Caligine
Caligine
ISIA Faenza Diploma accademico di II livello Diplomando - Rubens Convertino Relatore - Giorgio Gurioli Correlatore - Marinella Paderni
Indice
Premessa 9 Critica alla surmodernità 15 Sull’oggetto d’uso 39 De-progettare 55 Bibliografia e sitografia 69
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Premessa
Si vuole riprendere con questa trattazione quanto già avviato con Lecosefannomale, ovvero ampliare e amplificare il campo di indagine del progetto, che qui è discorso e disertato al contempo, in quanto, al contrario del testo precedente, che vedeva nel «progetto contemplativo» e nella «funzione ontologica» l’assunto avanzato, si propone di «de-pensare»1 il progetto, quindi di restituire ciò che rimane di questo dopo la sua sottrazione. Astraendo i termini del progetto dal campo visivo di chi lo intenta, questo si amplifica, allarga il suo intorno inglobando ogni ente facente parte del processo di progettazione, e per assurdo sé stesso, divenendo la sua eterna premessa. Una continua premessa è infatti questo stesso incedere, che si sviluppa sempre a priori, 1 Termine battezzato da Carmelo Bene nell’intento di descrivere il suo teatro, a indicare una situazione che si colloca al di là del pensare o, meglio, un disfacimento del pensiero stesso.
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in quanto è ben distante dal porre al discorso una fine, dall’effettuare una vera e propria ipotesi. Si cerca dunque di tenere i confini del sistema distanti, senza scendere mai troppo a terra, sviluppando dapprima una critica alla contemporaneità -la surmodernità di Marc Augé-, inquadrandola come genesi dell’altro e dell’immagine, passando poi per l’analisi dell’oggetto d’uso, inteso nei suoi termini come deduzione del soggetto e della necessità in sé. Dalla necessità come epicentro del venire dell’oggetto si introduce quindi il design, il progetto, che è sottoposto ad una scrupolosa speculazione, con l’intento ultimo di smascherare la crisi del senso nella sua stessa ricerca. Smascherare un nulla che permette però di rimanere nella franchigia dell’aprioristico, del non detto. Se ne Lecosefannomale si percorreva una teologia positiva, dando adito ad un’ipotesi e ad una proposta progettuale, qui si vuole evadere quest’evenienza instradandosi sul sentiero opposto, quello della teologia negativa, quindi un generare vuoti, assenze. Si vuole de-progettare2 dunque. La ricerca, nel suo approssimarsi a qualcosa, si appoggia all’apporto di alcune figure e di alcuni testi in maniera particolare. Nella prima parte la critica muove dai nonluoghi di Marc Augé, per affrancarsi successivamente a L’essere e il nulla di Jean-Paul Sartre e Primi passi verso una filosofia del design di Bruno Latour, approfondendosi verso la conclusione attraverso la fi2 A riprendere il de-pensare beniano, inteso quindi come disfacimento del progetto.
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losofia di Carmelo Bene, e, nel dettaglio, dei Quattro momenti su tutto il nulla. E’ comunque presente la lezione di Zygmunt Bauman, così come quella di Martin Heidegger, importante punto di riferimento già ne Lecosefannomale, fino a quella dei filosofi indiani3 e della teologia dello Pseudo-Dionigi4. Malgrado gli intenti, pur cercando di sottrarre al progetto, come al discorso, i suoi elementi fondamentali, il linguaggio è una carogna nella quale si è costretti, e dunque in qualche modo bisogna argomentare, esporre questa volontà di negazione compromettendosi con i mezzi a disposizione. L’oggetto stesso, nell’ambito di questo discorso, non è altro che mezzo, transito da e verso l’invisto. Tuttavia, senza indugio, si cominci ora questa premessa, sperando che mai possa finirsi, sicché l’intento non sia, come sempre, disertato.
3 Il più vicino in questo caso è Sri Aurobindo, ma molto è tratto dagli insegnamenti contenuti nelle Upanishad, antichi testi filosofici della civiltà degli arii. 4 E dunque buona parte del pensiero mistico occidentale.
