Roma, una città, un impero - n. 1

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studioEdesign Passione e creatività studioEdesign nasce da una passione condivisa per la creatività, nata durante gli studi e maturata attraverso numerose esperienze professionali in agenzie di pubblicità. A partire da queste esperienze abbiamo aperto studioEdesign, con l’obiettivo di curare ciascun progetto creativo con passione, rispettando elevati standard di qualità. Oggi studioEdesign segue ogni singolo lavoro dalla fase di progettazione fino alla realizzazione finale: graphic design, packaging design, corporate identity, webdesign, eco design.

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Editoriale

C

on il primo numero della rivista riprendiamo le linee di quel percorso ‘programmatico’ già tracciato con il numero precedente, consapevoli che nello studio del mondo antico è fondamentale interrogare e valorizzare tutte le fonti disponibili. Ben note sono del resto le connessioni e le interazioni tra archeologia, epigrafia, numismatica e storia, che negli ultimi decenni hanno contribuito a conferire una vocazione interdisciplinare alla ricerca scientifica, favorendo una collaborazione tra studiosi e specialisti delle diverse discipline. Proprio in questa prospettiva si inserisce il primo articolo, dedicato ai sepolcri di età tardo-repubblicana scoperti tra il 1916 e il 1919 lungo il lato meridionale di via Statilia, in cui l’analisi delle iscrizioni incise o murate sulle fronti prospicienti la strada permette di integrare i dati forniti dal contesto archeologico, rivelando i nomi dei proprietari (e destinatari) dei monumenti, i loro reciproci rapporti di parentela e/o di dipendenza, il mestiere svolto in vita e la categoria sociale di appartenenza. Rappresentativo del rapporto tra storia e archeologia è invece il contributo dedicato al complesso periodo storico noto come anarchia militare (235-284 d.C.) e caratterizzato da generali acclamati imperatori direttamente dalle loro legioni: la personalità e la propaganda politica dei diversi protagonisti che si avvicendarono alla guida dell’Impero viene qui delineata attraverso le fonti letterarie e i monumenti eretti a Roma - archi onorari e trionfali, templi, ville suburbane e mausolei - ai quali gli stessi affidarono la loro autorappresentazione. Un confronto tra i dettagliati resoconti relativi ai ritrovamenti archeologici effettuati nel centro storico e nel suburbio di Roma grazie ai carotaggi e agli scavi stratigrafici condotti durante i lavori per la Linea C della Metropolitana, i cui dati preliminari sono stati presentati nella sede romana di Palazzo Massimo in occasione di due giornate di studio incentrate sul tema Archeologia e Infrastrutture, e la cronaca degli scavi settecenteschi che portarono alla scoperta di Ercolano, rende invece immediatamente evidente la distanza tra la moderna ricerca archeologica e quella del passato, disattenta al contesto archeologico e interessata soprattutto al recupero di opere d’arte con cui arricchire le collezioni borboniche. Emblematica a questo proposito è la prassi, inaugurata dallo scultore francese Joseph Canart, di ‘ritagliare’ le scene figurate ritenute di pregio dalle decorazioni parietali degli edifici ercolanesi per farne «tanti bei Quadri per la Galleria del Re» Carlo III di Borbone. Nella stessa epoca, sempre per iniziativa di Carlo III, iniziò anche la migrazione a Napoli delle sculture e delle iscrizioni appartenenti alla collezione Farnese, ereditata dal re per via materna, di cui è stato recentemente curato un nuovo allestimento presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli che racconta le vicende formative della raccolta e tiene conto del criterio espositivo voluto dai Farnese. Chiude la rivista un contributo dedicato agli straordinari manufatti marmorei con decorazione policroma provenienti da scavi clandestini effettuati in un’area sepolcrale daunia, situata nel territorio dell’antica Ausculum (odierna Ascoli Satriano, in provincia di Foggia) e databile nella seconda metà del IV sec. a.C., che sono stati recuperati grazie all’intervento del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale e della Guardia di Finanza di Foggia e oggi sono temporaneamente esposti nel Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo a Roma.

La redazione


DIRETTORE RESPONSABILE MARIA TERESA GARAU DIRETTORE ESECUTIVO ROBERTO LUCIGNANI COMITATO SCIENTIFICO Paolo Arata Funzionario Sovraintendenza Comune di Roma Alessandra Capodiferro Funzionario Soprintendenza Archeologica di Roma Fiorenzo Catalli Funzionario Soprintendenza Archeologica di Roma Paola Chini Funzionario Sovraintendenza Comune di Roma Vincenzo Fiocchi Nicolai Prof. Archeologia Cristiana Univ. Tor Vergata di Roma Gian Luca Gregori Prof. Ordinario di Antichità Romane, ed Epigrafia Latina, Facoltà Scienze Umanistiche, Univ. Sapienza di Roma Eugenio La Rocca Prof. Ordinario Archeologia e Storia dell’Arte Greca e Romana, Univ. Sapienza di Roma Annamaria Liberati Funzionario Sovraintendenza Comune di Roma Luisa Musso Prof. Archeologia e Storia dell’Arte Greca e Romana e Archeologia delle Provincie Romane, Univ. Roma Tre Silvia Orlandi Prof. associato di Epigrafia Latina presso la Facoltà di Scienze Umanistiche, Univ. Sapienza di Roma Claudio Parisi Presicce Direttore Musei Archeologici e d’Arte Antica Comune di Roma Giandomenico Spinola Responsabile Antichità Classiche e Dipartimento di Archeologia Musei Vaticani Lucrezia Ungaro Funzionario Sovraintendenza Comune di Roma

CAPO REDATTORE ALESSANDRA CLEMENTI REDAZIONE LAURA BUCCINO - ALBERTO DANTI - GIOVANNA DI GIACOMO LUANA RAGOZZINO - GABRIELE ROMANO DOCUMENTAZIONE FOTOGRAFICA ROBERTO LUCIGNANI TRADUZIONE DANIELA WILLIAMS GRAFICA E IMPAGINAZIONE STUDIOEDESIGN - ROMA WEB MASTER – PUBBLICITA’ MARIA TERESA GARAU REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE Via Orazio Antinori, 4 - ROMA È vietata la riproduzione in alcun modo senza il consenso scritto dell’Associazione Rumon Tiber

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ANCORA SUL CORRED EPIGRAFICO DEI SEPOL REPUBBLICANI DI VIA STA

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LA COLLEZIONE FARN


SOMMARIO

DO LCRI ATILIA

ESE

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LA SCOPERTA DI ERCOLANO

ANARCHIA MILITARE

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IL SEGRETO DI MARMO

ARCHEOLOGIA E INFRASTRUTTURE




IL RINVENIMENTO

I SEPOLCRI REPUBBLICANI DI VIA STATILIA

In alto, al centro: Fronte composto dai sepolcri scoperti nel 1899 lungo il lato meridionale di via Statilia, in occasione dei lavori di allargamento della sede stradale A destra: Pianta dell'area necropolare attestata lungo la cd. via Caelimontana (oggi via Statilia) con la localizzazione (*) dei sepolcri di età tardo-repubblicana scoperti negli anni 1916-1919 (rielaborazione grafica da VON HESBERG 2005)

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S

copo di questo contributo è presentare un’ed i z i o n e aggiornata delle iscrizioni incise o murate sulla fronte dei sepolcri di età tardo-repubblicana situati lungo il lato meridionale di via Statilia, all’incrocio con via di S. Croce in Gerusalemme. Dopo la prima pubblicazione, curata da Fornari e Gatti tra il 1917 e il 1919, queste iscrizioni sono state infatti riprese - anche singolarmente - da Colini (1943), Degrassi (1965) e Solin (2000), che ne hanno ampliato, migliorato e corretto la lettura con emendamenti che restano tuttora ignoti ai numerosi visitatori del complesso archeologico perché sfuggiti alla copiosa letteratura divulgativa dedicata ai monumenti di Roma. Naturalmente un’edizione che vuole essere aggiornata, oltre a riunire i contributi apportati dai diversi studiosi alla lettura dei

testi, non può prescindere da un nuovo controllo autoptico dei monumenti epigrafici, che ho effettuato durante quattro sopralluoghi all’area archeologica, giovando in una di queste occasioni anche della presenza di Silvia Orlandi, docente di Epigrafia presso la “Sapienza” di Roma, e del dott. David


Nonnis. Rispetto alle prime edizioni, il controllo diretto delle iscrizioni ha permesso di riscontrare da un lato, la perdita di qualche lettera in seguito al deterioramento subito dalle aree iscritte, dall’altro ha reso possibile ampliare e migliorare leggermente le precedenti trascrizioni, individuare probabili

aggiunte epigrafiche fatte in antico e introdurre qualche osservazione aggiuntiva che offre nuovi spunti di riflessione. Vista la natura di questo contributo, ho tuttavia ritenuto opportuno ridurre gli apparati critici in calce alle trascrizioni dei testi agli elementi essenziali, riservando ad altra sede la loro pub-

blicazione integrale. Prima di ritornare sul corredo epigrafico dei sepolcri, vorrei riassumere brevemente le circostanze relative alla loro scoperta, avvenuta tra il 1916 e il 1917, durante i lavori condotti dal Comune di Roma sull’Esquilino per l’allargamento della sede stradale di via di S. Croce in Gerusalemme. In questa occasione vennero alla luce i primi quattro sepolcri (A, B, BI, C) con le fronti allineate sulla via Statilia e le celle incassate nelle pendici dell’altura tufacea, in parte artificiale, sulla quale sorge Villa Wolkonsky-Campanari, oggi sede dell’ambasciata inglese. Il lato anteriore di un quinto monumento del tipo ad altare, poi inglobato in una tomba a camera (D), fu invece scoperto nel 1919 durante le opere di sistemazione e protezione dell’area mediante la costruzione di un arco sostruttivo collegato al muraglione di contenimento del terrapieno della Villa. Immediatamente a destra del sepolcro ad altare, fu infine individuato nel 1943 lo spigolo anteriore sinistro di un altro sepolcro della stessa tipologia (E), impostato su un alto basamento e decorato da lesene angolari. Riguardo al contesto topografico di rinvenimento, la linea frontale continua che i sei monumenti compongono sulla via

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Statilia, insieme ai basoli rinvenuti nel 1888 presso Villa Wolkonsky, testimoniano che la strada moderna in questo tratto ribatte il percorso di un asse antico, la cd. via Caelimontana, che - fiancheggiando le arcate neroniane dell’Aqua Claudia attraversava il Celio in senso ovest-est per raggiungere la località denominata ad Spem Veterem presso Porta Maggiore. Nel tratto coincidente con via Statilia, la percorrenza esterna alle mura ‘serviane’ della Caelimontana e il suo ruolo di asse generatore di questo settore

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dell’area sepolcrale esquilina risultarono evidenti anche dal ritrovamento di altre tombe che fiancheggiavano la strada, tra cui il monumento dell’architetto Tiberio Claudio Vitale, scoperto casualmente nel 1866 presso il casino di Villa Wolkonsky, il sepolcro dei Servilii, venuto alla luce nel 1881 a poca distanza dal monumento ad altare E, e la fila di sepolcri individuati nel 1899 in occasione dei lavori di allargamento di via Statilia, immediatamente ad est dell’incrocio con via di S. Croce in Gerusalemme.

Sopra: Fronte composto dai sepolcri tardo-repubblicani scoperti nel 1916 lungo il lato meridionale di via Statilia, in seguito all'allargamento di via di S. Croce in Gerusalemme. Da sinistra a destra: sepolcro dei Quinctii (A), cd. sepolcro Gemino (B-BI) e cd. colombario Anonimo (C) Sotto: Pianta dei sepolcri scoperti tra il 1916 e il 1919 sul lato meridionale di via Statilia (rielaborazione grafica da COLINI 1943): sepolcro dei Quinctii (A), cd. sepolcro Gemino (B- BI), cd. colombario Anonimo (C), monumento ad altare, poi inglobato nel sepolcro dei Caesonii (D)


IL SEPOLCRO DEI QUINCTII (A)

Il primo sepolcro della serie, situato in corrispondenza dell’incrocio tra via Statilia e via di S. Croce in Gerusalemme, è un edificio di modeste dimensioni composto di una facciata in opera quadrata di tufo (m 3,54) che si appoggia ad una cella quasi quadrata (m 2,80 x 2,95), incassata nella falda tufacea dell’altura retrostante. Il piano pavimentale della cella è tagliato direttamente nel banco tufaceo, mentre pareti laterali, muro di fondo e bassa copertura a volta sono costruiti in opera cementizia priva di paramento, ma rivestita all’interno con un sottile strato di intonaco. Predisposta originariamente per il rito dell’inumazione, la cella è occupata in tutta la sua larghezza da tre

fosse perpendicolari alla facciata (a, b, c), scavate direttamente nel pavimento tufaceo, e da un muretto in calcestruzzo parallelo alla parete di fondo, forse costruito in seconda battuta, che delimita un bancone intagliato nel tufo (d), entro il quale furono trovati i resti di una quarta inumazione. Le fosse erano coperte da tegole disposte in piano, rinvenute sia in opera sotto il pavimento, sia frammiste alla terra di riempimento insieme a balsamari per uso rituale. Ad una seconda fase di utilizzazione appartengono invece le quattro nicchie aperte nella parete di fondo per altrettante olle cinerarie di terracotta, che attestano un cambiamento di rito forse legato alla necessità di ricavare nuovi

Sotto: Sepolcro dei Quinctii (A), fronte in opera quadrata di tufo con iscrizione sepolcrale tra due clipei a rilievo

posti di sepoltura nell’esiguo spazio disponibile. La facciata in blocchi di tufo del sepolcro, forse in origine coronata da una cornice aggettante, poggia su un alto stereobate e su fondazioni in calcestruzzo, lasciate a vista dopo i lavori di scavo. La porta d’ingresso, bassa e leggermente decentrata, è decorata da una cornice incisa a doppio listello che marca architrave e piedritti. Sopra la porta, un’iscrizione incisa su più blocchi contigui e inquadrata ai lati da una coppia di clipei a rilievo, ricorda la famiglia proprietaria del monumento [AE 1917/18, 120 = CIL, I2 2527a, cfr. p. 979 = ILLRP 795 = AE 2000, 181]: L’iscrizione è composta dal-

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ipotetica la storia di questo nucleo famigliare allargato. Il rapporto tra P. Quinctius e Quinctia nacque probabilmente come contubernium (coabitazione senza rilievo giuridico) tra due schiavi alle dipendenze dello stesso padrone, T. Quinctius, e fu trasformato in conubium (nozze legittime) quando la coppia grazie alla sopraggiunta manomissione - acquisì con lo status libertino la capacità giuridica di contrarre un matrimonio legalmente riconosciuto. Solo allora P. Quinctius liberò la schiava R. 2 Uxsor in luogo di uxor; r. 3 Agatea in luogo di Agathea. Sulla scorta dell’impaginazione della r. 2, centrata rispetto ai margini laterali del blocco (da notare il termine uxsor allineato a destra nel tentativo di riequilibrare una riga che altrimenti sarebbe stata troppo sbilanciata a sinistra rispetto a quella superiore), la sequenza -erta del termine liberta in r. 3, incisa - tranne la lettera E - al di fuori della linea di contorno del blocco, sembrerebbe aggiunta dal lapicida in corso d’opera per evitare possibili fraintendimenti tra lo scioglimento dell’abbreviazione lib. per liberta e lo scioglimento di libr. per librarius in r. 1, qui favoriti dalla presenza nella nomenclatura di Agathea del patronato P(ubli) l(iberta), che rendeva superfluo ripetere il termine liberta a corredo del cognome; r. 4 `concubina´, aggiunta epigrafica in lettere nane.

l’elenco nominativo dei tre destinatari del sepolcro, tutti di condizione libertina, legati tra loro da vincoli di parentela e affettivi nati da un originario rapporto di comune dipendenza o patronato: P. Quinctius, che esercitò il mestiere di copista e/o di commerciante di libri, e la moglie Quinctia furono infatti manomessi dal medesimo patrono, un T. Quinctius, mentre Quinctia

Agathea deve la propria libertà al primo personaggio, di cui in seguito divenne concubina. Proprio i legami intercorsi tra questi personaggi, deducibili sia dall’onomastica (uguale gentilizio; formule di patronato), sia dalla qualifica di uxor (moglie legittima) e di concubina (convivente), quest’ultima significativamente aggiunta in un secondo momento, permettono di ricostruire in via

In basso, a sinistra: Sepolcro dei Quinctii (A), bassa copertura a volta in opera cementizia della cella In basso, a destra: Sepolcro dei Quinctii (A), veduta interna della cella con tre fosse (a, b, c) scavate nel pavimento tufaceo Nella pagina accanto: Sepolcro dei Quinctii (A), prime edizioni dell'iscrizione sepolcrale incisa sulla fronte


Agathea, insieme alla quale lui e la moglie costruirono il sepolcro, commissionando ad un’officina lapidaria l’iscrizione che sanciva e garantiva il loro diritto di proprietà. Dopo la morte di Quinctia, P. Quinctius iniziò a vivere con Agathea in concubinato, una forma di convivenza stabile, ma giuridicamente illegittima, che differiva dal matrimonio perché mancava l’affectio maritalis, ovvero la reciproca volontà delle parti di vivere come marito e moglie per la durata dell’intera esistenza (il che non implicava che il matrimonio dovesse essere perpetuo e indissolubile: l’affectio maritalis poteva venire meno

in uno o in ambedue i coniugi e, conseguentemente, la convivenza si interrompeva con il divorzio). Nonostante questa premessa, la lunga durata dell’unione tra i due liberti è provata dal comune monumento sepolcrale e, in particolare, dall’aggiornamento dell’iscrizione incisa sulla facciata, in cui la qualifica di concubina, impaginata in lettere nane nell’esiguo spazio disponibile tra la riga 3 e la cornice dell’architrave, fu aggiunta in coda all’onomastica della donna. Le ragioni che indussero P. Quinctius e Quinctia Agathea, giuridicamente capaci di contrarre nozze legittime, a scegliere

questa forma stabile di convivenza furono probabilmente legate, come ancora oggi accade, alle condizioni previste per la costituzione del matrimonio e alle conseguenze giuridiche che esso determinava, tali da rendere il concubinato frequente anche tra i ceti elevati (PLIN. Epist. 8, 18). Chiude l’iscrizione la formula sepulcrum heredes ne sequatur con cui P. Quinctius, Quinctia e Quinctia Agathea sancivano l’inalienabilità del sepolcro, escludendolo dalla devoluzione ereditaria. Naturalmente questa clausola non impediva ai tre proprietari di estendere il diritto di sepoltura a persone scelte nell’ambito della loro famiglia e/o ad estranei, come del resto suggerisce il numero di sepolture predisposte all’interno della cella, quattro inumazioni ricavate nel pavimento tufaceo (tre delle quali presumibilmente occupate dagli stessi Quinctii: COLINI) e quattro nicchie con olle fittili nella parete di fondo. Riguardo alla professione esercitata dal liberto P. Quinctius, non è possibile precisare se contemplasse solo l’attività di copista di lettere, documenti e libri, svolta in proprio o al servizio del patrono, oppure se includesse anche la gestione di una bottega per la rivendita di libri in qualche quartiere di Roma, come era il caso di P. Cornelius Celadus, librarius ab extra porta Trigemina (CIL, VI 9515), la cui taberna si trovava nella pianura subaventina e, precisamente, nell’area immediatamente all’esterno della porta Trigemina, e di Cn. Pompeius Phrixus (CIL, VI 3413*), forse legato al grammatico Pompeius Lenaeus, a sua volta liberto di Pompeo Magno, che svolse sulla via Sacra nel Foro Romano non solo l’attività di copista e commerciante di libri, ma anche quella di maestro versato nell’uso delle arti e delle let-

