustino, Joanna Piotrowska/Nefeli Skarmea, Elodie Pong, Prinz Gholam, Athi-Patra Ruga, Davide Savorani, Paul Mpagi Sepuya, Namsal Siedlecki. • La Fondazione MAST (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia) dedica a Emil Otto Hoppé (1878-1972) una mostra, curata da Urs Stahel, dal titolo Il Segreto Svelato. In anteprima mondiale, oltre 200 scatti sull’industria e il lavoro effettuati tra il 1912 e il 1937, affiancati da lavori su altri temi, dai ritratti, al nudo, ai paesaggi. • Otto Gallery presenta Luca Caccioni con la mostra Dessins de chambre (et d’autres), in cui presenta un nucleo inedito di opere su carta articolato intorno al tema del nudo erotico. • Alla P420 Maraviglia di Alessandra Spranzi, mostra nata dal ritrovamento in un mercatino di un dizionario del 1927 sul quali erano annotate parole mancanti, tra cui appunto “maraviglia”, e narra la vertigine procurata dalla fascinazione (o affascinazione visiva), che trascina dietro e dentro all’immagine. • La Galleria Stefano Forni propone Colore, Luce, Forma e Spazio di Luciano Ventrone, con una decina di opere rappresentative degli ultimi vent’anni della ricerca dell’artista romano. • Da Di Paolo Arte, Sara Forte con Equilibri della materia. • Spazio Testoni LA 2000+45 propone Check Point, con opere di Benyamin Reich, Fabrizio Pozzoli e Lea Golda Holterman. • Alla Galleria Forni, Valerio Adami con Ars Combinatoria.
SetUp Art Fair 2015 n occasione dell’Art Week bolognese, gli spazi dell’Autosta-
I
zione tornano a ospitare la fiera indipendente SetUp, alla sua terza edizione. La kermesse, organizzata dalle curatrici e critiche Simona Gavioli e Alice Zannoni, conserva la formula che punta sul trittico galleria / curatore / artista tutti rigorosamente under 35, puntando decisamente sulle forze emergenti e sullo sviluppo delle potenzialità creative. Ricca la programmazione culturale, curata da Martina Cavallarin e organizzata dall’Associazione Culturale scatolabianca, che col titolo I confini d’Europa per un’arte senza confini si articola in una rassegna di conferenze, una serie di video e di performance (In Corpo #5, a cura di Sponge Arte Contemporanea) per affrontare la complessa tematica del confine con un approccio multidisciplinare trasformando l’Autostazione in un luogo simbolico, punto di partenza, di transito e di arrivo di idee, oltre che di persone. Ospiti i vincitori del Premio Nazionale No Boundaries, promosso e ideato dal movimento per l’inclusione sociale dei disabili La Skarrozzata, e una serie di Special Projects tra cui Sendai City. Alla fine del futuro di Marco Bolognesi, a cura di Valerio Dehò, selezione di opere dal mondo post-human e post-punk.
Zino, Lo-Fi project, 2014. Stampa digitale e mattoncini Lego, cm. 40x30
ACCARDI ALVIANI ASDRUBALI BONALUMI CASTELLANI CHIGGIO DORAZIO JORI LANDI MAINOLFI
MONDINO NUNZIO PEZZI PIETROSANTI PINELLI STEIN TURCATO VOLPI ZAPPETTINI ZAZZERA
SANTO FICARA
ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA FIRENZE
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>news istituzioni e gallerie< ORIENTE/OCCIDENTE NEO ARCAISMI
conversazione con Marco Scotini a cura di Sara Marchesi
Marco Scotini Concept and photo by Claudio Cetina, Flavio Mancinelli, Alberto Segramora
I
n occasione di Bologna ArteFiera 2015 pubblichiamo una conversazione con Marco Scotini (curatore indipendente e direttore del dipartimento di Arti Visive presso la Nuova Accademia di Belle Arti di Milano), insieme al quale, a partire dalle due mostre ideate e curate appositamente per ArteFiera, abbiamo tracciato una panoramica della sua attuale ricerca curatoriale e dei suoi progetti per il 2015. - Iniziamo con il mettere in rapporto i due progetti realizzati per Bologna Arte Fiera: Il piedistallo vuoto. Fantasmi dall’Est Europa (mostra curata per la passata edizione presso il Museo Archeologico) e Too Early, Too Late. Middle East and Modernity, dal 22 gennaio presso la Pinacoteca Nazionale, che rappresenta la prima e maggiore rassegna italiana sul tema. Partendo dagli elementi di continuità, mi sembra che il collante tra queste due indagini sia rappresentato innanzitutto dal ruolo giocato dall’Occidente, che per sostenere la propria egemonia politico-economica ha bisogno di puntare sul rafforzamento della dicotomia Oriente/Occidente. In che senso dunque possiamo leggere la relazione tra queste due mostre? - Nonostante la conclamata globalizzazione, non si può avere la pretesa di mostrare la realtà degli “altri”. Si tratterebbe ancora di un’attitudine colonialista oppure orientalista, o come la si voglia chiamare. Tutte le mie indagini sull’Est Europa e, adesso, sul Medio Oriente non sono altro che verifiche, messe in discussione, dubbi sul nostro punto di vista. Non solo non si può ignorare il proprio punto di vista (che è sempre geografico e storico) ma è addirittura necessario dichiarare il contesto dal quale noi osserviamo. Certo è che l’occidente e la modernità occidentale sono stati paradigmi egemonici per l’interpretazione e la classificazione di ciò che si supponeva stare fuori dai nostri confini. Ma non solo: c’è un vizio occidentale (in particolare americano), che per affermare la propria identità ha bisogno di contrapporsi a un’altra realtà. E questa realtà è sempre individuata come un nemico da temere e da contrastare. Sembrerà strano, ma è possibile che dopo il crollo della cortina di ferro (dunque dopo l’abbattimento del blocco sovietico) si sia trovato proprio nell’Islam un’identica minaccia per la democrazia occidentale? Non più un conflitto politico ma uno scontro di civiltà? Si tratta di due tematiche concomitanti, se vuoi interdipendenti e che trovano nella caduta del muro di Berlino un centro nevralgico e propulsore. - Il concetto di Modernità diviene la chiave di lettura e l’elemento discriminante dell’intero processo di ricerca nel momento in cui, come afferma Michel Foucault nel suo Taccuino persiano (che troviamo in mostra), l’idea di modernizzazione applicata alla realtà mediorientale “ è in se stessa un arcaismo”. Come leggi questa tensione tra la ricerca o l’imposizione di una modernizzazione di stampo occidentale e il riemergere di tendenze nazionaliste, identitarie o fondamentaliste che si fa portatrice di quello che potrebbe essere definito un nuovo arcaismo? - L’impressione generale da cui deriva il titolo della mostra (Troppo presto, Troppo tardi) è che se il Medio Oriente non è mai entrato nella modernità è altrettanto vero che anche noi l’abbiamo persa. Se ha senso considerare il fenomeno nella sua interezza (in questo caso su scala globale), è come se la fine del socialismo ci avesse sottratto un’idea di futuro, se non il futuro stesso. Se il fenomeno del neo arcaismo è qualcosa che sta accadendo sotto i nostri occhi, è altrettanto vero che ciò avviene tanto in oriente che in occidente. Se scendo per strada e guardo le nuove architetture a torre in vetro specchiante, che sono i nuovi landmark del potere, non posso vedere altro che neo-feudalesimo. Se guardo poi alla fine del welfare è ancora pre-modernità quella che ho di fronte. 16 - segno 251 | GENNAIO/FEBBRAIO 2015
- Volendo invece soffermarsi su alcune differenze, se lavorare sui paesi dell’ex Unione Sovietica significa tenere comunque conto di una metamorfosi avvenuta, di un passaggio di stato tra un prima e un dopo storicamente determinati, cui gli artisti possono approcciarsi attraverso una memoria che ha spesso registrato gli eventi e sperimentato il cambiamento in maniera diretta (come nel caso di Deimantas Narkevicius, su cui torneremo più avanti), il caso del Medio Oriente appare differente e forse ancor più complesso, se non altro perché si tratta di un processo ancora in pieno divenire. - In entrambi i casi al centro della mia attenzione c’è il tempo, un tempo che si misura con il crollo del muro di Berlino. Si è detto “fine della storia” e in un certo senso questo è vero. Abbiamo però assunto questa fine come una volontà di ritornare a forme arcaiche (ecco il fondamentalismo contemporaneo). Quello che invece succede è che la fine di una certa storia non ha fatto altro che svelare la trama o l’ordine di cui il tempo storico è fatto. Si aprono qui due modalità d’azione: una è la citazione della storia, l’altra è la recessione alla potenzialità della storia, a un’infanzia, cioè, in cui ancora tutto è possibile. In questo Narkevicuis è un maestro. Come nel caso del Piedistallo Vuoto, il cui titolo è stato ispirato dai disegni dell’artista Vyacheslav Akhunov, anche quest’anno il titolo della mostra è un tributo all’opera di JeanMarie Straub e Danièle Huillet, il film Trop tôt, trop tard del 1981. Questo per sottolineare come in entrambi i casi le sensibilità di alcuni artisti si siano dimostrate, quando non preveggenti, sicuramente estremamente recettive nei confronti dell’evolvere degli eventi storici.
Jinoos Taghizadeh, Rock Paper Scissors 2009 courtesy Fondazione Cassav di Risparmio, Modena
Armando Lulaj, Original cachalot skeleton esposto nel Museo di Storia Antica di Tirana
>news istituzioni e gallerie<
Lida Abdul, Bricksellers of Kabul, 2006. Film 16 mm transferred to DVD 6’00’’ collezione La Gaia, courtesy Giorgio Persano, Torino
- A questo punto vorrei spostare il discorso su altri due artisti e sulle relative mostre che hai in cantiere per il prossimo anno: mi riferisco a Deimantas Narkevicius, di cui curi la personale al MSU di Zagabria, e ad Armando Lulaj, con il quale stai lavorando al progetto del Padiglione Albanese per la prossima Biennale di Venezia. Iniziamo con Deimantas Narkevicius... - Entrambe le mostre hanno a che fare con il tempo storico. La mostra di Narkevicius si intitola “Da Capo” e ripercorre la sua storia di artista filmmaker. Ma “Da Capo” è anche una modalità di operare in cui la storia socialista, una volta finita, ritorna al suo stato di utopia e al suo stato di possibilità, così come i suoi film, che vanno in loop, ripartono continuamente da capo ma ogni volta aprendo possibilità interpretative diverse. - Con il Padiglione Albanese si torna invece a porre l’accento sul concetto di Modernità, dal momento che i Balcani guardano oggi al modello Occidentale al punto che il tentativo sembra essere quello di cancellare un passato scomodo, facendo piazza pulita di tutta l’eredità socialista per lasciare campo libero alle nuove politiche neoliberiste di stampo occidentale. L’Albania conta solamente quattro partecipazioni alla Biennale: potremmo affermare che la tua volontà non è solo quella di presentare l’opera di un artista, per quanto paradigmatico per la sua capacità di analisi dei dispositivi messi in atto dalle odierne strategie di potere, ma anche quello di presentare – o forse rileggere – parte della storia albanese? - Il progetto con Armando Lulaj si struttura in due tempi che coesistono tra loro. Da un lato una serie di reperti archeologici che sono presentati come tali, dall’altro quegli stessi materiali riletti dopo la fine della Guerra Fredda. È una storia di fantasmi, di figure che ritornano, a partire dai gap della storia stessa: quelli tra sistemi di attese e adempimenti. In questo senso curare il Padiglione Albanese significa anche fare i conti con la storia passata e attuale dell’Albania. Deimantas Narkevicius, His-story, 1998
Mona Hatoum
- Per concludere, in tutti i progetti che abbiamo nominato, ma anche in lavori anteriori – il più paradigmatico tra tutti la mostra itinerante Disobedience Archive, ma anche Vegetation as a Political Agent curata per il PAV di Torino – ciò che emerge chiaramente è il tuo particolare approccio al tema dell’archivio: in tutte queste mostre si incontrano oggetti e documenti storici che ci vengono però restituiti in una dimensione alterata dall’opera degli artisti da te selezionati, come per portare alla luce un passato che continua ad essere determinante nello svelamento di dinamiche e concatenamenti del presente. Potremmo definirla piuttosto una pratica di de-archiviazione? - Se nei miei progetti si può parlare di archeologia o di archiviazione del presente è perché il principio comune è la ricerca di un archè, di un momento originario che non è mai fissato nel tempo cronologico ma che si trova allo stato di latenza, di possibilità. Quello che cerco di fare è di riportare le cose dalla loro attualità alla loro potenzialità, al loro stato di incertezza. O meglio, alla loro condizione di premessa, che è comunque una condizione di promessa. In questo caso non c’è mai un’operazione di archiviazione che non sia anche, radicalmente, di de-archiviazione. n Too Early Too Late Tra la città di Bologna e il Medio Oriente esiste un legame antico: già dal XIV secolo, infatti, vi furono istituiti corsi di lingua araba, ebraica e siriaca, segno di profonda apertura alle culture “altre”. Ancora oggi, forse più che mai, c’è bisogno di indagare il rapporto della modernità occidentale con la cultura e la storia del Medio Oriente, se ne occupa la mostra Too early, too late. Middle East and Modernity, progetto espositivo a cura di Marco Scotini, pensato in relazione col Focus East presentato ad Arte Fiera 2015. Tutte le opere in mostra alla Pinacoteca Nazionale dal 22 gennaio al 12 aprile, di sessanta artisti operanti tra Turchia, Libano e paesi arabi, provengono da collezioni private italiane quali: Collezione AgiVerona, Collezione Alessandra e Paolo Barillari, Collezione Erminia Di Biase, Collezione Giuseppe Iannaccone, Collezione La Gaia, Collezione Antonio Martino, Collezione Giancarlo e Danna Olgiati, Collezione Daniela Palazzoli, Collezione Claudio e Mariagrazia Palmigiano, Collezione Enea Righi, Fondazione Fotografia Modena, Fondazione Giovanni Giuliani, Fondazione Nomas, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Fondazione Videoinsight. Gli artisti: Lida Abdul, Mustafa Abu Ali, Bisan Abu Eisheh, Etel Adnan, Ayreen Anastas, Vyacheslav Akhunov, Can Altay, Omar Amiralay, Said Atabekov, Kutlug Ataman, Fikret Atay, Kader Attia, Vahap Avsar, Mahmoud Bakhshi, Gabriele Basilico, Neil Beloufa, CANAN, Céline Condorelli, Dina Danish, Cem Dinlenmi?, Peter Friedl, Rene Gabri, Sadhi Ghadirian, Yervan Gianikian - Angela Ricci Lucchi, Barbad Golshiri, Mona Hatoum, Malak Helmy, Emily Jacir, Khaled Jarrar, Lamia Joreige, Alimjan Jorobaev, Hiwa K., Hassan Khan, Abbas Kiarostami, Taus Makhacheva, Mona Marzouk, Ahmed Mater, Sabah Naim, Moataz Nasr, Navid Nuur, Walid Raad, Koka Ramishvili, Hany Rashed, Mario Rizzi, Ahmed Sabry, Roy Samaha, Hrair Sarkissian, Ariel Schlesinger, Hassan Sharif, Wael Shawky, Ahlam Shibli, Eyal Sivan, Jean Marie StraubDanièle Huillet, Jinoos Taghizadeh, Lawrence Weiner, Mohanad Yaqubi, Amir Yatziv e Akram Zaatari. GENNAIO/FEBBRAIO 2015 | 251 segno - 17
MANUELA BEDESCHI 2
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Doppio quadrato obliquo, 2015 - cm. 280x330, tubi al neon
a cura di FRANCESCA VALENTE
30 GENNAIO - 28 FEBBRAIO 2015 Opening VenerdĂŹ 30 Gennaio ore 18 Piazza Mattei 18 00186 Roma Tel. 06.68210744
Lun. 15 - 20
permariemonti@gmail.com - www.piomonti.com
Mar./Sab. 11 - 20
>mostre in italia / in breve< Cassino
Spagnulo / Simeti Il Camusac apre la stagione espositiva con le mostre personali di Pino Spagnulo, Canzone di Fuoco, e di Turi Simeti, Rilievi, entrambe curate da Bruno Corà. Le sculture in acciaio di Spagnulo, un nucleo di opere storiche, delineano i momenti salienti della sua produzione plastica con lavori come Ferro spezzato (1969), Paesaggi (1977-2012) e Archeologia (1990). Le opere di Simeti in mostra, circa venti, sono selezionate in un arco temporale che va dagli anni ’60 al 2014 per offrire una visuale quanto più esaustiva sulla ricerca del maestro siciliano. Fino al 26 aprile.
PESCARA
Museo delle Genti d’Abruzzo. Mostra fotografica a cura di Mariano Cipollini dal titolo Voci, intenso excursus sull’uomo e sul suo desiderio di raccontarsi. Gli scatti di Paolo dell’Elce, frutto del progetto Farindola, la terra e i volti del 2003/2004, sono affiancati dalle letture (tratte da Fontamara di Silone e da La solitudine del satiro di Flaiano) delle attrici Susanna Costaglione e Lucrezia Guidone, dalle musiche del compositore Diego Conti, del cantautore Adolfo Dececco, e dal video Voci, realizzato da Giusi Mastantuono.
in modi fantasiosi. Gli artisti: Ben Craig, Adham Faramawy, Michael Hanna, Simon Hanselmann, Fiona Larkin, Shiro Masuyama, Locky Morris, Theo Simpson ed Esther Pearl Watson. Mercati di Traiano - Museo dei Fori Imperiali. A cura di Gabriele Simongini, in occasione del 130° Anniversario delle relazioni bilaterali tra Italia e Corea del Sud, Innesti e connessioni, grande mostra dedicata a Park Eun Sun. Lo scultore, che vive e lavora in Italia, a Pietrasanta, da 22 anni. ha proposto 13 lavori di grandi dimensioni, alcuni dei quali site-specific. “Le mie sculture si devono inserire con rispetto – ha affermato l’artista - in questo maestoso contesto, assecondando e sottolineando la bellezza dei suoi ritmi spaziali ed architettonici. La mia è un’offerta devota a questo magnifico e potentissimo scenario.”.
Paolo dell’Elce, 2003/2004, courtesy l’artista
ROMA
Turi Simeti, 91 ovali neri, 1963, locandina, cm.150x200, courtesy Camusac, Cassino Giuseppe Spagnulo, Respiro courtesy Camusac, Cassino
Annamarra Contemporanea. Personale di Davide Bramante dal titolo Più di una volta, più di una storia, a cura Giorgia Calò. In mostra otto fotografie in bianco e nero e a colori, di grande e medio formato, realizzate per l’occasione, che descrivono Roma con la tecnica, dal sapore un po’ retrò, dell’esposizione multipla, modalità sulla quale l’artista lavora da oltre venti anni.
Park Eun Sun, Accrescimento. Colonna infinita II, 2010/2014, granito rosso e nero, cm.470x140x140, courtesy l’artista. Foto Ernani Orcorte
SALERNO
Galleria Paola Verrengia. Personale della designer partenopea Sandra Dipinto, centrata sulla sperimentazione delle forme e dei materiali. Il Mondo Dipinto, una serie di oltre 50 microsculture in PVC da indossare ha invaso gli spazi della galleria nella ricerca della contaminazione tra arte, design e moda. Eugenio Tibaldi, Red Verona courtesy Studio La Città, Verona
Davide Bramante, My own Rave. Roma (Museo a cielo aperto), 2014, esposizioni multiple in fase di ripresa, non digitali, courtesy Annamarra contemporanea, Roma Barry McGee, Clare Rojas particolare dell’allestimento Galleria Alessandra Bonomo, Roma
Catanzaro
Andrea Branzi Il MARCA ripercorre il lavoro del designer e architetto Andrea Branzi che in questi giorni viene celebrato in Francia ed è in procinto di approdare negli Stati Uniti all’Università di Harvard. La mostra Heretical Design, a cura di Alberto Fiz, propone 70 opere tra dipinti, disegni, installazioni, mobili, lampade, vasi e oggetti d’arredo datate tra il 1967 e il 2014 a formare quello che lo stesso curatore definisce “un percorso relazionale fortemente coinvolgente, dove l’oggetto, senza mai perdere la propria funzione, diventa metafora del mondo, interprete di una società in profonda trasformazione.”. Fino al 29 marzo. Andrea Branzi, Heretical Design, locandina
Galleria Alessandra Bonomo. Barry McGee e Clare Rojas hanno fuso i loro stili in un progetto comprensivo di pittura su carta e su tela, disegni e fotografie e oggetti, pensato appositamente per lo spazio della galleria. Ai dipinti di astrazione geometrica, quasi una lettura architettonica dello spazio, presentati da Clare Rojas, Barry McGee ha affiancato immagini evocative della cultura urbana. Ex Elettrofonica. Il primo appuntamento di Be My Guest, progetto ideato da Manuela Pacella, è Glumba Skzx, esposizione a cura di Ben Crothers. L’esposizione mette in luce tanto il lavoro dei singoli, quanto il pensiero che ha guidato il curatore nell’accostarli: oggetti e situazioni apparentemente insignificanti vengono analizzati e messi in discussione, mentre l’incontro casuale, l’inutile, il banale e l’irrilevante sono celebrati e ripresentati
VERONA
Studio La Città. L’artista torinese, ma napoletano d’adozione, Eugenio Tibaldi, espone a cura di Adele Cappelli opere progettate e realizzate appositamente per gli spazi della galleria, con forti richiami al territorio veronese e alle sue contraddizioni. La mostra Red Verona affronta temi di grande impatto che spaziano dalla sfera sociale a quella economico-politica. Le opere in galleria si offrono come la struttura di un intenso e sfaccettato racconto e trasformano la città di Verona in una scenografia inconsapevole nel teatro di conflitti interni dell’animo umano: narrazioni letterarie fantastiche sono celebrate, condivise al pari di fatti accaduti. La linea di Tibaldi segna, incrociando fatti e storia della città con altre realtà, confini geografici che s’incontrano e scontrano con i confini dell’esistenza. Adham Faramawy, Vichy Shower, 2014 video, 9’ 48”, courtesy Ex Elettrofonica, Roma
GENNAIO/FEBBRAIO 2015 | 251 segno - 21
Edoardo Landi reale o virtuale? opere 1960-2000 A cura di Silvia Pegoraro
14 febbraio - 28 marzo 2015
Struttura visuale, Anno 1961-71 - Cm 66x66x3,5 Filo elastico su legno, dipinto acrilico
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TURI SIMETI RILIEVI a cura di BRUNO CORÀ
CASSINO MUSEO ARTE CONTEMPORANEA Via Casilina Nord, 1 – 03043 Cassino
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PINO SPAGNULO Canzone di Fuoco a cura di Bruno CorĂ
dal 19 dicembre 2014
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Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo - Roma
l MAXXI Arte e Architettura rinnovano l’offerta espositiva inaugurando a distanza di poche settimane molte e diverse mostre. Cominciando da Bellissima. L’Italia dell’alta moda 19451968 - a cura di Maria Luisa Frisa, Anna Mattirolo, Stefano Tronchi - si ripercorre, attraverso il mezzo della moda, anni di storia italiana a partire dal primo dopoguerra fino al principio del boom economico, in cui si sono succeduti molti avvenimenti che hanno reso riconoscibili in tutto il mondo la cultura e il gusto italiani. In mostra oltre ai gioielli di Bulgari, gli accessori di Ferragamo, Fragiacomo, Gucci, di Camerino, la bigiotteria di Coppola e Toppo, gli abiti di Antonelli, Balestra, Biki, Carosa, Capucci, Curiel, Fendi, le sorelle Fontana; Galitzine, Gattinoni, Marucelli, Mingolini-Gu-
genheim, Sarli, Schön, Schuberth, Simonetta e Fabiani, Valentino, Veneziani. L’alta moda italiana è inoltre resa tangibile dalle bellissime foto di Pasquale De Antonis, Federico Garolla e Ugo Mulas. Con United History. Iran 1960-2014, ideata dal Musée d’Art moderne de la Ville de Paris e realizzata in coproduzione con il MAXXI, si affronta l’analisi di un rapporto con l’arte attraverso la suddivisione temporale in tre sezioni - Gli anni della modernizzazione 1060-1978; La rivoluzione del 1979 e la guerra in Iran - Iraq (1980 . 1988); Il dopoguerra dal 1989 ai giorni nostri -, che riportano cambiamenti e reazioni fortemente condizionanti la sfera artistica e culturale. Le opere esposte sono i frutti eterogenei di tre generazioni distinte, figlie di una nazione politicamente complessa, dalla dinamica identità culturale. Affacciarsi su scenari diversi e di paesi lontani fa considerare, attraverso il mezzo dell’arte, le realtà più distanti, vicine e in dialogo con epoche e forme espressive che hanno lasciato input funzionali alla creatività di ogni condizione artistica.
Bellissima, un abito di Capucci
Bellissima, un abito di Schuberth
Le nuove proposte del Maxxi
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26 - segno 251 | GENNAIO/FEBBRAIO 2015
attivitĂ espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
United History. Iran 1960-2014, Arash Hanaei, Capital United History. Iran 1960-2014, Kaveh Golestan, Shahr-e
United History. Iran 1960-2014, Behzad Jaez, Madresseh-e-Taleb
United History. Iran 1960-2014, Bahman Mohassess
United History. Iran 1960-2014, Tahmineh Monzavi United History. Iran 1960-2014, Behdjat Sadr
GENNAIO/FEBBRAIO 2015 | 251 segno - 27
Così in THE FUTURE IS NOW! Opere dalla collezione di New Media Art del MMCA, Corea, si ripercorre il punto di vista di artisti coreani che dal 1987 - dalla fondazione della New Media Art - ai giorni nostri hanno affrontato il mezzo del video e dell’installazione nei modi più diversi, individuando esperienze soggettive, inglobando residui di una storia culturale che ha visto il grande intervento di Nam June Paik nella videoarte. La suddivisione in quattro sezioni cronologiche - Pionieri della New Media Art in Corea; Arte e tecnologia: un’epoca di sfide ed esperimenti; Internet e l’espandersi della New Media Art; Creativi della cultura nell’era del digitale - aiuta a ricostruire la sinuosità di processi artistici che hanno dato vita a complessi lavori, nutriti con i mezzi digitali. Il titolo della mostra è tratto dalla nota frase di Nam June Paik “People talk about the future being tomorrow, but the future is now!”. Con Bâton-Serpent la sperimentazione derivata da innesti di culture lontane è evidente. Le opere di Huang Yong Ping - artista francese di origine cinese - presentate per la prima volta in Italia, sono le espressioni chiare di una relazione tra cultura orientale ed occidentale, inserite nelle distinte simbologie. Il progetto espositivo inizia a Roma (a cura di Hou Hanru e Giulia Ferracci) per trasferirsi poi a Beijing e Shangai. Yong Ping riprende, attraverso una iconologia riconosciuta, diverse espressioni di fede, delle proprie simbologie che entrano in dialogo in un nucleo unico e condiviso, riportando su piani tangenti la mitologia cinese e pagana, la religione cristiana, tibetana e l’esoterismo. Per tutte le immagini: courtesy MMCA, Korea
THE FUTURE IS NOW! Everyware Memoirs, 2010 THE FUTURE IS NOW! Kim Bumsu, Beyond Description, 2008
28 - segno 251 | GENNAIO/FEBBRAIO 2015
THE FUTURE IS NOW! Jeong Jeongju, Seadaemun Prison, 2004
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Firenze - Galleria dell’Accademia, protezione a scopo di difesa dai danni di guerra del David di Michelangelo, 1944/45 Gelatina al bromuro d’argento su carta. ICCD - Fondo Ministero della Pubblica Istruzione Gabinetto fotografico della Regia Soprintendenza alle Gallerie.
Copertina del Tenente Colonnello René Rodolphe, Combats Ligne Maginot, Editioni M. Ponsot, Parigi, 1949. Collezione privata. P.A.J. (Propaganda Abteilung Jtalien), Lavoratore, rifletti: “Miseria, povertà, caos. Lavoro in Germania, buona retribuzione, progresso sociale. Hai scelto? “Si”, 1943, stampa litografica su carta, The Mitchell Wolfson Jr. Collection, Genova, in comodato presso Wolfsoniana – Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, Genova.
