Start Comincia l'arte

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comincia l’arte. macerata 6-16 giugno 2013 Galleria Galeotti dal 6 al 16 giugno 2013 Piazza Vittorio Veneto (piazza San Giovanni) 11.00/13.00 – 18.00/20.00 Galleria Mirionima dal 13 al 16 giugno 2013 Piazza della Libertà 11.00/13.00 – 18.00/20.00 Galleria Mirionima dal 13 al 16 giugno 2013 Piazza della Libertà 11.00/13.00 – 18.00/20.00


START. Semplicemente perché significa “partenza” e contiene la parola “art”. Start. Comincia l’arte. La pittura di Dario Fo. I disegni (trasformati in film) di Simone Massi. La video-arte di trenta giovani artisti. Tre mostre, una accanto all’altra, di cui due in parallelo per luogo e tempo (Simone Massi e i video-artisti alla Galleria Mirionima, che è formata da due lunghe stanze. Dario Fo alla Galleria Galeotti, distante uno struscio al corso). Comincia l’arte. Senza presunzioni nell’incipit, nell’inizio, nell’origine. Comincia l’arte, anche perché è un gioco con le parole. Quando è cominciata l’arte? E chissà. Sta di fatto che ci piace sottolinearlo, quel “comincia l’arte”, perché sentiamo che ha qualcosa di positivo. Di ottimistico. Di questi tempi è una virtù. Ci si potrà illudere, ma, come disse uno che di viaggi se ne intendeva – coast to coast – «l’importante è andare». La direzione (il senso) uno se lo porta dentro, anche se lì per lì non lo vede. Potrà forse finire presto. Come la vita di certe farfalle, un solo giorno e buonanotte. Potrà anche continuare – ce lo auguriamo – il prossimo anno. Ma adesso è Start contemporaneo, cioè di questo momento. Perché Dario Fo? Perché – per dirla in velocità – Dario Fo è Dario Fo. L’avevamo pensata, la mostra con Dario Fo, prima ancora della sua ideale ma utopistica designazione a presidente della Repubblica di questo strambo Paese. Sappiamo com’è andata. Il premio Nobel per la letteratura, il drammaturgo e attore Dario Fo, è pittore da sempre. Anzi un «attore dilettante e un pittore professionista», dice lui stesso. E aggiunge: «Se non possedessi questa facilità naturale del raccontare attraverso le immagini, sarei un mediocre scrittore di testi teatrali, ma anche di favole o di grotteschi satirici». Un cantastorie che recita con il colore. Perché Simone Massi? Perché i suoi video disegnati sanno incantarti come le storie magiche, che sembrano antiche ma sono accadute da poco o ancora dovranno accadere. Narratore surreale, metafisico. I suoi cortometraggi d’animazione sono stati selezionati in festival di cinquantaquattro Paesi e hanno ricevuto oltre duecento riconoscimenti. Poesia allo stato puro e impuro (l’impurità della poesia è l’immagine che ti graffia dentro, con secca emozione). Magnificamente. Perché trenta giovani video-artisti riuniti in una mostra chiamata Reload? Perché sono stati premiati, nell’arco di dieci anni, dall’iMode Visions, un festival dell’immagine organizzato dall’Accademia di Belle Arti di Macerata. Quindi è un piacere ripresentarli. Ancora innovativi. Ci importa poco se i perché non avranno risposte giuste, esatte, convincenti. Poco, quindi qualcosa ci importa. Ci importa che questo giornale-oggetto-che-si-apre-e-si-chiude-inun-certo-modo per un attimo riesca a farvi giocare con le pagine che non portano, che si scombinano, e che poi tornano com’erano. Un po’. Massimo De Nardo

grafica Paolo Rinaldi

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Dieci anni di iMode Visions (2) Marco Di Battista / Inno’mabile (2003/2004) Vivien Hulbert / Senza titolo (2003/2004) Romina Pantanetti / Daimyo II (2005) Giada Foresi / Homo (2005) Fabio Anastasio Zucchi / Set Point (2005) Alessandro Tesei / Ceci n’est pas theatre (2006) Marco Menco / Senza Titolo (2006) Sara Montironi / Decriptazione di un segreto (2007) Vivien Hulbert / La caduta di Troy (2007) Adriana Gonzales / Eclipse (2008) Michele Rocchetti / Una vera (quasi) storia (2008) Stefano Teodori / Vita di 50 Euro (2009) Alice Castiglione / Another history of violence (2009)