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Sotto: Sepolcro dei Quinctii (A), trascrizione a disegno dell'iscrizione sepolcrale con lettura migliorata rispetto alle prime edizioni (in evidenza i margini orizzontali e verticali dei blocchi)

A destra: Cd. sepolcro Gemino (B-BI), fronte in opera quadrata di tufo con iscrizioni sepolcrali e busti-ritratto a rilievo dei defunti

tere (doctor librarius). Ulteriori contributi alla ricostruzione della geografia crematistica del settore librario vengono dalle fonti letterarie, che localizzano in età imperiale numerose rivendite di libri proprio nei quartieri limitrofi al Foro Romano, come l’Argiletum (MART. 1, 3, 1-2) e il vicus Sandalarius, dove si concentravano - oltre i calzolai da cui il distretto prendeva nome - la maggior parte dei librai della capitale (GELL. 18, 4, 1), tanto che non lontano i Cataloghi Regionari di età costantiniana posizionano anche gli horrea Chartaria (depositi per la carta). Sotto il profilo onomastico, oltre la rarità del nome di origine greca Agathea, attestato a Roma solo in un’altra iscrizione (CIL, VI 33422), si può notare l’omissione del cognome nella nomenclatura di P. Quinctius e Quinctia, significativa soprattutto se consideriamo che il ceto libertino aveva iniziato ad impiegare l’ex nome servile con funzione di cognome già nel II sec. a.C. (il primo esempio datato è del 113 a.C.) e che questa prassi era divenuta ormai abituale nel corso dell’ultimo secolo dell’età

repubblicana. I motivi di questa omissione volontaria, attestata anche in altri documenti, ma qui resa particolarmente evidente dall’indicazione del cognome Agathea, sono stati spiegati con un’operazione di mimesi onomastica (PANCIERA) attraverso la quale i liberti - nel tentativo di mascherare sia la loro origine non latina, sia la loro estrazione servile (entrambe denunziate da grecanici come Agathea) - imitavano le formule onomastiche coeve dei liberi di nascita (ingenui), che erano ancora prive di cognome (gli ultimi casi di ingenui senza cognome appartengono ai primi decenni del I sec. d.C.) e utilizzavano in funzione quasi cognominale e individuante termini di relazione parentale. Proprio per analogia con l’onomastica degli ingenui, è probabile che i due Quinctii abbiano supplito all’omissione del cognome sulla fronte del loro sepolcro ricorrendo, in sua vece, alle qualifiche distintive di uxor e librarius.

IL CD. SE GEMIN Alla destra del sepolcro dei Quinctii si appoggia, leggermente arretrato nella linea della fronte, il «sepolcro Gemino», così denominato perché si tratta di due edifici con ingressi e celle distinte (B-BI), che furono costruiti insieme su un’unica fondazione, condividendo fac-


EPOLCRO O (B-BI) ciata, parete intermedia e muro posteriore. Il pavimento e la copertura sono perduti, ma l’analisi delle strutture murarie superstiti permette di ricostruire almeno due fasi edilizie, a cui corrispondono alcune modifiche nell’articolazione degli spazi interni. L’ingresso primitivo alle

celle sepolcrali avveniva infatti attraverso due stretti corridoi, i cui muri esterni in blocchi di tufo furono in seguito demoliti e rasati per creare due ambienti a pianta rettangolare semplice (B, m 3,05 x 3,85 x 3,20 x 3,59; BI, 3,30 x 3,77 x 3,41 x 3,85). Le pareti laterali e quella intermedia, realizzate originariamente in blocchi di cappellaccio (resta qualche blocco in corrispondenza del piano di spiccato dei muri), furono ricostruite in opera reticolata e dotate di nicchie contenenti due olle fittili ciascuna. Dopo la costruzione

del cd. colombario Anonimo (C), la cella ad esso contigua (BI) fu ampliata con la demolizione della parete destra, nella cui fondazione fu scavata una fossa a inumazione (d). Ad un intervento di restauro che interessò anche i monumenti adiacenti appartiene invece la sopraelevazione in opera reticolata della parete di fondo in blocchi di cappellaccio, che si prolunga alle spalle del sepolcro dei Quinctii (A) e si appoggia all’angolo posteriore sinistro, sempre in opera reticolata, del cd. colombario Anonimo (C). Anche in

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due rilievi rettangolari di travertino con i busti-ritratto dei titolari del sepolcro. Nel rilievo inserito nella metà sinistra della facciata (B), entro tre nicchie, sono rappresentati in modo rigidamente frontale una donna, un giovane e un uomo maturo. La donna è avvolta nella palla che le copre anche il capo e presenta una pettinatura a scriminatura centrale formata da ciocche lisce che lasciano scoperte le orecchie. I due uomini indossano invece tunica e toga, dal cui lembo ripiegato sul petto esce la mano destra; le teste sono massicce con capelli corti e aderenti alla calotta, il naso largo, le labbra serrate e le orecchie sporgenti. Al di sotto dei busti-ritratto, un’iscrizione incisa su più blocchi contigui e ampiamente rimaneggiata, restituisce i nomi dei tre personaggi effigiati, a cui si aggiunsero - in seconda battuta - i nomi di altri due destinatari del sepolcro [AE 1917/18, 121 = CIL, I2 2527b = ILLRP 952 = AE 2000, 182]:

questi sepolcri assistiamo a un cambiamento nel rituale: le numerose olle cinerarie fittili, rinvenute in opera (B) o posate tra la terra in corrispondenza delle pareti (BI), testimoniano che le due celle erano in origine riservate al rito della cremazione e solo in un secondo momento furono adattate all’inumazione mediante l’escavazione di tre fosse, una ricavata nella fondazione della parete destra (BI, d), due scavate nel pavimento e coperte da un piano di mattoni bipedali (B, a-b).

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La massiccia parete anteriore del monumento è composta da un nucleo in calcestruzzo rivestito all’interno di blocchi di cappellaccio e all’esterno di blocchi di tufo. Il prospetto, raccordato allo stereobate da una gola diritta e coronato in alto da una gola rovescia, è diviso in due parti speculari e simmetriche da un listello verticale a forma di lancia: ai lati di questo asse centrale si aprono le porte d’ingresso alle celle gemelle, mentre alle estremità di queste - sopra gli architravi delle porte - sono incassati


Nella pagina accanto, in alto: Cd. sepolcro Gemino (B-BI), veduta interna delle celle dal sepolcro dei Quinctii (A). In primo piano, ricostruzione in opera reticolata della parete laterale sinistra in blocchi di cappellaccio (B); in secondo piano, fronte anteriore con nucleo in calcestruzzo rivestito all'interno di blocchi di cappellaccio e parete divisoria in blocchi di cappellaccio, poi sopraelevata in reticolato Nella pagina accanto, al centro: Cd. sepolcro Gemino (B-BI), fronte anteriore con nucleo in calcestruzzo foderato all'interno di blocchi di cappellaccio; in basso a destra, parete divisoria tra le porte d'ingresso alle celle, di cui oggi resta solo il piano di spiccato con un filare di blocchi di cappellaccio A destra: Cd. sepolcro Gemino (BI), particolare del fronte anteriore con nucleo in calcestruzzo rivestito all'interno di blocchi di cappellaccio

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Il rilievo inserito nella metà destra della facciata (BI), ritrae - entro apposite nicchie - due donne che indossano tunica e mantello (palla), nel cui risvolto è appoggiata la mano destra. I loro volti, caratterizzati da naso largo, labbra serrate e orecchie sporgenti, sono incorniciati da pettinature diverse: la figura a destra, con il capo velato, presenta i capelli divisi

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da una scriminatura centrale in due bande ondulate, mentre quella a sinistra esibisce una singolare acconciatura, trattenuta sulla fronte da un nastro e rigonfia sulle spalle. Sotto il rilievo, in corrispondenza dei busti-ritratto, un’iscrizione impaginata su due colonne restituisce i nomi delle due destinatarie del sepolcro [CIL, I2 2527c = AE 2000, 183]:

A dispetto del progetto architettonico unitario alla base dei due sepolcri gemelli, i rispettivi proprietari appartengono a famiglie diverse che non sembrano avere alcuna relazione reciproca. I diversi gentilizi non permettono neppure di precisare il rapporto esistente tra le liberte Caelia Apollonia e Plotia [- - -]s[- -?], che pure figurano come contitolari del sepolcro BI, o quello tra i destinatari del monumento B, fatta eccezione per i liberti Clodia Stacte e N. Clodius Trupho, entrambi manomessi da un N. Clodius. Qualche informazione si ricava invece dall’aspetto grafico e dai rimaneggiamenti subiti dalla lista onomastica del sepol-


Nella pagina accanto, in alto: Cd. sepolcro Gemino (B-BI), muro posteriore e parete divisoria delle celle realizzati in blocchi di cappellaccio e ricostruiti in opera reticolata; in primo piano, filare di blocchi di tufo appartenente al muro, poi rasato, del corridoio d'ingresso; tra il filare di blocchi e la parete divisoria, fossa rettangolare foderata di tegole (c) che al momento della scoperta era sigillata da una mezza anfora e conteneva ossa cremate Nella pagina accanto, al centro: Cd. sepolcro Gemino (B-BI), muro posteriore in blocchi di cappellaccio con sopraelevazione in opera reticolata e parete divisoria tra le due celle, di cui oggi si conserva solo il piano di spiccato con un filare di blocchi di cappellaccio Sopra: Cd. sepolcro Gemino (BI), muro posteriore in blocchi di cappellaccio che si appoggia all'angolo posteriore sinistro in opera reticolata del cd. colombario nonimo (C)

In alto: Cd. sepolcro Gemino (B), particolare della fronte con iscrizioni e busti-ritratto a rilievo dei tre titolari

Sopra: Cd. sepolcro Gemino (B), particolare della tabellina disegnata ad incisione con lettera P nell'ansa sinistra

Al centro: Cd. sepolcro Gemino (B), fronte con iscrizioni sepolcrali e busti-ritratto a rilievo dei tre titolari del monumento

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cro B, che suggeriscono la possibilità che la tomba sia stata costruita dai liberti Clodia Stacte, N. Clodius Trupho e C. Annaeius Quinctio, a cui in un secondo momento si aggiunsero in veste di comproprietari L. Marcius Arm(- - -) e M. Annius Hilarus. Questa eventualità sembra confortata prima di tutto dall’impaginazione dei nomi Clodia Stacte (a), N. Clodius Trupho (b) e C. Annaeius Quinctio (c) su tre colonne posizionate - alla stregua di didascalie identificative nello spazio sottostante i tre busti-ritratto allo scopo di realizzare una perfetta corrispondenza tra iscrizioni e immagini, e, in secondo luogo, dalla probabile aggiunta dei nomi di L. Marcius Arm(- - -) e M. Annius Hilarus nello spazio compreso tra la r. 1 (a) e la formula di chiusura hoc monumentum heredes ne sequatur alle rr. 4-5 (a), rispettando il cognome Trupho già inciso alla r. 2 (b). Una conferma indiretta circa il frazionamento della proprietà originaria viene del resto dal rapporto numerico tra bustiritratto e nomi, che evidenzia come L. Marcius Arm(- - -) e M. Annius Hilarus non fossero previsti nell’apparato figurativo commissionato e predisposto al

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momento della fondazione del sepolcro. Proprio l’apparato figurativo e, in particolare, lo schema compositivo e la resa fisionomica dei ritratti (donna - giovane - uomo), nonché il rapporto di comune dipendenza che legava Clodia Stacte e N. Clodius Trupho, generano anche il sospetto che i tre liberti effigiati in facciata siano madre, figlio e padre. In questa prospettiva, Trupho, liberato insieme alla madre da un N. Clodius, nacque verosimilmente quando i due genitori erano ancora schiavi, elemento che spiegherebbe sia la condizione libertina del giovane (i figli nati dal matrimonio tra due liberti erano infatti cittadini romani ingenui), sia il differente gentilizio rispetto al padre C. Annaeius Quinctio, affrancato da un altro patrono (un C. Annaeius). Se vale questa ipotesi, avremmo allora un sepolcro fondato da un nucleo familiare di tre liberti, che successivamente fu in parte venduto, ceduto o donato a due individui apparentemente estranei ai primi titolari, L. Marcius Arm(- - -) e M. Annius Hilarus, con il conseguente aggiornamento onomastico dell’iscrizione in facciata. Al frazionamento

della proprietà originaria si devono forse collegare sia la tabellina ansata disegnata a incisione sotto la clausola hoc monumentum heredes ne sequatur, che fu verosimilmente predisposta per un sesto nome (nell’ansa sinistra resta una P), sia le due fasi edilizie del monumento con le modifiche nell’organizzazione interna degli spazi ad esse connesse.

Nella pagina, in alto: Cd. sepolcro Gemino (BI), particolare della fronte con iscrizioni sepolcrali e busti-ritratto a rilievo delle due titolari del monumento Nella pagina, in basso: Cd. sepolcro Gemino (B-BI), prime edizioni delle iscrizioni sepolcrali incise sulla fronte Sopra: Cd. sepolcro Gemino (B-BI), trascrizione a disegno delle iscrizioni sepolcrali con lettura emendata e ampliata rispetto alle precedenti edizioni, che non tiene conto del reale stato di conservazione delle singole lettere (in evidenza i margini orizzontali e verticali dei blocchi) Sotto: A sinistra, facciata in opera quadrata di tufo del cd. sepolcro Gemino (BI); a destra, cd. colombario Anonimo (C), resti dell'angolo sinistro della fronte in opera quadrata di peperino con stipite e due soglie sovrapposte che poggiano su un blocco di tufo del basamento, a sua volta impostato su fondazioni in calcestruzzo coperte da un filare di blocchi di cappellaccio


IL CD. COLOMBARIO ANONIMO (C) In corrispondenza dell’arco che sostiene il terrapieno di Villa Wolkonsky, alla destra del cd. sepolcro Gemino (BI), sono visibili i resti di un quarto sepolcro (m 4,82 x m 4, 66), denominato «colombario Anonimo» per la mancanza di un corredo epigrafico. La facciata, quasi completamente distrutta, è in opera quadrata di peperino e si imposta su una fondazione in calcestruzzo coperta da un filare continuo di blocchi di cappellaccio, alle cui estremità si conservano ancora in opera due blocchi del basamento tufaceo; sopra il blocco di tufo

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collocato presso l’angolo sinistro dell’edificio, poggiano tre blocchi di peperino appartenenti all’alzato vero e proprio della facciata. Si tratta dello stipite sinistro e delle due soglie, sovrapposte, della porta, la cui posizione - decentrata rispetto all’asse mediano della facciata - mostra che l’ingresso del sepolcro si apriva lateralmente. Al prospetto in blocchi di peperino si appoggia una cella rettangolare, costruita in opera reticolata e coperta originariamente a volta, il cui muro laterale sinistro divenne comune al cd. sepolcro Gemino (B-BI), quando

questo fu ampliato mediante la demolizione della parete destra (BI). Da un punto di vista stratigrafico la presenza di due soglie sovrapposte indica che il cd. colombario Anonimo fu interessato da almeno due fasi edilizie, scandite da una sopraelevazione del pavimento e forse precedute come sembrano suggerire i diversi sistemi costruttivi e materiali impiegati nella facciata e nelle pareti - da una riedificazione in opera reticolata della cella alle spalle della primitiva fronte in blocchi di peperino (COLINI). Tenendo conto di questa eventualità, nella prima (o seconda) fase edilizia la cella era probabilmente divisa in due ambienti da un muro in opera reticolata parallelo alla facciata, poi parzialmente demolito, e i resti dei defunti erano sistemati all’interno di loculi aperti lungo la perduta parete di fondo (COLINI), anche se non si può escludere una loro deposizione nel pavimento (CO-


LINI), dove fu rinvenuta una fossa

a inumazione infantile (a), coperta di tegole, con due campanelli di bronzo e un balsamario fittile come corredo. Solo nella seconda (o terza) fase edilizia la cella fu provvista di nuovi posti di sepoltura ricavati nello spessore dei muri laterali in reticolato tramite l’apertura di almeno tre nicchie nella parete destra e di tre loculi per olle nella parete sinistra, che in questa occasione fu anche foderata con una cortina in laterizio. Riguardo alla decorazione parietale, qualche traccia si distingue ancora lungo la parete destra e, in particolare, all’interno della nicchia centrale, rivestita da una conchiglia in stucco di colore verde e azzurro. Sempre nello stesso lato si conserva anche una porzione della copertura a volta, traforata da una finestrella triangolare funzionale all’illuminazione e all’aerazione del sepolcro.