Gabriele Mucchi, Il bombardamento di Gorla, 1944 Inchiostro Stilografica nero, 17,6x25 cm. Mario Sironi, Il soldato e il lavoratore, 1943 c., tempera su cartone Wolfsoniana – Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, Genova
In parallelo il MAXXI Architettura presenta la grande mostra Architettura in uniforme. Progettare e costruire per la seconda guerra mondiale, a cura di Jean Louis Cohen, con la collaborazione del CCA di Montreal e la Citè de l’architecture di Parigi da cui si può avere un’ampia visione di come il conflitto mondiale abbia condizionato il lavoro degli architetti nei paesi coinvolti. La mostra, suddivisa in 14 temi, ricompone con un ricco materiale d’archivio una storia che ha visto l’Italia fortemente coinvolta, in processi di adattamento e ricostruzione di un patrimonio culturale e umano. Ilaria Piccioni GENNAIO/FEBBRAIO 2015 | 251 segno - 29
Hangar Bicocca, Milano
Joan JONAS di Marilena Di Tursi
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l suo corpo è il centro del mondo perché è con il corpo che Joan Jonas misura lo spazio, lo percorre, lo frammenta, lo smaterializza o lo usa per interrogarsi sul mistero della natura, sulle contraddizioni urbane e sociali, fino a farne il fulcro di una parabolica e potente epifania creativa. Della pioneristica avventura della 78enne artista americana (New York 1936), anche professore emerito al MIT di Boston e prossima rappresentante degli Stati Uniti alla Biennale di Venezia 2015, la mostra milanese offre un’esaustiva campionatura in un percorso espositivo dal passo circolare che ne amplifica il senso. Riuscendo, peraltro, a dar conto di una cifra stilistica fatta di continui rimandi e di ritorni tematici, magnificati da uno spazio che aggrega e dissemina il complesso sistema di linguaggi fatto di film, video, teatro, musica e installazioni. Del resto, sin dagli anni Sessanta, Jonas intesse micro e macro, biografia e storie del mondo, figura umana e paesaggio, natura e cultura, in un vorticoso anelito verso la trascendenza. Ma, soprattutto, intreccia ogni tipo di ‘media’ in lucide anticipazioni di esperienze performative e minimaliste giocate in chiave onirica o gravate da complesse stratificazioni di significati e di immagini. In Italia, Jonas è apparsa in sporadiche occasioni a Roma, negli anni Settanta, poi, più recentemente, al Castello di Rivoli, a Trento, alla Biennale di Venezia del 2009 e, nel 2007, alla Fondazione Ratti di Como, per un ciclo di workshop didattici. Nell’itinerario espositivo, dal titolo “Light Time Tales” , a cura di Andrea Lissoni, (visitabile sino al 1° febbraio 2015), il rapporto con i tanti cuori pulsanti della sua produzione viene garantito da subito. Per esempio, con ‘Wind’, tra i primi film, di ammaliante rapimento iconico, ambientato su una spiaggia innevata in quel di Long Island a
New York. Un gruppo di persone che si oppone alla forza del vento in una gestualità lenta e cadenzata che paga il suo tributo alla ritualità sospesa del teatro giapponese. Oppure quando esplicita il suo devoto omaggio a Aby Warburg, lo studioso tedesco che seppe mescolare storia dell’arte, miti e archetipi. Esemplare a riguardo ‘The Shape, the Scent, The feel of Things’, rievocazione del viaggio di Warburg tra i nativi americani che Jonas collega alle sue errabonde sortite, compiute sugli stessi luoghi, per imbastire una narrazione sincopata e suntuosa. La affida a sei proiezioni e a numerosi oggetti di scena, un coyote impagliato e a quanto serve per scompaginare l’ordinaria gerarchia tra cose, animali e esseri umani. Animata da un incedere sciamanico, l’artista americana espande il proprio sentire servendosi della tecnologia, inscenando danze rituali, attingendo a culture diverse, sepolte dal tempo o colpevolmente rimosse. In altre occasioni, si manifesta nella moltiplicazione distorta della propria immagine in frammenti di specchi che fendono lo spazio, alternandoli a coni giganteschi, come inquietanti trombe dell’Apocalisse, o disegnando forme pure come gli essenziali cerchi di gesso. Nelle sue prime performance, la incontriamo in quella New York dove gli artisti usavano la città al posto delle gallerie, e la ritroviamo, decenni dopo, con inalterata freschezza espressiva in uno spazio domestico, a salutare il pubblico ossessivamente, con reiterati Buongiorno e Buonanotte. Nel tempo di mezzo, ha percorso città, spazi deserti, ghiacci e sabbie, in Nuova Scozia, Islanda, Irlanda, Giappone, Egitto, Lapponia, scortata da animali, scimmie, volpi e conigli, ma, soprattutto, da un denso apparato di sollecitazioni archetipe. Come quelle che interagiscono nell’installazione Reanimation, isolata dalle altre con quattro schermi di elegante carta giapponese sui quali si muovono, animati da una forza cosmica, acqua, neve e ghiacci. Arrivano da una Norvegia mitica, immersa in rarefatti timbri di sonorità lapponi, con pesci di preistorica morfologia tra profusioni di cristalli, capaci di interagire con la luce in algide amplificazioni sensoriali. n
Joan Jonas, Light Time Tales, 2014 Vedute dell’installazione alla Fondazione HangarBicocca, Milano Photo by Agostino Osio. Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milano
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Fondazione MAST, Bologna
David Linch di Francesca Cammarata
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al 17 settembre al 31 dicembre la Fondazione MAST (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia) di Bologna ospita nel proprio spazio la mostra The Factory Photographs, realizzata in collaborazione con la curatrice Petra Giloy-Hirtz e dedicata all’opera fotografica dell’artista David Linch sul tema dell’archeologia industriale. L’esposizione, che MAST dedica per la prima volta a un autore e a opere esterne alla propria collezione, si compone di 111 fotografie realizzate da Linch tra il 1980 e il 2000 completandosi con tre cortometraggi poco conosciuti del regista statunitense: Industrial Soundscape, Bug Crawls, Intervalometer Steps. Riconosciuto e apprezzato in ambito cinematografico per opere come Velluto Blu, The Elephant Man, Cuore Selvaggio e Mulholland Drive, Linch è meno noto come artista visivo. Questo autore si forma in realtà studiando pittura alla Pennsylvania Academy of Fine Arts di Philadelphia, oltre che regista e sceneggiatore è pittore, musicista, designer e fotografo. Famoso per le rappresentazioni oniriche, le trame visionarie delle sue più celebri pellicole è riconoscibile con una cifra analoga nelle opere fotografiche, dove tracce di storia degli ultimi due secoli passano attraverso il filtro soggettivo del racconto narrato. Ciascuna serie in questa raccolta, eseguita talvolta Berlino, altre volte e in un diverso momento a Londra, a Łódž oppure a New York, procura un differente impatto emotivo. Sempre rigorosamente in bianco e nero in queste opere fotografiche prevalgono talvolta i chiari, in altri casi i grigi più cupi. Scheletri di costruzioni neogotiche dalle fatiscenti trame murarie avvolgono malamente quel che rimane di arnesi da lavoro, parti meccaniche, cinghie, ferri, pendoli: elementi grotteschi o surreali che richiamano alla mente sequenze del Metropolis di Lang scandite dalla colonna sonora dei Queen, o i percorsi angoscianti di Silent Hill. Agli ambienti chiusi, oscuri come le parti più nascoste dell’animo umano, si alternano esterni altrettanto inquietanti dove sagome nere di edifici si oppongono come fantasmi al vuoto di un cielo bianco gesso, lineari strutture metalliche si intrecciano componendo labirinti. Nei paesaggi della Polonia blocchi razionali in vetro e cemento mostrano quel che resta della loro facciata trasformandosi in enigmatici e irrisolti cubi di Rubik. Protagonista secondaria di questo ciclo fotografico è l’architettura che si affaccia in vari momenti della sua storia recente spesso testimone di speranze di rinnovamento sociale, fiducia nella ragione e nel progresso. Non è l’architettura di per sé tuttavia a interessare l’artista, quanto piuttosto l’interazione tra essa e l’uomo, la traccia di quest’ultimo negli spazi che ha fatto vivere. Lo stesso artista dichiara a tal proposito: “Amo le cose create dall’uomo (...) mi piace la melma, gli scarti che l’uomo produce”. I sedimenti rimasti permettono alla storia di prendere forma nelle storie di tutti gli individui passati in quei luoghi, accompagnate dai loro pensieri e stati d’animo. La decadenza di queste strutture, l’atmosfera inquietante emanata da questi templi della produzione appare più che mai attuale in una congiuntura storica in cui la possibilità di benessere diffuso fondato su consumi e risorse senza limiti risulta inverosimile; confuso si mostra il principio di legittimità di accesso alla ricchezza riconosciuto, dalle leggi di tutti i paesi, nel lavoro e ogni positivistica certezza fondata sul pensiero razionale, che ha accompagnato in occidente il processo di industrializzazione, appare ormai lontana. n
David Lynch, Untitled (Łodž), 2000 Stampa alla gelatina d’argento, 11 x 14 pollici. Edizione di 11. © Collezione dell’artista David Lynch, Untitled (Łodž), 2000 Stampa alla gelatina d’argento, 11 x 14 pollici. Edizione di 11. © Collezione dell’artista
David Lynch, Untitled (Łodž), 2000 Stampa alla gelatina d’argento, 11 x 14 pollici. Edizione di 11. © Collezione dell’artista
David Lynch, Untitled (England), late 1980s early 1990s. Stampa alla gelatina d’argento, 11 x 14 pollici. Edizione di 11. © Collezione dell’artista
GENNAIO/FEBBRAIO 2015 | 251 segno - 31
CIAC - Foligno
Le visioni di
Daido Moriyama di Paolo Ferri
I
n perfetta connessione con lo spirito delle sua fotografie, ha le sembianze editoriali del romanzo, e anche alquanto poderoso, il catalogo che raccoglie una amplissima (o forse sarebbe meglio dire esaustiva) selezione dei lavori di uno dei più interessanti e graffianti fotografi contemporanei giapponesi. È un romanzo per fotografie quello che racconta Daido Moriyama, per i tipi di Skira Editore, da leggere e rileggere e tenere sul comodino accanto al letto, per essere sbirciato, sbocconcellandolo magari prima di spegnere la luce e addormentarsi e magari sognare quelle strade polverose, bellicose, riottose, ma anche sensuali, come sensuale è la copertina, una scelta in contrappasso manemmeno-poi-tanto rispetto ai registri principali del lavoro di Moriyama. Lui viaggia da solo, e sempre in un rigoroso bianco e nero, preferibilmente sgranato, antiestetizzante, unico Daido Moriyama, Untitled, dalla serie Japan A Photo Theater. fotografia b/n, courtesy l’artista
32 - segno 251 | GENNAIO/FEBBRAIO 2015
modo per restituire la veridicità di quanto si pone di fronte al suo occhio. Vero, reale, essenziale sin dal titolo, “Visioni del Mondo”, 250 immagini realizzate dagli anni Sessanta a oggi impaginate per incastrare il lettore in un flusso continuo, spesso incalzante, a tratti improvvisamente sospeso, che ricalca il ritmo stesso di una vita libera, certamente inquieta, vissuta in cammino sulle strade del mondo. L’occasione è fornita dalla mostra che porta lo stesso titolo del catalogo, ospitata dal CIAC di Foligno e curata da quello stesso Filippo Maggia (assieme a Italo Tomassoni) che intervista Moriyama. Corredano il volume anche un testo di Akira Hasegawa e una biografia curata da Francesca Lazzarini, poco scritto, tanta immagine, una scelta anche questa assai azzeccata per rendere preponderante il fotografo con le sue fotografie. È l’esperienza (sia essa di un luogo, di una persona, di una situazione come di un’atmosfera) il fulcro della fotografia di Moriyama, che prende le distanze tanto dal tradizionale approccio reportagistico, quanto da forme di espressione intimistiche. Tale distacco avviene in modo forte, provocatorio, ben evidente nel processo che adotta, definito dal termine giapponese “Sakka” che vuol dire graffiare, lacerare, grattare via. Le fotografie di Moriyama sono sporche, sfocate, sovraesposte, graffiate, sembrano essere il suo unico mezzo,
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Daido Moriyama, On the Bed I, Tokyo, 1969. fotografia b/n, courtesy l’artista
il più autentico, per avvicinarsi alla realtà, a quell’unica verità possibile che esiste solo nel punto in cui il senso del tempo del fotografo e la natura frammentaria del mondo si incontrano. È una ricerca quotidiana senza fine quella che spinge Moriyama a realizzare migliaia e migliaia di scatti, per anni, per una vita. Nel suo costante interrogarsi sulla fotografia sembra giungere alla conclusione che tutto ciò che lo sguardo incontra sia degno di essere fotografato. Non è importante il soggetto o l’autore, perché non c’è distinzione tra la realtà vissuta e la realtà nell’immagine (spesso fotografie di fotografie tratte da magazine, poster, pubblicità, televisione si mischiano a quelle
scattate dal vivo). Ciò che conta è il frammento di esperienza, parziale e permanente, che la fotografia può trovare. Daido Moriyama è un fotografo-cacciatore che, libero da legami con un luogo d’origine o da vincoli dettati dalle convenzioni sociali, percorre le strade della vita aperto all’esperienza, pronto a filtrare attraverso i suoi occhi il mondo che incontra. Per questo motivo il suo lavoro, oltre a coinvolgere emotivamente lo spettatore nella narrazione di situazioni specifiche, offre un’immagine estremamente lucida di un paese, della sua storia, delle trasformazioni politiche, economiche, culturali e sociali che hanno dato forma all’attuale società giapponese. n
Daido Moriyama, Highway, Shizuoka, Japan, 1969. fotografia b/n, courtesy l’artista
GENNAIO/FEBBRAIO 2015 | 251 segno - 33
Museo MADRE, Napoli
Lucio AMELIO
dalla Modern Art Agency, alla genesi di Terrae Motus di Raffaella Barbato
N
ella Napoli artistica del ’65 - e dintorni - animata della galleria Il Centro (di Dina Carola e Renato Bacarelli) e dal fermento delle librerie Guida e Minerva - luoghi sperimentali di mostre ed incontri con intellettuali importanti dell’epoca, basti, fra tutti citare Roland Barthes - nella Napoli propagandistica e culturalmente impegnata della Rivista Linea Sud, diretta dall’agitatore Luigi Castellano (Luca), promotore, tra le varie iniziative, di Proposta 66 - mostra passata alla storia per l’inconsueta location, la sala Alicata della Federazione napoletana del P.C.I. in Via dei Fiorentini - in questa terra, ricca come sempre di contraddittorietà e parossismi, ove sacro e profano, passato e contemporaneità dialogano intrecciandosi in un moto continuo, approda un giovane eclettico, brillante, disinvolto ed avanguardista: un napoletano doc – di via dei Tribunali - Lucio Amelio (classe 1931). Con la trentennale attività della sua Modern Art Agency, prima (Parco Margherita, 1965) e la successiva Galleria Lucio Amelio (Palazzo Partanna, Piazza dei Martiri, 1969), contribuirà ad incrementare e mettere in Krisis il complesso dibattito intellettuale e critico locale, della metà degli anni ’60, aprendo la città della leggendaria Serena Partenope a fenomenologie artistiche altre; dalle tendenze dei linguaggi internazionali - indagando le relazioni tra esperienza creativa europea ed americana - ai linguaggi artistici sperimentali (performance, teatro, fotografia, filmografia etc etc); ponendosi in dialogo - a volte conflittuale - con la scena artistica napoletana, passando dalla Nuova Creatività nel Mezzogiorno, alle pratiche del femminismo (ad Amelio si deve, nel 1977, la prima ed unica mostra in una galleria di denuncia femminista a cura di un uno storico collettivo, il Gruppo XX - Mathelda Balatresi, Antonella Casiello, Rosa Panaro, Mimma Sardella - che insieme al collettivo femminista Immagine di Varese partecipò alla Biennale di Venezia del 1978), fino al dibattito critico intorno al ruolo dell’istituzione artistica, prettamente denunciato, fra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta, dalla Galleria Inesistente - fondata in un primo step, nel 1969, da Vincent D’Arista, Bruno Barbati, Maria Palleggiano, Gianni Pisani - che in occasioni più o meno oppositive intrecciò la sua storia con quella della galleria Amelio. Cultore dei processi inventivi, amatore dell’arte - in genere -, poliedrico e creativo egli stesso - cantante dalla voce stentorea (incise il 33 giri, Ma l’amore no) ed attore per diletto (ha recitato in tre film di Lina Wertmüller e lavorato con Mario Martone) –, dopo le esperienze lavorative nei cantieri metallurgici di Bagnoli e la pausa accrescitiva tedesca, Lucio Amelio si dedicherà totalmente all’ossessione di sempre: l’arte; logos ed emergenza. «Seppe ricoprire sia il ruolo di mercante avventuroso, sia il ruolo di animatore, avendo il coraggio di farlo in una città fatalista, oggi esaltata e domani depressa, portata al pessimismo. Remando controcorrente in maniera spericolata, vinse la scommessa, all’apparenza impossibile, di risollevare l’immagine di Napoli – culturalmente parlando – dall’abbattimento cui era caduta» (Roberto Cini), aven34 - segno 251 | GENNAIO/FEBBRAIO 2015
do come quartiere generale un appartamentino locato a parco Margherita: «in cucina mangio, vivo e dormo, le altre due stanze le dedico all›arte. Lì cominciai con un berlinese, Heiner Dilly. Faceva una «Scripturelle Malerei» (scrittura murale, ndr), come degli appunti di viaggio. Vendo due quadri, uno a Marcello Rumma e uno a Filiberto Menna. Poi un altro berlinese, poi uno jugoslavo, poi Napoli mi scoprì» (Lucio Amelio). Un rapporto sensuale quello con l’arte sorretto ed obbligato al/dal binomio mercato/artista; il mercato attraversato in modalità tangente – terra feconda di cui saggiarne i frutti e non impaludarsi -, e gli artisti attraversati in modalità secante, vissuti, nel loro pensare ed agire, destrutturandone la processualità produttiva, proiezione e prolungamento di un sentire comune; amava saggiare gli artisti trascorrendo giornate intere in loro compagnia, li ospitava in vacanza nella casa a Capri, organizzando gioiosi momenti di convivio con feste e cene accompagnate dalla condivisione visionaria di mondi paralleli, ma tutti possibili e realizzabili. Una figura crinale ed emblematica della Napoli degli anni ’70, quella di Lucio Amelio, che in occasione del trentennale della sua scomparsa è omaggiata come imprenditore ed intellettuale in una vasta ed inedita retrospettiva presentata al Museo Donna Regina di Napoli; un progetto questo a cura di Andrea Viliani (direttore del MADRE) e Paola Santamaria per conto dell’archivio Amelio, figlia di Anna sorella del gallerista) - col contributo del comitato scientifico composto da Anna Amelio, Giuliana Amelio, Achille Bonito Oliva, Michele Bonuomo, Nino Longobardi, Giuseppe Morra, Paola Santamaria, Eduardo Santamaria e Angela Tecce - che nella sua minuziosa ricostruzione filologica - più di cinquecento documenti storici, in prevalenza inediti provenienti dall’Archivio Amelio e da altri archivi pubblici e privati - e cronologica, indaga di riflesso le relazioni e le conflittualità tra artista, gallerista, ed istituzioni; problematizzando e rinviano a stridenti urgenze contemporanee, in primis all’esigenza etico/critica di sterzate coraggiose, che abbiano una focale nella ricerca sperimentale, nella propaganda e nella denuncia sociale; nonché la creazione di un dialogo propulsivo tra artista e gallerista, necessità che, in questa epoca del globalesistenzialismo, scardini la consueta subordinazione della produzione creativa alle esigenze di mercato troppo spesso ritenute prioritarie e fondanti nel fare artistico; una opportunità generatrice di quella corrispondenza di amorosi intenti in cui la galleria si rinnovi come factory e locus amoenus della ricerca fenomenologica e l’artista come produttore di immagini dalla capacità svuotante. In tale ottica, la retrospettiva proposta al Madre offre un’istantanea stimolante, sul rapporto del mecenate con la città e con alcuni degli artisti che lo accompagnarono in questo viaggio lungo trent’anni, ponendo particolate attenzione all’arco temporale compreso tra il 1965 ed il 1982, gli anni fondativi di un metodo e di una visione dell’arte culminati con la costituzione della Fondazione Amelio e la genesi di Terrae Motus. Le prime sale sono dedicate ai rapporti fra astrazione e figurazione della fine degli anni sessanta; sono esposti lavori di Renato Barisani – esponente della Arte Concreta -, omaggiato dal gallerista in una collettiva del ’66, di Lucio Fontana – di cui sono riportate Andy Warhol, Lucio Amelio, 1975. Acrilico e serigrafia su tela Courtesy Collezione Privata. Napoli. In alto, sopra al titolo, Lucio Amelio a Villa Volpicelli, 1979. Courtesy Archivio Amelio. Photo © Bruno di Bello
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
le preziose lettere sigillo dell’amicizia e della stima tra l’artista ed il gallerista datate agli anni ‘67-’68; Piero Manzoni, di cui Amelio ospiterà una retrospettiva - con opere datate dal 1959 al 1961 tra cui le famose Merde d’artista, fino alla successiva collaborazione con Alberto Burri, culminata nella realizzazione a Capodimonte, nel 1978, dell’installazione site specific il Grande Cretto Nero. Nel 1969 Lucio Amelio aprirà una nuova gallery nello storico Palazzo Partanna, inaugurata con una mostra dedicata all’arte povera ed a J. Kounellis, di cui sono riproposte nella seconda sala, le opere in tela di juta e le piramidi di ferro arrugginito – contenenti cumuli di caffè o tavolette di metaldeide sulle quali ardono piccole fiammelle, signa di quella cultura partenopea e mediterranea, che l’artista greco spesso decodificherà nella propria visionarietà. A seguire le sale dedicate all’Arte Povera, all’Arte Concettuale ed alla Transavanguardia, con l’articolazione nello spazio di opere di artisti quali Pistoletto (Venere degli Stracci, 1968), Calzolari, Maro Ceroli, Vettor Pisani, Mario Merz, Giulio Paolini (Apoteosi di Omero, prima installazione di leggii dell’artista con sonoro, presentata a Napoli nel 1972 nell’abito della rassegna Territorio Magico); ed i primi progetti di arte pubblica che il gallerista realizzerà con le istituzioni cittadine (nel 1976 Lucio Amelio inizia il suo pluriennale sodalizio con la Soprintendenza dei Beni Culturali all’epoca diretta da Raffaello Causa). Parte dell’omaggio espositivo di queste sale è anche dedicato alla ricerca performativa e teatrale di Vito Acconci, Lea Lublin, Charlemagne Palestine, Falso Movi-
mento e Teatro Studio di Caserta; alle ricerche concettuali (con un’inedita presentazione di opere su carta di James Lee Byars, insieme a opere di Daniel Buren e Dan Graham). Sala cardine è quella dedicata al 1971, alla prima personale italiana di Joseph Beuys intitolata La Rivoluzione siamo noi, (qui è esposto il trittico in cui l’artista tedesco passeggiare nel viale di Casa Orlandi, ad Anacapri, residenza dei Trisorio); il vernissage di questa mostra, fu una vera e propria lezione politica, su una lavagna andava in onda la democrazia, e si dibatteva sui concetti di società e cultura; un’azione di confronto comune in cui il pubblico era inviato ad interagire, una mostra costruzione di una idea di partecipazione morale, civile e politica; «il rapporto con l’etica» – afferma Amelio di riflesso alla lezione dell’artista tedesco - «con l’esigenza profonda di rinnovamento e di giustizia dell’uomo è necessario all’arte, che non è decoro né abbellimento». Nella stessa sala al nome di Beuys «che ripercorre lo spazio umbratile della memoria», parafrasando Trimarco, si accompagna il nome ed il «disincanto» di Andy Warhol, presente con il famoso Fate Presto (1982) – lavoro ispirato alla copertina de “Il Mattino” del 26 novembre 1980, anno del catastrofico terremoto che colpì l’Irpinia - , speculare e messa in dialogo con un altro lavoro ispirato a quell’evento nefasto: l’installazione Terremoto in Palazzo di Joseph Beuys (1981). Beuys e Warhol, incarnazione di un’opposizione storica, di modus operandi stridenti, figure di una contraddizione radicale che trovano il loro punto di contatto «a Napoli, luogo magmatico
Joseph Beuys, Terremoto in Palazzo, 1981. Legno, terracotta, vetro, cera e un uovo. Caserta Palazzo Reale Collezione Terrae Motus Andy Warhol, Fate Presto, 1981. Serigrafia su tre tele. Caserta Palazzo Reale Collezione Terrae Motus
GENNAIO/FEBBRAIO 2015 | 251 segno - 35
Lucio Amelio, mostra Le armi di Pino Pascali 21 dicembre 1970. Courtesy Archivio Amelio. Photo © Mimmo Iodice
ed estremo, assurdo e contraddittorio, ma anche territorio magico dove gli opposti avrebbero generato ancora una nuova energia. E l’artefice di quest’impensabile alchimia può essere solo Lucio Amelio, che per quell’evento esprime al massimo la sua sulfurea capacità di tenere insieme mondi, storie e uomini per tanti versi impossibili» (Bonuomo) Passando per questo articolato labirinto di ricordi, si approda così
- attraversando velocemente le sale della seconda parte del percorso espositivo in cui trovano articolazione le opere storiche di artisti quali Francesco Clemente, Mimmo Paladino di Nino Longobardi, Luigi Ontani, Ernesto Tatafiore, accanto alle opere di Tony Cragg, Robert Rauschenberg, Gerard Richter e Cy Twombly e le documentazioni fotografiche e filmiche, fra gli altri, di Bernd e Hilla Becher, Fabio Donato, Mario Franco, Gilbert & George, Mimmo
Mimmo Paladino, A Napoli dopo gennaio, 1978. Encausto,ceramica, cartone dipinto su tela, ferro dipinto. Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT, in comodato presso Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino, GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino. Photo © Paolo Pellion
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Jodice, - ad un ritratto di Amelio a firma di Mario Schifano, altra opera di rinvio alla collettiva/raccolta Terrae Motus, progetto/ eredità intellettuale del fare del gallerista - ospitata dal 1992 alla Reggia di Caserta a cui è stata legata con lascito testamentario da Lucio Amelio. Il catastrofico sisma che scosse la terra campana per 90 secondi, causando 2914 morti e oltre 8000 feriti divenne, per i mercante d’arte, spazio memoriale e meditativo sulla quale oltre 60 artisti saranno invitati ad esprimersi. Uno scuotimento della terra sinonimo di un sommovimento dei codici dell’arte: «A Napoli, sopra nuove e vecchie macerie il nostro Terrae Motus ha ricostruito una nuova idea dell’arte per gli anni a venire. Un’idea di partecipazione morale, civile e politica […] una macchina per creare un terremoto continuo», queste le parole dello stesso gallerista - venuto a mancare prematuramente nel luglio del 1994 - sul suo ultimo grande progetto. n
Joseph Beuys, La rivoluzione siamo noi, 1971. Photo © Amedeo Benestante
Mario Franco, Fotogramma dal film Andy Warhol Eats, 1976. Courtesy Mario Franco
Carlo Alfano, Delle distanze dalla rappresentazione, 1968/1969. Courtesy Archivio Alfano. Photo © C.Tamborra Acquisito nel 2013 con finanziamento della Regione Campania. Collezione MADRE-museo d’arte contemporanea donnaregina, Napoli
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Accademia Nazionale di San Luca
Giuseppe Panza di Biumo
La passione della collezione di Marta Paolini
L’
Accademia Nazionale di San Luca ha dedicato al collezionista Giuseppe Panza di Biumo nel mese di dicembre una giornata di studio e una mostra – aperta fino al 31 gennaio 2015 – curati da Nicoletta Cardano e Francesco Moschini. A partire dagli anni Cinquanta fino agli inizi del Duemila Giuseppe Panza di Biumo (Milano, 1923- 2010) radunò insieme alla moglie Giovanna un’eccezionale collezione d’arte contemporanea; attraverso le sue ricerche e il rapporto diretto con artisti, musei e gallerie riuscì con straordinaria lungimiranza a capire il valore e le potenzialità di ciò che era ancora in divenire. Le motivazioni di questo omaggio, “Giuseppe Panza di Biumo. La passione della collezione”, sono molteplici: l’esigenza di una ricostruzione critica ad ampio raggio della figura del collezionista, a quasi cinque anni dalla sua scomparsa, delle sue scelte nell’ambito del collezionismo internazionale e della promozione dell’arte contemporanea; la necessità di un’analisi approfondita delle sue proposte e strategie espositive in relazione al contesto italiano, artistico e istituzionale, degli anni SettantaOttanta; la mancanza di una conoscenza diffusa, in particolare in ambito romano, delle vicendedella raccolta. Un tassello in più dunque per approfondire la comprensione delle vicende dell’arte contemporanea e forse anche per riflettere sulla situazione attuale delle raccolte istituzionali. Il legame di senso tra l’iniziativa e l’Accademia di San Luca è basato proprio sull’accezione e il valore del collezionismo, pratica costante attraverso la quale si è formata fin dal ‹600 la galleria accademica,grazie alla norma degli antichi statuti che prevedeva che “ogni accademico... debba mandare all›Accademia in dono un›opera sua a perpetua memoria»; anche il principe era obbligato a lasciare «onorevole dono dell›arte sua», e più tardi anche il suo ritratto. Esiste una affinità, sottolineata dal Segretario Generale Francesco Moschini nel discorso introduttivo alla giornata di studio, tra il pensiero e le modalità di collezionare di Panza di Biumo che ha sempre proceduto a selezionare gruppi di opere in modo da rappresentare ogni artista con una sua “costellazione” e creare cosìcostellazioni diverse ma unitarie, confluite come nuclei significativi nelle raccolte dei maggiori musei di arte contemporanea (dal Museum of Contemporary Art di Los Angeles al Guggenheim di New York), e la naturale costituzione con raggruppamenti diversi delle collezioni dell’Accademia, simili a “costellazioni” di arte e pensiero create in tempi diversi. Veduta dell’allestimento, in primo piano Richard Nonas, The Venus of the South, Bari, January, 1975. Panza Collection
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Lawewnce Carroll, Buoy, 1987-1988. Panza Collection. Fotocredit Jaime Bretons - Gente, Alicante/Archivio Panza Collection
Nella galleria al terzo piano di Palazzo Carpegna, accanto alla selezione di opere delle raccolte dell’Accademia che annoverano oggi oltre un migliaio di pitture e sculture ed un numero assai cospicuo di disegni, è stato esposto,grazie alla collaborazione di Giuseppina Panza di Biumo e al sostegno della famiglia Panza, un nucleo di particolare rilevanza di lavori che documentanoalcuni dei momenti più significativi della collezione Panza e del suo sviluppo: dall’Espressionismo astratto di Franz Kline, al minimalismo di Richard Nonas, all’arte concettuale di Joseph Kossuth, per arrivare alle sperimentazioni, documentate nella terza fase della collezione a partire dal 1988, con le ricerche di Lawrence Carrolle i monocromi di Lies Kraal e Stuart Arends. Franz Klineè documentato con quattro disegni acquistati da Panza di Biumo alla Galleria La Tartaruga nel 1958 in occasione della prima mostra dell’artista americano in Europa appartengono ad uno dei nuclei iniziali della collezione. La loro presenza sottolinea il rapporto con Roma e come l’interesse di Panza per Kline e per l’arte americana, iniziato nel 1957, si definisca ulteriormente grazie a questa occasione espositiva nella capitale. “Era la prima mostra di Kline in Europa, a Roma, non a Parigi, la capitale dell’arte o a Londra, la città che aveva più relazioni con l’America. E’ un fatto importante che questo interesse sia nato in Italia prima che in altri paesi d’Europa” (G. Panza, Ricordi di un collezionista, Milano 2006). Richard Nonas, definito da Panza l’artista più radicale tra i Minimalisti, è presente con la scultura The Venus of the South, Bari, January 1975: realizzata come altri lavori dell’artista con una barra metallica di derivazione industriale, ulteriormente rimaneggiata con tagli e imperfezioni,rimanda alla bellezza mediterranea di una divinità femminile attraverso il rigore minimalista di un elemento plastico in acciaio “disteso” a terra. L’attenzione per l’arte concettuale, acquisitainsieme alle opere di arte minimal tra il 1970 e il ’72, è testimoniata da Titled (Art as Idea as Idea) (Meaning in Italian),1967 di Joseph Kosuth, la cui ricerca basata sulle relazioni tra significato, rappresentazione e comunicazione destò nel collezionista un interesse precoce. Gli sviluppi della così detta “terza fase”, datata a partire dal 1988 quando Giuseppe Panza riprende a collezionare nel momento del post modernismo, dopo un periodo di stasi che coincide con le acquisizioni di parte della raccolta al Museum of Contemporary Art di Los Angeles e al Guggenheim di New York,sono documentati dai lavori di Lawrence Carroll, Lies Kraal e Stuart Arends. Di Carroll, membro dell’Accademia di San Luca,Panza rilevava le affinità con il Rauschenberg degli anni Cinquanta e la sintonia con l’opera di Giorgio Morandi, dichiarata dallo stesso artista e messa in luce nella mostra Ghost House attualmente in corso al MAMbo di Bologna. La scultura Buoy, 1987-1988 è un esempio
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Franz Kline, Drawing, 1957 Panza Collection. Fotocredit Alessandro Zambianchi - Simply.it, Milano Franz Kline, Drawing, 1957 Panza Collection. Fotocredit Alessandro Zambianchi - Simply.it, Milano
della ricerca caratterizzata da opere di grandi dimensioni, in cui la complessità dell’esistenza, la realtà del dolore dell’umanità sono rese con un’arte tutta manuale fatta di legno, tela, colore e cera per esprimere «la metafora di quello che vediamo prima che il reale diventi reale» (G. Panza, Ricordi di un collezionista, Milano 2006). Lies Kraal e Stuart Arends lavorano diversamente con il colore e rappresentano quell’interesse verso “l’arte del colore”, la sperimentazione delle vibrazioni luminose e della materia cromatica che caratterizza dagli anni Ottanta la raccolta del collezionista. «Quello che posso dire – affermava Panza di Biumo – è che la mia ricerca va oltre i limiti di quello che si vede: tende a qualcosa che non riesco mai veramente a raggiungere, ma che ho la sensazione coincida con la pienezza della vita. Il sentore che tutto derivi da questa cosa incomprensibile… è una ricerca personale. Ho la sensazione che anche chi crea sia alla ricerca del superamento di qualcosa, che egli diventi lo strumento di una forza, di un soffio, di un’energia di cui solo raramente siamo consapevoli». Accanto al monocromo del 1991 di Kraal, vengono presentati due esempi di O.S. di Arends, piccole strutture cubiche, testimonianza della passione di Panza per «l’arte dei piccoli oggetti, da fare con le mani e soprattutto con le dita» (G. Panza, Ricordi di un collezionista, Milano 2006) rinnovando una tradizione antica, opposta all’interesse prevalente negli anni Sessanta e Settanta per le sculture Minimal e per l’Arte ambientale. La giornata di studio, articolata in tre sessioni (La figura di Giuseppe Panza di Biumo e il significato della collezione; Istituzioni pubbliche e collezionismo; Collezionismo e museografia) si è svolta con il coinvolgimento di alcuni dei maggiori studiosi di arte contemporanea (Gabriella Belli, Tommaso Trini, Maria Grazia Messina, Maria Vittoria Marini Clarelli, Caterina Bon, Anna Bernardini, Anna Chiara Cimoli, Claudio Zambianchi) e con il contributodi giovani contemporaneisti (Roberta Serpolli, Giulia Bombelli, Francesco Guzzetti e Riccardo Venturi) che hanno indirizzato i loro studi su Panza di Biumo e su temi relativi al collezionismo e all’arte americana del secondo Novecento. Di particolare interesse per la conoscenza della figura di Panza, oltre alle testimonianze della moglie Rosa Giovanna, che ha condiviso la passione e le scelte della collezione, e della figlia Giuseppina, sono stati gli interventi di Gabriella Belli e di Laura Mattioli che hanno messo in luce comela frequentazione di Panza e l’originalità della sua ricerca abbiano favorito la loro personale apertura versouniversi creativi inediti o poco conosciuti, e consentito di condurre esperienze fondamentali per i diversi ambitiprofessionalidi direttore di museo e di storico dell’arte, collezionista e promotore di arte contemporanea. Panza è stato un collezionista curioso e instancabile, determinato nell’individuare la qualità e la novità della produzione artistica e nell’operare le necessarie selezioni, stando sempre un passo avanti nel prevedere ciò che era ancora in divenire e stava per diventare ”contemporaneo”. È stato anche critico, curatore e museografo, perseguendo un progetto unitario, e ad ampio
Veduta dell’allestimento, in primo piano Franz Kline, Drawing, 1957. Panza Collection.
