ROCKERILLA n.476 APRILE 2020 Music Magazine

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n.476 | APRILE 2020 | Free

SUFJAN STEVENS OTHER LIVES MATT ELLIOTT

THE STROKES

GREY DAZE | THE WHITE BUFFALO | MONOPHONICS NADIA REID | BERNARD FORT


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Rockerilla di Aprile è gratuito e in formato digitale: una scelta di responsabilità.

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gni giorno compiamo un’infinità di scelte, alcune delle quali in modo talmente naturale da risultare quasi automatico, come respirare. Mandare in stampa il numero 476 di un mensile che, dal 1978, non ha mai subito interruzioni, sarebbe stata una di queste se non ci trovassimo nel bel mezzo di una pandemia. Mentre coi nostri collaboratori chiudevamo il numero di aprile, il mondo cambiava. Siamo testimoni di una serie di eventi che mai avremmo pensato possibili nel nostro tempo storico e nel nostro spazio geografico. Tutto ci chiedeva di fermarci, mentre una nuova, annichilente, quotidianità si faceva strada nelle nostre vite. C’è sempre un prima e un dopo. E poi c’è un tempo sospeso, che è quello che stiamo vivendo. È stata decretata la chiusura di tutti i locali pubblici e dei luoghi di aggregazione, dei negozi di dischi e delle librerie, sono stati annullati concerti e festival internazionali e posticipate molte uscite discografiche. Va chiarito che, allo stato attuale, è consentito alle edicole di rimanere aperte. Eppure, molte hanno deciso di chiudere. Condividiamo questa pur sofferta posizione: non possiamo invitare la gente ad uscire di casa e recarsi a comprare la nostra rivista, mentre ascoltiamo ogni giorno bollettini inquietanti, assistiamo a un incomprensibile rifiuto della realtà da parte di tutti coloro che ancora credono di poter vivere nel mondo - e nel modo - di prima, come se niente fosse. È stata una decisione lungamente meditata e nient’affatto facile, ma alla fine ci è sembrata quella più adeguata alla presente contingenza. Così abbiamo deciso di mettere a disposizione gratuitamente il numero di aprile della rivista, ovvero di renderla liberamente consultabile e scaricabile sulla piattaforma di condivisione Issuu.com. All’interno ci troverete, come di consueto, tanti approfondimenti tra i quali una corposa intervista agli Other Lives di Jesse Tabish, una lunga conversazione con Matt Elliott e con Jake Smith (The White Buffalo) e un focus su Sufjan Stevens. Oltre a centinaia di recensioni discografiche confermate fino al momento della chiusura del numero ma che potrebbero essere posticipate. La cover story è riservata a The Strokes, con diversi contenuti legati al presente, al futuro e al passato della band che ha reinventato il rock’n roll nei primi anni 2000. La sezione, a noi tanto cara, #planetrockerilla, è più copiosa del solito, con tanti contributi in cui si racconta l’altra faccia di quest’emergenza: gli evoluzionisti sostengono che ci sia una correlazione diretta tra la distruzione degli equilibri degli ecosistemi da parte dell’uomo e la pandemia. Tra quelle pagine, proviamo come nostro solito a farci qualche domanda in più. Per gli abbonati, che stampando difficilmente avremmo potuto raggiungere a causa delle crescenti problematiche di smistamento postale e delle località non più raggiungibili con le consegne, abbiamo creato un plus: avrete accesso ad una nuova sezione del sito inaugurata appositamente, che ospiterà contenuti esclusivi. Riceverete la conferma per l’accesso via e-mail dopo esservi registrati su rockerilla.com/magazine La musica non si fermerà, e nemmeno le nostre parole, così come la connessione che esiste tra noi e i nostri lettori. Non sappiamo come sarà domani; sappiamo che oggi siamo qui e continuiamo a farvi sentire la nostra voce. Rockerilla c’è. Buona lettura!


OTHER LIVES

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n°476 Aprile 2020

GREY DAZE

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MATT ELLIOTT

22 THE STROKES

Direttore: Isabella Rivera

isabella.rivera@rockerilla.com

Hanno collaborato a questo numero:

Francesco Amoroso, Simone Bardazzi, Giancarlo Bolther, Alessandro Bonetti, Francesco Buffoli, Elio Bussolino, Riccardo Cavrioli, Matteo S. Chamey, Aldo Chimenti, Giancarlo Currò, Ianira De Ninno, Paolo Dordi, Daniele Follero, Alessandro Hellmann, Emi Hey, Ambrosia Jole Silvia Imbornone, Roberto Mandolini, Massimo Marchini, Jacopo Meille, Rossana Morriello, Luca Pagani, Stefano Pera, Laura Pescatori, Raffaello Russo, Mirco Salvadori, Emanuele Salvini, Eleonora Serino, Gianni Tarello, Valentina Zona

Direttore Responsabile: Gian Paolo Carlini Abbonamenti: abbonamenti@rockerilla.com Pubblicità: adv@rockerilla.com Scrivici: rockerilla@rockerilla.com

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OTHER LIVES

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MATT ELLIOTT

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GREY DAZE

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THE WHITE BUFFALO

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SUFJAN STEVENS 34 NADIA REID

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MONOPHONICS 40 BERNARD FORT

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CARTA STAMPATA

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RECENSIONI

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The Strokes

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The Strokes RICORDO DI UN’ESTATE DI DICIANNOVE ANNI FA Is This It: una nuova estetica rock’n roll per il terzo millennio di Valentina Zona

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i quell’estate del 2001 ricorderò sempre l’ascolto ossessivo di Last Nite, vero e proprio inno generazionale scanzonato e impertinente che raccontava con tono distaccato (dunque molto “cool”) una notte di alienazione, suggerendo per la prima volta alla ventenne che non ero ancora un immaginario del tutto inedito: uno schema assolutamente sconosciuto e attraente, fatto di rapporti che potevano finire senza troppi drammi, con un semplice vaffanculo, per la sola voglia di vagare nella notte da soli, senza avere paura di niente e di nessuno, per poi aspettare il giorno e, chissà, spaccare il mondo. La musica degli Strokes era perfetta per quegli anni Zero un po’ ibridi e incerti, confusi, difficilmente classificabili; anni ancora in lutto che cercavano sé stessi esattamente come noi. Era musica low-fi veloce e disimpegnata, ma con dentro il male di vivere e ciò nonostante un’energia dirompente. Era musica che archiviava i camicioni a quadri e faceva riscoprire le giacche di pelle e i jeans strappati aderenti degli anni ‘70; musica che metteva (forse finalmente) una pietra tombale sulla consunta benché iconica epopea del grunge. Musica che voleva farti ballare, che non si accontentava di contemplare il malessere: musica che invece di farti implodere ti invitava ad esplodere nel mondo.

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Il 27 agosto del 2001 usciva l’album d’esordio della formazione statunitense degli Strokes, decretato da Rolling Stone al secondo posto nella classifica dei 100 migliori dischi degli anni Duemila. La pubblicazione negli USA, prevista per l’11 settembre 2001, fu posticipata al 9 ottobre dello stesso anno in seguito agli attentati delle Torri Gemelle. A differenziare le due edizioni, non solo la data d’uscita diversa: la canzone New York City Cops, presente nell’edizione europea, fu sostituita nella versione statunitense da When It Started. Questa modifica nella tracklist avvenne per il ritornello potenzialmente offensivo nei confronti della polizia che tanto aveva fatto in quei giorni tremendi per la Grande Mela e per il mondo intero: «New York City cops. They ain’t too smart». Inoltre, sulla copertina della versione europea compare una foto del fotografo Colin Lane, che rappresenta il particolare di una ragazza nuda che si accarezza il fondoschiena con la mano guantata, mentre sulla cover della versione USA è raffigurato un particolare della collisione di particelle effettuata nell’acceleratore di particelle del CERN. La sostituzione della copertina avvenne, presumibilmente, per evitare problemi di censura, sebbene la prima risultò essere di fatto quella veramente indimenticabile. Il mix freschissimo e intelligente di generi (dalla new wave al britpop, passando per


il rockabilly e il punk) di cui gli Strokes si facevano portatori, decretò un successo immediato e unanime di critica e pubblico: lo stile riconoscibile e personalissimo, accompagnato a un’estetica rock’n roll che mal celava una fascinazione fetish in pieno stile Velvet Underground, accompagnò Julian Casablancas (figlio di John Casablancas, imprenditore statunitense fondatore della Elite Model Management) e soci nell’Olimpo delle rockstar. Gli Strokes furono loro malgrado tra i più fortunati e osannati apripista di una scena che fiorì in quegli stessi anni: Yeah Yeah Yeahs, Franz Ferdinand, Arctic Monkeys, The Killers, Kasabian, Kaiser Chiefs, sono solo alcuni tra i nomi più noti di quel movimento riconducibile a un alveo comune: il rinascimento del rock’n roll del terzo millennio. Fu un’epopea fulminea, che virò nel giro di pochi anni verso lidi differenti; si consumò in fretta, come l’adolescenza di molti di noi, e solo in pochissimi casi giunse ad acquisire l’aurea della memorabilità. Nulla di paragonabile a quello che era stato il decennio precedente, eppure fu una specie di ricostituente necessario, che ancora oggi ricordiamo con affetto e gratitudine. rockerilla.com

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The Strokes

Un gran botto e diversi colpi a vuoto di Elio Bussolino

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“Why the New York’s finest will change your life - forever”: era con questo strillo di copertina che nel giugno del 2001 l’NME archiviava ogni eventuale e residua cautela nel dare per assodato il fatto che i cinque giovanotti in giacca e cravatta che da tempo campeggiavano sulle prime pagine di tutta la stampa musicale specializzata avessero ormai conquistato il mondo. Il rotondo dieci in pagella che lo stesso autorevole settimanale britannico si affrettò ad assegnare a IsThis It altro non era che la definitiva asseverazione di un fenomeno che per la sua fulmineità richiamava alla memoria pochissimi altri precedenti, senza del resto dare adito a previsioni meno che ottimistiche sulla sua capacità di durare oltre la fragorosa eco di alcune canzoni sagacemente memori di altre storiche e cruciali avventure newyorkesi (in primis Velvet Underground e Television) e il fascino effimero di un look tanto sobrio quanto accattivante. Nessuno, insomma, all’epoca avrebbe potuto azzardare l’ipotesi che quello indicato quasi all’unanimità come uno dei più memorabili album d’esordio degli ultimi vent’anni fosse destinato a rimanere anche e di gran lunga il migliore al quale gli Strokes avrebbero messo mano lungo i successivi venti, un dato di fatto, questo, che solo i quasi sempre trionfali live dei cinque hanno provveduto in qualche modo a dissimulare. rockerilla.com

Tant’è che Room On Fire, due anni più tardi, contraddiceva in maniera potente quell’impegno a non ripetersi proclamato a gran voce da ogni artista e gruppo chiamato a confermarsi e dava anzi la precisa impressione che, messa temporaneamente da parte la fortunata formula garage pop di Is This It qui richiamata soprattutto da You Talk Way Too Much e 12.51, i cinque avessero perso smalto, lucidità e direzione. Nemmeno First Impressions Of Earth (2006) osò spingersi più di tanto fuori della cosiddetta comfort zone del gruppo e laddove ci avrebbe provato (OnThe Other Side, Killing Lies, Red Light) gli esiti sarebbero apparsi tutt’altro che entusiasmanti e comunque tali da persuadere tre quinti dei suoi effettivi (Julian Casablancas, Albert Hammond Jr e Nikolai Fraiture) che era arrivato il momento di mettere in mora le attività degli Strokes e dedicarsi ai rispettivi progetti individuali. La pausa discografica si protrarrà fino all’uscita di Angles nel 2011. Istoriata da una delle più sgargianti e allo stesso tempo


2006 | Torino | Traffic Festival

ph Loris Brunello

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The Strokes anòdine copertine della recente storia della discografia, la raccolta da un canto tornava a spremere in titoli come Gratisfaction, Taken For A Fool e Undercover Of Darkness la verve e i suoni più congeniali al quintetto newyorkese e dall’altro mandava ancora una volta deluse le aspettative di quanti contavano sulla capacità Casablancas & Co. di imprimere una svolta davvero significativa alla loro produzione musicale. Occasione rimandata ulteriormente, dunque. Dapprima all’EP Future Present Past, primo manufatto degli Strokes a fregiarsi del logo Cult Records, l’etichetta fondata dal frontman del gruppo, quattro brani che, così come sembra far intendere il suo titolo, capovolgono la linea del tempo facendo coincidere il futuro della band con il pieno recupero dei suoi più fortunati trascorsi; e poi in maniera assai più articolata affidando tale compito all’album del 2016. Ebbene, fatti i distinguo del caso, potremmo anche dire che Comedown Machine sta a Is This It come December’s Children degli Stones a Some Girls, volendo con questo mettere in primo piano la vistosa transizione dal suono garage pop dei primi Strokes ai marcati accenti electrodance di una buona parte delle sue tracce. Che sia poi quella la svolta tanto attesa e auspicata? Come direbbe il poeta: a The New Abnormal l’ardua sentenza.

I FAI-DA-TE

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er ambizione o per distrazione. Per necessità o per noia. Per sfida o per curiosità. Infinite sono le ragioni che conducono un musicista a concedersi più o meno brevi licenze dagli impegni in un gruppo e ad avviare un progetto proprio e separato dal resto della band di appartenenza. A voler essere magari un po’ troppo maliziosi, per i cinque Strokes questa potrebbe anche chiamarsi … frustrazione. Per non aver più

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saputo ripetersi ai livelli di Is This It, o più verosimilmente per ricaricare le batterie prima di far ritorno alla casa madre e lanciarsi in un’altra impresa collettiva. Julian Casablancas, Albert Hammond Jr, Nikolai Fraiture, Fabrizio Moretti, Nick Valensi: nessuno dei cinque si è sottratto a questo genere di cimento e anzi per i primi due si è quasi tentati di affermare che le cure poste allo sviluppo delle rispettive carriere personali abbiano spesso finito per prevalere su quelle riservate alle attività di gruppo. Qui di seguito ne riassumiamo i vari e altalenanti esiti. Il primo a giocarsi la carta da solista è stato Albert Hammond Jr., un figlio d’arte – suo padre è l’autore di It Never Rains In Southern California, hit internazionale datato 1972 – che negli Strokes non aveva trovato il contesto ideale per dare sfogo ad una vena cantautorale in grado di farsi apprezzare soprattutto in Yours To Keep (2006), album messo insieme con gli ”aiutini” di amici come Julian Casablancas e Sean Lennon. I riscontri ottenuti dai successivi ¿Cómo te llama? (2008), Momentary Masters (2008) e Francis Trouble non sono stati altrettanto lusinghieri,


ma a penalizzarli non è tanto la qualità della loro scrittura musicale quanto piuttosto la modesta espressività vocale di Hammond. Assai più controversi i giudizi guadagnati dalle sortite extra moenia di Julian Casablancas, una da titolare unico (Phrazes For The Young, 2009) e due alla testa dei Voidz (Tyranny, 2014, e Virtue, 2018). Il primo è un piccolo zibaldone di electropop di facile consumo, probabile retaggio di infatuazioni adolescenziali mai del tutto sopite; il secondo una velleitaria variazione sul medesimo tema; e il terzo un confuso tentativo di affermare che c’è vita anche oltre la Strokesfera. In confronto alle stroboscopiche e martellanti scenografie post-waves di Casablancas The Time Of The Assassins l’album pubblicato nel 2009 da Nikolai Fraiture insieme ai londinesi South e con la partecipazione di Nick Zinner degli Yeah Yeah Yeahs e di Regina Spektor sembra una raccolta di tenere vignette naïf, un breve e delizioso campionario di delicatessen lo-fi. Un piglio assai più deciso ed elettrico mostra dal canto suo With You Tonight (2016), l’album che Fraiture accredita ai Summer Moon, ensemble che fra gli altri lo vede affiancato da Stephen Perkins dei Jane’s Addiction. Un altro che non ha avuto la minima esitazione a tenersi lontano dai più vieti luoghi comuni strokesiani al momento di disegnare un progetto proprio è Fabrizio Moretti. Little Joy, sigla della formazione protagonista dell’eponimo album realizzato nel 2008 con il brasiliano Rodrigo Amarante (un ex collaboratore di Devendra Banhart) e la cantante e polistrumentista Dinki Shapiro, è un autentico gioiellino acustico di pop & folk tropicalista del quale è giocoforza innamorarsi al primo ascolto. Buon ultimo a rispondere alla chiamata solista è Nick Valensi. New Skin è l’album che il chitarrista degli Strokes pubblica nel 2016 alla testa dei CRX, formazione dichiaratamente modellata a immagine e somiglianza di gruppi come Cheap Trick e Cars e prodotta ad hoc da Josh Homme. Il terreno sonoro più congeniale al talento impetuoso e pirotecnico del chitarrista chiamato nello stesso anno a rileggere Wah Wah nel tributo collettivo a George Harrison di George Fest: A Night To Celebrate The Music Of George Harrison. rockerilla.com

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The Strokes

DA New York

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The New Abnormal Cult/RCA

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opo un silenzio di sette anni, in cui i componenti si sono dedicati a progetti solisti o con altre band, gli Strokes tornano con un nuovo album, prodotto dallo storico, prolifico e poliedrico produttore Rick Rubin (Johnny Cash, Tom Petty, Red Hot Chili Peppers, Rage Against the Machine, Damien Rice, James Blake, Adele, ecc.). Gli Strokes hanno annunciato la data di uscita del nuovo disco, il 10 aprile, durante un concerto alla Whittemore Center Arena di Durham, in New Hampshire, per supportare la candidatura di Bernie Sanders alle elezioni presidenziali statunitensi. “E’ l’unica persona di cui ci si può fidare”, ha affermato Julian Casablancas; per ricordare questo evento speciale, la band ha anche messo in vendita una t-shirt, che usa i caratteri del logo della band per la scritta “Bernie Sanders”. Sulla copertina del nuovo album, registrato nello studio Shangri-La di Rick Rubin, a Malibu, in California, campeggia invece un’opera di Jean-Michel Basquiat del 1981, Bird on Money. Julian Casablancas (voce), Nick Valensi e Albert Hammond Jr (chitarre), Nikolai Fraiture (basso) e Fabrizio Moretti (batteria) sono ormai dei quarantenni o vicini ai quaranta, ma la loro musica resta sempre giovane, forse proprio perché non si discosta molto dalle origini; anche il loro sesto album infatti si pone in continuità con gli altri, ma con una qualche rinnovata ispirazione. Così anche questo disco vive di riff taglienti e agrodolci; talvolta i synth in pezzi più vivaci e ballabili sfiorano il kitsch, ma poi la band newyorchese recupera equilibrio grazie alle consuete trame

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PER FAN DI Interpol, The Libertines, White Lies ASCOLTA At The Door, Not the Same Anymore, Ode to the Mets

brillanti di chitarre e alle interpretazioni di Casablancas, che ha conservato negli anni la sua voce fresca, acidula e acuta. Gli Strokes ci regalano nove pezzi pieni, rotondi, con sonorità decise, accattivanti, che qui e lì a volte strizzano l’occhio agli anni ’80, come dimostra la ripresa della melodia di Dancing With Myself di Billy Idol, sempre del 1981, nel singolo Bad Decisions, che alluderebbe alle travagliate vicissitudini della famiglia di Julian, ben note alla stampa scandalistica. John Casablancas è stato infatti il fondatore dell’agenzia di molte tra le più importanti modelle del mondo; interrotta, a seguito di un chiacchierato tradimento, la relazione con la madre di Julian, Jeanette Christiansen, modella ed ex Miss Danimarca, ha avuto un rapporto molto burrascoso con il figlio. Uno dei pezzi più interessanti del disco è il primo singolo At the Door, dolente ballata animata da sonorità sintetiche minimali e malinconiche. Qui e lì nel lavoro le chitarre suonano ridondanti e calligrafiche, eppure globalmente questo è un lavoro solido, che tocca le sue vette qualitative probabilmente con le canzoni più pensose, che cullano la malinconia e la voglia di lasciarsi il passato alle spalle. SOLIDO E AGRODOLCE. Ambrosia J. S. Imbornone


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OTHER LIVES .

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Alla ricerca di umanitĂ e originalitĂ di Ambrosia J. S. Imbornone

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’amore per sé e per gli altri, l’immersione quasi necessaria nella natura, la ricerca di combinazioni sonore originali: questo e altro nella nostra conversazione con Jesse Tabish sul nuovo album del gruppo americano.

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a musica degli Other Lives è contemporanea, aperta ad echi e influenze, ma pure di una qualità che li sospende probabilmente fuori dalle mode e fuori dal tempo, quanto la bellezza delle sconfinate praterie dell’Oklahoma, da cui il gruppo proviene. Sarà anche perché gli Other Lives preferiscono gli spazi lontani dalla frenesia delle città, rifiutando in qualche modo i ritmi isterici delle metropoli, che si sono sempre presi i loro tempi tra un disco e l’altro; questa volta ci hanno fatto attendere ben quasi cinque anni per For Their Love, il loro quarto album, registrato nella zona della nevosa Cooper Mountain, nell’Oregon (il quinto lavoro se si comprende anche il primissimo, pubblicato dalla band quando ancora si chiamava Kunek). Valeva la pena di attendere, però, per ascoltare un disco dal fascino vagamente oscuro, ipnotico e ricco d’atmosfera, che combina con grande eleganza i due grandi amori della band, quello primario per la musica classica e cinematica, ariosa e preziosa, e quello per sonorità che spaziano dall’indie rock al folk. Abbiamo fatto una chiacchierata su quest’ottima prova di classe della band con il frontman Jesse Tabish (voce, piano e chitarra nel gruppo); l’artista, molto cordiale e disponibile, ci ha anche raccontato di amare molto l’Italia: ha trascorso con sua moglie Kim

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(che collabora con lui nella stesura dei testi e ha contribuito al disco con i cori) circa tre mesi in Sicilia in un piccolo paese, che gli è piaciuto molto. È stato un bellissimo soggiorno per loro e Jesse avrebbe composto tutti i demo dell’album proprio in Sicilia, senza computer, solo con la chitarra acustica; si tratterebbe di circa 24 canzoni: la band infatti avrebbe in realtà raccolto e registrato materiale per due dischi, For Their Love e quello che molto probabilmente sarà il disco successivo. Come mai avete impiegato quasi cinque anni prima di pubblicare questo nuovo disco? (Ride) Si ripete sempre la stessa storia tra un disco e l’altro! Io scrivo molta musica,


ma impiego molto tempo per trovare la giusta serie di canzoni per poter pubblicare qualcosa, così abbiamo finito per registrare due dischi! C’è infatti anche un altro disco, di cui abbiamo mixato delle canzoni. Devo avere la sensazione di aver trovato i pezzi giusti e questo richiede tempo, ma va bene così, perché credo molto in questo procedimento. Il titolo del disco è For Their Love: probabilmente ora viviamo in un mondo abbastanza individualistico ed egoista. I politici spesso diffondono il messaggio che sia giusto pensare al proprio interesse, a sé stessi, agli interessi e ai profitti di una nazione, ecc. Oggigiorno c’è ancora qualcuno che faccia qualcosa per amore

degli altri? O è meglio che ognuno salvi sé stesso? Io penso che dobbiamo amare noi stessi, dobbiamo essere giusti con noi stessi e volerci bene, ma per poi poter restituire e donare agli altri un bene, un amore più grande. Dobbiamo essere sempre consapevoli del mondo e delle persone che ci circondano, andando al di là degli stati, delle religioni, ecc. Continuate a combinare suoni classici, violini maestosi, avvolgenti e d’atmosfera da un lato, con l’indie rock o anche con i suoni folk delle chitarre dall’altro lato e così via. Definiresti la vostra musica come cinematica? Sì, solitamente inizio con qualcosa di rockerilla.com

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cinematico, inizio con la produzione di tipo strumentale, per poi tornare sul pezzo e cercare di scrivere la canzone intera. Penso sempre agli strumenti, a qualcosa di più particolare per l’arrangiamento, ma poi torno comunque alla chitarra acustica, e al piano e a cercare di scrivere canzoni attorno a questi elementi. La nostra musica è quindi la combinazione di due mondi diversi, che forse ben rappresenta il nostro stile, ma sì, tornerò sempre anche alla musica cinematica e alla musica classica, che sono il mio primo amore. Per quanto riguarda la musica cinematica o propriamente cinematografica, quando hai scritto For 12 per il vostro secondo album, qualcuno ha detto che sembrava Pyramid Song dei Radiohead, arrangiata e diretta da Ennio Morricone. Ti piace Morricone? (Ride, divertito, sulla definizione di For 12) Sì, è uno degli artisti che amo di più, è stato una delle mie maggiori fonti di ispirazione, e non solo per le colonne sonore dei film western, non solo per Il buono, il brutto, il cattivo, ma per tantissimi, tantissimi lavori: tutta la sua opera è così fantastica, assolutamente! Come lavorate sui suoni? A volte sembra che ci sia una contrapposizione voluta tra suoni ariosi e chitarre tese, mentre suoni sognanti diventano solenni (come in Sideways). Cercate contrasti musicali, o meglio, combinazioni nuove e inedite di suoni? Il contrasto che ricerco è più qualcosa come una melodia bellissima associata a versi un po’ più cupi, riguarda maggiormente il rapporto tra tessitura musicale e gli argomenti, sì, ma penso anche di cercare sempre combinazioni nuove, come un carattere cinematico della musica, ma associato anche a un modo di scrivere più semplice: ci piacciono infatti anche dei suoni “old school”, come il piano, ecc.; amiamo inoltre le melodie, i Beatles e le canzoni ben confezionate, per cui sì, cerchiamo più delle combinazioni di suoni originali. A mio avviso in queste nuove canzoni c’è speranza, ma è faticosa, è una conquista tenace e musicalmente l’album appare abbastanza scuro, molto affascinante e regale. Concordi? Beh, grazie mille, sì, assolutamente! (ride contento) Concordo, in questo disco volevamo qualcosa di più umano, pur sempre con arrangiamenti accurati, qualcosa con cui gli rockerilla.com


OTHER LIVES ascoltatori potessero maggiormente entrare in contatto e sentirsi in sintonia, dopo Rituals, che comprendeva brani in qualche modo più ballabili e tante parti più movimentate. Volevamo una specie di “ritorno a casa”, alle nostre radici, pensando a come tutti dovremmo avere una vita semplice: volevo tornare a quel tipo di atmosfere, per cui, sì, concordo, grazie. La critica ha affermato spesso che la vostra musica fosse collegata ai paesaggi dell’Oklahoma. Ora vivi con tua moglie in una casa di campagna nella zona della nevosa Cooper Mountain nell’Oregon: i paesaggi sono ancora una fonte di ispirazione per voi? Sì, assolutamente, uno dei motivi per cui mi sono trasferito in campagna è stato per avere quel tipo di connessione che mi mancava e che si può avere se si è immersi nei boschi, tra gli alberi... senza avere nessuna distrazione tipica della vita di città. Non sono argomenti di cui necessariamente scrivo: io non scrivo della natura, ma la osservo volutamente, per cui tornare in campagna è stato molto importante per me e forse è per questo che ho impiegato cinque anni a pubblicare un altro disco (ride), perché lavoro in campagna, lontano dalla vita della città! Che ci dici di tua moglie Kim, che ha contribuito al disco con dei cori celestiali? Sai, noi condividiamo sempre la musica, amiamo la stessa musica. Siamo andati a vivere in questa casa e lei ha cominciato a collaborare con me e la band, scrive i testi con me, è la mia compagna in tutto questo e mi ha solo confermato che aveva un senso anche per lei inserirla nel gruppo. Ho sempre amato le voci femminili unite alla mia, aggiungono una sensibilità palpabile, essenziale, e così ho inserito la sua voce in queste canzoni. Mi fa molto piacere che mia moglie collabori con me e con la band. Un’ultima domanda: qual è la tua canzone preferita del disco, se ce n’è una? La mia canzone preferita è Sound of Violence, è un brano straordinario secondo me, perché spiega quello che stiamo attraversando e anche musicalmente rappresenta l’idea di fondo più ampia presente nel disco, rappresenta il risultato che volevamo ottenere, sostanzialmente, e mi piace ascoltare questo pezzo: quando parte, mi stampa un sorriso!

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Ciò che una volta era la speranza di Francesco Buffoli

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MATT ELLIOTT

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att Elliott è tra i pochi veri pensatori della musica contemporanea: un cantautore che riflette a fondo sugli scopi della propria arte, su come può incidere nella vita degli altri, oltre che sul mondo che lo circonda. La sua dichiarazione conclusiva (cerco di aiutare le persone a sentirsi meno sole) mi ha ricordato le riflessioni di un gigante della letteratura a cavallo tra i due millenni (David Foster Wallace), cui Matt Elliott è accomunato non solo dal valore letterario dei testi, ma anche da un approccio tanto radicale quanto scorato, talvolta in odore di depressione e poco ottimista riguardo al destino del genere umano.