Nella pagina accanto: Cd. colombario Anonimo (C), resti della fronte in opera quadrata di peperino, impostata su un basamento in blocchi di tufo che poggia su un filare di blocchi di cappellaccio e su fondazioni in calcestruzzo Al centro: Cd. colombario Anonimo (C), particolare interno dell'ingresso con stipite sinistro e due soglie sovrapposte di peperino In alto, a sinistra: Cd. colombario Anonimo (C), resti della porzione angolare sinistra della fronte in opera quadrata di peperino. In primo piano, ingresso con stipite sinistro e due soglie sovrapposte di peperino; in secondo piano, fronte del cd. sepolcro Gemino (B-BI) In alto, a destra: Cd. colombario Anonimo (C), particolare esterno dell'ingresso con stipite sinistro e due soglie sovrapposte di peperino impostate su un blocco di tufo del basamento

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IL SEPOLCRO DEI CAESONII (D) Da un punto di vista strutturale e tipologico l’ultimo sepolcro della serie, scoperto nel 1919 a destra del cd. colombario Anonimo (C) e scavato solo parzialmente, sembra rientrare nella classe dei monumenti funerari che ripetono la forma di un altare (COLINI; VON HESBERG). Realizzato in opera quadrata di peperino, il monumento è costituito da un basamento di due filari di blocchi e da un dado parallelepipedo, che doveva essere coronato sulla sommità da un epistilio destinato a sostenere una coppia di pulvini ad imitazione delle are. Il dado è definito inferiormente da uno zoccolo con cornice modanata e presenta sulla fronte uno specchio rettangolare, scorniciato e inquadrato da due elementi decorativi a rilievo, parzialmen-

te abrasi, il cui profilo ricorda quello dei bucrani. A causa della profonda sfaldatura che ha interessato la superficie, non è possibile precisare se lo specchio fosse riservato ad un’altra decorazione a rilievo oppure, come sembra più probabile sulla base di confronti con monumenti simili, ad un’iscrizione sepolcrale. Le indagini e i saggi archeologici hanno inoltre evidenziato che il sepolcro sorse isolato al centro di un’area larga sulla fronte 18 piedi (m 5,32 ca.), come mostra, in particolare, lo zoccolo sagomato anche lateralmente. Solo successivamente il piccolo monumento fu ampliato e riadattato in tomba a camera con la costruzione di una parete in opera reticolata che ne inglobò il nucleo originario (dado e basamento) e lo congiunse all’adia-

Nella pagina accanto: Cd. colombario Anonimo (C), parete destra in opera reticolata con tre nicchie per urne rivestite in stucco; in alto, porzione della copertura a volta traforata da finestrella di aerazione; in basso, quattro loculi per olle dell'adiacente sepolcro dei Caesonii (D)

cente colombario Anonimo (C), diventando la fronte del nuovo edificio. Alle spalle di questa facciata, inquadrata a sinistra (e forse anche destra?) da una lesena angolare di peperino e sormontata da un architrave liscio con cornice a doppia linea incisa lungo il margine superiore, fu costruita una piccola cella in opera reticolata, oggi coperta dal terrapieno di Villa WolkonskyCampanari, i cui loculi contenenti olle si intravedono attraverso la parete destra del cd. colombario Anonimo. Sulla sommità del dado originario, un blocco rettangolare di travertino (cm 60 x 137), che riprende e continua la linea del contiguo architrave, ricorda i nomi dei destinatari del sepolcro [GATTI in Not. Sc., 16, 1919, p. 38 - non ripresa nei principali corpora epigrafici]:

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co dopo l’erasione di un testo precedente e l’accurata levigatura della superficie in cui era iscritto, come documentano sia la presenza in posizione marginale di lettere palesemente estranee ad essa, sia la cornice a listello piatto in cui queste sono incise, creata proprio in seguito all’asportazione di uno strato di travertino profondo quanto i solchi del testo cancellato. Di quest’ultimo si conservano, sul listello di sinistra, le lettere iniziali di cinque righe, mentre su quello di destra gli ultimi quattro caratteri della prima riga, impaginati in sequenza verticale a causa della mancanza di spazio:

I nomi dei tre titolari del sepolcro sono elencati secondo un ordine gerarchico fondato verosimilmente sulla loro condizione giuridica: il primo della lista, A. Caesonius Paetus, è infatti un cittadino romano nato libero, come si evince da patronimico e tribù, nonché il patrono del secondo titolare, A. Caesonius Philemo. Philumina condivide con quest’ultimo la condizione libertina, ma deve la propria libertà ad un P. Telgennius. Appartenendo a una famiglia diversa dalla Caesonia, il suo rapporto con gli altri due fondatori del sepolcro potrebbe essere legato al matrimonio (o al concubinato) con A. Caesonius Philemo (se la donna fosse coniuge o compagna di A. Caesonius Paetus il suo nome avrebbe probabilmente occupato la seconda posizione dell’elenco). Particolare interesse suscita l’onomastica dei tre personaggi. Il gentilizio di Philumina, raro in assoluto, occorre nella forma Telgennia solo in questa iscrizione, mentre altrove (CIL, VI 1829,

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2282, 27136-27138) è attestata la scrittura Telegennia/Telegennius con l’inserimento di una vocale di appoggio tra le consonanti L e G per facilitare la pronuncia (anaptissi); il ramo gentilizio di cui fa parte la donna, i Publii Telgennii, e quello degli Aulii Caesonii, cui appartengono Paetus e il suo liberto Philemo, non risultano altrimenti noti a Roma. Sotto il profilo paleografico, grazie alla presenza delle sigle θ e V, adoperate tra gli inizi del I sec. a.C. e la metà del I sec. d.C. per contraddistinguere le persone morte o vive al momento della costruzione del sepolcro in iscrizioni composte - come la nostra - da un semplice elenco di nomi, sappiamo che A. Caesonius Paetus, il cui nome è preceduto dal segno θ per mortuus, era già deceduto, mentre Philumina, il cui cognome è seguito dalla lettera V per v(iva), era ancora in vita quando fu inciso - o meglio reinciso - il testo. Un attento controllo autoptico mostra infatti che la nostra iscrizione è stata impaginata sul bloc-

In alto, a sinistra: Rilievo della fronte del monumento ad altare (in grigio), poi inglobato nel sepolcro dei Caesonii (D), tra il cd. colombario Anonimo (C) e il monumento ad altare individuato nel 1943 (E) (rielaborazione grafica da COLINI 1944) Nella pagina accanto: A sinistra, angolo anteriore destro del monumento ad altare, poi inglobato nel sepolcro dei Caesonii (D); a destra, spigolo anteriore sinistro del sepolcro ad altare scoperto nel 1943 (E), impostato su un alto basamento e decorato da lesene angolari


Il lavoro di scalpellatura è stato effettuato dal lapicida con molta diligenza, tanto che all’interno della cornice non restano vestigia dei caratteri erasi o tracce di solchi rettilinei o curvilinei. Tuttavia, sulla scorta delle lettere visibili sui listelli laterali, in corrispondenza delle rr. 1-3, mi sembra plausibile ipotizzare che l’iscrizione scalpellata fosse una prima versione di quella conservata: la lettera A e la sequenza -+TVS in r. 1 potrebbero infatti appartenere, rispettivamente, al prenome Aulus e alle lettere finali del cognome Paetus del primo titolare del sepolcro, A. Caesonius Paetus; similmente la lettera A in r. 2 potrebbe essere pertinente al prenome Aulus di A. Caesonius Philemo, mentre la T in r. 3 all’iniziale del gentilizio Telgennia della liberta Philumina. Di qui la possibilità di integrare le prime tre righe del testo eraso come segue:

Da questa ricostruzione si ricava non solo che la prima redazione dell’iscrizione aveva una diversa impaginazione, in cui ciascuno dei tre nomi - inciso in caratteri di altezza minore occupava una sola riga, ma anche che il testo era molto più lungo, come suggeriscono le lettere IN- e T-, incise sul listello di sinistra, all’altezza delle rr. 4-5, che potrebbero riferirsi tanto all’onomastica di altri due titolari della tomba, quanto ad una formula di chiusura. La prima soluzione desta qualche perplessità se rapportata al

panorama onomastico urbano, dove la sequenza IN- figura a Roma solo come iniziale dei gentilizi Insteia ed Instania, attestati in un numero limitato di iscrizioni. Non crea invece alcun problema la lettera T- nella riga successiva, in cui potremmo riconoscere sia l’iniziale del prenome Titus o Tiberius, se il nome in lacuna fosse di pertinenza maschile, sia l’iniziale di uno dei numerosi gentilizi attestati nell’Urbe (Terentia, Tullia, ecc.), se fosse invece femminile, quantunque, in base al contesto, appaia più probabile l’integrazione T[[[elgennia]]], pen-

sando ad una seconda donna appartenente - come Philumina al ramo dei Publii Telgennii. Pensare invece ad una formula di chiusura, più plausibile, implica diverse, possibili, integrazioni, che dipendono da numerose variabili, quali l’impaginazione dell’iscrizione scalpellata, le dimensioni della lacuna e il formulario. Riguardo al primo aspetto, la resa grafica del testo cancellato doveva essere piuttosto accurata se ragioni estetiche costrinsero il lapicida a incidere le lettere finali -+TVS della r. 1 in posizione marginale, l’una sotto l’altra e in caratteri più minuti, allo scopo di ovviare all’errato calcolo delle spazio evitando un inelegante accapo nel corpo del cognome. Relativamente alle dimensioni della lacuna, nella prospettiva di una duplice versione della stessa iscrizione, l’integrazione che ho proposto per

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le prime tre linee del testo e l’altezza delle lettere conservate sul listello sinistro del supporto permettono di calcolare approssimativamente tra i 17 e i 19 caratteri mancanti per ogni riga, tranne alla r. 4, dove il modulo leggermente inferiore della sequenza IN- potrebbe essere indizio di una lacuna formata da un numero maggiore di lettere. Tenendo conto di questi dati è possibile proporre in via del tutto ipotetica - sulla scorta di uno schema testuale già noto a Roma (CIL, VI 17494, 22500) un’integrazione delle ultime due linee del testo con una formula del tipo in fronte pedes - - -, in agro pedes - - -, arbitratu / Telgenniae P(ubli) l(iberta) - - -, in cui l’indicazione delle misure dell’area sepolcrale precede la menzione dell’istituto dell’arbitrato con cui i tre fondatori del sepolcro affidavano ad una donna della gens Telgennia, forse la stessa Philumina, il compito di sovrintendere e controllare che la costruzione del monumento avvenisse secondo le loro disposizioni testamentarie:

pellatura potrebbe dipendere proprio dalla rinuncia a tale titolarità - a seguito di donazione, cessione o vendita - da parte degli ultimi due personaggi della lista, e dalla conseguente esigenza di aggiornare il regime giuridico di proprietà della tomba. Se invece il testo cancellato conteneva in calce le misure in piedi dell’area sepolcrale abbinate alla menzione dell’arbitrato (o un’altra formula di chiusura), la reincisione dello stesso testo - seppure ridotto ai soli nomi dei tre titolari del sepolcro - si spiega forse con la necessità di realizzare una nuova copia dell’iscrizione che sostituisse quella più antica, malandata o semidistrutta, oppure rifiutata dai committenti. Indipendentemente dalle ipotesi di integrazione, la commissione ad un’officina lapidaria del testo rinnovato avvenne dopo la morte di A. Caesonius Paetus per iniziativa di Telgennia Philumina, ancora viva, e forse del liberto Philemo, e si deve verosimilmente inquadrare nei lavori di ampliamento del sepolcro,

assai probabile che anche il testo cancellato fosse pertinente alla medesima fase edilizia, almeno a giudicare dalle dimensioni del blocco, la cui altezza è uguale a quella del contiguo architrave, e dallo specchio ricavato sulla fronte del primitivo sepolcro ad altare, riservato verosimilmente ad un’iscrizione che fu abrasa proprio in occasione del suo reimpiego edilizio. Non è invece possibile stabilire se i proprietari di quest’ultimo monumento fossero sempre i Caesonii e i Telgennii, o se questi lo avessero ricevuto in dono o comprato da terzi per inglobarlo nella fronte del nuovo sepolcro.

In linea con l’ipotesi di un’epigrafe rinnovata, resta infine da chiarire il motivo dell’accurata erasione e reincisione del testo. Se l’iscrizione originaria comprendeva un elenco di cinque destinatari del sepolcro, la scal-

segnati dal reimpiego edilizio del più antico monumento ad altare, come testimonia l’incisione del segno θ, riferibile per posizione ad A. Caesonius Paetus, sull’architrave che incornicia la nuova facciata. Sembra inoltre

sepolcro Gemino (B-BI) tra le tombe a camera, ma tra i recinti sepolcrali chiusi (il che implica l’assenza di una copertura) con fronte coronata superiormente da una trabeazione e provvista di vere e proprie porte d’ingres-

Prima di concludere, vorrei soffermarmi su alcuni aspetti di carattere più generale che riguardano in primo luogo la tipologia e la cronologia dei sepolcri. Recentemente Henner von Hesberg, in uno studio dedicato all’origine e alla diffusione dei recinti sepolcrali a Roma in età repubblicana, non ha incluso il sepolcro dei Quinctii (A) e il cd.


so (recinto con facciata), e ha considerato il monumento ad altare, poi trasformato dai Caesonii in una tomba a camera (D), parte integrante di un altro tipo di recinto sepolcrale, in cui l’ara era posizionata al centro del muro anteriore verso la strada (recinto con altare). Non meno problematici appaiono i tempi di costruzione dei sepolcri, che necessiterebbero di un attento riesame per verificare se la successione cronologica suggerita dalle iscrizioni è confermata anche dall’evidenza archeologica e dai dati di scavo. Un’analisi complessiva del corredo epigrafico (onomastica, formulario, paleografia, aspetti linguistici e officinali), insieme alla tecnica edilizia e ai materiali impiegati, suggerisce comunque di collocare approssimativamente i nostri monumenti tra gli inizi del I sec. a.C. (PANCIERA: prima metà del I sec. a.C.; diversamente COLINI: seconda metà del II sec. a.C.) e gli ultimi decenni dello stesso secolo. Il più antico della serie è il sepolcro dei Quinctii (A), databile forse agli inizi del I sec. a.C., alla cui parete destra si appog-

gia, probabilmente intorno alla metà dello stesso secolo (PANCIERA), il cd. sepolcro Ge-mino (B-BI), che presenta un’analoga fronte in opera quadrata di tufo e pareti in blocchi di cappellaccio, poi restaurate in opera reticolata. Segue il cd. colombario Anonimo (C) con prospetto in opera quadrata di peperino e pareti rivestite da un paramento in reticolato. L’ultimo in ordine di tempo è il sepolcro dei Caesonii (D), realizzato negli ultimi decenni del I sec. a.C. in opera reticolata, ad eccezione della facciata che riutilizza il precedente sepolcro ad ara in blocchi di peperino ed è definita superiormente e lateralmente da elementi architettonici nello stesso materiale. L’organizzazione interna delle celle riflette il rituale adottato per la sepoltura, il cui cambiamento sembra quasi seguire la successione cronologica dei monumenti, se il sepolcro più antico, quello dei Quinctii (A), era originariamente destinato al solo rito dell’inumazione entro fosse scavate direttamente nel pavimento tufaceo, mentre gli altri quattro (B-BI, C, D) furono

Sopra: Sepolcro dei Caesonii (D), blocco di travertino con iscrizione sepolcrale incisa dopo l'erasione di un testo precedente, di cui restano alcune lettere sui listelli laterali

progettati in funzione della cremazione - il rito prevalente dalla tarda età repubblicana soprattutto in ambito colombariale - e provvisti di loculi contenenti una o due olle fittili ciascuno lungo le pareti. Più difficile risulta invece stabilire la datazione di ampliamenti (BI), rifacimenti (BBI, C) e adattamenti interni (apertura di nicchie per olle nel sepolcro dei Quinctii e nelle pareti laterali del cd. sepolcro Anonimo; fosse scavate nei cd. sepolcri Gemino e Anonimo) perché potevano essere eseguiti anche a poca distanza di tempo dalla costruzione della tomba stessa, come testimoniano - ad esempio - il probabile aggiornamento onomastico dell’elenco dei proprietari sulla fronte del cd. sepolcro Gemino (B), che forse coincise con qualche modifica all’interno della cella, il reimpiego edilizio del monumento ad altare nella facciata del monumento dei Caesonii (D) e

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l’eventualità, qui prospettata in via ipotetica, della commissione di una nuova iscrizione in sostituzione di quella originaria. Il rivestimento in opera laterizia della parete sinistra del cd. colombario Anonimo (C), insieme ai bolli su mattoni e lucerne rinvenuti durante gli scavi (A, BBI), documentano comunque un uso e una frequentazione dei sepolcri ancora nella prima età imperiale. La destinazione prevalentemente familiare dei monumenti si desume dalle epigrafi incise o murate sulle facciate prospicienti la moderna via Statilia, alle quali era delegato il compito di perpetuare il nome e la memoria dei titolari e di tutelarne giuridicamente la proprietà. I testi epigrafici, schematici e molto lontani dall’evoluzione che il formulario registrerà già in età augustea (27 a.C.-14 d.C.), contengono infatti l’elenco al nominativo (o genitivo) dei fondatori dei sepolcri, congiunti tra loro da vincoli di parentela o da rapporti di patronato e/o dipendenza, cui si aggiunge nel sepolcro dei Quinctii (A) e in quello cd. Gemino (B) la formula stereotipa sepulcrum/hoc monumentum heredes ne sequatur che sancisce l’inalienabilità e quindi la destinazio-

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ne esclusivamente familiare dei monumenti. Il ricorso a questa clausola non esclude la facoltà dei proprietari di vendere, cedere o donare a terzi, apparentemente estranei al nucleo familiare originario, un posto di sepoltura o una quota del sepolcro, come forse accade nel cd. sepolcro Gemino (B), dove la probabile aggiunta epigrafica dei nomi di L. Marcius Arm(- - -) e M. Annius Hilarus potrebbe riflettere un mutamento nel regime di proprietà del monumento, che diviene comune a cinque individui. Per quanto riguarda invece la condizione sociale dei fondatori, tranne L. Marcius Arm(- - -) (B) ed A. Caesonius Paetus (D), che patronimico e tribù qualificano come cittadini romani ingenui, si tratta sempre di individui appartenenti al dinamico ceto libertino, che hanno raggiunto, insieme alla posizione sociale, una disponibilità economica tale da consentirgli l’investimento di risorse pecuniarie nella costruzione di tombe di un certo livello. Relativamente all’evoluzione dell’onomastica romana, mi sembra interessante rilevare l’adozione da parte di P. Quinctius T.l. librarius (A) di un prenome diverso rispetto a quello del suo patrono (T. Quinctius). Questa

consuetudine onomastica, tipica dell’età repubblicana, si rendeva necessaria proprio per distinguere i liberti dai responsabili della loro manomissione in un’epoca in cui, i primi, presentavano ancora una nomenclatura priva di cognome o, viceversa, pur avendo il cognome, erano soliti ometterlo per imitare le formule onomastiche degli ingenui (mimesi onomastica). Nel nostro caso la differenza di prenome rispetto al patrono diventa anche un indicatore cronologico a favore della maggiore antichità del sepolcro dei Quinctii rispetto agli altri, i cui proprietari di condizione libertina - secondo un uso che si affermerà definitivamente in età imperiale - portano tutti lo stesso prenome del loro manomissore (B, D) e impiegano il cognome come elemento individuante. Oltre questo aspetto, il corredo epigrafico dei sepolcri offre una visione diacronica privilegiata per seguire le soluzioni adottate dalle officine lapidarie urbane nell’impaginazione dei testi, un’operazione da cui dipendeva da un lato, l’impatto visivo che l’iscrizione avrebbe avuto una volta ultimata, dall’altro la sua capacità comunicativa. Sulla facciata del monumento dei Quinctii (A), la bottega segue, nella disposizione dell’epigrafe, uno schema tradizionale che aveva avuto grande fortuna soprattutto nel III sec. a.C. (PANCIERA), in cui gli attacchi delle righe, tutte di lunghezza differente, sono allineati secondo una verticale, ad eccezione del primo e del penultimo attacco, che - sporgendo a sinistra generano una struttura «paragrafata» (PANCIERA). Riflette invece una tendenza prevalente proprio nel corso del I sec. a.C. l’ordinamento scelto per il testo inciso sulla metà sinistra della fronte del cd. sepolcro Gemino (B), in corrispondenza del busto-


ritratto di donna (a), e per l’iscrizione erasa del sepolcro dei Caesonii (D), in cui le righe, di differente (B) o uguale lunghezza (D?), presentano tutte gli attacchi rigidamente allineati in perpendicolare a sinistra. L’ultimo stadio di questa evoluzione è rappresentato dalle altre epigrafi del cd. sepolcro Gemino (B, b-c; BI, a-b) e, in particolare, dal testo più recente del monumento dei Caesonii (D), in cui l’officina lapidaria adotta un accorgimento innovativo che avrà predominanza assoluta in età imperiale: la disposizione speculare delle righe rispetto ad un asse mediano verticale. Un secondo aspetto riguarda invece il campo in cui le iscrizioni sono state impaginate. Nei primi tre sepolcri (A, B- BI) l’officina non impiega alcun artificio per predisporre e delimitare l’area della facciata destinata ad accogliere il testo e incide l’iscrizione direttamente sui blocchi già posti in opera, come è reso evidente dalla presenza di lettere sulle commessure verticali tra un blocco e l’altro. Tuttavia, nel cd. sepolcro Gemino possiamo apprezzare - rispetto al più antico sepolcro dei Quinctii (A) - una qualche, embrionale, attenzione del lapicida nel disporre o far rientrare le righe (o almeno gli attacchi delle stesse) all’interno

dei margini verticali dei blocchi. Una tappa successiva è invece rappresentata dall’iscrizione scalpellata sulla fronte del sepolcro dei Caesonii (D), in cui il testo è posto in risalto e isolato dal monumento cui appartiene utilizzando come supporto scrittorio un blocco di materiale (e quindi colore) diverso, le cui linee di contorno assumono, in nuce, la funzione di cornice. Lo stesso blocco, dopo il reimpiego epigrafico, riflette anche lo sviluppo conclusivo di questa procedura: la nuova iscrizione incisa sulla superficie scalpellata si presenta infatti evidenziata e delimitata - anche se forse non intenzionalmente - con una cornice a listello piatto, elemento che troverà un organico inseri-

Nella pagina accanto: Sepolcro dei Caesonii (D), prima edizione e facsimile dell'iscrizione sepolcrale In alto: Prospetto e pianta dei sepolcri di via Statilia secondo l'interpretazione di Henner von Hesberg (rielaborazione grafica da VON HESBERG 2005). Da destra a sinistra: recinto con facciata dei Quinctii (A), recinto con facciata del cd. sepolcro Gemino (B-BI), recinto con altare, poi inglobato nel sepolcro dei Caesonii (D)

mento nella prassi officinale urbana proprio a partire dall'età augustea.