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Lies Kraal, Untitled No.3, 1991. Panza Collection. Fotocredit Alessandro Zambianchi - Simply.it, Milano
spettro,di formazione, presentazione e promozione della raccolta. “L’avventura del conte Panza – scriveva Tommaso Trini in un articolo su “Domus” nel 1968 – è l’avventura stessa dell’arte contemporanea che si supera mentre si realizza. Privata questa collezione lo è solo nel senso che rappresenta la passione quotidiana e la tensione di un uomo solo”. L’apporto di Giuseppe Panza di Biumo alle vicende dell’arte contemporanea non si ferma quindi alla prestigiosa collezione di arte statunitense che, come noto, conta già tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta pezzi talmente prestigiosi, come le opere di Rauschenberg, da figurare alla Biennale di Venezia del ’64 tra i prestiti più significativi nel padiglione statunitense. Consiste anche nelle proposte numerose a diverse istituzioni pubbliche e in varie città, da Roma a Milano a Torino, per la realizzazione di un museo italiano di arte contemporanea, a partire dalle opere della sua collezione. Sul tema del “sogno del museo” mai realizzato, e sul quale ci sono alcuni aspetti ancora da indagare, è intervenuto nella giornata di studio Tommaso Trini, testimone diretto della cultura artistica e della recettività di Panza, della sua condotta etica, fuori dalle imposizioni e gli stravolgimenti del mercato, e della partecipazione all’elaborazione dell’arte con il progetto dell’Environmental Museum pubblicato sulla rivista “Data” nel 1974. Maria Vittoria Marini Clarelli ha ripercorso il rapporto di Panza di Biumo con la Galleria Nazionale d’Arte Moderna per la realizzazione nel 1980 della prima mostra in una sede pubblica italiana di opere della collezione con le sculture minimal di Morris, Andre, Judd. L’iniziativa curata da Ida Panicelli fu diretta da Giorgio de Marchis, che in contemporanea in-
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viava al Ministero dei Beni Culturali la proposta, rimasta senza alcun seguito, per la realizzazione di un museo d’arte americana a Villa Doria Pamphili. Una possibile collocazione a Villa Torlonia era già stata avanzata da Palma Bucarelli all’inizio degli anni Settanta, contemporaneamente ai diversi progetti museali elaborati da Panza per varie sedi, tra cui Milano – di cui ha parlato Giulia Bombelli – in cui viene proposto un allestimento di arte ambientale, minimal e concettuale e anche il modello sperimentale di museo, come strumento di percezione e centro propulsore per il coinvolgimento della collettività attraverso laricerca artistica e le attività didattiche. Le presentazioni di parte della collezione in sedi espositive italiane ed europee e in musei di livello internazionale, realizzate da Panza a partire dagli anni Settanta, Caterina Bon Valsassina ha dato testimonianza del suo ruolo di curatrice e direttore di museo dell’allestimento nel Museo del Palazzo Ducale di Gubbio, per la quale è stato predisposto non senza difficoltà amministrative un comodato di cinque anni, dal 1998 al 2003, di alcune opere della “terza collezione”. Si tratta insieme al comodato presso il MART voluto da Gabriella Belli e la successiva esperienza del Palazzo Ducale di Sassuolo delle uniche aperture istituzionali italiane verso la collezione. Un altro aspetto fondamentale dell’attività di Panza è stata l’attenzione da sempre dedicata alla presentazione delle opere della raccolta. Agli aspetti e alle finalità museografiche perseguite dal collezionista è stata dedicata la terza sessione. Anna Bernardini, direttrice di Villa Panza-FAI ha ripercorso le fasi centrali dell’allestimento della collezione, a partire dal 1966, nella
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dimora di Varese, dove Panza ha dato una forma concreta e coerente alla sua visione estetica ed etica, cercando di stabilire un rapporto di osmotica reciprocità tra l’opera e lo spazio, come emerge nelle sue relazioni con Irwin, Flavin, Turrell, Nordman. La formazione del senso e del gusto allestitivo del collezionista in relazione alle esperienze che maturano nella Milano del dopoguerra, da Roger ad Albini, è stata analizzata da Anna Chiara Cimoli mentre Francesco Guzzetti ha esaminato gli aspetti relativi al collezionismo di arte primitiva e le relazioni con il contesto della collezione di arte contemporanea. Sulla consistenza della collezione un nuovo apporto di studio è stato quello proposto nell’intervento di Nicoletta Cardano relativo alle presenze degli artisti italiani: sedici in tutto, tra cui alcuni organici alle scelte di Panza come Maurizio Mochetti – presente con Cioni Carpi sin dalla fine degli anni Sessanta ed inserito nei diversi progetti museali – e come Ettore Spalletti, Amedeo Frattegianni e Sonia Costantini, inseriti dagli anni Ottanta nella terza fase della raccolta. La prospettiva di questa indagine porta non soltanto ad approfondire le personalità che a diverso titolo hanno toccato le corde della sensibilitàdi Giuseppe Panza, ma anche a ricostruire il rapporto non privo di polemiche tra Panza di Biumo e l’ambiente italiano. n Joseph Kosuth, Titled (Art as Idea as Idea) (Meaning in Italian), 1967 Panza Collection. Fotocredit Alessandro Zambianchi - Simply.it, Milano
Stuart Arends, O.S. No.8, 1993 Panza Collection. Fotocredit Alessandro Zambianchi - Simply.it, Milano
Stuart Arends, O.S. No.10, 1993 Panza Collection. Fotocredit Alessandro Zambianchi - Simply.it, Milano
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Galleria Christian Stein, Milano
Alighiero e Boetti
Tra sé e sé, abbracciare il mondo di Simona Olivieri
A
vent’anni dalla sua scomparsa, la Galleria Christian Stein dedica una eccezionale mostra ad Alighiero Boetti, in un percorso di opere storiche, alcune delle quali non più esposte da anni, per riscoprirne le diverse fasi di ricerca concettuale, poetica e umana. Realizzata in collaborazione con la Fondazione Alighiero e Boetti e curata da Sergio Risaliti e Francesca Franco, la mostra propone circa sessanta opere e si articola nelle due sedi della Galleria, quella storica nel cuore di Milano, dove sono presentate le opere d’inizio carriera e, gli ampi spazi di quella a Pero, dove hanno trovato spazio i lavori di grandi dimensioni. Dopo avere abbandonato gli studi di Economia, Alighiero Boetti, si avvicina a molteplici discipline, dalla musica alla matematica, dalla geografia alla filosofia e all’esoterismo, dalle culture africane a quelle del Medio ed Estremo Oriente. I suoi lunghi soggiorni in Afghanistan, i viaggi in Europa, in Africa, negli Stati Uniti e in Giappone hanno poi reso il suo lavoro molto profondo e complesso. Nel suo operare, Boetti, ha sempre privilegiato l’aspetto concettuale delle opere, ha analizzato temi come la serialità e la ripetitività delle pratiche, l’alternanza e il doppio nell’identità dell’uomo - arrivando anche ad adottare il suo nome sdoppiato: Alighiero & Boetti. Accumulare, raccogliere, riflettere, sono stati gli elementi di una ricerca ispirata dalla libertà d’espressione e caratterizzata da una costante sperimentazione. Il percorso espositivo parte dalle sue prime opere in mostre personali, tra il 1967 e il 1968 a Torino, proprio nella Galleria Christian Stein. In questi lavori un ruolo fondamentale è giocato dai materiali, l’assemblaggio di oggetti d’uso comune e di materie non tradizionalmente artistici ma derivanti da lavorazioni industriali come l’eternit, il ferro, il legno, le vernici a smalto, che conferiscono a queste opere un carattere fortemente concettuale, che va oltre i riferenti simbolici e culturali tradizionali. Troviamo, tra le altre, Mancorrente, Tavelle, Pavimento, Parallelepipedo luminoso, Eternit e Mazzo di tubi. Nel secondo spazio a Pero invece, è ripercorso lo sviluppo della successiva ricerca di Boetti, con una selezione di circa 40 opere. Il percorso si sviluppa seguendo differenti temi, dal corpo, all’identità, alla scoperta dell’altro. Sondando il mondo sia nei sui aspetti materiali, sia in quelli immateriali come il tempo, l’accumulo, l’ordine e il disordine, il quotidiano e la cronaca, la storia e il mito. Lungo le pareti si trovano autoritratti realizzati con diverse tecniche, la fotografia, la fotocopia, eseguiti sia a biro sia a ricamo. Tra questi, Io che prendo il sole a Torino il 19
Alighiero Boetti veduta mostra Christian Stein 1967 Ritratto con Mancorrente a squadra Clino e frou frou, 1966 Courtesy Galleria Christian Stein, Milano foto P. Bressano
Alighiero e Boetti, Tra sé e sé, abbracciare il mondo Galleria Christian Stein, Milano. Foto Agostino Osio Alighiero e Boetti, Tra sé e sé, abbracciare il mondo. Veduta. Galleria Christian Stein, Milano. Foto Agostino Osio
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Alighiero Boetti, A come Alighiero B come Boetti, 1988 ricamo su cotone cm 23,3x22,3. Foto Agostino Osio
Alighiero Boetti, Asta di misurazione e triplo metro, 1966 crediti fotografici Agostino Osio
Alighiero Boetti, Mappa, 1989-94 ricamo su tessuto cm 254x588. Foto Agostino Osio Paolo Mussat Sartor, Oggi è venerdì ventisette marzo millenovecentosettanta ore…, studio di Alighiero Boetti in via Luisa del Carretto, Torino, 1970, courtesy Eredi Boetti e Paolo Mussat Sartor
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Gennaio 1969, una sagoma sdraiata a terra, la duplicazione del corpo dell’artista, realizzata da tante sfere di cemento a presa rapida e plasmate con la forma delle proprie mani, gli danno volume, peso, una misura. È un lavoro che parla dell’uomo, della sua pelle e del suo rapporto con lo spazio e l’ambiente che lo circonda. Un po’ nascosta allo sguardo c’è una piccola farfalla che con la sua delicatezza e fragilità si contrappone alla ruvidità della materia. Raccolte e accumulo sono invece alla base del racconto attraverso le copertine delle riviste di Anno 1990, composto da 12 pannelli, come lo sono i mesi dell’anno e su ogni pannello sono rappresentate a matita, ricalcandole, 12 copertine di riviste internazionali che si riferiscono a ciascun
mese. Il disegno in bianco e nero annullando il colore rende l’opera più riflessiva, meno effimera e fugace. Nelle Mappe - vere e proprie immagini del mondo contemporaneo, geografie, terre perse e conquistate - il disegno non parte dall’immaginazione dell’artista ma da scelte fatte da altri. Le nazioni sono indicate e realizzate con i colori delle rispettive bandiere e variano, negli anni, al variare delle situazioni politiche. Le Mappe, queste raffigurazioni del mondo attraverso le bandiere dei popoli, sono il modo che ha Boetti di accompagnarci oltre oceano, sui libri di scuola, negli atlanti. Realizzate da ricamatrici afgane, queste opere hanno la potenza delle idee, del pensiero, dell’invenzione; carte geografiche, mappamondi piani lavorati con estrema
Alighiero e Boetti, Tra sé e sé, abbracciare il mondo, Galleria Christian Stein, Milano. Foto Agostino Osio
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
fantasia e impegno, non raccontano dell’abilità dell’artista di realizzarle, tecnicamente ma piuttosto, quello di creare una nuova (o diversa) chiave di lettura che permette a un oggetto, a una forma, ad un disegno di diventare qualcosa di altro da sé. Le 51 Poesie con il sufi Berang, composta, appunto, da 51 arazzi quadrati, dove prende forma la libertà giocosa del colore pur rimanendo all’interno di una rigida griglia. Esposti per la prima volta al Centre Pompidou di Parigi, i 51 arazzi alternano frasi di Boetti in alfabeto latino con poesie in farsi, appositamente realizzate dall’afghano Sufi Berang, conosciuto e frequentato durante i soggiorni a Peshawar. Alighiero Boetti viaggiò molto: per piacere, per lavoro, così anche nelle sue opere ci fa con-
tinuamente cambiare città, nazione, popolo e lingua. Œuvre Postale - della serie dei lavori postali - è caratterizzato da innumerevoli combinazioni di buste, francobolli, colori. Quale sia il contenuto di questa corrispondenza, a prevalere è la segreta bellezza dei fogli inviati in queste buste, è il senso poetico, sono le emozioni, la geometria delle relazioni e degli incontri. E poi l’Autoritratto, una fusione in bronzo della figura, in dimensioni reali, dell’artista che simbolicamente rappresenta i quattro elementi aria, acqua, terra e fuoco. Opere ma allo stesso tempo processi, occasioni di riflessione sulla natura e lo stato delle cose. Fanno venire in mente la cura e la consistenza delle esperienze che viviamo. n
Alighiero e Boetti, Tra sé e sé, abbracciare il mondo, Galleria Christian Stein, Milano. Foto Agostino Osio
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Lia Rumma, Milano-Napoli
Ugo Mulas di Stefano Taccone
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poco più di quarant’anni dalla prematura scomparsa di Ugo Mulas (Pozzolengo, 1928 - Milano, 1973), Lia Rumma gli dedica - in collaborazione con il suo archivio ed affidandola alla curatela della newyorkese Tina Kukielski – una mostra, The Sensitive Surface, che, dislocata nelle due sedi della galleria, si concentra prettamente sugli ultimi quattro anni di attività del fotografo lombardo (1969-1973), coincidenti anche con quello che probabilmente va considerato il suo periodo di sperimentazione più acuta, quello – tra l’altro – del suo impegno sul terreno dell’elaborazione di una fotografia concettuale, in parallelo a quanto nei medesimi anni avviene sul piano delle arti visive e non solo. Una fotografia che rifletta cioè tautologicamente sui suoi stessi strumenti.
Testimonianza di tale cimento è rinvenibile soprattutto nella sede milanese, il cui primo piano è quasi interamente occupato dalle opere appartenenti alla celebre serie delle Verifiche, ovvero fotografie stampate direttamente dai negativi vuoti che, trascendendo in tal modo il tempo e lo spazio – in quanto espressione del rifiuto di intendere e quindi realizzare la fotografia esclusivamente come pura trascrizione indicale di una sezione spazio-temporale – fanno sì che l’attenzione si focalizzi sugli elementi linguistici e strutturali stessi dell’attività fotografica, in conformità con logiche e modalità che - pur conservando per i decenni successivi e tutt’ora la loro spiccata rilevanza – sono assolutamente radicate entro gli umori e le ossessioni di quel tempo, segnato da una possente spinta a definire e chiarire i caratteri precipui di ogni linguaggio, evidenziandone la dimensione di mera convenzione, contrapposta – e tale punto costituisce una sorta di cardine per il Filiberto Menna de La linea analitica dell’arte moderna (1975), da reputarsi uno dei tentativi meglio compiuti di ricostruire la parabola storica di tale tendenza e di riflettere sulla sua essenza e sul suo significato, ma anche una
Ugo Mulas, Roy Lichtenstein, New York, 1964 © Eredi Ugo Mulas. Courtesy Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli Jasper Johns, Ombre, New York, 1967 © Eredi Ugo Mulas. Courtesy Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Ugo Mulas, Trish Brown nello studio di Robert Rauschenberg New York, 1964. Gelatin silver print on baritated paper on aluminium 18x24 cm © Eredi Ugo Mulas. Courtesy Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
delle espressioni più estreme della tendenza stessa – ad una “concezione naturalistica del linguaggio”, ove cioè sussiste ancora il “presupposto di corrispondenza immediata tra linguaggio e realtà”. Inutile dire che Menna non manca di prendere tempestivamente atto delle Verifiche di Mulas, menzionandole nel paragrafo intitolato La fotografia analitica al fianco di altre ricerche internazionali che negli anni Sessanta e Settanta si muovono in direzione affine ed osservando come dalla tra-
dizione che vuole la fotografia in grado di produrre immagini perfettamente uguali alla realtà la pratica analitica non possa derivare un ulteriore stimolo a rimarcare l’erroneità del principio del rispecchiamento tra significante e significato. Ma oltre ad essere importante esponente egli stesso - come abbiamo ampiamente considerato – della sperimentazione artistica di quei decenni, Mulas – come è noto – è anche tra i fotografi maggiormente dedicatosi a documentare il lavoro
Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Courtesy Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
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degli artisti visivi del suo tempo – a tal proposito non va del resto dimenticato che egli, abbandonati i suoi studi di legge, si avvicina prima al mondo dell’arte, tramite la frequentazione dell’ambiente dell’Accademia di Brera e del Bar Jamaica, ritrovo di artisti ed intellettuali dell’epoca, e, solo in un secondo momento, approda alla fotografia -, benché naturalmente tale esercizio non avvenga all’insegna di alcuna – peraltro impossibile – neutralità, ma sempre di una cifra personale e di uno studio accurato. Dal sandwich di Claes Oldenburg un po’ incongruamente posato su di un sontuoso mobiletto che arreda la villa del celebre collezionista Giuseppe Panza di Biumo allo studio romano di Cy Twombly - ove, tra l’altro, una grande tela con i suoi peculiari segni campeggia in primo piano sul pavimento a mo’ di tappeto -; dal faccione muliebre in fil di ferro di Alexander Calder - dalla frequentazione del quale scaturisce più tardi (1971) un libro, con foto ambientate sia nell’abitazione statunitense che in quella francese dello scultore – alle immagini degli angoli degli studi newyorkesi di esponenti della Pop art come Andy Warhol o James Rosenquist – il viaggio che Mulas compie nel 1964 negli Stati Uniti non è senza conseguenze per una precoce conoscenza delle novità d’oltreoceano in Italia –, fino al documentario girato da Nini Mulas presso gli studi di alcuni artisti newyorkesi con interviste di Rossana Rossanda, il secondo piano della sede milanese ci offre così una sorta di carrellata su alcuni dei maggiori protagonisti dell’arte europea ed americana dei primi decenni del secondo dopoguerra. «Negli ultimi anni», scrive Menna ancora ne La linea analitica, «l’esperienza estetica è vissuta sotto il segno di queste due costanti: da un lato l’artista si concentra in se stesso, riflettendo sui propri procedimenti e sulle funzioni mentali che stanno a monte di essi; dall’altro si sporge sul mondo, penetra nello spazio e in qualche modo lo modifica. Arte concettuale e Arte del 48 - segno 251 | GENNAIO/FEBBRAIO 2015
Ugo Mulas, Edilio Alpini, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele Devecchi, Tempo libero, Campo Urbano, Como, 1969. Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Courtesy Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
Ugo Mulas, Autoritratto con Nini. A Melina e Valentina, 1972 Gelatin silver print on baritated paper 50,7x40,8 cm Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati Courtesy Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
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Ugo Mulas, L’operazione fotografica. Autoritratto per Lee Friedlander, 1971. Gelatin silver print on baritated paper on aluminium 40,5x40,5 cm Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Courtesy Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
comportamento operano all’interno di questa struttura bipolare della centralità e della dispersione». Se fino ad ora ci siamo lungamente soffermati sulla prima delle due attitudini, essendo naturalmente quella propria di Mulas, un’iniziativa come Campo Urbano - curata da Luciano Caramel nel 1969 ed avente come teatro le strade di Como, letteralmente prese d’assalto, sia pure per un solo giorno, da interventi performativi o anche ambientali, ma comunque dal valore effimero ed in grado di indurre ad una reazione gli spettatori, come avviene ad esempio nel caso di Copro una strada e ne faccio un’altra di Ugo La Pietra – rientra a tutti gli effetti nel secondo. Ecco perché Mulas, dovendo documentare la manifestazione – ad essa sono dedicate la maggior parte delle fotografie esposte nella sede napoletana – mette a punto una sorta di aporetica fusione tra l’analitico,
che è la modalità sua propria, e l’evenemenziale, che gli viene invece suggerito dagli oggetti con i quali è chiamato a confrontarsi, individuando nei provini, con la loro contemporanea capacità di additare la convenzionalità del mezzo e di esprimere lo sviluppo nel tempo delle azioni registrate, l’espediente per fondere due vocazioni apparentemente incomunicabili. L’inconfondibile rigore concettuale convive così con una sorta di tensione a gareggiare con la performance sul suo stesso terreno in immagini come quelle della tempesta artificiale di Edilio Alpini, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi o quelle della Marcia Funebre o della geometria di Paolo Scheggi – ove, tra le altre, sperimenta anche le possibilità dei colori -, un prezioso corpus che diviene poi materia prima per il documentario su Campo Urbano che pure è esposto nella sede napoletana. n GENNAIO/FEBBRAIO 2015 | 251 segno - 49
Foto: Marchesini Photography. Courtesy Fondazione Ducci
Mostre in Italia e Austria
Hermann Nitsch
Azionismo pittorico e partiture musicali di Anna Imponente
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el corso del 2014, in un gemellaggio stretto tra Austria e Italia, in particolare tra il Nitsch Museum di Mistelbach, il castello-museo di Prinzendorf, la Fondazione Ducci a Roma e quella Morra di Napoli, hanno avuto luogo in uno scambio serrato, una serie di manifestazioni dell’artista austriaco che meglio sembra incarnare, nella contemporaneità, il mito internazionale del Caravaggio: la più recente al Museo Archivio Laboratorio per le Arti Contemporanee Hermann Nitsch di Napoli, a cura di Michael Karrer. La tensione esistenziale insita nel suo lavoro supera il concetto di limen (limite) e forza drammaticamente le soglie del conscio e della razionalità per aprirsi a una esperienza totalizzante di ebbrezza in unione estatica con il ‘flusso infinito della metamorfosi del mondo’. Le composizioni
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musicali sempre inedite di cui Nitsch scrive la partitura, come la ‘Sinfonia da camera per la Fondazione Ducci’ eseguita lo scorso giugno alla Biblioteca Angelica di Roma a preludio della mostra ‘Carne e Luce’, si pongono in progressione parallela e con un ruolo determinante rispetto alle altre forme di espressione, dalla pittura alle installazioni di oggetti, alle fotografie, ai video, al teatro. Le esecuzioni musicali si integrano con gli altri registri artistici e ne enfatizzano la lettura, collocandosi subito, con tutta l’intensità emotiva dei beni immateriali, nella sfera mistica della spiritualità. In questo unico grande ciclo espressivo dove non esistono più divisioni tra mezzi scelti, lo spettatore viene immediatamente coinvolto in una pura dimensione sensoriale. Mentre la pittura è concrezione materiale e, tuttavia, anche fiamma di colori suonanti, a misurare la temperatura dell’eccitazione primaria psicofisica interviene un altro calore, quello della musica. Alle infinite, sottili colature ritmiche stese sulla tela possono corrispondere i suoni degli strumenti a fiato e a percussione che producono rumori e rimbombi naturalistici che sembrano sorgere e suonare da sé, prolungarsi al limite della sopportazione e dello sfinimento uditivo. La necessità di ampliare la gamma dei suoni e di creare sonorità inconsuete, sembrano riportare alle ricerche sperimentali delle orchestre futuriste.
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Foto: Marchesini Photography. Courtesy Fondazione Ducci
Foto: Marchesini Photography. Courtesy Fondazione Ducci
Foto: Marchesini Photography. Courtesy Fondazione Ducci
L’irruzione, invece, dell’armonia di ‘motivetti’ romantici e sentimentali, riconducibili ad un folklore locale, trova riscontro sia nella energia avvolgente del naturale impulso motorio circolare della più recente pittura di azione ‘Malaktion’, dalle tonalità squillanti, in mostra a Napoli, che nella presenza di forme riconoscibili e rassicuranti quali i paramenti sacri della tradizione cristiana. Il processo di realizzazione del quadro, emblematico di ciò che resta di una azione avvenuta qui e ora seguendo gesti elementari che battono la superficie della tela, sembra lo stesso della partitura musicale, libera, atonale, pervasa da un concetto di tempo che mantiene lo stesso timbro, modulando un ritmo indeterminato. Quando poi la musica diventa muta, e tace, in una estasi di purificazione l’Orgyen Mysterien Theatre, i corpi umani sacrificali degli attori, del direttore d’orchestra, dei musicisti, e quelli testimoniali degli spettatori, rimangono al centro dell’attenzione. L’arte non copia la vita reale, la rappresenta nell’immediatezza di un rito catartico collettivo che serve a liberarci, sebbene temporaneamente, dai tabù. n GENNAIO/FEBBRAIO 2015 | 251 segno - 51
Martin Parr, The Amalfi Coast, Sorrento 2014, cm 100x150, ed.5. © Martin Parr / Magnum Photos / Studio Trisorio
Studio Trisorio, Napoli
Martin Parr di Stefano Taccone
A
d oltre quattro anni di distanza dalla sua miniretrospettiva Four Decades (2010) - tesa a delineare, con pochi ma significativi esemplari, un percorso mirante ad un’accurata narrazione visiva del costume quotidiano, quello medio borghese delle società del capitalismo avanzato, ma attraverso un’evidente dose di sarcasmo, secondo una linea che, rinvenendo precedenti illustri in tanti fotografi di reportage sociale del secolo scorso, risale fino al pittore settecentesco suo connazionale William Hogarth -, il fotografo inglese Martin Parr (Epsom, 1952) torna ad esporre presso lo Studio Trisorio approfondendo un motivo già presente nella mostra del 2010 – quello della spiaggia con i bagnanti –, ma svolgendolo, in questa occasione, in rapporto al contesto geografico ove è chiamato ad esporre, come lo stesso titolo The Amalfi Cost lascia presagire, benché le foto non siano in realtà esclusivamente scattate ad Amalfi - ma anche a Capri, a
Pompei, a Positano, a Sorrento, nonché nella stessa Napoli -, né siano esclusivamente di ambientazione balneare -, ma si possa trovare, ad esempio, anche una fotografia che ritrae le caratteristiche statuette di Via San Gregorio Armeno dedicate a personaggi dell’attualità, come Papa Francesco o i calciatori del Napoli, o qualche foto degli scavi di Pompei. Queste ultime meglio e più di altre, peraltro, in grado di rievocare la memoria del Gran Tour che opportunamente il testo del catalogo richiama. Il richiamo al Gran Tour, in quanto tradizionalmente viaggio delle classi alte ai fini della crescita culturale, è però appropriato senz’altro in riferimento all’attività di Parr, che fin dal 2013 ha appunto esplorato certi luoghi al fine di carpire situazioni ad hoc, ma assai meno se impiegato a proposito del “popolo dei lidi”, in quanto manifestazione tra le più tipiche piuttosto della massificazione delle esperienze inevitabilmente associata ad un benjaminiano atteggiamento distratto, tra selfie e partite a scopa, pance al sole e corroboranti nuotate; e tanto più dal momento che il fotografo sembra aver accuratamente selezionato le situazioni specificamente dotate di accezioni leggermente grottesche e kitsch - ma senza lambire mai il parossismo -, sembra aver fatto in modo che risulti una netta prevalenza di personaggi panciuti o
Martin Parr, The Amalfi Coast, Capri 2014, cm 65x90, ed.10 © Martin Parr / Magnum Photos / Studio Trisorio
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Martin Parr, The Amalfi Coast, Capri 2013, cm 65x90, ed.10. © Martin Parr / Magnum Photos / Studio Trisorio
Martin Parr, The Amalfi Coast, Sorrento 2014, cm 65x90, ed.10 © Martin Parr / Magnum Photos / Studio Trisorio
comunque non particolarmente conformi agli standard di bellezza - pur senza mai imbattersi nella deformità o nel mostruoso. La massificazione è parente prossima dell’omologazione, aspetto di cui dimostra di essere consapevole lo stesso Parr quando osserva che «un giorno in spiaggia è uguale in tutto il mondo». Eppure dalla sua ricognizione Napoli esce come eccezione piuttosto che come conformità a tale regola, confermando la sua tradizionale resistenza ad uniformarsi rapidamente ai tratti più tipici dell’omogeneizzazione prodotta dalla modernità e ad abbandonare quei caratteri peculiari che la rendono ancora una particolarità nel mondo – e tale discorso non equivale affatto ad un luogo comune sprovvisto di fondamento! La globalizzazione non ha del resto quanto meno rallentato da un po’ di anni il suo prima apparentemente inarrestabile cammino? E siamo così sicuri che sia davvero il nostro futuro? Gli spazi iperaffollati, ove ogni possibilità di privacy risulta vana, la naturale concitazione e l’immaginabile baccano esprimerebbero così “un modo tutto napoletano di stare al mondo” che rappresenta, in ogni caso, un mondo assai distante dalle immense spiagge di altri suoi progetti degli scorsi decenni, siano esse sudamericane o europee, dell’Europa latina o dell’Europa anglosassone. n
Martin Parr, The Amalfi Coast, Amalfi 2013, cm 65x90, ed.10 © Martin Parr / Magnum Photos / Studio Trisorio
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Claudio Poleschi Arte contemporanea Galleria e Chiesa di San Matteo, Lucca
Salviamo la pelle
“S
alviamo la pelle”, titolo della mostra allestita negli spazi della Galleria Claudio Poleschi a Lucca, più che un grido d’allarme è un monito rivolto agli appassionati d’arte esortati a guardare le opere ed i loro creatori tenendo presente soprattutto l’intensità e l’umanità che essi trasmettono. Gli artisti proposti, scrive la curatrice Didi Bozzini “negli interstizi del bailamme epocale, si sono tracciati itinerari individuali di grande originalità e di ben più alto profilo, caratterizzati dalla profonda ed intensa umanità dei loro contenuti. Percorsi di artisti che hanno remato controcorrente per mettere la vita al centro del loro fare, scegliendo l’Uomo e non l’Arte, la psiche e non la techné, la sostanza e non la forma, come soggetti privilegiati delle loro opere. Perché quello che importa in un’opera è appunto quell’attenzione delicata e profonda alla condizione umana, quella capacità di penetrarla con acutezza e di parlarne con intenso sentire, che siamo soliti chiamare umanità”. In una promiscuità di fonti stilistiche e contenuti scorrono sotto gli occhi dei visitatori i lavori di una trentina di artisti appartenenti a varie generazioni, la cui indagine si sviluppa attraverso pittura, scultura, disegno, foto, video, che si fanno segni di narrazione, ma anche simboli di una identità che conosce la separazione e la ricostruzione, in un continuum, in cui la storia dell’immagine costituisce una fonte inesauribile da cui trarre materiale di riflessione. “Da Policleto a Michelangelo, da Caravaggio a Goya e Blake, fino a Bacon, Abramovic o ai fratelli Chapman, - scrive ancora la curatrice - la rappresentazione della figura umana è stata da sempre deputata ad esprimere tanto la visione ideale quanto la caricatura sociale, la tensione verso il divino come l’attrazione per il profano, la sfera psicologica come le aspirazioni politiche. Paradiso e Inferno, Eros e Tanatos, Io e Mondo, riuniti Marina Abramovic, Balkan Baroque, 1997. Cibachrome su alluminio cm 123 x 216
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Gino De Dominicis, Senza titolo, Anni 80. Olio su tavola, cm 80 x 60; In alto: Orlan, Vierge blanche en assomption sur nuages de plastique bulles et moniteur video, 1983. Cibachrome print su alluminio, cm 160 x 120; Sopra il titolo: Nobuyoshi Araki, Yamorinski, 2000. Cibachrome cm 97 x 77
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Balthus, Japonaise à la table rouge, 1964. Matita su carta, cm 45,8 x 56,4
Santiago Sierra, Una persona, 2005. Fotografia B/N su forex, cm 180 x 120 Courtesy the artist and Prometeogallery
in una sola entità fatta di carne ed ossa, muscoli, pelle, sangue, sguardo, espressione, ombra. Una figura dall’aspetto fisico e dalla sostanza metafisica.” Sostanza che, con un solo termine definirei “intimo”, un qualcosa a cui non si accede mai fino in fondo anche laddove appartiene a noi stessi, anche laddove si qualifica come solipsistica autoriflessività. L’intimo più che una meta è una promessa che non conosce esattamente la sua consistenza, ma solo la sua processualità. Questa processualità si può condividere ed allora è giusto che abbia i colori della pienezza e la lucidità della conoscenza diretta, ma si può anche esibire per assaporarne meglio l’imprendibilità ed allora è giusto che abbia lo splendore della superficie e l’indeterminatezza del dettaglio. “Salviamo la pelle - ci avverte ancora Didi Bozzini - è quindi l’esortazione (provocatoria) rivolta all’ipotetico visitatore della mostra, affinchè ritrovi la dotta innocenza del pensiero di Aristotele e la meraviglia sapiente dello sguardo di Picasso. Si faccia forza e resista alle sirene del nostro tempo, tornando a guardare le opere per quello che esprimono e non per quello che è stato impresso su di esse. Si rivolga verso l’arte per trovare il senso della vita e non spenda la vita a cercare quello di un’arte che senso non ha.” Che altro aggiungere se non che gli artisti scelti per questa mostra (Marina Abramovic, Jane Alexander, Nobuyoshi Araki, Balthus, Carlo Carrà, Jake & Dinos Chapman, Mat Collishaw, Gino De Dominicis, Jan Fabre, Rainer Fetting, Julio Galan, Regina José Galindo, John Isaacs, Pierre Klossowski, Osvaldo Licini, Alberto Martini, Luigi Ontani, Orlan, Claudio Parmiggiani, Gabriele Picco, Marc Quinn, Simone Racheli, Alberto Savinio, Santiago Sierra, Mircea Suciu, Sandra Vásquez de la Horra, Joel-Peter Witkin) sono interpreti privilegiati della sensibilità ai margini del non detto e dell’incomunicabile ed è questo qualcosa di più che un miracolo in un’epoca in cui nessuno abita più il mondo, ma solo la sua descrizione, nessuno vive più i fatti, ma solo il loro rispecchiamento nella notizia. (a cura di Lucia Spadano e citazioni da Didi Bozzini) Mat Collishaw Ideal boys (Francesco e Gennaro) - 1997 3-D lenticular transparency, lightbox cm 51 x 61 x 7,5
Pierre Klossowski, Au miroir révélateur, 1985. Pastelli su carta, cm 197 x 145 Jake & Dinos Chapman, Fuck face, 1994. Materiali vari, cm 150 x 74 x 57 Luigi Ontani, Tentazione, 1970 Stampa fotografica, cm 207 x 100
Regina Josè Galindo, Limpieza Social, 2006. Galleria Civica Arte Contemporanea di Trento. Trento, Italia, Lambda print on forex, 70x105cm, Photo Credit Hugo Muñoz
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Cortile di Palazzo Strozzi, Firenze
Bianco-Valente Intervista a cura di Anna Saba Didonato ino al prossimo 25 gennaio, il cortile di Palazzo Strozzi a Firenze ospiterà F l’intervento ambientale di Bianco-Valente,
per la cura di Elena Magini, nell’ambito del progetto Palazzo Strozzi Contemporaneo. La poetica installazione del duo artistico napoletano sembra suggerire nuove possibilità di orientare sé stessi e il proprio portato di esperienze secondo coordinate non del tutto lineari e lontane da logiche deterministiche. BV: Con Tu sei qui abbiamo voluto alterare la normale fruizione del Cortile di Palazzo Strozzi da parte dei tanti fiorentini e turisti che quotidianamente lo attraversano. L’idea è quella di attivare un momento di riflessione che permetta alle persone di riconoscere la complessità del flusso di eventi che ha plasmato la loro esistenza e ha fatto si che proprio in quel momento si siano venute a trovare in quel luogo, di fronte alla nostra opera. Un pannello specchiante, con la scritta “tu sei qui”, indica la posizione dell’osserva-
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tore mentre una serie di fasci luminosi, proiettati dall’alto, delinea sulla pavimentazione del cortile la molteplicità di esperienze e percorsi che si intersecano nella vita delle persone. Quasi un ingrandimento al microscopio dell’organicità della storia di tutti e di ciascuno. BV: Tendiamo a considerare la nostra storia come frutto esclusivo delle scelte compiute nel corso della vita, veniamo educati fin da piccoli a pensare in questo modo. Riflettendo sugli eventi che hanno costellato la propria storia personale, ci si rende subito conto che oltre alle scelte hanno contribuito in maniera determinante anche innumerevoli casualità, incontri con persone che ci hanno illustrato il mondo dal proprio punto di vista, gli errori di valutazione, alcune incredibili e inspiegabili “coincidenze”, le energie legate ai luoghi che abbiamo attraversato, etc. Tutti questi eventi sono intrecciati fra loro in maniera inestricabile, ed è questo intreccio, unico per ognuno di noi, che dona fascino ad ogni esistenza. Voi, dunque, dove siete? BV: Bella domanda! Possiamo dire che quando non siamo in giro per il mondo siamo a Napoli e muoviamo i nostri passi su questa sottile striscia di terra sospesa sulle due caldere vulcaniche più pericolose
e distruttive d’Europa. Solo qui, e in altri pochi posti al mondo, puoi sentire quanto la vita e la morte, il paradiso e l’inferno possano essere così vicini e donarsi senso reciprocamente. n
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Galleria Vistamare, Pescara
Rosa Barba
I
n occasione della prima mostra complessiva a Vistamare, Rosa Barba (Agrigento 1972) ha presentato una selezione di opere, di cui alcune realizzate espressamente per la galleria. Di queste, tre sono le sue note sculture filmiche, una è una grande opera in feltro, un’altra un oggetto realizzato con filtri colorati, poi un lavoro composto di sei grossi calchi di gesso che in superficie rivelano le impronte di migliaia di lettere di stampo tipografico. Il cinema è da sempre il punto di partenza del suo lavoro. Attraverso le installazioni, Rosa Barba persegue una personalissima esplorazione del cinema e della sua capacità di essere allo stesso tempo mezzo astratto, un veicolo informativo, e oggetto materico dalle forme plastiche. In sculture come Focus Puller 2013, l’artista si interroga sul ruolo dello schermo, che a tratti appare superfluo, e diversamente si rivela aldilà di convenzioni formali come una superficie che riceve informazioni. Nel grande lavoro intitolato Sea Sick Passenger 2014, Barba riprende il linguaggio formale già avviato con i precedenti schermi realizzati in feltro, introducendo al contempo elementi nuovi. L’ampia tela quadrata invece di scendere dal soffitto, poggia sul pavimento, sollevata lievemente da terra quel tanto da generare un’ombra. Come altri lavori, anche questo appare di difficile lettura, costringendo l’osservatore a una sola
Rosa Barba, Recorded Expansions of Infinite Things (Matrix), 2012. 6 calchi in gesso Installation view, Rosa Barba, Color Clock (yellow): Verticals Lean Occasionally Consistently Away from Viewpoints, 2012. Scultura filmica, pellicola 1x35-mm, motore. In primo piano, Ettore Spalletti, Caro Rietveld, 2007. Sedia Zig zag di Rietveld, risma di carta velina.