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un onore e un piacere poter scambiare due parole con uno degli artisti che hanno accompagnato il mio percorso di crescita. Seguo infatti la tua carriera sin da fine anni ‘90, ovvero da quando ero un ragazzino, e trovo che la tua evoluzione artistica sia strabiliante e unica. Cosa ricordi dei tuoi esordi e della scena di Bristol? Si parla di molti anni fa e oggi è facile farsi trasportare dal romanticismo. Io fui abbastanza fortunato da poter lavorare in un vecchio negozio di dischi, con un vecchio pazzo ossessivo che mi insegnò tantissimo sulla musica. La sua collezione era sterminata (ricordo opere di Sun Ra) e rifletteva l’atmosfera particolare di Bristol, città che mi fece crescere circondato da una grande varietà di culture (sono nato in mezzo a russi, polacchi e serbi, sono poi entrato in contatto con la vasta comunità indiana e bengalese, oltre che con le numerose enclavi caraibiche); Bristol ha allevato una propria scena hip hop autonoma, il trip hop, musicisti post punk radicali ed eccentrici come il Pop Group, che facevano del sincretismo tra i generi una sorta di credo religioso; tutto naturalmente è decollato con l’esplosione di Massive Attack, Portishead e Tricky: ascoltandoli capii che volevo elaborare un discorso musicale personale, anche se non fu facile intuire subito la direzione giusta; la svolta verso il do it yourself arrivò quando entrai in contatto con i Flying Saucer Attack ed ebbi modo di sviluppare idee più originali. Ho recentemente trovato diversi demos dei primi anni ‘90, in

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cui rubavo idee a destra e a manca (ci sono passaggi in odore di My Bloody Valentine, brani che scimmiottano Beck, una versione ancor più bizzarra di certe cose dei Suicide o dei Gallon Drunk). Sempre a proposito degli anni ‘90, trovo incredibili i lavori dei Third Eye Foundation, soprattutto You Guys Kill Me, anche per le difficoltà che incontro nel tentare di incasellarlo, persino oggi che sono passati vent’anni dalla pubblicazione e che il mondo della musica è completamente cambiato. Ad esempio, come puoi ricollegare a un genere specifico un brano come For All The Brothers and Sisters? Quei lavori suonano al contempo astratti e molto fisici, come solo il miglior free jazz. You Guys Kill Me mi rende orgoglioso ancora oggi, rappresenta la conquista della libertà artistica su ogni fronte e anche la possibilità di fruire di strumentazione idonea a mettere in pratica le mie idee, occupa un posto speciale nel mio cuore. La traccia di cui parli è una sorta di pianto, un pianto di frustrazione davanti alla condizione del mondo; quanto al jazz, l’ho sempre amato, anche quando non l’ho capito in toto (penso a Sun Ra); ultimamente sono entrato in loop con Miles Davis, da sei mesi non faccio che ascoltare Porgy and Bess. Sono felice di non aver accelerato i tempi con un artista come Miles, ho seguito i suggerimenti del mio vecchio capo ai tempi di Bristol: quando ascoltavo Tago Mago dei Can o Blue Afternoon di Tim Buckley, mi suggeriva di non esaurire subito gli ascolti, di prendersi il tempo necessario. Nel nuovo secolo ti sei dedicato alla musica


L MATT ELLIOTT Farewell To All We Know Ici D’AiIleurs

folk e alla tradizione cantautorale, anche se in modo decisamente originale. Cosa ti affascina di quel mondo? Credo che il folk sia la radice di tutta la musica, la sua forma di espressione più pura e incontaminata, lontana dalle grinfie del business; è nata per raccontare storie, per condividere stati d’animo, e personalmente ascolto musica folk che arriva da ogni parte del pianeta. Spesso mi interrogo sulle ragioni che motivano un artista a esprimersi e penso che il successo, la voglia di apparire o anche di essere controversi e provocatori non possano fornire calorie motivazionali troppo a lungo. Il folk invece mi piace perché mette due anime in connessione, abbatte le barriere, smaschera la follia del razzismo e valorizza le esperienze comuni, in grado di annullare le differenze che derivano da nazionalità, religioni o culture. Personalmente mi sono innamorato istantaneamente di Drinking Songs, nel 2005; negli album successivi ha esplorato universi sonori sempre più lontani e insoliti, arricchendo la tua formula; penso all’eco di chitarra spagnola di The Broken Man, e ovviamente anche all’ultimo Farewell To All We Know. Non ho una particolare predilizione per la tradizione spagnola, la mia prima influenza in materia è la chitarrista classica italiana Filomena Moretti; vederla suonare mi ha fatto innamorare dello strumento, della sua semplicità e anche della natura astratta. Apprezzo molto anche la musica mediorientale; in generale comunque i mediterranei apprezzano la mia musica, lo

’etichetta artistoide Ici D’Ailleurs consente a Matt Elliott di pubblicare Farewell To All We Know, opera che al tempo stesso compendia i suoi topoi chiave (la canzone e il folk minimale come dogma inviolabile) e getta un ponte verso territori inesplorati, confermandone la statura di geniale apostata della tradizione cantautorale. Elliott assomiglia sempre più a un Leonard Cohen in versione spettrale e sinistra, in orbita neo-folk (echi dei Death in June), ma soprattutto non ha perso un briciolo della capacità di scodellare melodie e atmosfere memorabili, come dimostra la title-track, che catapulta il malessere esistenziale del gigante canadese in una dimensione ancor più rarefatta. IMPERDIBLE. Francesco Buffoli

colgo quando suono in Italia o in Grecia, e anche se le ragioni non mi sono chiare la cosa mi fa molto piacere. L’ultimo album è al tempo stesso introverso e potente, rarefatto e passionale. Ho sempre ammirato la tua capacità di combinare sussurri e grida, la dinamica dei tuoi brani; in questo lavoro mi sembri avvicinare la poetica di giganti come Leonard Cohen o Nick Cave. Credo essenzialmente di aver raggiunto un’età in cui mi sono rassegnato al nostro destino; non sono ottimista riguardo al futuro della nostra specie, credo che siamo troppo pigri, egocentrici, avidi e saturi d’odio per migliorare davvero le cose; il mio album è come un vecchio che dà l’addio alla terra, consapevole di ciò che attende tutta l’umanità. Credo infatti che nell’arco di un paio di generazioni il mondo sarà molto diverso da come lo conosciamo ora. Ecco un punto cruciale: credo che la tua arte possieda una grande forza politica, che voglia esprimere un punto di vista sulla contemporaneità, penso in particolare a brani come Hating the player, hating the game, che sono un solenne proclama di indipendenza e di insofferenza nei confronti della realtà contemporanea. La musica è espressione e comunicazione, non voglio essere troppo specifico né fare della cronaca, ma certo corruzione e sfruttamento non mi lasciano indifferente; in sintesi, cerco di aiutare le persone a sentirsi meno sole e più comprese, almeno per qualche momento. rockerilla.com

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Il primo (e ultimo) grido di Chester di Matteo S. Chamey ph Anjella

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atterista e fondatore del gruppo, Sean Dowdell apre nuovamente il libro delle memorie. Amico sostenitore, con questo album magnifica e decanta l’uomo amico Chester Bennington, incatenato (come tutti) alle restrizioni emotive del proprio Io, strattonato per troppo tempo dai logorii della vita e rapidamente portato via dal peso delle incomprensioni (interne/esterne). La carica sensibile e viscerale espulsa da questi battiti ritmici senza tempo prende il sopravvento, elogio della parola (mai una fuori posto, analizzatevi i testi), del tono vocale (superlativo, acerbo eppure così fresco e apripista Linkin Park), dei tempi musicali (grunge sospeso tra malinconia e rabbia).

TOGETHER AGAIN “L’idea di riunirci è nata nel 2016, Chester Bennington era in tour coi Linkin Park. Io gestisco il Club Tattoo, in questi anni ci sono state varie occasioni in cui siamo tornati a suonare insieme nel mio locale in occasione di anniversari. Questa volta sentivamo l’esigenza di scrivere qualcosa di nuovo e nel frattempo ripubblicare qualche vecchio disco. Quindi ci siamo rimessi a fare le prove ma poi a Luglio del 2017 Chester se n’è andato. Sono circa due anni e mezzo che col sostegno di amici e familiari di Chester lavoro a questo album. Inizialmente pensavamo a circa 17 brani da veicolare ciascuno con un proprio messaggio ben definito. Non voglio nasconderlo, dolore e depressione aleggiano nei testi”.

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DEEP IMPACT “È stata un’esperienza con un grande e grave impatto emotivo. Terminare le registrazioni è stato come entrare e uscire in continuazione da una tempesta batticuore. I testi sono stati scritti da me o da Chester o da entrambi e ovviamente dopo la sua scomparsa tutto ha preso una forma diversa. Certe strutture hanno assunto una profondità quasi profetica, toccando corde sensibili. La direzione presa ha trasferito nell’immediatezza tutta la sofferenza di Chester, la potete sentire e toccare quasi con mano dai testi. Le parole e il cantato hanno poi contagiato il sound, restituendoci forti scariche elettriche. Da tutto questo credo sia semplice percepire il messaggio di Chester e la musica mai come in questo caso fa da ponte nel veicolare il significato delle parole”. rockerilla.com

BRIGHT LIGHT “Sono orgoglioso di questo album, la presenza di Chester e il suo spirito sono presenti ovunque e sono convinto che chiunque lo possa percepire. Basta guardare la cover, con quella rosa purpurea che sfuma dal bianco ad altre tonalità più scure, è un omaggio rigoglioso al suo album preferito di sempre, Violator dei Depeche Mode. Non abbiamo voluto copiare la cover ma semplicemente celebrarne l’estetica. È una rosa che tende al candore e che quindi nasconde un messaggio di speranza e di luce. Chester non voleva che la gente pensasse che la vita fa schifo e va gettata all’aria, non voleva trascinare nessuno negli abissi, la sua musica mostrava i suoi stati d’animo e il tentativo alla base era quello di stimolare una reazione a tutto questo”. MEMORIES “Ricordo un episodio in cui eravamo in giro per il Messico, scrutavamo l’orizzonte di fronte al mare sorseggiando un paio di birre. Stavamo per rientrare negli States con il resto della band e ci apprestavamo a completare Morei Sky, un brano che poi è rientrato in quest’album. Era il 1995, ci sarebbe stato di lì a breve un Superbowl party con centinaia e centinaia di persone ed è un gran bel ricordo, fu un giorno speciale di un periodo scintillante. Un altro bel momento fu sentire uno dei nostri pezzi per la prima volta in radio sulla strada del ritorno, un grande stimolo per Chester per rientrare in studio e cavalcare l’attimo. E in seguito rilasciare le nostre prime interviste a qualche radio locale, un’altra gran bella esperienza che dava valore e sostegno al nostro lavoro insieme”.


Grey daze LINKIN PARK “È sempre stato uno dei miei più grandi amici di sempre e ne sono orgoglioso. Anche dopo la rottura con la band, al suo primo album dei Linkin Park lo sentii e ne ero entusiasta, ero felicissimo di questo suo percorso. Non sono mai stato geloso, ho sempre riconosciuto il suo grande talento e il lavoro duro che lo ha portato alla ribalta. Mi sento di affermare in tutta onestà che non sarebbero mai esistiti i Linkin Park come li conosciamo senza i Grey Daze e non dico nulla di osceno”. CHESTER “Nonostante il suo nuovo impegno noi siamo sempre stati business-partner (Club Tattoo) e grandi amici fuori dalle scene. Abbiamo continuato a condividere stati d’animo, musica, carriera, cene e uscite appena ve ne era l’occasione (anche partite di basket!). Nel 2002, nel 2007 e nel 2017 ci siamo riuniti per tentare di far rinascere la band ed è sempre stato uno degli obiettivi di Chester. Ristabilire in musica quella connessione che sia a livello empatico che musicale apportava dei benefici alla creatività di ognuno di noi. Chiaramente non è stato semplice, anche perché la nuova band di Chester ha sempre richiesto un grande impegno. Però nel 2016 ci sentimmo al telefono e capimmo insieme che sarebbe stato il momento giusto. Riaprire le danze e comunicarlo al mondo intero, i Grey Daze sarebbero tornati sulle scene. Poche persone si rendono conto di chi fosse realmente Chester da vivo. Quando cantò per gli Stones Temple Pilots così come coi Linkin Park era evidente la gioia nella e per la performance e infatti non ci pensai nemmeno a sostituirlo nella mia band, non era ripetibile una sintonia del genere”. LYRICS “Abbiamo cercato di ri-emulare certe condizioni per le quali siamo arrivati a comporre questi pezzi nel passato. Il dolore di Chester, mente corpo e vita. Il sentirsi vuoti o svuotati, il cercare di capirsi e comprendersi tipico degli anni della gioventù. L’obiettivo era anche far riemergere quegli stati d’animo affinché si ancorassero ad una percezione realistica e molto diretta di alcune vicende accadute nel passato di Chester, e pertanto trasferirne la durezza e la ferita. E identica operazione è stata fatta anche per i video, realizzati senza trascurare cosa ci fosse dietro. Quasi tutti i brani li abbiamo scritti insieme, si può dire che sia un concept-album carico di tristezza e dolore. È inutile girarci intorno, molto introspettivo e carico di angosce. Rivolto ancora oggi ai giovani e ad una generazione instabile, scritto senza filtri e interamente rappresentativo di ciò che Chester viveva interiormente. Il messaggio dietro i testi lo troviamo nella natura umana e non è “siamo senza speranza” ma “c’è speranza dopotutto”. Chester credeva a questo ed era anche il suo modo per esorcizzare le paure. rockerilla.com

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L’arte di seguire l’istinto. Sempre di Jacopo Meille

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n The Widow’s Walk, il nuovo album di The White Buffalo, arriva in un momento davvero difficile, pieno di paura, di sospetto, in cui ci è richiesto di essere fiduciosi, di non farsi troppe domande e attenersi alle regole. Questo disco è invece una sequenza di interrogativi e di fragili e temporanei tentativi di risposte all’inquietudine umana. Parlare con Jake Smith, confrontarsi con la sua assoluta franchezza e il suo essere così lontano da qualsiasi cliché legato alla figura dell’artista, rincuora, e ci restituisce quell’umanità che proprio adesso sembra essere messa a rischio.

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Jake, hai avuto modo collaborare con Shooter Jennings che ha prodotto e suonato sull’album... come è andata? La prima volta che ci siamo incontrati, il suo manager ci ha portato a fare una bevuta. L’idea era di vedere se potevamo scrivere e andare in tour insieme. Quel pomeriggio abbiamo parlato e bevuto birra, ci siamo “annusati”. Abbiamo parlato molto poco di musica e abbiamo provato a conoscerci. In quel momento io non avevo molto da fare... tra un album e l’altro ci sono periodi in cui io non suono e non compongo... ho bisogno di una scadenza per mettere in moto il processo creativo. Avevo qualche idea che ritenevo interessante e ho pensato di condividerle con Shooter proprio per mettere alla prova la nostra potenziale sintonia a livello musicale. Così sono andato da lui ed abbiamo iniziato a lavorare su un’idea. Non volevo suonare la chitarra e ho lasciato a lui la libertà di suonarla e di provare anche il pianoforte. Mentre stavamo arrangiando mi è venuta l’idea per una melodia e quasi subito anche alcune parole “chiave”. In pochissimo tempo pochi accordi erano diventati una canzone. Ci siamo guardati negli occhi e ci siamo detti: “Qual è la prossima?” Così quei 30 secondi di musica, quelle poche parole sono diventate ben presto canzoni... ho scritto l’album in una settimana da quell’incontro. Shooter mi aveva ispirato; era riuscito a darmi la giusta motivazione, a far scattare la scintilla. Mi sembra di capire che devi essere motivato per permettere alla tua ispirazione di dare il meglio di sé... Esatto: mi aveva motivato. E quando questo processo inizia non posso fermarlo... devo lasciarlo fluire. Giorno dopo giorno l’ispirazione è migliorata. Cosa è successo nello studio? È stato un processo molto fluido: tutti i musicisti insieme nella stessa stanza. Abbiamo scelto per ogni canzone la versione che ci piaceva. Per questo suonano vere ed è stato per me facilissimo cantarci sopra. Avete tenuto lo stesso approccio che avete avuto in fase di scrittura: concentrarsi sul “momento”, quel preciso istante in cui una canzone che prima non esisteva, di colpo prende forma. Un processo vivo e rischioso al tempo stesso. Anche i testi sono in sintonia con questo approccio: vivere il momento fino in fondo. Sì, è vero. È stato un processo creativo intenso e rapido. La maggior parte delle mie canzoni sono state composte alla chitarra acustica. Non appena sento di avere un’idea tra le mani la registro con il cellulare. A volte è successo che ho lasciato le registrazioni andare e riascoltandomi mentre cercavo di trovare l’ispirazione ho suonato qualcosa di interessante su cui valeva la pena lavorare. Può essere una semplice parola o una sequenza di accordi che ti cattura di nuovo l’attenzione e fa partire di nuovo l’ispirazione. Ci sono artisti che riescono a “immaginare” rockerilla.com

la canzone completa fin da subito ed altri che devono sperimentare più soluzioni prima di convincersi su quale sia l’arrangiamento migliore... tu a quale categoria appartieni? Quando sento qualcosa che mi colpisce anche dalle mie registrazioni casalinghe al telefono, quello è il momento in cui capisco immediatamente come si svilupperà una canzone: se racconterà una storia, o qualcosa di intimo e personale, se sarà dedicata ad un personaggio particolare... è come una scintilla... e scrivo molto velocemente. Anche Shooter era rimasto colpito dalla mia velocità di “reazione”, una volta che ho capito il senso della canzone che sto scrivendo, la sua direzione. Le parole seguono l’istinto proprio come le dita sulle corde della chitarra... a volte provi per ore senza successo e poi d’improvviso tutto appare chiaro e ti ritrovi con una canzone nel giro di poche ore. E per mesi poi non scrivi niente e non senti nemmeno il bisogno di scrivere. Quindi avete registrato in tempi brevissimi? Questo album lo abbiamo registrato in 6 giorni. Ma anche i precedenti li ho registrati in pochi giorni. Ho registrato 4 canzoni in aprile dello scorso anno, poi sia io che Shooter avevamo impegni e ci siamo ritrovati in agosto per 4 giorni per completare le session. E per quelle session avevo scritto un bel numero di canzoni tra cui Cursive che è diventata una delle mie preferite. Ha un testo di cui sono particolarmente orgoglioso perché parla della costante perdita di umanità e del potere della tecnologia. Ad agosto prima di entrare in studio avevo solo il titolo e la frase “I don’t know what I’ll do?”. La canzone musicalmente era completa ma mancava il testo. Così la sera prima di registrarla sono tornato in albergo dopo una lunghissima giornata in studio, Ho scritto il testo grazie anche alla pressione che sentivo perché l’avrei dovuto registrare il giorno dopo. L’impressione, ascoltando il disco, è che le canzoni siano fortemente legate tra di loro, quasi come un concept album in cui suoni e le parole si rincorrono ed intersecano tra canzone e canzone. Penso a Cursive che hai appena citato e il singolo The Rapture e ai loro testi che parlano dell’uomo che si confronta con il suo lato più irrazionale e istintivo e la perdita della sua identità spazzata via dal progresso tecnologico. Credi che la tempistica in cui è stato registrato il disco abbia influito in modo decisivo in questo? Non avevo mai pensato fino ad ora alla relazione tra quelle due canzoni, ma in effetti è vero. C’è stato un momento in cui avevo pensato ad un tema che legasse le canzoni: la storia d’amore tragico tra un uomo, un pescatore e la sua donna. E alcune canzoni dell’album sono legate a questa bozza di storia, così come in molte ricorre il tema dell’acqua, dell’oceano. Il titolo del disco in qualche modo riassume un po’ tutte queste diverse ispirazioni che legano in modo sotterraneo le canzoni fra di loro.


Cosa provi all’idea che le tue canzoni, una volta pubblicato l’album, possano acquistare significati diversi, a seconda di chi le ascolta? La grandezza di una canzone per me si misura anche da quanto quest’ultima riesca a emozionare e “parlare” agli ascoltatori. Da autore devi accettare che ciò che scrivi possa diventare parte della vita di altre persone. Il solo fatto che alcune tue parole possano far provare sentimenti così forti in altre persone è molto appagante e straordinario. A me non è successo tanto spesso da ascoltatore. Poter pensare di condividere una piccola parte dei tuoi sentimenti, anche quelli più misteriosi, è un’idea intrigante. Essere in grado di connettersi a livelli così profondi con altre persone grazie al tuo “lavoro” è ancora più eccezionale. Anche adesso, durante questa intervista, ascoltare le vostre interpretazioni, quello che voi avete “sentito” nelle mie canzoni, è incredibile ed al tempo stesso qualcosa di irrinunciabile. Senza contare i diversi livelli di lettura e di fruizione che i tuoi brani hanno... Adoro quelle canzoni che sembrano “semplici” ma che semplici non sono per niente; quelle canzoni che si fanno conoscere poco a poco, che non scoprono subito tutti i loro segreti. Senza poi dimenticare che ci sono nelle canzoni delle citazioni che rimarranno tue, dell’artista intendo, e solo tue. Eppure al tempo stesso, hai la percezione di condividerle con il mondo. Cosa dobbiamo aspettarci dal tuo concerto? Questa volta sarò accompagnato da una band. Ci sarò sempre io e la mia chitarra, con Matt Lynott alla batteria e Christopher Hoffee al basso. Chris ha suonato gran parte delle chitarre sul disco oltre che suonare il piano e questo ci permetterà di aggiungere una dimensione diversa ad alcune mie vecchie canzoni. Volevo sganciarmi dall’immagine del classico cantautore che suona le sue canzoni da solo accompagnandosi con la chitarra. Volevo provare nuove dinamiche questa volta, ma puoi star tranquillo che non ci saranno basi e loop!

THE WHITE BUFFALO On The Widow’s Walk Snakefarm

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ifficile riuscire a rimanere indifferenti di fronte alla voce di Jake Smith, il “bisonte bianco”: ha qualcosa di antico e familiare, che rimanda all’infanzia, ai film western, al tono dolce ma al tempo stesso autoritario, di un parente. Storie di troppi whisky, bevuti per provare a sopravvivere (The Drifter), buttando alle spalle il proprio passato e concentrandosi sul presente (No History), accettando la spietata crudeltà dell’animo umano (The Rapture), che si susseguono come un flusso di memoria, come intraprendendo un viaggio, con la mente e lo sguardo teso verso l’infinito che è davanti a noi. Le risposte arriveranno, mentre le domande continueranno ad accumularsi, inesorabilmente. LA MUSICA COME EPIFANIA. Jacopo Meille

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Stralci eccentrici da un’autobiografia

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a sempre, nei propri dischi, Sufjan Stevens è artista abituato a raccontare storie: che siano quelle legate ai luoghi e ai loro contesti sociali, come nel caso degli album dedicati agli Stati (Greetings From Michigan The Great Lake State, Illinois) o quelle fantascientifiche di The Age Of Adz. Ebbene, a partire dal commovente Carrie & Lowell (2015) le sue storie presentano una spiccata matrice personale, che si rispecchia tanto nei temi narrati nei testi quanto nelle modalità di creazione e nei contenuti sonori dei brani. Non c’è bisogno di parole per evidenziare il significato autobiografico e simbolico del primo lavoro accreditato congiuntamente a Sufjan e a Lowell Brams, produttore, mentore, fondatore dell’etichetta Asthmatic Kitty, ma soprattutto compagno della madre e figura decisiva per la sua formazione musicale. Poco più di dieci anni fa, Brams aveva pubblicato un album a proprio nome, Music For Insomnia (2009), interamente incentrato su dissonanze e drone sintetici, al quale Stevens aveva contribuito in maniera significativa; Aporia ne costituisce dunque l’ideale seguito, anche se con ruoli sostanziali ribaltati rispetto alla precedente occasione. Non stupisce che Aporia, pur registrato a partire da improvvisazioni liberamente condotte in studio dai due artisti nei ritagli di tempo delle rispettive attività, possa considerarsi essenzialmente un album di Sufjan Stevens. Del resto Stevens non è nuovo a divagazioni sempre più stravaganti al di fuori dei suoi eccelsi binari cantautorali, che oltre a definirne la personalità di compositore a tutto tondo ne hanno rivelato imprevedibili cimenti con sonorità sintetiche e persino new age. In questo senso, pur formato da ben ventuno brevi brani, pressoché interamente strumentali, Aporia presenta un carattere autobiografico legato appunto alla figura di Lowell Brams che, al di là della

di Raffaello Russo

condivisione delle jam dalle quali ha tratto origine il lavoro, di fatto va omaggiato per il ruolo nella formazione musicale del giovane Sufjan. Insieme a lui, da adolescente, aveva infatti scoperto, tra i tanti, musicisti come Mike Oldfield, Giorgio Moroder, Vangelis e dei Tangerine Dream, quali Aporia reca in qualche misura gli echi, sotto forma di miniature sintetiche, pulsazioni elettroniche e di un’ampia congerie di trasognate emissioni interstellari che ne conformano quasi tutti i brani a ideale accompagnamento di vecchie pellicole di fantascienza. Agli estrosi dialoghi tra Stevens e Brams, si sono poi affiancati i variopinti cammei vocali e strumentali di un’ampia schiera di musicisti, tra i quali spiccano il batterista James McAlister (The National), Thomas Bartlett (Doveman), Steve Moore dei Sunn O))), D.M. Stith, Yuuki Matthews degli Shins e la vocalist Cat Martino (Stranger Cat). Dagli estemporanei divertissement in studio alla condivisione con un ensemble di musicisti, Aporia rappresenta tipicamente la matura sensibilità di compositore di Sufjan Stevens, unita alla funambolica curiosità di percorrere strade creative eccentriche e imprevedibili… al di là di ogni ragionevole dubbio.

SUFJAN STEVENS, LOWELL BRAMS
 Aporia
 Asthmatic Kitty

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di Francesco Amoroso rockerilla.com


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iappropriarsi del tempo per scoprire che il tempo non ci appartiene veramente. Sembra incredibile che proprio nel momento in cui ci viene concesso di dedicarci alle nostre occupazioni preferite, senza sensi di colpa, senza scadenze a pesare sulle nostre spalle, ci si renda conto di come questo, piuttosto che tempo guadagnato, sia, invece, un tempo sospeso. Come se qualcuno avesse chiamato un time-out e, in questo frangente, breve o lungo che sia, non ci sia permesso di occuparci di nulla: non solo ci sono precluse le attività che comportano l’allontanarci dalla nostra abitazione, ma sembra proibito allontanare la nostra mente dalla situazione contingente che stiamo vivendo tra angoscia e noia. È così che anche la musica rischia di non essere lo strumento per evadere, per sognare nuovi panorami e scenari lontani, che fino a ieri ci era sembrato perfetto. Ci sono delle eccezioni, tuttavia. Basta il titolo del nuovo album di Nadia Reid per suggerire che si tratti di un buon veicolo per allontanarci un po’, per fuggire dalla quotidianità cui siamo forzatamente relegati, mani, piedi e cervello (per non parlare del cuore).

Out Of My Province, il terzo disco della talentuosa cantautrice neozelandese è un lavoro concepito con amore, realizzato con accuratezza e attenzione e incredibilmente efficace per aprirci (e rimanere aperti) verso orizzonti nuovi e fuori dalla nostra zona di conforto. Timida da bambina, la Reid ha raccolto per la prima volta una chitarra all’età di 14 anni, e questa è diventata uno strumento prezioso per elaborare, organizzare e trasmettere emozioni. La maggior parte dell’infanzia l’ha trascorsa con la madre Karin, cantante jazz londinese, in giro per Dunedin, vivendo a Stuart St. prima di trasferirsi in una villa con vista spettacolare a Port Chalmers. C’era sempre musica in casa. “Sono cresciuta lì quando Port Chalmers era una zona accidentata, e sento ancora una profonda connessione con l’acqua e le strade familiari. Come artista itinerante, ho bisogno di una sorta di ancoraggio, e c’è qualcosa di romantico qui a Dunedin. Il tempo, i vecchi edifici, la genuinità della zona circostante - è tutto molto stimolante.” Dopo il liceo Nadia si è trasferita a Christchurch, lavorando come babysitter e cameriera e suonando nei bar locali. Il suo EP di debutto, Letters I Wrote But Never Sent, è stato pubblicato nel 2011, e il primo album Listen to Formation, Look for the Signs è arrivato a novembre 2014. Ristampato da diverse etichette estere l’anno successivo, il disco è stato molto elogiato, dando alla Reid la possibilità di dedicarsi a tempo pieno alla musica.

“Ero studentessa di Inglese a Otago Uni. Prima di allora ho lavorato presso la Cantina Coco ad Auckland, e in realtà ho imparato molto sugli umani. Puoi dire così tanto di una persona da come si comporta con i camerieri nei ristoranti.” Il suo secondo album Preservation, del 2017, mostra la sua incredibile crescita come autrice, basta ascoltare Richard e I Come Home To You. Così, in breve tempo, la Reid è passata dal suonare davanti a 30 persone nei pub locali a tre grandi tour europei, alla fine dei quali si è ritrovata davanti a un pubblico televisivo di milioni di persone che cantavano Richard al “Late ... with Jools Holland”. A questo punto, però, nonostante abbia sempre lavorato con Ben Edwards a Lyttelton, facendo affidamento su un forte legame e una grande fiducia nei propri collaboratori, ha abbandonato i luoghi amati e si è lanciata nel vuoto. Nessuno, del resto, (come lei stessa afferma) è mai arrivato da nessuna parte restando fermo e Nadia ha deciso di trovare l’America (e, viste le sonorità che hanno da sempre caratterizzato la sua produzione musicale, la scelta non poteva che essere quella). La Spacebomb è molto più di un’etichetta: è uno studio di registrazione, un suono, un modo di approcciarsi alla materia musicale assolutamente totalizzante. Ed è, soprattutto, una band, un gruppo unito di arrangiatori, musicisti, songwriter, PR, che forniscono tutto l’appoggio necessario a chi decide di avvalersi della loro collaborazione perché riesca a tirare rockerilla.com

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fuori non solo il proprio meglio, ma qualcosa di non ordinario, di peculiare. Quando il manager Ben Baldwin ascolta il set della Reid, dopo quello della sua amica e ex-coinquilina, Aldous Harding, al Green Man Festival 2017, ne rimane folgorato e non può che metterla in contatto con Matthew E. White, co-fondatore dell’etichetta e produttore di grande successo. Il feeling è immediato e Nadia si reca a Richmond, in Virginia, accompagnata solo dal fedele chitarrista Sam Taylor. Lì il produttore Trey Pollard e la house band (Cameron Ralston al basso elettrico e verticale, Brian Wolfe alla batteria e Daniel Clarke all’organo, piano e tastiere) accolgono l’artista neozelandese e le sue composizioni, trattandole con un’audace nuovo approccio: gli arrangiamenti di archi, trombe, piano e rhodes, rendono le canzoni di Out Of My Province più corpose, raffinate e profonde e, per quanto Nadia si senta in un primo momento spiazzata, non le resta che lasciarsi andare tra le braccia della sua nuova famiglia, uscendone trasformata. I musicisti rispettano le sue canzoni, non le stravolgono: non ci sono suoni superflui e i silenzi e le pause arrivano sempre al momento opportuno. Out of My Province, oltre a essere un lavoro che spinge Nadia fuori dalle mura di casa è anche un album itinerante nel suo concepimento: otto canzoni sono nate on the road. È probabilmente anche questo il motivo per il quale, scritto tra viaggi in treno, aerei e furgoni, nelle stanze degli alberghi, dietro le quinte di piccoli palchi, Out of My Province segna un passo avanti decisivo nella maturazione artistica di Nadia: è il suono di una giovane artista che cresce, esperienza dopo esperienza, confrontandosi con il mondo e assorbendone suggestioni e umori: “Durante quel tour sono cresciuta così tanto personalmente. La mia vita è cambiata molto “. Other Side Of The Wheel è stata scritta in costiera Amalfitana - dove Nadia soggiorna in “una stanza minuscola, come una cella di prigione”, deliberatamente isolata - la ballata country High & Lonely è una storia di viaggio e sopravvivenza alle circostanze, Best Thing nasce ancora in Italia e viene poi completata a Dunedin, All of My Love cita la piccolissima città neozelandese di Levin e Oh Canada, beh, Oh Canada canta del desiderio di visitare il Canada (e ogni altro luogo lontano). Questa maturazione è evidente in ogni aspetto dell’album, dalla scrittura, alla produzione, agli rockerilla.com

arrangiamenti, ma è anche la vocalità di Nadia a raggiungere vertici espressivi fino ad ora mai toccati: il suo cantato flessibile e pulito, sempre pieno di sentimento, acquista agilità e maturità e nonostante la gravitas che lo contraddistingue, sembra sempre più naturale e spontaneo. Scomodare i paragoni (piuttosto triti) con uno dei numi tutelari della Reid, Joni Mitchell, non sembra, a questo punto, assolutamente fuori luogo. Se tutti gli album di Nadia Reid fino a oggi sono stati una immagine fedele della sua autrice dai vent’anni, (anche nelle copertine: tutte primi piani di Nadia), Out Of My Province è una rappresentazione davvero accurata di dove si sta dirigendo: “Nell’ultimo anno racconta - ho pensato molto a cosa significhi essere una persona abbastanza intensa, a volte malinconica, che fa questo lavoro. È difficile, ma i forti legami che ho sentito con il pubblico in Inghilterra e in Europa mi fanno sentire emotivamente utile agli altri.” E, ancora: “Questo è il tipo di cose a cui mi aggrappo. Questa idea che la musica rifletta la condizione umana e allo stesso tempo renda alcune cose più facili da sopportare. Cerco di non dimenticarlo ogni volta che la mia musica sembra un po’ indulgente. Il fatto che questa musica si connetta con gli altri a un livello mistico profondo è tutto. Se manca, quel che rimane è qualcuno che canta canzoni per gratificare il proprio ego. Non mi interessa.” Ascoltare l’album è, così, un’esperienza disarmante che rende vulnerabili, ma che conforta. La scabra intensità dell’opera è una specie di monito: non importa quanto si possa essere in movimento, quanto impegnati, quanto in difficoltà, perché la necessità della riflessione, del ricordo, del sentire le cose in profondità non può essere intaccata dalle contingenze.