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TUTTO EBBE INIZIO...

A

trecento anni esatti LA RISCOPERTA dalla scoperDI ERCOLANO ta casuale di Ercolano (1709-2009), si continua a rimanere stupiti di fronte alle meraviglie che a poco a poco iniziarono ad emergere dai primi scavi. Una recente mostra, svoltasi al Museo Nazionale Archeologico di Napoli, ha illustrato le fasi più importanti di questa scoperta, esponendo bronzi e affreschi provenienti dall’antica Herculaneum. Tutto ebbe inizio un giorno, quando un contadino di Resina, un certo Giovanna Battista Nocerino detto Enzecchetta, nel fare i lavori al suo pozzo, sfondando parecchi strati di pietra durissima, si trovò con grande stupore di fronte a una varietà di marmi. Il contadino raccolse i marmi A destra: Nella foto d'epoca l'eruzione del che gli sembrarono più belli e li Vesuvio nel 1872 vendette a un cosiddetto marmoraro, che li utilizzò per fare In alto, a destra: Nella foto d'epoca uno dei pozzi scavati statue di santi.

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Proprio in quel periodo, il principe di Elboeuf, in previsione delle sue nozze, aveva intenzione di costruire una residenza estiva. Per questa occasione aveva chiamato dalla Francia un celebre artigiano che sapeva fabbricare, con residui di marmo, una specie di cemento porcellanato più duro e più brillante del marmo. Insieme, i due capitarono nella


bottega del marmista cliente di Enzecchetta, che mostrò loro gli oggetti in suo possesso. Il principe intuÏ che i pezzi di marmo che gli venivano offerti erano di origine romana e li comprò in blocco facendoli trasportare nella sua villa. Consultato il suo architetto, il principe ebbe conferma che si trattava di pezzi di epoca romana e allora decise di com-

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prare il campo con il pozzo e continuare gli scavi a proprie spese. Partendo dal pozzo, iniziarono a scavare alcuni cunicoli sotterranei e, dopo pochi giorni, gli scavatori si imbatterono in un ambiente che conteneva una statua di Ercole in marmo pario; e poi ancora in colonne di alabastro e statue di ottima fattura. Inizialmente il principe d’Elboeuf credette di aver messo mano su un tempio dedicato ad Ercole e proseguì gli scavi con ardore. Dopo tre giorni vennero alla luce tre statue muliebri praticamente integre e questo convinse ancor di

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più il principe che si trattava di un tempio di Ercole. Ma la sua convinzione era errata. Nonostante tutte le precauzioni per cercare di mantenere segreti questi scavi, l’intera città di Napoli non parlava che delle sensazionali scoperte, anche se nel 1720 - a dispetto degli scavi (non certo sistematici) del principe - non si era ancora riusciti a stabilire con certezza che cosa si fosse recuperato. Negli anni seguenti il principe fu chiamato parecchie volte a Vienna, dove trascorse lunghi periodi, e per questo nessuno si fece più carico di riprendere gli scavi.

Nel 1734 le truppe spagnole si impadronirono di Napoli e del territorio circostante. Poco dopo giunse sul luogo l’Infante di Spagna, Carlo III di Borbone, allora diciottenne, amante della caccia e della pesca. Egli volle acquistare una proprietà che gli offrisse la possibilità di esercitare i suoi due sport preferiti e seppe che era in vendita la proprietà del principe di Elboeuf. La acquistò e vi trovò le antichità recuperate dal principe che lo interessarono così tanto da ripromettersi di riprendere gli scavi non appena la situazione si fosse stabilizzata. Intanto nel 1727 il Vesuvio aveva dato luogo ad una nuova eruzione. L’anno dopo, Carlo III fece riprendere i lavori nello stesso punto dove il principe aveva trovato le statue. L’impresa non era facile, poiché le antichità erano sepolte sotto una massa pietrificata spessa dai quindici ai venti metri. Quindi non rimaneva altro che continuare a procedere alla cieca per mezzo di gallerie, ma utilizzando una manodopera più numerosa e mezzi più efficaci. Partendo di nuovo dal pozzo già scoperto nei precedenti scavi, emersero frammenti di due statue equestri in bronzo. Ne venne informato subito il marchese Don Marcello Venuti, umanista toscano, al quale il re aveva affidato la direzione della sua biblioteca di Napoli e della Galleria d’Arte ereditata dalla madre Elisabetta Farnese. Il marchese Venuti discese direttamente nelle gallerie dove gli operai stavano disseppellendo una scalinata e ne dedusse che ci si trovava in presenza del podio di un teatro o della gradinata di un anfiteatro. Nel dicembre del 1738 vennero estratti i frammenti di un’iscri-


Nella pagina accanto: Stampa del XVIII secolo rappresentante reperti rinvenuti durante gli scavi

Sopra: Nella foto d'epoca uno dei cunicoli scavati Sotto: Nella foto d'epoca un particolare della cavea del Teatro

zione attestante che un certo Lucio Annio Mammiano Rufo aveva finanziato la costruzione del Teatro. Non c’erano più dubbi: si trattava del theatrum Herculanense! Il lavoro di recupero, per meglio dire lo scavo dei cunicoli, intanto procedeva e nel 1739 si estrasse una magnifica statua equestre in marmo, che un’iscrizione rivelò essere il ritratto di Marco Nonio Balbo, uno dei principali magistrati di Ercolano, poi governatore di Creta e della provincia d’Africa. Per quanto ingenua e poco versata in questioni archeologiche, la corte difendeva gelosamente il monopolio degli scavi: la consegna era formale e nessuno poteva intraprendere anche il più innocente lavoro di sterro senza incorrere in severe ammende. Ben presto, tuttavia, Carlo III si rese conto che il direttore degli scavi, Alcubierre, eccellente tecnico ma incompetente in questioni archeologiche, commetteva degli sbagli gravissimi. Il re decise quindi di affian-

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A sinistra: Nella foto d'epoca particolare della scena del Teatro Al centro e in basso: Incisioni di Francesco Piranesi del XVIII secolo, relative al Teatro di Ercolano Nella pagina accanto: Foto d'epoca relativa alla statua equestre di M. Nonio Balbo

cargli un luminare della scienza, un certo Monsignor Ottavio Antonio Bayardi, che godeva della fama di erudito. Intorno al 1745 i lavori di scavo giunsero a una fase morta: il rendimento era nullo e gli animi erano turbati dalla minaccia di un’invasione delle truppe imperiali, incaricate di rimettere gli Asburgo sul trono di Napoli. Alla metà del Settecento, l’ingegner Weber aveva trasferito la sua attività nella zona di Ercolano ed era stato adibito alla «sorveglianza e manutenzione delle gallerie sotterranee»; egli ultimò una pianta della rete dei cunicoli e un progetto per il disseppellimento completo del teatro. Ben presto, infatti, ne mise in luce il palcoscenico. Quando ebbe notizia delle importanti scoperte di Resina, si buttò con ardore in questa nuova impresa: venne alla luce un peristilio di sessantaquattro colonne che circondava una vasta piscina rettangolare. Weber non credeva ai suoi occhi quando a questa scoperta seguì il rinvenimento di una vera e propria collezione di oggetti d’arte di fattura greca e romana, in bronzo e in marmo. Fu subito evi-

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dente che la villa racchiudeva tesori inestimabili. Era molto estesa e comprendeva stanze di soggiorno decorate ed arredate, logge, verande, porticati, atri, tutto perfettamente conservato e intatto dopo circa diciassette secoli di sepoltura. La corte di Portici andò in delirio e il re dimenticò la caccia e la pesca per passare le sue giornate sui cantieri di scavo e ammirare le statue che venivano via via estratte. Non si era ancora potuto stabilire a chi fosse appartenuta la villa quando, nel 1752, venne fatta una nuova scoperta, ancora piĂš sensazionale: gli operai sbucarono in una cameretta circondata tutt’intorno da scaffali carbonizzati contenenti strani

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oggetti cilindrici che facevano pensare a pezzi di carbone di legna tagliati simmetricamente. Si trattava di rotoli di papiro e poichÊ ve n’erano tanti radunati insieme, ci si trovava in presenza di una vera e propria biblioteca. Il vero problema era riuscire a svolgere quei papiri senza che si disfacessero completamente. Passarono anni senza che si riuscisse a svolgere un solo rotolo di papiro e tutti i tentativi fatti causarono solo la distruzione parziale o totale di un nuovo rotolo. Nel 1755 Bayardi diede finalmente alle stampe il primo inventario del museo, pubblicato in una veste editoriale sfarzosa, ma diffuso e prolisso, in cui dava descrizione di 738

Nella pagina accanto, in alto: Foto d'epoca della staua equestre del figlio di M. Nonio Balbo Nella pagina accanto, in basso: Pianta degli scavi di Ercolano

Sopra: Nella foto storica di Giorgio Sommer gli scavi nel 1861 Sotto: Nella foto d'epoca gli scavi del XIX secolo


Sopra: Nella foto d'epoca, un cardo tra le insule II e III In basso, a sinistra: Particolare dei papiri rinvenuti In basso, a destra: Una veduta di Ercolano prima dei nuovi scavi Nella pagina accanto: Scavi lungo il costone est dell'insula IV

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affreschi, 350 statue e 1647 manufatti di minore importanza. Nello stesso anno il re, consigliato anche da eruditi, decise di fondare la Regia Accademia Ercolanense, che doveva radunare tutti gli intellettuali di Napoli ferrati in antichità e in letteratura greca e latina. Purtroppo l’Accademia non

arrecò alcun miglioramento alla tecnica degli scavi, né impedì che si perpetrassero gli stessi scempi del passato. Per questi motivi a Napoli si diceva con malignità che il Vesuvio, il quale dal 1755 aveva ripreso la sua attività, sputava fuori lava per protestare contro la lentezza con cui si


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Sopra: Nella foto d'epoca una strada di Ercolano Sotto: Il re Vittorio Emanuele II inaugura l'inizio degli scavi del 1869

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Nella pagina accanto: Nella foto d'epoca particolare del decumano

rimetteva in ordine ciò che in soli due giorni era riuscito a livellare al suolo. Dopo anni di interruzione, i lavori ripresero nel 1828, sotto il regno di Francesco I di Borbone. Per la prima volta furono condotti scavi ‘a cielo aperto’, diretti fino al 1855 dall’architetto Bonucci. In questo frangente, vennero messi in luce due isolati di case, tra cui il peristilio della Casa d’Argo. La generale scarsità dei ritrovamenti determinò tuttavia una nuova interruzione. In seguito i lavori ripresero grazie all’interessamento del re Vittorio Emanuele II e all’iniziativa di Giuseppe Fiorelli. Purtroppo, anche questa volta, la porzione di città messa in luce fu molto modesta, anche a causa delle


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A sinistra: Nella foto d'epoca, particolare del peristilio della Casa d'Argo negli scavi del 1828 In basso, a sinistra: Il re Vittorio Emanuele III in visita agli scavi Sotto: Il rinvenimento dei tetti delle abitazioni

abitazioni della moderna Resina che vi incombevano sopra. Fu solo nel 1924 che Amedeo Maiuri, divenuto Soprintendente agli Scavi e alle Antichità della Campania, provvide ad arrestare l’espansione della moderna Resina al di sopra dell’antica Ercolano, imponendo una serie di vincoli sulle aree ancora libere. I nuovi scavi iniziarono nel 1927 e furono inaugurati dal re Vittorio Emanuele III. La grande impresa, diretta da Maiuri


In basso: Il debutto dei nuovi scavi del 1927 A destra: Particolare degli scavi del 1929

con abili maestranze e un’eccezionale organizzazione dei cantieri di lavoro, si protrasse fino al 1958, anche se già nel 1942 quasi tutta l’area che costituisce l’odierno parco archeologico, era stata riportata alla luce. Tra il 1960 e il 1969, ulteriori lavori furono condotti nella zona settentrionale e sul Decumano Massimo, con la scoperta della Casa degli Augustali e del quartiere dell’atrio della Casa del Salone Nero. Negli ultimi venti anni del Novecento, è stata esplorata l’antica spiaggia, nella cui area sono emersi 12 ambienti con ingresso ad arco, i cd. Fornici, ricoveri per barche e magazzini dove molti Ercolanesi avevano cercato invano riparo. Nuovi e accuratissimi rilievi sono stati eseguiti nel 1993 e quindi nel biennio 1997-1998 dagli architetti Alfredo Balasco

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Sopra: Lo sviluppo degli scavi Sotto: Il rinvenimento di una imbarcazione

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Nella pagina accanto: Le difficoltà incontrate durante il consolidamento delle abitazioni

e Alfredo Maciariello e dal geometra Pietro Cifone, sotto la direzione di Mario Pagano, funzionario della Soprintendenza Archeologica di Pompei. Durante l’esecuzione di questi rilievi sono stati effettuati due piccolissimi scavi per mettere interamente allo scoperto un’iscrizione dipinta e recuperare alcuni frammenti di una scultura in bronzo e di una cornice angolare marmorea del sacello centrale posto sulla sommità della cavea, vicino il pozzo grande. Anche oggi rimane il problema del moderno abitato che preme su parte dell’area archeologica, costituendo una barriera a possibili nuovi scavi. Questo vuol dire che la scoperta di Ercolano non è ancora finita: altre meraviglie attendono di essere ammirate dal mondo intero!


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In basso: Nella foto d'epoca particolare dei resti della scena del Teatro

IL TEATRO DI ERCOLANO

Nella pagina accanto in alto: Nella foto d'epoca un particolare della cavea Nella pagina accanto al centro: Particolare di scritte graffite sull'intonaco delle pareti del Teatro Nella pagina accanto in basso: Incisione del XVIII secolo di Francesco Piranesi raffigurante una ricostruzione, in sezione, del Teatro

Il teatro fu costruito in età augustea in una zona di Ercolano urbanizzata e popolata probabilmente già dalla fine dell’età repubblicana. Con questa cronologia concordano sia lo stile dei capitelli e delle cor-

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nici della scena, sia la tecnica edilizia. L’edificio è posto in prossimità del Foro e per questo motivo era considerato uno degli edifici pubblici più importanti della città. Esso poteva contenere all’incirca


2500 persone. Ăˆ orientato da nord-est a sud-ovest, con la cavea rivolta verso est, ha un diametro massimo di 54 m ed è interamente costruito in opera reticolata e cementizia, fatta eccezione per la scena e la facciata esterna del corridoio anulare che sono in laterizio. Sulle pareti del teatro rimangono firme in varie lingue, testimonianza dei viaggiatori del Settecento e dell’Ottocento, e i segni dei picconi degli scavatori borbonici. Nella cavea, lungo i percorsi attualmente praticabili, si

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età borbonica, si compone di tre gradini ed è divisa in quattro settori da altrettante scalette radiali. Al centro e ai lati di essa erano tre edicole che servivano ad accogliere statue equestri in bronzo dorato, recuperate in stato frammentario nel Settecento. Scendendo nell’ima cavea, formata da quattro gradini di marmo e un tempo separata dalla media cavea da una transenna di lastre marmoree, interamente asportate, si giunge all’orchestra, che ha una forma semicircolare ed era rivestita da lastre di marmo giallo antico di cui rimangono alcuni incontrano cunicoli chiusi da materiale vulcanico e scavati nel Settecento per indagare parte della cavea e dei podi. La parte alta della scaletta radiale centrale è attraversata dal grande pozzo del 1750. Il corridoio che costeggia la sommità della media cavea era coperto da volta a botte decorata con stucco perfettamente conservatosi e serviva a disciplinare l’afflusso degli spettatori dall’emiciclo sottostante alle scalette che conducono alla summa cavea. La summa cavea, già indagata in

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Nella pagina accanto in alto: Particolare del corridoio che costeggiava la media cavea Nella pagina accanto in basso: Iscrizione dedicata dagli ercolanesi a Marco Nonio Balbo Sopra: Resti di affreschi delle volte In alto a destra: Iscrizione dedicata dopo la morte a Claudius Pulcher amico di cicerone In basso: Particolare del fronte scena del Teatro

frammenti. Da qui si giunge al pulpitum, cioè la fronte del palcoscenico, realizzato in laterizio rivestito di marmo; il muro presenta alle estremità due scalette che consentivano agli attori di salire sul tavolato del palco dove si svolgeva la rappresentazione. Il fronte scena (frons scenae) era costruito interamente in opera laterizia e rivestito di marmi pregiati di cui rimangono solo pochi elementi. Sul podio del fronte scena si impostavano dieci

colonne che inquadravano tre porte e quattro nicchie quadrangolari che ospitavano le statue ritrovate nei primi scavi del principe d’Elboeuf. La decorazione scultorea della scena comprendeva statue femminili, inserite in nove nicchie rettangolari, di cui ci sono pervenute la Piccola e la Grande Ercolanese, oggi conservate a Dresda. Le tre grandi porte del fronte scena immettevano in una camera, forse adibita a spoglia-

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Sopra: la cd. Grande Ercolanese, conservata a Dresda A destra in alto e al centro: Le cd. Piccole Ercolanesi, conservate a Dresda Nella pagina accanto in alto a sinistra: Statua in bronzo di M. Calatorius Quartio, dal Teatro. Museo Archeologico Nazionale di Napoli Nella pagina accanto al centro: Lapide del XIX secolo indicante l'ingresso al Teatro Nella pagina accanto, in alto a destra: Statua in bronzo di Agrippina Minore, dal Teatro. Museo Archeologico Nazionale di Napoli Nella pagina accanto in basso: Modellino in scala del Teatro

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toio per gli attori. Nella parte retrostante la scena sono riconoscibili le due scale per mezzo delle quali si raggiungevano i tribunalia attraverso un solaio di legno di cui rimangono le travi carbonizzate. Dietro la lunghezza della scena correva una porticus post scaenam, che aveva una fila di colonne in laterizio rivestite da stucco bianco. Dell’emiciclo del teatro, costituito da diciassette arcate, è visibile la parte bassa dei pilastri del primo ordine.