Rosa Barba, Sea Sick Passenger, 2014. Testo ritagliato su feltro
prospettiva fruibile: quella di guardare verso il basso mentre ci cammina sopra. Il corpo del lettore viene così introdotto in una sorta di matrice cinematica che mima il movimento del braccio della macchina da scrivere, col suo scattare avanti e indietro sulla pagina. Oltre a presentare le proprie opere, Rosa Barba ha invitato tre altri artisti a partecipare alla mostra. Trova così modo di dialogare, all’interno di un medesimo spazio, con Ettore Spalletti, Daniel Roth e Leonor Antunes. Ha chiesto a ciascuno di realizzare un’opera partendo dallo spunto fornito da un oggetto che ha inviato loro o dalla conversazione avuta insieme. Spalletti ha ricevuto degli strumenti per l’incisione su marmo, barre colorate in argento con punte dorate; con Roth, Rosa Barba ha discusso dell’interpretazione del paesaggio come oggetto; infine ha consegnato ad Antunes un barattolo di pigmenti blu. I lavori generati dai reciproci scambi artistici sono stati collocati in stanze differenti per tutta la durata della mostra. (dal c.s. Lucia Spadano - foto credit Giovanni Di Bartolomeo) Rosa Barba, Recorded Expansions of Infinite Things (Matrix), 2012. 6 calchi in gesso (particolare) Rosa Barba, This Space Populated by Infinite Colors (Lee Filters CL158-029), 2014. Filtri in vetro, legno
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Kunstmuseum Bern, Berna
Nakis PANAYOTIDIS Vedere l’Invisibile
I
l Kunstmuseum di Berna presenta un’ampia panoramica della produzione artistica di Nakis Panayotidis (nato ad Atene nel 1947, dal 1973 risiede e opera a Berna, con soggiorni estivi a Serifos, un’isola delle Cicladi) a partire dagli anni Settanta fino ad oggi. La mostra di questo maestro di metafore, suscitatore di archetipi, di flussi di coscienza e memoria, assume il titolo di un paradosso: Vedere l’Invisibile. L’annuncio oracolare di un pensiero, in lingua italiana e nella modalità formale della scritta luminosa al neon Vedo Dove Devo, sulla facciata del museo, dà già un segno visivo sul significante e significato della mostra. Mettere in contiguità il passato ed il presente è già un modo di affermare che l’arte è sempre contemporanea. Il processo della venuta alla luce dell’opera accade nel Kronos, nel tempo degli orologi, ma l’opera compiuta appartiene all’Aiòn, il tempo immobile dell’infinito. Lo stesso concetto è ribadito dall’aforisma, in lettere greche, Diventi quello che sei. Procedono, metonimicamente, nei suoi dispositivi mentali e materiali, anche il Mito e il Quotidiano, il Silenzio e la Parola, il Sacro e il Profano. Questa mostra, promossa dal direttore del Museo Matthias Frehner e curata con il commissario Regula Berger, è la seconda, che il Kunstmuseum Bern dedica all’artista, dopo quella realizzata nel 1994 dal direttore di allora Hans Christoph von Tavel. Alcune opere sono state realizzate in occasione di questa grande rassegna di quadri, disegni, fotografie, rilievi, oggetti, installazioni. Thierry Spitzer ha realizzato, durante il montaggio della mostra il film Nakis Panayotidis: Are you talking to me? in lingua italiana con sottotitoli, citando la domanda che Robert De Niro, in Taxi Driver, rivolge, estraendo la pistola, ad un ipotetico interlocutore. Il seducente allestimento della mostra segue un percorso a ritroso, dal contemporaneo al passato e si articola, di sala in sala, in ampie sezioni che tematizzano Il Passato e il Presente, La Percezione, La Luce e L’Ombra, Il senso delle Cose, mostrando anche I primi lavori, Il cinema. La mostra è documentata da un esauriente catalogo, Scheidegger & Spiess edizioni, Zurigo, con immagini delle opere e testi critici di Matthias Frehner, Regula Berger, Bruno Corà, Sabine Hahnloser Tschopp, Donald M. Hess, Hans Christoph von Tavel, Thierry Spitzer, Petros Markaris. La mostra sarà ospitata successivamente al MACRO, Museo d’Arte Contemporanea Roma e All’Hess Art Museum, The Hess Collection Winery, NAPA, California, Stati Uniti. “È la luce - scrive Bruno Corà, nel testo - che non cessa di alimentare le Macchine celibi di Nakis Panayotidis”, è il movimento del vapore, che si diffonde dalla dischiusura di una valigia, ma anche i movimenti virtuali del passaggio dalla luce all’oscurità, dal fuoco allo sfocato, dal palese al nascosto, che non cessano di mettere in opera la sua Poiesis. Viana Conti Nakis Panayotidis My time is not your time, 1989 – 2014 Schubkarre, Sand, Wecker, Kerze 60 x 155 x 57 cm © dell’artista © Foto: Dominique Uldry, Bern
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Nakis Panayotidis, WISE, 2013. Neon, Plexiglas, Koffer, Dampf, 23 x 45 x 32 cm, 100 x 52 x 42 cm (Sockel) © dell’artista © Foto: Franz Schwendimann, Bern
Nakis Panayotidis, VEDO DOVE DEVO, 2014. Neon, Grafit, 50 x 965 cm © dell’artista © Foto: Dominique Uldry, Bern
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Galleria Santo Ficara, Firenze
Alessandro Mendini Francesco Caberlon Stilemi Moderni
C
urata da Marco Meneguzzo, la mostra “Stilemi Moderni”, pone in relazione le opere di due artisti, Alessandro Mendini e Francesco Caberlon, anagraficamente e stilisticamente distanti tra loro, stabilendo un rapporto di “comparazione per confronto o differenza, e per similitudine”. “Ora, di questi due artisti - scrive Marco Meneguzzo - chi si è sempre occupato di modelli in maniera costante e quasi maniacale è stato Mendini, che su questa ricerca e analisi ha costruito la sua immagine pubblica di teorico, di designer, di architetto, di artista; di più, una sorta di “primato dell’età” – retaggio di un’epoca arcaica, in cui gli anziani erano i depositari dell’esperienza e quindi i più ascoltati – ci porta inevitabilmente a considerare il rapporto Mendini/Caberlon come un rapporto tra maestro e discepolo, e altrettanto inevitabilmente a cercare in Caberlon quanto della ricerca di Mendini vi sia ancora, magari trasfigurata, trasformata, ma comunque sempre presente in qualche nascosto recesso della creatività iniziale. Così, un semplice sillogismo ci porta a riflettere sul concetto di “modello”, che a sua volta, nel campo delle arti visive, scivola – un informatico direbbe “shifta” – direttamente verso lo “stilema”, che di un modello è una parte importante. Cosa accomuna le opere di Mendini a quelle di Caberlon? Sotto il grande ombrello concettuale dello “stilema” – termine che dà il titolo ai lavori di Mendini, ma che Caberlon ha prontamente accettato - ciò che verrà cercato sarà la loro appartenenza a un gruppo visuale riconducibile a un modello ideale, più vasto, che li contenga e di cui siano l’espressione. Abbiamo titolato questo scritto e questa mostra “Stilemi moderni”, fornendo così da subito la chiave di lettura che queste opere ci hanno ispirato: l’aggettivo “moderni” è la definizione, che racchiude dentro di sé interi mondi di significato. Come ogni storico dell’arte che si rispetti – ma la cosa vale per ogni storico della cultura – quando ci si trova di fronte a questa parola non si può non andare con la mente alla “Modernità” intesa come complesso di idee, come modello ispiratore degli ultimi centocinquant’anni di realtà. Quell’insieme di elementi ideali, tra cui si annoverano per esempio l’idea di avanguardia, di progetto, di progresso, di libertà espressiva assurta a paradigma dogmatico, e che si traducono formalmente negli stilemi dell’avanguardia, da quelle storiche alle neoavanguardie degli anni Sessanta/Settanta del XX secolo, costituiscono la “Modernità” in senso storico, che dunque si fermerebbe alle soglie degli anni Ottanta, proprio in quel momento in cui Mendini stava iniziando le sue robuste indagini sul superamento della Modernità nella Postmodernità, e in cui Caberlon iniziava le sue realizzazioni artistiche. Questa considerazione porrebbe i nostri artisti al di fuori di quel periodo, e tuttavia, oltre al pensiero che ogni epoca porta con sé molto della precedente (e che tra gli artisti ci possono essere dei cosiddetti “attardati”, come ancora dopo Giotto molti si ostinavano
Alessandro Mendini, Poltrona Proust, 2001 cm.100x100x100 Francesco Caberlon, Sinfonia in blu, 2014 acrilico e collage su carta, cm 62x67
coi loro “fondi oro” …), proprio la Modernità è alla base del suo superamento nella Postmodernità, e questo superamento risiede nello svelamento dell’artificio retorico usato nell’opera di lettura e di interpretazione del reale. In altre parole, Modernità e Postmodernità sono intimamente legate,e lo sono per l’uso che si fa della retorica – nel nostro caso della retorica visiva, cioè degli “stilemi” della Modernità – che costituisce gran parte del linguaggio usato per guardare al mon-
do, con la sola differenza che nella fase di superamento o di cambiamento, nella fase Postmoderna, i meccanismi del linguaggio vengono portati alla luce e svelati per quello che sono, un meccanismo di convincimento e non un dispositivo di conoscenza o, peggio ancora, di verità. Per questo, anche per uno degli emblemi della Postmodernità qual è Alessandro Mendini, si può attribuire alle sue opere l’aggettivo “moderno”. (dal testo di Marco Meneguzzo) GENNAIO/FEBBRAIO 2015 | 251 segno - 59
Claudio Costa, Allestimento. Foto Francesco Allegretto.
Galleria Michela Rizzo, Venezia
Claudio Costa Nei materiali dell’umano
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egli spazi dell’ex Birrificio della Giudecca a Venezia, Michela Rizzo, sottoscrive l’iniziativa, con gli Eredi Anita Zeiro e Marisol Costa, di un’organica mostra personale di Claudio Costa (Tirana 1942-Genova 1995) a diciannove anni dalla sua scomparsa, curata da Flaminio Gualdoni. Dopo la retrospettiva del 2000, dedicata all’artista dal Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce, a Genova, a cura di Sandra Solimano, e la mostra di Lavori Africani del 2002, alla Galleria Peccolo di Livorno, con testo di Bruno Corà, il lungo silenzio sull’artista si rompe con la mostra veneziana, che coincide con la costituzione di un Archivio Claudio Costa, con sede a Rapallo, coordinato, a livello scientifico, dallo stesso critico e storico dell’arte Flaminio Gualdoni. Il lavoro di sistematizzazione dei materiali, diventando un fondamentale strumento di riferimento, non mancherà di promuovere lo studio sistematico e la conoscenza, anche da parte delle nuove generazioni, dell’opera di uno dei principali esponenti internazionali, dalla metà degli anni Sessanta, dell’Arte Paleo-Antropologica. Un artista, Costa, che a Parigi ha incontrato Duchamp, che è stato coprotagonista di autori di alto profilo come, tra gli altri, Didier Bay, Christian Boltanski, Jürgen Brodwolf, Nikolaus Lang, Anne e Patrick Poirier, Nancy Graves, Dorothee von Windheim, con alcuni dei quali ha condiviso, nel 1977, gli spazi del Fridericianum di Kassel, con l’installazione Antropologia riseppellita, nella sezione Archeologia degli Umani, a Documeta 6, introdotto a catalogo da Günter Metken e Corrado Maltese. Un artista che, come Beckett, ha lavorato sull’esistenza del nulla, su un individuo disgregato nel flusso della vita, ricomposto, infine, nell’unità del tempo astratto della morte. Poeta e narratore sensibile, Costa scrive in Evoluzione Il tempo trasportato Involuzione Lo spazio perduto, 1972, edizioni Masnata: È la condanna ad evolvere continuamente che segna l’uomo; quella di appartenere al futuro e di crederlo migliore, sperando che le cose ci vengano incontro nel mondo e che, modificandole esse siano invece di presentarsi. Ma la cosa non ci dà nulla di più di quanto aveva, come noi non diamo niente di più di ciò che è in noi: essa concerneva in sé, già prima, l’appartenenza al bello o al brutto, l’utilizzabilità o l’inutilizzabilità che noi crediamo di averle dato… È sufficiente rendere lo spazio alle cose per vedere com’erano: il campo sarà campo e non terreno edificabile, il fiume fiume ed il fuoco brucerà ancora, senza essere solo tepore e calore per l’inverno dell’uomo. A Claudio Costa vanno riconosciuti almeno tra gesti fondamentali: il primo è quello di aver fondato il Museo di Antropologia Attiva di 60 - segno 251 | GENNAIO/FEBBRAIO 2015
Monteghirfo, nel 1975, direttamente all’interno della dimora contadina, tra le fasce di ulivi ed i torrenti dei luoghi dell’infanzia, ribaltando il gesto duchampiano del ready made, spostato invece nel Museo per legittimarsi come opera d’arte; il secondo, quando nel 1977 si trasferisce a Genova, è la teorizzazione del suo work in regress che ribalta il work in progress di Joyce; il terzo coincide con la fondazione, nel 1992, del Museattivo delle Materie e Forme Inconsapevoli nell’Istituto di Igiene Mentale dell’ex Ospedale Psichiatrico di Genova Quarto dei Mille (diretto da Antonio Slavich, la persona che aveva aperto le porte
Claudio Costa, I guardiani della soglia, 1993 cm 183x30x45. Foto Francesco Allegretto.
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
ai manicomi, e che aveva collaborato con Franco Basaglia) dimora/atelier da dove partirà per i suoi viaggi in Africa e nei cui ampi spazi vivrà e lavorerà fino alla morte. La mostra veneziana, articolata su ventun opere di segno antropologico, si snoda in un percorso, con andamento rizomatico, che ricostruisce, per indizi, un tessuto di connessioni e sospensioni tra un ciclo e l’altro, comprendente un arco temporale dal 1970 al 1993. Le sue Case dell’Essere si popolano di oggetti di agricoltura terrestre e celeste, di ritrovamenti di utensili preistorici, materiali organici, strumenti mandalici, reperti di una cultura materiale. Gli spazi espositivi, sorvegliati da Guardiani di Soglia totemici, si disseminano di macchine alchemiche, dei work in progress delle ruggini e dei work in regress dell’uomo, di omaggi al Sole, di riseppellimenti e diseppellimenti di crani umani e animali, scheletri ittici, favi di api e calabroni, con ricostruzioni di Ritratti a memoria, fotografie di primitivi con interventi pittorici e collage di reperti, presenze apotropaiche, mappe genealogiche bidimensionali. Nella prima sala grande, Lo smembramento di Dioniso, 1993, un tavolo quadrato in ferro, sormontato da una croce di legno, con al centro una coppa di cristallo, rinvia simbolicamente a miti e rituali dionisiaci. Davanti alla selezione dei lavori, lo spettatore non cessa di confrontarsi con trasmutazioni virtuali dal legno al bronzo, ibridazioni, innesti, acidificazioni, contatti di pelle su pelle, tra cere e colle di coniglio, pomice, terracotta, vetro: il tutto si configura, sulla base dei quattro elementi Terra-Acqua-Aria-Fuoco, come un’intensa ricostruzione materiale e concettuale dell’universo di Claudio Costa, che, in fuga dal futuro, ripercorre la magica risalita verso l’Origine. Al piano superiore, il grande dittico Sopra un’opera abbandonata, del 1970, muovendo da una reale lastra rettangolare d’ardesia su tela, si delinea come l’immagine che, fotocopiata in sequenza cinquantanove volte, perviene, nella distanza dall’originale, ad una impallidita metavisione seriale del modello, quasi calco epidermico. In occasione della presentazione del libro intitolato Claudio Costa – Nei materiali dell’umano, il canneto editore, Genova (che dell’artista ha già pubblicato nel 2009 Amore e disamore - Poesie 1970-1979) la galleria Michela Rizzo ha realizzato una tavola rotonda di studiosi, invitati dal curatore (Daniela Ferrari, Gaspare Luigi Marcone, Viana Conti, Andrea Del Guercio, Sandro Ricaldone, Titta D’Aste, Nicolò de Mari), volta ad avviare un approfondimento critico sull’opera e sulla figura dell’artista nel contesto dell’estetica contemporanea. Radiografia concettuale, in otto proposizioni, di un opus letto e interpretato come sintomatologia poietico-antropologica, il volume, corredato da documenti, aforismi, fotografie, scritti e dichiarazioni di poetica di Claudio Costa, si connota – dichiara l’autore Flaminio Gualdoni - come un lungo racconto illustrato, innervato sulla traccia biografica, e intercalato da significative e illuminanti citazioni critiche. Viana Conti
Claudio Costa, Allestimento. Foto Francesco Allegretto.
Claudio Costa, Progetto piramide, 1977-1980 cm 72x102. Foto Francesco Allegretto.
Claudio Costa, Macchina Alchemica, 1986 cm 155x87x17 Foto Francesco Allegretto.
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MAMbo, Bologna
Franco Guerzoni Museo ideale
Franco Guerzoni, Grotta in casa, 2012 tecnica mista su carta, gessi, rame ossidato, cm 100x80
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ono due opere realizzate nel 2011, entrambe intitolate Museo ideale, ad accogliere il visitatore all’interno della personale che il MAMbo dedica a Franco Guerzoni dal 19 dicembre 2014 al 19 aprile 2015. La mostra, Archeologie senza restauro, a cura di Gianfranco Maraniello è allestita nella sala del primo piano, lo spazio situato nel cuore della collezione permanente destinato alle proiezioni video e alle mostre temporanee. L’evento coincide con l’acquisizione da parte del museo di tre opere giovanili dell’artista: due lavori della serie Antropologie, prodotte tra il 1976 e il 1978 e Libro del 1971. Ai due lavori del 2012 disposti all’ingresso seguono quelli degli anni ‘70, che nella produzione dell’artista modenese corrispondono al periodo della sperimentazione concettuale. Questi anni coincidono anche con quelli dell’intensa amicizia tra l’artista e Luigi Ghirri, autore di alcuni scatti fotografici presenti all’interno delle tecniche miste eseguite da Franco Guerzoni, tra cui una delle “Antropologie” esposte che diverranno parte della collezione permanente del museo bolognese. La mostra prosegue con i lavori realizzati tra il 2012 e l’ultimo anno, le più recenti sono state pensate appositamente per la mostra in corso. La personale, per motivi e aspetti tematici, sembra voler dialogare con il lavoro di ricerca svolto dal museo nell’attività espositiva degli anni passati ricordando argomenti più volte affrontati nel corso di altre rassegne che chiamano in causa lo “status” dell’opera d’arte e il ruolo dei musei. Al processo di “museificazione” alludono del resto molti titoli presenti nelle opere in mostra a partire dalle due poste all’ingresso della sala, per giungere ai tre Strappo d’affresco (2012, 2013, 2014), Affresco in corso d’opera (2014) e Grotta (2014): opera ispirata al complesso pittorico della Grotta dei Cervi di Porto Badisco. Ricordiamo inoltre il riferimento all’archeologia, motivo centrale della poetica di Guerzoni, su cui si fondano tutti i lavori esposti. La forte componente materica di queste opere inoltre, assieme al quasi monocromo che caratterizza i suoi lavori degli ultimi anni, sembra richiamare spessore, ricchezza delle superfici e pacatezza cromatica della mostra temporanea allestita al piano terra del museo: Ghost house di Lawrence Carroll. Archeologie senza restauro si compone di diciassette opere legate a due differenti periodi della produzione dell’artista: quello che riguarda la ricerca degli ultimi dieci anni e quello giovanile, collocabile più o meno tra il 1973 e il 1979 dove prevale l’uso della fotografia. Questo confronto consente all’artista di giungere a soluzioni inedite, le nuove opere presentano infatti aspetti
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Franco Guerzoni, Strappo d’affresco, 2012 tecnica mista su tavola, cm 200x150
Franco Guerzoni, Strappo d’affresco, 2013 tecnica mista su tavola, cm 200x150 Franco Guerzoni, Archeologie senza restauro, 2014 stampa su gesso e scagliola, cm 28x48
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Franco Guerzoni, Antropologie, 1976/78 stampa fotografica e coccio, cm 26x17
Franco Guerzoni, Antropologie, 1976/78 stampa fotografica e coccio, cm 23x23 A destra: Franco Guerzoni, Museo ideale, 2011 tecnica mista su carta, scagliola, rame ossidato, cm 134x94 Franco Guerzoni, Antropologie, 1976/78 lamette su stampa ai sali d’argento, cm 24x18
non ancora osservati nel lavoro dell’autore modenese: l’utilizzo, ad esempio, di strutture chiuse, simili a delle scatole che invitano lo spettatore guardarne l’interno (Stanza, 2014), oppure il ritorno dopo decenni al mezzo fotografico. Nella prassi esecutiva degli ultimi anni Guerzoni continua a ‘stratificare’, come del resto è avvenuto nell’arco di quasi tutta la sua carriera artistica: ciò appare evidente a partire dai primi anni ‘80, quando abbandona l’uso della foto e le tecniche miste, con cui l’artista indaga la composizione e lo spessore murari, sono eseguite disponendo più livelli di materiale cartaceo a cui si aggiungono gesso, colle e pigmenti. La tendenza a sovrapporre è riscontrabile tuttavia anche nel lavoro precedente, quando muffe di salnitro, particelle di gesso e cotone coprono parzialmente riproduzioni fotografiche, raffiguranti ambienti umidi, muri, intonaci, rovine e strutture in stato di abbandono. Tra la quasi metà degli anni ‘80 e gli anni ‘90, periodo in cui si collocano cicli pittorici dall’intensa suggestione poetica come le “carte di viaggio” e i “notturni”, le tecniche miste acquistano spessore e solidità, la carta poggia sul supporto di tela poi sulla tavola. Questi lavori si distinguono, oltre che per l’introduzione del grande formato, per l’utilizzo di colori molto accesi. Da circa una decina d’anni nel lavoro di Guerzoni la materia si solidifica ulteriormente facendosi ruvida e ciascuno strato risalta maggiormente dagli altri per il ricorso alla scagliola e ad altro materiale da intonaco. Il percorso sopra descritto culmina, con le opere del periodo attuale dove prevale il bianco, sparisce il supporto e l’intervento viene realizzato direttamente sulla parete; in occasione di quest’ultima mostra, le immagini fotografiche vengono impresse direttamente sugli spessori creati. Se il Guerzoni “monocromo” degli ultimi anni collega in modo diretto il proprio lavoro alla ricerca seguita tra il 1980 e il 1983, richiamando più alla lontana il lavoro del tempo precedente, in occasione della mostra al MAMbo il collegamento a quest’ultimo si fa più serrato. I due periodi della produzione di Franco Guerzoni presentati al MAMbo sono sufficienti a far risaltare il pensiero sul quale l’opera dell’artista si fonda, dove la stratificazione materica coincide con la stratificazione temporale, le rovine delle pareti vogliono evocare il tempo perduto denunciandone l’irrecuperabilità. La manifestazione di ciò avviene tuttavia con una buona dose di ironia da parte di questo artista che ha fatto propria la lezione concettuale senza voltare le spalle all’esperienza pittorica maturata nei tempi successivi. Si avverte infatti un atteggiamento giocoso nella messa appunto di superfici intonacate e scrostate realizzate a imitazione del reale, oppure nel trabattello improvvisato dell’ultima opera esposta in sala che simula la procedura dello strappo d’affresco. Il rimando all’archeologia e alla storia dell’arte come elementi evocativi del tempo trascorso, inoltre, vincola l’approccio a quest’ultimo unicamente attraverso la lente della cultura e del pensiero maturati nei tempi successivi. L’artista, indagando sulle rovine non aspira al ritrovamento del passato, vuol parlarci piuttosto dell’anelito verso quest’ultimo da parte dell’uomo a cui si oppone la trasformazione di tutte le cose soggette al tempo. Viene rimossa così ogni possibilità effettiva del suo recupero, persino in fondo alle rovine oggetto della sua indagine, dove le “tracce” del tempo perduto si trasfigurano nei segni dell’eterno presente. Francesca Cammarata
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Galata – Museo del Mare, Genova
Lodola & Mathis
Nuovo Mecenatismo: Immaginare il Futuro
Foto Stand Guidi srl presso il Salone Nautico a Genova
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runo Guidi impersona oggi la figura dell’industriale mecenate che ha saputo coniugare, con determinazione e lungimiranza, la sua esperienza produttiva perseguendo una brillante politica culturale in campo artistico. La Guidi Marine Accessories non è infatti nuova ad uno stretto dialogo con l’arte contemporanea. Ne dà occasione l’appuntamento annuale con il Salone Nautico di Genova associato al programma GenovaInBlu. Da un’idea dello stesso Bruno Guidi, che vede il coordinamento della marcorossi arte contemporanea, viene realizzata la rappresentativa e fantasmagorica mostra di una mega scultura di luce site specific e di un corpus di fotografie inedite intitolata Lodola & Mathis Nuovo Mecenatismo: Immaginare il Futuro, a cura di Ivan Quaroni, in uno spazio di ideale destinazione come quello del Galata – Museo del Mare, inaugurato nell’anno 2004, che vedeva Genova Capitale della Cultura Europea; il più grande e innovativo tra i musei del Mediterraneo ed uno dei più amati dal pubblico locale e da quello internazionale, dedito ad un tour turisticoculturale. Nell’ambito di questa 54esima edizione del Salone Nautico, viene inoltre segnalato per il Premio ADI Associazione Disegno Industriale Compasso d’Oro Internazionale lo Stand dell’Azienda Guidi, per la qualità di un design che esprime l’identità del marchio aziendale con un’immagine di alta rappresentatività, curata dallo Studio Anna Fileppo, che ha anche delineato l’immagine del progetto grafico del catalogo, puntualmente corredato da testi critici, documentazione fotografica, intervista del curatore all’industriale-mecenate. Tendendo infatti un ponte immaginario verso il passato, Guidi rimette in scena la tanto sorprendente quanto fedele ricostruzione, mediante cartone riciclato e
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colla in grandezza naturale, ad opera dello scultore inglese, attivo in Italia, Chris Gilmour, dello storico Yacht realizzato negli anni Settanta dai Cantieri Camuffo. L’opera fa parte oggi della collezione aziendale d’arte. Mettendo in sinergia le potenzialità dell’industria con quelle della politica culturale, intensamente perseguita da quattro anni con artisti di respiro internazionale (Jill Mathis, Michelangelo Pistoletto, Chris Gilmour, Marco Lodola) Bruno Guidi, con i figli Daniele e Alessandro, entrati nell’impresa nel 2005, sta avviando una reciprocità di stimoli con esiti visibili e concreti. Con gli artisti invitati, connotati da un curriculum di innegabile eccellenza, Guidi ha scelto, anche metaforicamente, la luce dell’installazione site specific Surfin’Bird di Marco Lodola nella notte di una crisi sistemica, la monumentalizzazione visiva del dettaglio del suo parco di accessori nautici, sovente brevettati, nella ripresa fotografica ad opera della nota artista texana, operante in Italia, Jill Mathis. Un mecenatismo il suo che ha declinato, con successo, il binomio Creatività e Industria, in un contesto d’elezione come il Salone Nautico della città portuale di Genova e il Museo del Mare Galata, comprendendo che occorre rinsaldare le radici del passato per sostenere il presente in prospettiva di un futuro. Non è fuori luogo constatare che, da un versante, il Futuro è chiamato in causa, nella mostra attuale, dall’artista Marco Lodola, che è stato cofondatore, con altri artisti, galleristi e teorici, del movimento del Nuovo Futurismo, nei primi anni Ottanta, appunto. La sua mega installazione, virtualmente dinamica, di un motoscafo sulla cresta dell’onda, pensabilmente accessoriato Guidi, rinvia infatti, nel suo cromatismo energeticamente esplosivo, nella sua ipervisibilità dal sapore Pop, anche agli
stilemi futuristi. Dall’altro versante, invece, è la potenzialità costruttiva, la ricerca chiaroscurale di una plasticità di segno forte, gli effetti di un luminismo pittorico, secentesco come novecentesco, che la fotografa Jill Mathis chiama in causa nei suoi scatti ad accessori nautici come valvole (Alex è il tredicesimo brevetto della Guidi), prese a mare, filtri di depurazione, pompe, ricambi, raccordi, dando loro la dignità di una figura, di un personaggio, di un organo senza corpo, di un oggetto investito di sex appeal, parafrasando un rimando concettuale al Deleuze del Corpo senz’organi ed al Perniola del Sex appeal dell’inorganico! Nei suoi spettacolari interventi ambientali e urbani, Marco Lodola riduce ogni corpo, ogni materia, a trasparenza, ritmo e danza. Le sue scritture labirintiche, i suoi serpentini filamenti di luce, avvolgono la superficie di un reale già ridotto a icona, simulacro, fantasma, restituendo a chi guarda lo specchio del mondo che lo circonda. Come un guardiano della notte, Lodola non cessa di esorcizzare il mondo delle ombre puntando loro contro, implacabilmente, i suoi fari abbacinanti e impietosi, riducendo i suoi nightscapes, citandone la definizione di Gillo Dorfles, alla scia luminescente e iridata di una lumaca impazzita. Jill Mathis percepisce, davanti al soggetto/oggetto da ritrarre, la sua potenzialità narrativa, estetica, emozionale, cogliendola, nello scatto, tramite una sua particolare tecnica di inquadratura, esposizione, profondità di campo, taglio del quadro, alternanza di fuoco e fuori fuoco, blow up. Impegnata in un work in progress sulla ripresa del lavoro in Fabbrica (come aveva fatto in passato con i cicli dello Chassidismo, del Rodeo, degli indigeni australiani e neozelandesi, del Parallel Text) muove dal contesto ambientale per arrivare nel 2011 con la mostra Industria, la prima promossa dall’industriale Bruno Guidi, ad un approccio sempre più ravvicinato e focalizzato sulla figura dell’operaio, quindi sulle sue mani, infine sul prodotto che ne esce, destinato ad un mercato globale, particolarmente competitivo. Dopo aver esordito nel campo della moda a New York con il maestro Ralph Gibson, Jill Mathis ha progressivamente esaltato la sua capacità di astrazione, riportando il soggetto ai suoi elementi strutturali di base. Mentre nella mostra Lodola & Mathis l’artista matissiano, lombardo di nascita, apre la sua visione allo spettacolo, la seducente fotografa texana non cessa di riportare il soggetto ai suoi elementi strutturali di base, pur valorizzandone l’aura e la sacralità iconica. Con la sua ricomparsa sul terreno dell’arte, a Genova, Bruno Guidi, insieme alla sua azienda, ha aggiunto una nuova pagina alla sua storia di mecenate contemporaneo. Viana Conti
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Galleria C. E. Contemporary, Milano
Vania Comoretti Progressione
V
ania Comoretti (nata nel 1975 a Udine, città in cui risiede) lavora, pittoricamente e graficamente, ad una, tanto rigorosa quanto estrema, reinvenzione topografico-archivistica dell’umano e della sua espressività fisiognomica. Espressività delineata nei tempi di reazione, al limite del percepibile, del soggetto a minimi impulsi, volontari e involontari, provenienti tanto dall’esterno quanto dalla sua interiorità psichica, come pure dai minimi segnali elettrici della rete neuronale. A dispetto dell’evidenza, non è la realtà che ci viene presentata dall’opera di questa artista, né la pretesa di un’immagine giusta, ma juste une image, citando un esponente della Nouvelle Vague del cinema francese-elvetico, come Jean-Luc Godard! E con questo si vuole dire che i ritratti di Vania Comoretti, così segnicamente ed espressivamente esasperati, altro non sono che l’illusione della realtà. Con gli strumenti della pittura e del disegno, l’autrice ricostruisce la realtà fisiologica di
Vania Comoretti, Progressione, trittico, 2013
un corpo, nel suo divenire fenomenologico, per esporne la mutevolezza espressiva nell’atto comunicativo del piacere o del dolore, della condivisione o dell’avversione, dell’indifferenza o dell’interesse, nei confronti di un interlocutore attuale o virtuale. Quello di Vania Comoretti è un pathos freddo, che suscita una corrente empatica altrettanto distaccata, stimolando una visione che affonda le sue radici ed i suoi rizomi nell’invisibile del mondo interiore. A latere del tema centrale della mostra, costituito dalla Progressione espressiva dei volti, si articolano, in composizioni o in pezzi unici, anche i suoi close-up sul linguaggio, non verbale, della gestualità spontanea o iconograficamente codificata e simbolica delle mani (ciclo Sign, 2014, con rimandi a chirologia, chironomia, chiromanzia, ma anche a gesti e posture nella pittura sacra o profana di Van Dyck, Van Cleve, Rubens, Cambiaso, Maestro di Resia, Ignoto Pittore Fiammingo, Reni, Cairo, Pagani) o ancora i suoi studi su quella membrana del bulbo oculare, da lei reinventata, con approssimazione maniacale, nella pigmentazione, irrorazione, vascolarizzazione, che è l’iride di persone a lei familiari, con l’intento di tracciare una mappa di legami genetici e un possibile quadro genealogico. Accanto, tuttavia, alla sua scelta di stilemi che
Vania Comoretti, Visibile, trittico, 2013
Pio Monti Arte Contemporanea Roma
Oltre la siepe Omaggi a Giacomo Leopardi
C
osa avviene oltre la siepe, oltre il margine di visione che si stende verso scenari costantemente variabili? L’affacciarsi oltre un limite indefinito, che emerge da una comunione tra arte e poesia, è sondabile nel concetto di infinito, nel vasto indugiare di un pensiero.