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MONOPHONICS di Gianni Tarello

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The Kings of Psychdelic Soul


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ncora poco noti in Italia, i Monophonics rappresentano una delle realtà neo soul più interessanti della scena USA. Al loro attivo hanno due album caratterizzati da un sound personale, ma differenti nello stile e nel mood. Il loro secondo disco, Sound of Sinning del 2015 è considerato uno dei migliori album soul del decennio. Dopo la brillante esperienza solista del leader, Kelly Finnigan, dell’anno scorso, tornano con un nuovo album che sorprenderà ancora una volta gli appassionati per la scelta di percorrere nuove traiettorie nell’ambito del soul psichedelico, ispirato ai maestri dei primi anni ’70. Abbiamo colto l’occasione per confrontarci con loro sul nuovo album, per approfondire la conoscenza della band e per fare quattro chiacchiere con Kelly Finnigan sul panorama soul contemporaneo.

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egli USA siete molto famosi ma qui in Italia siete poco noti. Per questo mi piacerebbe iniziare questo colloquio parlando della storia della band, di come avete cominciato... È cominciato tutto nel 2011, con il nostro primo singolo per la Colemine Records. A quel tempo suonavamo molto dal vivo soprattutto nel nord della California. Nel 2012 pubblicammo il nostro primo album, In Your Brain, che ebbe un successo inaspettato. Nessuno aveva un approccio soul psichedelico come il nostro ed eravamo tra i pochi a proporre questo genere musicale. Questa caratteristica catturò subito l’attenzione del pubblico, degli appasionati e della critica. Nello stesso anno iniziammo un lungo tour negli Stati Uniti e toccammo anche l’Europa. Poi abbiamo passato due anni continuando a suonare in giro e abbiamo lavorato all’album di Ben L’Oncle Soul. Nel 2015 abbiamo pubblicato Sound of Sinning, e abbiamo riniziato un tour mondiale per ben 18 mesi. Quindi ci siamo presi una breve pausa e nel 2018 abbiamo pubblicato un mini album di cover, Mirrors, e adesso usciamo con un nuovo disco sempre su Colemine. Parlaci un po’ di te. Quando ti sei appassionato alla musica e come hai cominciato a studiarla? Ho letto che tuo padre ha suonato il piano per Marvin Gaye; quanto è stata importante la sua influenza e quanto ha contribuito ad appassionarti al soul e al funky? E quali sono stati gli artisti che ti hanno influenzato di più all’inizio della tua carriera? Avevo circa 15 anni, ho cominciato facendo il DJ prima di muovere i primi passi per entrare nel mondo della produzione discografica. Sono diventato un maniaco nel voler conoscere in rockerilla.com

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maniera approfondita tutto quanto riguardava i processi di creazione e produzione di musica originale. Così, dopo le scuole superiori, mi sono iscritto ad una scuola per diventare ingegnere del suono. Mi sono laureato a Los Angeles e lì ho iniziato a lavorare in uno studio, dove ho imparato un sacco di cose sulle tecniche di registrazione. Poco dopo ho iniziato a cimentarmi nella composizione, che per me ha significato imparare a suonare il piano. Da allora è partita la mia carriera di produttore e musicista a tempo pieno. Per anni ho scritto e realizzato solo musica strumentale, poi ad un certo punto, su un disco in cui occorrevano parti vocali per una canzone, ho iniziato anche a cantare e ho capito che potevo farlo. Sono cresciuto con un padre che è un cantante straordinario, rispettato nel mondo musicale per questa sua dote. Proprio per la sua ombra ingombrante io ho sempre esitato a cimentarmi nel canto, ma dopo averci provato in studio e aver ricevuto dei riscontri molto positivi, ho acquisito confidenza anche col canto. Da lì ho semplicemente continuato a lavorare, migliorandomi continuamente sia come produttore che come compositore, ingegnere del suono, pianista, trastierista e come cantante. Certo, mio padre mi ha influenzato moltissimo. La sua passione, il suo profondo amore per il rhythm & blues, per il gospel, per il soul e il funky, hanno avuto un impatto fortissimo sulla mia crescita artistica! Il primo artista che ho amato da ragazzino è stato Michael Jackson. Ho consumato a forza di ascolti il suo album Thriller! Mi sono anche appassionato all’hip hop quando avevo 13 anni, ma quello è un altro mondo, musicalmente parlando. Fare il DJ e diventare un cultore del crate-digging fin da giovanissimo, mi ha aperto tantissimo la mente nei confronti di tanti generi. In merito all’influenza di mio padre, solo ora mi rendo conto di quanto sia stato importante crescere con un musicista professionista e vivere in un ambiente circondato da grande musica. Quell’atmosfera e quella musica mi hanno influenzato, ma ne ho preso coscienza solo più tardi perché da giovane non me ne rendevo conto. Allora le mie principali influenze erano MJ, DJ Premier, Stevie Wonder, Curtis Mayfield, Jerry Wexler & Isaac Hayes. Con l’album d’esordio i Monophonics hanno proposto un funky rock sullo stile dei Funkadelic, Sly & the Family Stone. Sound of Sinning si ispirava al soul, al beat e alla psichedelia degli anni ’60. Il nuovo album invece sembra voler esplorare i rockerilla.com

territori smooth soul psichedelici degli inizi degli anni ’70, ispirandosi ad artisti come Marvin Gaye, Labi Siffre, Isaac Hayes: in particolare colpisce la vostra straordinaria abilità nell’interpretare ed esplorare differenti sfumature dell’universo soul. Io continuo ad essere sempre uno studente di musica ed io e i miei compagni amiamo diversi tipi di musica e di sottogeneri musicali. L’obiettivo con i Monophonics è quello di crescere e continuare a progredire e a spingere il suono sempre più avanti. Non amiamo ripeterci e fare sempre le stesse cose. La vostra abilità nell’utilizzare con disinvoltura diversi linguaggi musicali dimostra anche una grande cultura. Questa scelta di fare un disco ispirato al soul impegnato dei primi anni ’70, si riflette in qualche modo anche nei testi che trattano tematiche sociali o ambientali? Onestamente non è stata una cosa voluta da me o dalla band. Diciamo che è successo. Certo a questo ha contributo il momento che stiamo vivendo in tutto il mondo, in cui questi temi sono ormai all’ordine del giorno. Negli States ci sono un sacco di problemi e di divisioni sociali, e tutto questo finisce per pesare inevitabilmente nella testa di chi scrive, anche se io e i miei compagni cerchiamo, per quanto possible, di evitare che le influenze esterne e le situazioni contingenti ci impongano certi testi o certi temi. State per cominciare un tour mondiale, quali sono le vostre aspettative? Non vi preoccupa l’essere preceduti dalla reputazione di best soul live band? Pensate di toccare anche l’Italia con i vostri concerti? Abbiamo grosse aspettative e ci aspettiamo un tour ricco di momenti indimenticabili. I nostri fan negli States e fuori ci trasmettono sempre una grande energia. Non siamo assolutamente preoccupati, sappiamo di proporre un grande spettacolo! Al Bell, uno dei proprietari e gestori della Stax Records, ci disse che noi avevamo messo insieme uno dei migliori show che lui avesse mai visto. Ci piacerebbe venire in Italia quest’anno, ma dipendiamo da promoters e organizzatori. Se siete interessati a vederci fate pressione sui promoters locali. In questi anni abbiamo assistito ad una crescita e ad una affermazione sempre maggiore della scena soul mondiale. Ci sono stati artisti che hanno pubblicato brani che hanno dominato le classifiche, che sono stati insigniti di premi internazionali, ci sono etichette


specializzate in soul e funky, negli States e in altri paesi, come ad esempio la Finlandia, dov’è nata una vera e propria scena musicale soul. Cosa pensi di questo piccolo miracolo e quale artista hai apprezzato di più? Siamo molto contenti di assistere all’esplosione del soul, apprezzato da così tante persone al mondo. È una musica speciale che riflette così tanto dello spirito umano e porta un messaggio positivo per il mondo intero. Amiamo tutti questi nuovi artisti soul e non saprei citartene qualcuno in particolare. Ci piacciono molto le etichette come la Colemine, la Big Crown, la Daptone, la Penrose e la Timmion. Fanno cose grandiose. Per quello che mi riguarda queste sono le etichette top per il funky e il soul! Un’ultima domanda: c’è un artista con cui vi piacerebbe collaborare o duettare, magari dal vivo? Michael Kiwanuka, fa cose eccezionali veramente e siamo tutti affascinati e fan del suo sound!

MONOPHONICS It’s Only Us Colemine

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Monophonics sono oggi la più importante band di soul psichedelico. Non sono molti gli artisti che hanno scelto di cimentarsi in questo genere difficile, a cavallo tra black music e rock. Questo terzo lavoro si muove sui percorsi delle ballate dei grandi, come Marvin Gaye, Isaac Hayes e Labi Siffre. Apre il disco Chances, già pubblicato come singolo, il brano che maggiormente ricorda i loro precedenti lavori. Last One Standing è la canzone manifesto del disco con una seconda parte dilatata e aperta che introduce nell’universo sonoro di Kelly e soci. La title track è un soul lento ed intenso, ma sono le soul ballad conclusive All In The Family e Day By Day a riportare prepotentemente in primo piano la dimensione psichedelica del disco. GIGANTI SOUL. Gianni Tarello

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L’ascolto del mondo di Luca Pagani

BERNARD FORT “Il suono” non è che l’energia sotto-prodotta da un sistema Oppure: “Il suono è intensità nel tempo” O meglio: “Il suono non è che l’aspirazione al silenzio” Bernard Fort

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l paesaggio sonoro, l’ornitologia e il canto degli uccelli, l’insegnamento, la comunicazione di materie non esattamente ortodosse, la produzione di diversi lavori per radio e teatro, il rispetto della vita animale tramite la conoscenza e la ricerca. Il suono, come percezione esteriore ed interiore. Bernard Fort, attraverso il suo lavoro, è una delle maggiori risorse umane del panorama Europeo.

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ernard, per alcuni decenni ti sei occupato di investigazione del suono, ricerca, insegnamento. Questo ti avrà condizionato e non poco nel tuo modo di pensare al mondo. A che

punto sei? È abbastanza difficile dare una risposta! Ciò che è certo è che il mio lavoro mi ha portato a diverse cose: incontrare molte persone durante i numerosi concerti e viaggi e perpetuare perennemente contatti con i miei studenti, che mi hanno costantemente offerto confronto con un mondo giovane e costruttivo. All’inizio si hanno idee abbastanza precise su cosa si vorrebbe essere e su cosa si vorrebbe fare, poi le certezze nel tempo diminuiscono, mentre, di contro, aumentano le competenze… questo dà luogo ad una sorta di impressione permanente di assuefazione. E ci si rende conto che ci sono diversi modi di rapportarsi agli altri, per trasmettere, per far passare qualcosa. In questi giorni (febbraio 2020), camminando per le strade silenziose in Italia, mi sembra di avvertire una sorta di mormorio, una preghiera leggera, tanto che mi sembra rappresentare la fine del Secolo Breve del Rumore. C’è una connessione tra la percezione uditiva e il cervello? Mi sorprende questa cosa; adesso vivo immerso totalmente nella natura, e questa epidemia mi sembra un evento televisivo... e non immaginavo che la paura insediatasi avesse potuto modificare il suono del paesaggio di una città italiana... Il punto è capire se questo cambiamento è effettivamente reale o se è soltanto un altro modo di sentire la realtà. Per gli uccelli... John Cage era un esperto di micologia, tu sei un esperto ornitologo, vorrei chiederti se l’aver eseguito ricerche sul suono potrebbe portare ad aprirsi ad altre materie/interessi. Interessarsi di ornitologia non è un’attività chiusa in sé stessa, a sé stante. Studiando

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BERNARD FORT il canto degli uccelli e tutti i loro canti, noi possiamo riflettere, ad esempio, sulle questioni della comunicazione animale, ma anche sull’«animalità»; sulle nozioni di lingua e di musica. E possiamo riflettere sull’esatta collocazione dell’uomo nella natura. “Registrare” gli uccelli ci porta a viaggiare (esattamente come loro) e a incontrare persone molto diverse, di paesi e culture diverse. In secondo luogo, presentare il lavoro al pubblico rappresenta poi un’ulteriore modalità di incontro, che a sua volta, offre nuove modalità di arricchimento. Dopodiché arriva la domanda sulla creazione artistica basata su ciò che la natura ci offre, e quindi sul nostro modo di percepire l’arte, gli uomini e il mondo. Potresti gentilmente spiegarci quale importanza ha avuto John Cage su una generazione di compositori e musicisti? No, non riesco a spiegarne l’importanza; non più di quanto non riesca a spiegare l’importanza del lavoro dei Beatles nella musica e nella nostra società. Posso solo dire che queste cose hanno avuto un ruolo importante nel mio diventare un musicista. E John Cage ha confermato alcune intuizioni nei miei rapporti con le cose e con la professione dell’artista. La sua influenza non è

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molto grande in termini di creazione musicale, né rispetto al mio intrinseco modo di essere, ma ho trovato in lui chiaramente espressi dei sentimenti che erano già miei... è stato incoraggiante! Fractals/Brain Fever, sono due facce della stessa medaglia o le tue intenzioni si sono spostate dalla composizione “matematica” al field recording? Questi due brani rappresentano rispettivamente i miei inizi nella musica acusmatica e là, dove sono attualmente. Gli universi sonori sono cambiati (così come le tecnologie e le tecniche) ma per me la ricerca nell’ascolto, la ricerca nell’osservazione dei fenomeni naturali, sono sempre gli stessi. Sono anche sorpreso dal carattere astratto di Fractals e dalle figurazioni di Brain Fever, mentre il soggetto rimane sempre lo stesso, elaborato attraverso il mio ascolto. Quando ti ho conosciuto, ad Arles, anni fa, mi è venuta una domanda che non ti ho fatto: cosa sarebbe stata la tua vita senza l’insegnamento? Anche se ti ritieni “la grive solitaire” (il mughetto solitario) sembra sempre che tu mantenga un equilibrio, e inoltre hai una eccellente capacità di comunicazione. Ti è mai capitato qualche momento difficile nella tua vita di docente? Sì, hai ragione; insegnare è qualcosa che amo.

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Ciò che mi piace non è tanto l’esercizio di una qualche autorità sulle persone, quanto condividere ciò che amo e ciò che mi stupisce. Rappresenta anche il saper ascoltare gli studenti, il conoscerli non per portarli dove io stesso voglio, ma per portarli là dove io ritengo essi abbiano bisogno di andare. Non ho brutti ricordi di questa attività e l’ho esercitata tanto con i bambini quanto con gli studenti (universitari) o con gli adulti; aggiungo che ciò che in realtà voglio trasmettere non cambia in funzione né dell’età né degli sfondi sociali. In questi anni del Nuovo Millennio, le persone sembrano spostarsi e quasi migrare un po’ come fanno gli uccelli, c’è qualcosa che dovremmo imparare dalla sociologia dei volatili? Per gli uccelli, la migrazione rappresenta sia un’abitudine che una necessità. Per gli uomini essa è invece più occasionale, quasi una costrizione, il che è diverso che dire “naturale”. Ma attraverso questi fenomeni noi possiamo misurare l’importanza dei territori, delle famiglie, delle comunità e delle forme di cultura che in effetti esistono anche nella società degli uccelli. Ma non dobbiamo sempre basare le nostre teorie sulle “modalità di funzionamento” degli animali perché molti contesti e situazioni ci sfuggono completamente. Ciò che si applica ad alcuni ad esempio, non si applica necessariamente ad altri. Vorrei chiederti dei progetti in corso o imminenti... Sto elaborando un grosso lavoro nel quadro di un progetto europeo. Ti invito pertanto a dare un’occhiata qui: http://paysagesonore.eu Traduzione dal francese: Angela Zinno

BERNARD FORT Fractals / Brain Fever Recollection (Editions Mego)

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ractals è un lavoro di avvisi e segnali acustici, vibrazioni, trasmissione di informazioni provenienti da un’unica fonte, una frequenza. Il brano, di poco più di 21 minuti, gioca sul semplice effetto stereo, sui concetti di rotondità, profondità, voluminosità, sparizione del suono, silenzio apparente, deviazione dell’armonia. L’autore, e questo è il senso della musica acusmatica, risulta un osservatore degli eventi sonori, il manovratore e il demiurgo di un’unica esperienza. Fractals è stato registrato su nastro nel 1981. Brain Fever, il secondo brano, è una realizzazione di 18 minuti del 2017, quindi di 36 anni dopo, nonché il nome in inglese del cuculo indiano, così nominato a causa del suo canto insistente e prolungato, tanto da privare del sonno chi lo ascolta. Rappresenta, insieme all’uccello Seven Sister (in italiano il garrulo della giungla), il protagonista vivente di questa registrazione, in cui la doppia lettura suono elettronico in studio/registrazione sul campo è perfettamente mixata. Notti buie ma rumorose, dense di aria umida e fantasie oniriche. Luca Pagani

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LA BIOSFERA, LA NOSTRA CASA

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ph Davide Menarello, Costa Mar del Giappone, Vladivostok, Russia, ‘Build a Forest’, tour ecologico dei Satoyama

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n una illuminante chiacchierata, spaziando da Greta Thunberg a Samuel Taylor Coleridge, Enzo Scandurra ci conduce per mano attraverso il fragile intrico di relazioni che regola la vita nella biosfera, l’ambiente che abitiamo.

di Alessandro Hellmann

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Intervista con Enzo Scandurra iflettendo sul movimento Fridays For Future e su altre iniziative analoghe mi sono spesso chiesto se porre l’accento sul “cambiamento climatico” - essendo il cambiamento climatico l’effetto del problema e non la causa - non rischi di essere riduttivo o di offrire il fianco ai detrattori, spesso armati di arroganza semplificatrice e di una buona dose di malafede. Intendo dire: il livello di inquinamento, l’impoverimento della biodiversità o lo sterminio delle foreste sono fatti incontestabili. Il cambiamento climatico si presta invece ad essere interpretato non come la conseguenza dell’azione dell’uomo ma come il risultato di un ciclo naturale, già manifestatosi in altre epoche. Strettamente sotto il punto di vista dell’efficacia comunicativa, non stiamo mirando al bersaglio sbagliato? Che cosa ne pensi? Molto giusta la tua osservazione; il clima è un sistema complesso e come tale dipende da molti fattori che retroagiscono tra loro dando vita a nuove proprietà dette “emergenti”. Per di più il clima è cambiato molte volte nel corso dei milioni di anni. Da anni però si parla di cambiamento climatico con esclusivo riferimento all’attività antropica che ne sarebbe il principale soggetto. Credo che sarebbe più opportuno spostare il dibattito sull’equilibrio della biosfera che oltre ad essere dovuto dalla produzione di CO2 è comunque correlato ad altri fattori quali quelli da te citati, ovvero, più

precisamente, all’aumento di entropia. Restando sul tema della comunicazione, delle false narrazioni e della percezione del problema, perché secondo te l’apocalisse ambientale non viene trattata dall’opinione pubblica con almeno la stessa urgenza di un virus, pur generando un numero di morti confrontabile, dal momento che solo in Italia secondo l’AIOM ogni giorno muoiono 485 persone per tumore? Perché apparentemente, ripeto apparentemente, non riguarda da vicino le persone del “villaggio globale”. Faccio un esempio: se in un piccolo villaggio di pescatori ci si accorge che la quantità di pescato diminuisce, si corre subito al riparo magari modificando la larghezza delle maglie in modo da non pescare pesci piccoli (che servono alla riproduzione della specie). Ma questa cognizione manca agli abitanti del “villaggio globale”, ovvero del pianeta, così che nessuno si sente in dovere di fare qualcosa: ci penserà qualcun altro, ovvero nessuno. I governi sono ancora in grado di determinare, attraverso la politica, nuovi modelli di sviluppo o sono ostaggio delle lobby che rappresentano gli interessi economici delle multinazionali? Le due risposte sono entrambe vere: i governi potrebbero fare molto ma, quand’anche decidessero di prendere provvedimenti (vedi il fallimento della tassa sulla plastica monouso), ne sarebbero certo ostacolati da quelli che chiamiamo poteri forti (e interessati). Per questo è necessario che (anche) gli abitanti singoli si rendano coscienti della gravità della crisi e prendano provvedimenti, isolatamente o

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del “vecchio marinaio” salpa un giorno verso Sud per raggiungere l’Equatore. Ma una tempesta trascina la nave verso il Polo Sud, dove non si scorge creatura vivente. Ad un tratto compare un grande uccello marino, l’Albatro, volatile di buono auspicio che inizia a seguire la nave nel suo ritorno verso nord, un po’ per gioco, un po’ per il cibo che i marinai gettano nel mare. Il “vecchio marinaio” uccide l’Albatro tra le dannazioni degli altri marinai che profetizzano una sventura. D’improvviso il vento cessa di tirare, il mare si trasforma in un liquame putrido, i marinai diventano muti e incapaci di comunicare; il “vecchio marinaio”, per punizione è condannato a portare sul suo collo il cadavere dell’Albatro. La maledizione colpisce la nave costretta a vagare senza mai poter approdare su qualche riva, finchè, un giorno, il marinaio diventato nel frattempo vecchio, osserva incantato delle creature marine danzare nell’acqua. Lo spettacolo lo commuove e l’incantesimo si rompe facendo cadere il cadavere dell’albatro dal collo del vecchio marinaio. Nata non certo come una ballata ecologica, oggi possiamo interpretarla come una ballata di una grande saggezza sistemica. Il sortilegio che affligge la nave si interrompe solo quando il marinaio trova un’empatia totale con la natura che lo riscatta dal delitto insostenibile compiuto. Il marinaio viene sottratto al suo maleficio non per un pentimento avvenuto repentinamente e coscientemente. Lo stupore e la commozione del vecchio marinaio sono qualcosa di inaspettato rispetto alla logica del finalismo e del tecnicismo. Se quella maledizione fosse accaduta ai tempi nostri si sarebbe consigliato al marinaio di imbarcarsi su una nave e appena scorti i serpenti marini chiedere loro perdono per espiare il senso di colpa. Ovvero una scorciatoia dettata da una finalità estroversa con il solo scopo di far cadere l’albatro dalle sue spalle. In realtà la benedizione del marinaio appare piuttosto un’esperienza non premeditata, ovvero un’azione che coincide con una scoperta, con una meraviglia non pianificata. Qualcosa che ha a che vedere con il “sacro e la sacralità” della natura, un carattere autenticamente religioso, misterioso, non finalistico e inconsapevole. Il sacro non può essere conosciuto intenzionalmente, ma solo riconosciuto e accettato e questo riconoscimento è intriso di umiltà. L’atto della benedizione inconsapevole guarisce la visione finalistica del Vecchio Marinaio e la sua colpa, vale a dire l’azione profanatrice di uccidere un albatro. In qualche modo l’abbandono della finalità cosciente è qualcosa che può essere scambiata con l’empatia più profonda senza pensiero.

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ph Davide Menarello, Costa Mar del Giappone, Vladivostok, Russia, ‘Build a Forest’, tour ecologico dei Satoyama

in gruppi (per esempio: rinunciare all’auto privata, impedire la cementificazione dei suoli, riciclare e fare raccolta differenziata, coltivare orti; insomma tornare a stili di vita più sobri). Il sistema economico dominante dell’Antropocene, che punta alla standardizzazione e all’omologazione nell’ambito di un modello “a crescita infinita”, è compatibile con la tutela della biodiversità? Un noto economista, Kenneth Boulding, diceva: “Chi crede fermamente che la crescita esponenziale può durare in eterno in un mondo finito o è un pazzo o è un economista”. Credo che la frase sia esauriente. In natura, diceva Gregory Bateson, non ci sono scorciatoie. La crescita infinita aumenta l’entropia del sistematerra poiché corrisponde a una produzione infinita che per il Secondo Principio della termodinamica, accelera la produzione di entropia del pianeta. La biodiversità è la riserva di ridondanza e flessibilità della biosfera per fronteggiare minacce ambientali. La monocultura e la monocoltura rappresentano un impoverimento della biosfera, un riduzionismo che la Natura aborrisce. C’è chi ritiene l’insetto robot una soluzione adeguata al problema della moria delle api rispetto a quella assai più ovvia della messa al bando dei neonicotinoidi. Possiamo sfatare in maniera definitiva la credenza che la tecnologia possa porre rimedio alla crisi ecologica? Le fantasticherie sulla tecnologia sono infinite: perché - si farebbe prima - non sostituire allora l’essere umano con i robot? I neonicoitinoidi vanno assolutamente proibiti perché causano la morte delle api. Una antesignana della moderna ecologia, Rachel Carson, scrisse un libro molto importante nel 1962, Silent Spring, in cui denunciava l’uso dei pesticidi. Allora, siamo nel 1962, si usava molto il famoso DDT per uccidere le mosche. Questo prodotto era invero molto efficace nella lotta contro le mosche, ma lo era altrettanto nel produrre il cancro. La tecnologia può (forse) al massimo risolvere i problemi che essa stessa ha creato. Pensando al lascito culturale dei nativi americani e di altre popolazioni indigene legate alla terra da una relazione simbiotica, volevo chiederti se ritieni che una qualche forma di consapevolezza spirituale, intesa in senso non religioso, e di sentimento del sacro siano indispensabili alla comprensione del complesso equilibrio della biosfera, con tutte le sue delicate interrelazioni. Assolutamente sì. Un esempio per tutti: La ballata del vecchio marinaio di Coleridge, studiata sui banchi della scuola, ci insegna che solo un atteggiamento empatico con la Natura può scongiurare i disastri. La storia è nota: la nave


ENZO SCANDURRA, ILARIA AGOSTINI, GIOVANNI ATTILI Biosfera, l’ambiente che abitiamo DeriveApprodi

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l saggio, pubblicato nella collana Habitus Environmental Humanities, parte dalla definizione di ecosistema e biosfera, esplorando i principi che ne regolano il delicato equilibrio e passando attraverso la demolizione sistematica dei molti falsi miti in circolazione, per poi approdare all’urgenza di un inevitabile e radicale ripensamento del modello di sviluppo occidentale. La solida base scientifica da cui si diramano le direttrici tematiche e la molteplicità dei riferimenti non intralciano né appesantiscono la fruibilità e la scorrevolezza del testo, che ha la capacità di innescare riflessioni dal respiro lungo e lasciarle sedimentare. Si affondano le mani nella fisica, ma la trattazione è tutt’altro che estranea alla filosofia e alle altre discipline che congiuntamente, in un approccio olistico, ci parlano della vita. Una lettura indispensabile, al termine della quale ci scopriamo più consapevoli e più ricchi. Alessandro Hellmann

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a disperazione non serve a nulla quando la realtà offre ancora margini di speranza. La disperazione non è che una forma di negazione, che spinge all’inerzia. Non c’è tempo per disperarci. Al Gore

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l Gore si batte per l’ambiente da molto tempo e lo fa su diversi fronti, istituzionali, politici e non. Di famiglia democratica, dopo il Vietnam - che lo sconvolse profondamente - ha fatto il giornalista e da qui le sue abilità comunicative, per poi scegliere la carriera politica che lo ha portato ad essere Vice Presidente di Clinton. Fu determinante per la firma degli USA del protocollo di Kyoto nel 1997 e degli Accordi di Parigi del 2015, prima dell’avvento al potere di presidenti americani pronti a disattenderli. Nel 2006 il docufilm Una scomoda verità, premiato con l’Oscar, scioccò il pubblico mondiale e fu tacciato di eccessivo allarmismo. Nel corso dell’ultimo decennio molte delle cose profetizzate allora sono accadute. Nel 2007 Al Gore ha ricevuto il premio Nobel per la pace, insieme al comitato intergovernativo per i cambiamenti climatici dell’ONU, per gli «sforzi per costruire e diffondere una conoscenza maggiore sui cambiamenti climatici provocati dall’uomo e per porre le basi per le misure necessarie a contrastare tali cambiamenti». Nel 2017, dopo diversi libri, il secondo docufilm - Una scomoda verità 2 - esce questo volume, pubblicato ora in italiano da Rizzoli, per riassumere quanto già detto in precedenza, fare il punto della situazione e porre tre domande: dobbiamo cambiare? Possiamo cambiare? Cambieremo? Ovviamente le risposte sono: sì dobbiamo, sì possiamo e sì lo faremo. Forse. Altrimenti… La prima metà del libro ci informa e istruisce con immagini, grafici e presentazioni scientifiche rese

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chiare e comprensibili a tutti. Molto interessanti i contributi di persone che in diverse parti del mondo stanno già affrontando gli effetti dei cambiamenti climatici. La seconda metà del libro è un manuale d’azione per imparare la scienza e contribuire ad aiutare a risolvere la crisi climatica, in pratica ci consegna gli strumenti per diventare parte attiva ed essere in grado di fare e dire qualcosa di costruttivo per collaborare alla soluzione del problema. Perché è ora di fare qualcosa, dal 2001 ogni anno è “l’anno più caldo”, fateci caso. Caldo e freddo estremi, scioglimento di poli e ghiacciai, piogge torrenziali, uragani, tifoni, incendi sempre più violenti ed estesi…e ancora esistono persone che negano l’evidenza. Possibile? Il Climate Reality Project, di cui Gore è presidente, fa proprio questo. Crea comunicatori capaci di entrare in contatto con scettici e negazionisti, scrivere lettere ai giornali, intervenire sui social media, sollecitare risposte da politici a tutti i livelli, insegnare ai bambini e ai ragazzi e via discorrendo. Naturalmente non è sufficiente, infatti, viene anche incoraggiata e promossa la creatività nel proporre idee per la soluzione del problema. La speranza è che le nuove generazioni studino materie scientifiche, prendano in mano la situazione e creino realtà virtuose che possano porre un freno all’inquinamento e allo sfruttamento delle risorse per permettere al pianeta di sanarsi. Gore cita spesso una frase di Wallace Stevens: “Dopo l’ultimo no arriva un sì, e da quel sì dipende il futuro del mondo”. Impariamo a dire sì, ad agire di conseguenza e stiamo a vedere che succede. Eleonora Serino climaterealityproject.org sezione italiana su Facebook - Climate Reality Europe Team ITALY

AL GORE La verità al potere Rizzoli

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CHRISTOPHER KLOEBLE Quasi tutto velocissimo Keller

La copertina ha un che di fanciullesco con tutte quelle automobiline che paiono tratte da un vecchio album di figurine e non di rado è proprio la sensazione di leggere una favola di altri tempi quella che si prova mano a mano che Christopher Kloeble procede nel racconto delle scabrose, drammatiche, picaresche, incredibili peripezie che vedono protagonisti Albert, un giovane universitario cresciuto in orfanotrofio e ossessionato dal desiderio di scoprire l’identità della madre; Fred, il sessantenne padre “eroe per caso” che vive in totale serenità il suo ritardo mentale; e i rispettivi e scombiccherati antenati. Non fosse che Quasi tutto velocissimo mescola abilmente l’atmosfera della fiaba con i toni molto meno lievi del romanzo storico, l’intreccio oscuro di un noir e i colpi di scena della storia on the road, così da tenere sempre viva l’attenzione del lettore e dispensare aforistiche briciole di saggezza come “la verità è sempre quella a cui si decide di credere”. Elio Bussolino

DANIELE BRESCIANI

EMILY GUNNIS

Anime Trasparenti Garzanti

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enna cruda, per descrivere una vicenda ai margini, in periferia, fatta di protagonisti tipizzati con dovizia di particolari, e qui sta il principale merito dell’autore. Gloria è un’idealista che a Milano realizza un asilo per figli di immigrati senza permesso di soggiorno. La “Casa Dei Cento Bambini” è un simbolo di libertà, un sogno sfociato in un’iniziativa umanitaria, ma anche irregolare. Dario Miranda è ispettore di polizia, un amico, un amante: le regole gli vanno strette, le indagini sono ufficiose, le apparenze ingannano, sempre. Accade dunque che Gloria finisce in ospedale per un incidente, ma non può essere un semplice pirata della strada, c’è troppa carne al fuoco, c’è la morte di un bambino, di una madre che di mestiere fa la prostituta, di un piccolo delinquente. Tutto insieme. Tutto collegato. Indagine complessa, paesaggi lugubri, noir, vicende terribili, inquietanti, crudeli, che fanno pensare. Thriller avvincente. Giancarlo Currò