I locali d’accesso al teatro, già sistemati nel 1750 all’inizio delle campagne di scavo, furono risistemati nel 1849 e restaurati nel 1865 su iniziativa di Giuseppe Fiorelli. Nella stanza di ingresso sono state recentemente esposte le fotografie delle varie piante dell’edificio, tra cui quella più antica, realizzata dall’Alcubierre. Altre fotografie mostrano le statue che decoravano la scena del teatro e alcuni protagonisti degli scavi e degli studi su Ercolano.


Al centro della stanza si trova un plastico eseguito nel 1808, forse a scopo didattico, e nella saletta adiacente sono stati esposti i primi ritrovamenti marmorei dell’epoca borbonica, tra cui un capitello corinzio con palmette.

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«TANTI BEI QUADRI PER LA GALLERIA DEL RE…»

Nel 1739, durante gli scavi dei cunicoli di Ercolano che portarono alla scoperta del Teatro, ci si imbatté in un fregio dipinto. Carlo III di Borbone acconsentì a staccarlo e lo scultore francese Joseph Canart iniziò a ‘ritagliare’ le scene figurate dalla parete. Questo primo stacco inaugurò la prassi di ritagliare dalle pareti degli edifici ercolanesi e pompeiani, con l’ausilio di scalpelli, solo la parte affrescata ritenuta di

maggior pregio, che veniva chiusa in cassette e trasportata nei laboratori di restauro. Lì la superficie dipinta veniva liberata dalla terra dello scavo e si assottigliava la porzione di muro rimasta attaccata, stendendo su di essa uno strato di gesso o di ardesia per irrigidirla. Il lato posteriore del pannello staccato era poi chiuso con assi di legno e la cassetta veniva rifinita con cornici di castagno dipinte in rosso con bordo A sinistra: Giocatrici di astragali. Dipinto su marmo rinvenuto ad Ercolano nel Maggio 1746. Museo Archeologico Nazionale di Napoli Sopra: Scena di Banchetto. Affresco, da Ercolano. Museo Archeologico Nazionale di Napoli Sotto: Predella e Pannello. Frammento di affresco. Rinvenuto ad Ercolano nel Dicembre del 1947. Museo Archeologico Nazionale di Napoli

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nero, sulle quali era riportata in caratteri romani l’iniziale della città di provenienza. La preoccupazione non era pertanto quella di conservare l’intera parete, ma di realizzare ‘quadri’ e ‘quadretti’ con cui arricchire la collezione di Carlo III. Come scriveva lo storico e archeologo Ridolfino Venuti nel 1739, quando il Canart eseguì il primo stacco: «Si taglieranno, e se ne farà tanti bei Quadri per la Galleria del Re!». Nel 1771 i dipinti recuperati e conservati erano già 1400. Per i primi decenni non ven-

A destra: Scenografia Teatrale. Affresco. Rinvenuto ad Ercolano nel Luglio 1743. Museo Archeologico Nazionale di Napoli In alto a destra: Infanzia ed educazione di Dioniso, particolare, Affresco da Ercolano. Museo Archeologico Nazionale di Napoli

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A sinistra: Volto di fanciulla. Particolare di affresco, da Ercolano. Museo Archeologico Nazionale di Napoli In basso: Pannello con medaglioni raffiguranti Sileno, Menade e Satiro. Affresco da Ercolano. Museo Archeologico Nazionale di Napoli Nella pagina accanto: Cerimonia Isiaca. Particolare di affresco da Ercolano. Museo Archeologico Nazionale di Napoli

nero applicate alle pitture staccate né integrazioni, né ricostruzioni pittoriche, seguendo un criterio prettamente moderno. La selezione degli affreschi da staccare per il sovrano fu affidata a Camillo Paderni, custode del Museo Ercolanese di Portici, che decideva anche quali distruggere: «Carnat o i suoi aiutanti staccavano le pitture, ma la decisione circa la pittura da staccare o da rompere spettava a Paderni» (A. ALLROGGEN-BEDEL H.

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KAMMERER GROTHAUS 1983). Ma questo scempio non durò a lungo, perché il Winckelmann informò le altri corti europee di quanto si stava compiendo ai danni dei dipinti ritrovati e nel 1763 il re di Borbone, per salvaguardare il suo buon nome, fu costretto a vietare questa prassi. Intanto si cercava di ovviare ad un problema di non facile risoluzione: i colori brillanti delle pitture antiche, una volta tolta la terra che li ricopriva, tendevano ad opacizzarsi. Si

tentarono diversi procedimenti conservativi e alla fine prevalse la scelta di stendere sulle superfici una specie di ‘vernice’ liquida trasparente, ideata dal capitano di artiglieria Stefano Moriconi, anche se questa, a lungo andare, tendeva ad ingiallirsi. Nel 1811 il pittore Andrea Celestino individuò le cause del degrado degli affreschi vesuviani e presentò una relazione al Direttore del Museo di Napoli. In maniera intuitiva egli distinse anche il diverso modo di operare sui ‘quadri’ conservati nel Museo e sulle pitture ancora in situ. La preparazione della ‘vernice’ di Celestino era molto elaborata, ma indubbiamente ha dato notevoli risultati, poiché ha protetto a lungo gli affreschi dall’attacco degli agenti esterni. Per questo nel 1813 il Direttore del Museo di Napoli decise di adottare, per la salvaguardia delle pitture vesuviane, questo nuovo procedimento.


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GLI AFFRESCHI DELL’AUGUSTEUM La cd. Basilica di Ercolano, oggi meglio nota come Augusteum, è ancora sepolta sotto la città moderna. Per avere un’idea dell’organizzazione architettonica del complesso, uno spazio porticato che occupava un settore del Decumano Massimo, bisogna pertanto ricorrere alla documentazione degli scavi settecenteschi. Sappiamo che - oltre alle statue e alle iscrizioni - l’edificio ha restituito quattro grandi pannelli ad affresco con profilo concavo: il Teseo liberatore dei giovani Ateniesi, Ercole e Telefo, Achille e il centauro Chirone, Pan (o Marsia) e il giovane Olimpo. Il primo pannello raffigura l’episodio finale del mito di Teseo, figlio di Egeo ed Etra, che si era unito alla spedizione con cui Atene si era impegnata a mandare a Minosse, re di Creta, un tributo di sette fanciulli e sette fanciulle da servire in pasto al Minotauro. Teseo, sbarcato a Creta, riuscì ad uccidere il Minotauro e ad uscire

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dal Labirinto con l’aiuto di Arianna, liberando così gli Ateniesi dal pesante tributo. Nell’Ercole e Telefo è rappresentato il momento del ritrovamento da parte di Ercole del figlioletto Telefo, che la madre, la principessa Auge, aveva esposto sul Monte Partenio in Arcadia, dove il bambino fu allattato da una cerva e allevato dai pastori della regione, qui personificata come figura femminile seduta su una roccia che tiene un bastone nodoso nella mano sinistra. Nel pannello che ritrae Pan (o Marsia) e Olimpo, il giovane Olimpo, mitico musicista, sta apprendendo l’uso del flauto da un Sileno. Nell’ultimo affresco, Achille e il centauro Chirone, sono infine rappresentati l’eroe Achille, ancora adolescente, che impara a suonare la lira dal suo maestro, il saggio centauro Chirone, raffigurato con orecchie equine e pelle ferina sulle spalle. Quando vennero scoperti, il 25 novembre del 1739, questi affreschi suscitarono un gran-

dissimo interesse, tanto che furono le prime pitture pubblicate nelle Antichità di Ercolano. Poiché si trattava di quadri di grande formato e con soggetto mitologico, alimentarono nel mondo accademico vivaci discussioni. Dai rendiconti dello scavo del 1739 si ricavano putroppo scarsi elementi per dedurre la posizione originaria dei quadri sulle murature dell’edificio. Infatti, nelle relazioni di scavo, dopo il distacco di una sacerdotessa, non ci sono altre notizie riguardanti decorazioni parietali ad affresco. Tuttavia, sulla base del profilo concavo dei quadri, sembra oggi accertata la loro provenienza dalle nicchie absidate


poste sul lato di fondo dell’Augusteum, anche se il primo problema è rappresentato dal fatto che ci sono due nicchie e quattro quadri ad affresco. Domenico Esposito, calcolando le misure delle pitture ricurve, ha ipotizzato che in ciascuna nicchia absidata fossero collocati un grande quadro a soggetto mitologico fiancheggiato da due pitture come quella con il centauro Chirone e Achille. Ma questa ipotesi suscita qualche perplessità. Nel 1761 l’Augusteum fu nuovamente esplorato e in questo frangente venne distaccata una serie di pitture disposte nella zona superiore, tra cui i quadri con le fatiche di Ercole. Ancora oggi la loro cronologia e interpretazione sono oggetto di discussione. Per quanto riguarda la datazione, purtroppo non abbiamo l’intero ciclo pittorico ma solo frammenti, per cui potrebbe trattarsi del

primo allestimento dell’edificio, risalente alla metà del I sec. d.C. (età claudia). Da vari elementi, l’ipotesi oggi accreditata è che le due grandi pitture curvilinee, raffiguranti il Teseo liberatore ed Ercole e Telefo (entrambi conservati al Museo Archeologico Nazionale di Napoli), rivestissero le pareti delle due nicchie absidate. Data la loro posizione, non c’è dubbio che dovessero avere un ruolo di grande importanza nel programma decorativo dell’intero edificio. Il quadro con il piccolo Telefo allattato da una cerva sul monte Partenio, alla presenza di Ercole, mitico fondatore di Ercolano, e quello con Teseo, fondatore di Atene, hanno in comune l’esaltazione dell’eroe fondatore e il tema del miracoloso salvataggio di giovinetti. Una diversa ipotesi interpretativa, riguardo i due affreschi, è stata proposta da

Nella pagina accanto in basso: Disegno raffigurante i resti dell'augusteum di Ercolano Sopra: Teseo libera i fanciulli ateniesi. Affresco dall'Augusteum di Ercolano, cm. 155 X 194. Museo Archeologico Nazionale di Napoli A destra: Eracle e Telefo. Affresco dall'Augusteum di Ercolano, cm. 182 X 218. Museo Archeologico Nazionale di Napoli A pag. 60: Chirone e Achille. Affresco dall'Augusteum di Ercolano, cm. 127 X 125. Museo Archeologico Nazionale di Napoli A pag. 61: Marsia e Olimpo. Affresco dall'Augusteum di Ercolano, cm. 112 X 126. Museo Archeologico Nazionale di Napoli

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Françoise Gury, che nel quadro di Ercole e Telefo identifica la maestosa figura femminile seduta davanti l’eroe nella Magna Mater, riconoscendo nella rappresentazione anche un’allusione al restauro del tempio di Ercolano, dedicato alla stessa dea, realizzato dall’imperatore Vespasiano nel 76 d.C. Il quadro con Teseo liberatore, nella sua ambientazione cretese, conterrebbe invece un riferimento sia a Marco Nonio Balbo, che fu proconsole di Creta e Cirene, sia a

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Vespasiano, anch’egli proconsole di Creta e Cirene. La studiosa è inoltre convinta che la c.d. Basilica di Ercolano sia quella costruita da Balbo e restaurata da Vespasiano, interpretando l’edificio come luogo dedicato al culto imperiale. Recentemente Mario Torelli ha proposto una nuova lettura dei quattro pannelli, che sarebbero stati creati con l’intento di celebrare il culto imperiale, interpretando le scene mitologiche rappresentate come un’evocazione dell’atmosfera del

ginnasio, luogo riservato in Grecia alla preparazione fisica e all’educazione dei giovani: il piccolo Telefo, i giovani Ateniesi, Achille e Olimpo rappresenterebbero pertanto i diversi stadi di crescita e formazione degli iuvenes (giovani). Seguendo l’interpretazione di Torelli, è possibile che l’edificio fosse proprio destinato al culto imperiale, lasciando spazio anche a funzioni commerciali. Ed è anche per questo che il nome Augusteum sembra essere appropriato.


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IL CONTRASTATO PERIODO DELL’IMPERO ROMANO TRA STORIA E ARCHEOLOGIA

I

l termine anarchia miliANARCHIA tare definisce MILITARE solitamente quel momento storico dell’epoca imperiale caratterizzato da imperatori-soldati che erano per lo più eletti dalle proprie legioni di appartenenza e con grande rapidità, spesso in conseguenza di eventi favorevoli o sfavorevoli alle diverse milizie, e venivano destituiti mediate morte violenta o per tradimento. Questo periodo si colloca tradizionalmente tra il principato di Massimino il Trace (235 d.C.) e Sopra: Aureo di Settimio Severo e Giulia l’avvento al potere di Domna Diocleziano nel 284 d.C. Le origini di questo particoA destra: Il Foro di Leptis Magna lare degrado culturale e politico sono state ricondotte da diversi Nella pagina accanto, in alto a sinistra: Busto ritratto di Settimio Severo storici già al principato di (Roma, Musei Capitolini) Settimio Severo, salito al trono nel 193 d.C. in maniera rocamNella pagina accanto, in alto a destra: bolesca e per acclamazione delle Testa in bronzo di Settimio Severo legioni della Pannonia Superiore (di cui Settimio era legato propretore), a cui presto si unirono quelle della Dacia,

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del Norico, della Germania e della Rezia. Settimio Severo si trovò di fronte a un impero che viveva la sua peggior crisi economica, politica e militare dalla sua nascita e malgrado fosse ispirato da nobili ideali, dovette presto adottare misure drastiche per porre rimedio al clima di disfacimento dello Stato. Di certo, era lontana l’idea dell’impero così come venne elaborata da Augusto, accolta e praticata dalla maggior parte dei suoi successori: quella di un governo fondato sulla cooperazione tra il princeps, quale sovrano indiscusso, e tutte le forze politiche, economiche e istituzionali, anche a livello periferico, e in cui l’esercito non era che uno dei tanti mezzi utile al raggiungimento di questa idea, che si potrebbe definire democratica per la partecipazione di tutti a un fine supremo e che fino alla fine del II sec. d.C. aveva dato i suoi ambitissimi frutti. Settimio Severo era anche


uno statista freddo, pratico, lungimirante. Comprese immediatamente che lo Stato romano era ormai divenuto una macchina preparata per la guerra e diede tutto il suo sostegno all’esercito mediate cure e benefici del tutto nuovi e, per certi aspetti, inattesi. Questa opera di profonda militarizzazione si rese necessaria anche per le sempre più pressanti minacce delle popolazioni barbariche ai confini dell’impero, ma soprattutto permise al nuovo imperatore di concretizzare la sua visione assolutistica dello Stato, che proprio nell’esercito vedeva la sua maggiore forza. La vecchia aristocrazia, i ceti medi e ricchi, l’ordine equestre e non da ultimo, il senato, venivano a ricoprire ruoli sempre più secondari e di etichetta, lasciando così alle milizie il ruolo preminente nella vita dello Stato romano. Da questo momento in poi sarà quasi sempre l’esercito a decidere l’imperatore di turno e con esso la politica, divenuta ormai militare, da seguire nel decidere le diverse operazioni belliche che dovevano essere condotte e perseguendo, in genere, finalità economiche e personalistiche legate ai diversi bottini di guerra da poter conquistare. Le lotte intestine tra legioni per la supremazia dell’una o dell’altra

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al fine di acclamare i loro generali alla porpora, fra tradimenti, congiure e complotti, completano infine il quadro di questi decenni torbidi della storia romana, per concludersi con quella crisi nell’unità dell’impero che sfocerà nella sua divisione e nella fine di Roma quale capitale di un solo Stato. Questo nuovo sistema fondato sull’esercito venne ufficializzato da Settimio Severo attraverso alcuni interventi che avevano lo scopo di dare il massimo favore al benessere dei soldati. È il caso, ad esempio, delle cleruchie, ossia l’assegnazione di terre coltivabili ai soldati che in genere le cedevano ad appaltatori per il loro mantenimento. Venne poi concesso all’esercito il controllo sulle confische dei beni, sui pagamenti all’erario e su tasse speciali, come l’Annona, istituita in Egitto, che veniva per lo più pagata in natura. Ai soldati venne anche elargito l’anulus aureus affinché

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potessero essere aggregati nell’ordine equestre e, infine, data la notevole svalutazione monetaria di quel periodo, il loro stipendio venne quasi raddoppiato. Ma la concessione forse più singolare e rivoluzionaria fu che i legionari potevano arruolarsi anche se sposati e vivere con le loro mogli in villaggi prossimi agli accampamenti, venendosi così a infrangere la netta separazione esistente fra il castrum e il mondo civile. La lungimiranza di Settimio Severo, tuttavia, lo portò a escludere da quest’ultimo beneficio i suoi fedeli e prediletti pretoriani, che continuarono ad essere sottoposti a una rigida disciplina. In ultima analisi sono significative, dopo tutte queste concessioni elargite in vita, le ultime parole che Settimio Severo disse ai suoi figli, Caracalla e Geta, poco prima di morire: «Andate d’accordo, arricchite i soldati, non preoccupatevi degli altri». Questo imperante strapotere

Nella pagina accanto, in alto: L'Arco di Settimio Severo a Leptis Magna Nella pagina accanto, in basso: Lo splendido Teatro di Leptis Magna Sopra: Uno dei pannelli dell'Arco di Settimio Severo con rappresentazione di soldati Sotto: Particolare del Foro Romano, sulla destra l'Arco di Settimio Severo

dell’esercito e il nuovo clima esasperatamente militarizzato non tardò a dare i suoi esiti proprio durante gli anni di regno della dinastia dei Severi. Caracalla, infatti, nell’inverno del 216-217 d.C. si trovava ad Edessa, suo quartier generale, per prepararsi a sferrare un nuovo attacco contro il re dei Parti, Artabano V. I soldati che erano già da tempo esasperati per i ritardi e i costanti rinvii nell’iniziare la nuova campagna bellica, trovarono l’occasione per sopprimerlo durante un suo viaggio a Carrhae, nell’odierna Turchia, supportati dal tradimento del suo fidato prefetto del pretorio, Macrino, che giunse addirittura ad intendersi con i capi dell’opposizione a Roma per avere la certezza della sua elezione alla porpora dopo l’assassinio di Caracalla. La città di Carrhae, già teatro di una dolorosa disfatta subita nel lontano 53 a.C. dall’esercito romano comandato da Licinio Crasso contro i Parti, fu scelta, a partire dalla metà del II sec. d.C., quale avamposto e base per le operazioni belliche verso la Mesopotamia. Probabilmente