affondano le radici nella storia dell’arte, non si possono non rilevare gli effetti di una forma mentis contemporanea che la induce a condividere un approccio all’immagine pittorica di artisti, esistenzialmente e psicanaliticamente tormentati, come Bacon, Freud, Jenny Saville (membro, quest’ultima, della Young British Artists) o all’immagine fotografica documentaristico-concettuale di esponenti della Scuola di Düsseldorf come, tra gli altri, Berndt e Hilla Becher, Thomas Ruff, Thomas Struth, Candida Höfer, Axel Hütte,Thomas Demand e Andreas Gursky. Ogni suo visage/ paysage è leggibile, a prescindere dalla somiglianza con il modello e le sue, sia pur lievi, imperfezioni anatomiche, come la saturazione esasperata di un impianto segnico, segnaletico, luministico, cromatico, strutturale. L’insieme, di questa serrata indagine sul corpo, si connota come una modalità indiretta di autorispecchiamento, messa in opera tramite quella concatenazione di filtri, di cui lo scatto o la serie di scatti fotografici sul modello, rappresenta il momento iniziale di un processo che ha come esito il prender corpo di una modalità del vedere, di un esercizio coordinato tra la mente, la mano, la memoria, l’immaginario. Viana Conti
Se Giacomo Leopardi concede un margine così ampio nella pratica intellettuale dell’affacciarsi da una finestra in dialogo con la condizione di infinito, nella realtà e nell’arte, le opere riunite nella mostra Oltre la siepe. Omaggi a Giacomo Leopardi trattengono un filo comune con le opere liriche dello stesso poeta marchigiano. La collettiva da Pio Monti Arte è un nuovo omaggio al poeta conterraneo del gallerista che si definisce “marchigiano e giardiniere dell’Arte contemporanea”; che nel suo girovagare per il mondo dell’arte tiene sempre in vista i suoi legami con le Marche e la cultura di quei luoghi. Alessio Ancillai, Ubaldo Bartolini, Adam Berg, Andrea Boldrini, Mario Giacomelli, Claud Hesse, Teresa Iaria, H.H. Lim, Tommaso Lisanti, Eliseo Mattiacci, Gian Marco Montesano, Francesca monti – Enzo Cucchi, Mimmo Paladino, Vettor Pisani, Roverto Pugliese & Tamara Repetto, Elisa Sighicelli, Salvo ed Ettore Spalletti
sono gli artisti che intorno alla lirica di Leopardi innestano una corrispondenza tra una poesia e la loro realtà creativa. Anche nella genesi del suono la poesia può trovare infinite derivazioni, nelle assonanze mnemoniche, nei riverberi naturali, nell’eco di rumori indistinti, di abituale ascolto; in queste “infinite” radici Giuliano Lombardo propone le sue suggestioni sonore – per Giacomo Leopardi - raccolte in un cd. Il poeta di Recanati è in relazione costante con le immagini e il suono, e nel suo lavoro è vivo il riferimento al silenzio, al rapporto intimo con il mondo dell’insondabile. Pare che in Oltre la siepe il caldeggiare a un dialogo aperto, senza costruzioni formali, sia dichiarato dall’eterogeneità dei lavori in mostra. Dalla fotografia alla pittura, dalla installazione al suono le poesie duettano con le opere nel silenzio sonoro di un incontro in un luogo neutro, aperto agli incanti suscitati dal suono delle parole e dalla sostanza delle immagini. Ilaria Piccioni Teresa Iaria, pensiero n 2. acrilico su tela, cm 35x35
Eliseo Mattiacci Corpi celesti, 2008 tecnica mista su carta su cartone
GENNAIO/FEBBRAIO 2015 | 251 segno - 65
Castello di Miradolo
SAN SEBASTIANO nel contemporaneo Bellezza e integrità nell’arte tra Quattrocento e Seicento di Gabriele Perretta
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onsiderato terzo fra i sette difensori della Chiesa nella catalogazione di Gregorio Magno, Sebastiano, soldato e martire di Cristo, figura affascinante nella storia e nella leggenda, ritorna nell’arte con incredibile frequenza. La copiosità delle immagini è alimentata dal terrore per la peste, contro cui viene invocato quale protettore. Il timore del male contagioso, tormento che in antico ricorre con mirabolante periodicità, “determina la Andrea Della Robbia, San Sebastiano, scelta di un intercessore che circa 1510 come avvocato implori l’imstatua in terracotta invetriata munità o la cessazione del Montalcino, Museo Civico e Diocesano. Raccolta archeologica male, ritenuto dalla credenza popolare un segno della collera celeste oppure un castigo imposto al mondo per le sue colpe”. Da molti secoli il culto di Sebastiano protettore dalla peste, si fa risaltare nell’iconografia, che si presenta di così impressionante vastità da potersi affermare, pur nei limiti della propaganda, che la maggior parte degli artisti, specie nel Rinascimento, almeno una volta esalta il Santo. La diversità di ideali e di pensieri confidenti genera ovviamente nelle raffigurazioni la diversità del carattere e dei tratti fisionomici attribuiti al martire, inoltre contrasti si verificano nella rappresentazione delle scene della vita in relazione alla diversità della “passio” e delle leggende seguite nell’evocazione. Pertanto, Sebastiano viene rappresentato giovane o vecchio, imberbe o barbuto, gracile od atletico; le sue vesti sono quelle di un gentile cavaliere o di un duro soldato, di un cortese scudiero o di un raffinato ufficiale, di un corpo in via di liberazione o di un’immagine che si fa “estetica e lirica dell’afflizione”. Ma se nella persecuzione si rivela come un martire paziente o sconvolto dal dolore, astratto o terribile, suadente o minaccioso, nella poesia e nel cinema, tra la fine dell’Ottocento e per tutto il ‘900, rimane esempio di rivendicazione di genere o simbolo del linguaggio queer. Nell’arte e nella letteratura del Novecento san Sebastiano diviene incarnazione dell’umanità sofferente, emblema della fibra di fronte al dolore. Infatti, per Thomas Mann la “figura del giovane trafitto” incarna l’”eroismo della debolezza“, in quanto “tutto ciò che esiste al mondo di grande è una manifestazione Van Baburen, San Sebastiano, Milano
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Sta in piedi come uno che giace,/sostenuto da una gran volontà./ Remoto come madri quando allattano/e in/ sé composto come una ghirlanda.//E vengono le frecce: una, poi l’altra,/quasi scoccate dai suoi stessi lombi,/vibrando all’altra estremità metalliche./Ma il suo sorriso è oscuro, invulnerato.//Solo una volta si fa grande/la sua amarezza e gli occhi, penosamente nudi/negano ciò ch’è vile,/come se rifiutassero sprezzanti/i distruttori di una cosa bella. (Rainer Maria Rilke, San Sebastiano).
di corporeità, è sorto cioè nonostante il dolore e la sofferenza, nonostante la povertà, l’abbandono, la debilitazione, il vizio, la passione e mille ostacoli”. In Morte a Venezia (1913) il protagonista Gustav Aschenbach scorge nella figura di san Sebastiano non solo il supremo esempio della bellezza apollinea (il cui fascino virile era stato già decantato nel 1909 dallo scrittore belga omosessuale Georges Eekhoud nel breve saggio Saint-Sébastien dans la peinture; opera che probabilmente nel 1914 ispirò al sessuologo Magnus Hirschfeld il trattato Die Homosexualität des Mannes und des Weibes), ma anche l’“eroe” del nostro tempo, l’incarnazione di “una virilità intellettuale e giovanile che con fiero pudore stringe i denti e rimane salda e tranquilla mentre lance e spade le trafiggono il corpo”. Cosicché il giovane Sebastiano, oggi, grazie a questa suggestiva mostra, curata da Vittorio Sgarbi e Antonio D’Amico, che raccoglie opere di Della Robbia, Tiziano, Rubens, Guercino, Guido Reni, Mattia Preti, Maestri vicini a Caravaggio, Ribera, Luca Giordano, può essere considerato l’emblema del santo tanto apollineo quanto “inattuale”, una straordinaria fonte d’ispirazione per l’arte dal Settecento ai nostri giorni. Il termine Sebastiano deriva da Sebastos, che nella sua radice greca significa il venerabile. Il culto di San Sebastiano in Italia è uno dei più diffusi. Al martire cristiano sono dedicate basiliche e chiese in ogni angolo del paese; non poche sono le comunità che tra grandi e piccole, in tutta la penisola, gli hanno affidato la propria protezione, una decina sono i centri che portano il suo nome. Ma naturalmente a questa immagine dell’antico, San Sebastiano si situa in un felice territorio liturgico e «eikon»ico, al di sopra di molte vocazioni e tipi, fuori da qualsiasi rissa teleonomica e sovrana. Elegante e raffinato, a tratti accompagnato dalle musiche di Debussy dedicate all’opera di Gabriele D’Annunzio, riletta nel giorno di Natale nello stesso Castello di Miradolo, con una punta di un understatement cara alla versione di Tiziano o di Preti, Sebastiano non è solo il preferito degli storici dell’arte impegnati, ma anche il paradigma letterario di estrema intensità e rigore, preso a ibridare i mondi della storia martirologica e quelli dell’immaginazione teologica, i saperi dell’ode con le estetiche della bellezza e dell’allegoria, in attesa che quelle antiche categorie assumano nuovo significato. La lunga sfilza di pittori, grand-Manner, tra Quattrocento e Seicento, che accompagna questa esposizione e questo catalogo lo ritrae nelle diverse tappe della sua memorabile storia: dagli inizi toccante e poi sempre più versatile. Il pezzo forte della mostra è il Rubens che lo vede curato dagli Angeli oppure il Ribera soccorso dalle pie donne. Nelle diverse elaborazioni pittoriche, le anime del martire si fanno avanti: l’amore per la tragedia della
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Pieter Paul Rubens, San Sebastiano curato dagli Angeli, 1602-1604 olio su tela. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica in Palazzo Corsini
pittura caravaggesca, per la sur-realtà del racconto evangelico e,insieme, la voglia di offrire i “segni della grazia” e di comunicarli con scrupolosa razionalità o con incessante densità veristica (vedi Pietro della Vecchia che sfiora la fisicità del ragazzo saccheggiato da Derek Jarman). Riguardando questa carrellata di opere intense sulla nozione di sacrificio della vita,da un punto di vista estetico, possiamo ricordare che la pittura deve attendere il Rinascimento prima di riuscire a inserirsi a pieno titolo nel canone occidentale delle arti. Anche in seguito la sua legittimità, determinata dall’incontro in seno al neoplatonismo fiorentino di arte e bellezza, rimane precaria e minacciata. In questa mostra monotematica, i curatori sembrano ripercorrere la storia dei difficili rapporti tra estetica e pittura fino alla nascita, fra Ottocento e Novecento, di un’autonoma teoria dell’arte. Solo allora, finalmente, la nuova attenzione ai problemi specifici della pittura ne procura, attraverso un passaggio della densità Quattrocento/ Seicento in San Sebastiano, un ulteriore risarcimento poetico. I Reni, i Ribeira e i Della Vecchia, fattisi moderni, ci dicono che la bellezza non si crea a comando; essa si dona soprattutto a chi è preparato ad accoglierla, con l’animo sgombro, purificato, purgato dai fantasmi dell’onnipotenza effettuale. Come vide H. Bergson, essi seppero ritrovare la freschezza e la persistente inattualità, l’idea di una immortalità congiunta col tempo, in opposizione sia al paradigma della tradizione umanistico-retorica (eternità senza tempo), sia al paradigma romantico (tempo senza eternità). Negli artisti più recenti San Sebastiano è un giovane languido, ai confini della grâce moderne. Ciò ha fatto nascere il mito del santo che,“favorito dall’imperatore”, paga con la vita la colpa di aver respinto le “avances omosex“di Diocleziano. Nel film “Sebastiane” di Derek Jarman molti particolari del rapporto tra il santo e l’imperatore sono tratti dal “Martyre de saint Sébastien” di G. D’Annunzio, rappresentato nel 1911 con le musiche di Debussy. Sebastiano incarna la figura, umana e poetica, teatrale ed intensa, dell’innocenza perseguitata, l’immagine autobiografica dell’artista, e spesso disperata, dell’onesto trascurato da Dio nelle mani dei suoi torturatori; agli occhi dei maestri italiani la stessa immagine rappresenta l’emblema dei tempi nuovi, e all’incirca l’icona del doppio Rinascimentale e post-rinascimentale. In particolare va notata l’audacia interpretativa e l’abbondante posterità di due opere italiane quasi coeve, che nella mostra di Miradolo vengono solo evocate. La prima è il San Sebastiano di Antonello da Messina: un bell’adolescente dalle morbide forme che, stranamente ignorato dai passanti, fantastica con lo sguardo rivolto verso l’alto, al centro di una piazzetta veneziana. Il secondo esemplare, quello di Mantegna, afferma invece con forza l’immagine possente di un Sebastiano «coscienza in extremis» tra le rovine dell’antica Roma. Se consideriamo la grazia noncurante di Antonello e l’eroica virtù del Mantenga, la figura del santo oscilla quindi tra due poli: uno, autobiografico-intimista, in cui domina la seduzione della carne, l’altro, virile, in cui brilla una stoica resistenza. Questa duplicità, tra grazia o volontà, complica in qualche misura l’interpretazione delle trasformazioni iconografiche in atto e introduce, all’origine stessa della radice pittorica, il “sex appeal di un’ambivalenza inorganica”, come direbbe Walter Benjamin. Ciononostante, fin dalla fine del XV secolo la sorte di Sebastiano sembra segnata: il santo si è fatto artista, il tema si è individualiz-
zato e il patimento stesso è passato in secondo piano rispetto alla raffigurazione del corpo suppliziato dell’arte che arriva sino ad Artaud-Van Gogh! Sempre più apertamente, i pittori identificano il santo nel dio arciere del paganesimo, Eros o Cupido (Giorgione e Raffaello, tra gli altri). Il Perugino, per esempio, spinge all’estremo la sensualità suggerita da Antonello, istoriando alcuni San Sebastiano discinti, illuminati e glorificati dalla carnalità della bellezza artistica e della sua ricerca estetica, all’apice di una vera e propria estasi teologica. Ormai le frecce dell’arte, quelle del tempo dell’arte cruciale, che vanno dal Quattrocento al Seicento, strumento di supplizio, ma anche vettore d’amore e simbolo di penetrazione nel reale incarnato, rappresentano il principale attributo del santo, tanto da valergli, non solo il patronato delle corporazioni di arcieri, balestrieri, e persino di tappezzieri e ferraioli, ma anche quello che attraverso l’occhio di Rilke potremmo ricordare come exposition d’art de la beauté. La ricerca della bellezza, la più dubbia e sfocata delle attrazioni umane diviene, da Tiziano a Luca Giordano, approdando fino alle intenzioni curatoriali qui recensite, l’aspetto più «estetico» dell’esistenza sacrificale, ricercata come merito estremo, e difficilmente equiparabile, a causa del suo valore innovatore, a verità e bontà come vorrebbero gli artisti del passato. La bellezza, posta da Sebastiano su un piano metafisico ben diverso da quello di verità ed epifenomeni somiglianti, diviene questione che concerne tanto l’apparenza, quanto l’essere per la fede, ma proprio qui, in questa differenziazione,risiede, in fondo, l’ascendenza dell’estetica, per una visione filosofica del “martire”: occupandoci della bellezza, scopriamo la vita mentale della gente, degli esseri fedeli o infedeli che dunque siamo. La bellezza, analizzata attraverso la luce della teologia di Sebastiano, esige di essere considerata. n
Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino Martirio di San Sebastiano, 1632-1636 olio su tela USA, Collezione Federico Castelluccio. Courtesy Robert Simon Fine Art
SAN SEBASTIANO Bellezza e integrità nell’arte tra Quattrocento e Seicento a cura di Vittorio Sgarbi Fondazione Cosso, Castello di Miradolo 5 ottobre 2014 8 marzo 2015
Tiziano Vecellio San Sebastiano circa 1529-1530 Olio su tela New York, Collezione privata Courtesy Whitfield Fine Art, Londra
GENNAIO/FEBBRAIO 2015 | 251 segno - 67
Serri Alfredo, Natura Morta (Omaggio al Pollaiolo), 1950, olio su tela, cm. 50 x 60
Spazio Mostre Cassa Risparmio, Firenze
Alfredo Serri di Lucia Spadano
L
a disputa tra sostenitori dell’Astrazione e difensori della Figurazione che attraversò, non senza eccessi polemici, il dibattito artistico dei primi decenni del dopoguerra , nel nostro paese, ci appare oggi non soltanto desueta, ma, in qualche modo, non traducibile nei termini della riflessione contemporanea. A produrre questo effetto sono soprattutto due dati oramai passati in giudicato per qualsiasi operatore intellettuale culturalmente aggiornato dei nostri tempi. Il primo riguarda l’infondatezza teorica del luogo comune stando al quale vi sarebbero linguaggi visivi comprensibili da chiunque in quanto più aderenti all’effettiva esperienza della percezione e linguaggi più ostici perché volti ad allontanarsi da questa lacerandola e deformandola, in omaggio ad un qualche presupposto teorico. L’altro riguarda l’ormai palese inadeguatezza storicosociologica dell’idea secondo cui un’arte che, pur nel rispetto della propria autonomia, voglia appartenere in toto al proprio tempo debba fare a monte una scelta di campo, ovvero aderire ad un determinato tipo di progetto etico-politico e produrre al proprio interno, una revisione (o rivoluzione) parallela della propria struttura disciplinare. Anche considerando questi due dati in sé e per sè, non è difficile avvedersi di come il primo sarebbe già di per sé sufficiente ad inferire un colpo mortale al drappello dei “figurativi” e di come il secondo potrebbe addirittura togliere il terreno sotto i piedi all’esercito degli “astrattisti” (costruttivi, concretisti o gestaltici che siano). Ma il fatto è che oramai entrambi sono stati riassorbiti all’interno di una tensione epocale assai più ampia: quella incentrata sui due concetti complementari di perdita di sostanza della realtà e di crollo delle ideologie. Una tensione che tutti viviamo, ogni giorno, sulla nostra pelle senza bisogno di lasciarci indottrinare più di tanto da tutta una serie di profeti del presente che spuntano da ogni dove e finiscono per incrostarsi come stelle fisse sull’orizzonte traslucido dei media . Che le cose siano finite così e la disputa da cui abbiamo preso l’avvio si sia oramai dissolta dinnanzi alla logica della simulacralità dell’immagine e della autodelimitazione sisemica del progetto, non toglie comunque che dinnanzi al procedere della Soria dell’Arte, ( inteso come accumulo e decantazione di rifles-
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sioni critiche, tesaurizzazioni museali ed occasioni espositive ), ci siano stati dei vinti e dei vincitori, dei favoriti che avrebbero benissimo potuto rimanere nell’ombra e soprattutto una gran quantità di vittime incolpevoli, di personalità dimenticate o non adeguatamente valutate. È per questo che non possiamo che plaudire ad ogni iniziativa che tenda ad estrarre dal clangore lontano delle opposte schiere di un tempo le personalità più meritevoli e a riguardarle sia alla luce delle acquisizioni teoriche odierne sia in funzione della loro coerenza complessiva, del modo che ognuno ha poi trovato per andare oltre, non certo rinnegando, ma piuttosto rimeditando le appassionate battaglie giovanili. Proprio uno di questi casi ci sembra essere ben rappresentato dalla mostra dedicata ad Alfredo Serri che l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, ha voluto promuovere, con la collaborazione della Galleria Open Art di Prato, ospitandola , per la curatela di Stefano De Rosa, nei locali del proprio Spazio Mostre dal 24 ottobre al 18 gennaio. Il titolo dell’esposizione: “L’ universo si ricompone nel silenzio” è quello di un’olio su tavola del nostro autore che forse meglio di ogni altro si presta a funzionare come metafora al suo percorso artistico ed esistenziale. Si tratta di una natura morta di piccole dimensioni in cui compaiono su di un tavolo della frutta che spunta da un cartoccio e va a disporsi su di un panno bianco, un vaso di terracotta con dentro dei pennelli, un bicchiere di vino riempito a metà ed un fiasco dalla cui impagliatura leggemente sconnessa emerge una piccola porzione di vetro nella quale si riflette, in dimensione ridottissima, il volto stesso del pittore. Il tutto sullo sfondo di una parete su cui campeggia una lettera fissata al muro con una puntina da disegno ed una sorta di portacandele. L’universo è l’infinita potenzialità che ha la pittura di sottoporre al suo vaglio qualsiasi oggetto o aspetto del reale che abbia forma e colore, la ricomposizione è la possibilità di osservare come tutte le forme di sperimentazione che possono nascere dal sincero desiderio di privilegiare questo o quell’aspetto del processo conoscitivo artistico, hanno senso solo se rimane ben salda la pratica disciplinare da cui hanno preso le mosse.