La figlia del peccato Garzanti La giornalista e madre single Sam Harper scopre alcune toccanti lettere di una ragazza di nome Ivy collegate a un istituto per ragazze madri gestito da suore che sta per essere demolito. Sam, da brava giornalista, si rende conto che c’è una storia da raccontare e inizia la sua corsa contro il tempo perché le prove stanno per essere sepolte sotto le macerie. Romanzo d’esordio che si basa su inquietanti fatti realmente accaduti in Irlanda e forse anche altrove. La storia non è nuova, è già stata portata anche al cinema in film come Magdalene o Philomena, ma bisogna fare i complimenti a Emily Gunnis che scrive con tale convinzione ed emozione che è difficile separare i fatti dalla finzione, i due si fondono perfettamente insieme dando luogo a una lettura che coinvolge emotivamente. Le lettere sono la parte “storica” del romanzo ed è straziante pensare che certe pratiche “medievali” siano in realtà non molto lontane nel tempo. Eleonora Serino

CARTA STAMPATA

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GIOVANNI BITETTO Scavare Incursioni/Italo Svevo

Il giovanissino Giovanni Bitetto, pugliese classe 1992, esordisce nelle vesti di narratore con Scavare, dove racconta la storia dell’amicizia tra un filosofo marxista e uno scrittore nichilista; amicizia prima cementata da passioni e motivazioni comuni (coalizzarsi contro la banalità e la brutalità del contesto provinciale che li circonda), poi avvelenata dal morbo dell’ambizione e della competizione, infine chiusa dalla prematura scomparsa del filosofo. Bitetto usa la prima persona e imposta il romanzo come lungo monologo notturno che a tratti si trasfigura in un dialogo surreale con il fantasma del defunto, seguendo le orme stilistiche di Roberto Bolaño e del suo Notturno Cileno; la costruzione narrativa stupisce per l’originalità e anche per la vastità delle tematiche che riesce a sviscerare con un acume soprendente. Francesco Buffoli

LUCA POLLINI La Trasgressione Necessaria Mimesis

La storia e le vicende di Andrea Valcarenghi e di Re Nudo rivivono intensamente nel racconto di Luca Pollini. Un viaggio narrativo controcorrente, che parte dai Provos del ’67 per raccontare una forma di lotta e di costanza singolare nel nostro Paese. Passaggi inevitabili per il ’68, distanze, riflessioni, e poi per il ’77, speranze, disillusioni. “Ma il Re è nudo” è il grido di un bambino nella favola di Hans Christian Andersen, l’unica voce coraggiosa di denuncia contro gli eventi di cui nessuno vuol parlare. Re Nudo diventa anche un festival pop, esperienza conclusa negativamente a Parco Lambro nel ’76. Un momento dopo, il primo viaggio in India: Andrea Valcarenghi diventa Sannyasin di Osho e inizia il suo percorso spirituale. Col tempo, Re Nudo cambierà inevitabilmente forma riuscendo comunque a mantenere la sua identità. Una vita senza conformismi, una storia di coerenza, di forza e determinazione. Un tributo necessario. Giancarlo Currò

JONATHAN ROBIJN Congo Blues Marsilio

Morgan, pianista jazz di Bruxelles di origini congolesi, cresciuto in una famiglia adottiva belga, non ricorda nulla della sua infanzia ma un incontro “casuale” con una giovane e misteriosa donna bianca lo spingerà a porsi domande e cercare risposte. Dio ha creato il bianco e nero, il diavolo ha creato le mezze caste: queste sono le parole con cui il primo ministro belga Joseph Pholien avrebbe in seguito descritto il rapporto tra uomini bianchi e donne nere nel Congo belga. Fu durante il suo periodo con Medici senza frontiere che Robijn venne a sapere per la prima volta di un’istituzione nel sud del Ruanda dove, 50 anni prima, i bambini con padre belga e madre congolese avevano trascorso la loro infanzia. Nei mesi precedenti l’indipendenza del Congo nel 1960, questi bambini di razza mista furono evacuati in Belgio in aereo e la maggior parte di loro non ha mai più visto genitori, fratelli e sorelle biologici. Proprio come Morgan. Eleonora Serino

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MASSIMILIANO VIRGILIO Le Creature Rizzoli

Tre giovanissimi figli di immigrati illegali abbandonati dai genitori sopravvivono poiché la loro sventura significa profitto per chi vive ai margini della criminalità della periferia partenopea. La Leonessa e lo spregevole figlio soprannominato il Gemello, addestratore-aguzzino di cani da combattimento, ospitano a pagamento l’ucraino Dimitri, il senegalese Ismail, ed Han, un ingenuo cinesino quattordicenne che attende invano il ritorno della madre. Questi è l’eroe del romanzo: con lui viviamo il dolore del distacco dai genitori separati, del ritrovarsi solo ed alieno in mezzo a degrado e violenza. La fortuna di Han è che non si lascia del tutto fagocitare dall’ingranaggio perverso di cui, suo malgrado, entra a far parte. Lui, con i suoi occhi a mandorla, e la vulnerabile Nina, capelli rosso fiamma e corpo costretto in un busto di gesso, si vogliono bene da subito. Sapere che l’altro esiste basta per trovare la forza di fuggire da un mondo folle ed atroce fatto di morte, cemento e lerciume, rischiando la vita nel mezzo di una spietata guerra tra gang. Dalla cima del rovente Vesuvio si scorge il blu del mare. Teneri germogli d’umanità. Emi Hey

CARTA STAMPATA


SEAN WHITE

VEIT HEINICHEN

La Costellazione del Dragone Piemme/Mondadori

Non è un caso che stia ascoltando musica tradizionale cinese durante l’avvincente lettura del libro di Sean White: mi rasserena, facendomi sognare di un paese che da sempre abita nel mio immaginario. Nel frattempo Sean, al secolo Zhang Changxiao, starà probabilmente ascoltando Fabrizio De André, il musicista che lo ispirò a scrivere un libro sui cantautori italiani pubblicato con sorprendente successo in Cina. Da qui le illustri prefazioni di Mogol e Vecchioni, entusiasti del desiderio dell’autore d’infrangere le barriere che persistono tra italiani ed immigrati cinesi. Raccontando della vita nelle Chinatown del nostro paese, ci illumina candidamente sulle tradizioni di una piccola fetta popolo costretto dalla povertà a cercare fortuna altrove (come tanti dei nostri nonni). Trovando affinità che ci uniscono e sottolineando “difetti” reciproci, l’autore getta un ponte importante per una futura convivenza armoniosa e proficua. Embrace the dragon. Emi Hey

Borderless Edizioni e/o Senza confini e soprattutto senza scrupoli: è così che politica e malaffare procedono spesso di concerto nel mondo reale, e se quello raccontato nel nuovo romanzo dello scrittore tedesco/triestino Veit Heinichen non è la sua rappresentazione più fedele, certo si presenta tra le più verosimili. Frutto di una decennale e meticolosa ricerca storica, Borderless ha infatti i tempi, la trama e i personaggi del thriller, ma può essere letto anche come un ampio reportage giornalistico sui loschi maneggi che da sempre fanno da retroscena agli atti della politica interna e internazionale, l’ennesima e cinica allegoria del motto di Vegezio forse più seguito e applicato dalle cancellerie di tutto il mondo: si vis pacem, para bellum. Traffico di capitali, esseri umani, armi e influenze politiche: questo è dunque l’humus in cui nascono e si sviluppano le imprese criminali senza frontiere contro le quali si batte la tostissima commissaria Xenia Zannier, una superpoliziotta facilmente destinata a far scrivere ancora di sé. Avvincente. Elio Bussolino

TULLIO AVOLEDO

ALBERTO REZZI

Nero come la notte Marsilio

Il crollo delle ideologie è un trauma dal quale la società contemporanea faticherà a riprendersi e trovare una nuova stabilità: basta osservare con un po’ di disincanto come la politica di questi anni abbia già applicato nei fatti modelli di soluzione che la fiction è andata nel frattempo elaborando. Prova ne sia l’atmosfera plumbea che circonda il primo cimento di Tullio Avoledo con la crime story, un romanzo che attinge cinicamente alla palude di paure, pregiudizi e perniciosi luoghi comuni in cui politici e media sguazzano ogni giorno senza il minimo ritegno. Ebbene, qui ne escono tutti con le ossa rotte e se tutto ciò va a merito dello scrittore friulano, certo non basta a suscitare neppure quel po’ di empatia che si è soliti riservare all’eroe della situazione, nel presente caso un clinteastwoodiano poliziotto espulso con disonore dalle forze dell’ordine, perché tutt’al più serve ad imporre un ritmo sempre più serrato e febbrile alla lettura. Fino ad un epilogo sorprendentemente aulico. Elio Bussolino

Clapton e Layla - Un album, una storia, un poema d’amore rock Arcana

Curioso e opinabile modo di raccontare la genesi di un capolavoro, quello scelto da un autorevole esegeta di Clapton qual è Alberto Rezzi. Il suo incondizionato amore per Layla (and Other Assorted Love Songs) lo ha spinto infatti a trasfigurarsi nella creatura di fantasia generata dalla disperata relazione sentimentale che ha ispirato quello storico album. Un artificio letterario, il suo io narrante, che può anche confondere, ma che certo non inficia la veridicità di fatti e personaggi. Elio Bussolino

ALESSANDRA IZZO She Rocks! Vololibero

15 giornaliste musicali italiane raccontano con passione la loro interessante esperienza, dal colpo di fulmine giovanile per la musica alle longeve e gratificanti carriere professionali. Donne che, a modo loro, hanno inseguito e vissuto il proprio destino, senza perdersi d’animo in un ambiente tenacemente maschilista, ma anche cogliendo a piene mani l’opportunità di avere accesso ad un mondo decadente ed elitista intriso di testosterone. La donna è un mondo rock. Emi Hey

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OTHER LIVES for Their Love PIAS

ituals e Tamer Animals ci erano piaciuti tantissimo, frutto del lavoro di una band capace di stendere un mood precisissimo. Malinconia, ma anche un senso drammatico di smarrimento. Poche altre band sono riuscite in questo, basti pensare al miglior disco dei compianti Midlake o, per cambiare completamente rotta, all’esordio degli Interpol. For Their Love si è fatto aspettare a lungo, ma l’attesa è ripagata da un album di dolorosa bellezza. L’uso dei fiati stende una coltre compatta di suono; il cantato di Jesse Tabish si fa spesso attendere a lungo, ma la sua voce è il bilanciere attorno al quale si stendono

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ALBUM DEL MESE


DA Stillwater, Oklahoma PER FAN DI Midlake, Great Lake Swimmers, Shearwater ASCOLTA Sound Of Violence, Lost Day, We Wait queste dieci nuove canzoni. In questi surreali giorni di stallo la musica degli Other Life si fa straniante e si appiccica addosso inesorabile. Sound Of Violence rasenta già la perfezione, con una manciata di accordi arresi a un tappeto d’archi. Perfino il chorus, con la luce che riesce a far entrare dallo sfondo, riesce a strapparlo da uno strazio puramente melodico; la title track è anticipata da uno strumentale etereo che cambia colore e ritmo. La voce ne completa il viaggio, su una melodia ondulata e suadente. Who’s Gonna Love Us si aggrappa agli accordi di un pianoforte senza riuscire a staccarsi dal vortice sonoro che monta sullo sfondo, con cori e archi intrecciati finemente. SEMPLICEMENTE MERAVIGLIOSO. Paolo Dordi

ALBUM DEL MESE

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RUFUS WAINWRIGHT Unfollow The Rules

S BMG

i fa in fretta a parlare di figlio d’arte ma Rufus Wainwright, da quell’immenso esordio di oltre vent’anni fa in poi, ha letteralmente ridefinito il pop. Andando anche oltre, muovendosi con disinvoltura tra l’opera e il teatro. La voce lirica, gli arrangiamenti incredibilmente toccanti, la qualità di una scrittura mai banale, lo sguardo attento a un’America deteriorata e corrotta: il talento di Rufus scorre su queste vene. Unfollow The Rules fa ritornare a galla l’attitudine (e i luoghi) degli esordi, tra amanti persi nelle notti di Los Angeles e gli eccessi affamati. Nella musica di Wainwright si annidano interventi musicali differenti, tra le acustiche, chiaramente il pianoforte, gli archi, i cori articolati e un senso trionfante di bellezza. Qualcuno potrà obiettare che la sobrietà non sia la caratteristica più feconda di Wainwright, ma è una scelta consapevole che si diluisce con il crescere degli ascolti. Non abbiamo ancora parlato delle canzoni, ma non è una dimenticanza: pescando quasi a caso ci si trova di fronte alla bellezza lirica di Damsel In Distress, il pop nelle sue massime espressioni, alla toccante Romantical Man (che fa svegliare le atmosfere morbide di Poses), e la surreale bellezza di Only The People That Love, con la voce di Wainwright che rasenta la perfezione. INCREDIBILE BELLEZZA. Paolo Dordi

ANNA BURCH

BADD KARMA

If You’re Dreaming

On Fire

Heavenly Il secondo album di Anna Burch, scritto in larga parte durante il tour di Quit the Curse, rappresenta un notevole cambio di rotta per la musicista proveniente dal Michigan: dove il suo primo lavoro era un urgente concentrato di melodie pop energiche, chitarre vibranti ed esuberanti armonie vocali, If You’re Dreaming è più sognante, morbido e rilassato, merito anche della collaborazione con Sam Evian, produttore dal tocco elegante e dalla propensione alle melodie di sapore sixties. Canzoni finemente arrangiate più riflessive che, con dolcezza e malinconia, raccontano di isolamento, stanchezza e desiderio, ma anche della necessità di restare vicini e di avere una ricca vita interiore. DELIZIOSO. Francesco Amoroso

ROAR! La formazione greca di hard rock melodico dei Badd Karma si rivolge ai fan di Rainbow, Dio, Yngwie Malmsteen, Riot, Heaven and Hell, Eclipse, per cui sin dalle premesse rivela le proprie intenzioni; il sound appare datato e ingenuo sin dal primo riff, tanto da farci domandare immediatamente il senso di queste operazioni ancora oggi, nel ventesimo anno del terzo millennio. Evidentemente, c’è ancora un pubblico che ha voglia di fare headbanging su assoli elaboratissimi e improbabili distorsioni, speriamo se non altro per finalità ludiche di pura goliardia, che ci sta sempre. Noi, tuttavia, augurandoci di non incorrere in un qualche bad karma, ci sentiamo di definirli RINUNCIABILISSIMI. Valentina Zona

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LUCINDA WILLIAMS Good Souls Better Angels

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Highway 20/ Thirty Tigers on serviva la minaccia di una pandemia planetaria per dirci che questi non sono tempi da indurre all’ottimismo e le conversazioni domestiche tra Lucinda Williams ed il marito Tom Overby che sarebbero all’origine delle canzoni di Good Souls Better Angels non potevano, dunque, che riflettere la generale cupezza di umori generata dal quotidiano racconto di conflitti politici e sociali, catastrofi climatiche, stragi terroristiche e abietti abusi contro le persone. Tali “amenità” sono la polpa dei dodici nuovi capitoli (diciassette nel supporto in vinile) che vanno ad aggiungersi al suo voluminoso e straordinario canzoniere, ma quel che per altri sarebbe stata un’ottima scusa per scivolare nello scoramento e nella depressione qui diventa invece un’opportunità per digrignare i denti, affilare la rabbia, resistere appellandosi a quel po’ di ostinata speranza, se non addirittura al diavolo in persona, che ancora possa arginare la rassegnazione e scongiurare la capitolazione della specie umana. Ecco allora i suoni aspri, le immagini bibliche, i giudizi espliciti dei testi e l’enfasi drammatica della voce che contrassegnano un lavoro dietro al quale non è difficile riconoscere i profili di Robert Johnson, dei Public Enemy e dei Rage Against The Machine. E ritrovare la Lucinda Williams che SI FA AMARE OGNI VOLTA DI PIÙ. Elio Bussolino

BARRENS

BASIA BULAT

Penumbra

Are You In Love?

Pelagic Debutto assoluto per gli svedesi Barrens, formazione dedita ad un post-rock classico che viene spesso sporcato da increspature elettroniche. Nonostante la presenza in formazione di diversi membri degli Scraps Of Tape, altra band svedese praticante lo stesso genere musicale, il trio propone una rivisitazione più angusta e plumbea dell’estetica strumentale. Penumbra è un’opera densa, quasi magmatica che scorre con un incedere inesorabile verso territori lunari: in tal senso le atmosfere misteriose di Grail Marker diventano il manifesto sonoro di un gruppo che non cede mai alla tentazione di accontentarsi di soluzioni sonore banali. UN LAVORO IMPECCABILE.

Secret City Prodotto da Jim James dei My Morning Jacket, il nuovo lavoro della cantautrice canadese Basia Bulat segna il suo completo raggiungimento della maturità artistica. Forte di premi Polaris e nomination ai Juno, la Bulat si rivolge ad un pubblico molto vasto e incline al mainstream. Strofe e ritornelli decisamente catchy, quindi, caratterizzano gran parte dei brani in scaletta. Non di meno, la scrittura e gli arrangiamenti risultano raffinati e ricercati, con delicate pennellate folksy a base di chitarre acustiche ed autoharp. Un bell’album di pop intimista, piacevole e seducente. FOLK POP DAL CANADA. Simone Bardazzi

Alessandro Bonetti

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LA PRIEST Gene Domino

I

ncorreggibile come ai tempi dei Late Of The Pier. Salace come un istrione navigato che coi suoni (e la voce) ci sa fare. Che vi aspettavate da un artista fuori schema come LA Priest? La formula stravagante di Sam Eastgate è la sua forza, si è perfino industriato nella costruzione di una drum-machine modulare (suo antico pallino) denominata Gene, proprio come questo nuovo album arrivato a distanza di quasi un lustro dall’ottimo Inji. I 150 circuiti elettrici impiegati dal Nostro per coronare il suo sogno tecnologico sembrano funzionare a perfezione quando incontrano le sue mani smaliziate e capaci, vettori di hypno-beat tentacolari e movenze electro-funk degne d’un Prince cibernetico insignito di una nuova carica erotica. Si ascolti Beginning, il brano che apre le danze di Gene, e lo si lasci entrare in circolo col suo groove circolare pensato a riscaldare i sensi fra spirali d’impulsi magnetici. Nei sinuosi Rubber Sky e What Moves si ritrovano i geni eterocliti della forma ritmica secondo LA Priest. Altra cosa sono le stralunate posture post-Kraut di Monochrome, What Do You See e Kissing Of The Weeds, appartengono al lato più dadaista e viscerale dell’autore, lo spigolo acuto che raggiunge le timbriche granulari della vibrazione sonora e dell’armonia nuda. GENIACCIO CHE NON È ALTRO. Aldo Chimenti

BEN SERETAN

BOCEPHUS KING

Youth Pastoral

The Infinite &The Autogrill Vol.1

Whatever’s Clever Il chitarrista newyorkese continua, con il nuovo lavoro, il percorso di avvicinamento a sonorità più delicate e accessibili, già intrapresa con il precedente Bowls Of Plums del 2016. In Youth Pastoral, molto influenzato dalla morte dell’amica e collaboratrice, la scultrice Devra Freelander, Ben racconta la California bigotta della sua infanzia e il successivo distacco dalla religione. Mixato da Will Stratton, il lavoro alterna brani dallo stile sperimentale a canzoni più immediate e melodiche, tutte comunque caratterizzate dall’inconfondibile “gioia estatica” del suono di Seretan e dalla convinzione che si possa trionfare su ogni avversità solo attraverso la musica. POTENTE CONFERMA. Francesco Amoroso

Appaloosa Noi italiani siamo così inclini a piangerci/ inveirci addosso da restare poco meno che basiti quando uno straniero si profonde in lodi sperticate per il Belpaese. Sentite il canadese James Perry, aka Bocephus King: “Qualunque cosa facciate in Italia la fate meglio di chiunque altro”. E ascoltate gli omaggi che, con un gruppo di illustri “gregari” italiani, rende a Faber (Creuza de Ma) e Ivan Graziani (Lugano addio) in un album dedicato al genio immortale di Giacomo Leopardi. Originali di classe e cover amorevoli ancor più che deferenti verso una tradizione autoriale degna di figurare accanto a quella (da Dylan e Van Morrison a Tom Waits) che ha informato la sua scrittura musicale. SONGWRITER A TUTTO TONDO. Elio Bussolino

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HEXVESSEL Kindred Svart

M

at McNerney, musicista inglese trapiantato in Finlandia, ha un pedigree eccellente ed un talento irrorato da luce e tenebre. Da un decennio, attraverso gli Hexvessel, incanala la sua energia di druido in quello che viene definito come forest psichedelic rock. Con Kindred ritorna ad un sound più esoterico senza mai rinunciare alla melodia, pozione ancor più stregante qualora unita alla sua suggestiva voce. In quest’album la commistione di folk e rock progressivo, influenzata sia dal prog britannico dei primi anni ’70 (semi-acustici flash dei primi Genesis) che dalle free-jam californiane degli anni ’60 (l’emotività incandescente dei Doors, i rituali magici), s’arricchisce d’altri intriganti retaggi sonori. Le ballate, da sempre tra gli ingredienti più potenti della band, evocano spiriti di antiche e mai sopite divinità come Dead Can Dance e Coil (di cui coverizzano la stupenda Fire Of The Mind). Ed ancora, spettri sporchi di jazz e blues con l’evocativa tromba in Bog Bodies e nell’incipit di Phaedra. I mistici tintinnii di Sic Luceat Lux s’uniscono agli intrecci zuppi di oscuri umori ritualistici, mentre lo spirito pagano di McNerney continua a cantare la sua profonda venerazione per Madre Natura e le sue creature più sacre. “MAGICAL & DAMNED”. Emi Hey

BOLOGNA VIOLENTA

BRANT BJORK

Bancarotta Morale

Brant Bjork

Overdrive Brevissimi (eccezion fatta per Sophie Unschulding e Fuga Consapevolezza Redenzione) e dettagliatamente articolati i brani che vanno ad accorpare il concept album di Nicola Manzan. Il filo conduttore è il malessere sociale che ci circonda. Dall’ingresso nel 2015 del batterista e polistrumentista Alessandro Vagnoni il progetto si arricchisce di sonorità omogenee e repentine, un tutt’uno di dispotica assonanza tra il violino - grande protagonista - bass pedal, armonium elettrico ed archi. Album suddiviso in cinque differenti capitoli, legati in una sorta di antologia musicale malinconica tesa alla riflessione su una vera e propria bancarotta morale. BUCOLICO. Laura Pescatori

Heavy Psych Sounds Ci sono voluti tredici dischi da solista prima di intitolare questo nuovo lavoro a suo nome: Brant Bjork non si discute e non soltanto per il glorioso passato tra Fu Manchu e Kyuss. Ogni suo lavoro vale senz’altro l’ascolto. Ha ridisegnato una visione musicale riconosciuta, per una volta, con una definizione calzante: desert rock. E quel deserto lo si comprende soltanto guardandolo e perdendoci. Cosa che purtroppo non riesce del tutto a questo disco. Bjork suona tutti gli strumenti e forse il risultato appiattisce il lavoro. I riff sembrano promettere bene ma lentamente si sgonfiano, abbandonati anche da una ritmica tutt’altro che coinvolgente. Un peccato: questo è un PICCOLO PASSAGGIO A VUOTO. Paolo Dordi

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THE DREAM SYNDICATE The Universe Inside Anti-

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metà tra un mandala buddista e una sgargiante fantasia optical di Victor Vasarely: così si presenta la copertina di The Universe Inside, diario di bordo del viaggio dei Dream Syndicate verso quella dimensione ancora largamente ignota che è il Regno del possibile. Psichico e, nella presente fattispecie, anche musicale. O come suggerisce Steve Wynn, il comandante della navicella sonora protagonista dell’impresa, il resoconto di un itinerario ad ampio raggio nell’Arte degli Improvvisatori, che si snoda lungo cinque estesi episodi – si va dagli oltre venti minuti di The Regulator (da non perdere le minute incursioni nei paesaggi metropolitani e nella insonne e alienante way of life newyorkese del video introduttivo alle peripezie sonore dell’album) fino ai sette minuti e rotti di The Longing) – in cui i quattro membri ufficiali dell’equipaggio (con Wynn ci sono Dennis Duck, Mark Walton e Chris Cacavas) a turno e quasi senza soluzione di continuità calano sul tappeto le loro passioni per psichedelia, krautrock, elettronica, jazz e funk. Un bel pezzo di storia del rock e dintorni – l’“aria” a cui un faceto Wynn allude è quella smossa da voci e fiati presenti in queste incisioni – zippati in ottanta minuti di musica all’insegna del “buona la prima”. UN PIZZICO DI MODESTIA E QUINTALI DI ESTRO ED ESPERIENZA. Elio Bussolino

B.C. CAMPLIGHT

BROKEN UP

Shortly After Takeoff

Soul Victim

Bella Union Se la commedia è un buon modo per superare la tragedia, allora B.C. Camplight ha trovato tutte le risposte che cercava. In realtà le cose sono sempre più complesse di così. Un visto negato l’ha bloccato lontano dagli affetti; una disfunzione neurologica piuttosto importante gli ha fatto vivere giorni difficili. Raccogliere quel che rimasto e ripartire. È nell’indole dell’uomo, molto più che semplice sopravvivenza. Scrivere un disco nuovo ha senz’altro permesso a Camplight di tornare al suo mondo, senza appoggiarsi alle ferite del passato. E le cose sono andate sempre meglio, con un album epico, commovente, confuso, straziante e onesto. ANCORA IN PIEDI. Paolo Dordi

Shades of Sound/Wave Ritrovarsi ad un’età ragguardevole, soli nella segretezza del proprio studio a ballare come si faceva un tempo nelle famose discoteche di tendencias, può essere un segnale. Un segnale che la vita ancora non ti ha abbandonato e che il disco che stai ascoltando è veramente un gran bel disco. I Brokens riescono nella frazione di un accordo a trasportarti indietro nel tempo, usano miscele care al ricordo. Shoegaze e dimenticato stile new-wave si mescolano in una ritrovata e rinnovata sintesi che tutto travolge e illumina. Al pari dei loro colleghi, i Lunaires, rappresentano ciò che di più effervescente è dato ascoltare di questo genere. PLAY LOUD! Mirco Salvadori

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DANA GAVANSKI Yesterday Is Gone Full Time Hobby

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l mini album Spring Demos, nel 2017, aveva già evidenziato il talento, grezzo e cristallino, della serbocanadese Dana Gavanski. Eppure, paragonando il suo album d’esordio con quei primi vagiti musicali, si stenterà a credere che si tratti della stessa artista. Nonostante, infatti, sin da allora fosse evidente la capacità della Gavanski di distillare emozioni e di arrivare diritta al cuore con le sue composizioni scabre ed essenziali e con la sua voce vellutata e toccante, nelle dieci tracce che compongono Yesterday Is Gone emerge tutta la personalità di un’artista che è cresciuta così tanto da “imparare a dire ciò che sente e sentire ciò che dice”. Rifuggendo ogni cliché e grazie alla fondamentale collaborazione di Mike Lindsay (produttore e musicista, fondatore dei Tunng), Dana ha elevato il proprio livello compositivo e reso la sua espressione vocale ancor più profonda e personale (anche con lo studio del canto tradizionale serbo). One By One, Catch, Good Instead Of Bad, Yesterday Is Gone sono canzoni folk pop (con un pizzico di psichedelia) nostalgiche e seducenti, arricchite da arrangiamenti elegantissimi e originali, che uniscono un talento melodico straordinario a interpretazioni capaci di avvincere e ammaliare. UN DILUVIO DI EMOZIONI. Francesco Amoroso

CAMILLA SPARKSSS

COCHON DOUBLE

Brutal Remix

Bruxisme

On the Camper Il già ottimo Brutal di Camilla Sparksss, alter ego di Barbara Lehnhoff, viene qui vestito di remix accattivanti che forse sottraggono un po’ di oscurità alle versioni originali dei brani, aggiungendo al contempo ulteriori innesti di psichedelia e sperimentazione ad opera di Fakear, Rebeca Warrior, Bit-Tuner, Vadim Vernay, Mike Mare, Xelius, Sonoplasta, Kevin Shea (Talibam!), Isolated Line ed altri. Si spazia dalla techno al trip hop, passando per l’experimental jazz, in una galleria di tracce suggestive e taglienti. Preferiamo comunque l’originale. DIVERTISSEMENT. Valentina Zona

Hummus Dietro lo pseudonimo Cochon Double c’è Brynjar Thorsson, cantautore svizzero-islandese, molto attivo nella scena noise elvetica, con la band Wellington Irish Black Warrior o in collaborazione con Dany Digler. Bruxisme, la cui ispirazione è arrivata in un momento in cui l’artista pensava di mollare, è un mix di hiphop, chanson e noise rock con una base elettronicadubstep, cantato in francese in modo sofferto e conturbante. La Vie Continue, l’ipnotica Restaurant e l’inquietante Rat Mort, sono i momenti più degni di nota di un lavoro che ha alti e bassi, come gli inutili i fiumi di parole di Vie De Merde e Canada. NONOSTANTE TUTTO, INTERESSANTE. Ianira De Ninno

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PEARL JAM Gigaton

L

Universal Music/Island i avevamo lasciati al Wrigley Field, campo da baseball di Chicago. Let’s Play Two (2017) celebrava la sbalorditiva e progressiva simbiosi ritmico/emotiva dei Pearl Jam di pari passo con la preparazione (e poi vittoria) dei Chicago Cubs alle World Series 2016. Ora, 7 anni dopo Lightining Bolt. è giunta l’ora della svolta. Ascoltare Dance of the Clairvoyants espone Eddie Vedder alle intemperie di tempi stravolti, un capolavoro su più strati: base funky-rock, vocal che volteggia come un’aquila tra le vette rocciose, accomodante e sontuoso, chitarra ritmica esponenziale e una libertà d’azione come mai prima. Eclatante la volumetrica distanza con i lavori precedenti (non a caso brano scelto come primo singolo). Si avverte una composizione dilatata nei tempi (alcuni brani parlano ancora la lingua del passato) ma l’esposizione si arricchisce di una marcia hard-rock marcatamente americana (Quick Escape), distanziandosi dall’europeismo compiacente fatto di sonorità smorfiosette. Alright entra di diritto tra le ballate PJ di sempre, ipnotica nella sua perdizione vagante. Seven O’Clock spalanca i polmoni. E con Retrograde si realizza quella connessione umana tanto evocata da Eddie nelle dichiarazioni stampa, ballad consapevole. River Cross erige un muro sonoro tra America e resto del Mondo, componimento solenne oneman-voice, percussioni e piano-harmonic. Ci manca il respiro, i PJ ci donano una vagonata di ossigeno. A BRACCIA LARGHE SUL MONDO. Matteo S. Chamey

CORDE OBLIQUE

DATURA4

The Moon Is A Dry Bone

West Coast Highway Cosmic

Dark Vinyl Riccardo Prencipe torna a ‘pizzicare’ le sue Corde Oblique con la consueta destrezza e sensibilità tattile a lui proprie. Nel suo orizzonte creativo oggi c’è l’universo trasognato di The Moon Is A Dry Bone, l’ultimo capitolo di un percorso in divenire nel quale, oltre ai canovacci noti del folk e della ballata elettroacustica, convergono ingegnose soluzioni di forma che investono le trame strumentali conferendo loro movimento e colore. Musica che desta incanto nel giro di un arpeggio, solcata dalle arie mediterranee di Caterina Pontradolfo alla voce e dai turgidi unguenti canori di Andrea Chimenti e Miro Sassolini, ospiti d’eccezione di questa MAGICA SINFONIA ALLA LUNA.