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Critica alla surmodernitĂ
Se non fosse che parlare della contemporaneità, e quindi della surmodernità, risulta complesso e pressoché intentabile, non vi sarebbe bisogno di appellarsi al trascorso per attingere un riferimento, un caposaldo che possa illuminare laddove, al primo sguardo, non si mostra altro che caligine. Il faro che dissipa la nebbia in questo caso è una maestà, la Maiestas Domini dell’altare del duca di Rachis, uno dei più importanti lasciti dell’arte longobarda, ma anche il presentarsi delle cause sintomatiche della surmodernità. L’onnipresenza della forma e del discriminato figurativo a dispetto della superficie scarna e vergine espletano infatti il motivo di questa sovra-secrezione, ovvero l’horror vacui, la paura del vuoto. Vertigine richiamata nel puntuale eccedere dell’altro, dell’opposto, completamento ontologico dell’esistente in virtù del quale è resa estrinseca la causa dell’esondazione surmoderna: il vuoto, l’assenza di senso, che riporterebbe alla sua antitesi, il pieno e la ricerca 17
Altare del Duca di Rachis
dello stesso. Si potrebbe delineare dunque come carattere fondamentale della surmodernità un’assenza -prima che l’eccesso-, non solo nella causa, ma anche nei contenuti5, scaturita dal frangersi all’atto di qualsiasi possibilità teoretica e dall’incapacità dell’intendere postmoderno di supplirvi. Citando l’antropologo francese Marc Augé nei nonluoghi «La domanda positiva di senso che si manifesta presso gli individui delle società contemporanee, può spiegare, paradossalmente, i fenomeni […] come segni di una crisi del senso»6. Ciò che cerchiamo nella religiosa accumulazione delle testimonianze, dei documenti, delle immagini, di tutti i segni visibili di ciò che fu, è la nostra differenza, e nello spettacolo di questa differenza l’improvvisa esplosione di un’introvabile identità. Non più una genesi, ma la decifrazione di ciò che noi siamo alla luce di ciò che non siamo più.7
Da questo passo, sempre dei nonluoghi di Augé, si evince come alla base dell’assunto surmoderno vi sia una mancanza -l’introvabile identità- e l’abbandono categorico della gnoseologia passata a favore dell’adozione di un metodo di ricerca esclusivamente empirico, 5 Assenza di contenuti intesa come avanzamento di ipotesi effimere. 6 M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Eleuthera, 2009 7 Ivi.
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riducendo de facto il quesito ontologico a una chirurgica analisi della carogna, delle spoglie, a un’isterica catalogazione della rovina. Questo in quanto il chi sono io? non viene intrapreso come problematizzazione del sé8, ma come estetizzazione della scaturigine910, lasciando la «definizione […] del centro da dove tutto partirebbe e dove tutto arriverebbe»11 al complementare, alla superficie, o citando Sri Aurobindo, all’avydia, l’ignoranza. Non certo la nescienza dello Pseudo-Dionigi, la tenebra luminosissima che schiude la conoscenza divina, ma una cecità a livello più epidermico, così superficiale da risultare invista, facendosi insuperabile, dettata dalla fallacità dei mezzi conoscitivi, i sensi, che instaurandosi unicamente con ciò che è altro, il visto, il sentito, il gustato, non riescono a supplire alla voragine ontologica che sottostà alla condizione surmoderna12. 8 Sé qui inteso come l’Essere in Jean-Paul Sartre o la Causa in Fëdor Dostoevskij. 9 Scaturigine è qui usato come sinonimo di sé. 10 Problematizzazione del sé ed estetizzazione della scaturigine riassunti bene da Dostoevskij in Memorie del sottosuolo, dove scrive «tutti gli uomini immediati e d’azione sono attivi proprio perché ottusi e limitati […] per colpa della loro limitatezza scambiano le cause dirette e secondarie per cause prime, in tal modo si convincono […] di aver trovato un fondamento inconfutabile alla propria opera. […] Ma io, per esempio, come posso tranquillizzarmi? Dove sono per me le cause prime a cui appoggiarmi, dove le fondamenta? […] Mi esercito nella riflessione, e di conseguenza per me ogni cause prima se ne trascina dietro un’altra, ancora precedente, e così via all’infinito». 11 Ivi. 12 Da L’ovvio e l’ottuso di Roland Barthes «descrivere [infatti]