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Serri Alfredo, Interno, inizi anni ‘40, olio su tavola, cm. 39.7 x 30 Serri Alfredo, Trompe l’oeil con tromba e spartiti, olio su tela, 60.5 x 50.2 cm
Il silenzio è il rispetto per i limiti della conoscibilità del reale che non si possono varcare ma solo esplorare con costanza e rigore, con lo stupore sempre rinascente di chi non possiede la verità ma per cosi dire soltanto la sua dimora storica, la scorza fenomenica entro cui essa alberga da sempre. Muovendo poi dalle parole agli oggetti rappresentati diviene possibile un’altro esercizio, quello della ricostruzione della storia personale di un artista che dalla musica che già praticava in maniera professionale, ad un certo punto volle passare alla pittura individuando nell’amico Annigoni, di undici anni più
giovane, il proprio maestro ideale; che partecipò alle battaglie culturali del gruppo fiorentino dei “Pittori Moderni della Realtà” con assiduità e lealtà ma senza ansie di protagonismo, che alla ricerca della fama e del successo preferì un rapporto limitato con pochi galleristi e collezionisti che potessero assicurargli il necessario per continuare continuare al sua ricerca; che cercò la perfezione del mestiere ma non il virtuosismo del mattatore; che, in altre parole si mantenne a rispettosa distanza dal mistero dell’essere ma volle testimoniare la sua presenza discreta nei luoghi sacri del suo “non nascondimento”. n Serri Alfredo, Natura morta con autoritratto, anni ‘40, olio su tavola, cm. 50 x 40
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Galleria Bonioni, Reggio Emilia
Inventari
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pere di venticinque artisti attivi dagli anni ’50 ai giorni nostri, sono allestite alla Galleria Bonioni Arte di Reggio Emilia. Esposte anche per la prima volta alcune scultore di Pablo Atchugarry, Nicola Carrino, Paolo Cotani, Piero Fogliati, Eduard Habicher e Arcangelo Sassolino, autori selezionati per Arte Fiera di Bologna. Federico Bonioni ha specificato che «il titolo della mostra fa riferimento a un’opera di Giovanni Lombardini (Inventari, 2014), ma anche a un particolare periodo dell’anno in cui si tirano le somme sulla stagione passata e si pianificano nuove esposizioni». Il processo di evoluzione concettuale cominciato da Lombardini nel 2007 instaura nella sue emblematiche fessure l’attesa, la trepidazione nei confronti di ciò che viene dopo, di un ineluttabile al-di-là. Diametralmente opposti agli inflazionati “tagli” di Fontana, i lembi del riminese a volte si accostano come ante di una finestra sul futuro, altre accompagnano la linea di confine quasi fossero le pareti rocciose di un canyon tra cui scorre un fiume. Una possibilità altrettanto dovuta e racchiusa tra due mani salde. E talmente che la tecnica stessa su tavola mette a confronto la nitidezza del presente, “davanti”, con una visione imprecisa del passato, “intorno”, con un domani sconosciuto, “oltre”. La mostra comprende un excursus attraverso la storia dell’arte (Emilio Scanavino, Mario Schifano, Giulio Turcato, Georges Mathieu), il riepilogo dei precedenti progetti e le ultime ricerche degli artisti più giovani, tra i quali Luca Moscariello, presente anche a “SetUp Art Fair” di Bologna. Senza tralasciare i capisaldi Balla, Hartung e Vedova, un segmento cronologico coerente può essere tracciato, tramite il bianco impuro che li accomuna, tra la Tramatura (olio su tela) di Scanavino del 1984, Fili battuti (olio su tela) di Cotani del 2009 e il recente marmo di Carrara di Atchugarry. Per quanto la tridimensionalità levigata discosti semanticamente l’uruguaiano e lo proietti verso un’armonia ispirata alla fragilità delle ossa, di un costato biblico, tutti e tre registrano l’imperfezione della condi-
Nicola Carrino, P.2, 1975-1989, ferro verniciato trasparente a fuoco, cm. 37,5x120
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Emilio Scanavino, Tramatura, 1984, olio su tela
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Galleria Bonelli, Milano
Michelangelo Galliani
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Paolo Cotani, Fili battuti, 2009, olio su tela, cm. 60x60
zione umana. I due astrattisti italiani subiscono un ordine perduto, non a caso uno strappo istantaneo, amplificato dai segni della riparazione. Lo strappo di un reticolo per l’informale Scanavino, magari voluto ma poi graffettato, e le corde di uno strumento che si allentano sotto pressione, i cavi conduttori di luce che non tengono la tensione per l’analitico Cotani. Dunque la contraddizione originaria e suggestiva di chi non può rinunciare a una struttura rigida per “stare eretto”, sia fisicamente sia intellettualmente, sebbene al contempo desideri evadere e tenti di scardinarla con le pulsioni che ha dentro. A volte le esperienze raccolte necessitano di un inventario e semplicemente per non perdere il ritmo delle lancette, il proprio battito nel mondo. Matteo Bianchi Pablo Atchugarry, 2014, marmo di Carrara, cm. 66,5x26,5x14,5
pere dello scultore Michelangelo Galliani sono ospitate dalla Galleria Bonelli a Milano. Marmo solo vol.2 può essere letto sia quale indicazione della centralità del marmo come materiale nell’attività di Galliani, sia come specifico atteggiamento dello scultore a fronte di tale materia: Galliani affronta il blocco di marmo “da solo”, sempre, in ogni fase della lavorazione, dalla scelta del blocco alla sgrossatura, alla levigatura finale, senza ricorrere ad assistenti o a tecnologie sofisticate, pure disponibili. Galliani sembra cercare tra le pagine della storia dell’arte del passato spunti e modelli che trasforma in volti e corpi assolutamente contemporanei eppure senza tempo con l’atteggiamento del faber tradizionale eppure assolutamente contemporaneo negli esiti. L’utilizzo preponderante del marmo non impedisce la contaminazione con altri materiali come l’ardesia, l’oro, il piombo o lo stagno con evidenti riferimenti a certi accostamenti dell’arte povera di cui però evita ogni altra associazione. Le sue opere nascono, come già quelle dei grandi scultori della storia italiana (Michelangelo, Medardo Rosso e Adolfo Wildt, i suoi riferimenti principali), da un incontro al contempo cercato e fortuito con il blocco da cui germinano poi forme, teste, abbozzi o sculture perfettamente finite e polite, come la Vergine degli Inganni, che domina la scena al centro della galleria. Sono volti che aspirano a liberarsi della materia da cui sono plasmati e sulla quale virtuosismi tecnici dell’artista incidono a diverse profondità segni, geroglifici, fiori, simboli ripresi dalla tradizione classica e riportati a nuovi significati. Ogni opera è una scoperta per lo stesso artista che dichiara, non senza riferimento al Buonarroti, di non saper mai esattamente quello che lo aspetta quando inizia a scolpire e di essere attratto e affascinato proprio dal germinare, sotto i gesti abili delle sue mani, delle forme e dei volti prima racchiusi nel blocco. Forse la vera forza evocativa di questa mostra consiste proprio in questo stupore, in questa meraviglia destate, in fin dei conti, dal marmo solo. (dal cs)
Michelangelo Galliani Costellazione di Davide, 2014 marmo statuario di Carrara e stagno cm.50x50 (courtesy Bonelli, Milano)
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Triennale di Milano
Gianfranco Baruchello Cold Cinema
di Gianmarco Corradi
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na raccolta di opere filmiche di Gianfranco Baruchello (Livorno, 1924) riunite in una mostra e messe a confronto con pittura, romanzo, disegni, oggetti, appunti. Gianfranco Baruchello: Cold Cinema è la personale prodotta da Triennale di Milano e realizzata in collaborazione col Museo MADRE di Napoli. Si viene catturati in un percorso dove decostruzioni, assemblaggi, montaggi e collage ci fanno riflettere su dimensione dell’inconscio, ruolo del linguaggio, relazione col quotidiano e soprattutto col tempo. Nel video “Il grado zero del paesaggio” (1963) la narrazione è ridotta all’inquadratura di distese marine su cui la telecamera è fissa. In questa visione del divenire dell’essere nel tempo ciò che è apparentemente irrilevante e sempre identico in realtà muta costantemente. Quello di “Tic Tac” (1999) è un tempo registrato in sé e scandito dal rumore ritmico degli oggetti ripresi mentre in “Retard” (1996) è misurato da un contasecondi, inquadrato come intervallo tra una ripresa e l’altra di uno stesso soggetto a distanza di circa due secondi. Sembrano invece ritagli di tempo congelato i “Leftovers” del 1975, scatole di plexiglass dove Baruchello ha racchiuso residui quotidiani rimasti sul tavolo di lavoro a fine giornata. L’accumulazione è quasi una costante: “Una settantina di idee” (2014) è un’installazione che funge da archivio ideale di idee, spunti e soggetti per possibili film. Tra le idee realmente realizzate c’è invece “Verifica incerta”, opera filmica emblematica dell’arte di appropriazione, realizzata tra il 1964 e il 1965 e creata utilizzando 150.000 metri di pellicola di cinema americano degli anni cinquanta e sessanta destinata al macero montati con nastro adesivo. La decostruzione di Baruchello non è solo fisica ma a volte ha come mira anche i meccanismi dell’ideologia, sia politica che dell’informazione, con video dotati di un linguaggio surreale e ironia critica: in “Costretto a scomparire”(1968) l’autore segue le fasi dello smembramento di un tacchino di provenienza americana su un sottofondo di inni
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e marce nazionali. La tripla installazione “Tre lettere a Raymond Roussel”(1969) è dedicata al poeta Roussel (1877- 1933) e alle sue associazioni linguistiche inconsce e tanto spontanee da perdere il controllo razionale. Si tratta di un montaggio di materiale filmico selezionato associato a brevi sequenze girate da Baruchello stesso mentre il sonoro è montato su registrazioni della voce dell’autore nel sonno, nel dormiveglia o al risveglio. In questo collage poi virato in azzurro decostruzione e montaggio rendono memoria e sogno un territorio esplorabile. Il film è accompagnato nella stessa sala da una sorta di diario onirico dal titolo “In Store”, una selezione di 100 disegni (dai 150 originali) coi quali Baruchello ha tentato, dal 1970 al 2000, di raccontare i suoi sogni. Ancora una volta un archivio, stavolta di ciò che ci sembra impossibile da trattenere. n
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Rodolfo Aricò, Senza titolo, s.d. Acrilico e collages su tela e legno151x300 cm. Collezione Accademia di Brera, Milano © Archivio Rodolfo Aricò
Accademia di Brera, A Arte Invernizzi, Lorenzelli Arte, Gallerie d’Italia Milano
Rodolfo Aricò
Omaggio a Rodolfo Aricò, Rodolfo Aricò-Uno sguardo senza soggezione, Rodolfo Aricò-Pittura Inquieta di Gianmarco Corradi
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Rodolfo Aricò, Work in progress n. 1, 1965 olio su tela, 200 x 140 cm Collezione Eredità Grossetti © Archivio Rodolfo Aricò
Rodolfo Aricò, Assonometria,1968-1969 olio su tela sagomata, 235x660x100 cm Collezione Eredità Grossetti © Archivio Rodolfo Aricò Rodolfo Aricò, Oltre il limite D, 1984 acrilico su tela 180x300 cm. Foto Bruno Bani, Milano © Archivio Rodolfo Aricò Collezione privata Courtesy A arte Invernizzi Milano
uattro mostre per un solo artista. Succede a Milano per Rodolfo Aricò (1930 – 2002). Una delle mostre, Omaggio a Rodolfo Aricò, è ospitata nel luogo dove l’artista insegnò Scenografia dal 1979 al 2000, con una breve pausa negli anni Ottanta: l’Accademia di Brera. Viene naturale pensare a un rapporto tra la scena e la pittura: “La sensazione, di fronte alle grandi opere di Aricò ” afferma Marco Meneguzzo, “è quella di entrare nella pittura.” È dunque chiara anche a un primo sguardo delle opere di Aricò una volontà di “Grandezza”, sia nelle geometrie che nella luminosità di un colore che è utile alla conoscenza sensibile di uno spazio, sia fisico che mentale. Aricò crea un illusionismo geometrico dove le forme, nel loro razionale rigore, si prendono il loro spazio, anche tridimensionale. È così che l’artista dà vita alle cosiddette shaped canvases e inizia una riflessione sull’opera come oggetto: con “Assonometria”, esposta a Brera, siamo nel 68-69. Questa mostra, come la doppia personale Rodolfo Aricò - Uno sguardo senza soggezione presso A Arte Invernizzi e Lorenzelli Arte, intende mostrare una lettura delle varie fasi dell’artista, dagli anni Sessanta ai Novanta. Fondamentale in Aricò è sempre un’esigenza di continuità delle radici unita a quella fisiologica di relazione col presente, e quindi di rinnovamento. “Studio per Paolo Uccello” e “Prospettiva per Paolo Uccello”, rispettivamente esposte da A Arte Invernizzi e Lorenzelli Arte, sono opere del 1970 testimoni di un’assimilazione e rimeditazione in chiave contemporanea della storia dell’arte e degli archetipi dell’architettura. Il rosso luminoso di “Oltre il limite D” (1984), esposto a Brera, rivela invece un cambiamento di rotta degli anni Ottanta: l’arte di Aricò è sempre più lirica, con una progressiva frantumazione delle forme, sempre più grandi, irregolari e accompagnate da un colore sempre più denso, tanto da prevalere sulla forma stessa. In un’intervista con Ballo l’artista affermò che il colore “non è un elemento aggiuntivo, ma costitutivo…che tende sempre all’improbabile, al mutevole, all’esistenza appunto”. E proprio l’esistenza, intesa come tensione vitale a quel divenire nel fare pittura, è protagonista delle ultime opere di Aricò, dalla fine degli Ottanta alla fine dei Novanta. La mostra Rodolfo Aricò - Pittura Inquieta alle Gallerie d’Italia si concentra su quest’ultimo periodo e presenta anche dieci lavori su carta, che tra colori, segni e trasparenze sono testimonianza del suo itinerario interiore. La scelta del collage è a priori per l’opera una lacerazione in continuo divenire. E se i colori sono più chiari è per una volontà dell’artista di mostrare e rivelare quel “tenero colore sottostante”. Oltre alle forme, sempre più irregolare diventa proprio la stesura del colore: graffi, linee non regolari e spezzate sono ferite sia visive che fisiche. Quello degli ultimi anni è un corpo a corpo con l’opera che riflette una crisi esistenziale che coincide anche con un’identificazione sempre maggiore dell’artista con il proprio fare, definito da Aricò stesso “viaggio confuso, triste, rabbioso e dolce”. n GENNAIO/FEBBRAIO 2015 | 251 segno - 73
Galleria Giovanni Bonelli, Milano
JUXTAPOZ ITALIANO
Four artists who defy convention Agostino Arrivabene, Fulvio Di Piazza, Marco Mazzoni, Nicola Verlato
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all’incontro di Nicola Verlato con il fondatore della rivista Juxtapoz, l’artista-editore Robert Williams, è nata l’idea di una mostra che portasse finalmente all’attenzione del pubblico la versione italiana dello spirito pop-surrealista, con tutte le sue peculiari caratteristiche. Grazie anche all’intervento di numerosi altri protagonisti del panorama losangelino, tra cui quella del co-curatore della mostra (sceneggiatore e video-maker) Matteo Sapio, è nato il progetto “Juxtapoz Italiano”. Dopo la tappa americana di Los Angeles, la galleria Giovanni Bonelli ospita, a Milano, questo progetto ambizioso che mira ad inquadrare un fenomeno già estremamente diffuso: la creazione del consenso intorno ad alcuni artisti anche grazie ai canali dei nuovi media come Facebook, Pinterest e Twitter. Così come la radio, e più in generale l’industria discografica, hanno rivoluzionato il mondo musicale rendendo la musica accessibile e consumabile alla quasi totalità delle persone, i social media stanno decretando una nuova ascesa dell’arte figurativa e, nello specifico, della pittura nel mondo dell’arte. Osservatore e, al contempo, promotore di questo fenomeno è il main partner della mostra: la rivista americana “Juxtapoz” della cui fondazione quest’anno ricorre il ventennale. Fin dall’inizio della sua pubblicazione nel 1994, la rivista si è posta come riferimento per quei fenomeni artistici spontanei e underground, inizialmente solo americani e poi internazionali, che venivano così ratificati attraverso la loro nuova proposizione al pubblico, tramite articoli e approfondimenti. Non sembra un caso quindi
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che gli artisti in questa mostra siano tutti interpreti e innovatori di una tradizione italiana dell’arte: quella figurativa basata sul disegno, sulla linea che demarca i contorni e che definisce le forme. Da qui la speciale declinazione del titolo: JUXTAPOZ ITALIANO che vede insieme per la prima volta i lavori dei quattro autori italiani: Agostino Arrivabene, la cui pittura, degna dei grandi maestri quattro-cinquecenteschi, sarà protagonista della sezione dedicata a “Leonardo Contemporaneo” nella mostra sul grande maestro fiorentino che si terrà a Palazzo Reale in occasione dell’Expo di Milano; Fulvio Di Piazza, uno degli esponenti di punta della “scuola siciliana” di pittura figurativa contemporanea, i cui lavori sono animati da personaggi, a metà tra l’animale e il vegetale, che ben s’inseriscono nella corrente pop-surrealista; Marco Mazzoni, che ha alle spalle esperienze espositive con importanti gallerie americane e del Nord-Europa, usa il disegno (con semplici matite colorate) per creare le sue visioni oniriche; Nicola Verlato, presente nella doppia veste di curatore e autore, è un artista eclettico dalle mille risorse (è diplomato al conservatorio e compone pezzi strumentali). I suoi ultimi lavori sono esposti, da ottobre 2014, al Long Beach Museum (California) in una importante mostra sulla pittura figurativa contemporanea.(dal c.s.)
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Museo di Capodimonte
Collezione Esposito
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he Go-Between è una mostra dedicata alle ultime acquisizioni della collezione di Ernesto Esposito, designer di calzature di fama internazionale, la cui prestigiosa raccolta, iniziata oltre trent’anni fa a Napoli, con opere di artisti come Beuys, Cy Twombly, Rauschenberg, Gerhard Richter, Andy Warhol, è stata già esposta in diversi musei europei e americani. The GoBetween è “l’intermediario”, “il messaggero” che serve da passaggio, da unione, da Sam Falls, Untitled collegamento fra due perso(Terra Cotta Pots Sculpture 2), 2013 ne o cose. The Go-Betwe8 vasi di terracotta e acrilico, 175,26 x 25,40 cm en è anche il protagonista dell’omonimo romanzo dello scrittore inglese L. P. Hartley (1953) e della relativa trasposizione cinematografica di Joseph Losey (1970): una torbida vicenda incentrata sul binomio memoria/passione e sul loro reciproco disvelamento. Nell’ambito della sua collezione, Ernesto Esposito è il The Go-Between, l›intermediario tra il suo vissuto personale e le sue visioni, tra le sue emozioni, ansie e melanconie e il suo coinvolgimento estetico, il tramite tra la sua passione per l’arte
Grear Patterson, He wears lipstick at night, 2013 Emulsione bitumosa su tela di iuta e tela cerata in tre parti, 137,16 x 137,16 cm
e le sue scelte audaci e trasversali. Caratteristica peculiare della collezione Esposito è da sempre l’attenzione rivolta verso i giovani artisti, il suo “occhio” e lo scommettere, incondizionatamente, sulle ragioni del nuovo. Da qui la selezione delle opere in mostra, oltre novanta, di artisti di generazioni e provenienze diverse, la maggior parte ancora emergenti, alcuni invece già riconosciuti nel panorama internazionale. A questi si aggiunge una serie di contrappunti, accuratamente scelti tra i “grandi classici” presenti nella collezione Esposito, chiamati a dialogare con le opere ospitate nella “Galleria delle cose rare”, all’interno della Collezione Farnese, al primo piano del Museo. La scelta di presentare alcuni di questi lavori, in un confronto serrato tra moderno e contemporaneo, vuole essere un omaggio alla storia del Museo di Capodimonte, il primo museo di arte moderna ad aver aperto, in Europa, una sezione dedicata al contemporaneo, e che ha visto, dal 1978 in avanti, una serie di grandi artisti chiamati a confrontarsi con i suoi capolavori: da Alberto Burri ad Andy Warhol, da Joseph Kosuth a Jannis Kounellis, da Joseph Beuys a Gilbert & George, da Louise Bourgeois a Bill Viola. The Go-Between nasce come un progetto itinerante, frutto di un’ulteriore mediazione di natura curatoriale sulla collezione Esposito, concepito come un format estendibile e modulabile, con un numero variabile di artisti, selezionato di volta in volta in base alla sede individuata, in progress come la collezione stessa, la cui anteprima è stata presentata negli spazi di Sprovieri a Londra, lo scorso 10 settembre. The Go-Between racconta la storia di una visione vorace e a tratti compulsiva. È una mostra che restituisce uno spaccato intrigante sul presente dell’arte e allo stesso tempo sull’immaginario proteiforme di Ernesto Esposito, sulle sue intuizioni, talvolta raffinatissime, altre volte più viscerali, che contaminano i toni del rigore e quelli della dissacrazione, ascendenze pop e interventi minimali, l’appagamento visivo e il tormento concettuale. Il risultato è una selezione di opere difficilmente iscrivibile nell’etichetta rassicurante di uno “stile”, se non quello che appartiene al collezionista che le ha raccolte. Artisti: Joshua Abelow, Alfredo Aceto, Kenneth Alme, Hector Arce-Espasas, Conor Backman, Domenico Balsamo, Jean-Baptiste Bernadet, Charlie Billingham, Alain Biltereyst, Sebastian Black, AndyBoot, Mike Bouchet, Andrew Brischler, Alice Browne, Salvino Campos, Etienne Chambaud, Julian Charrière, Claire Fontaine, Graham Collins, Nico Colón, Ethan Cook, Andrew Dadson, Nick Darmstaedter, Robert Davis, Simon Denny, Detanico & Lain, Jens Einhorn, Olivia Erlanger, Ryan Estep, Sam Falls, Leo Gabin, Piero Golia, Greg Gong, Jack Greer, May Hands, John Henderson, Benjamin Horns, Nathan Hylden, Parker Ito, Henrik Olai Kaarstein, Kika Karadi, Kiluanji Kia Henda, Maxim Liulca, Israel Lund, Brendan Lynch, Erica Mahinay, Michael Manning, Ana Manso, Helen Marten, Hugo McCloud, Adam McEwen, Adrien Missika, Evan Nesbit, Amir Nikravan, Ben Wolf Noam, Wes Noble, Alek O., Jebila Okongwu, Oliver Osborne, Grear Patterson, Zoë Paul, Marco Perego Saldana, Nicholas Pilato, Kour Pour, Josh Reames, Scott Reeder, Dan Rees, Joe Reihsen, Bert Rodriguez, Emanuel Röhss, Julia Rommel, Christian Rosa, Vincenzo Rusciano, Gabriele De Santis, Ryan Conrad Sawyer, Hugh Scott-Douglas, Luca Sidro, Travess Smalley, Lucien Smith, Kasper Sonne, Martin Soto Climent, Kate Steciw, Chris Succo, Eugenio Tibaldi, Keith J. Varadi, Ned Vena, Yonatan Vinitsky, Dan Walsh, Garth Weiser, Jordan Wolfson. Contrappunti inseriti nella collezione storica: John Baldessari, Howard Hodgkin, Thomas Houseago, Jannis Kounellis, Robert Rauschenberg, Mario Schifano, Cindy Sherman, Thomas Struth.
Claire Fontaine, Untitled, (We are all, I & II), 2006 Pittura su stencil, gouche e grafite, pellicola su carta, 90,10 x 90,10 cm
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Fernando De Filippi, Trascrizioni, 1975
Fondazione Mudima, Milano / Labs Gallery, Bologna
Fernando DE FILIPPI Opere 1974/1979
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utto quello che volevamo sapere o, come nel nostro caso, ricordare dell’iter creativo di Fernando De Filippi, ci viene offerto da un’ampia rassegna di lavori prodotti tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, allestita presso la Fondazione Mudima, a Milano. La curatrice, Angela Madesani, per l’occasione ha realizzato una lunga intervista, pubblicata nel volume, La rivoluzione privata 2, edito da Prearo, che costituisce un’ideale prosecuzione del libro con lo stesso titolo, pubblicato Fernando De Filippi, The spirit of utopia, 1976, foto colore, cm 20x25.
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dal medesimo editore nel 1974. La mostra prende il via con Autobiografia (1970.1975), un’opera pittorica in cui il protagonista è Lenin. Si tratta di un personaggio restituito dall’informazione, dai libri dai reperti, dalle stampe. A Lenin è dedicato anche IL grande lenzuolo, lavoro di “pittura ideologica”, di cui rimane la sola testimonianza fotografica. Risultati di un meticoloso lavoro esperienziale sono le Trascrizioni, che “ricreano” i testi di Lenin con la sua stessa grafia, in lingua russa, e Sostituzione, un lavoro performativo, in cui l’artista viene trasformato, attraverso il trucco, nel grande statista russo: un “Tale e quale Show” ante litteram!. “Quello su Lenin - scrive Angela Madesani - è, in realtà, un lavoro autobiografico, dove il concetto stesso di autobiografia non va inteso nel senso di narrazione di se stessi, ma come testimonianza di un’esperienza di immedesimazione
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Fernando De Filippi, Slogan, Art is ideology, affissione selvaggia a New York, foto colore, cm 20x25, 1979
che si protrae per lungo tempo. Un lavoro straordinario, in cui è possibile scorgere la traccia di un’evidente ossessione.” “Tra esibizione ed occultamento” del 1976 è l’inizio di un ciclo (del quale rimane la documentazione fotografica originale) realizzato tra la Sardegna e la Francia: si tratta di frasi, tratte da alcuni passi degli scritti sull’arte di Marx, scritte con caratteri (ricavati da formine) ed allineati sulla battigia, che venivano cancellate dal riflusso del mare nel momento immediatamente successivo a quello in cui venivano costruite. Non mancano i lavori dedicati alle pratiche di comunicazione diretta, che utilizzano i canali riservati alla pubblicità per la distribuzione delle idee con slogan estrapolati dagli scritti di Marx e Engels. In una mostra quasi parallela a quella della Galleria Mudima di Milano, alla neonata LABS Gallery di Bologna, vengono proposti
lavori di De Filippi dello stesso periodo. Nell’introduzione del catalogo - Sala Editori - pubblicato per l’occasione, Stefano, uno dei due direttori (l’altro è Alessandro) si dice orgoglioso “per essere riuscito con l’aiuto di Angela Madesani, a creare una mostra che approfondisce la produzione di De Filippi degli anni Settanta. (.....) Sono stato colpito dalla voglia di raccontarsi e di mettersi in gioco che sembra quella di un giovane artista e non di un classe ‘40 del secolo scorso, ma soprattutto che non ti aspetteresti mai da qualcuno che è stato invitato a diverse Biennali di Venezia, ad esposizioni in musei di tutto il mondo e che ha esposto nelle migliori gallerie italiane e straniere dagli anni Sessanta ad oggi e che è stato per 18 anni direttore dell’Accademia di Brera a Milano”. (a cura di Lucia Spadano)
Fernando De Filippi, Slogan, La mano non è soltanto l’organo del lavoro è anche il suo prodotto, Bologna installazione, affiche cm 70x200 + testo cm 100x70 + foto cm 100x70 + 19 foto cm 45x30 - (misure totali cm 270x250), 1977.
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Studio G7, Bologna
Paolo MASI
Paolo Masi, ciclo Rilevamenti esterni - conferme interne, 1977, stampa fotografica
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a formazione di Paolo Masi avviene, intorno alla metà degli anni ‘50, all’accademia d’arte di Zurigo dove studia pittura; il suo percorso, ricettivo delle maggiori esperienze che hanno segnato il panorama artistico degli ultimi sessantacinque anni, resta pressoché fedele alla vocazione pittorica. Fondato su un’instancabile volontà di sperimentare il lavoro di questo artista fiorentino si colloca sul versante non figurativo dell’astrattismo, lontano da qualsiasi ripiegamento intimista e attento all’esperienza visiva nel mondo reale. È un operare quello di Paolo Masi incredibilmente flessibile nella capacità di superare dettami, non più ritenuti in linea con nuove esigenze di indagine, senza tuttavia smarrirne la traccia. Sfogliare le monografie di Masi in compagnia dell’artista è un’esperienza emozionante per un giovane “addetto ai lavori”. La sua biografia, utile da conoscere per meglio comprenderne la poetica, assume tratti quasi mitici presentandosi emblematica di vicissitudini per eccellenza associati alla vocazione artistica. Procura un certo effetto per esempio immaginare le notti parigine accese dalle droghe e dal jazz nel periodo in cui l’artista terminati gli studi entra a contatto con l’ambiente tardo informale intriso di pensiero esistenzialista. Affascinante è la prosecuzione del racconto che evoca il contesto artistico milanese al tramonto dell’Informale, quando, pur restando viva l’esperienza del MAC, la pittura inizia a dirigersi verso il suo grado zero e lo spazio sulla tela diventa elemento astratto, concetto. È il tempo in cui frequentando il bar Jamaica si incontrano artisti come Castellani, Manzoni e Bonalumi immediatamente prima la nascita di Azimuth e Azimut e la discussione sull’arte è segnata dal dibattito su metodi e finalità. A incidere in modo più diretto sulla figura di Paolo Masi al suo ritorno nella città natale tuttavia è l’amicizia con Vinicio Berti, membro dell’Astrattismo Classico fiorentino, e la frequentazione di artisti come Pierluca, Fallani, Baldi, Verna e Guarneri assieme ai quali si allontana dall’informale per dirigersi verso una pittura più “concreta”. La scelta dell’astrattismo geometrico si collega tra l’altro all’interesse
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maturato durante il periodo accademico per le avanguardie russe, il De Stijl, il Bauhaus e il design. A ciò si può aggiungere la collaborazione, nei decenni successivi, con la galleria Schema di Firenze che favorisce il contatto dell’artista con gli ambienti europei e americani, e poi, i numerosi viaggi e i rapporti con importanti gallerie italiane ed estere. La mostra allestita a Bologna, alla galleria Studio G7 mette in evidenza i tratti che contraddistinguono l’opera e la poetica di Masi, rimasti costanti nel corso della sua carriera nonostante l’ansia di sperimentare da parte dell’artista. Osserviamo in questa esposizione un racconto unitario pur nella scelta di opere appartenenti a epoche differenti dove un astrattismo di segno razionale racconta l’esperienza della visione legata al proprio quotidiano; rappresentativo di ciò è il ciclo di fotografie Rilevamenti esterni, conferme interne del 1977. Questo motivo si collega all’interesse per la relazione tra l’uomo e il contesto in cui vive unito all’anelito per la diffusione dell’arte a cui riconosce una funzione sociale. E’ a partire da questo pensiero che l’artista offre un contributo attivo per la nascita a Firenze dei collettivi Zona nel 1974 e Base nel 1998. Il tema del confronto visivo con l’ambiente, esaminato anche sotto l’aspetto sociale, è riscontrabile nei Cartoni del 1974, eseguiti a partire da scatole recuperate presso magazzini e negozi. Qui Masi interviene con la pennellata, la matita, il graffio, la lacerazione al fine di esaltare i segni intrinseci del materiale. Ad assumere valore in questo caso è la struttura stessa del cartone, incluso lo spessore e la sua trama interna. Nei lavori più recenti, dove l’artista non si discosta dal tema sopra accennato, appare evidente in misura maggiore lo studio su spazio e colore; elementi costantemente presenti nella sua ricerca, separati come concetti ma spesso in simbiosi. Per questi lavori è utilizzato il plexiglass, uno tra i supporti più usati da Masi già dagli anni ‘60. Con l’ausilio di questo mezzo spazio e colore si definiscono a vicenda, il primo attraversa la superficie, coinvolgendone lo spessore, l’area esterna all’opera, la parete a cui è adagiata mettendo in relazione fra loro piani differenti.
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Paolo Masi, Senza titolo, 2014, spray aciclico su plexiglas, quattro elementi, cm 100x100 cad.
Paolo Masi, Senza titolo, 2014, smalti su plexiglass cm.50x50 cad.
Lo spazio, nell’opera di Masi, è concepito durante gli anni ‘60 e ‘70 come luogo di costruzione all’insegna dei dettami neoplastici, frazionamento modulare e misurazione; in tempi più recenti definisce i volumi oppure diventa “ambiente” coinvolgendo l’area dove è collocato lo spettatore. Nelle opere in mostra, grazie al plexiglass è luogo della simultaneità dove appaiono visibili al contempo diverse superfici colorate, diversamente trattate. Masi nel corso della sua lunga carriera rivendica la libertà di
esplorare vari percorsi sia sul piano tecnico che conoscitivo. L’affermazione di tale esigenza non avviene in modo dichiarato o programmatico, ma nei fatti, dimostrando la non necessità di strategie e compromessi. La lezione di Masi fa comprendere come l’integrità e l’onestà intellettuale da parte di un artista siano sufficienti a giustificare qualsiasi scelta di percorso e a far sì che una produzione anche molto grande e variegata possa risultare al contempo omogenea. n Francesca Cammarata
Paolo Masi, Cartoni, 1974 - 76, tecnica mista su cartone da imballaggio, cm 40x40 cad.
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
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Ludoscopio - Croce. Percorsi di spazi-luce comunicanti, 2007
Paolo Scirpa Per quarant’anni, l’artista Paolo Scirpa ha realizzato numerose opere ed installazioni che egli nomina «Ludoscopi». Il nome deriva da una combinazione di parole che significano rispettivamente «gioco» e «sguardo». Man mano che ci si avvicina ad un Ludoscopio, si crea un effetto spaziale generato dall’utilizzo della luce. Nella sala del Museum Ritter (Waldenbuch) Scirpa ha creato un’opera su grande scala utilizzando quattro scatole che contengono tubi fluorescenti sui lati. Grazie a un sistema di specchi all’interno delle scatole, si accentua la profondità dando l’impressione che le scatole si espandono come un lungo corridoio senza fine ben oltre le loro dimensioni effettive. L’effetto diventa progressivamente più ampio man mano che l’osservatore si avvicina. Da una certa distanza, si può apprezzare l’opera nella sua forma complessiva, mentre da vicino, si ha la sensazione di essere catturati da una potente forza attrattiva che sembra portare l’osservatore sempre più all’interno, quasi risucchiato verso quegli spazi così profondi.