Alive Natural Sound L’album si apre con la bella title track e l’invito fin dal titolo al viaggio estatico lungo le autostrade dalla musica cosmica e della West Coast che però è quella australiana. La band di Dom Mariani (The Stems, DM3), come molto Aussie rock, esce in realtà da qualsiasi schema per proporre una cifra stilistica personale, molto coinvolgente e carica di densa energia. I 10 brani si insinuano prepotentemente in un susseguirsi di voluttuose perle garage-blues che procedono con carattere grintoso, a colpi di riff di chitarra sfrontatamente distorti, organo incalzante e con la seducente armonica di Howie Smallman in quattro brani, tra cui la bellissima cavalcata acida Wolfman Woogie. MAESTOSA POTENZA.

Aldo Chimenti

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Rossana Morriello rockerilla.com

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M. WARD Migration Stories AntiFin dall’esordio, la sensibilità delle canzoni di Matt Ward ha sempre posseduto qualcosa di non assimilabile alla scena alt-folk (per semplificare enormemente). Nelle sue composizioni c’è una tempera di colori delicati che si aggrappa a melodie sempre sorprendenti, nella loro assoluta semplicità. In definitiva è questo il passaggio che lo contraddistingue: ottenere canzoni da ingredienti poveri o perlomeno è ciò che vuole trasmettere. Missione compiuta: Migration Stories è un grande album già nelle intenzioni: semplici fatti di cronaca letti qui e là sui periodici o racconti tramandati da generazioni diventano canzoni avvolgenti, dotate di una dignità che si erge immediatamente dal semplice fatto in sé. Per scrivere questo disco Ward si è spostato in Quebec, nel Canada francese, patria (tra i moltissimi altri) degli Arcade Fire. E con Tim Kingsbury e l’irrefrenabile Richard Reed Parry (oltre al produttore Craig Silvey) ha scritto uno dei suoi album più intensi. Il semplice giro armonico disegnato dall’acustica di Migration Of Souls si fa viaggio onirico; Heaven’s Nail And Hammer è una ballad scurissima che si apre inaspettata nel chorus. Independent Man sembra uno strumentale. Invece dopo un minuto Ward rimette tutto a fuoco in un chorus che accarezza e assorbe l’ascolto. Non ci si annoia mai, Migrations Stories è UNA VERA MERAVIGLIA. Paolo Dordi Ph Vrenne Evans

DMA’S

EARLY JAMES

The Glow

Singing For My Supper

BMG Davanti a dischi come questo si resta sempre un po’ perplessi. I DMA’s possiedono la capacità di gonfiare il suono senza limiti, in quella che viene spesso indicato come musica da arena. Il contesto, di per sé neutro, indica spesso una rapida caduta verso un indie-rock anthemico di poco spessore. I DMA’s inquadrano perfettamente questi scenari con il vantaggio di essere australiani, perciò in parte ai ripari da una certa levigatezza sonora. I pezzi da stadio ci sono (nella solida Life Is A Game Of Changing e nella poco coraggiosa title-track), qualche timido tentativo di ballad pop anche (Criminals), ma si fatica a vedere lo splendore sbandierato da un album intitolato The Glow. INTERLOCUTORI.

Easy Eye Sound/Nonesuch La prima cosa che colpisce è il particolare timbro vocale di Early James, quella sfumatura androgina che fa pensare ad una matura crooner dalla pelle nera piuttosto che a una delle peculiarità di quest’altro frutto del sagace scouting di Dan Auerbach. La seconda arriva dalla varietà d’ispirazione che il giovane songwriter dell’Alabama mette in mostra nelle tracce del suo debutto assoluto, una collana di canzoni aperta dal brioso soft rock di Blue Pill Blues e suggellata dalla tintinnante ballad country-folk di Dishes In The Dark. Tra l’una e l’altra anche la citazione in All Down Hill di una popolare nursery rhyme a fare del suo Singing For My Supper una GRADEVOLISSIMA RIVELAZIONE. Elio Bussolino

Paolo Dordi

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THUNDERCAT It is what it is

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Brainfeeder hundercat scatena in me un vortice caleidoscopico composto da mini-capsule di spazio-tempo felici: risate argentine di personaggi di anime, profumi di spiagge assolate e dreadlocks danzanti, skateboarders contro il cielo blu, murales di Afrika Bambaataa, daiquiri ghiacciati e palme che fremono al suono di un basso fretless che s’accoppia con un sax… Nella post-fusion del geniale e simpaticissimo Stephen Bruner s’amalgama magicamente il meglio dell’ecstasy-fatta-in-musica: funk, R&B, soul e jazz rotondo e moderno. Live o su album, nella sua musica aleggia una piacevolissima, carnale sensazione di psichedelia interstellare retrofuturista che odora di crema solare. Un po’ come fece lo Space Cowboy Jamiroquai con le sue prime due comete discografiche (prima che si rivelasse uno stronzo), il colorato ed ironico Thundercat (ex-Suicidal Tendencies, fantasmagorico bassista) apporta benessere al corpo ed alla mente, provocando risate sincere e sane pulsioni erotiche. Stravagante nerd come può esserlo un fan dei manga e delle anime, in questo nuovo fantastico lavoro confeziona 15 pillole (un po’ alla Napalm Death) che sprigionano bellezza soffice, fresca, delicata, sognante, ridente, pulsante, seducente, fragorosa, abbagliante, danzante. SEXY COSPLAYER CAT. Emi Hey

ELDER

ES

Omens

Less Of Everything

Stickman Attivi da dieci anni sulle linee dell’heavy rock psichedelico e dello stoner, con l’ultimo album hanno trovato una nuova dimensione multiforme e articolata decisamente interessante. Le chitarre pesanti non guidano più totalmente la loro musica ma emergono di tanto in tanto da un substrato su cui prosperano sperimentazioni contaminate tra progressive e space rock. La collaborazione del pianista e polistrumentista genovese Fabio Cuomo (musicista solista e membro dei Liquido di Morte) per le parti di piano, Mellotron e sintetizzatori, ha sicuramente apportato nuova linfa. La title track apre l’album e dura quasi undici minuti che è la media di durata dei cinque brani che compongono la tracklist. VISIONI HEAVY PROG. Rossana Morriello

Upset The Rhythm Le streghe, a Londra, si chiamano ES. Hanno una frangia cortissima, si vestono in modo pacchiano, sono malconce, odiose, terribili. E suonano un punk scanzonato, che irrita, con linee ritmiche elementari, quattro registri improbabili al synth, e una cantilena nervosa, sgradevole, monotona. Less Of Everything è un manifesto, la sua potenza è antica, le sue corde sono quelle di Malaria e Xmal Deutschland, la sua magia non ha nulla di attuale. Anche questa è trasgressione. Si tratta piuttosto di recuperare dannati ricordi di un passato diy sparito nel nulla: se esiste un’eredità, è solo una questione di attitudine. Urgenza, ribellione. UN GRAN FASTIDIO.

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RECENSIONI

Giancarlo Currò


EVERYTHING IS RECORDED

FRANCESCO BIANCONI

GOLD CAGE

Friday Forever

Forever

Social Crutch

XL Recordings Dalle 21:46 di un venerdì alle 11:59 del giorno dopo. È il Friday Forever di Richard Russell, boss della XL in scena con il suo Everything Is Recorded. Sul tavolo c’è l’urban sound, la passione per il beat, il soul, ci sono i contributi di una scena in fermento. Tanti i rapper giovanissimi. Berwyn Dubois e Maria Somerville preparano il terreno tra i ritmi di 10:51 PM/The Night. Accanto il reggae tecnologico di Flohio, l’esperimento più audace. Poi Ghostface Killah del Wu-Tang Clan, che con Infinite Coles divide la magnetica 03:15 AM/Caviar. In coda Penny Rimbaud dei Crass, 11:59 AM/ Circles è uno stralunato risveglio. BIG PARTY. Giancarlo Currò

BMG A Bianconi va riconosciuto il merito di aver creato, con i suoi Baustelle, un stile molto riconoscibile che, pur nel logorio inevitabile dell’autocelebrazione, specie dopo il successo mainstream, ha comunque costituito un casus pregevole nel pop italiano di questi ultimi anni. Con la sua prova solistica, rivela a chiare lettere l’inevitabile fascinazione per certo cantautorato italiano (De André su tutti) di cui però si fa un abuso tale da risultare per certi versi disturbante. Non bastano le guest star di prestigio, tra le quali spiccano Rufus Wainwright, Eleanor Friedberger, Kazu Makino e Hindi Zahra, a risollevare un disco che appare eccessivamente egoriferito e compiaciuto, per molti versi fiacco ed emulativo, persino lugubre. UN SOLO FABER BASTA E AVANZA.

Felte Da Los Angeles con … imperturbabile lentezza. I Gold Cage non hanno alcuna fretta di sciorinare la loro personale ricetta slowcore: chitarre rallentate e moderatamente distorte, ritmi rilassati, voci assorte e imbottite di echi. Fin troppo agevole riconoscere nelle armonie elementari e nelle melodie tratteggiate da questo apatico terzetto californiano ascedenze stilistiche che si chiamano Codeine, Galaxy 500 e Deerhunter, ma la formula, date le sue blande proprietà sedative contro l’ordinaria frenesia dei nostri giorni, evidentemente continua ad esercitare una certa attrattiva all’ascolto. A dar retta al titolo, una “stampella” contro tale piaga sociale, UN BUON SUCCEDANEO DI TISANE, DECOTTI E ANSIOLITICI CHIMICI. Elio Bussolino

Valentina Zona

EYE FLYS Tub Of Lard Thrill Jockey Chiamare la propria band come un brano dei Melvins è sempre una buona idea! Vengono dalla East Coast e ci confezionano un album che farà innamorare chi è cresciuto con gli Unsane, gli Agnostic Front, l’hardcore di Washington e, appunto, i Melvins. Certo, sono poche le idee fresche per davvero e l’originalità latita, ma l’energia - quella sì - non manca e neppure la genuina passione noisecore per gli intrecci di chitarre sferraglianti, bassi potenti e batteria trash. Un album potente ed entusiasmante, che fa venire voglia di vedere i quattro americani sul palco del Roadburn dove suoneranno quest’anno. POTENZA & ENERGIA. Simone Bardazzi

HIBOU MOYEN

THE GARDEN Kiss My Super Bowl Ring Epitaph Quarto full-length per i The Garden, duo di gemelli californiani attivi dal 2011. Con il loro art-punk influenzato tanto da jungle e dub quanto dall’indie, il presente Kiss My Bowling Ring è sicuramente un lavoro originale, come dimostrano la dissonante Clench To Stay Awake, la schizofrenica A Struggle, dalle strofe quasi crust à la Guyana Punch Line e dal ritornello synthpop, Sneaky Devil, in stile Beastie Boys e Skindred, con una base elettronica che mi ricorda i Gravity Kills, la title-track, dal cantato quasi rap che strizza l’occhio al Beck degli inizi, e restando in tema hip-hop Hit Eject e Lurkin’. ARIA DI FESTIVAL ESTIVO, SENZA MUOVERSI DA CASA. Ianira De Ninno

Lumen Private Stanze Terzo disco per Hibou Moyen, aka Giacomo Radi, cantautore polistrumentista e, questa volta, produttore insieme a Andrea Duna Scardovi. Il presente Lumen è un disco nostalgico e intimista, ricercato sia come composizione e arrangiamenti sia come testi, a partire dal singolo Uragano, passando per il rockblues sensuale di Gli Scheletri Delle Comete e Avaria e Bambina Vipera, che strizza l’occhio agli anni ‘60. Ogni Buio, Ruggine Nei Campi e L’Eruzione mi ricordano il cantautorato indie de La Fame Di Camilla. Molto bella l’atmosfera vintage di Era Estate e la delicata Serotonina. Si conclude in bellezza con la suggestiva e onirica La Preghiera Dei Lupi. UN LAVORO DI QUALITÀ. Ianira De Ninno

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ROGER & BRIAN ENO

L

Mixing Colours Deutsche Grammophon

a montagna ha partorito il topolino. Mixing Colours non è all’altezza dei migliori lavori dei fratelli Eno. Non possiede il fascino magnetico dei capolavori di Brian, né la leggerezza melodica degli album di Roger. L’affondo di Dark Sienna è notevole e lascia sbalorditi, ma non tutto il disco è all’altezza delle aspettative. Tutt’altro: nella maggior parte delle tredici tracce in scaletta sembra che Brian Eno abbia lucidato con un po’ di elettronica alcune idee del fratello rimaste nel cassetto per troppi anni, senza peraltro far brillare quella fiamma che si sarebbe dovuta accendere. Il problema poi è che il disco non è nato come un disco. Già nel 2005 i due fratelli avevano deciso di registrare qualcosa insieme. Quando con il passare degli anni le tracce registrate sono diventate tante da formare un album, allora è venuta in mente l’idea di pubblicare un intero lavoro. Mixing Colours nasce quindi come un esperimento diluito nel tempo. Un’occasione per i fratelli Eno di collaborare insieme dopo tanti anni passati a percorrere strade parallele. La sensazione però è che le strade non si siano ancora incontrate e siano rimaste troppo distanti per ritrovare un punto d’incontro. DELUDENTE. Roberto Mandolini

THE HINDS

IAN CHANG

The Prettiest Curse

Belonging

Silver Moon

Lucky Number Il luogo comune è una trappola così subdola che spesso i primi a finirci dentro sono proprio quelli che mettono in guardia gli altri dal caderci. Prendiamo queste quattro ragazze spagnole al terzo album: come non cedere alla tentazione di catalogarle alla voce “girlband” e associarle ai cliché della fattispecie quando esse stesse si propongono come una versione ispanica e appena un po’ meno patinata delle Bangles? Viene anzi da immaginare che sia proprio quella la “maledizione” alla quale allude il titolo della nuova raccolta, ovvero la difficoltà di affrancarsi da un modello così noto e ingombrante. AVESSERO ALMENO UN’ALTRA MANIC MONDAY DA PERSONALIZZARE…

City Slang Il post rock di matrice elettronica dei Son Lux, quando qualche anno fa sono entrati in pianta stabile Ian Chang e Rafiq Bhatia, è diventato un oggetto di culto nel panorama della sperimentazione. Rafiq ama il jazz, Ian invece predilige melodie più facili, anche se tutto nella sua mente deve essere destrutturato, per cambiare forma sfidando le leggi della natura. In un disco come Belonging ci sono prima di tutto la ricerca e le visioni cosmiche di un percussionista che scolpisce il suono e i suoi milioni di dettagli. Accanto, Kazu, Kiah Victoria e Hanna Benn sono il fascino di una voce femminile, che in questo non-luogo è autentica magia. NOTEVOLE. Giancarlo Currò

Appaloosa L’elenco delle “vecchie volpi” del rock presenti nel nuovo album di Jono Manson occuperebbe un’intera pagina… Glissiamo perciò su tali dettagli, ma non prima di sottolineare come la lista comprenda una più che discreta rappresentanza italiana, retaggio di un lungo soggiorno del musicista newyorkese in Liguria. Silver Moon si presenta come il lavoro di una bella confraternita del rock adulto, una raccolta dove passione genuina rima con esperienza consolidata, una collana di canzoni solide e concrete che fanno salire alla gola un groppo di nostalgia a chi bazzica questi suoni fin dai ’70. Una sindrome non così estranea nemmeno a chi ha diverse primavere in meno sulle spalle. SUONI SEMPREVERDI.

Elio Bussolino

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JONO MANSON

Elio Bussolino


FRANCESCO PAOLO PALADINO De Musica Et In Fungorum Effects

U

Silentes

n progetto folle, ironico, geniale: pensate a Sant’Agostino che condivide lo spazio e il tempo con John Cage… si parla di funghi, appunto, e dei loro effetti. E aggiungete che a dare voce al Doctor Gratiae è Juri Camisasca! Se non vi basta aggiungiamo frammenti della partecipazione di Cage alla trasmissione Lascia o Raddoppia?, in qualità di esperto di funghi, avvolto da un tessuto narrativo che rivela il geniale regista cinematografico dietro l’intera oeuvre. Cage che parla con voce collettiva, di lacaniana suggestione. Questo lavoro è davvero un raffinato gioco intellettuale a più livelli di lettura, inclusa la sorprendente piacevolezza dell’ascolto, il divertente inaspettato, citazioni kantiane sulla musica e la risata, la leggerezza della creazione. Meticolosamente costruito con il trademark del collage acustico, formula collaudata dall’autore sin dai tempi dei Doubling Riders, arricchito da contributi nobili tra i quali citiamo Paolo Tofani, Mike Cooper, Aaron Moore, Nicola Alesini, Riccardo Sinigaglia, Buck Curran e molti altri. Amorevolmente confezionato in una magnifica veste grafica, espanso in ben 2 cd più altri 2 di riuscite helzapoppiane variations, questo lavoro costituisce UNA MEMORABILE TAPPA NELLA STORIA DELL’AVANGUARDIA ITALIANA. Massimo Marchini

JOSEPH MARTONE Honeybirds Freak House Ha calcato a lungo i palchi live alla testa dei Travelling Souls, insegna che ben esprimeva lo spirito nomade di una musica in continuo e ostinato movimento tra maestosi paesaggi cinematografici, intime memorie e scure riflessioni esistenziali. E un’anima perennemente in viaggio appare anche quella che Joseph Martone ha messo a nudo nelle otto tracce di un debutto solista per il quale la produzione di Taylor Kirk dei canadesi Timber Timbre ha confezionato quel suono parco e polveroso che spesso funge da certificato d’origine dell’alt.rock d’autore. Ecco, a voler fare i difficili, in Honeybirds c’è un pizzico di manierismo (leggi mark-laneganismo) di troppo, ma A QUALCHE SANTO CI SI DEVE PUR VOTARE, NO? Elio Bussolino

LEWSBERG

IL LUNGO ADDIO

In This House

Estate Violenta

Autoproduzione C’era bisogno di un’altra band ispirata esplicitamente ai Velvet Underground? Ascoltando il secondo lavoro degli olandesi Lewsberg, In This House, la risposta non può che essere positiva. La band di Rotterdam, senza allontanarsi drasticamente dalle sonorità dell’omonimo esordio, alterna brani più duri e asciutti, fatti di chitarre quasi atonali e voce parlata (Cold Light Of Day, Through The Garden), a canzoni che richiamano le spigolose delicatezze di band quali Go Betweens o Chills (la magnifica At Lunch, la conclusiva Standard Procedures) e, tra testi vagamente esistenzialisti e una buona dose di umorismo, pur omaggiando i loro mentori (e sono tanti), riesce ad avvincere e affascinare. PASSATISTI PIENI DI TALENTO.

Tropico La rock ballad autoriale de Il Lungo Addio è la cifra stilistica che meglio si presta agli scorci autobiografici ritagliati da Fabrizio Testa per Estate Violenta. Momenti di vita vissuta ambientati tra i lidi di Romagna che intrecciano storie e interrogativi, squarci stratificati nella memoria che ne aprono degli altri in un gioco umorale di suggestioni e contrasti. Le linee canore sono missive che stillano rabbia, mal d’amore, desiderio… Accenti ora accesi ora languidi e sgranati di un memorabilia sentimentale che viaggia insieme ai chiaroscuri delle corde e della tromba su ondose cadenze slow/ midtempo, lasciando che gli armonici e i sospiri catturino nel loro ABISSO DI PASSIONE.

Francesco Amoroso

Aldo Chimenti

RECENSIONI

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MAGIC BUS

OLDEN

Earth Years Back to the Garden I Magic Bus confermano la loro predilezione per il gusto musicale che fu della scena di Canterbury a cavallo tra ‘60 e ‘70, della quale possono considerarsi degni messaggeri, subendo altresì una certa fascinazione per la West Coast americana. Il nuovo album è nella linea dei lavori precedenti ma con una più precisa caratura dei suoni e delle voci, levigati e rotondi, che consolidano il risultato finale. In questo nuovo viaggio attraversiamo la psichedelia languida e fluttuante in brani come Inka Trail e Setting Sun, e i sentieri inquieti e sussultanti inframezzati da impeti jazz in Road To La Mezquita, Squirrel e nella stupenda Barleycorn. UNA CONFERMA. Rossana Morriello

Agitprop Alterna

Vrec La vicenda di Prima che sia tardi è drammatica. La storia di una ribellione necessaria contro la dittatura, contro ogni dittatura. I testi, vero motore narrativo del disco, convincono e la musica è un dolce accompagnamento. Olden porta a termine un lavoro complesso, scegliendo la strada di un cantautorato per quanto possibile fresco e personale. Strada ardua, in salita. C’è spazio per l’intimità e la riflessione, c’è spazio per la denuncia sociale, c’è una storia da raccontare. Il lavoro dietro le quinte di Flavio Ferri (di Delta V) è prezioso, il disco, i rumori, le scelte sonore creano un equilibrio raro, la musica è gradevole, gentile. RAFFINATO. Giancarlo Currò

Tough Love Pronti, attenti, via e siamo catapultati in un sogno sonoro musicato da My Bloody Valentine e Stereolab. I Peel Dream Magazine di Joe Stevens accentuano il rumore delle chitarre e curano maggiormente il lavoro sulle voci: d’altra parte ora non si parla più di progetto solista ma di una band vera e propria. In realtà i momenti più morbidi e onirici non mancano, ma anche con l’andamento che si fa più popedelico la band non perde la bussola. Bertolt Brecht e la sua filosofia dello stimolare l’azione restano punti fermi nei testi di Joe, che si dimostra autore raffinato: devoto ai maestri ma con sua personalità. UN BEL DISCO.

MELKBELLY

OTTODIX

PITH

Entanglement

Carpark/Wax Nine Quando il rumore nel rock è catarsi e allo stesso tempo solida prospettiva di lavoro. Noise rock dalla memoria lunga, questo dei Melkbelly, suoni aspri ottenuti anche con l’ausilio di sovietici microfoni vintage e organizzati in strutture armonico-melodiche tanto semplici quanto efficaci intorno alla voce della front girl Miranda Winters, una plausibilissima controfigura della Kim Deal più maligna e irascibile. PITH è il secondo lavoro della formazione chicagoana in rapida crescita su una scena noise mai doma e sempre pronta a guadagnare le ribalte alternative a forza di decibel, rabbia e determinazione. Il classico lavoro per il quale è d’obbligo la raccomandazione PLAY IT LOUD!

Discipline L’ennesima poetica synthpop senza un perché, spenta e autoreferenziale. Non siamo tutti Fellini, non siamo tutti Battiato e i maneggioni delle arti dalla sapienza circoscritta al proprio ombelico lo sanno bene. Predisposizione occultata di un atteggiamento filosofico petulante. La solita cricca dei tecnici razionali o degli illustri accademici o semplicemente dei competenti. Al sentire “eccitando l’algoritmo” comprendiamo come il mondo si stia arrotolando su se stesso, di fatto autodistruggendosi. Colti nel fallo della verità retrattile, per una volta non scomodiamo inutilmente i DM, con la speranza che la ripetizione trovi una via d’uscita. DA OLTREPASSARE.

Elio Bussolino

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Matteo S. Chamey rockerilla.com

PEEL DREAM MAGAZINE

Prima che sia tardi

RECENSIONI

Riccardo Cavrioli

PENNY RIMBAUD, EVE LIBERTINE, HUGH METCALFE Christ’s Reality Asylum - A Catharsis One Little Indian I CRASS pubblicano nella sua interezza il monologo scritto nel 1977 da Penny Rimbaud. Si tratta di una registrazione vocale solista avente come sottofondo deliranti vocalizzi di Eve Libertine e random noise prodotto da Metcalfe. Il carismatico filosofo anarchico dispiega il suo lucido, ribelle intelletto analizzando i subdoli, schiaccianti meccanismi che definiscono ognuno di noi in quanto membri della società. Una brutale, razionale, ironica decostruzione del sé e di ciò che ci circonda rivela la fragilità della realtà cui affidiamo la nostra esistenza. ORO PER ANGLOFONI. Emi Hey


PILOTCAN No More Shan Goodbyes EVOL C’è tutta una moltitudine di modelli ispirativi nei retroterra degli scozzesi Pilotcan che ha inciso sulla messa in opera di No More Shan Goodbyes. È lo stesso front man Keiron Mellotte a dichiarare che nel repertorio dei loro ascolti più gettonati sono passati Jesus And Mary Chain, Pavement, Sparklehorse, Lemonheads e soprattutto Echo & The Bunnymen. Ma No More Shan Goodbyes non è un’operazione di sintesi che fonde detti stilemi tout-court, quanto semmai la loro declinazione personale e visionaria, galvanizzata da cariche di ritmi poderosi e riff di chitarre taglienti pronti a culminare nel power pop epico. Le melodie memorabili poi non mancano, specie se ruvide e allucinate. DI TUTTO RISPETTO Aldo Chimenti

PORCHES Ricky Music Domino Aaron Maine, artefice del progetto Porches, è un musicista e producer basato a New York. Dopo il già non memorabile The House, il suo quarto lavoro, dal titolo Ricky Music, conferma l’insoddisfazione nel constatare l’incapacità di esprimere appieno un potenziale pop fino ad ora solo lasciato intuire. Una manciata di brani per lo più riempitivi, qualche traccia da dancefloor, ma veramente pochissima sostanza. A questo punto, verrebbe da interrogarsi seriamente sull’effettiva bontà di quello stesso potenziale, forse impiegato per lo più a cavalcare l’hype synth-R’n’B imperante, rinunciando quasi del tutto a lasciar fluire un’ispirazione che possa dirsi autentica. DELUDENTE. Valentina Zona

PURE REASON REVOLUTION Eupnea Inside Out Poche uscite disseminate nell’arco di quindici anni che spaziano da un prog moderno ad una ricerca elettronica raffinata e sperimentale. È il biglietto da visita con cui si presentano i Pure Reason Revolution dopo un silenzio durato dieci anni. Questo nuovo album è composto da sei tracce mediamente lunghe, l’impatto iniziale sembra accessibile e quasi pop, ma scavando tra i brani si trovano espresse molte idee, con alcuni momenti di puro incanto e altri di pancia, che ti trascinano in un vortice coinvolgente. Eupnea è un disco da ascoltare varie volte, perché è più complesso di quello che sembra ad un ascolto superficiale, ma il godimento è assicurato. MULTILIVELLO. Giancarlo Bolther

PURITY RING

Revel In The Drama Bella Union Seduzione. Ren Harvieu rinasce con un nuovo albo. Con stile fragile e voce armoniosa, che riassume nelle note e nei colori il vissuto di una grande malinconia. Il disco di debutto fece scalpore in classifica. La voce è incredibilmente bella, ricorda la sontuosità di Morrissey e trova il suo sfogo naturale nelle partiture classiche, che non eccedono mai. Spirit Me Away e You Don’t Know Me sono le nenie, Cruel Disguise è l’inno gotico, Teenage Mascara è il pop sbarazzino. Per un disco completo e unico, per un momento sonoro intimo ed esclusivo. Ren Harvieu ha ritrovato lo spirito per ricominciare questa piacevolissima avventura. ELEGANTE. Giancarlo Currò

ROEDELIUS

Womb 4AD Dal Canada attingono, per il Canada non si disfano. Gli USA hanno scopiazzato dal duo Megan James e Corin Roddick l’arte mercenaria del business sfrenato. Non ascolteremmo (con piacere?) molti artisti del panorama hip-hop senza la presenza silenziosa dei Purity (in realtà Lady Gaga se li accapparrò nel 2014 per il remix di Applause). Vocal-child, incedere etereo, innesti electropop con le “paillettes”, frammenti melodico malinconici alla ricerca di una pace interiore. Una tecnica ed un meccanismo originali, fuori dal solito “dramma” della musica ambient o tibetana, si inventano PR per una trascendenza spazio-temporale futuristica nel degno e vero senso della parola. INNOVAZIONE, FINALMENTE! Matteo S. Chamey

REN HARVIEU

Selbstporträt Wahre Liebe bureau b

Ogni volta che ci si imbatte in un nuovo lavoro di Roedelius finiamo per riconoscerne la primazia del pioniere e del genio illuminato che ha ridefinito le geografie del suono. Non fa eccezione Selbstporträt Wahre Liebe, sorta di autoritratto libero che fa emergere il profilo di un artista poliedrico allo specchio d’un sapere senza età. Il musicista di Berlino rimette a regime i suoi primordiali generatori analogici con l’intento di ricrearne lo Zeitgeist senza nulla disperdere, neppure lo slancio avanguardista delle sue grammatiche avveniristiche e cerebrali. Un viaggio ricognitivo sulle orme di un paesaggio armonico memore di antichi splendori. LA CREMA DELLA SCUOLA ELETTRONICA TEDESCA. Aldo Chimenti

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ROGER O’DONNELL 2 Ravens 99x10/Caroline Il lato più buio e personale di Roger O’Donnell, che di mestiere fa il tastierista dei Cure, la ricerca del suono e dell’introspezione, in pausa da un grande world tour, quello del 2016. Il suo ambiente, la sua casa, la sua atmosfera, il suo pensiero corre lungo la soavità del suo pianoforte e degli archi. Quattro tracce completamente strumentali, per raccontare la delicatezza, i colori pastello, la quiete. Accanto, quattro tracce con la giovanissima Jennifer Pague, voce molto dolce, in un gioco di specchi che ammalia e confonde. Un elogio alla bellezza, al silenzio, alla meditazione, all’intimità, al raccoglimento. QUANDO LA MUSICA SFIORA. Giancarlo Currò

SIMON FISHER TURNER AND EDMUND DE WAAL A Quiet Corner In Time Mute Edmund De Waal è un famoso ceramista e anche uno scrittore di successo. Il suo Un’eredità di avorio e ambra per raccontare la storia delle sue illustri origini ebraiche tramandata con una collezione di 264 statuette di avorio, è stato un bellissimo caso letterario. Il suo incontro con Simon Fisher Turner è sfociato nella sonorizzazione di una mostra alla Schindler House di West Hollywood. Architettura complessa, field recording, materia trasformata in otto composizioni elettroniche. Rumori sinistri, algoritmi difficili da decifrare, suoni che raccontano l’alterazione, forme e oggetti statici che prendono vita. DI CONFINE. Giancarlo Currò

RON SEXSMITH

SIR RICHARD BISHOP

Hermitage

Oneiric Formulary

Cooking Vinyl Da noi sono in pochi a conoscerlo, ma Oltreoceano è una vera e propria istituzione. Ron Sexsmith è, infatti, uno fra i più capaci songwriter canadesi, in grado di passare da collaborazioni con Ray Davies e Leonard Cohen, suonare con Steve Earle e Daniel Lanois, a scrivere hit per Rod Stewart ed Emmylou Harris. Hermitage è il suo 17° album (è in pista dal 1986) ed è scritto, suonato e prodotto da lui, eccetto che per la batteria. Quattordici canzoni bellissime: un autentico distillato di pop, che rimanda a Beatles e Kinks, con pennellate swamp blues, arpeggi acustici e tocchi wilsoniani. POP ALL’ENNESIMA POTENZA.