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essa viene anche rappresentata in uno dei pannelli a rilievo che decorano l’Arco di Settimio Severo nel Foro Romano, elevato in memoria delle vittoriose campagne partiche di questo imperatore. Si tratta proprio del pannello sinistro della fronte dell’Arco che guarda il Foro, in cui - dal basso verso l’alto - sono raffigurate su tre registri le fasi iniziali della prima campagna partica con la partenza dell’esercito romano dall’accampamento di Carrhae, rappresentato al centro con le sue poderose mura. Il prestigio di questa città crebbe moltissimo tanto che divenne colonia e sede di una importantissima zecca durante il principato di Marco Aurelio, raggiungendo il suo apogeo proprio all’epoca di Caracalla con emissioni bronzee che recavano l’effige dell’imperatore e immagini allusive al culto lunare della città. Proprio un devoto pellegrinaggio verso questo santuario fu fatale a Caracalla, soppresso dai suoi fedeli collaboratori capeggiati da Macrino. Era l’8 aprile del 217 d.C. Marco Opelio Macrino era di

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origine africana, nato da umile famiglia. Le fonti lo descrivono come un uomo ignobile e sordido che svolse da giovane umili mansioni presso la corte imperiale. Riuscì comunque a far carriera e a raggiungere l’alto grado di prefetto del pretorio. La sua acclamazione a imperatore non fu mai ben vista dal Senato e dal popolo di Roma che si trovava ad avere sul massimo soglio imperiale, per la prima volta, un personaggio appartenente all’ordine eque-

Sopra: Particolare dei resti della città di Edessa Sotto: Particolare dei resti della città di Carre Nella pagina accanto: Busto dell'imperatore Marco Opellio Macrino (Musei Capitolini - Roma)


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Sopra: Iscrizione realizzata sull'architrave dell'Arco degli Argentari. Roma Sotto: Rilievo eseguito all'interno dell'Arco degli Argentari raffigurante l'imperatore Settimio Severo e sua moglie Giulia Domna

Nella pagina accanto, in alto: Denario con l'immagine di Giulia Maesa, nonna di Eliogabalo Nella pagina accanto, al centro: Denario con l'immagine di Giulia Soemia, madre di Eliogabalo Nella pagina accanto, in basso: L'imperatore Eliogabalo rappresentato su una moneta

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stre. I tempi tuttavia erano veramente difficili. Alla notizia della morte di Caracalla e della ripresa degli attacchi dei Parti, che riconquistarono molti territori in precedenza occupati dai Romani, l’elezione di Macrino fu accolta e questi restò a capo degli eserciti presso le regioni della Mesopotamia. A Roma, frattanto, serpeggiava il malcontento, anche se, malgrado la crisi congiunturale e il momento di grande inquietudine etica, l’Urbe continuava a godere di numerosi privilegi che sembravano aumentare con l’accrescersi delle difficoltà riscontrate dall’esercito nella difesa dei confini. Questo è anche testimoniato dal fatto che alle consuete distribuzioni di grano alla plebe, si aggiunsero anche quelle di carne suina (caro porcina), di cui si ha testimonianza nel monumento, chiamato impropriamente Arco degli Argentari, dedicato nel 204 d.C. nel Foro Boario in onore di Settimio Severo e della sua famiglia dagli argentarii (banchieri) e dai negotiantes boarii (commercianti di carne bovina). L’opera architettonica è infatti da considerarsi una porta architravata di accesso al Foro Boario, che in seguito fu anche legata all’istituzione, da parte di Caracalla, del Foro Suario, dove i boarii, come attestano le fonti, si prestarono a una distribuzio-


ne di carne porcina alla plebe. L’iscrizione dell’Arco, dunque, come ipotizzò il Mazzarino, è «l’espressione non già di puri e semplici boarii come all’epoca di Settimio Severo, ma di boarii che importavano carne suina», probabilmente proprio per effetto

Domna viene ampiamente raccontato da Cassio Dione, che ricorda come il dolore di costei per la morte del figlio Caracalla la portò prima a tentare il suicidio e poi a lasciarsi morire di fame nel 217 d.C. ad Antiochia, anche l’ordine imposto da

Macrino alle donne dei Severi di abbandonare il Palazzo imperiale e di ritornare nella loro patria siriana, Emesa, si rivelò un errore altrettanto fatale. Rientrate in Siria con tutte le loro ricchezze, Giulia Mesa e le sue figlie organizzarono un complotto per riprendersi il potere. Ormai Macrino era circondato solo da nemici e pur nel tentativo di ripristinare una saggia politica monetaria mediante la riduzione delle tasse (cosa che procurò nuovo malcontento fra i militari) e un nuovo governo costituzionale ed illuminato, venne ucciso dopo soli 14 mesi dalla sua proclamazione a imperator. Detestato dal Senato per la sua appartenenza all’ordine equestre e dai suoi nemici che, vedendo in lui un usurpatore del potere, pretendevano l’abbandono della Mesopotamia, si trovò a perire proprio a causa di un complotto ordito da Giulia Mesa con l’intento di riportare sul trono un membro dei Severi: il nipote Sesto Vario Avito Bassiano, il futuro imperatore Elagabalo. Fu per questo che Mesa cominciò a istigare i soldati che si trovavano presso Raphaeneae, vicino Emesa, negli

delle nuove distribuzioni alla plebe. A questo punto, sulla scena politica e militare dell’impero, già ampiamente degenerata e in piena crisi, entrano in gioco gli esponenti che restavano della famiglia dei Severi, ormai orfana del suo capostipite al trono imperiale e dei suoi due successori maschi: Giulia Domna, moglie di Settimio Severo e madre di Caracalla e Geta, e Giulia Mesa, sua sorella, madre di Giulia Soemia e Giulia Mamea. Se il destino fatale di Giulia

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accampamenti della III legione Gallica, con la notizia che il giovane Avito Bassiano era il figlio di Caracalla, nato dalla cugina Soemia, e che a lui spettava di diritto la porpora. I militari della legione Gallica acclamarono allora imperatore Avito Bassiano e ben presto altre legioni si unirono a quella, mettendo Macrino, che si trovava ad Apamea in Siria, in una difficilissima situazione che lo portò allo scontro diretto con i ribelli e quindi alla sconfit-

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ta nei pressi di Antiochia. Macrino, alla notizia della morte dell’amato figlio Diadumeniano, che aveva elevato al rango di Cesare, tentò dapprima il suicidio e poi, in fuga, fu raggiunto e ucciso spietatamente all’inizio dell’estate del 218 d.C. nelle vicinanze di Archelaide in Cappadocia. La cospirazione ordita da Mesa e Soemia era giunta così a buon fine, elevando al trono il giovane Elagabalo, appena quattordicenne, e rendendo di


fatto le due donne, originarie di Emesa, le vere regine e dominatrici dell’impero. In questo periodo della storia romana la città di Emesa acquistò quindi una preminenza del tutto rispettabile e divenne teatro di avvenimenti che influenzeranno non poco l’andamento della vita sociale e politica dell’impero. Situata in una posizione dominante lungo la valle dell’Oronte e sulla direttrice che collegava Damasco alla Palestina e all’Egitto, la città fu sempre teatro di battaglie per la sua conquista e il conseguente controllo dei numerosi traffici che si muovevano dall’Oriente verso sud. Già con Pompeo Emesa venne a trovarsi in una situazione di sudditanza verso

Roma, mentre al tempo dei Flavi, durante le lotte contro le popolazioni ebraiche, fu amica dei Romani, favorendo tutte quelle attività che portarono alla distruzione di Gerusalemme. Senza dubbio, con l’avvento al trono di Settimio Severo e della sua consorte Giulia Domna, originaria di Emesa, la città visse il suo floruit, culminato in seguito con l’elevazione al potere di principi emesiani, quali furono Elagabalo e Severo Alessandro. Si colloca infatti in questi anni la riconquista della città durante le campagne partiche condotte da Settimio Severo e raccontate nei pannelli dell’arco onorario eretto nel Foro Romano, dove Emesa appare cinta da solide

Nella pagina accanto, in basso: Denario con l'immagine dell'imperatore Eliogabalo Sopra: La via Colonnata di Apamea A destra: Particolare della via Colonnata di Apamea

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mura. Dotata di una zecca propria, la città era molto nota nell’antichità per la presenza di un importante santuario dedicato ad El Gabal, divinità solare, che aveva nel proprio tempio, come simulacro, una pietra nera o betilo, raffigurato in moltissime emissioni monetali. Il giovane principe Elagabalo era stato educato alla maniera orientale e soprattutto, per discendenza, era divenuto il gran sacerdote del dio Baal: l’impero si trovò quindi ad essere dominato da un sacerdote orientale, per di più identificato con il dio di Emesa. Durante il suo principato si assistette al completo disfacimento dei principi fondanti della romanitas. Prima di tutto, rinunciando agli appellativi richiamanti imprese belliche e adottando solo quelli di Pius e Felix, Elagabalo negò come modello proprio quella

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tradizione guerriera che aveva fatto grande Roma e di cui si erano fregiati i più importanti personaggi della repubblica, come Scipione l’Africano, e dell’impero, come Augusto, Traiano e Marco Aurelio. Influenzato fortemente dalla madre, che le fonti descrivono come dissoluta e viziosa, fece inoltre costruire sul Quirinale il Senaculum, ossia il senato delle

Sopra: Denario di Eliogabalo coniato nella zecca di Edessa Sotto: Basamento del Tempio di Eliogabalo sul Palatino a Roma Nella pagna accanto, in alto: Sesterzio con la rappresentazione del Tempio di Eliogabalo Nella pagina accanto, in basso: Ritratto in marmo dell'imperatore Eliogabalo. Roma, Musei Capitolini


amministrative e politiche dello Stato. Non a caso l’impero di Elagabalo è stato definito come quello del femminismo di alto rango e dei liberti (MAZZARINO). E gli spazi all’interno dell’Urbe al giovane imperatore di certo non mancarono: al Palazzo sul Palatino si aggiunsero infatti i grandi possedimenti ereditati dal padre Sesto Vario Marcello, noti con il nome di Horti Spei Veteris od Horti Variani e collocati sulla propaggine orientale del Celio. Entrata a far parte del demanio imperiale, questa splendida residenza suburbana, che appariva come una villa composta da diversi nuclei monumentali, immersi in magnifici giardini, fu ulteriormente abbellita proprio da Elagabalo con la costruzione dell’Anfiteatro Castrense e con donne, dove si legiferava su futili argomenti di vita mondana e galateo. La sua megalomania religiosa lo portò anche a costruire sul Palatino un tempio dedicato al dio Eliogabalo, all’interno del quale fece trasportare tutti i simboli religiosi e leggendari legati alle origini di Roma, come il Palladio, il fuoco di Vesta, gli ancili di Marte e il simulacro aniconico della dea Cibele che dovevano, quindi, rientrare nell’unico culto solare in cui si identificava lo stesso imperatore. Un altro tempio venne realizzato sull’Esquilino e frequentissime erano le cerimonie e le processioni fra i due templi, caratterizzate da danze e dal trasporto del betilo. Tutta la vita di corte, infine, si imperniò su un’atmosfera di ambigua lussuria, dove si alternavano, con cadenza continua, gli amanti e le amanti del principe e di sua madre, che di volta in volta venivano nominati per i loro meriti ‘di letto’ alle cariche

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la risistemazione del Circo Variano, realizzato in precedenza da Caracalla. A questa ristrutturazione si deve il riutilizzo, al centro della spina del Circo, dell’obelisco di Antinoo, che l’imperatore Adriano aveva fatto collocare ad ornamento di un monumento dedicato alla memoria del giovane sulla via Labicana. Nel 1551 l’obelisco si trovava ancora nella sua giacitura originaria, seppure caduto e fratturato, come testimoniano alcune vedute del Bufalini e del Ligorio, insieme a molte vestigia del Circo. Trasportato nel 1633 da papa Urbano VIII a Palazzo Barberini con l’intento di inserirlo - su progetto del Bernini - nella suntuosa decorazione dei giardini, fu in seguito donato a papa Clemente XIV e, dopo molte vicissitudini, siste-

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Sopra: L'obelisco del Circo Variano collocato sul Pincio a Roma Sotto: Pianta di Pirro Ligorio del XVI secolo con il Circo Variano ancora rappresentato Nella pagina accanto, in alto: Ritratto di Giulia Mamea, madre di Alessandro Severo Nella pagina accanto, in basso: 26 Busto ritratto di Alessandro Severo. Roma, Musei Capitolini

mato dal Valadier nell’attuale collocazione del Pincio. Nella proprietà degli Horti Variani, quindi, l’imperatore non disdegnò di fare la sua apparizione, anche in virtù della sua adorazione, per la quale aveva predisposto un cerimoniale particolare, e di assistere, così, alle corse dei carri che - come racconta il suo biografo - si svolgevano proprio nella residenza sul Celio. Nel frattempo la situazione sociale e politica era divenuta insostenibile. Roma non poteva più tollerare i capricci di questo giovane sacerdote siriano e i suoi estremi estetismi, accompagnati dagli impudichi comportamenti della madre. A questo si aggiunse l’indifferenza di Elagabalo nei confronti dell’attività legislativa e amministrativa, il disinteresse per la difesa dei confini dell’impero e il sopraggiunto livellamento tra la classe senatoria ed equestre per il loro accorpamento. A Roma e nelle principali province imperiali insoddisfazione e disapprovazione regnavano sovrane. Bisognava quindi correre ai ripari. E ancora una volta intervenne Giulia Mesa, che avvertendo il pericolo di un colpo di Stato ai danni del nipote, propose di affiancare ad Elagabalo l’altro suo nipote, il figlio di Giulia Mamea: Bassiano


Alexiano Marcello, che allora aveva solo 13 anni. Cresciuto secondo i principi della cultura romana, il giovane era molto ben visto dal popolo e dal Senato di Roma. Usando lo stesso stratagemma ideato per il figlio di Soemia, Giulia Mesa fece credere che anche questo giovane principe fosse figlio di Caracalla e così fu eletto Cesare con l’intenzione di far svolgere a lui le principali attività di governo di cui l’impero necessitava ormai da anni. Prese il nome di Marco Aurelio Severo Alessandro con l’approvazione del Senato, ma non quella di Soemia, che temendo per sé e per il figlio, fomentò quest’ultimo nell’intento di disfarsi del nuovo Cesare e dei suoi fidi collaboratori. Ma immediato giunse l’intervento dei pretoriani che

presero in mano la situazione e con l’ennesima congiura uccisero Soemia, Elagabalo e molti dei loro adepti, gettando i corpi in un canale e di qui nel Tevere. Si era agli inizi del mese di marzo del 222 d.C. Elagabalo e sua madre furono colpiti da damnatio memoriae e Alessandro Severo fu acclamato imperatore con grandi festeggiamenti. Il potere di fatto restava ancora nella mani di due donne dei Severi: l’anziana Mesa e l’altra sua figlia, Giulia Mamea. Come sempre, l’avvento di un nuovo imperatore portava entusiasmo e nuove speranze. La giovane età di Alessandro Severo, tuttavia, preoccupava la madre che affiancò al giovane principe uomini illustri e soprattutto una serie di giuristi con cui la donna cooperò per

ricucire i rapporti tra la corte imperiale, il Senato e l’esercito, e riportare un clima più moderato e vicino ai valori della Roma della prima età imperiale. Frattanto Alessandro cresceva, studiando con ottimi maestri e con abitudini morigerate e sobrie che certamente si distinguevano da quelle eccessive e turpi del suo predecessore. Come è stato giustamente affermato, all’impero dei liberti si sostituì un impero di giuristi che comunque aveva i suoi limiti nei rapporti con l’esercito, rimasto ancora in attesa di essere guidato verso campagne belliche vittoriose e remunerative. Roma non si accorgeva di quanto stava contemporaneamente accadendo in Oriente. Nel 224 d.C. Artaserse, nella ribellione contro il re dei Persiani Artabano V, aveva avuto la meglio riportando così nuovamente al trono la dinastia dei Sasanidi, dinastia con una forte connotazione nazionalista e integralista, nonché una tradizionale avversione a Roma: il conflitto tra Persiano e Classico tornava ancora una volta alla

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ribalta. E i fatti non tardarono a manifestarsi. Già nel 230 d.C. si registrano le prime incursioni persiane nei territori romani della Mesopotamia, mentre altre scorrerie di cavalieri sasanidi sono attestate in Siria e Cappadocia. La risposta di Alessandro non fu quella di un condottiero deciso, ma piuttosto quella di un diplomatico che poco aveva compreso le vere intenzioni dei suoi nemici: diffidò più volte, per via epistolare, Artaserse dalle azioni che stava compiendo e solo dopo due anni si decise a muovere contro il nuovo nemico. A Roma Alessandro Severo, con la sua indole remissiva e dipendente dalla volontà altrui, si era infatti abituato ad una vita di corte in cui primeggiavano lo splendore delle arti; il suo maggior interesse era quello di assecondare le decisioni dei suoi giuristi, difeso e protetto costantemente dalla madre, nell’amministrazione dello Stato e nel rendere ancora più magnifica l’Urbe. Abbiamo molte notizie sull’attività edilizia di Alessandro Severo sia a Roma, sia in diverse province dell’impero. Il suo biografo, Lampridio, ricorda la costruzione della Basilica

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Sopra: Arco di Alessandro Severo a Dougga in Tunisia Sotto: Particolare dei resti dell'Anfiteatro Castrense a Roma Nella pagina accanto, in alto: Colonne relative alle Terme Neroniane-Alessandrine Nella pagina accanto, in basso: Particolare dell'Acquedotto Alessandrino a Roma

Alexandrina, situata nel Campo Marzio e identificabile in un grande portico che costeggiava lo Stagnum Agrippae; i numerosi restauri, tra cui si possono ricordare quelli del Teatro di Marcello, dell’Anfiteatro Flavio, del Circo Massimo e dello Stadio di Domiziano; i nuovi ampliamenti eseguiti nella villa residenziale del Celio; l’erezione di statue in tutta la città e, in particolare, nell’area del Foro di Traiano e del Foro Transitorio; la risistemazione di ponti e strade; la costruzione di un edificio sul Palatino, noto col nome di Diaetae Mammaeae, che si può identificare con una zona, all’interno del Palazzo imperiale, che venne riservata agli appartamenti privati della madre. Ancora oggi a Roma restano molte vestigia del suo programma urbanistico: il completamento delle Terme di Caracalla con la realizzazione del porticato impostato sul recinto esterno e la probabile decorazione pavimentale delle palestre; le Terme che da lui prendono il nome, edificate nel Campo Marzio sul luogo delle precedenti Terme Neroniane. Lo stesso biografo ricorda con notevole rilievo


come, per la loro costruzione, vennero istituite nuove tasse su banchieri e artigiani, come già era accaduto per finanziare i restauri degli edifici, tassando le cortigiane. Le magnifiche Terme furono alimentate da un nuovo acquedotto, l’Alessandrino, che captando l’acqua nell’area del leggendario Lago Regillo (odierna zona di Pantano Borghese) si snodava per circa 22 km lungo il percorso compreso tra le vie Casilina e Prenestina fino a giungere a Roma per dirigersi verso il Campo Marzio. Tutte queste opere furono realizzate anche con l’intento di ottenere un sempre maggiore consenso presso la plebe. Acquedotti, strade, ponti e altre opere pubbliche attribuite ad Alessandro Severo sono presenti anche in Pannonia e in altre provincie del vicino oriente romanizzato. Ben noto è l’arco di trionfo in suo onore eretto a Dougga in Tunisia. Malvolentieri, quindi, il ventitreenne imperatore - come racconta Erodiano - lasciò Roma, piangente e voltandosi spesso a guardarla. Privo di esperienza in campo militare, si apprestava a comandare le legioni per far fronte agli attacchi dei Persiani. Da questo momento le versioni degli avvenimenti si dividono tra gli stessi storiografi antichi. Secondo Erodiano, l’esercito romano subì una grave sconfitta con pesanti perdite, dovuta proprio alle indecisioni e alle paure dell’imperatore, aggravate dall’incapacità di attuare un valido piano strategico. Aurelio Vittore, invece, attribuisce ad Alessandro una vittoria che lo vide anche - secondo la versione dell’Historia Augusta - ritornare a Roma per celebrare il trionfo. Certamente, l’aver distaccato ingenti forze dai confini germanici per la guerra in Oriente