Quello che sembra uno studio razionale e formale del concetto dello spazio ha, in realtà, un significato più profondo per l’artista. Scirpa, nato nel 1934, ha installato diverse opere di questo tipo in alcune chiese del suo paese, l’Italia, fornendo una sua personale risposta all’esperienza spirituale dell’infinito e al quale possiamo forse attribuirne una dimensione critica, nel senso che l’artista considera l’infinito soltanto un’illusione, dalla quale non possiamo sfuggire, ma che possiamo solo considerare illusorio. La tecnologia ci permette di crearla abbastanza facilmente. Le origini di Paolo Scirpa risalgono alla città di Siracusa, in Sicilia, dove 2200 anni fa visse Archimede. Il famoso matematico greco è ricordato anche per la sua esclamazione «Eureka» che vuol dire «L’ho trovato». Nel lavoro di Paolo Scirpa, sembra che l’artista abbia trovato la chiave per la comprensione dello spazio, e cioè che lo spazio è generato ovunque ci sia la luce. Ed è la luce che dona una struttura a quello spazio. Hsiaosung Kok, Waldenbuch, 2012
Ludoscopio praticabile a raccordi di spazi-luce illusori n. 138. Percorsi comunicanti (a + b), 1989, (c + d), 1999
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Galleria Passaggi/Pisa
Mariagrazia Pontorno Tutto ciò che so
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’Atlante della Memoria - Mnemosyne di Aby Warburg, seppur opera incompiuta, si sottopone a molteplici letture e risulta essere oggi, fra le nostre mani, un potente strumento di riflessione sulle possibili connessioni iconologiche tra tradizione e recenti scoperte, nonché una chiara proposta metodologica che fa del simbolo la chiave di lettura delle immagini che ricorrono nelle varie culture, passate e contemporanee. Questo preambolo perché il lavoro di Mariagrazia Pontorno guarda alla natura come ad un sistema di forme simboliche i cui aspetti più significativi vengono narrati visivamente attraverso le opere, per svelare all’osservatore una storia altrimenti nascosta o dimenticata. Il giardino dell’Orto Botanico di Pisa è stato il luogo scelto dall’artista per una nuova esplorazione che, tra materiale d’archivio e studio delle piante sul campo, ha prodotto il corpus di opere esposte nel-
la Galleria Passaggi di Pisa, tutte aventi come soggetto principale le piante e la loro storia. Tutto ciò che so’ è il titolo della mostra che, quasi in maniera nostalgica, rispolvera antichi carteggi e vicende umane animate dalla costante ricerca del sapere e dalla curiosità di affrontare nuovi orizzonti per ampliare il bagaglio culturale, personale e collettivo. Così, i disegni delle orchidee che Luca Ghini -fondatore dell’orto botanico pisano (1543)- spedì a Leonhart Fuchs per il suo erbario, le felci prelevate dal naturalista Giuseppe Raddi nel 1817, al seguito dell’Arciduchessa Leopoldina d’Asburgo Lorena durante un viaggio in Brasile o semplicemente l’episodio documentato del 1935 dello sradicamento di un cedro del libano, vengono riportati alla memoria da Pontorno attraverso opere che coniugano tecnologia e natura per una lettura simbolica dei singoli elementi. L’aspetto paradossale del rapporto tecnologia-natura, artificiale-originario non entra in contrasto nei lavori di Pontorno, anzi diventa il quid di ogni opera poiché “l’artificiale è naturale e l’artificio stesso deriva da un pensiero. Ed un pensiero è una cosa del tutto naturale” ricorda l’artista. In tutto questa analisi c’è un legame con la tradizione che non ci Mariagrazia Pontorno, A Samambaia dos Mares #2, 2014 lightbox a led cm 30 x 40 x 10, stampa su perspex da compositing 3d. In alto: Mariagrazia Pontorno, Caro Leonhart, 2014. Stereolitografia in fotopolimero, cm 11x19x10,5. A destra: Mariagrazia Pontorno, Tutto ciò che so, Galleria Passaggi, 2014. Courtesy dell’artista e Galleria Passaggi, Pisa. Ph. Dania Gennai
Considerato dalla critica d’arte (Boatto, Bonito Oliva, Dorfles, Menna, Toniato, Trini) come tra i migliori esponenti della “nuova scultura”, Bucciarelli persegue un’idea di spazio espansivo attraverso interventi ambientali che si legano ai luoghi Accademia di Belle Arti di Brera del suo immaginario cosmico, con uso di rende omaggio alla ricerca arti- materie cromo-plastiche che superano la di Belle Arti tra pittura e scultura. Dai primi stica di Vito BucciarelliAccademia con unaMilano distinzione mostra di opere su carta che caratteriz- anni ‘70 l’artista affida l’esplorazione dello zano la sua attività, dagli anni ‘70 a oggi. spazio all’immagine simbolica dell’ autoAccademia di Brera, Milano
Vito Bucciarelli
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BRERA
Vito Bucciarelli
si aspetta e, come i tasselli che compongono l’atlante di memoria warburghiana, i collage concepiti secondo i livelli di photoshop, Caro Leonhart l’orchidea scultorea riproposta con la stampa in 3D sotto una campana di vetro come uno dei cimeli più cari, il conturbante video che ha per protagonista quel cedro del libano violentemente sradicato e la serie A Samambaia dos Mares di lightbox che ricollocano le felci approdate nell’orto botanico di Pisa nei paesaggi originari del Brasile, sono tutte operazioni che fanno dei soggetti naturali i simboli della loro stessa storia. Le opere di Pontorno includono l’aspetto romantico della natura, piegandolo sapientemente alle esigenze della tecnologia, come se fosse una delle cose più naturali di questo mondo. Giuliana Benassi
ritratto, statuetta seduta con le mani sulle ginocchia, apparizione in bilico e sospesa nel vuoto, icona persistente dell’identità ma soprattutto emblema della possibilità di oscillare continuamente tra realtà e finzione. L’avventura spaziale di questa figura dominante - calco in terracotta di misure variabili - spinge la riflessione concettuale di Bucciarelli verso una dimensione basata sulla mobilità dei punti di vista, sulla dislocazione perpetua delle forze percettive dentro e fuori l’orizzontalità della Terra. L’artista interpreta in molteplici occasioni la permutante relazione tra la figura dello “psiconauta” (definizione di Ernst Junger) e la sua possibilità di sviluppare traiettorie sensoriali connesse alla sfera del cosmo. L’autoritratto allucinato e nomadico è disarcionato dall’originaria fissità, sradicato da ogni vincolo prospettico e collocato in stralunata sospensione a-gravitazionale. Questo personaggio autoreferenziale è misura di tutte le visioni e rappresenta la condizione paradossale e inquieta della conoscenza, sostenuta dal desiderio di mettere in scena sguardi sdoppiati e moltiplicabili all’infinito. Le opere su carta scelte per quest’esposizione (progetti grafici, disegni, dipinti, assemblaggi, tracciati fluorescenti) sono un viaggio parallelo alle energie fisiche e mentali che si materializzano negli interventi oggettuali e ambientali legati al rapporto tra paesaggio vissuto e paesaggio immaginato. In tal senso, esse costituiscono le tracce del pensiero creativo di Bucciarelli, forme provvisorie e virtuali che fissano le dinamiche visibili e invisibili del corpo che genera energie trasversali, percorsi segreti e sottili magnetismi tra luoghi distanti nel tempo. (dal cs) GENNAIO/FEBBRAIO 2015 | 251 segno - 83
Maxxi. Open museum. Open city. Roma
Installazioni sonore di Paolo Aita
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ccorre ammettere che il sonoro in arte desta sempre qualche perplessità. Un po’ perché si esce dal seminato metodologicamente ufficiale, un po’ perché la cultura che si presuppone è sempre crossover, un po’ perché le opere che appartengono a questo settore spesso sono nuovissime, si ha l’impressione di non avere mezzi culturali adeguati. Giunge particolarmente a proposito, dunque, la programmazione del Maxxi, che decide di cedere oltre un mese del suo calendario al sonoro. Nelle intenzioni del direttore, Hou Hanru, il museo viene svuotato di opere, per riempirsi di vita, la vita del foro, rappresentata appunto dal suono che viaggia incurante degli steccati geografici e culturali. La manifestazione inizia appunto con tre opere, di Bill Fontana, Haroon Mirza, Justin Bennett, che insistono sul tema del dialogo con la città, e con il dialogo dentro/fuori i limiti imposti dall’architettura. Il primo porta nel Maxxi i suoni dell’acquedotto di Roma, per cui sentiamo le pareti dell’edificio stranamente permeabili dalla nostra presenza, invitati ad entrare da un piacevole e chiocciante suono di acqua. Su un dialogo tra dentro e fuori museo insiste l’opera di H. Mirza, mentre J. Bennett porta i suoni (catturati da microfoni) di realtà urbane differenti all’interno del museo, realizzando una specie di piazza delle piazze, sebbene estremamente lontane. Sempre al piano terreno Ryoi Ikeda ci fa riflettere sull’in sé, sull’essenza del suono. Se la base della odierna nomenclatura musicale è legata al posizionamento della nota La, che è infatti riprodotta stabilmente dal diapason, mentre tutte le altre vengono posizionate nelle loro frequenze a partire da questa prima, occorre dire che la frequenza del La è frutto di aggiustamenti matematici, sonori e culturali durati praticamente cinque secoli. L’opera di R. Ikeda mette a contatto varie versioni del La date in differenti contesti, fino a giungere alla configurazione odierna, che è quindi ricca di molteplici riferimenti simbolici e matematici. Al piano successivo le installazioni presentate lavorano sul concetto di comunità e di interfacciamento. Francesco Fonassi ha collocato dei diffusori che reagiscono agli spostamenti dei visitatori, per cui l’emissione sonora da essi generata, viene modificata dalle sagome che si interpongono tra i suoni. Anche Cevdet Erek lavora su un concetto di feedback, per cui possiamo ascoltare i suoni generati dalla moltitudine di uno stadio, debitamente de-contestualizzati perché riprodotti e sfaccettati dalla riproduzione effettuata nel Maxxi. Lara Favaretto accentua la differenza tra i vari contesti in cui viene prodotto un suono (e che lo fanno percepire in modo del tutto differente al mutare dei ambienti che lo contengono), per cui siamo colpiti dal fragore di questi elementi meccanici, ancor più contundenti nello spazio soft di un museo. Ma il piano superiore contiene anche proposte sonicamente più sottili. Philippe Rahm decostruisce una Sonata di Debussy per piano-
Philippe Rahm, Sublimated music 2014. Courtesy the artist
Jean-Baptiste Ganne, El Ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha, 20052014. Installazione luminosa MAXXI, courtesy the artist
Cevdet Erek, A Room of Rhythms - Curva (2014) Veduta dell’installazione al MAXXI, Roma Foto Giorgia Romiti, courtesy Fondazione MAXXI
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Edicola Notte , Roma
Loris Cecchini
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Justin Bennet, Hyper- Forum (2014) Foto Giorgia Romiti, courtesy Fondazione MAXXI
forte in maniera singolare: c’è un altoparlante per ogni nota, di conseguenza questi occupano uno spazio del museo veramente considerevole. Occorre notare che la sonata è intitolata Fra campane, e nel desiderio di Debussy vuole rappresentare lo spazio di dispiegamento sonoro che si estende tra i campanili e i suoi ascoltatori. Questa istallazione quindi approfondisce il concetto di distanza tra suono e ricezione, insistendo su un concetto di sublime legato allo spazio decisamente affascinante. Ancor più nella direzione del distante si spinge l’opera di Jean-Baptiste Ganne. Partendo dal concetto che ogni personaggio letterario è un frutto della fantasia, e nella realtà non esiste, Ganne illumina di un improbabile colore rosso lo spazio di una importante galleria di Maxxi. Specialmente se vista all’esterno, questa opera è la dimostrazione di un effetto, precisamente dell’effetto Don Chischiotte, che nelle intenzioni dell’autore dovrebbe colorare della sua irrealtà gli spazi del museo. Assieme a queste opere installate stabilmente nel Maxxi, c’è stata una grande quantità di eventi collaterali. La sera dell’inaugurazione Philippe Spiesser ha eseguito in modo magistrale e decisamente entusiasmante una composizione per sole percussioni di Xenakis. Ma non sono mancati gli interventi anche di altri specialisti, nonché seminari sul sonoro tenuti dagli artisti. Da notare soprattutto l’installazione stabile di RAM Radio Arte Mobile. Dopo anni di ricerca sul sonoro RAM ha ormai un archivio di tutto rispetto, e ha organizzato uno spazio di ascolto e di dibattito fondamentale per tutta la manifestazione. Dai suoi microfoni, in varie riprese, è arrivata una documentazione sulle ricerche attuali sul sonoro di tutto il mondo, partendo anche dalle esperienze della Minimal music, quest’ultimo settore curato da Paolo Coteni. Si è avuta, in questo modo, una ricca documentazione anche sulla ricerca acustica che viene effettuata in quella “terra di nessuno” che si estende tra suono e rumore, ponendo la manifestazione del Maxxi tra le più aggiornate del settore. n
el lavoro di Loris Cecchini l’evoluzione di forme morbide, in cui la fluidità della materia è solidificata e fermata in una sospensione di gravità, lo spazio ha chiaramente un ruolo decisivo. La relazione che si sviluppa è stringente, perché lo spazio è chiamato ad aderire alla dimensione globale dell’opera, a essere il secondo elemento portante di un complesso scultoreo indipendente. Ma Cecchini preferisce riferirsi ai suoi lavori scultorei come a delle “non-sculture”, fondando il loro valore nella struttura che va a costituirsi nella dialettica realizzata fra natura e artificio, con la compartecipazione dell’architettura. Con Waterbones – lavoro realizzato appositamente per lo spazio romano di Edicola Notte Loris Cecchini mette in atto un “meccanismo scenico” totalmente autonomo, un’installazione che sembra auto-generarsi nei limiti stretti degli spazi diaframmatici. L’artista milanese rimanda al suo lavoro modulare, della logica oggettuale; l’elemento ripetuto, una sorta di osso di metallo, acquisisce una forma replicabile infinite volte, in diffusione materica e spaziale. I moduli di acciaio, di dimensioni similari, si inseriscono nello spazio come elementi autonomi strettamente agganciati fra loro, andando a costruire un reticolo filiforme e ampio. Rappresentano un unico e indissolubile complesso materico, lucido e riflettente che nella profondità dello spazio si appropria della dimensione aerea. Un elemento diffuso, come se sospeso e librante vivesse della sua esclusiva fenomenicità e dialogasse con l’esterno, chiuso nella struttura affacciata su un vicolo di Trastevere. Non c’è margine per aprire al colore, il metallo lucido riflette il bianco di Edicola Notte, mette in crisi i parametri di misurazione delle superfici, dello spazio. Il sistema si moltiplicherebbe all’infinito se non ci fosse il limite fisico del luogo, che impedisce l’estensione. Ma qui entra in gioco il rapporto con la struttura per cui si evidenzia ciò che sta nel mezzo, quanto siano fondamentali le “membrane” murarie per contrarre e attivare la mobilità del processo fisico dell’opera. Cecchini lavora accuratamente per raggiungere la verosimiglianza della dimensione occupata dall’elemento scultoreo, che si sviluppa come un organismo vegetale soggetto alle regole fisiche. Nella pratica dei processi fisici, assecondata per costruire nuove realtà percettive, molto viene impiegato per coadiuvare morfologia e materia; per la generazione di un nuovo sistema autonomo e primario. Ilaria Piccioni Zoo Zone Art Forum, Roma
Luigi Presicce
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Bill Fontana, Sonic Mappings 2014 – backstage | acquedotto courtesy the artist RAM Radio Arte Mobile. H.H.Lim, Quando Roma si fa sentire, 2014. Disegno preparatorio. Courtesy the artist
lle origini del linguaggio estetico, nel modo di affrontare il processo di analisi della materia, Luigi Presicce procede oltre la pratica pittorica. L’artista pugliese inizia il suo percorso artistico in stretta sinergia e connessione con la pittura, che fino ai primi anni del 2000 è il linguaggio fondante della sua ricerca. Poi, per assegnare elasticità allo spazio tra mondo materico e immateriale, si rende per lui necessario l’approssimarsi alla pratica performativa, che affronta nella prassi come un linguaggio antico, nei canoni narrativi originari dell’epoca trecentesca e quattrocentesca. La mostra Ermete su carta - presso Zoo Zone Art Forum – apre una finestra di dialogo con gli aspetti centrali della sua analisi, della sinuosa spirale ermetica che Presicce articola di là dalla pittura. La raccolta meticolosa di oggetti, simboli antichi e attuali, vecchie foto, e la resa fotografica di un momento di una performance (il medium fotografico è utilizzato a titolo documentario) stanno in un unico ambiente. Ogni singolo frammento oggettuale e visivo è simbolicamente stringente, tutti i caratteri estetici, seppur distinti, appartengono a un unico corpo. Le geometrie semplici ricorrenti si innestano nel complesso delle opere come entità simboliche: hanno la stessa rilevanza emblematica degli elementi alchemici primari, della trasformazione della materia perseguita per raggiungere la conoscenza. Gli strumenti di lavoro si fanno concreti, diventano altri tramiti di ricerca che si avvalgono dell’analisi e della comprensione dei segni, delle figure di epoche lontane. Gli oggetti acquisiscono una componente simbolica pregnante per le loro distanze di tempo e luogo, per la storia che trattengono, andando a formare archivi di temi semantici. Così nel complesso, Maghi, L’annunciazione di Pitagora agli acusmatici (grande foto della performance del 2010), Mistici e Maghi (libro d’artista in due volumi) appartengono allo stesso percorso conoscitivo, che Presicce affronta per svelare i saperi custoditi da alcuni personaggi e determinate storie. Lo stesso paio di guanti incorniciati, come elemento archetipico, sembra ricordi l’attenzione dedicata a preservare una indagine polisemica, un impegno intellettuale di derivazione mitologica e antropologica. La pratica quotidiana della ricerca artistica diventa un esercizio liturgico, per attuare l’originaria sapienza ermetica. Ilaria Piccioni GENNAIO/FEBBRAIO 2015 | 251 segno - 85
Palazzetto dell’Arte “Andrea Pazienza”/Museo Civico, Foggia
Nicola Liberatore “Oltre l’oblio”
L’
arte di Nicola Liberatore, a prima vista sembra iscriversi agevolmente nel recupero postmoderno della decorazione e dell’ornamento. C’è tuttavia nel suo lavoro una caratteristica che rende più problematiche ed intriganti le coordinate entro cui sembra muoversi. Questa caratteristica può essere risolta in una semplice parola “narrazione”. L’artista racconta storie, che possono anche coincidere con quanto accaduto nella realtà, ma che attingono molto al folklore ed alla etnologia, muovendosi nella dimensione del mito o, meglio, della mitopoiesi. Nella mostra articolata nelle due sedi espositive di Foggia, curata da Gaetano Cristino e Luigi Paolo Finizio, di fronte all’affastellamento degli oggetti ed alla natura non ancora sedimentata delle simbologie, Cristino, tra l’altro scrive: “ex voto, madonne nere, immagini di santi, ori, abitini femminili per prima comunione, abiti nuziali, fasce per neonati, scarpine, pagine scritte, rotoli di tela, decontestualizzati rispetto alla loro essenza etnografica o d’uso e mirabilmente manipolati dall’artista con un lavoro di stratificazione/macerazione della materia e delle cromie sulla superficie, oltre che con assemblaggi, vivono in una dimensione altra, completamente nuova, la dimensione estetica, che tutto simultaneamente congiunge, passato e presente, vita (e gli oggetti, anche devozionali) e azione artistica, affabulando il fruitore, con la sua potenza e finezza espressiva, sugli eterni misteri del sacro
Nicola Liberatore, Scritture del tempo (particolare) legnetti, corde, garze, inchiostro,oro, pigmenti, stoffe antiche, una fascia cm 250x23
Nicola Liberatore, Oltre l’oblio. Veduta mostra Museo Civico, Foggia
e dell’esistenza”. Per Luigi Finizio “l’arte del nostro autore arretra nel passato, induce alla nostalgia, sottrae il tempo al tempo. La sua identità visibile e comunicativa attraverso la memoria, nei sedimenti di materiali e oggetti, nel combinarsi di forme e colorati pigmenti, di tessuti e oggetti, non si concede, certo, alle realtà oggettuali e simboliche che comunemente ci attorniano, che diffusamente configurano i costumi e gli usi dei nostri tempi. Dove la tecnologia, sino al digitale, preme e ribalta i desideri sull’attualità del sentire e vedere. Le sue opere mostrano come poter ritrovare, riconvertire il desiderio sul tempo andato, nel divenuto di una memoria, di una storia che ci riguarda nella continuità della coscienza, della cultura. I suoi santi sbiaditi, le sue cattedrali che rigenerano il fondersi di stilemi e ricami, le sue icone stinte fra oriente e occidente e le pagine di manoscritti che richiamano il corale di un salmo polifonico, rendono un’antologia di segni incastonati nel tempo”. (dal catalogo L.S.) Nicola Liberatore, Oltre l’oblio. Veduta mostra Palazzetto dell’ Arte, Foggia
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Casa della Memoria / Catanzaro
Aurelio Amendola
pproda a Catanzaro “Roy Lichtenstein 1976”, mostra personale di A Aurelio Amendola alla Casa della Memo-
ria: diciassette scatti inediti, realizzati tra il 1976-1977, che ritraggono il maestro della Pop Art al lavoro nel suo studio.La mostra promossa ed organizzata nell’ambito della programmazione artistica dalla Fondazione Rotella, in collaborazione con la Fondazione Guglielmo, ha la curatela di Marco Meneguzzo. Amendola è noto fotografo d’arte e d’artisti, che ha sensibilmente interpretato le opere di Michelangelo, Donatello, Jacopo Della Quercia, Giovanni Pisano, ma anche immortalato in ritratti psicologici artisti contemporanei come Marini, De Chirico, Burri o Plessi. Sulla stessa scia di Mulas o Abate, Amendola sceglie di confrontarsi con la poetica di altri artisti, facendone emergere non l’oggettività del pensiero, ma uno sguardo direzionato sul mondo. Attraverso il suo occhio, osserviamo Lichtenstein stendere campiture di colore freddo e piatto; osserviamo la società dei consumi degli anni Sessanta e Settanta, resa “oggetto estetico” dal taglio fumettistico dei suoi lavori. Ammiriamo la citazione nadariana – di Amendola – che immortala il soggetto in posa, carpendone l’espressione più intima. In questi scatti vengono colte le due anime di Lichtenstein – e forse dell’arte americana tout court – che all’innovazione del linguaggio pittorico, all’utilizzo dell’oggetto pop nella pratica dell’arte,
accosta lo studio dei temi, dei soggetti e delle scelte formali delle avanguardie storiche europee (e non solo). Difatti in molti lavori è esplicito il rimando a Picasso e a Matisse, a cui l’artista americano faceva riferimento. (Simona Caramia) Torrione Passari/Molfetta - Bari
Eppur si muove
n dubbio radicato, che resiste a tutte le rassicurazioni, è quello insinuaU to da Eppur si muove, mostra collettiva
a cura di Michela Casavola e Giacomo Zaza. Prendendo spunto dalla celebre frase attribuita al Galileo fermamente persuaso della fondatezza scientifica delle sue teorie, la collettiva si rifà al titolo dell’intervento di Luca Vitone (artista in mostra), rendendolo paradigma emblematico di una metodologia del fare. Il dubbio, critico o scettico, sulle modalità di conoscenza del reale, nonché sulla questione ontologica – del reale stesso – diventa modus operandi, ma soprattutto pratica di avvicinamento tra l’Io e l’Altro, nella piena consapevolezza dell’inevitabilità della relazione, giacché viviamo un “inter-mondo”, nel quale l’intersoggettivo è – per dirla con Husserl – la “vera soggettività trascendentale”. Le logiche di sistema sono sviscerate da Vitone stesso e da Regina José Galindo: entrambi alludono ad un hic et nunc culturalmente forte che si “scontra” con una cultura marginale o marginalizzata, un “lì e allora” a cui l’artista si sente vicino e in nome del quale si muove a tutela. Se Vitone figura un viaggio ideale di ritorno dall’Italia
all’India della popolazione rom, la Galindo denuncia i traumi e gli abusi della popolazione guatemalteca, evocandone con il proprio corpo le ansie e le angosce. Compie un analisi sull’insicurezza sociale di Cuba, suo Paese d’origine, anche Làzaro Saavedra, che con humor, analizza il contesto socio-politico, mostrando come le inquietudini umane si intreccino prepotentemente alle disillusioni degli ideali rivoluzionari. E il “movimento” del viaggio – o esplicitamente “dell’altrove” – si prospetta anche nei lavori di Liudmila & Nelson, che contaminano e plasmano la realtà, dislocandola in altri territori, trasformandola in una sorta di “costruzione fantastica”; le loro immagini danno vita a luoghi quasi onirici o irreali, non perfettamente contestualizzabili spazialmente, né temporalmente. (Simona Caramia)
Lazaro Saavedra, Sindrome de la sospecha, 2004
Enrico Minguzzi, Paesaggio
Nesting Art Gallery, Ravenna
Enrico Minguzzi
paesaggio è protagonista a Ravenna presso Ninapì – Nesting Art Gallery Idil-Chiara Fuschini - nelle opere di Enrico Minguzzi allestite nei suggestivi spazi dell’ex-tipografia ravennate, in collaborazione con Giuliana Benassi. Il titolo della mostra “Ventiquattro” suggerisce una preziosa chiave di lettura, poiché si riferisce al duplice aspetto delle riflessioni che stanno alla base delle pitture di Minguzzi:
la dimensione insieme temporale e ancestrale della natura. Con l’atteggiamento di chi indaga la natura per entrarvi dentro fino a voler scorgere le leggi matematiche che la governano: le montagne, i mari e le vallate assumono connotati geometricomatematici. Spesso, linee, solidi geometrici e forme romboidali si inseriscono negli scorci naturali, enfatizzando la volumetria di ogni dettaglio paesaggistico. Il mare come la montagna sono dotati di consistenza volumetrica e corrono lungo le pareti della galleria come se volessero testimoniare la bellezza della natura. Non
sembra esser presente del romanticismo, ma più propriamente viene in mente un impiego romantico della vista ed è l’osservatore che si trova ad essere novello Viandante sul mare di Nebbia (Caspar David Friedrich) come un viaggiatore ottocentesco. Notturni, paesaggi soleggiati o timide albe dettano le regole della tavolozza del pittore in termini di luce e assenza di luce, dove l’istante temporale sembra essere il simbolo di un’intera giornata. Una giornata, appunto, di Ventiquattro ore. (Maria Letizia Paiato) GENNAIO/FEBBRAIO 2015 | 251 segno - 87
Mostra e convegno a RAM, Roma
Jan Fabre
Is the brain the most sexy part of the body?
P
Galleria Paola Verrengia, Salerno
Filippo Centenari Maria Elisabetta Novello
G
ià più volte in questi ultimi anni presente in mostre da Paola Verrengia, Filippo Centenari (Cremona, 1978) incontra Maria Elisabetta Novello (Vicenza, 1974) – alla sua prima apparizione, invece, nella galleria salernitana – per una doppia personale, Be lost in the ether, all’insegna della sintonia e del contrasto. Se infatti i due artisti paiono convergere sul piano dell’evocazione di nuovi rapporti ed equilibri plastico-percettivi – che vanno di pari passo con inattese risemantizzazioni - il vigore luministico dell’uno – dato dall’uso di neon, specchi, video o comunque da colori impregnati di luce come l’azzurro ed il bianco – ed il bruno più opaco – ma non troppo - dell’altra – dato dall’impiego della cenere, derivante dalla combustione del legno – dialogano dicotomicamente come il bagliore che squarcia le tenebre. Quella di Centenari è comunque una luce fredda, per non dire rasentante la dimensione del congelamento, di cui è emblematica la grande installazione Domande in sospeso, una rete da pesca per l’appunto sospesa dal soffitto sulla quale rimangono intrappolati non una moltitudine di pesci bensì un gruppetto di piccoli neon traccianti altrettanti punti interrogativi, sospesi sulla finta acqua di una videoproiezione a pavimento. La vita - lo si sa - è una continua accumulazione di quesiti senza risposta definitiva, che proviamo a risolvere, ma spesso e volentieri lasciamo cadere la risposta che abbiamo fornito – giacché nel giro dei 5 minuti successivi ci appare già inadeguata – e, prima o poi, stanchi, cediamo lasciando la domanda in sospeso. In questo caso però l’opera pare azionare anche una sorta di movimento tautologico, un ritornare a sé delle interrogazioni che si tramutano innanzi tutto in interrogazioni sull’oggetto – mancante – delle interrogazioni stesse e, per questa via, in interrogazioni sul senso dell’opera medesima e forse, per estensione, alludono al quid di enigmaticità che la proverbiale apertura dell’opera contemporanea solitamente implica. Lo scarto
concettuale che sta a monte del gesto di Centenari appare lampante se si pensa alla carica simbolica – si rammenti all’episodio evangelico in cui San Pietro viene invitato da Gesù a gettare di nuovo le reti ed effettivamente le ritirerà traboccanti di pesci – che una rete così penzolante può suggerire nell’ambito della nostra cultura: la fede, che l’epilogo di tale vicenda addita, appare infatti qui aggredita dal moltiplicarsi dei segni del dubbio per eccellenza. Se la materia costantemente adoperata dalla Novello è - come accenato – la cenere - elemento peraltro pure non certo alieno da implicazioni simboliche, e, più specificamente, ancora bibliche, giacché Dio crea Adamo dalle ceneri della Terra e tale ritornerà l’uomo dopo la morte ed ecco perché cospargere il capo di cenere, rito che non a caso si compie all’inizio della Quaresima, è segno di pentimento -, essa assume nelle sue mani molteplici conformazioni, in grado tanto di mettere a nudo la sua consistenza materica - come avviene nelle cinque teche contenenti quantitativi di cenere ogni volta differenti – quanto di celarla incredibilmente – come avviene nei quattro quadretti ove, trattata a mo’ di pittura, concorre a rappresentare qualcosa di simile a galassie o in quello simulante eleganti e leggeri ricami che tutto ci si aspetterebbe tranne che fossero fatti di cenere. A quello che è forse il simbolo più eloquente della caducità umana, della vanità di tutte le cose del mondo, che ben poco può essere volto a fini pratici, né si lascia particolarmente notare per la sua bellezza, la Noviello conferisce così – palese o meno che resti la sua essenza – un isperato interesse estetico e, in alcuni casi, anche un’associazione con immaginari di ben altro respiro e segno – l’immensità inattingibile dei macrocosmi galattici contro la finitudine del microcosmo umano – o con oggetti di ben altro appeal – la raffinatezza dei ricami su tessuto contro l’inerzia apparentemente insignificante dei residui da combustione. Stefano Taccone
Maria Elisabetta Novello, Paesaggi, 2011, cenere contenuta in teche di plexiglass e ferro, 30 cm x 30 cm (5 pezzi) In alto: Filippo Centenari, Perdersi, 2014, misure variabili, Neon, trasformatore, alluminio
88 - segno 251 | GENNAIO/FEBBRAIO 2015
ochi artisti sono presenti quanto Jan Fabre nello scenario italiano dell’arte contemporanea. A parte i motivi di ordine tecnico e materiale, legati alle scelte di galleristi e organizzatori, credo che il dialogo intellettuale fra Fabre e l’Italia sia di singolare spessore. Vedo Fabre come un grande pacificatore in tante questioni della ricerca culturale del nostro periodo, e in questa dimensione il dialogo con l’Italia, la cui cultura deve fare costantemente i conti con un passato straordinariamente importante e ingombrante, è fondamentale. Fin dagli inizi della sua ricerca Jan Fabre ha lavorato su concetti di ossessione e di intensificazione corporea dell’attività artistica singolarmente profondi. I tratti di penna ripetuti per giorni e giorni, il duello con la materia, l’approfondimento di qualsiasi elemento portato all’interno dell’opera, sono le caratteristiche di una ricerca che ha intrattenuto un dialogo continuo e profondo col corpo. In realtà l’espressione della nostra parte abissale, quella che non si rassegna al linguaggio, è cominciata già all’inizio del novecento. Autori come Man Ray, Artaud, Gide, Bousquet hanno disegnato delle mappe nella percezione del sé che saranno di riferimento per tutta la cultura successiva. La Body art, l’Azionismo viennese hanno ripreso un dialogo con la zona della ricerca culturale che si rivolge al corpo, rendendola imprescindibile nella cultura contemporanea. In questo scenario Jan Fabre entra con una chiarezza di idee impressionante: poiché nelle zone più profonde di questo rapporto non è pervenuto il linguaggio, occorre usare altri strumenti per rappresentarle. Di conseguenza la ripetizione, la intensificazione, la costituzione in simbolo di ogni elemento trovato, per esempio con l’uso degli insetti, sono strumenti privilegiati. Da qui scaturisce una dimensione simbolica, ieratica e monumentale che percepiamo chiaramente quando siamo in contatto con la sua opera. Da questa, però, non manca un riferimento continuo alla morte. Sebbene questo tema sia stato estremamente presente nella ricerca degli anni ’80 (Jean Baudrillard, la riscoperta di Georges Bataille e di Paul Celan, ecc.), riceve una attenzione particolare da Jan Fabre. Attraverso lo studio del simbolo e dell’araldica, nell’opera di questo artista percepiamo un richiamo a una compostezza, a un rigore nel rapporto con la morte, assente nella cultura europea dal medio evo. Jan Fabre vorrebbe che ci si presentasse al momento finale ricchi del sapere degli antichi cavalieri: una pratica quotidiana delle armi e dell’ascesi, un corpo a corpo continuo col sacrificio e col tentativo di superamento dei limiti legati alla nostra natura, umana e finita. Questo materiale viene affrontato con spirito estremamente critico: Jan Fabre sa perfettamente che questa tematica appartiene alla cultura antica, e forse questo spiega il suo interesse per l’Italia. Il nostro paese è forse il luogo più adatto per accogliere la sua riflessione sulla morte, che riecheggia le pagine di Elinant de Froidemont, dei trovieri, sposandole con la lucidità tipica della cultura fiamminga di Bosch e Bruegel, con un’ispirazione che proviene da Erasmo e da Huizinga. Tutta questa ricerca trova applicazione nella doppia mostra da RAM e al Ma-
documentazione BARI
Jan Fabre, Jan fabre e Jan Hoet dalla serie Is the Brain the most Sexy Part of the Body?, 2007, courtesy RAM, Roma
gazzino d›Arte Moderna, a Roma. Negli spazi di RAM è stata presentata una ricca documentazione sulle opere letterarie di Jan Fabre. Spezzoni di lavori teatrali, copie dei libri che raccolgono la ricerca in questo settore dell’artista, animano gli spazi della mostra dedicata a Jan Hoet, consentendo un approfondimento delle tematiche sopra esposte. L’installazione presentata, che ricorda l’ambiente di un laboratorio, si basa su grumi di corallo denominati Stein, Frankenstein, Wittgenstein, Einstein (dalla parola stein presente nel cognome di questi personaggi), e allude, credo, alla dimensione ibrida, tra il minerale e il biologico, di questo materiale. Le opere di Jan Fabre raccolgono in questo periodo un ulteriore step, che riguarda i rapporti tra mente e opera. I processi culturali sono generati all’interno di una dimensione erotica e neuronale che riguarda tutti i processi creativi, quindi nell’ultima ricerca dell’artista la creatività è studiata scientificamente anche mediante la biologia. Durante l’incontro svolto nella sede di RAM, Jan Fabre ha appunto affermato che l’opera d’arte è l’incontro tra processualità e biologia, e trova vera e propria sede nel cuore, nella mente e nel sesso dell’artista. Con la mediazione di Cecilia Casorati, Achille Bonito Oliva ha sostenuto che la dimensione erotica è da sempre connessa alla cultura mediterranea. Il professore Stefano Mancuso ha affermato che esiste una mente diffusa anche nei vegetali, e che questa è inscindibile dalla loro dimensione biologica e sessuale, mentre Maria Grazia Giannichedda ha sostenuto il valore fondamentale dell’interazione con l’ambiente, chiave per una corretta crescita emotiva e culturale. Paolo Aita Jan Fabre, Do we feel with our brain and think with our heart?, 2013, silicone, pittura, stoffa, capelli, polimeri, cm.34,5x29x24, © Angelos bvba, foto Lieven Herreman, courtesy Magazzino Arte Moderna, Roma
Galleria Blu Org La mostra Annizero, a cura di Marilena Di Tursi (col coordinamenteo di Giuseppe Bellini e Gaia Valentino) indica un decennio che ha segnato l’attività della galleria in uno straordinario nodo epocale con riferimento a 10 aree tematiche. Annizero porta il mondo in galleria e la galleria nel mondo attraverso la voce di 10 artisti: Giuseppe Abate, Nico Angiuli, Pamela Campagna, Marco Ceroni,Pamela Diamante, Irene Dionisio, Igor Imhoff, Fabio Santacroce, Stefano Serretta, Mauro Vitturini/VOID (9 coinvolti da BLUorG a vario titolo in questo arco temporale più una new entry inserita nella programmazione 2015) che interpretano, in eterogenei linguaggi, mediante strategie creative più o meno oblique o arbitrarie rispetto alla verità storica, la fatidica apertura del terzo millennio.
COSENZA
Museo dei Bretti e degli Enotri / Complesso S.Agostino Mito sepolto - Alarico e la leggenda dei due fiumi è il titolo di una rassegna, curata da Luigi Paolo Finizio, che si snoda attorno alla leggendaria figura del re visigoto Alarico. Gli artisti invitati: Caterina Arcuri, Renata Boero, Carmine Calvanese, Angelo Casciello, Pino Chimenti, Michele De Luca, Giulio De Mitri, Teo De Palma, Elena Diaco Mayer, Edith Urban, Martin Figura, Franco Flaccavento, Carlo Fusca, Orazio Garofalo, Sandra Heinz, Felice Levini, Nicola Liberatore, Albano Morandi, Gianfranco Notargiacomo, Maurizio Orrico, Salvatore Pepe, Tarcisio Pingitore, Antonio Puija Veneziano, Fiorella Rizzo, Alfredo Romano, Giuseppe Salvatori, Giulio Telarico, Vincenzo Trapasso. Catalogo edito da Rubbettino.
Marta Czok, Quick Art, 2014 courtesy Romberg, Latina
Elio Marchegiani, Grammatura di colore 1973 cm 45x45
Massimo Bartolini, Revolutionary monk, foto Alessandro Zambianchi
Paolo Scirpa, Espansione, Pozzo cm.50x50x50, courtesy FerrarinArte, Legnago
FIRENZE
eppur straordinariamente. A ribadire il legame tra realtà e sogno ci pensa l’installazione in cui due biciclette trasportano una serie di piccoli quadri. Non è casuale un veicolo che si potrebbe muovere nello spazio, come fosse il nostro pensiero che attraversa confini e stabilisce nuove relazioni, nuovi incontri, nuove dinamiche dello sguardo.”
Museo Marino Marini Personale di Massimo Bartolini, a cura di Alberto Salvadori. L’artista toscano ha elaborato un percorso di opere che trovano in Marino Marini e Leon Battista Alberti il loro punto di incontro e la loro sorgente di riflessione. La mostra, come afferma Bartolini stesso, è fatta in loro presenza, generando nuovi lavori e portando al museo testimonianze di un percorso e di una ricerca sulla scultura seguita nel tempo. Fino al 10 marzo.
LATINA
Roomberg Project Space di Romberg. Quick Art, progetto espositivo di Marta Czok, a cura di Italo Bergantini. Le opere di questa rassegna sono un tracciato pittorico che “attraversa l’epica del frammento onirico, come se ogni quadro fosse un osservatorio privilegiato su singole storie che accadono, normalmente
LEGNAGO
FerrarinArte Moderna Magna Graecia - Artisti siciliani contemporanei è una mostra, nata da un progetto critico, concepito da Giorgio Bonomi e Francesco Tedeschi, su sollecitazione di Giorgio Ferrarin è una riflessione sul doppio binario del processo “centrifugo” di una “diaspora” che porta gli artisti nati in una regione che si è trovata alla periferia degli sviluppi aggiornati dell’arte a uscire dalla propria terra, e di quello “centripeto”, che fa riemergere GENNAIO/FEBBRAIO 2015 | 251 segno - 89
una nuova dimensione del “Genius Loci”, in cui si riflette la continuità del confronto con le matrici culturali originarie alla luce degli sviluppi che da esse conducono a una reale apertura al mondo. I nove autori: Carla Accardi, Pietro Consagra, Emilio Isgrò, Elio Marchegiani, Ignazio Moncada, Pino Pinelli, Antonio Sanfilippo, Paolo Scirpa, Turi Simeti, sono tra i protagonisti di una storia originale, che, pur muovendosi all’interno di una apertura verso i linguaggi della contemporaneità, presenta singolari relazioni con la loro terra d’origine.