Drag City Superfluo ricordare che SRB è stato membro fondatore dei leggendari Sun City Girls e, nella sua lunga carriera, ha lavorato con John Fahey, Ben Chasny, Will Oldham, Devendra Banhart e Bill Callahan. Un chitarrista sperimentatore, sempre pronto a passare dalla world music al jazz, dall’avantgarde al blues. Oneiric Formulary vede il nostro confrontarsi con un carrellata di brani, ognuno diversissimo dall’altro per stile, suoni, strumenti e atmosfere. Uno stralunato e appassionante viaggio sonoro che porta Bishop vicino al sentire di un genio come David Lindley, pioniere del genere con i suoi Kaleidoscope e poi come solista/ turnista per Ry Cooder. ESOTISMI ESOTERICI. Simone Bardazzi

Simone Bardazzi

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THE SONIC DAWN Enter The Mirage Heavy Psych Sounds Si dice che quando si chiude una porta si apre poi un portone. Emil Bureau, il frontman della band danese ha attraversato un periodo buio dopo la perdita del padre e del lavoro e per uscirne ha concentrato tutte le sue energie sulla lavorazione di questo quarto album. Il risultato è la fulgida bellezza di un disco che abbraccia la psichedelia più ariosa e lucente, con contaminazioni soul (Join the Dead), garage (Young Love – Old Hate), ispirazioni californiane (Hits of Acid, Children of the Night), sapori orientali (Enter the Mirage), accompagnate dall’inconfondibile tratto dell’Hammond che conduce la stupenda Soul Sacrifice, killer tune perfetto per il dance floor. BELLO, BELLO, BELLO. Rossana Morriello

SORRY 925 Domino Fuori da ogni convenzione. E per essere qualcosa che debutta a Londra in full, devi effettivamente fare la differenza. Un po’ grunge, un po’ elettronica, indie, terribilmente alternative e davvero, davvero, piacevoli. Travolti da un sogno surreale, si tratta di mettere a terra un esperimento che non segue un criterio logico, e quindi di concepire canzonette pop con una versatilità incredibile. E rendere tutto molto efficace. Right Round The Clock e Rock’n’Roll Star sono gli episodi più “ordinati”, difficile comunque trovare downside in questa collezione di brani. C’è un minimo di sforzo nei momenti più psichedelici, ma alla fine è una piacevole fatica. ADORABILE. Giancarlo Currò


THE STRANGE FLOWERS Songs For Imaginary Movies Area Pirata ‘Canzoni per film immaginari’. Il titolo è suggestivo ma le musiche di Songs For Imaginary Movies lo sono ancor di più. Al loro ottavo album, i pisani The Strange Flowers regalano una festa psichedelica che evoca perfino i primi Pink Floyd, quelli di barrettiana memoria per intenderci. Tornano in grande spolvero con la formazione originale più un nuovo batterista e un affiatamento simbiotico tale da consentir loro di concepire un affresco stellare come questo. Un disco che innesca energie non appena l’ascolto prende il via e raggiunge quote vibrazionali in odore di sogno lisergico fra space rock e pop garage d’epica caratura. Un trip fisico-emozionale in 13 CANZONI BOMBA. Aldo Chimenti

THICK

WAXAHATCHEE

5 Years Behind

Saint Cloud

Epitaph Debutto per le bostoniane Thick, per le quali la musica è un modo di gridare la propria rabbia contro la disgregazione dei rapporti a causa dei social network o l’inettitudine della classe politica attuale. Prodotto da Joel Hamilton (Iggy Pop), 5 Years Behind è un disco indie-punk dal sapore vintage, à la X e Bikini Kill, e brani come la title-track e Sleeping Through The Weekend lo dimostrano. Non mancano brani puramente punk come Fake News e Mensplain, né momenti in stile college rock come Home e Won’t Back Down. Questi ultimi danno l’impressione di voler abbracciare un pubblico troppo vasto, annullando, in un certo senso, l’intento del lavoro. POCO AUTENTICO. Ianira De Ninno

Elio Bussolino

tētēma

TH/S /S SH/T

Necroscape

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Ipecac Recordings Il progetto capitanato da Mike Patton e Anthony Pateras arriva al secondo capitolo dopo una lunga gestazione. Musica sperimentale, jazz d’avanguardia, rumorismo, decostruzionismo, siamo in un territorio veramente borderline, dove la ricerca espressiva viene prima di tutto, nessuna concessione alla possibilità di una fruizione facile o immediata. Molti episodi sono disturbanti, e obbligano ad un ascolto approfondito per comunicare stati d’animo che sembrano oscuri e maniacali. Da un lato c’è il fascino per lo sforzo creativo di tracciare nuovi percorsi, dall’altro c’è il rischio che un progetto come questo risulti penalizzato dall’incomunicabilità. TERRA DI CONFINE.

Upton Park Il trio parigino TH/S /S SH/T è contemporaneo nel senso più compiuto del termine: rende labile i confini tra i generi e fa del proprio stile ibrido e contaminato un vero e proprio vessillo. Elettronica estremizzata sino alla techno che non rinuncia al rock distorto e ai groove più conturbanti della psycho-wave, la coesistenza tra l’analogico e il digitale: il risultato, seppur non memorabile o particolarmente innovativo, si lascia ascoltare gradevolmente, se non altro per lasciarsi trasportare da un sound fresco, talvolta ingenuo e senza troppe pretese. IL FRENCH TOUCH CHE NON TI ASPETTI. Valentina Zona

Giancarlo Bolther

Merge Un nome da squaw e un’altra raccolta di scarne ballate elettriche da colonna sonora di un road movie in quel Deep South (Alabama) che le ha dato natali e nom de plume. Katie Crutchfield non ha da inventarsi nessun suono nuovo per incorniciare storie e riflessioni esistenziali che di album in album (questo è il quinto in otto anni) mostrano sempre maggiore profondità e spessore, le bastano gli accordi di base di una chitarra, i bordoni discreti di un piano elettrico e i ritmi regolari di una batteria in sottofondo. Tutta roba che si può caricare su una station wagon e portare ovunque ci sia un palco ad accogliere le canzoni di Waxahatchee. Lei non chiede nulla di più e in cambio offre LA PIÙ VERACE RICETTA DI AMERICANA.

WHITE POPPY Paradise Gardens Melodic “New age shoegaze bossa nova”: ecco l’idea dalla quale sarebbe partita la canadese Crystal Dorval – questo il suo nome di battesimo – per disegnare i “paradisiaci giardini” che intitolano il suo nuovo lavoro. Sarà, ma parte Broken e la prima cosa che ti viene in mente è di ascoltare un singolo dei Cure rinforzati dal basso di … Peter Hook! Guai però a fermarsi alle apparenze: già il brano che segue assume un andamento assai più calmo e rilassato e presto il clima generale del disco si stabilizza in una sorta di perenne estasi dream pop, con la voce sognante di Miss White Poppy a fluttuare diafana intorno a melodie eteree e delicatamente ipnotiche. Difficile immaginare qualcosa di più DOLCE E CAREZZEVOLE. Elio Bussolino

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CHARLOTTE DOS SANTOS Harvest Time EP Because Music

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adre natura l’ha dotata di una voce invidiabile e a tutto il resto ha provveduto un talento musiale educato con cura, passione ed intelligenza. Tant’è che la giovane artista di madre norvegese e padre brasiliano ha scritto, arrangiato, prodotto e cantato tutto da sola le cinque canzoni del suo nuovo EP. Come una nuova Björk color caffellatte con diversi anni di meno e la giusta maturità per cimentarsi con raffinate partiture jazz e temi per colonne sonore. FULGIDA PROMESSA. Elio Bussolino

ALIENBABY COLLECTIVE Degenerate Moon Humm Recordings

Alienbaby Collective è il progetto solista dell’artista olandese Liù Mottes, precedentemente chitarrista di Blue Crime e New YX e al momento impegnata con SOON e Slow Worries. Questo singolo è un assaggio del suo prossimo doppio full-length, un pezzo noise tirato e distorto, dalla chitarra potente e dall’atmosfera quasi deathpunk à la Screamers o Rudimentary Peni, dal cantato lo-fi, in stile darkwave. NINNA NANNA ELETTROPUNK. Ianira De Ninno

THE BACKLASH Passing By Right Bright Side

Questa volta il bersaglio è stato centrato. I Backlash trovano il perfetto equilibrio tra influenze guitar-pop, più legate a numi tutelari del britpop come Oasis, e la scuola shoegaze di eroi come i Ride. Se ci aggiungiamo anche quel pizzico di visionarietà che avevano anche i primi Verve, beh, possiamo tranquillamente dire che tutto fila alla meraviglia. Melodici, sonici, incalzanti e capaci anche di dilatare spazi e tempi. APPLAUSI. Riccardo Cavrioli

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SINGOLI/EP RECENSIONI

BELMONT Reflections EP Pure Noise

Formatisi nel 2014 i Belmont hanno all’attivo un EP e un full-length. L’EP Reflections è un disco dalle sonorità progressive punk-emo core à la AFI e Alesana, con brani molto melodici, ma senza rinunciare a momenti più tirati in stile Avenged Sevenfold, come la chitarra nel singolo Hideout e Move Along, la doppia cassa di Stay Up o il cantato screaming di By My Side e Deadweight. PIACEVOLMENTE ADOLESCENZIALE. Ianira De Ninno

BYSTS Spread Out Autoproduzione

I BYSTS sono un duo di Los Angeles il cui sound è influenzato da elettronica, noise e darkwave e i testi sono ispirati dalla nostra quasi distopica realtà, con le sue ingiustizie e le sue contraddizioni. Spread Out è il quarto singolo tratto dall’EP Dreamland, al quale seguirà un full-length l’anno prossimo. È un brano retrofuturistico e suggestivo, in cui base industrial e voce melodica si amalgamano, ricordando Massive Attack, Jesus & Mary Chains e Gravity Kills. ONIRICO. Ianira De Ninno


THE MYSTERY OF THE BULGARIAN VOICES ft. LISA GERRARD Shandai Ya/ Stanka Prophecy

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all’album BooCheeMish (2018) del famoso coro bulgaro di voci femminili, accompagnato da ospiti illustri tra cui la splendida Lisa Gerrard ed il beatboxer SkilleR, vengono raggruppate nuove versioni di alcune tracce, due inediti ed un live (l’interpretazione di “Rite of Passage” composta dalla stessa Gerrard). Il ricco intreccio vocale tesse malie esotiche irresistibili al nostro animo primordiale. DA COLLEZIONE. Emi Hey

EX MOGLIE Spremuta Di Fedi Nuziali - Pink Edition Autoproduzione

Surreale. Il progetto di Ex Moglie è un’istallazione artistica, una performance di arti visive, musica, immagini, video mapping. Il suono è la colonna sonora, i cinque brani sono una suggestione psichedelica stravagante. Testi assurdi, materia sintetica comunque interessante, non è facile mettere a fuoco questa proposta. Intriga la scelta dei testi in lingua madre, questo sì: il resto è UN BUON INIZIO PIUTTOSTO SINGOLARE. Giancarlo Currò

KADEBOSTANY Drama - Act 1 NSK/Republic of Kadebostany

Numeri da capogiro per il produttore Guillaume de Kadebostany, campione di incassi su ogni piattaforma conosciuta. Dal suo ritiro d’oro a Ibiza il musicista svizzero ha prodotto l’ennesimo EP destinato al successo, Drama-Act.1: quattro brani di appiccicoso pop elettronico cantati da altrettante regine del suo regno (Irina Rimes, KAZKA, Fang the Great e Célia). Oltre un miliardo di streaming su Youtube destinati a crescere ancora. POP STAR. Roberto Mandolini

RAFIQ BHATIA Standards Vol.1 Anti-

Amore e passione per il jazz, follia incontenibile per la sperimentazione. Tilt. Il giovane performer scomoda Duke Ellington, Ewan MacColl e Ornette Coleman: si tratta di dipingere nuovamente quei capolavori, con una tavolozza elettronica molto sofisticata, ripensando l’autenticità di quei suoni in chiave surreale. E quando incontra Cécile McLorin Salvant in The First Time Ever I Saw Your Face nasce un capolavoro di straordinario valore. GRAZIA PURA. Giancarlo Currò

SAN CISCO Flaws Nettwerk

Dopo un convincente album d’esordio, la band australiana si ripresenta con prudenza pubblicando un EP estremamente interessante. Quattro canzoni che sembrano misurare lo spettro emotivo della band: la gloriosa melodia in Gone e la leggerezza armonica della title-track fanno presagire una buona conferma. Finché l’attitudine della band non cederà il passo a proposte più vicine a un pop più patinato, potremmo continuare ad aspettarci qualcosa di molto buono. OTTIMA DIREZIONE. Paolo Dordi

SINGOLI/EP

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KATATONIA City Burials Peaceville i sono gruppi prog metal che costruiscono strutture musicali più avventurose e vantano persino cantanti dalla voce più potente e flessibile di quello dei Katatonia (per esempio i Leprous), eppure… Eppure la band svedese possiede quel magico quid che la rende unica e speciale, tanto da essere da moltissimi anni tra le più amate del circuito doom e progressive. Li venerano i fanatici della tecnica per la cura meticolosa con cui mettono insieme i loro raffinatissimi pezzi, ma soprattutto li adora chi ascolta la musica con il cuore. Tra gli 11 bellissimi, vari e coinvolgenti pezzi che compongono City Burial spicca Vanishers con il chorus interpretato da Anni Bernhard. A proposito di voce, quello di Jonas Renkse è uno strumento ipnotico e struggente dal timbro profondo ed intriso di malinconia. Con esso racconta di amori impossibili, fuochi ridotti in fredda cenere, vite disperatamente inutili, anime spezzate dal buio. Un buio che oggi si cela sotto le spoglie dei “predicatori della separazione”, di chi - delirante di potere - divide ciò che è fondamentalmente uno. Come può l’essere umano trovare un comune denominatore solo nella morte? Ce lo chiediamo anche noi. Ed ogni volta che una loro poesia in musica finisce, il silenzio risuona più profondo e terribile. MONUMENTALI. Emi Hey

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DESTROYED IN SECONDS

DOOL

DYNFARI

Divide And Devour Warlord

Summerland Prophecy

Myrkurs Er Þörf code666

Industries Da L.A. arriva uno tsunami di d-beat (stile svedese) e thrash autoctono da far alzare la pressione alle stelle. La band fa parte di un sottobosco antifascista ed anti-autoritario mai sopitosi in quei paraggi della California. Formatasi nel 2008, da allora ha condiviso i palchi con leggende del punk come Subhumans ed English Dogs, e con stars del grind/death come Repulsion e Brujeria. La pioggia incessante di pezzi (sono in tutto 11) non lascia indifferenti grazie ad una batteria che pesta furiosamente, all’incisività graffiante delle due chitarre, alle randellate del cupo basso e all’urlo strappa-tonsille di Jon Tomala. TIZZONE ARDENTE.

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Emi Hey 76

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Alcuni anni fa era in rampa di lancio il Love Metal, con band come Him, Lucyfire e poche altre, ma il decollo di quel movimento musicale in realtà non è mai avvenuto. In ogni caso qualche seme è rimasto e lo possiamo ascoltare nell’album di questi tedeschi dal grande temperamento, che aggiungono anche le tensioni prog di Anekdoten e Landberk, ma se preferite si può parlare di metal psichedelico. Non voglio riesumare vecchi fantasmi e nemmeno appiccicare etichette, mi limito a indicare un percorso artistico. Il loro metal fortemente emotivo mi ha dato più di un brivido. Atmosfere decadenti, sofferte, con un sound avvolgente e ricco di fascino che pervade tutto il disco, di cui ho bevuto ogni singola nota. PASSIONALE. Giancarlo Bolther

TURBOLENZE

L’ultimo album del gruppo islandese di post-rock/black metal atmosferico, The Four Doors of the Mind, ha goduto di lusinghiere critiche, tanto da ottenere l’invito al rinomato Roadburn 2020. Su quella ribalta, non solo suoneranno per intero l’appena menzionato lavoro del 2017, ma nel secondo set del loro live presenteranno anche il nuovo album in uscita questo mese. Se le note finali del primo vengono riprese nell’incipit del secondo, creando un filo conduttore unico, il nuovo lavoro è ancora più oscuro ed intenso. Esplorando il tema della depressione e del suicidio attraverso le emozioni della musica, creano un diario struggente e coinvolgente dal substrato ricco e profondo. BATTAGLIE DA VINCERE. Emi Hey


LUCIFER Lucifer III Century Media l fascino dell’angelo caduto ha mietuto un’altra vittima: c’era già un’oscura formazione con questo nome che ha pubblicato un album nel 1970, poi ci sono i tedeschi Lucifer’s Friend e ancora i Lucifer Was, poco conosciuti ma molto validi. Questo nuovo supergruppo viene dalla Svezia ed è guidato da Johanna Sadonis (The Oath), gli altri provengono da gruppi come i Cathedral e gli Angel Witch. Quello che accomuna tutte queste formazioni è l’hard rock a tinte dark. Per la presenza di una cantante possiamo poi ricordare anche i temibili Coven e gli esoterici Saturnalia, ma le principali influenze di questa formazione sono i Blue Öyster Cult del secondo e terzo disco e i Black Sabbath. Lucifer III è un concentrato di potenza, con brani che funzionano come macchine da guerra, un lavoro accostabile al debutto di Rosalie Cunningham. L’alchimia dei vari elementi viene convogliata in un sound stregato e contagioso che cattura fin dall’iniziale Ghost, un mix micidiale di proto heavy metal e doom, con una spiccata vena teatrale che colpisce dritto al cuore. Perfetto il riffing di Midnight Phantom, ma ogni singola traccia andrebbe ricordata. Un album fresco anche se pesca nei seventies e dia l’impressione di essere stato prodotto secondo i canoni di quel periodo. Decadente, retrò, notturno, romanticamente disperato, ma PERICOLOSAMENTE INTENSO. Giancarlo Bolther

I

GRAVE T

HELFRÓ

LYCHGATE

Silent Water Seahorse Recordings

Helfró

Also Sprach Futura

Season of Mist/Underground Activists La Underground Activists esce dalla sua tana solo per pubblicare album d’efferata bellezza. Questa volta siamo in Islanda, affascinante e brulla terra glaciale che ha l’abitudine di regalarci musica di indubbia originalità e, per ciò che riguarda il black metal, di brutalità assoluta e mai fine a se stessa. Il debutto del duo di Reykjavik amalgama turbinii organici di tremolo, drammatici cambi di velocità, crudezza folle ed insieme epica che fa venire fame di vertigini avantgarde, per non dire delle sublimi pennellate folk dispensatrici di brividi. Se amate immergervi nella bolgia dell’oscurità siderale, questo album vi lascerà senza fiato. WOW!!

Debemur Morti Productions Altra uscita di gran qualità e sostanza. La band inglese, che vanta l’apporto alla voce di Greg Chandler degli Esoteric (anche ai comandi in sala di registrazione), suscita ammirazione da quando esordì nel 2013 con un album eponimo di avant-garde metal che già ne delineava l’eclettica peculiarità compositiva. La loro arte ibrida ed oscura si è ulteriormente affinata: il death/black progressivo dalle chitarre glaciali ed il funeral doom pregno di drammaticità barocca grazie all’organo da chiesa, seguono traiettorie inusuali e cinematiche. Non per nulla troviamo nel titolo del lavoro un riferimento a Metropolis di Fritz Lang. IPERBOLICA SINGOLARITÀ.

Torino è la città “magica” d’Italia per eccellenza. Una metropoli piena di chiaroscuri, tanto affascinante quanto enigmatica. I Grave T ci provano con il loro debutto discografico, un concept album ambientato nella loro città natale, una metafora della condizione umana sempre più in balia di sé stessa e incapace di risollevarsi. Registrato e mixato allo Snooky Records Studio di Torino, Silent Water sarà disponibile in versione digipak. Metal, rigurgiti thrash e hard rock colorano le 10 tracce rendendo l’ascolto fluido e piacevole. Unico neo la pronuncia inglese in alcuni momenti davvero imbarazzante che penalizza un ESORDIO ALTRIMENTI PIÙ CHE POSITIVO. Jacopo Meille

Emi Hey

Emi Hey

TURBOLENZE

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METAL CHURCH From the Vault

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Reaper enchè non siano più riusciti a replicare l’originalità dei primi due album (l’omonimo esordio del 1984, uscito per l’etichetta indipendente Ground Zero, e l’ottimo The Dark, pubblicato due anni dopo per la Elektra), i Metal Church possono vantare una carriera arrivata ai giorni nostri attraverso diversi cambi di formazione e una lunga pausa di riflessione. Dopo la breve parentesi della reunion con la line-up originale, il 2016 è l’anno di un altro ritorno importante, quello del cantante Mike Howe, testimoniato dagli ultimi due album, XI e il successivo Damned If You Do. Per suggellare questa sorta di rinascita dei Metal Church, Vanderhoof ha deciso di tirare fuori dal cassetto un po’ di materiale inedito legato al periodo con Howe, tra cui spicca un’epica versione di Fake Healer impreziosita dalla voce di Todd La Torre dei Queensryche. Alle registrazioni riportate alla luce, la band aggiunge quattro nuovi brani mixati da Chris Collier (Prong, Korn), di cui si sente la mano nel sound spiccatamente groovy, tra i quali merita un orecchio di riguardo il remake della celebre Conductor. Non sarà quella di una volta, ma LA VECCHIA CHIESA DEL METAL CONTINUA A DELIZIARE I FEDELI. Daniele Follero

THE NIGHT FLIGHT ORCHESTRA AeromanticNuclear Blast

Il supergruppo svedese arriva non senza sorpresa al quinto album, dopo essere stato nominato anche per gli swedish grammy awards nella categoria rock e metal. Sorpresa perché il genere proposto da questi folli è un mix di hard rock anni ’80, funky rock, new wave, disco, AOR, prog e chi più ne ha più ne metta, all’insegna dell’intrattenimento puro. Detto così può far storcere il naso, ma il disco funziona, i pezzi sono belli, si ascoltano volentieri e hanno una carica intrinseca di buon umore che manca in molta musica degli ultimi anni, quasi fossero una moderna versione degli Abba. Non sono innovativi e non sperimentano, ma il pubblico sta dando loro ragione. PER AMATORI. Giancarlo Bolther

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ORANSSI PAZUZU

TELEPATHY

Mestarin Kynssi Nuclear Blast

Burn Embrace Svart

L’accresciuta popolarità del combo finlandese è direttamente proporzionale all’impeto che ci mettono nell’esplorare oscuri, accecanti ed abrasivi suoni alieni, scaturiti da viaggi cosmici di matrice sperimentale, dal black metal all’elettronica. Al trip scientifico mirato a zone aurali inesplorate, s’accoppia la ricerca filosofica dei complessi segreti dell’inconscio, con tanto di aspra critica ai nostri comportamenti autolesivi in ambito sociale, tra cui quello di cadere vittime di propagande tossiche. Il sinistro, ferale screaching di Jun-His esorcizza conglomerati di note che rotolano come robot impazziti, pulsanti divinità danzanti attorno all’event horizon. Ulteriore materiale per i loro immensi live. SUPERLATIVO. Emi Hey

TURBOLENZE

Il doom/post-metal/sludge strumentale del gruppo anglopolacco di stanza in Inghilterra sta divenendo sempre più intenso e coesivo. La prominenza nel mixer del basso conferisce al lavoro solidità e maestosità, mentre le chitarre sprigionano ondate di malinconici lamenti. Tuttavia nella formula coesistono anche riffs dal groove sanguigno e possente, colonne granitiche che vengono irrimediabilmente frantumante e spazzate verso l’oblio dal turbine di un breve e furioso blast della batteria. L’assenza del cantato non può che accentuare l’impatto emotivo della musica, dove ogni strumento diventa voce universale dei tristi turbamenti della vita. POTENTE ED IMMERSIVO. Emi Hey


INCAPACITANTS Ostracized Enigmatic Conqueror Old Europa Cafe

FABIO ORSI

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Tre giorni e un mattino d’estate St.An.Da.

re giorni e un mattino d’estate non è il titolo di un romanzo d’appendice, ma dell’ultima creazione musicale scaturita dalle mani agili e sapienti di Fabio Orsi. Un concept in 4 episodi che crediamo corrispondano ad altrettanti frammenti di vita vissuta, musicati dall’artista mettendo in campo un ricettacolo di arcobaleni armonici e stratagemmi elettronici che paiono cantare di paradisi perduti e ritrovati. I suoi sintetizzatori sono entità policrome che flirtano con le luci dell’aurora e le ombre del crepuscolo, depositari di un lessico della visione che mette i brividi e piega all’estasi, mentre tingono scenari la cui bellezza arcana è musica per i sensi e nettare per la mente. DI PRIMA GRANDEZZA.

MILITIA The Face Of God Old Europa Cafe

Originariamente licenziato in 666 esemplari numerati (2015), The Face Of God vede una seconda emissione in un accattivante CD digipak per OEC che merita tutto il nostro plauso. Un disco impressionante quanto l’idea d’insieme di cui è permeato, dove ridde di tamburi marziali e sconquassi post-industriali hanno come contraltare scorci di atmosfere chiesastiche e inni sacri profanati, come il canto gregoriano che prelude a questa messa eretica in 11 salmi ed altrettanti assalti sonori onnidirezionali. Il volto di Dio secondo Militia, ritratto blasfemo di un sapere teologico sconfessato in titoli quali God Is A Dictator e The Immaculate Conception Of Lies. Iconoclastia e nichilismo attivo in una VAMPATA DI FUOCO.

Terrore sonico all’ennesima potenza. Putiferio inverecondo di fattori stridenti e tumulti cacofonici all’insegna della devastazione e della furia cieca. Grovigli ferrosi di volumi stritolati e schegge di rumori seriali che sventrano l’aria. Scorie di sostanze malsane e scatti di furore schizoide fatti omicidi propulsivi reiterati. L’espediente dell’eccesso e dell’oltraggio psicotico che diventa rigida prassi e diabolica perseveranza. Crivellazione sistematica dell’apparato uditivo e del sistema nervoso, obiettivi nel mirino della follia che infuria sulle artiglierie di Ostracized Enigmatic Conqueror: apologia nipponica dell’anti-musica firmata Incapacitants. LOBOTOMIA TOTALE.

ALTIERI / FAVARON To Found St.An.Da.

Decontestualizzazione e ricostruzione ‘plastica’ di segmenti sonori già confluiti in altri lavori o progetti live e restituiti a nuova vita negli 8 brani di To Found, come una sorta di automashup rigenerativo prestato all’immaginazione feconda di Corrado Altieri e Gianluca Favaron, con il contributo di Anacleto Vitolo, e sottoposto a particolari processi di riadattamento cinematico-musicale. Il risultato? Una congerie di lemmi elettronici che si agitano in un moto perpetuo d’intermittenze poliritmiche turbinose, in un ribollio di particelle vive e brandelli di frasi spezzate, di armonici liofilizzati e rigurgiti di rumori industriali, di drone granulosi e tagli di frequenza d’ogni fatta e consistenza. UN DISCO MOZZAFIATO.

SPHERIC Music For Laboratories St.An.Da.

I suoni pulviscolari di Music For Laboratories hanno un loro peso specifico. Sono il frutto di un’intuizione creativa messa a fuoco attraverso i microscopi di una ricerca sugli spazi e sulle essenze, ispirata all’ambiente di lavoro presso l’Istituto Superiore di Sanità dove Orlando Lostumbo, in arte Spheric, presta la sua opera. Intuizione che in realtà paga un debito archetipico al concetto di musica per ambienti di Brian Eno, ma che l’acume inventivo del compositore romano sa far proprio come pochi altri. L’arte della circolarità ipnotica nel suono è declinata nelle modalità della suite dilatata e rarefatta, eppur densa di sbocchi e snodi vibrazionali che si espandono ALLE SOGLIE DEL SUBLIMINALE.

ARCANA SONORA

di Aldo Chimenti

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BARRY G NICHOLS LUIGI TURRA Small Divinities Place Editions

Le opere che si nutrono con la magia dell’edizione limitata hanno un altro degno rappresentante a sostenerle. La preziosa Place Editions propone un affascinante viaggio con le liriche di Barry Nichols e le musiche di un Luigi Turra inedito alla direzione di un ensemble composto da viola, violino e violoncello. Lontano dalle sue usuali atmosfere di sperimentale riduzionismo, immerso nella suggestiva declinazione sonora di paesaggi perduti nella lontananza di un remoto passato, il compositore di Schio ci sorprende e affascina profondamente. Il silenzio, usuale compagno nelle sue peregrinazioni, ci accudisce, OSPITE INDISPENSABILE.

CHRISTINE OTT
 Chimères (pour Ondes Martenot)
 Nahal

C

iò che ascolterete in questo gran lavoro firmato dalla polistrumentista francese porta con sé il mistero e la poesia di un mondo sconosciuto ai più. È una eco che giunge da lontano, inventata negli anni Venti dello scorso secolo da Maurice Martenot, ispirato da Leon Theremin. Uno strumento complesso e ‘antico’ dunque, che tutt’ora produce suoni futuribili. Ci vuole maestria e conoscenza per usare questo antenato dei nostri synth, Christine Ott ne ha e lo dimostra riuscendo a creare pura malia che sale dalle frequenze generate dagli oscillatori, capaci di trasformare il nostro ascolto in un incantesimo cinematico. CHIMERE.
 Mirco Salvadori
 Ph Jean-Pierre Rosenkrantz

Mirco Salvadori

BRUNO SANFILIPPO Piano Textures 5 ad21

Ad intervalli irregolari, Bruno Sanfilippo torna ad arricchire la serie delle Piano Textures intrapresa nel 2007 e adesso giunta al quinto episodio. Pur senza smentirne il filo conduttore di essenzialità pianistica, dunque spogliato dalla consueta interazione tra elementi elettronici e partiture cameristiche, il nuovo volume del compositore argentino si discosta dalle sole timbriche minimali, privilegiando di gran lunga i naturali caratteri melodici dello strumento. Gli undici brani senza titolo che formano il lavoro presentano infatti spazi estremamente contenuti tra note di austera bellezza che scorrono lievi, offrendo saggi di LUMINOSA ARMONIA.