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favorì quelle popolazioni barbariche nell’invasione dei territori romani a ridosso del Danubio e del Reno. Alessandro dovette riprendere la via della guerra portandosi in Gallia insieme ai suoi pretoriani. E anche in questo contesto adottò la tattica diplomatica e, come se non bastasse, offrì anche del denaro in cambio della pace. Decisione questa inaccettabile per le truppe romane che videro in quel gesto di Alessandro un doppio tradimento, sia nel mancato coraggio di battersi, sia nell’offrire denaro ai nemici piuttosto che alle sue truppe per una sicura vittoria. In questa sua politica il giovane imperatore non aveva compreso appieno l’importante ruolo da assegnare all’esercito in un momento di così grave congiuntura, come invece aveva fatto il suo avo e predecessore Settimio Severo. La reazione degli eserciti schierati fu imme-

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un lato, infatti, la tecnica e la presenza di alcuni bolli di mattone ascrivibili al principato di Adriano, collocano il monumento nella sua realizzazione originaria alla seconda metà del II sec. d.C., il sarcofago, rinvenuto nel 1582, presenta sul coperchio due figure sdraiate che alcuni studiosi - sulla base dei tratti somatici - hanno ricondotto alle immagini di Alessandro e della madre Giulia. Tuttavia, ulteriori e più recenti indagini e analisi iconografiche suggeriscono di non attribuire con estrema certezza i ritratti alle immagini dei due regnati ma, più genericamente, a due importanti personaggi della vita civile del III sec. d.C. Proveniente dalle officine attiche resta infine da ricordare la pregevole lavorazione artistica della fronte del sarcofago, in cui figura l’episodio di Achille ospite presso re Licomede e le sue figlie a Sciro. (continua) diata. Un ammutinamento portò all’uccisione di Alessandro, accusato di codardia e colpito nella sua tenda a Magonza, insieme alla madre, nel marzo del 235 d.C. Al suo posto fu acclamato imperatore il rude e possente prefetto dei tironi Caio Giulio Vero Massimino, un pastore originario della Tracia, senza censo e con ascendenza barbarica. Un fitto mistero avvolge ancora oggi il luogo in cui furono deposte le spoglie mortali di Alessandro Severo e di sua madre Giulia Mamea. La scoperta di un grande mausoleo sulla via Tuscolana, noto con il tardo toponimo di Monte del Grano e datato ai primi decenni del III sec. d.C., anche in base all’analisi stilistica di uno splendido sarcofago ivi ritrovato, ha fatto pensare che proprio questa potesse essere la tomba degli ultimi eredi della dinastia dei Severi. Se da

Nella pagina accanto, in basso: Disegno rappresentante la sezione del Mausoleo di Monte del Grano Al centro: Particolare dell'interno del Mausoleo con la galleria di ingresso Sopra: Interno del Mausoleo con il particolare della cupola Sotto: Il sarcofago rinvenuto nel XVI secolo

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: L. PARENTI, Storia di Roma, Torino 1952-1955; M. ROSTOVZEV, Storia economica e sociale del mondo romano, Firenze 1967; R. BIANCHI BANDINELLI, Roma. La fine dell’arte antica, Roma 1970; A. GIULIANO, Le città dell’Apocalisse, Roma 1971; S. MAZZARINO, L’Impero romano, Roma-Bari 1973; A.H.M. JONES, Il tardo impero romano, Milano 1973-1974; P. BROWN, Il mondo tardo antico, Torino 1974; M. GRANT, Gli imperatori romani, Roma 1993; S. RINALDI TUFI, Archeologia delle province romane, Roma 2000; P. GROS - M.TORELLI, Storia dell’urbanistica. Il mondo romano, Bari 2007.

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AL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI NAPOLI

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o scorso 2 ottobre 2009 LA COLLEZIONE è stato inaugurato presFARNESE so il Museo Archeologico Nazionale di Napoli il nuovo e definitivo allestimento della collezione Farnese, composta di gruppi marmorei, statue, ritratti, rilievi, sarcofagi e iscrizioni. L’allestimento è stato curato dall’équipe scientifica del professor Carlo Gasparri, ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte

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In basso a sinistra: Divinità fluviale In basso: Una delle prime sale che raccolgono la Collezione Farnese Nella pagina accanto in alto: Il Prof. Carlo Gasparri ordinario di Archeologia e Storia dell'Arte Greca e Romana presso l'Università Federico II di Napoli

Greca e Romana presso l’Università Federico II di Napoli, in collaborazione con Valeria Sampaolo, direttrice del Museo Archeologico, e Paola Rubino, sotto la direzione scientifica dei soprintendenti Pietro


Giovanni Guzzo e Mariarosaria Salvatore. Il nuovo criterio espositivo è opera dell’architetto Enrico Guglielmo, ex soprintendente di Palazzo Reale, che da anni studia la forma del Museo. La rinnovata esposizione permanente raccoglie i frutti di oltre quindici anni di studi e rappresenta la degna conclusione di un lungo e impegnativo progetto di ricerca partito nel 1994. L’intento dei curatori era quello di cercare un criterio espositivo che rendesse giustizia ai capolavori della collezione Farnese. L’approdo a questo riordino è maturato attraverso una soluzione complessa: disegnare all’in-

terno delle sale un itinerario che fosse vicino ai criteri collezionistici che avevano ispirato la prima esposizione, quella voluta dal cardinale Alessandro Farnese, il futuro papa Paolo III (1543-1549), e poi proseguita e accresciuta nei palazzi di famiglia dall’omonimo nipote, il cardinale Alessandro, affinché il visitatore potesse «ammirare le opere e al tempo stesso comprendere - come ha spiegato il professor Gasparri, durante la presentazione delle sale alla stampa - il mondo dei mecenati rinascimentali e dei loro consiglieri scientifici, come il brillante umanista Fulvio Orsini».


«L’intento è stato quello di presentare ai visitatori la collezione Farnese nel suo insieme - ha precisato la nuova Soprintendente di Napoli e Pompei, Mariarosaria Salvatore, che ha sostituito a settembre il collega Guzzo - liberando la raccolta dai successivi inserimenti di opere di pregio, che nulla avevano a che fare con il suo nucleo originale». Sono in tutto una quindicina le opere escluse in seguito a riscontri accurati che ne hanno rivelato la non appartenenza al nucleo farnesiano, tra cui l’Atena Albani, che giunse a Napoli con

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le altre sculture romane e che appartiene appunto alla collezione Albani. La collezione Farnese del Museo Nazionale di Napoli rappresenta una delle più grandi raccolte di sculture antiche formatasi nel Rinascimento, forse la più grande che sia rimasta sostanzialmente intatta, sia pure oggi lontana dalla sua sede originaria. Non è possibile risalire al numero esatto delle opere che componevano il nucleo della collezione nel momento del suo massimo splendore (agli inizi del Seicento), per poi subire un gra-


dopo diverse vicissitudini, confluirono nel Palazzo degli Studi, denominato nel 1816 Real Museo Borbonico e oggi Museo Archeologico Nazionale. Fino allo scorso ottobre mancava un filo rosso, un criterio di esposizione che collegasse le tante opere conservate al piano terra del Museo Nazionale di Napoli, perché inopinatamente mescolate alle tante antichità

Nelle due pagine: La sala dei Tirannicidi Nella pagina accanto in basso: La Dott.ssa Mariarosaria Salvatore, Soprintendente archeologo di Napoli, Pompei ed aree vesuviane Sotto: Statua di Iside - Fortuna in marmo bigio morato

duale processo di spoliazione. Sono oggi esposte al Museo Archeologico circa trecento opere tra statue, marmi e iscrizioni. La collezione si trova a Napoli perché ereditata per via materna (Elisabetta Farnese, ramo Parma) da Carlo III di Borbone. Divenuto re di Napoli nel 1734, questi decise il trasferimento delle raccolte parmensi nella capitale del Regno, seguito dal figlio Ferdinando IV, che vi portò anche le collezioni romane della famiglia: tra il 1786 e il 1800 le residenze farnesiane a Roma vennero svuotate e le sculture,

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Nella pagina accanto: Statua di Hera tipo Efeso-Vienna, cd. Hera Farnese, in marmo bianco a grana fine Sopra: Raffigurazione di cane seduto In basso a sinistra: Testa di Apollo tipo Kassel

pompeiane e campane. Le statue, dopo il riallestimento, sono ora raccolte in gruppi sulla base dei contesti di provenienza, come doveva essere nel Cinquecento e nel Seicento, quando erano divise tra le

numerose residenze della famiglia: Palazzo Farnese, oggi sede dell’Ambasciata di Francia, in piazza Farnese, la Villa Farnesina alla Lungara, Villa Madama sulle pendici del monte Mario, gli Horti Farnesiani sul Palatino e la Villa Farnese di Caprarola in provincia di Viterbo. Alcuni marmi giacevano dimenticati nei magazzini del Museo e si era perso il ricordo della loro provenienza, mentre, per i più conosciuti, «si sono voluti evidenziare - da un lato - i momenti salienti della vicenda formativa della collezione» (Gasparri), come è il caso, ad esempio, delle campagne di scavo promosse da Paolo III Farnese alle Terme di Caracalla nel biennio 1545-1546, grazie alle quali vennero alla luce il gruppo del cd. Toro Farnese e l’Ercole Farnese, dall’altro, gli intenti programmatici e i criteri espositivi che portavano a realizzare ambienti in cui architettura, decoro ed arredo fossero inscin-

In basso a destra: Busto di barbaro

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A sinistra: Busto di divinità fluviale Sopra: Rilievo con scena di Teatro Sotto: Il celeberrimo gruppo scultoreo cd. Toro Farnese

dibilmente collegati, come nella Galleria dei Carracci, scandita da nicchie in cui erano ospitate statue e busti, o nella Galleria dei Ritratti Imperiali, entrambe all’interno del Palazzo Farnese. Al sistema espositivo precedente, che ricostruiva nelle sale del Museo la storia cronologicamente ordinata della scultura antica, si è privilegiato, dunque, il criterio collezionistico voluto dai Farnese. In questa ottica filologica di rispetto delle ragioni formative della collezione, con un itinerario virtuale attraverso le diverse sedi originarie, l’apparato didascalico guiderà i visitatori attraverso le vicende che hanno riguardato i capolavori esposti, sottolineando con i diversi colori, ripresi nelle sale, i luoghi di provenienza degli stessi. Non tutti i trecento pezzi della colle-

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A destra: La stupenda statua denominata Ercole Farnese, in basso a destra l'ingresso alle sale delle Gemme In basso a destra: Il nuovo allestimento delle sale delle Gemme

zione hanno cambiato collocazione nell’ambito del quadriportico orientale del Palazzo, anzi, i due pezzi più famosi, il gruppo del Toro Farnese e l’Ercole Farnese, sono rimasti al loro posto (difficilissimo spostarli date le dimen-

sioni colossali). Non è stato toccato neanche il Gabinetto delle Gemme, che tuttavia resta un po’ nascosto per il turista disattento o poco informato, con un piccolo accesso laterale dalla sala dell’Ercole.


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Nella pagina accanto: La bellissima cd. “Tazza Farnese” In questa pagina: Il retro della “Tazza Farnese” con immagine di Medusa e vari tipi di gemme esposte

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L’ingresso a destra del piano terra del Palazzo degli Studi, appena varcata l’entrata del Museo, è guardato da due gigantesche statue di prigionieri Daci in marmo bigio. Il corridoio d’ingresso (sala I) presenta i grandi frammenti della cd. Aula Regia della domus Flavia e del tempio di Adriano, e una statua colossale di Apollo in porfido, con volto, mani e piedi in marmo bianco (aggiunta settecentesca). A destra della corridoio si aprono le sale II-VI con le sculture della collezione Farnese. Si entra in quest’ala trovandosi davanti il gruppo dei Tirannicidi. Nella sala II sono esposte le sculture della Galleria dei Carracci come l’Apollo Citaredo e l’Antinoo, mentre nella sala VI sono protagonisti dei ed eroi, tra cui la celeber-

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Nella pagina accanto in alto: L a bellissima statua di Barbaro Inginocchiato in marmo pavonazzetto e volto e mani in marmo bigio Nella pagina accanto in basso: Statua di Apollo citaredo seduto su roccia in porfido rosso e marmo bianco A sinistra: Particolare della sala dei Tirannicidi In basso: Gruppo, particolare, di Satiro con Dioniso bambino

rima Artemide Efesia, l’Afrodite Callipige, il gruppo del Meleagro con il cinghiale e una statua di Eros che gioca con un delfino. I grandi capolavori della collezione non hanno certo bisogno di presentazione per un pubblico di addetti ai lavori. Come già detto per l’Ercole e il Toro Farnese (sale XI-XVI), il riordino ha interessato solo in piccola parte il nucleo della Kaisergalerie (XXIX), mentre i busti dei filosofi hanno trovato collocazione nelle sale attigue (XXVII-XXVIII), ex spazi della sezione didattica, dove ha


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trovato anche posto una toccante ricostruzione del gruppo di Amazzoni, Giganti, Persiani e Galati morenti, ora scenograficamente riversi in una vasca riempita di sabbia (XXVI). Resta escluso dal nuovo criterio di allestimento il celebre Atlante che sostiene il globo terrestre, rimasto, per una scelta coerente, nell’omonimo salone del primo piano del Museo. Mancano inoltre all’appello le grandi sculture in basalto provenienti da Palatino, trasferite nel Settecento a Parma, e un secondo Ercole, che oggi si trova nella Reggia di Caserta. Sempre a Caserta, ma nei giardini della Reggia, è stata individuata una Menade appartenente alla collezione Farnese. Un’altra statua colossale raffigurante Telamone è collocata a Capodimonte, mentre alla fine dell’Ottocento alcune sculture sono state vendute al British Museum e al Museum of Fine Arts di Boston. È infine il caso di ricordare che oltre ad un generale intervento di pulizia e restauro delle opere, con il mantenimento delle numerose integrazioni moderne di Guglielmo Della Porta (XVI sec.) e di Carlo Abacini (XVIII sec.), frutto anche questo lavoro di un discorso filologico e di ricostruzione delle vicende storiNella pagina accanto: Statua di Apollo citaredo in Grovacca dello Uadi Hammamat (Egitto) Sopra: Gruppo di Eros con delfino in marmo bianco a grana fine A sinistra: Statua equestre, particolare, di guerriero loricato in marmo bianco

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che di ciascuna, è stata parallelamente condotta una scrupolosa ricerca d’archivio su testimonianze grafiche, disegni e fotografie, che ha permesso di rintracciare parti mancanti e lavorare al recupero con maggior sicurezza. Con il riallestimento della collezione Farnese si aggiunge un terzo fondamentale tassello al programma di valorizzazione del Museo Archeologico di Napoli, dopo il grande lavoro fatto sulla pittura pompeiana e la sistemazione delle sculture della Villa dei Papiri di Ercolano. Un museo incredibile, unico al mondo, la cui Direzione - potendo contare sull’eccezionale qualità dei pezzi esposti - sta ora lavorando per adeguarsi alle nuove modalità di fruizione degli stessi, senza cadere nelle trappole delle mode, con una presentazione classica, sobria (i fondi a disposizione fanno di necessità virtù…) e, finalmente, ragionata. Nella pagina accanto in alto: Statua di Ganimede, particolare, in marmo bianco a grana fine (lunense)

Sopra: Statua di Artemide Efesia, particolare, in alabastro (torso) e bronzo (testa, mani e piedi)

Nella pagina accanto in basso: Statua di Amazzone a cavallo, particolare, in marmo bianco

Sotto: Statua femminile, particolare, replica della Kore di Eleusi, restaurata come Musa

In occasione del nuovo allestimento, la casa editrice Electa ha pubblicato, a cura di C. GASPARRI e con testi di C. CAPALDI, M. CASO, F. CORAGGIO, E. DODERO, S. PAFUMI, il primo catalogo scientifico della Collezione, articolato nei seguenti volumi: G. GASPARRI (a cura di), Le sculture Farnese I. Sculture ideali, Napoli 2009; ID. (a cura di), Le sculture Farnese II. I ritratti, Napoli 2009. Il terzo volume, in preparazione, è dedicato ai gruppi scultorei, alle sculture d’arredo, ai rilievi, alle urne, ai sarcofagi e ai materiali architettonici, e contiene un’appendice con tutte le sculture della collezione Farnese che attualmente sono conservate fuori del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Altri titoli disponibili sulla collezione Farnese: G. GASPARRI (a cura di), Le gemme Farnese, Napoli 1994; ID., Le sculture Farnese. Storia e documenti, Napoli 2007.

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IN MOSTRA A PALAZZO MASSIMO

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ella sede di Palazzo IL SEGRETO DI Massimo del MARMO M u s e o Nazionale Romano dal 16 dicembre 2009 al 18 aprile 2010 la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma espone un complesso di 11 marmi antichi, costituenti un unicum nel panorama dell’archeologia della Magna Grecia di età tardo-classica. Si tratta di reperti straordinari provenienti dal territorio dell’antica Ausculum, l’odierna Ascoli Satriano, in provincia di Foggia, che spiccano per l’alta qualità del marmo proveniente dall’isola di Paro, per la decorazione pittorica e la particolare storia del ritrovamento. Infatti nel maggio del 2006 il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale recuperò una serie di manufatti dai locali del Museo Civico di Foggia e li trasferì a Roma a disposizione della magistratura che indagava sul commercio internazionale clandestino di reperti di scavo. L’interesse per questo gruppo di

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manufatti antichi da parte dei magistrati si deve ad alcune dichiarazioni di un cittadino italiano, emerse durate precedenti indagini, che ammetteva la propria partecipazione a uno scavo clandestino effettuato nel territorio dell’antica Ausculum, nel quale era stato ritrovato un gruppo raffigurante due Grifi che dilaniano un cerbiatto, venduto in seguito ad un museo america-


no, e una serie di altri oggetti, che vennero sequestrati dalla Guardia di Finanza di Foggia. Si riprese quindi il fascicolo processuale a carico del testimone, giĂ aperto nel 1978, e il 5 maggio del 2006 si rintracciarono i reperti, che furono portati subito nel laboratorio della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma per gli interventi di conservazione e restauro.