Luca Bontempi, Nikola Brunelli, Paolo Della Biancia, Marco Mondani, Sara Panunzio / Skunk (2010) Andrea Alemanno / Little Swan (2010) Stefano Del Frate, Gianluca Grandinetti, Gianluca Marone, Diego Di Giandomenico / L’illusione (2011) Marco Di Battista / La Nuova Fiat (2011) Francesca Accorroni, Daiana Pamela Acosta, Eleonora Pepa / Mnemonautica (2012) Giacomo Panbianchi / Leaves Memories (2012) Fabrizio Giovanetti / Waiting for Godot (2012) Saverio Romagnoli, Francesca Marinangeli, Gloria Verdicchio, Sara Campetelli, Licia Tofani / Black Deceit (2012)






dipingere è come recitare Il teatro e la pittura – e potrei aggiungere anche la musica – fanno parte di uno stesso mondo. Per recitare bene bisognerebbe anche saper dipingere, bisognerebbe saper muovere un colore, un pennello, un’idea. Se non vi va di dipingere, allora scolpite o costruite qualche cosa. Il teatro ha bisogno di essere affiancato da altre decine e decine di sollecitazioni, altrimenti frana. Vi dico subito che personalmente quando mi trovo a disagio nello svolgere un tema legato a un pezzo di teatro, a una commedia o a un monologo, non rimango fermo e non vado a fare una passeggiata per pensare, ma mi metto a disegnare e a dipingere. Ho un vantaggio: da ragazzino mio padre diceva che, quando sono nato, prima è venuto fuori un pennello e poi sono venuto fuori io, tutto intero. Dipingere e disegnare è sempre stata una mania per me. È vero che quando sono arrivato finalmente a Brera, a quattordici anni, ero il bambino più felice di questa terra, però ho avuto anche un’altra fortuna, quella di nascere in un paese dove sono tutti fabulatori. La ragione di questa possibilità straordinaria di inventare e di fabulare è determinata da un fenomeno che credo sia unico. Allora, quando avevo circa nove anni e sono arrivato ad abitare in questo paesino sul Lago Maggiore, c’era una fabbrica nella quale si soffiava il vetro e i soffiatori erano circa duemila con le loro maestranze. Questi soffiatori provenivano da tutte le parti del mondo, anche dal Medioriente e dall’Africa. Questa gente giungeva in questo paesino di mille abitanti… i soffiatori portavano con loro donne e bambini… era come buttare all’aria tutto. Io venivo da un altro paese, sono arrivato lì che facevo la terza o la quarta elementare e i miei compagni di classe erano delle più diverse nazionalità: uno turco, un altro era francese, un altro ancora era spagnolo, quello davanti… non ho mai capito di che nazionalità fosse, ma era del Medioriente.




l’arte della satira Insomma, ero contornato da persone con le quali bisognava comunicare e agire con gesti, suoni onomatopeici e pian piano adoperare una lingua costruita, inventata: il grammelot, più o meno. Man mano tutti parlavamo questa lingua che ci eravamo inventati insieme e che aveva come base il dialetto lombardo, niente meno… tanto per alleggerire la cosa. Una volta che si riusciva a comunicare agevolmente, col passare degli anni – e io avevo già tredici-quattordici anni –, ciascuno raccontava le storie del proprio paese, favole, racconti, e ognuno di noi prendeva dall’altro. Noi attingevamo alla nostra tradizione e tutte queste storie si aggiungevano a quelle dei fabulatori del luogo, che le raggruppavano. Era normale che si raccontasse o si “rappresentasse” un discorso, un fatto di cronaca, e quello che era grottesco diventava tragico e il tragico diventava grottesco. Si raccontavano gli amori, le passioni e le tragedie che si sviluppavano in questo luogo così strano. Senza accorgermene stavo imparando a fabulare, a raccontare storie. Quando sono arrivato a Milano a quattordici anni ero un fabulatore in erba, agile. Avevo preso in particolare, come via, le storie dei Vangeli, la Bibbia. Storie straordinarie, musicali. Già in viaggio, prima di arrivare a scuola, avevo la possibilità di raccontare agli amici queste storie, anche per due ore… arrivavo a scuola già un po’ stanco! E c’erano i compagni che, all’intervallo, mi chiedevano di raccontare ancora e io, stanco, dipingevo! Lì ho capito la connessione tra il dipingere e il recitare. Dario Fo

Coerentemente con il suo lavoro teatrale e letterario, Dario Fo pittore si rifà ai giullari del Medioevo, guarda il mondo alla rovescia, a testa in giù. Sono opere dai colori smaglianti, “il verde terribile, il giallo che ride, il rosso che scappa”, così Dario Fo chiama i “croma” rendendoli vivi. Sottolineandone il carattere, rivelano, assieme a un impegno che non è mai venuto meno, una felicità creativa e una purezza che ritorna alla sua infanzia e a quella di un’umanità disincantata. Sono opere potenti ed esplicite che fanno riflettere e indignare e, soprattutto, ci ricordano il potere dissacrante e rivoluzionario della risata, arma straordinaria e alla portata di tutti: per servirsene basta solo coltivare il piacere dell’intelligenza. Fo, pittore per formazione – si è diplomato all’Accademia di Brera – accanto all’attività teatrale e letteraria, ha costantemente coltivato la pittura, ma non si è limitato a dipingere, ha continuato a studiare i grandi del passato e ha prodotto una serie di opere che ne reinterpretano temi e tecniche. Questo lavoro, frutto di una passione per l’arte figurativa che ha nutrito l’arte scenica per sessant’anni, è stato anche sviluppato in forma di rappresentazione in una fortunata serie di lezioni-spettacolo, in cui Fo racconta la storia dell’arte e della cultura a partire dalle sue rivisitazioni dei classici. La fluidità è una delle caratteristiche fondamentali del teatro e dell’arte di Dario Fo dove il prologo allo spettacolo, nel solco della tradizione dei Comici, serviva a ricontestualizzare e aggiornare il testo e il significato stesso del lavoro che stava andando in scena. Felice Cappa