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Raffaello Russo 80

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SYLVAIN CHAUVEAU Life Without Machines Flau

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e stazioni della via crucis raffigurate nella serie di dipinti in bianco e nero di Barnett Newman e il giardino delle pietre del tempio buddista Ryōan-ji a Kyoto, accomunati dal numero quattordici, costituiscono il filo conduttore delle altrettante tracce che formano il nuovo lavoro di Sylvain Chauveau. Fedele come sempre alla sua ricerca di un grado zero espressivo, il compositore francese affida alle esecuzioni della pianista Melaine Dalibert una sequenza di scarni frammenti, completamente spogliati di elementi meccanici, a simboleggiare la ricerca di un naturalismo alieno dalla dipendenza dalle macchine. Il messaggio giunge a destinazione con minimale, EMBLEMATICA EFFICACIA. Raffaello Russo Ph Thomas Jean Henri

(CON)TEMPORARY


CLARICE JENSEN The Experience Of Repetition As Death 130701 / Fat Cat

Con ogni probabilità quello che si dispiega lentamente all’ascolto è uno tra i miei album preferiti dell’anno. Un’opera estremamente complessa, sorretta dal suono di un violoncello che ne esalta la profondità. Il nuovo disco della violoncellista di Brooklyn induce all’immersione nel mondo della ripetitività legata all’esperienza di vita. Violoncello e continui loop supportano il doloroso viaggio nell’esperienza della perdita, con le sue cerimonie quotidiane che accompagnano i familiari nel percorso di scomparsa di un genitore. È il suono ad accompagnarci in questa esperienza tristemente sublime, la sua immensità, il suo MISTERO. Mirco Salvadori

EMMA GRACE Wild Fruits And Red Cheeks Pipapop Un album pieno di grazia, la stessa che appare nel nome della sua autrice. Una grazia tutt’altro che scontata, e quelle guance rosse lo stanno a dimostrare. Con il fervore dettato dalla passione, Emma Grace ci trasporta in un paesaggio ricco di selve nelle quali perdersi seguendo l’orma rarefatta di un violino apparentemente dissonante, slegato dal dovere cattedratico, vibrante in un universo dove l’improvvisazione e la convivenza dei vari elementi si coniuga creando fresca linfa, vitale per la rivisitazione di un nuovo modello sonoro, con radici piantate nel folk che si diramano oltre la barriera della ricerca elettroacustica. Emma nel paese delle MERAVIGLIE. Mirco Salvadori

FEAN II Laaps

Jan Kleefstra (voice, poems), Romke Kleefstra (guitar, bass and effects), Mariska Baars (vocals), Rutger Zuydervelt (electronics), Annelies Monseré (church organ, keyboard), Sylvain Chauveau (tuned percussion, radio), Joachim Badenhorst (acoustic and amplified clarinet, bass clarinet, saxophone). Copio e incollo la formazione di cui forse il più conosciuto è Chauveau, per cercare di rendere il senso di questo progetto giunto al secondo capitolo, interamente basato sull’improvvisazione e registrato in una chiesa. Un lavoro dedicato all’agonia del territorio massacrato dall’agire incosciente dell’uomo nell’opera di sradicamento delle torbiere in tutta Europa. IMPEGNO E POESIA. Mirco Salvadori

SEAMUS O’MUINEACHAIN Blue Moon Set Ghost Home Recordings Di ritorno da due anni trascorsi in Vietnam, Seamus O’Muineachain si presenta al quarto album avendo arricchito il proprio bagaglio personale e artistico. Blue Moon Set da un lato palesa la placida confidenza di una familiarità ritrovata, dall’altro evidenzia significativi sviluppi compositivi che vedono l’artista irlandese espandere la propria formula consolidata. Alle semplici linee pianistiche che ne caratterizzavano gli esordi, O’Muineachain associa adesso una varietà di sommessi riverberi di chitarre e synth, orchestrate con una matura padronanza e orientate alla creazione di rilassati paesaggi sonori in PENOMBRA.Raffaello Russo

SNORRI HALLGRÍMSSON 
 Chasing The Present (Original Soundtrack) Moderna

Anche per il compositore islandese, che nel debutto Orbit (2018) aveva accostato orchestrazioni post-moderne e lirismo vocale, è giunto il momento di cimentarsi per la prima volta con una colonna sonora. L’occasione è un documentario girato in tre continenti, incentrato su interviste a personaggi pubblici che toccano i temi dell’ansia e della depressione. Le dieci brevi piéce strumentali che lo accompagnano, coprodotte da Ólafur Arnalds, si collocano sul piano dell’immediatezza percettiva, attraverso minimali linee pianistiche, sostenute da aperture d’archi filtrate dall’elettronica, suggerendo RIFLESSIONI SOSPESE. Raffaello Russo

TINY LEAVES Alone, Not Alone Pegdoll

Fragile come le foglioline primaverili alle quali ha scelto di consacrare il suo alias, la musica di Joel Nathaniel Pike è sempre stata caratterizzata da un respiro lieve e da sfumature cangianti. Elementi elettronici e fiorite partiture cameristiche continuano a intersecarsi nel suo quarto album Alone, Not Alone, secondo un equilibrio più aggraziato che mai. In una fluida sequenza di tredici brani, l’artista inglese snocciola una graduale mutazione di registri il cui denominatore risiede nei caratteri istintivi di piéce che con sensibilità e leggerezza colgono gli aspetti più delicati di paesaggi naturali e interiori, proiettati alla RIGENERAZIONE. Raffaello Russo

(CON)TEMPORARY

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BVDUB

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Ten Times the World Lied Glacial Movements

rofetico Brock Van Wey. Che ha registrato il suo nuovo album dal vivo, il dieci di ogni mese, per dieci mesi. Ognuna delle dieci registrazioni è in ricordo di un tempo in cui il mondo ha mentito. Ognuna dura esattamente sette minuti e cinquantadue secondi. La prima traccia in scaletta sembra una preghiera: Not Yours to Build è uno strato di malinconia che si avvolge in un cerchio sgretolandosi come gli incubi di Basinski. Sulla seguente Not Yours to Say meravigliose chitarre post-shoegaze si fanno strada fra strati di nebbia e folate di vento artico. Not Yours to Give continua sulla stessa lunghezza d’onda con un organo al posto delle chitarre a disegnare una melodia accecante sopra un drone che lentamente riesce a scaldare anche la lunga notte polare. Altrettanto evocativa ed epidermica Not Yours to Find, poco più avanti in scaletta: un grido trattenuto nel ghiaccio esplode come in un sogno dei Sigur Rós tra sintetizzatori persi nella neve. Su Not Yours to Keep emerge la rabbia, la rassegnazione e la disperazione per un’evoluzione che produce più danni che benefici. Ten Times the World Lied è già il quinto disco che Brock Van Wey pubblica per l’etichetta romana Glacial Movements, un sodalizio che speriamo possa durare ancora per anni. IMPERDIBILE. Roberto Mandolini

JAC BERROCAL, DAVID FENECH, VINCENT EPPLAY Ice Exposure Klanggalerie

Ice Exposure, ovvero un intricato progetto che contiene una moltitudine di elementi giunti dalle più disparate esperienze di ascolto. Post-punk, jazz, no wave, spoken world, impro, avant-garde e computer processing a comporre un affresco oscuro sul quale la tromba di Berrocal crea isole di attesa dove fermarsi prima di affrontare il percorso seguente ricco di incontrollata inquietudine. Fenech e Epplay agiscono alla perfezione usando chitarre, elettronica, field recording e percussioni per creare un suono denso e oscuro del quale si perde il controllo. Ce lo si ritrova improvvisamente appiccicato addosso COME UN’AMANTE NON AMATA. Mirco Salvadori

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JOHN CHANTLER & JOHANNES LUND Andersabo Johs & John

Già la formazione che prevede organo a canne e sax basso lascia intendere quanto intrigante sia questa seconda uscita del duo. Atmosfere ambient, minimali, dove il sintetizzatore viene usato come amalgamante di suoni acustici. Dall’iniziale, nervoso, evolutivo tributo alle origini jazzistiche free, selvagge e indomite, le semantiche del duo si spostano verso una contemplativa attualità, tra ambient, consapevole e discreto noise, ipnotici droni e minimalismo concettuale, regalando gemme di rara intelligenza all’ascoltatore attento. Un album diverso, di anarchico piglio, di VERA MUSICA NUOVA. Massimo Marchini

SUBTERRANEA


MARSICO/TRAPANI

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The Greatest Nots Plastica Marella

igliate due fratelli che fratelli non sono. Uno nasce in un’era che gli permette di giungere senziente e in posizione eretta alla fine degli anni ‘70 e da lì iniziare a combinare meravigliosi disastri multidisciplinari che riescono a portarlo intonso fino ai nostri giorni. L’altro, il non fratello minore, viene agganciato negli ‘80 e anche lui, entusiasta agitatore multitasking, non cessa più di produrre stupefacenti danni. Ad unire i due la scintilla di follia che sola può illuminare il cammino di chi si chiama Maurizio Marsico e Stefano Di Trapani; che se magari scrivo Monofonic Orchestra e Demented Burrocacao i più giovani e colti musicologi fanno: Oh dai! Li conosco! Chi se non la geniale Plastica Marella poteva ospitare siffatto storico duo, con un vinile in edizione limitata che si preannuncia come una delle migliori operazioni post-tutto-ma-proprio-tutto, capaci di riassumere nelle otto esplosive, dissonanti, impazzite, post-provocatorie, simil-alt-non-più-punk, lounge forse - un attimo che mi devo alzare per girare il vinile - jaaaaaz, frigidairiane e tannino-liberatorie tracce contenute nel disco, come una delle più fresche e intelligenti uscite di inizio anno. La traccia che più colpisce sono, direi, tutte, perché IL MAESTRO SIAMO NOI. Mirco Salvadori

JAN WAGNER Kapitel Quiet Love

LAURIN HUBER

Esistono dischi che porti con te per giorni, apparentemente sono lavori semplici che appartengono a quel mondo ‘poco impegnato’ dal quale in molti si tengono alla lontana per non apparire troppo banali negli ascolti. Sono incappato per caso in questo nome così altisonante, non lo conoscevo ma i pochi secondi in cuffia mi hanno suggerito di proseguire nella conoscenza. Nulla di nuovo o particolare, un tocco pianistico alla Budd, ma con meno silenzio e magia ad accompagnarlo e l’assoluta capacità di infondere calma e profondo piacere per tutta la durata del disco. Un lavoro intimista nel vero senso del termine, musica da cui difficilmente ci si ALLONTANA. Mirco Salvadori

Juncture Hallow Ground

Ciò che subito colpisce e attrae nell’ascolto di questo lavoro è la ritmica del contrappunto che dilaga e si unisce magicamente alla fitta tessitura elettronica, perfezionando il suo messaggio descrittivo, rendendolo sempre più vivido, capace di proiettare nell’ascolto ciò che l’impalpabilità del suono non può creare a livello visivo. Come molti artisti, anche Laurin Huber si ispira accogliendo nel suo comporre una realtà colma di dualismo, per nulla semplice da accettare. Caratteristica questa che cerca di esprimere utilizzando diverse categorie appartenenti all’universo digitale assemblate poi tra loro e in grado di creare uno spartito di densa e intensa lettura. CONGIUNZIONI. Mirco Salvadori

SUBTERRANEA

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CHROMB!

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Le livre des Merveilles Dur et Doux

uando si dice diquestitempinonescenulladinuovo. Il libro delle Meraviglie è musica da nouvelle vague, quel mirabilia di cui ha scritto Jacques Le Goff svelando o costruendo un sentiero tra il Medioevo e i nostri tempi. Quattro musicisti, no chitarra, cori, per nulla prigionieri di nessun genere musicale ma spiritati dalla fantasia. Le livre des Merveilles, il primo brano, procede con cadenza quasi marziale, poi una distorsione come un errore nella registrazione, le voci e l’apertura finale basso/batteria/tastiere. Tastiere analogiche, bien sur, profonde, processate, come nel secondo brano Le fleuve Brison, che arriva a sfiorare una sezione ritmica metal, per intenzioni, potenza e distorsione. Poi l’album (2+2 brani) prende una piega leggermente differente in cui, se possibile, le tastiere sono ancora più protagoniste. Allora si viene proiettati verso spazi più rarefatti (Le chevaliers qui apparaissent) in una vera e propria fiaba delle frequenze, voci dilatate e di fantasmi, e la tentazione è quella di chiudere gli occhi. È un brano in cui si possono trovare dei riferimenti ad altre musiche, dai Gastr del Sol ai Boredoms. Accanto all’ultimo disco di Teho Teardo Ellipses dans l’harmonie. LA FINE DEI TEMPI CON ALLEGRIA. Luca Pagani

N+[BOLT] 15 Amps Midira

THISQUIETARMY

15 Amps è la riduzione stereo di un’installazione per 15 amplificatori, cinque per ogni musicista coinvolto nelle registrazioni. La disposizione a cerchio degli amplificatori, con i musicisti e il pubblico all’interno, e la totale assenza di illuminazione, ha reso l’installazione alla Christuskirche di Bochum un evento difficilmente riproducibile su disco. L’LP pubblicato dalla Midira - l’ultimo di una breve ma brillante collaborazione - rende comunque l’idea del fascino dell’evento, con matasse di suono che si muovono in modo lento e costante, seguendo la fluidità dello spazio-tempo, illuminate solo dalle chitarre evanescenti di N. Musica per SLEEP CONCERT.

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Kesselhaus Midira

A quindici anni dall’imperdibile esordio Wintersleep, Eric Quach continua a portare avanti il suo progetto ThisQuietArmy. Non passa stagione senza una nuova pubblicazione del musicista canadese che con Kesselhaus taglia il traguardo del trentesimo album. Il disco si apre sulle asperità techno di Kraftwerk, un groviglio di scorie industriali che mostra le nuove influenze di Quach. Ultrablack è una dichiarazione d’intenti, una camminata cupa nelle ossessioni della civiltà post-industriale. Bonus track i 35 minuti della maestosa Another Nail in the Coffin of the Corpse of a Free City. CUPO. Roberto Mandolini

Roberto Mandolini 84

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SUBTERRANEA


BERNARD PARMEGIANI

I

Violostries Recollection

ndiscusso protagonista della scena della nuova musica post-darmstadiana, pioniere della nuova elettronica, Bernard Parmegiani compose Violostries, la sua prima opera maggiore per violino e nastri elettronici nel 1964, ovvero nel pieno dell’orgia creativa di quel decennio irripetibile, del quale in questo album sono rappresentate ben tre opere: oltre quella già citata, abbiamo Capture éphémère, del 1967, dove respiro, rumori e field recordings danno proprio quel sapore di effimero voluto e premonitore dell’uso dei layers sovrapposti, dimostrando così di aver ben appreso la lezione di György Ligeti ed Edgar Varése. Infine, La Roue Ferris (1971), anche questa un’ importante opera sul tempo, ove il suono ripetuto di un’immaginaria ruota che gira e i suoi possibili infiniti contrappunti ne delineano l’ammaliante interscambio tra significante e significato, ricordando la definizione di Jacques Lacan, che osservava con dilaniante lucidità come “il significato sia un sasso in bocca del significante”, e anticipando il linguaggio dei decenni futuri di musica elettronica.Gli appassionati del rock più raffinato, al pari di ogni amante dell’avanguardia, non si lascino scappare questa preziosa edizione che ricorda la gloriosa performance tenuta da Bernard a Londra accompagnato dalla sacra Third Ear Band. MUSICA PER INTENDITORI. Massimo Marchini

YUNE Agog Cruncy Frog Recordings

ZEA + OSCAR JAN HOOGLAND

Rivivere le torride e psichedeliche esperienze desertiche attraverso l’uso della musica e farlo dopo almeno un trentennio dagli ultimi ascolti legati a questi viaggi ascoltando una formazione nordica, danese per la precisione, proprio non l’avrei immaginato. I cinque Yune agiscono sull’empatia e sulla capacità di riassumere nell’apparente disinvoltura della loro miscela elettroacustica, un universo di esperienze sonore vissute e riportate alla luce con la semplicità della leggerezza. A farla da padrone le chitarre, che viaggiano calme e penetranti irrorando il nostro ascolto di accennato shoegaze, psichedelia e minimalismo rock con inaspettate travolgenti aperture. GOLD. Mirco Salvadori

Summing Makkum

Geniale. La collaborazione tra il musicista olandese Oscar Jan Hoogland, virtuoso del clavichord, nonché sperimentatore e ispirato frequentatore della scena improvvisativa di Amsterdam di assai lunga tradizione, e ZEA, band immaginativa capitanata dal chitarrista Arnold de Boer (The Ex), sa fondere new music, jazz contemporaneo, post punk, art rock e free, rock in opposition in un linguaggio intrigante, originale e cubista. Una musica dove l’ improvvisazione riveste un ruolo primario e primordiale, pur all’interno di strutture – canzoni infettate da un’urgenza creativa davvero singolare. TRA I DISCHI DELL’ANNO! Massimo Marchini

SUBTERRANEA

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TETTIX HEXER

L

The Great Vague The Big Oil Recording Company

a presentazione parla da se: “Se la musica è ridotta a un atto di consumismo - catalogata in base alla quantità di zucchero contenuto, utilizzata come sottofondo durante l’atto ricreativo di tornare a casa dal lavoro - la musica allora finirà per ristagnare nel suo salmodiare e si stancherà della sua stessa voce”. Così Jens Leonhard Aagaard, alias Tettix Hexer, introduce il suo meraviglioso album di debutto, The Great Vague. Una raccolta di otto brani di elettronica sognante e potente allo stesso tempo. Costruita utilizzando vecchi sintetizzatori analogici, filtri digitali e timbri di strumenti provenienti dalla grammatica del rock. L’omonima The Great Value si apre con una distorsione di malinconia che subito esplode in un uncino irresistibile: come se Joshua Eustis (TTA) e James Holden avessero unito le forze per raccontare la struggente bellezza di un arcobaleno dopo una tempesta. Otto minuti e trentacinque secondi di saliscendi shoegaze drogato con silicio. Il maremoto emozionale non accenna a diminuire con le altre sette tracce in scaletta, esplosioni di malinconia incontenibile. Schivo, introverso, lontano anni luce dalle sovra-esposizioni dei nostri tempi, il produttore danese ha registrato un CAPOLAVORO. Roberto Mandolini

CAMEA

MYSTERY PLAN

Dystopian Love Neverwhere

ZSA ZSA Ten Millimeter Omega Recordings

Produttrice techno con un’esperienza ventennale alle spalle, Camea Hoffman giunge all’album di debutto dopo vari 12” licenziati da BPtich Control e dalle sue label Clink Music e Neverwhere. Una techno sognante, onirica, suggestiva: questo è il sound di Dystopian Love, che trova piena espressione nella shoetronica di Missing You, accompagnata dalla sua tenue voce declinata in modalità ethereal, e dalle progressioni strumentali, ad incastri, di Together, dal sapore vintage e dalla ritmica da dancefloor. Il mid tempo della title track, cantata, ricorda i Chemical Bros del primo disco, mentre Come Down lambisce territori chillstep. UNA MERAVIGLIA.

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Emanuele Salvini 86

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SONIC BANG

Pazzesco massaggio cerebrale, polarizzazione acuta di stampo classico. Questo è shoegaze stimolato da trip-hop, ma anche (non si dice ma va rimarcato) popular-ballads, ma anche folk-ambient, ma anche downtempo. In tempi di virus metropolitani la via di fuga è una semplice scappatoia da prendere al volo. Il richiamo intimo alla natura boschiva è una sensazione diffusa lunga tutto l’album, molteplici sfaccettature ne fanno un disco adultissimo (!!). Frequenti scatti armonici si catapultano dai 70s, altre geometrie pescano dai 90s in simbiosi con una dreamtronica ossessiva e lynchiana. IPNOSI SENSORIALE CHE TENDE AL SOGNO OSCURO. Matteo S. Chamey


SHABAZZ PALACES

ANGEL HO

NATHAN FAKE

Woman Call Private

Blizzards Cambria Instruments

The Don of Diamond Dream

Roberto Mandolini

Sub Pop A tre anni di distanza dall’ultimo album, esce il nuovo lavoro di Shabazz Palaces, con il solo Ishmael Butler ai comandi. Quest’ultimo è in ottima compagna, con il vocalist Darrius Willrich e altri musicisti. L’album non tradisce le aspettative e si fa, ancora una volta, portavoce della corrente più alternativa dell’hip hop, con tracce dai groove stralunati, flow bizzarri e atmosfere fortemente funk, jazz e afro. Un sound che è un marchio di fabbrica, con tutti i limiti del caso, dato che di vere innovazioni non se ne vedono. Quello che c’è, però, basta per amare l’album e ascoltarlo senza soluzione di continuità. ALT HIP HOP.

Se la frase di Andy Warhol sui 15 minuti di celebrità è effettivamente un fake come pare, cioè mai pronunciata dal celebre artista newyorkese, ciò non toglie che alcuni musicisti espongano in maniera sempre più diretta questo anelito alla fama, come quasi un Diritto. I brani hanno ben poco di spontaneo, sono progettati e strutturati per dare spinta alla costruzione di un personaggio, per quanto musicale. La drag queen culture è un prodotto dei tempi con le sue regole (stravaganza, eccentricità, colori sgargianti, dialoghi e situazioni del quotidiano) che porta di interessante tutto quello che è il prima o il dopo della musica (produzione, moda, provocazione). STUDIATO.

Consumata la separazione dall’amico e mentore James Holden, l’ex enfant prodige Nathan Fake sembra trovarsi sempre più a suo agio tra i labirinti della techno. Persiste anche nel suo quinto disco il fascino di una inconsueta vena psichedelica (North Brink, Firmament). Quello che manca sulle undici tracce di Blizzards è la morbidezza e la leggerezza dei suoi primi lavori. Quella distanza dal mondo del dancefloor - che pure lo osannava - che lo ha reso una delle figure più brillanti dell’universo elettronico degli ultimi tre lustri. L’arcobaleno artico di Pentiamonds basta comunque a consigliarne l’ascolto. UN TALENTO.

Simone Bardazzi

Luca Pagani

STUMBLEINE

L. TWILLS

RONE

Freedom/Fiction Misitunes

Room With A View Infiné

Sink Into The Ether Monotreme

Roberto Mandolini

Roberto Mandolini

Sintonizzata sulla stessa onda di Grimes e Crystal Castles, con un tessuto musicale in bilico fra i synth di Vangelis in Blade Runner e quelli di Carpenter, L. Twills è una giovanissima vocalist australiana di stanza ad Amburgo, che fra passaggi trap, suggestioni alla Kate Bush e qualche chilo di new wave di stampo tedesco ci serve sul piatto un album di ben undici brani. Il lavoro, purtroppo, è un po’ acerbo, anche se ha il buon sapore delle cose fatte in casa, in regime di DIY. Così come Grimes e molte altre, a spiccare è la voce, davvero notevole, mentre la scrittura è davvero un passo (o due) indietro. FRUTTI ACERBI. Simone Bardazzi

Rone si è innamorato dell’elettronica elegiaca dei Boards Of Canada. Il suo sesto album è un tributo all’arte melanconica degli scozzesi. Una valanga di filtri digitali gonfia melodie che sembrano esplodere in arcobaleni di silicio allo stato gassoso. Lucid Dream introduce nel migliore dei modi all’universo ovattato dell’elettronica del produttore francese. La Marberie, poco più avanti, sembra una citazione dall’imperdibile In A Beautiful Place Out In The Country, il capolavoro dei BoC. Le disastrose conseguenze del climate change alimentano le preoccupazioni di Fridays For Future. Rone vive nel suo mondo, in questo mondo. L’ALBUM DELLA MATURITÀ.

Spiderwebbed ci ha fatto entrare nell’universo ovattato di Peter Cooper. Dissolver, due anni dopo, ha confermato il talento del produttore inglese, capace di portare lo shoegaze tra le nuvole dell’elettronica più romantica e sognante. Sink Into The Ether è già il settimo album di Stumbleine, una raccolta di ballate cucite con sospiri che sono in grado di bloccare il fiato in gola. Un arpeggio di chitarra acustica, una frase al pianoforte, una voce proveniente da chissà quale dimensione: sono lo spunto per esplosioni di incontenibile malinconia foderata di silicio allo stato gassoso. Un arcobaleno di neuroni innamorati. Un abbraccio che non smette di stupire. SHOEGAZE ALLO STATO GASSOSO.

SONIC BANG

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ANDREA SENATORE Héritage Onde Electronic Contents

Il nuovo lavoro del cantautore e polistrumentista pugliese è tutto all’insegna di un synth pop raffinato, in un’opera che affronta tematiche come il dolore per la perdita del padre (Deep Blue) e l’esistenza di universi paralleli (Parallel Skies). Disco che si fregia dell’ottimo lavoro compositivo di Andrea, come di un metodo di lavoro basato sulla sintesi e sulla semplicità della forma-canzone. A colpire sono la bella voce dell’autore e le sue doti pianistiche, cosi come le influenze etniche di Dusty Tapes, oltremodo impreziosite dalle due vocalist Leila Bahlouri e Maria Ingrosso. Davvero un gran bel disco. DA SCOPRIRE. Emanuele Salvini

HIS MASTER’S VOICE

SKALPEL

Sorprendente il debut album di Jaines Bomt, aka His Master’s Voice, che raccoglie nel suo primo 33 giri nove tracce totalmente strumentali che si muovono con estrema eleganza tra techno detroitiana, jungle old school e ambient rarefatta. Dall’incipit avvolgente di Lunar alla chiosa epica in salsa breakbeat di Blossom, Bomt compie un viaggio intergalattico verso la stella di Sirio, alla ricerca di vita aliena. Tra scenari sci-fi squisitamente seventies e rimandi ai corrieri cosmici, il godimento procurato da questi brani è assicurato. E anche quando i ritmi spezzati si alzano, risplende la bellezza degli scenari evocati. CLASSE.

Tecnici del suono. Non vi sono altre definizioni più appropriate per il duo polacco già noto alla Ninja Tune per due album entusiasticamente e-seguiti. Il salto dai samples ai reperti digitali è foriero di lungimirante attitudine all’esplorazione. Jazz e trip-hop si armonizzano al tavolo minimal, mancano forchette e coltelli. ma è voluto. Sono Arrival e Zorza a definire la colonna sonora di un “esterno” futuristico, dove ruoli e generi sono completamente ridimensionati nell’ottica del cambiamento. Dieci tracce da elaborare senza sovrapposizioni di pensiero, da lasciar scorrere cavalcando impulsi privi di strappi emotivi. PERSPICACIA DIGITALE.

Log: α Canis Majoris KCZMRK

Emanuele Salvini

BLINKAR FRÅN NORR Metaphors For Things A Strangely Isolated Place Esiste una sorta di sacralità in questo disco. La si percepisce giungere da luoghi lontani e reconditi, quelli del nostro intimo sentire. Volendo sintetizzare, lo definiremmo ambient tout court, ma è decisamente qualcosa di più. Non lasciatevi ingannare dal nome nordico: altro non è che il moniker dietro al quale si nasconde un sound artist che giunge dalla splendida Sardegna, Andrea Garau. Il suo racconto sonoro è quanto di più avvolgente e commovente si possa ascoltare ultimamente in fatto di disciplina ambient. Un continuo sovrapporsi di onde armoniche che trasportano ciò che di più segreto appartiene all’animo, nel bene e nel male. SUFFERING AND DELIGHT.

PREQUEL TAPES The Pandora Star Sessions live @ No Bounds, Sheffield 2019 Gaffa Tape Per accogliere in pieno il suono del berlinese Prequel Tapes bisogna prima sapere cos’è Pandora Box Star, una lampada a LED progettata per la meditazione che può essere impiegata con diverse modalità. La registrazione riportata su tape riguarda proprio una live session nella quale venivano usate queste particolari lampade. Una volta compreso il contesto si può partire per questo viaggio che assume contorni decisamente psichedelici, conditi però di echi kraut capaci di creare brividi. Il giovane sound artist tedesco dà il meglio di sé in un set di purissima elettronica capace di farvi spalancare il TERZO OCCHIO. Mirco Salvadori

Mirco Salvadori

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SONIC BANG

Highlight NoPaper/!K7

Matteo S. Chamey

STEVE ROACH The Sky Opens Projekt

Una pubblicazione monumentale in doppio CD: ben 140 minuti di musica live, durante un concerto presso la First United Methodist Church di Pasadena, California. La ripresa, effettuata in un ambiente riverberante è quanto di più ambient (nel senso più realistico del termine) si possa trovare in giro. Roach – pioniere della musica elettronica e ambientale – si esprime qui al suo meglio, fra synth analogici e digitali, ed interagisce con l’acustica avvolgente di uno spazio reale. Ogni traccia, inoltre, sembra esplorare una delle tante direzioni del percorso artistico dello stesso Roach. Un lavoro completo, emozionante, quasi la CELEBRAZIONE DI UNA CARRIERA. Simone Bardazzi


JESSY LANZA Lick in Heaven Hyperdub

‘Once I’m spinning, I can’t stop spinning’ canta Jessy in gran parte del suo nuovo singolo. E come si fa a non innamorarsi di un brano così? Tempo pari, bassi analogici, campanellini in sintesi FM, la scrittura e la produzione del solito Jeremy Greenspan. Dopo 4 anni Jessy Lanza torna e vince tutto, con classe e con un pezzo che potrebbe fare strage di cuori di adolescenti e vecchiacci su Spotify. KILLER SONG. Simone Bardazzi

ADIEL & ANTHONY LINELL Raso EP Danza Tribale

Ciò che la massa propulsiva contingenta l’individuo libera. Adiel (da Roma) & Anthony elaborano percorsi neurali geometrici plasmati sul concetto del vuoto cosmico da riempire. Tracc(iat)e in 4/4, i loop vagano dentro un vagone merci leggero, la carcassa techno irradia l’ambiente metallico senza intaccare l’atmosfera esterna. Si viaggia a velocità costante, una marcetta skittish martial detta i tempi della perdizione-inun-attimo. ESPLORATORI RAFFINATI.

MATTHIEU MANTANUS

MINIMAL VIOLENCE

HEALING FORCE PROJECT

Sound of Elements

DESTROY —> [physical] REALITY [psychic] <— TRUST Tresor

Parallel Universe EP

JeansMusic Il pianista svizzero Mantanus è un personaggio noto per le sue incursioni televisive e per il suo lavoro divulgativo sulla musica classica. Sound of Elements è un assaggio del suo primo incontro con l’elettronica e il mondo delle field recordings. Un lavoro interessante, che risente dei suoi trascorsi classici, ma non è esente da alcune ingenuità nell’impiego di synth analogici e moduli digitali. MUSICA DESCRITTIVA. Simone Bardazzi

Ravebomb tiene fede alle aspettative ed esplode con la sua carica trascinante di bpm sia nella versione originale sia nell’ancora più incendiario Fire Mix, un delirio di techno psichedelica in orbita su Venere. Ash Luk e Lida P sono diventate delle maestre nel costruire groove cinematici che esplodono avvolti su melodie irresistibili. Echi di synth wave anni ‘80 nella traccia che chiude l’EP, The Next Screen Is Death. TECHNO SOUP. Roberto Mandolini

Jazz-o-Tech Tra Milano e Berlino la Jazz-o-tech continua a navigare le terre di confine tra elettronica e jazz. Come dimostra il nuovo EP di Healing Force Project, alias Antonio Marini, Parallel Universe EP. La traccia che dà il titolo all’EP è una ballata costruita sui timbri del miglior jazz elettrico: sembra di ascoltare l’astronave Mwandishi in orbita su Saturno. Terreno fertile per il remix lunare di Tkode. SPACE SOUP Roberto Mandolini

Matteo S. Chamey

SINGLES SOUP

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NICK FINZER Cast Of Characters Outside In Music er una volta è bene cominciare dal fondo, dal brano che chiude le quattordici selezioni del nuovo album del trombonista, compositore, arrangiatore e didatta newyokese Nick Finzer. Il suo titolo recita testualmente: “We’re more than the sum of our influences.”Un’affermazione così esplicita da sgombrare subito il campo da ogni possibile (e plausibile) elucubrazione intorno ai nomi ai quali Finzer e i cinque solisti al suo fianco sarebbero “debitori” per la musica proposta in Cast Of Characters. Ciò che non significa affatto sminuire o, men che meno, rinnegare gli svariati e molteplici modelli, riferimenti e rimandi che l’ascolto di queste tracce porta alla mente, ma inglobarli e riprocessarli tutti in una forma orgogliosamente inedita e originale, in uno stile che è peculiare alle esperienze e alle sensibilità di ciascuno di essi.Ci si muove insomma su un terreno certamente dissodato e reso fertilissimo da figure fondamentali nella storia del jazz orchestrale (da Duke Ellington a Gil Evans), ma con un’agilità, una scioltezza e una forbitezza espressiva affatto contemporanea e soprattutto con la piena consapevolezza di chi sa di disporre non soltanto di una tecnica strumentale sopraffina ma anche della precisa cognizione del proprio obiettivo: CALARE IL JAZZ IN PIENO 21° SECOLO. Elio Bussolino

P

BRECKER BROTHERS

CHIARA PANCALDI

DONATELLO D’ATTOMA

Live And Unreleased

Precious

Oneness

Leopard Onkel Pö’s Carnegie Hall, Amburgo, 2 luglio 1980: la band dei fratelli Randy e Michael Brecker sciorina il meglio della sua fusion fatta di spessi tratteggi di basso, riff contagiosi, assoli tesi. Mark Gray spinge sui sintetizzatori a sostenere le evoluzioni acrobatiche di tromba e sax e gli affondi elettrici di Barry Finnerty, mentre la ritmica di Morales e Jason tiene stretti i ranghi. Il tutto suonerà datato e fuori misura, ma l’affiatamento è perfetto, rodato su strada, e la tecnica sopraffina. La magniloquente apoteosi arriva con i quasi 20 minuti della sinfonia urbana Funky Sea, Funky Dew. Doppio CD o vinile, REGISTRAZIONE INEDITA, CON OTTIMA RESA SONORA

Challenge Intl. Se si è soliti individuare nel terzo album di un artista quello della maturità, allora per Chiara Pancaldi occorre forse fare un’eccezione perchè Precious è già il quarto che la vocalist bolognese si accredita. I conti però tornano lo stesso, visto che è il terzo a fregiarsi del logo olandese Challenge Intl. e soprattutto il primo che, fatta eccezione per la cover di You And I di Stevie Wonder e un brano composto dal “suo” bassista Darryl Hall, la vede autrice unica di testi e musica. Un bel passo avanti nella sua parabola artistica, insomma, la dimostrazione di una crescita sempre più marcata e consapevole a supporto di una VOCE LIMPIDA ED EDUCATISSIMA. Elio Bussolino

Dodicilune Donatello D’Attoma rispolvera la formula del trio jazz (con basso e batteria) forgiata da Oscar Peterson, trasformata da Bill Evans in un dogma e poi in un sofisticato metodo dal Keith Jarrett maturo, per addentrarsi in universi insoliti, al crocevia con la musica colta europea. Il trio possiede una concezione dinamica e democratica del suono (tutti gli strumenti diventano protagonisti, sul modello proprio di Bill Evans), che libera l’armonia dal ruolo ancellare riservatole da tanto post-bop per trasformarla nella voce cardinale. Il gioco di pieni e vuoti e il controllo della dinamica da pianista classico evocano anche le gesta di Satie e Debussy. IMPRESSIONANTI.