MILANO
Chiesa di Santa Maria Incoronata. Alito è il titolo dell’opera di Franco Marrocco esposta sull’altare principale, un lavoro col quale l’artista prosegue il ciclo dedicato alla “Regola Benedettina” in continuità con la sua ricerca pittorica sui temi della spiritualità. Si tratta di una rappresentazione legata ad una dimensione intima e spirituale, in cui il colore esprime tutte le sue potenzialità con un’energia che viene dal profondo e si scioglie in un “alito”, perchè l’intimo Giorgio Ciam, Gli uomini neri, 1970, fotografia b/n su tela emulsionata con intervento, cm.206,8x194, courtesy Collezione La Gaia
FRIEZE 2014: HIGHLIGHTS
ttobre è il mese caldo per il mondo dell’arte in Europa. Nello spazio di O due settimane si tengono Frieze a Londra
e Fiac a Parigi, le più importanti fiere di contemporaneo del continente dopo Basel, accompagnate da decine di altri eventi. A dare il via è la capitale britannica, che nella stessa settimana di Frieze ospita anche le vendite all’incanto di Post-war and Contemporary Art di tutte le principali case d’asta globali. Questa coincidenza di tempi fa si che sia possibile assistere, in pochi giorni, a decine di inaugurazioni di mostre, incontri, conferenze e feste. Nell’impossibilità di recensire nel dettaglio una tale babele visiva, si può tracciare però un profilo generale degli aspetti più interessanti di questi eventi, e segnalare alcune delle mostre di maggior rilievo. Arrivata alla 12esima edizione, Frieze si è concessa un necessario restyling per mano dei designer londinesi di Universal Design Studios, migliorando l’esperienza di visita e la qualità degli spazi. Una nuova planimetria ha permesso di accogliere meglio i visitatori, e soprattutto le installazioni performative della nuova sezione “Live!”, che insieme alla sezione “Focus” dedicata alle giovani gallerie, ha contribuito a rafforzare Frieze anche dal punto di vista dei contenuti, solitamente meno stimolanti rispetto a quelli della più blasonata fiera parigina. Tra i giovani spiccava la galleria italiana Fluxia (Milano), con uno stand monografico di Olivia Erlanger, newyorkese di 24 anni 90 - segno 251 | GENNAIO/FEBBRAIO 2015
Franco Marrocco, Alito. Chiesa di Santa Maria Incoronata, Milano
è qualcosa a cui non si accede mai fino in fondo anche quando appartiene a noi stessi o si qualifica come solipsistica autoriflessività. Archivio Giorgio Ciam / Sotheby’s Giorgio Ciam - 48 opere dal 1969 al 1996, a cura di Elena Re. Si tratta di un’occasione del tutto speciale, su cui Sotheby’s invita a focalizzare l’attenzione. Perché questa mostra nella sede di Palazzo Broggi è di fatto un progetto culturale mirato a presentare l’opera di Ciam, mettendo in luce gli aspetti essenziali di una ricerca affascinante, condotta attraverso la fotografia dal 1969 al 1996. Ma il focus dedicato a questo importante autore vuole anche essere un momento di dialogo sull’arte italiana, sulla sua qualità e sulla sua bellezza. È quindi significativo che le 48 opere esposte provengano da numerose collezioni private oltre che dall’Archivio dell’artista, creando una visione corale e offrendo anche lo spunto per un approfondimento che parte dalla poetica di Giorgio Ciam. Attraverso un’ampia selezione di lavori chiamati all’appello per questa presentazione, l’idea curatoriale della mostra è appunto quella di “entrare” nell’opera di Ciam e di percorrerla nelle sue molteplici sfaccettature. Mediante
la fotografia Giorgio Ciam (1941-1996) ha analizzato nel profondo la propria dimensione esistenziale. E così, la mostra intende raccontare l’iter di un autore che negli anni ’70 ha fatto parte della Body Adelita Husni-Bey, Politici (Politicians), da Agency – giochi di potere, 2014–2015, C-print, cm.110x146, courtesy l’artista e Laveronica arte contemporanea, Modica
che sembra aver già trovato una cifra stilistica ben definita, creando ambienti visivi freddi attraverso l’interazione delle opere a parete argentate o in grafite e sculture caratterizzate da un dinamismo asettico e calcolato. Tra le gallerie storiche brilla Chantal Crousel (Parigi), con un importante lavoro fotografico su tela di Allora & Calzadilla, e dando particolare rilievo a sculture e opere che invadono lo spazio, contravvenendo alle recenti tendenze che vogliono solo pitture astratte e sculture-oggetto. A pochi passi di distanza, Frieze Masters si è confermata anche quest’anno una sorta di anticipazione di TEFAF di Maastricht, portando a Londra il meglio dell’antico, del moderno e del contemporaneo “storicizzato” (fino al 2000). La straordinaria ricostruzione di un ipotetico appartamento di collezionista a Parigi negli anni ’60, pre-
sentata da Helly Nahmad, permetteva di immergersi nel clima artistico e culturale di quegli anni, e di godere di alcune opere straordinarie tra cui un Concetto Spaziale di Lucio Fontana da ben dieci tagli, e una monumentale Combustione di Alberto Burri. Le istituzioni non sono state da meno, con mostre di grande spicco, tra cui l’importante retrospettiva di Anselm Kiefer alla Royal Accademy, che ben articola l’intero percorso del maestro tedesco, celebrandone il peso storico e culturale, Late Turner alla Tate Britain, John Constable al Victoria & Albert, e uno straordinario e drammatico viaggio nelle ultime opere di Rembrandt alla National Gallery. Infine, da segnalare l’apertura della base londinese di due importanti gallerie newyorkesi: Marian Goodman e Dominique Lévy. La prima aggiunge alle sue gallerie di New
Anselm Kiefer, The Language of the Birds, 2013 courtesy Royal Academy of Arts, Londra
Alberto Burri, particolare dell’allestimento di Robin Brown, courtesy Helly Nahmad Gallery, New York
documentazione Art internazionale e che negli anni ’80 e ’90 non ha smesso di utilizzare il mezzo fotografico, perseguendo la ricerca della propria identità con esiti sempre nuovi e di grande anticipazione. Il percorso espositivo presenta lavori fotografici che sono “icone” dell’opera di Ciam, e inoltre propone importanti lavori – talvolta inediti – dove la fotografia lascia spazio al disegno, al collage, alla scultura.
MODICA
Laveronica arte contemporanea Seconda personale di Adelita Husni-Bey in galleria. La mostra Il Principe, la Classe e lo Stato si compone di una serie fotografica, un film e alcuni lavori su carta, prendendo spunto da una riflessione sui rapporti di dominanza / sudditanza nell’Italia contemporanea. Sono parte del progetto, una serie di incontri e laboratori che hanno coinvolto studenti, giornalisti, economisti, sindacalisti ed editori.
PERUGIA
Palazzo della Penna. Posizioni attuali dell’arte italiana, mostra per il VI Premio Fondazione VAF con i lavori più recenti della vincitrice Maria Elisabetta Novello, degli artisti insigniti di menzioni speciali Rä Di Martino e Gianluca Vassallo e degli altri partecipanti Guglielmo Castelli, Flavio De Marco, Marco Di Giovanni, Zoè Gruni, Jacopo Mazzonelli, Margherita Moscardini, Caterina Nelli, Giovanni Ozzola, Laurina Paperina, Nicola Samorì, Marco Maria Giuseppe Scifo, Nicola Toffolini.
TORINO
Galleria Giorgio Persano. From Mirfaq to Vega, prima personale italiana della giovane libanese Zena el Khalil. Attraverso installazioni, video e grandi tele, l’artista ripercorre la propria storia familiare, per testimoniare le tragiche
vicende di uno dei luoghi più complessi e violenti al mondo, il Medio Oriente. “Il mio lavoro è sulla casa. Sulle case che abbiamo avuto, su quelle che abbiamo perso, su chi ce le ha distrutte. Ma, infine, il mio lavoro è sul perdono, l’amore e la compassione.”. Galleria In Arco. Il Kabuki dei tre Samurai: Araki, Morimura, Sugimoto, mostra a cura di Graziano Melolascina. I tre fotografi nipponici Nobuyoshi Araki, Yasumasa Morimura e Hiroshi Sugimoto, provocatori, pornografici, choccanti raccontano la donna, l’eros e il Giappone.
Zena el Khalil, Cosmic Collisions, 2014 courtesy Galleria Giorgio Persano, Torino
Maria Elisabetta Novello, Ricamo, 2013 cenere, installazione su pavimento, dimensioni variabili, courtesy l’artista
ARTISSIMA 2014
punti fondamentali che fanno di Artissima una seria istituzione sono: il rigore Igenerazioni. delle scelte per una visione di livello internazionale, l’attenzione alle giovani Le 195 gallerie presenti quest’anno, tutte con un alto profilo quali-
Olivia Erlanger, veduta dell’allestimento courtesy Fluxia, Milano
York e Parigi un colossale spazio in Golden Square (Piccadilly), inaugurandolo con una mostra di Gehrard Richter, che a 82 anni continua a produrre nuovi capolavori che inducono lo spettatore in una sorta di allucinazione, alterando la percezione dello spazio e dell’opera stessa attraverso il colore e le linee rigorose generate con tecniche digitali sofisticate. La seconda, ha inaugurato con un omaggio a Donald Judd, Frank Stella ed Enrico Castellani un prestigioso primo piano in Old Bond Street, raggiungendo così nel cuore di Mayfair le dirette concorrenti Luxembourg & Dayan, che nello stesso giorno inauguravano una sorprendente mostra dei Colori di Alighiero Boetti, sofisticata e rigorosa come tutte le mostre ospitate finora nell’elegante spazio di Savile Row. Piero Tomassoni
tativo, erano dislocate nelle consuete sezioni Main Section, New Entries, Back To the Future, Art Editions, cui si sono aggiunti due nuovi progetti: uno all’interno della fiera e uno all’esterno. Il primo, Per4M, dedicato alla performance, l’altro è il progetto collaterale, OneTorino, intitolato Shit and Die e curato da Maurizio Cattelan. In una intervista (a cura di Elena Del Drago) pubblicata su “La Stampa”, alla domanda: Performance: come mai avete scelto questo linguaggio? La direttrice di Artissima Sarah Cosulich Canarutto ha risposto: «Perché siamo convinti che nell’ultimo decennio la performance abbia avuto una rinnovata popolarità a livello internazionale e sia entrata a tutti gli effetti nelle collezioni pubbliche e private. È un’arte sempre più apprezzata dal mercato: forse il caso più pubblicizzato è quello di Roman Ondak nel 2005, Good Feeling in Good Time, ma poi sono seguite molte acquisizioni, anche da parte di italiani, di opere, per esempio, di Tino Sehgal. È interessante entrare nelle dinamiche dell’espressione commerciale della performance e per la prima volta la presentiamo come sezione apposita, mentre prima era avvenuto ma solo come effetto collaterale. La performance infatti è stata utilizzata altrove per ravvivare la staticità della fiera, nel nostro caso invece abbiamo lavorato direttamente alla produzione del programma». Come ogni anno Artissima ha fatto importanti e significative acquisizioni e conferito Premi che incoraggiano il mondo dell’arte contemporanea: il Premio Guido Carbone, dedicato alle gallerie New Entries, è stato vinto dalla Galleria :Baril, ClujNapoca (Romania). Il premio Illy Present Future è stato assegnato, ex aequo, a Caroline Achaintre, rappresentata dalla Galleria Arcade di Londra e a Fatma Bucak della Galleria Alberto Peola di Torino. Petrit Halilaj è stato invece il vincitore del Premio Fondazione Ettore Fico. Infine, acquisite in fiera dalla Fondazione per l’arte Moderna e Contemporanea CRT 11 opere per un valore complessivo di circa 600.000, mentre la GAM ha acquisito le opere di Wolfgang Laib (Galleria Alfonso Artiaco, Napoli), di Francesco Gennari (Galleria Tucci Russo, Torre Pellice) e per la videoteca quella di Valie Export (Galleria Zac|Branicka, Berlino). Infine il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea ha acquistato il lavoro realizzato da Ulay rappresentato dalla Galleria Mot International (Londra) e alcuni di Daido Moriyama della Galleria Daniels Reflex (Amsterdam). GENNAIO/FEBBRAIO 2015 | 251 segno - 91
Intervista ad
Arturo Schwarz a cura di Simona Olivieri
L’
appuntamento con Arturo Schwarz è alle 17,00 nella sua casa a Milano. Parleremo del suo nuovo libro “Il surrealismo. Ieri e oggi. Storia, filosofia, politica” edito da Skira (2014), frutto degli ultimi 10 anni di lavoro. Novant’anni portati bene, la parlata veloce di chi è abituato a raccontare, cordiale e gentile. Nato ad Alessandria d’Egitto nel 1924, Arturo Schwarz è poeta, saggista, storico dell’arte e collezionista di fama internazionale, è stato amico di Duchamp e Breton e di molti altri artisti. Mi apre la porta la moglie, Linda, lui si affaccia dal corridoio salutandomi ma sta finendo di spedire un fax quindi si allontana. Ci accomodiamo in soggiorno e bevendo un tè parliamo di Milano. La stanza è piena di quadri, sculture, maschere africane,... stratificazioni del tempo. Accostamenti inusuali e eterogenei che ricoprono la lunga parete della stanza. Schwarz arriva e si accomoda al tavolo di fronte a me, cominciamo l’intervista. - Vorrei partire dalla copertina del suo libro. È una sua fotografia scattata a Breton nello studio a Parigi, nel 1961. Lei lo ha conosciuto. In quale occasione? - L’ho conosciuto quando lui era ancora a New York, in un primo tempo solo per lettera. Gli avevo scritto perché condividevo gli ideali del surrealismo, allora avevo solo vent’anni, era il ‘44. Le lettere ci mettevano 2-3 mesi ad arrivare, andavano via mare e in quel periodo di guerra molte navi venivano affondate dai sottomarini tedeschi. La mia invece è arrivata e anche la risposta di Breton, ci hanno impiegato, in totale, quasi cinque mesi. Mi dava il benvenuto nel movimento e mi esortava a continuare a scrivere. È cominciato così. Poi, dopo molti anni, l’ho conosciuto di persona. Io vivevo in Egitto, ero stato imprigionato per la mia attività politica. In corso c’era la guerra arabo-israeliana. Quando nel febbraio del ’49, viene firmato l’armistizio con Israele, tutti i prigionieri ebrei vennero rimandati nel loro paese d’origine. Io fui espulso e mandato in Italia, mia madre era italiana. Quando sono arrivato a Milano, per un paio di anni non ho potuto viaggiare perché sul mio passaporto c’era scritto che ero un soggetto pericoloso, sovversivo, espulso per ragioni politiche. Poi, la mia prima moglie, è riuscita a farmi avere un nuovo passaporto e ho potuto cominciare a viaggiare. Breton l’ho incontrato a Parigi.
- Nelle prime righe del libro dice che il surrealismo è uno stato d’animo. Cosa intende? - A differenza degli altri movimenti, esauritisi in pochi anni, il surrealismo continua a essere vitale e attuale, ci sono gruppi surrealisti in tutto il mondo, in America latina, in Canada, in Europa, negli Stati Uniti. Sono ancora in contatto con molti di loro, con gli eredi di Breton. Il surrealismo non è una scuola di scrittura o d’arte ma una vera e propria filosofia di vita. I punti cardine sono, innanzitutto, l’esaltazione del femminile, come donna e come artista, l’amore e la lotta per un mondo migliore.
- Questo libro è un racconto da testimone diretto. Leggendolo l’impressione è proprio quella di un racconto di vita, di incontri, conoscenze e amicizie. E non una ricerca da storico del movimento. - Non sono uno storico, ho fatto parte del gruppo dal ’44, come poeta. Il libro è quasi biografico, li ho vissuti quei periodi, ho vissuto il movimento. Ho fatto questo libro perché il surrealismo ha fatto parte della mia vita e ne è parte tuttora. Io sono ancora un surrealista.
- Me lo può spiegare. - Una filosofia, un modo di pensare, di agire e di riflettere, “conosci te stesso” (parole incise nel corridoio del tempio di Apollo a Delfi). Vuol dire conoscere se stessi per trasformarsi. Per poter poi trasformare e cambiare la società. Il surrealista è uno che lotta per migliorare le sorti dell’umanità, è uno impegnato, è uno che non si distacca dalla realtà. Essere surrealisti, oggi, vuol dire lottare per un mondo migliore e rispettare le minoranze. Il surrealismo è movimento politico e sociale.
92 - segno 251 | GENNAIO/FEBBRAIO 2015
osservatorio critico Interviste
Nelle immagini del servizio Arturo Schwarz nella sua casa/studio fotografato da Cecilia Paradiso. Nella pagina a fianco la copertina del volume edito da Skira
- Il sogno, l’immaginario, l’inconscio e l’amore erano i capisaldi del surrealismo. - Conoscere se stessi è una delle premesse del surrealismo, esplorare il proprio inconscio. Si spiega così l’importanza data al sogno, agli stati psicopatologici, alla scrittura e pittura automatica (cioè eseguite senza alcun controllo o censura di carattere etico ed estetico). I surrealisti erano molto interessati a Freud e Jung. La gente tende a dimenticarselo, pensa soltanto a Freud, Jung invece ha portato un contributo importante, ha lavorato sull’inconscio collettivo e questo è stato molto importante per il movimento. L’amore invece è il motore della vita, la sua ragione d’essere. - Difficile non farsi distrarre da tutto quello che si trova in questa stanza, da questa collezione di oggetti, quadri, sculture,… - La mia collezione di quadri e libri dada e surrealisti l’ho donata all’Italia e a Israele. Le pratiche burocratiche sono state lunghissime. Ma è il solo modo per far conoscere l’arte. Questi che vede, alla parete, sono arrivati dopo. Sono artisti israeliani, surrealisti. È inevitabile che amando l’arte si accumulino opere
e oggetti che piacciono. Quelli, per esempio, me li ha mandati la figlia di Breton, Aube, (indicandomi quattro raffinati collage su sfondo nero) vede? (ci alziamo e ci avviciniamo) questo per esempio è composto da tre cartoline di Milano, con dietro la sua dedica. Le cose si sono accumulate nel corso della vita seguendo il cuore. - Un’ultima domanda. Com’è stata la sua esperienza all’interno del gruppo? - È stata un’esperienza molto feconda, molto bella. Mi ha arricchito. Tutti i miei amici dell’epoca erano surrealisti, non ne avevo altri. Come le dicevo, il surrealismo, è una filosofia di vita. Il Surrealismo, è amore, poesia, rivoluzione. Essere surrealisti significa, in primo luogo, essere anarchici, rifiutare ogni principio di autorità, ogni gerarchia, ogni violenza. E io, oggi, sono più surrealista che mai. Abbiamo finito. Lo ringrazio per il tempo che mi ha dedicato e per tutto ciò che mi ha raccontato. Mi accompagna alla porta passando per un corridoio invaso da librerie piene di libri e volumi. Ci salutiamo. n
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A.A.M. Architettura Arte Moderna / Contaminazioni Attività editoriali tra Arti visive e musica
Punto, linea, pentagramma. Segni, parole e disegni per Paola Turci di Ester Bonsante
P
er una questione di sguardi incrociati A.A.M. Architettura Arte Moderna e la Fondazione Gianfranco Dioguardi presentano il recente volume curato da Francesco Maggiore, edizione fuori commercio, stampato in trecento copie numerate a mano, che raccoglie cinquanta testi oltre a disegni, poesie, fotografie e canzoni dedicate a Paola Turci in occasione del suo cinquantesimo compleanno. Un libro d’affezione, il cui enigmatico bel titolo “A tua insaputa” è già dedica ricca di significato: la sorpresa che si cela dietro un dono e il voler onorare un traguardo, ripercorrendo i luoghi della vita, i capisaldi di un percorso, con occhio esterno, a sua insaputa. Ma più in generale è un pretesto per realizzare un’opera aperta pur partendo da una occasione privatissima, quasi intima quale è l’anniversario, momento ideale per stabilire una riflessione. Sguardi incrociati, come nella tradizionale vocazione di A.A.M Architettura Arte Moderna e di Francesco Moschini, coordinatore scientifico e culturale dell’iniziativa, da sempre impegnato e pronto a scommettere sulla fertilità dell’incontro ibrido e sfaccettato tra arti, culture, discipline e ambiti differenti. Arte, cultura e musica in questo caso, dal cui innesto nasce questa gemma editoriale. Il libro, nella raffinata veste grafica curata da Giuseppe Romagno, è un felice contrappunto di testi e illustrazioni, una per anno, realizzate da Vincenzo D’Alba. Il mezzo del cammin dei primi cinquant’anni, così ripercorsi nel volume, è un intervallo che raccoglie disegni, lettere, fotografie e ritratti effettuati con diverse tecniche, omaggio all’artista da parte di alcuni amici e colleghi, tra cui Eleonora Albanese e Jacopo Fo, Malika Ayane, Elisa, Stefano Giovannoni, Dario Fo, L’Aura, Franco Purini, Marina Rei, Syria, Francesco De Gregori, il cui “stolen frame” compone anche la risguardia del volume. I disegni raccolti in questa sezione proseguono la tendenza di alcuni celebri esponenti della cultura musicale a cimentarsi con il disegno e la pittura. Tra questi val la pena menzionare Leonard Cohen, Frank Zappa, Miles Davis, solo per fare alcuni nomi. Una conferma
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ulteriore dell’anelito trasversale che attraversa l’arte nelle sue molte forme d’espressione, oggetto di indagine della A.A.M. e di questo lavoro. Forma e contenuto del libro sono una l’immagine dell’altro, si assomigliano nel modo in cui sono composte: un insieme di puntuali tracce e appunti che, come pezzi di un puzzle, vanno a ricomporre un profilo, ma che come per una sineddoche, anche singolarmente presi raccontano del tutto. L’illustrazione in copertina, opera di Vincenzo D’Alba, è un rarefatto ritratto di Paola Turci in cui pochi segni delineano, in modo essenziale e significativo, il volto della cantante: la linea dell’occhio socchiuso, i due punti del naso, la macchia rossa delle labbra leggermente schiuse prima del canto, e le cinque righe del pentagramma ripetute a segnare la ciocca di capelli sul volto. Così come la forma, anche il contenuto del libro si compone di una serie di cammei che formano un caleidoscopio di indizi rivelanti in filigrana un ritratto, ideale e intimistico al tempo stesso, della cantante italiana. Il mondo interno dall’esterno e dall’interno: A tua insaputa è sotto questo aspetto, il reciproco complemento del recente libro scritto dalla stessa Paola Turci “Mi amerò lo stesso”, edito da Mondadori e curato da Enrico Rotelli: “è così che (la vita) mi si rivela” sono le parole con cui la cantante chiude quel testo, scritto in soggettiva; “è così che mi rivelo” potrebbe essere il finale -a sua insaputa- di questa opera, un libro di somiglianze e rimandi. Persino la dedica immaginifica ed evocativa scritta da Francesco Maggiore, in esergo al libro, assomiglia a quello di cui dice: “All’attimo in cui il tuo respiro / precede le parole che canti”, è essa stessa il respiro che precede il turbinio di parole, opere e illustrazioni che si rincorrono nel libro. Quasi come in un canone musicale, si succedono progressivamente nelle parole di ciascun autore –attraverso brevi testimonianze, ricordi, aneddoti e anche solo auguri- le conferme di una melodia dominante, l’idea della persona e dell’artista sempre più nitida, fascinosa, intrigante e familiare al tempo stesso. Nella diversità della provenienza e nella specificità dei singoli
Voice, Disegno di Vincenzo D’Alba. China su carta, 2014 Courtesy A.A.M. Architettura Arte Moderna Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva In alto, sopra il titolo, la copertina del libro A tua insaputa a cura di Francesco Maggiore Courtesy A.A.M. Architettura Arte Moderna Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva Hard music, Disegno di Vincenzo D’Alba. China su carta, 2014 Courtesy A.A.M. Architettura Arte Moderna Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva
documentazione
Composed Disegno di Vincenzo Dâ&#x20AC;&#x2122;Alba China su carta, 2014 Courtesy A.A.M. Architettura Arte Moderna Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva In basso, da sinistra: Correspandances P. Operetta Disegni di Vincenzo Dâ&#x20AC;&#x2122;Alba China su carta, 2014 Courtesy A.A.M. Architettura Arte Moderna Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva
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contributi si compie l’alchemico incrocio degli sguardi. Dalle parole di stima e riconoscimento, omaggio di chi alla stessa categoria dell’artista appartiene, si passa a quelle preziose di testimonianza, amicizia, consuetudine e condivisione di parenti e amici attraverso le quali, una tessera per volta, si disegna il mosaico di una immagine autentica e priva di filtri della cantante. Anche la forma stilistica dei testi è variegata e svincolata da ogni pretesa uniformità: si passa dal racconto, al dialogo, dalla lettera alla poesia. Tra gli autori dei contributi: Claudio Baglioni, Luca Barbarossa, Luca Carboni, Carmen Consoli, Serena Dandini, Paolo Fresu, Dori Ghezzi, Giorgia, J-AX, Fiorella Mannoia, Emma Marrone, Laura Pausini, Cecilia Strada, e Renato Zero. Tra le lettere quella di Gianfranco Dioguardi è una vera e propria recensione, attenta e affettuosa al tempo stesso, del già citato libro autobiografico della cantante, caratterizzato nelle parole di Dioguardi come difficile eppure esaltante “mestiere di vivere”. Dalle lettere alle poesie inedite, si arriva fino a forme quasi saggistiche e a contributi imprevisti, come quello di Dario Fo che riporta il racconto della visione di un concerto dal vivo di Paola Turci a una esperienza di teatro, del suo stesso teatro, rilevando analogie inedite tra il modo di essere dell’attore con lo spettatore a teatro e quello della cantante con il suo pubblico. Le storie degli altri ci insegnano la nostra canta la Turci. Il contributo di Francesco Moschini, qui in una inusuale veste di critico musicale, riporta magistralmente a servizio della canzone le categorie di lettura proprie dell’opera d’arte: “è sorprendente, infatti, come il rapporto nelle sue canzoni sia sempre duale e oppositivo tra il pieno e il vuoto, tra il sogno e la vita vera, tra la distanza e la reciprocità, tra luce e l’assenza della stessa”. Una dualità ritrovata e tratteggiata anche dalla china di Franco Purini che aggiunge alle colorate forme musicali disegnate per l’occasione, fra le altre, le seguenti parole: “Altezza, profondità/ Oscurità, chiarore/Linee rette e curve/Caso e necessità/Arresti e riprese/Dolore e felicità/Pieni e vuoti/finitezza, infinità./ Tra questi estremi la voce si insegue fino a trovarsi. È allora che, con magia matematica, essa coincide con ciò che vuole essere. Come un filo d’Arianna disteso con sapienti volute su futuri possibili e presenti inavvertiti la Voce ricongiunge l’attesa al suo compiersi, la vita al suo doppio, l’amore alla sua ombra”. Moschini introduce il suo saggio con un riferimento alla numerologia, anch’essa riaffiorante nella forma e nella sostanza del libro, il cinque e lo zero che ritornano nello Zero dell’ultimo omaggio e nelle cinque righe del pentagramma, leit motiv dell’intero volume.
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Figura Disegno di Vincenzo D’Alba China su carta, 2014 Courtesy A.A.M. Architettura Arte Moderna Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva In basso, da sinistra: Rock star Ars antiqua Disegni di Vincenzo D’Alba China su carta, 2014 Courtesy A.A.M. Architettura Arte Moderna Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva
documentazione Le cinquanta illustrazioni di D’Alba sono, infatti, un’imprevedibile declinazione del pentagramma che come in una imbastitura tessile legano ed esaltano il multiforme susseguirsi dei singoli brani che compongono il libro. D’Alba, come un Marinetti dello spartito, piega, muove, limita, stende, ordina, strumentalizza, evolve il pentagramma facendolo ironicamente divenire ciocca di capelli, mare, tenda, sky line, paesaggio, colonna, ombra, terra arata, pioggia, in un climax che si compie con la bellissima Figura di spalle, che rielabora una volta di più la già rielaborata manrayana Le violon d’Ingres. Una variazione su tema, il tema del pentagramma che diventa icona e segno. Da oggi sembra non essere più lo stesso: impregnato della sua, ancora inesplorata, ambiguità il pentagramma arricchisce il suo significato di quella visionaria, eppure essenziale, classica “inutilità”. Dal pentagramma si scatenano, in questa maniera, una moltitudine di pensieri o, ancor più di dubbi, a dimostrazione del potere dell’immaginazione o, per meglio dire, dell’“immaginazione al potere”. Da questo auspicabile orizzonte immaginifico sorge questo libro, melodia di bellezza: della bellezza dell’esperienza, dell’arte, della musica e della musa ispiratrice cui è dedicato. Una melodia cui faranno seguito altre melodie: a partire da questo primo volume, infatti, A.A.M. Architettura Arte Moderna avvierà una collana editoriale dedicata al mondo della musica: per nuove armonie e inediti accordi tra note, parole e segni. n
Dominant, Disegno di Vincenzo D’Alba. China su carta, 2014 Courtesy A.A.M. Architettura Arte Moderna Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva
La voce, disegno e testo di Franco Prurini. Pennarello su carta, 2014 Courtesy A.A.M. Architettura Arte Moderna Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva A stolen frame “Paola, a day in her life”, disegno di Francesco De Gregori Tecnica mista su carta. Courtesy A.A.M. Architettura Arte Moderna Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva
Chitarra, disegno di Stefano Giovannoni. Pennarello su carta A Paola Turci con ammirazione, disegno di Dario Fo. China su carta, 2014
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Antonio Marchetti
“Disegno dal vero” undici dicembre è stato presentato, L’ nella Sala Muratori della Biblioteca Classense di Ravenna il libro Disegno dal
vero di Antonio Marchetti, edito dalla casa editrice Pendragon di Bologna (su progetto grafico di Leonardo Sonnoli) nella collana Studi e ricerche. Si tratta di una testimonianza postuma, di un artista, tra i pochi nello scenario italiano, che abbia vissuto fino in fondo il mestiere dell’arte con autenticità e onestà intellettuale. Il
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volume è, in realtà, una raccolta di articoli, saggi brevi scritti dal 2007 al 2013, anno della sua drammatica scomparsa, scelti e assemblati con quella cura e quel puntiglio di chi vuole testimoniare per l’ultima volta il proprio pensiero, il proprio sguardo sul mondo. La scrittura è elegante, modella e disegna con nitidezza figure della contemporaneità e affronta temi di urgente attualità sull’arte, la cultura, la società italiana. Molto forte è l’intenzionalità di aderire alla storia del proprio tempo, cercare di penetrarvi gli aspetti di fondo. Questo artista-scrittore, padroneggiando una vastissima cultura affonda il suo stilo con competenza e ironia sull’ambiente dell’arte che viene abilmente smascherato, oggi, nella banalità feroce dei suoi meccanismi. Mentre grande è il piacere di ritrovare nella fucina degli anni settanta e ottanta e nel novero dei propri personali ricordi, i profili, le forti personalità di Fabro, Merz, Tadini, Boetti, Mauri. La biografia immaginaria di Franco Angeli che conclude il volume, del resto, svela chiaramente gli interessi dell’autore, sia in merito alle esperienze artistiche che alla tonalità del vivere. E poi nel testo si rincorrono i ritratti di alcuni maestri a lui cari del novecento, Alberto Savinio, Ennio Flaiano; emerge la passione per la grande letteratura, il cinema. Nella varietà di temi affrontati propri della tradizione del journal, del diario di viaggio, Antonio Marchetti con mordace ironia e disincanto, in un costante esercizio del guardare e dell’arte del descrivere, analizza i comportamenti, le mentalità, i grandi ritardi dell’italietta attuale. E poi i luoghi, i tanti luoghi incantati del nostro vivere e del bel paese con la sensibilità e il tocco di chi ama ciò che è desueto e che cattura il cuore. Virginia Cardi
Je suis Charlie a Rivista Segno, a nome del suo direttore editoriale Umberto Sala, si L associa al dolore internazionale per la
cruenta perdita dei giornalisti e degli artisti della rivista Charlie Hebdo, Charb, Cabu, Wolinski, Tignous, irriverenti e libertari interpreti della contemporaneità nella loro eccellente espressività grafica. L’efferato crimine perpetrato contro una storica voce di libertà di espressione, non può che rafforzare la convinzione di un perpetuo e netto rifiuto alle proibizioni di opinioni per le varie intolleranze politiche, sociali e religiose, specialmente quando la grande bellezza della satira e dell’humour intelligente, viene umiliata in nome di fanatismi religiosi, che non trovano nessuna coerente giustificazione.
ACCADEMIA NAZIONALE DI SAN LUCA
Giuseppe Panza e l’opera di Joseph Kosuth The Tenth Investigation. Proposition 4, 1974 Fotocredit Alessandro Zambianchi - Simply.it, Milano
O maggiO a g iuseppe p anza di B iumO
La passione della collezione mostra a cura di
Nicoletta Cardano e Francesco Moschini in collaborazione con
M. Giuseppina Caccia Dominioni Panza in esposizione opere di
Franz Kline, Richard Nonas, Joseph Kosuth, Lawrence Carroll, Lies Kraal, Stuart Arends provenienti dalla Panza Collection, Lugano
apertura fino al 31 gennaio 2015 dal lunedì al sabato, dalle ore 10 alle 19 accademia naziOnale di san luca Roma, piazza dell’Accademia di San Luca 77 06.6798850 | www.accademiasanluca.eu