In alto al centro: Mensole in marmo

Sopra: Serie di vasi in marmo

A sinistra: Particolare del supporto da mensa raffigurante due grifi che attaccano un cerbiatto

Sotto: Particolare del podanipter, grande bacino in marmo

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La conferma dello straordinario interesse dei reperti conservati a Foggia ha inoltre sollecitato un sopralluogo nelle campagne di Ascoli Satriano. Queste indagini hanno permesso di ricollegare tutti i pezzi, che in totale sono undici, ipotizzandone la comune provenienza da un contesto funerario daunio della seconda metà del IV sec. a.C. Il 14 giugno del 2006, anche grazie alla collaborazione dei famigliari dell’imputato, venuto a mancare nel 2002, gli stessi Carabinieri sono riusciti ad individuare la zona in cui tra il 1976 e il 1978 furono ritrovati i reperti. Due tra i pezzi più eccezionali di questo gruppo di reperti, il sostegno da mensa con Grifi e il podanipter (grande bacino con supporto), furono acquistati dal J.-P. Getty Museum di Malibu e restituiti all’Italia nel 2007. Uno studio effettuato da Vermeule su questi marmi, durante la loro permanenza nel museo americano, indicava come probabile provenienza il contesto apulo e, più precisamente, come emerso da un documento pubblicato in un

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articolo sul Los Angeles Times, una tomba nel territorio dell’antica Herdonea (Orta Nuova, in provincia di Foggia), meglio conosciuta archeologicamente di Ascoli Satriano. Ovviamente queste ipotesi erano state avanzate senza conoscere esattamente il luogo di ritrovamento che, come detto, è stato individuato grazie alle indagini svolte nel territorio dell’antica Ausculum. Secondo i dati raccolti dai Carabinieri, la zona di rinvenimento dei materiali si colloca nell’area a monte della Strada Provinciale 99, alla base del pendio della collina conosciuta come l’altura del Serpente. Questo rilievo è stato oggetto di numerosi interventi di scavo da parte di istituzioni italiane e straniere, ed emerge chiaramente la presenza di apprestamenti cultuali, connessi con sepolture di personaggi di rilievo, collocate in tombe a pozzo che ricevono la loro sistemazione finale nella seconda metà del IV sec. a.C. e che a partire dai primi decenni del secolo successivo risultano già distrutte. Sembra dunque

trattarsi, in sostanza, di un’area sacra «destinata - secondo M. Osanna - ad ospitare pratiche rituali in cui il sacrificio ed il banchetto dovevano svolgere un ruolo significativo, e che poteva dunque essere stata riservata a cerimonie commemorative di defunti di rango, cui doveva essere stato attribuito, in qualche modo, uno statuto eroico». L’importanza e la ricchezza dei corredi funebri marmorei di Ascoli Satriano possono probabilmente ben ricollegarsi ad una situazione “eroica” o comunque di rango elevato che sembra caratterizzare quest’area sepolcrale. Conferme circa l’esistenza in ambito daunio dell’uso anche funerario di manufatti litici vengono comunque dal corredo dell’ipogeo della Medusa di Arpi e dai grandi corredi ritrovati nelle tombe di Lavello. I marmi di Ascoli Satriano sono accumunati dalla particolare tecnica di lavorazione, dalla presenza della decorazione policroma e dalla medesima qualità del marmo, pario e di afrodisia. Può ipotizzarsi, come analizzato


Nella pagina accanto: Il podanipter, grande bacino con supporto in marmo dipinto Sopra: Interno del podanipter con disegni a colori raffiguranti il trasporto delle armi di Achille da parte delle Nereidi

in precedenza, una versione particolarmente monumentale, e fino ad oggi praticamente ignota, di un servizio funebre, le cui forme richiamano da vicino l’elegante ceramica italiota di IV sec. a.C. e i rispettivi esemplari di bronzo. Spicca tra i pezzi in mostra il podanipter, un bacino marmoreo su supporto realizzato a mano libera senza uso del tornio. Richiama un tipo di bacile di bronzo caratteristico dei complessi tombali monumentali dell’Italia meridionale, utilizzato sia nei banchetti che nelle cerimonie sacrificali. L’interno del bacino conserva dipinta la scena del trasporto delle armi di

Achille da parte delle Nereidi. Delle tre figure che cavalcano i mostri marini, separati da altrettanti delfini che inseguono pesci più piccoli, si distingue bene solo quella che porta lo scudo; le altre dovevano sostenere l’elmo e la spada. La rappresentazione del trasporto delle armi da parte di figure femminili è ampiamente diffusa nel repertorio della ceramica apula del IV sec. a.C. In particolare, la decorazione del podanipter è stata accostata alle pitture, di probabile origine tarantina, del Sarcofago delle Amazzoni (IV sec. a.C.) e ne sono state evidenziate le caratteristiche comuni, forme e colori, in un’esposizione precedente dedi-

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Nelle tre immagini: Particolari delle Nereidi che trasportano la armi di Achille cavalcando draghi marini Nella pagina accanto: Bellissimo cratere in marmo con evidenti tracce di colore Nelle pagine seguenti: Totale e particolare del supporto da mensa in marmo di Afrodisia con numerose tracce di colore

cata ai reperti di Ascoli Satriano nel Museo Archeologico Nazionale di Firenze, dove è conservato il Sarcofago delle Amazzoni. Di squisita fattura è inoltre il grande cratere di marmo che conserva sulla base e sul sostegno tracce della decorazione dipinta a motivi geometrici. L’interesse maggiore deriva però dalla presenza sul bordo di una corona aurea caratterizzata da un motivo vegetale a foglie e bacche d’edera, riemerso dopo un attento lavoro di restauro che ne ha consentito una ricostruzione virtuale. Di grande suggestione è il supporto da mensa, realizzato in marmo di Afrodisia. È unico nel suo genere e raffigura una coppia di Grifi nell’atto di dilaniare un cerbiatto. Le grandi ali dei due animali mitologici nascondono gli elementi di sostegno della mensa (non conservata). Questo motivo ripropone uno schema iconografico della tradizione figurativa orientale, noto soprattutto attraverso oggetti di arredo di materiali diversi. Sul marmo rimangono ampie tracce della decorazione pittorica policroma: giallo per gli animali,

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verde sulla base ad evocare il contesto naturale della scena e il rosa per le narici del cervo e l’attacco delle piume delle ali dei grifi. Indagini petrografiche e geochimiche hanno consentito di identificare i marmi con cui sono stati realizzati gli oggetti. La maggior parte è stato lavorato, come già accennato, con marmo proveniente dall’isola di Paro, mentre il supporto da mensa è stato fatto con marmo di Afrodisia. Vari colori decorano questi marmi: il rosso, il rossoviolaceo, l’azzurro, il verde, il rosa, il bianco, il beige, il giallo, il marrone. Le analisi condotte in particolare sul podanipter hanno fornito particolari indicazioni sul procedimento pittorico: le figure sono state realizzate attraverso un disegno preparatorio con una linea di contorno diversa nello spessore e nel tono, evidente nel corpo degli animali e nel volto e nella veste della

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Nereide meglio conservata. Le indagini hanno altresì permesso di individuare i pigmenti utilizzati per dipingere, come la cuprorivaite negli azzurri, il cinabro e l’ematite nei rossi, la cerussite e il caolino nel bianco, la malachite nel verde, la goethite nel giallo dorato. Tutti elementi presenti e caratteristici di una decorazione pregiata. In conclusione, l’ipotesi più probabile che può desumersi dagli elementi finora mostrati è che i pregiati reperti provenienti dall’antica Ausculum facciano parte del monumentale corredo di una tomba a camera, databile alla seconda metà del IV sec. a.C. In questo contesto il podanipter, nel quale la raffinata decorazione pittorica indica una funzionalità assai ridotta, potrebbe essere stato utilizzato per la sola cerimonia funebre come contenitore dell’acqua lustrale. L’incavo praticato nella parte superiore del cratere farebbe pensare ad un

suo utilizzo come cinerario, ipotesi rafforzata dalla presenza del motivo decorativo della corona vegetale dorata, interpretata come elemento caratterizzante lo status di eroe del defunto. L’appartenenza ad una sepoltura monumentale spiegherebbe inoltre la presenza di due mensole, riferibili ad un letto funebre. Vista l’eccezionalità dei reperti esposti, si sottolinea come sia da ritenere quanto mai grave l’irreparabile perdita della maggior parte dei dati di scavo dovuta allo scavo clandestino, dati che avrebbero permesso di ottenere una maggiore quantità di informazioni per la ricostruzione storica e archeologica dei contesti funerari monumentali dell’Italia meridionale nel IV sec. a.C. BIBLIOGRAFIA: A. BOTTINI - E. SETARI (a cura di), Il segreto di marmo. I marmi policromi di Ascoli Satriano, Roma 2010.


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I METODI DI INDAGINE

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ella sede romana di Palazzo Mas-simo si sono tenute due giornate di studio con il titolo di Archeologia e Infra-strutture, volte a fare il punto sia sull’andamento dei lavori della Linea C della Metropolitana di Roma, sia sui ritrovamenti archeologici emersi durante lo svolgimento degli stessi. Dopo il rituale intervento di apertura da parte del Prof. Andrea Carandini, il Soprinten-dente Angelo Bottini, nelle sue considerazioni, ha messo in risalto come la ricerca archeologica abbia compiuto, nei recenti anni, notevoli passi avanti nel delineare metodi di indagine funzionali alle continue modificazioni dei paesaggi urbani a favore delle infrastrutture e come anche per la realizzazione della Metro C, si sia tenuto conto della priorità da asse-

ARCHEOLOGIA E INFRASTRUTTURE

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gnare all’archeologia rispetto all’esecuzione delle opere. Ricordando, quindi, la felice espressione già usata nel 2003 di «Metro Archeologica», veniva sottolineato come la stessa va vista «non solo come semplice strumento di trasporto, ma anche come mezzo di valorizzazione del patrimonio storico di Roma». Gli interventi di questa prima giornata si sono poi concentrati sui ritrovamenti nel territorio suburbano, fra cui spiccano quelli avvenuti nell’area di Pantano Borghese nel comune di Montecompatri (M. Angle), dove nella realizzazione di un parcheggio multipiano collegato con la stazione del capolinea della Metro C, la metodologia di indagine applicata è stata quella di


intervenire su tutta la zona interessata dal parcheggio, evitando le poco esaustive e spesso solo dispendiose trincee esplorative. Ciò ha permesso di evidenziare la presenza nel sottosuolo di ben quattro livelli di frequentazione, che vanno dalle più recenti fasi con destinazione agricola dell’area, fino a quelle che ne attestano l’uso abitativo e riferibile all’Eneolitico (fine IV-III millennio a.C.). Più in generale le indagini che hanno interessato il Municipio VI (A. Buccellato) hanno permesso di documentare attività volte allo sfruttamento del suolo a partire dall’età repubblicana: zone destinate alla produzione agricola si alternano con aree destinate all’estrazione di materiali da costruzione.

Sopra: Resti di basolato della Casilina Vecchia Sotto: Largo Agnesi. Strutture in blocchi di tufo e pavimento in lastre di edificio di età medio repubblicana (IV-III a.C.)

La prima giornata di studi si è conclusa con l’esposizione (R. Rea) dei dati preliminari relativi alle campagne di carotaggi, eseguiti in più riprese fra il 1999 e il 2007, lungo il tratto delle Mura Aureliane (anch’esse oggetto di prelievi eseguiti alla loro base) interessato dal passaggio della Metro C, che hanno consentito una prima ricostruzione dell’assetto geomorfologico dell’area e soprattutto un tentativo di ricostruzione del paesaggio prima delle trasformazioni antropiche. Ne è derivato che il vasto e popoloso quartiere Appio - S. Giovanni, in un’epoca attestabile a circa 3 millenni fa, era caratterizzato da una vasta area verde in cui la flora era rappresentata essenzialmente da lecci, faggi e da altre specie peculiari dell’ambiente palustre. La seconda giornata del Convegno è stata interamente dedicata ai ritrovamenti in territorio urbano, a partire dall’intervento relativo ai dati preliminari delle indagini effettuate nel territorio del Municipio XVII (M.


Bertinetti). Si tratta dell’area corrispondente all’antico Ager Vaticanus caratterizzato da un’ampia pianura alluvionale che favorì l’isolamento di questa zona dalla città vera e propria, facilitando la sua destinazione ad area cimiteriale. Le indagini eseguite lungo la Tratta 1 del percorso della Metro C e, in particolare, le aree interessate dalle stazioni S. Pietro e Risorgimento non solo hanno permesso di confermare

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il quadro archeologico della zona, ma anche di aggiungere nuovi dati come nel caso dello scavo di piazza Risorgimento, dove la scoperta di una fornace di epoca ottocentesca si inserisce perfettamente nelle funzioni assolte da questa zona, destinata a diverse attività produttive. Diverso il discorso per l’area del Celio (M. Barbera), dove numerosi carotaggi hanno ulteriormente docu-

mentato l’aspetto geomorfologico del colle in forma alquanto accidentata, aspetto che ha obbligato, nel corso dei secoli, a continue colmature e soprattutto a opere di sostruzione per contenere il colle lungo i suoi versanti. I dati raccolti, a seguito dei vari sondaggi, hanno portato infine alla realizzazione di una carta archeologica georeferenziata, il cui primo risultato è stato quello di spostare la nuova stazione


Nella pagina accanto in alto: Via Casilina Porta Metronia. Area compresa tra via Casilina Vecchia e Porta Metronia. Ricostruzione del paesaggio non antropizzato con sovrapposte delle Mura Aureliane Nella pagina accanto in basso: Malatesta e Pigneto. Panoramica dello scavo A sinistra: Via Sannio. Testa di Dioniso al momento del rinvenimento all'interno dell'officina Sotto: Via dei Fori Imperiali. Le pendici della collina Velia, resti non distrutti nel 1932 delle botteghe retrostanti il Foro della Pace (IV d.C.)

metro di via Amba Aradam in viale Ipponio anche per non interferire ed eventualmente distruggere antiche e complesse stratigrafie. Ancora una conferma dell’importanza di queste indagini volte ad accertare la reale consistenza del sottosuolo attraverso i carotaggi, viene dai risultati emersi nei lavori eseguiti lungo il versante ovest del Celio (R. Santolini). Qui, oltre ad accertare la presenza a circa 10 metri di profondità di strutture murarie romane (fatto questo che ha obbligato a porre a soli 7,5 metri di profondità le opere funzionali al passaggio della metro), è stato possibile ispezionare alcune cavità sotterranee, finora note solo in parte, poste sotto il Claudium, e di una galleria antica che da S. Maria in Domnica si dirige verso S. Stefano Rotondo e l’area di Villa Celimontana.

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Ai lavori eseguiti per la realizzazione delle stazioni Fori Imperiali e Colosseo (quest’ultima di interscambio con la Linea B) è dedicato un articolato intervento che riguarda i nuovi rinvenimenti nella valle dell’Anfiteatro e lungo le propaggini della Velia (R. Rea). Nell’area di largo S. Agnese e zona limitrofa sono infatti venuti alla luce, oltre ad alcune strutture di età mediorepubblicana, i resti di una muratura in blocchi di tufo databile all’età augustea, che in un primo momento fu danneggiata da alcune gettate in cementizio attribuite alle opere di contenimento del colle Oppio, eseguite durante i principati di Nerone e Vespasiano. In seguito, tuttavia, il poderoso muro augusteo fu risistemato, confermando la sua importanza e probabilmente il suo stretto legame con un edificio sacro

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che in questa zona potrebbe identificarsi con il tempio della Tellus. Altre scoperte nella zona si riferiscono a lussuose residenze che a partire dall’età repubblicana hanno interessato questa pendice del colle Oppio, di cui la testimonianza più significativa resta il ninfeo scoperto nel 1895 durante l’apertura di via degli Annibaldi. I diversi cantieri aperti in relazione alla costruzione della stazione di piazza Venezia e alle sue diverse uscite, hanno portato alla luce considerevoli resti della città antica. Per quanto riguarda l’area di piazza della Madonna di Loreto (R. Egidi), lo scavo ha restituito un monumentale edificio pubblico databile all’età adrianea. Costituito da una sala rettangolare con gradinate all’interno e bordato sul lato sud da un corridoio tripartito, il monumento è splen-

didamente decorato da una pavimentazione marmorea ed è da porre in stretta relazione con il vicino foro di Traiano. L’ipotesi attualmente prospettata è che si tratti di uno “spazio culturale” oppure di un luogo dove si amministrava la giustizia (è stato già avviato un progetto per musealizzare l’area a cielo aperto nel più ampio contesto della stazione della Metro C). Lo scavo archeologico eseguito in piazza Venezia ha permesso inoltre di indagare le stratigrafie moderne, medievali e tardo antiche che hanno avuto come punto di riferimento l’asse viario costituito dalla via Lata (M. Serlorenzi). A partire dalla fine del II sec. d.C.- inizi III sec. d.C. sui lati della via prospettano una serie di tabernae disposte su più piani. La destinazione commerciale dell’area si protrae per molti secoli,


almeno fino all’VIII sec. d.C., intervallata da momenti in cui - a causa del degrado - la zona documenta sia un’intensa attività metallurgica (confermata dalla scoperta di piccole fornaci circolari per la riduzione del metallo e la produzione di oggetti), sia la presenza di sepolture da riferirsi al difficile periodo storico delle guerre gotiche. Dall’VIII sec. d.C. in poi si assiste al cambiamento della destinazione d’uso della zona, che si trasforma in abitativa (sono stati intercettati i livelli pavimentali di diverse abitazioni e numeroso materiale ceramico di uso domestico) fino alla metà del IX sec. d.C., quando un improvviso crollo interessò tutta l’area e le adiacenti piazza Madonna di Loreto e via Cesare Battisti, dove le indagini hanno avvalorato questa repentina cesura. L’ipotesi al momento avanzata è che si tratti di un devastante terremoto abbattutosi sulla città proprio alla metà del IX sec., cui fece seguito un’opera di ricostruzione e riqualificazione dell’area che vedrà l’avvio di nuovi impianti residenziali che saranno alla base dei palazzi aristocratici del

Quattrocento, fra cui si ricordano lo stesso Palazzo Venezia di Papa Barbo e il Palazzo Parraciani. L’intervento che ha chiuso la seconda giornata di studi è quello relativo ai risultati provenienti da una serie di sondaggi eseguita lungo l’asse di corso Vittorio Emanuele II (F. Filippi). Le conoscenze relative all’assetto topografico dell’antica area del Campo Marzio occidentale, già in parte noto grazie alle informazioni desunte dalla Forma Urbis Severiana e agli scavi che hanno interessato questa zona a partire dalla fine del XIX sec., si sono arricchite soprattutto per quanto riguarda l’area oggi occupata dalla chiesa di S. Andrea della Valle, dove è stato possibile individuare la presenza di un quadriportico colonnato identificabile con il Gymnasium di Nerone e realizzato proprio a ridosso delle sue Terme. Altri sondaggi hanno permesso di rileggere il percorso dell’Euripus che si snodava lungo il tracciato dell’attuale di corso Vittorio Emanuele, fornendo anche nuovi dati in ordine alla sua struttura e cronologia. A sinistra: Piazza Venezia. Panoramica dello scavo

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