Alessandro Hellmann

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JAZZ

Francesco Buffoli


JASON PALMER The Concert: 12 Musings For Isabella Giant Step Arts e non è la prima volta che le arti figurative ispirano un fuoriclasse della tromba – si pensi soltanto a quella Venus De Milo che Miles Davis incise nello storiche sedute di Birth Of The Cool –, forse mai prima d’ora era accaduto che a dare libera stura all’estro compositivo di un altro virtuoso dello strumento come Jason Palmer fosse un clamoroso furto di opere d’arte come quello compiuto ai danni dell’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston nella notte del 18 marzo del 1990. Forse con l’intento di riaccendere l’attenzione su quel colpo da oltre 500 milioni di dollari – i tutt’ora ignoti ladri si volatilizzarono con un bottino che comprendeva tele di Rembrandt, Vermeer, Manet e Degas – il trombettista del North Carolina con illustri trascorsi accanto a Roy Haynes, Herbie Hancock, Jimmy Smith e Wynton Marsalis ha composto una suite in dodici parti ispirate a ciascuno dei capolavori trafugati e l’ha presentata dal vivo alla testa del suo quintetto (Mark Turner, sax; Joel Ross, vibrafono; Kendrick Scott, batteria; e Edward Perez, basso) nel concerto newyorkese dal quale è stato ricavato il programma di questo album. Ebbene, senza perifrasi 12 Musing For Isabella è un tripudio di creatività, eleganza e tecnica, l’opera audace eppure accessibilissima di CINQUE SOLISTI IN TOTALE STATO DI GRAZIA. Elio Bussolino

S

ERIK TRUFFAZ Lune Rouge Warner Veterano della scena jazz mitteleuropea (le sue origini sono francesi, ma vive e lavora in Svizzera da tempo), il trombettista Erik Truffaz, coadiuvato da un terzetto di tutto rispetto (Hnatek, Corboz, Giuliani), rivisita il concetto di esplorazione in Lune Rouge, splendido compendio di nu jazz psichedelico e interstellare che evoca ora il Miles Davis più cosmico (la sua fathomless music degli anni ‘70), ora certa avanguardia che strizza l’occhio alla musica ambient, ora gli inclassificabili Spring Heel Jack. I nove minuti abbondanti di E T Two lasciano letteralmente senza fiato, sospesi come sono tra i sovracuti di Truffaz e le ritmiche in orbita IDM. STARSAILOR. Francesco Buffoli

GIANNI LENOCI GIANNI MIMMO

GIANNI MIMMO ALISON BLUNT

È probabile che un giorno si parlerà di Gianni Mimmo con gli stessi toni di devozione che oggi si usano per Massimo Urbani. È infatti difficile scovare nel pur vasto e ricchissimo panorama italiano un musicista altrettanto coraggioso e lucido. The Whole Thing è una suite di cinquanta minuti che Mimmo ha concepito e registrato con il pianista Gianni Lenoci. Siamo in orbita jazz avveniristico: Lenoci è ispirato dal fuoco divino che incendiava le mani di Cecil Taylor, mentre Mimmo si conferma musicista di un eclettismo disarmante, in grado di maneggiare con naturalezza la ballad così come l’estetica di Steve Lacy e Roscoe Mitchell. MUSICA SENZA COMPROMESSI.

Registrato nella chiesa di Santa Maria Gualtieri a Pavia, Busy Butteflies è l’ennesimo salto nel vuoto di Mimmo, qui affiancato dal violinista Alison Blunt. Il musicista si posiziona sempre al crocevia tra jazz sperimentale e avanguardia pura, sulla falsariga di quanto fecero tedeschi e inglesi negli anni ‘60 e ‘70 (come Evan Parker, Mimmo adora lavorare nelle chiese, per il particolare sound che consentono di ottenere). La titletrack è una suite di venti minuti che compatta una carriera: Mimmo è ora elastico, ora stridulo e braxtoniano; Blunt avvicina la musica seriale e poi si cimenta con un campionario esteso di tecniche percussive. Nel complesso, l’opera sbalordisce per la RICCHEZZA DI IDEE.

Reciprocal Uncles - The Whole Thing Amirani

Busy Butterflies Amirani

Francesco Buffoli

Francesco Buffoli

JAZZ

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IRREVERSIBLE ENTANGLEMENTS Who Sent You? International Anthem Gli Irreversible Entanglements (letteralmente, qualcosa di simile a “correlazioni irreversibili”) radunano alcuni tra i migliori musicisti della East Coast (New York, Philadelphia e Washington) per elaborare una versione personale dell’avant jazz orientato verso la spoken word; una versione distante da ogni pretenziosità e capace invece di collocare al centro del discorso la componente carnale della musica afroamericana. I sette minuti abbondanti di The Code Noir/ Amina preludono all’arazzo postchicagoano della title-track, un jazz sci-fi forte di un impatto fisico quasi punk rock (se non hip hop) e al tempo stesso astratto come il miglior free. LA FORMA DEL JAZZ CHE VERRÀ.

KEITH OXMAN

About Time

Capri Ascoltare due sax tenori di classe dialogare intorno a temi d’autore (Bossa For Baby di Hank Mobley e Sweet Sucker di Johnny Griffin) è tra i piaceri più intensi che un jazzofilo possa riservarsi. Se poi a quelli si affianca una voce morbida e voluttuosa come quella di Annette Murrell in un paio di standard griffati Frank Loesser (Everything Happens To Me) e Jeff Jenkins (Crazy He Calls Me), allora si può perfino parlare di libidine e spingersi ad accostare questo sodalizio tra Keith Oxman e Houston Person a duetti entrati nella storia del jazz (Coleman Hawkins e Ben Webster, Johnny Griffin con Dexter Gordon e lo stesso Mobley, John Coltrane con Sonny Rollins …) UN DISCO CAPACE DI GUADAGNARE NUOVI PROSELITI AL JAZZ. Elio Bussolino

Leopard Astro nascente della scena jazz mitteleuropea, il pianista tedesco Simon Oslender sta scalando le classifiche patrie grazie a una brillante rivisitazione degli anni ‘70. Il suo notevole esordio, intitolato About Time, avrebbe infatti potuto intitolarsi anche Spettri dei Weather Report, o L’Eredità di Miles. Vari indizi corroborano la tesi: il basso slappato che evoca Pastorius e Miller, gli incastri al contempo sinuosi e geometrici tra gli strumenti a fiato, il ritmo funk che non concede tregua ma che evita anche i contorsionismi del free jazz, una cantabilità di fondo che favorisce l’apprezzamento del grande pubblico. Aggiungiamo collaborazioni di prestigio ed ecco scodellato UN DISCO DI TUTTO RISPETTO. Francesco Buffoli

MALCOLM STRACHAN

TOM MISCH & YUSSEF DAYES

Francesco Buffoli

JOHN VANORE Primary Colors

Acoustical Concepts Come un fitto dialogo catturato su una bobina rimasta a decantare per oltre trent’anni in un cassetto. Da un canto il trombettista e compositore di Filadelfia John Vanore, un ex discepolo di Woody Herman rapito dalla forbitezza di un innovatore come Oliver Nelson, e dall’altro il pianista suo concittadino, nonché ex allievo di Karlheinz Stockhausen, Ron Thomas. Sul leggio sette spartiti – tre originali e quattro di svariata e nobile provenienza (Jerome Kern, Lionel Ritchie, Johnny Mandel, Sammy Field & Paul F.Webster) – sui quali riversare tutto l’estro, l’eleganza, la perizia tecnica e anche l’insospettabile vigore funk (Origins Of Rude) di cui sono capaci. UNA DELIZIA PER PALATI RAFFINATI.

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JAZZ

SIMON OSLENDER

Two Cigarettes In The Dark

About Time Haggis Sebbene al suo esordio discografico, Malcolm Strachan non può certo essere considerato un novellino. Membro fondatore degli Haggis Horns, una delle sezioni fiati più richieste nel Regno Unito e sessionman ricercatissimo - ha collaborato fra gli altri con Amy Winehouse, Jamiroquai e Mark Ronson -, insieme ad alcuni compagni degli Haggis Horns e a George Cooper al piano, Erroll Rollins alla batteria e Courtny Tomas al contrabbasso, Strachan firma qui il suo primo lavoro solista, un disco ispirato al jazz, con un taglio molto moderno ma ben radicato nell’hard bop e nel soul jazz delle registrazioni Blue Note degli anni a cavallo tra i ’60 e i ’70. MODERN CLASSIC. Gianni Tarello

What Kinda Music Blue Note/Caroline International Jazz, soul e hip hop hanno celebrato il matrimonio sin dagli albori, ma non sempre i linguaggi sono riusciti a coesistere in modo equilibrato, come se, a volte, l’uno tarpasse le ali dell’altro, adulterandone la purezza. Non mancano numerose eccezioni, tra le quali vanno subito annoverati Tom Misch (alfiere del neo soul londinese) e Yussef Dayes (già autore del piccolo gioiello nu jazz Black Focus, in coppia con Kamaal Williams), che con What Kinda Music (pubblicato dalla leggendaria Blue Note) rispolverano il concetto di fusione ardita tra i generi, scodellando autentiche perle, quali la psichedelica title-track o Nightrider, realizzata con il supporto di Freddie Gibbs. LOUNGE MUSIC SOFISTICATA. Francesco Buffoli


BEN L’ONCLE SOUL Addicted To You Blue Note

THE DEVONNS The Devonns Record Kicks

U

ltima scoperta in ordine di tempo della milanese Record Kicks e del suo vulcanico fondatore Nick Pozzoli, il cui fiuto soul non delude mai. Ad ispirare questi Devonns è il soul morbido di Chicago e di artisti come Leroy Hutson, Dramatics e Impressions. Questi quattro ragazzi si rifanno apertamente a quella scena musicale e confezionano un album che sulla sua reale data di uscita potrebbe trarre in inganno non soltanto i neofiti. Ad aiutarli ci sono due personaggi sensibili e capaci come Paul Von Mertens alla produzione, mentre alle chitarre, percussioni e organo provvede Ken Stringfellow, noto per i trascorsi con i REM e le sue svariate liaisons con l’Italia. SMOOTH SWEET SOUL. Gianni Tarello

BEAT BRONCO ORGAN TRIO Road Trip Rocafort

Negli ultimi tempi abbiamo assistito al fiorire di nuovi terzetti soul jazz composti da chitarra, batteria e organo Hammond e molte di queste nuove formazioni ricercano pervicacemente suoni vintage capaci di rimandare alla formula in auge nei gloriosi anni ’60. È ciò che caratterizza anche questo trio spagnolo il cui leader e organista Gabri Casanova vanta trascorsi degni di nota per aver fatto parte dei Sweet Vandals, pionieri del soul in terra iberica nei primi anni Zero e aver accompagnato PP Arnold. Il disco è arricchito dalla presenza di ospiti di valore: dal flauto di Chip Wickham nella super funky Squirtly alla voce di Alberto Palacios nella soulful Hey Hey. Per dirla alla PP Arnold: GROOVY! Gianni Tarello

Ne ha fatta di strada questo giovane soulman francese da quando esordì spregiudicatamente con un lavoro in cui reinterpretava in chiave soul anche classici del rock. Il suo quarto album esce per la leggendaria Blue Note, a testimonianza dell’ottima caratura internazionale del personaggio, e presenta sonorità molto attuali, accantonando un po’ il suo amore per il suono vintage. Il singolo Addicted ha basi profonde e un impatto molto r&b/hip hop, mentre tocca soprattutto alla ballata Next To You il compito di non tagliare del tutto i ponti con il suo passato. Nel complesso un album che concilia la black music contemporanea con l’originario stile di balladeer del sedicente “zio del soul” transalpino. EVOLUZIONE INTERESSANTE. Gianni Tarello

DR. RUBBERFUNK My Life At 45 Jalapeno

Quarto album (e secondo per la Jalapeno) per Simon Ward, aka Dr. Rubberfunk. Il titolo fa il verso al suo disco del 2006, My Life At 33. Molta acqua è passata sotto i ponti da allora e presso la nuova etichetta Simon ha trovato l’ambiente giusto per lanciarsi in collaborazioni e produzioni di altri artisti. My Life At 45 raccoglie quattro fortunati singoli andati esauriti nei canali di vendita on line. Spiccano gli ospiti alla voce: John Turrell del celebre duo Smoove & Turrell nel brano d’apertura, Izo Fitzroy nella splendida funk ballad A Matter Of Time e Stephanie Whitelock nella dolce With Love. Gli strumentali sono tutti piacevoli lounge funk, a cominciare da Pressure Cooker, che potrebbe figurare nel repertorio degli MG’s. ROMANTICONE. Gianni Tarello

IZO FITZROY How The Mighty Fall Jalapeno

Sono passati solo tre anni dall’esordio, ma per Izo è stata un’eternità, visto che ha consumato la fine di una relazione storica e nel 2018 ha anche perso l’uso della sua portentosa voce. L’esito del delicato intervento chirurgico al quale si è sottoposta alla fine le ha tuttavia restituito il caratteristico timbro vocale profondo e potente così che oggi la ritroviamo in splendida forma. Il disco risente di tali vicissitudini, le tematiche sono più profonde e personali. Sotto il profilo musicale, però, l’apporto di numerosi ospiti e collaboratori (Dimitri From Paris nel singolo I Want Magic, Shawn Lee nel boogie funk di Slim Pickings e Colin Elliott alla produzione) toglie un po’ di omogeneità al progetto. GRADITO RITORNO. Gianni Tarello

BLACK CORNER

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COCTEAU TWINS

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La voce del sogno

a voce del sogno in musica ha un nome difficile da dimenticare: Cocteau Twins. Chi ebbe a seguire la carriera della formazione scozzese sin dagli albori, forse concorderà nel riconoscerle lo stile unico e l’originalità della grafia per quanto ascrivibile alla fenomenologia del rock gotico di allora. Un miraggio tardivo di ere preraffaellitiche emerso dalle ombre del post-punk inglese, figlio naturale del movimento dark di prima generazione (leggi Siouxsie And The Banshees), fiore odoroso di una chimica riuscita fra talenti ispirati e sensibili. I Cocteau Twins avevano dalla loro la magia del tocco e una voce da favola come quella di Elizabeth Fraser, perfetta per farsi adornare dagli accordi ambrati e scroscianti dell’immaginifico Robin Guthrie alla chitarra. Le meraviglie vocali di Elizabeth Fraser non risiedevano solo nelle curve sinuose dei suoi timbri stregati, ma scaturivano pure dalle curiose formulazioni idiomatiche di una glossolalia (forma linguistico-verbale prossima al vaticinio) sapientemente architettata dall’autrice nella stesura dei testi, determinando un intricato rovello di parole-fonemi (apparentemente) senza senso o d’impervia decifrazione. Caratteristica questa che conferiva alle frasi canore un respiro poetico arcano, un elemento di musicalità fuori dal comune capace di veicolare suggestioni e stati d’animo facendo leva sull’intonazione e il colore lirico della voce medesima. Debuttavano nel 1982 con l’album Garlands, una prova la cui cifra enigmatica e scura sprigionava di contro una luce fatale, una specie di fascino sottocutaneo irresistibile, capace di far vibrare corde ignote nelle pieghe della sfera oniricoemozionale. Ad affiancare la coppia in line-up c’era il bassista Will Heggie, chiamato ad alimentare la sezione ritmica insieme al battito di una drum machine

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MEMORIES

di Aldo Chimenti

robotica e glaciale, il tutto calato nel solco di una scrittura spoglia ed essenziale, in un limbo di visioni spiritate e stranianti, evocative e sacrali oltre ogni possibilità di logica razionale. I voli canori della Fraser erano un ricettacolo di arie inesplicabili, di eufonie e gorgheggi in chiaroscuro tra estasi e tormento, mentre Guthrie sperimentava sulle corde arrotando chiavi armoniche e soluzioni di forma al limite dell’eterodosso. Un meraviglioso luogo di mistero vulcanizzato dagli sfolgorii della melodia e i sussulti del pathos, baciato dalla grazia innata di questa dama del bel canto dispensatrice di brividi e sogni, sublime anche nelle sue movenze più oblique e impenetrabili. Quasi dimentico degli ardimenti di quel primo monumento elettrico, Victorialand consegnava un quarto capitolo mosso da nuove intuizioni, una virata verso i grandi orizzonti della musica eterea, i linguaggi dell’anima messi a nudo tra i veli della malinconia e del silenzio, dove ogni vocalizzo è nettare e fiaba, un atto d’amore carezzato dalle filigrane ondose della chitarra riverberata per un matrimonio lirico di musica e parole destinato a farsi splendore notturno e spirito puro. Ristampe filologiche in vinile nero 140gr per ambo gli album. Un atto dovuto.

COCTEAU TWINS Garlands 4AD Victorialand 4AD


SEPULTURA

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eguendo un filo rosso che unisce le tematiche sataniste di Venom ed Hellhammer, la violenza sonora degli Slayer e dei tedeschi Sodom e Kreator, le atmosfere macabre dei Bathory, il cantato gutturale e demoniaco di Jeff Becerra dei Possessed, il death metal si materializza, alla fine degli anni ‘80, nel growl primordiale di Chuck Schuldiner e nei suoi riff cupi e iperveloci, accompagnati da una sezione ritmica martellante e pesante. È da queste basi che nascono i primi due album dei Death, Scream Bloody Gore e Leprosy, campionari di morte, sofferenza, distruzione e violenza, concentrati in testi urlati, ruggiti in maniera quasi incomprensibile e accompagnati da un sound che, oltre alla velocità ricerca proprio la pesantezza, come a voler descrivere ed evocare sensazioni morbose e ossessive. Il lato oscuro dell’heavy metal trova nel death il suo buco nero, il suo aspetto più spaventoso. Quella rabbia “positiva”, vitaminica, da sempre alla base della filosofia dell’hard rock e dell’heavy metal, con il death metal si trasforma in una sorta di depressione catartica. Il nuovo linguaggio si diffonde rapidamente nelle scene metal underground di tutto il mondo e uno dei paesi più ricettivi si dimostra, inaspettatamente, il Brasile. Nello stesso anno in cui Scream Bloody Gore cambia definitivamente i connotati al Thrash, dalla stessa terra che è stata culla della Samba, della Bossa Nova e del Carnevale, fioriscono i semi più violenti, aggressivi e brutali del metal estremo carioca: I.N.R.I. dei Sarcofago, Campo de Exterminio dei repellenti Holocausto e Schizophrenia dei Sepultura. Tutte e tre le band provengono da Belo Horizonte, che si trasforma, improvvisamente, nella Tampa brasiliana. Sebbene Schizophrenia mostri molti limiti a livello di produzione, è il primo album di death metal pubblicato in sud america a sfondare i confini nazionali. Ma è con il successivo Beneath the Remains che i Sepultura arrivano

Belo Horizonte, Florida di Daniele Follero

alla consacrazione. Il 1989, del resto, è un anno chiave non solo per la band dei fratelli Cavalera, ma per l’intero genere: l’esordio degli Obituary e dei Morbid Angel apre la strada al dominio della Florida nel campo del metal più brutale... A questa corsa alle armi, i Sepultura si presentano attrezzati a dovere. Il passaggio dalla Cogumelo all’etichetta americana Roadrunner rappresenta già di per sé un ottimo lasciapassare, ma è la qualità di Beneath the Remains a fare la differenza. Grazie a un sound più maturo e alla produzione del guru della scena death floridiana Scott Burns, il terzo album dei Sepultura si mostra capace di competere con i gruppi statunitensi. Brani come Inner Self e la Titletrack entreranno di diritto nei classici del repertorio della band, sebbene saranno oscurati dal più ampio successo mediatico del successivo Arise, prima che Chaos AD e Roots li allontanino definitivamente dalle atmosfere death. A poco più di trent’anni dalla sua prima pubblicazione, la Rhino rende omaggio a Beneath the Remains con l’uscita di una edizione deluxe in 2CD che, oltre alla versione rimasterizzata del disco contiene alcuni inediti e l’interessante registrazione live di un concerto alla Zeppelinhalle di Kaufbeuren, nell’allora Germania Ovest, ascoltando la quale si coglie più chiaramente l’impatto diretto e brutale che caratterizzava il quartetto di Belo Horizonte in quegli anni.

SEPULTURA Beneath The Remains Deluxe Edition 2CD o 2LP Rhino/Warner

MEMORIES

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CASPAR BRÖTZMANN MASSAKER Home Southern Lord

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orna il rumore di chitarre distorte, con tutto il suo senso di immediata rivolta camusiana al sistema delle cose. Home era una raccolta di materiali sparsi registrati da e nello studio di F.M. Einheit degli Einstürzende Neubauten, nel 1995. Brani che col tempo sono stati riarrangiati e hanno lentamente mutato forma. La chitarra è la costante e fa da padrona, comunque ben appoggiata da un drumming secco e mai ostinatamente ripetitivo, sotto una voce rauca e appena presente. The Tribe è l’incipit, un paio di strofe liberano chitarra e feedback. Massaker è la gravità del suono, l’azione prepotente sulle pelli e sulle corde. L’andamento dei brani di questa raccolta somiglia più a Fanfare For the Warriors degli Art Ensemble of Chicago che ad un disco dei Melvins (Hunter Song inizia con un lungo bordone, ma è ancora il calore delle valvole di un amplificatore registrato a tutto volume a scardinare il senso (comune) del rock - interessante confrontarla con Nonaah degli AEOC, lo stesso “cuore” all’interno del disco) . È figlio d’arte Caspar, di Peter Brötzmann, che - circa 4 anni dopo la sua nascita - pubblicava Machine Gun. Luca Pagani

BARNABUS Beginning To Unwind Rise Above

I Barnabus sono una oscura band inglese dei primi ’70, autori di un unico album di heavy psichedelico. Il secondo disco era rimasto inedito ma la Rise Above di Lee Dorrian è riuscita finalmente a pubblicarlo. Immaginate una versione acida degli Humble Pie incrociati coi Black Sabbath, oggi lo chiamerebbero stoner. Riffoni pesanti, da un lato, con una distorsione esasperata per l’epoca e ritmiche ossessive, dall’altro ballate dal sapore folk e molta improvvisazione. Del resto all’epoca i gruppi spaziavano senza imbarazzo tra diversi generi. Beginning To Unwind è una testimonianza genuina della libertà espressiva di quegli anni, un gran bel disco che meritava sicuramente di essere stampato. Blast from the past.

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Giancarlo Bolther 96

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CELER Scols Two Acrons

Un doppio CDr con due titoli, Sunlir e Scols. In molti hanno conosciuto così l’ambient crepuscolare di Celer. Nel 2005 Will Long e Danielle Baquet-Long erano una giovane coppia innamorata del mondo, che amava fotografare con la propria musica la bellezza che incontrava. I nove brani di Scols sono stati rimasterizzati da Stephan Mathieu e resi disponibili in un bel CD venduto sulla pagina bandcamp della Two Acrons. L’album gemello Sunlir venne ristampato qualche anno fa dalla spagnola CONV e non è stato incluso nel trattamento. I nove brani in scaletta di Scols bastano a capire l’amore di Celer per i loop disintegrati di Basinski e per l’estetica analogica della 12k. Roberto Mandolini

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MEMORIES

CELER Continents Two Acrons

Non bastano 50 euro per comprare un CDr originale di Continents, il secondo lavoro di Celer pubblicato privatamente nel 2006. Finalmente Will Long decide di ristampare quel disco, rimasterizzato per l’occasione dalle mani d’oro di Stephan Mathieu. Il doppio CD di Continents mostra Will e Danielle alle prese con una declinazione di ambient più bucolica e rassicurante di quella fatta ascoltare pochi mesi prima nel loro esordio: La Oroya’s Cantankerous Bells è un lento loop che si avvolge su se stesso trovando conforto in una melodia celestiale. Ancora più romantica la seguente Bereft Oversight, un incanto di pochi secondi mandato in loop per dieci minuti. Ben due le bonus track in scaletta. Roberto Mandolini


POLE 1 2 3 Mute

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’album blu. Quello rosso. E quello giallo. I primi tre dischi di Pole sono tre passaggi fondamentali per capire la transizione all’evo digitale. Stephan Betke era un dj che a fine anni 90 suonava per locali utilizzando sintetizzatori Waldorf. Da un errore imprevisto del suo hardware, un glitch, ha inventato un genere musicale che ha influenzato un’intera generazione. Glitch. Dub. Techno. Ambient. Un genere nuovo che ha modellato la dance elettronica per gli anni a venire. L’album blu si apre con le modulazioni in levare di Modul: un suono si avvolge su un silenzio assordante che colora la notte. L’ipnosi è lenta e avvolgente. Il groove seduce lentamente seguendo dinamiche non lineari. Il disco viene pubblicato nel 1998 e grazie alla benemerita Matador che lo distribuisce, mostra al mondo una rivoluzione techno cresciuta in Germania anni prima. L’anno seguente, l’album rosso, conferma il talento di Pole: Fahren è un viaggio di oltre nove minuti nella fantascienza dub che gli Orb hanno solo immaginato. Passa ancora un anno e Pole pubblica l’album giallo, il terzo della trilogia appena ristampata dalla Mute: Stephan Betke è diventato il tecnico di riferimento per un’intera generazione di musicisti. Il suo suono è la novità non solo in ambito techno. Fondamentale. Roberto Mandolini

EDIKANFO The Pace Setters Glitterbeat

Per la prima volta viene ristampato il disco di culto degli Edikanfo, The Pace Setters, pubblicato per la prima volta nel 1981 dalla EG. Parte del merito del successo di quell’LP è dovuto a Brian Eno, che lo produsse, parte ai tragici eventi politici che travolsero il Ghana proprio nel 1981, costringendo il gruppo all’esilio. Un viaggio profetico nella città di Accra, in Ghana, permise al produttore inglese di trovare quella scena musicale che stava cercando con l’amico David Byrne. L’ottetto degli Edikanfo era tra i più bravi in città nel mescolare funk, psichedelia e ritmi della tradizione. The Pace Setters raccoglie sei brani che suonano ancora oggi come la definizione di un genere. Roberto Mandolini

THE KILIMANJARO DARKJAZZ ENSEMBLE

THE MOUNT FUJI DOOMJAZZ CORPORATION

I Forsee The Dark Ahead, If I Stay

Doomjazz Future Corpses!

Denovali Negli ultimi quindici anni la Denovali ha pubblicato un catalogo incredibile. L’esordio del Kilimanjaro Darkjazz Ensemble esce per Planet Mu nel 2006. Quattro anni dopo viene pubblicato anche su vinile dalla Denovali, che nel frattempo si preoccupa di rendere disponibili altri due album del gruppo olandese. La raccolta I Forsee The Dark Ahead, If I Stay viene pubblicata per la prima volta nel 2011 e oggi viene finalmente resa di nuovo disponibile in vinile e in cd. Nove brani che mostrano tutte le caratteristiche di una band capace di mescolare elettronica, jazz, rock e psichedelia in un amalgama unico e avvincente.

Denovali The Mount Fuji Doomjazz Corporation è l’alter ego dei Kilimanjaro Darkjazz Ensemble. L’esordio della band olandese venne pubblicato nel 2007 dalla Ad Noiseam, e ristampato solo tre anni più tardi dalla Denovali in un triplo dieci pollici. Musica nata per fare da colonna sonora a film immaginari. Violoncelli che disegnano melodie melanconiche e si sposano con riff di chitarre uggiose. Nove movimenti di un’opera che lentamente svela tutta la sua carica emotiva. Il rock e la psichedelia sono solo il pretesto per navigare nell’inconscio. Roberto Mandolini

Roberto Mandolini

MEMORIES

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YUSUF / CAT STEVENS Back To Earth Super Deluxe Boxset 5CD/2LP Cat-O-Log/BMG

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ra il 1978 quando uscì questo album di addio e di rinascita. Da quel momento Cat Stevens sarebbe diventato Yusuf Islam e avrebbe abbandonato le scene per oltre 30 anni. Back To Earth è un disco pervaso di malinconia e speranza al tempo stesso, un lavoro che sembra non essere invecchiato perché sospeso nel tempo, sia dal punto di vista sonoro sia da quello dei testi. Ascoltate il singolo Daytime, donato all’Unicef, per averne la prova. Cat Stevens sembra emancipato dall’idea di dover restare fedele allo status di rockstar che gli stava stretto e può dedicarsi esclusivamente alla musica, quella acustica e minimale che lo ha reso famoso. Ma lo fa anche seguendo le conseguenze derivate dall’averlo registrato a Broadway, decisione che lo spinge ad arricchire le sue canzoni di arrangiamenti articolati eppure delicati e mai autoindulgenti. Questo cofanetto contiene l’album originale, rimasterizzato a Abbey Road, due brani inediti (Butterfly e Toy Heart), il master stereo originale del 2001, brani live, demo rare e due registrazioni inedite, l’album del fratello David Alpha Omega (A Musical Revelation), prodotto da Yusuf/Cat Stevens stesso e materiale dell’Year Of The Child Concert per l’Unicef, tenutosi nel 1979 alla Wembley Arena, ultima esibizione dal vivo a nome Cat Stevens. Jacopo Meille

ROEDELIUS Tape Archive Essence 1973-1978 bureau b

Una pioggia di cristalli siderei irrora le musiche raccolte in Tape Archive Essence 1973-1978, epitome più sintetica rispetto al triplo box set di alcuni anni fa, ma non meno rappresentativa dell’operato svolto da Roedelius in quell’arco temporale. Un estratto dal repertorio di quei nastri magnetici bastante a riempire i due lati di un LP che i fans del compositore tedesco, ancorché sguarniti di quell’ormai introvabile edizione, non mancheranno di salutare. Il magico mondo di Roedelius è rivissuto in alcune istantanee della sua (cre)azione artistica in studio facendone emergere il fascino misterioso, la magia dello scorcio elettronico che rapisce nei suoi giardini segreti. Aldo Chimenti

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SPK Leichenschrei Old Europa Cafe

Monumento dell’industrial militante che ha fatto scuola. Pietra miliare di una stagione pioneristica che definire grey area sarebbe riduttivo. Leichenschrei era molto di più, per gli SPK era la seconda fase della loro rivoluzione. Dal nichilismo estremo degli albori all’empito della percussione metallica e del terrore fatto suono. La potenza di questo capolavoro sonico datato 1982 è sabba eretico e atto di forza contro il sistema distopico dell’età capitalistica, urla e ghermisce come una carica frontale di bestie impazzite e sacrileghe, scandita da boati di ritmi e rumori fragorosi, da armonie patibolari e affondi di voci gutturali mai dome. Una prova immensa e mostruosa, anzi inarrivabile. Aldo Chimenti

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