la materia (animata) della memoria È un artista-artigiano, rigoroso e indipendente, Simone Massi. Disegna le sue tavole a mano, una dopo l’altra, per giornate intere. Matita, pastelli a olio, grafite, gessetti, carboncini colorati. Disegna ricordi, sogni, scene di campagna, vecchi muri, alberi, mani che lavorano, nuvole, animali, pensieri che diventano cose che poi si trasformano in paesaggi che in realtà sono volti scavati e graffiati con strumenti di incisione. Fabrizio Tassi, Cineforum, marzo 2011 Classe 1970, Simone Massi è, oggi, il migliore animatore italiano. E il suo cinema è arte: non cartoni animati, ma puro cinema di poesia, fatto di liriche graffiate nel gesso, alla ricerca del tempo perduto, viaggi nella memoria, nella natura contadina, nella Storia dimenticata, nei punti di vista scansati dalla contemporaneità. Come quello messo in scena nel cortometraggio Dell’ammazzare il maiale, premiato con il David di Donatello 2012. «È la prima volta» mi ricorda Simone «per un film d’animazione». Non è un dettaglio da poco, «perché il mio è un lavoro realizzato al di fuori dell’industria, è cinema fatto con carta e gesso, pazienza, fatica, solitudine, soprattutto». Nella prassi stanca della premiazione, la sua era «emozione vera, spaesamento». Ha ringraziato i pochi collaboratori e poi operai, contadini, partigiani, le cui ombre si allungano nelle sue opere e le cui radici rimangono salde nella terra di Pergola (provincia di Pesaro Urbino), dove vive. È eroica l’idea di Simone, il suo essere artista allergico ai compromessi, il suo ostinarsi a fare un cinema criptico, che non si limita a illustrare una storia, ma ambisce a proporre un’esperienza. E che si sottrae alle nuove tecnologie, per abbracciare un modo antico di creare.




«Disegnare, animare, è un mestiere, un impegno costante. Per un’ora di filmografia ci sono quasi 20 anni di lavoro. Ma fatica a diventare un impiego che a fine mese è ripagato con uno stipendio. Anche per colpa mia, perché voglio fare solo ciò in cui credo». Giulio Sangiorgio, Film TV, giugno 2012 Simone Massi è un “animatore resistente” che realizza i suoi film completamente a mano, un disegno alla volta, in solitudine. Le sue opere parlano il linguaggio della poesia, ma nascono da un lavoro manuale quotidiano, che è insieme faticoso e minuzioso, idealmente legato alle origini contadine e operaie della sua famiglia e del luogo in cui è nato, Pergola, nelle Marche, dove ha deciso di rimanere, lontano dai riflettori dei media. (...) Ha ideato uno stile tutto suo, quello dei “graffi”, che si presenta come un lavoro di sottrazione, in cui le figure emergono dalla materia incisa, scavata, e in cui è fondamentale il gioco delle luci e delle ombre, il dialogo tra i bianchi e le sfumature di grigio-nero. (…) Massi ha sempre lavorato in totale indipendenza, rimanendo fedele al suo cinema fatto di terra e nuvole, di cose concrete, essenziali, e volti segnati dalla fatica, di memoria e sogno, in cui trovano posto sia il mondo contadino che l’amato cinema russo e le opere di Pavese. Un modo di raccontare che si realizza nella tecnica del piano sequenza e nella pratica della metamorfosi, in cui linee e forme sono in costante movimento e trasformazione, disegnando un mondo in cui tutto è misteriosamente legato. Fabrizio Tassi, Catalogo del 69° Festival d’arte Cinematografica di Venezia, agosto 2012

(…) Il vero soggetto è la memoria, il ricordo nostalgico e incantato, filtrato dallo sguardo del bambino che l’artista stesso è stato, al banco di prova delle prime incomprensibili crudeltà del mondo dei grandi. «Sono libero – dichiara l’artista – miro ad un punto preciso che ha a che fare con la memoria e con l’anima, animazione viene da anima, soul, un punto che è fatto di silenzi, di spazi vuoti e di sensazioni difficili da descrivere a parole. Quello che voglio fare è poesia, o, meglio, haiku: un piccolo viaggio che ha come meta lo smarrimento e il perdersi.» Ma il senso profondo di ogni viaggio è il ritorno, il ritorno a se stessi e alla propria identità: Io so chi sono Sono mio nonno e mio padre ogni faccia che ho visto e incontrato, baciato Io so chi sono sono la casa dove sono nato, i posti di cui ho letto, sognato, le strade, i tetti e la terra chiusi dentro la valigia mia, dentro le nuvole della pipa mia, dentro il vino del bicchiere mio Io so chi sono Loretta Fabrizi, Storie a matita, 2012



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