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La crisi dell’etnologia contemporanea è un ottimo raffronto con l’impotenza dell’uomo, come dell’etnologia stessa, nel vedersi, nel vedere il sé, il qui a dispetto dell’altrove, dell’alterità sulla quale gli strumenti di conoscenza possono agire. Quando Augé afferma che «il mondo contemporaneo stesso […] richiama lo sguardo antropologico»13, asserisce in effetti che viene formandosi un oggetto conoscibile nel vicino, nell’ipotetico qui, ma concretamente il qui non diviene mai il fulcro dell’indagine, poiché allo spostamento dello sguardo diviene altro, e nel farlo secerne nuovo lascito, che va ad alimentare l’eccesso caratteristico della surmodernità: «è proprio lo sguardo che si fonde nel paesaggio e diviene oggetto di un secondo e inassegnabile sguardo, lo stesso, un altro»14. L’estetizzazione riguarda così ogni elemento che tange l’individuo contemporaneo, tutto entra a far parte e si fa messa in scena per supplire al sé invisto, all’horror vacui. «Tempo, non c’è tempo, sempre più in affanno seguo il nostro tempo: vuoto di senso, senso di vuoto»15 recita il Vuoto di Franco Battiato, ben espletando la perdizione contemporanea e introducendo quello che è uno dei tre eccessi della surmodernità definiti da Augé, non è soltanto essere inesatti o incompleti, è cambiare struttura, è significare qualcosa di diverso da ciò che viene mostrato». 13 Ivi. 14 Ivi. 15 Franco Battiato, il Vuoto, Universal, 2007
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Franco Battiato, il Vuoto
l’eccesso di tempo. L’affanno rappresenta infatti l’incapacità dell’uomo di “inseguire” il tempo odierno, enormemente dilatato dalla sovrabbondanza di avvenimenti, e rende estrinseco come venga effettuato il tentativo di catalogazione ossessiva del vissuto, del trascorso quale ricerca di identità, di senso che, riprendendo Heidegger, soggiace proprio nell’accadimento stesso, in quanto «la comprensione dell’essere, il suo progetto e il suo rigetto, accadono nell’esserci in quanto tale»16, facendo del «bisogno di dare senso al presente»17, più che un «riscatto»18, una condanna, un percorso senza fine che termina ogni qualvolta col decesso o con la resa dell’individuo innanzi alla sua impotenza, una forzata accettazione. L’eccesso di tempo è quindi testimone di come il contemporaneo si rapporti con l’avvenimento empiricamente percepito, la maya19 sanscrita, e non con quello sostanziale, l’avvenimento in sé, non trovando sé nella misura stessa in cui questo viene ignorato: «ogni avvenimento […] deve essere interpretato, non per essere conosciuto ma per essere riconosciuto, per divenire, cioè, oggetto di un discorso»20. Quest’ansietà, moribonda rincorsa all’accadersi, è veicolata da quello che è lo spazio del contempo16 Karl O. Apel, Ermeneutica e filosofia trascendentale in Wittgenstein, Heidegger, Gadamer, Apel, LPE, 2006 17 Marc Augé, op. cit. 18 Ivi. 19 Qui inteso nella sua accezione di illusione. 20 Ivi.
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raneo, l’immagine, che, parafrasando Augé, è forte di un’influenza che va oltre al dato obiettivo di cui si fa portatrice; in essa infatti l’identificazione dell’individuo è immediata e può facilmente innescarsi il ricordo, la nostalgia, o la falsa familiarità del riconosciuto, fittizia ma concreta, a velare la necessità ontologica latente, senza lasciare mai uno spazio vuoto, nulla, anche nella solitudine di una giornata uggiosa, annichilita dall’irridere dirompente della rappresentazione -più messa in scena che ripresentazione- fornita dai teleschermi e dai monitor dei computer. Così l’uomo surmoderno non è mai solo, non sperimenta mai, almeno effettivamente, la solitudine e mai vive apertamente il vuoto e la vertigine dell’ignoranza, poiché sempre accompagnato o distratto dall’altro, etnologicamente svanito ma sempre presente, fantasma che si finge qualcosa, stigmate miracolosa che riemerge nelle infinite bacheche dei social network e nelle pubblicità della libido trasmesse a ogni ora negli schermi delle stazioni e degli aeroporti. L’altro è l’oggetto di studio, il complementare, ciò che permette al soggetto di evadersi, di estetizzarsi; viene instaurato continuamente e in lui la coscienza contemporanea trova la sua condizione di esistenza. Questa sovrabbondanza spaziale funziona come una lusinga […] Essa costituisce in larga misura un sostituto degli universi che l’etnologia ha tradizionalmente fatti propri. Di questi universi, essi stessi ampiamente fittizi, si potrebbe dire che sono essenzialmente universi di riconoscimento. Una caratteristica di questi
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universi simbolici è di essere […] un mezzo di riconoscimento piuttosto che di conoscenza.21
Il modo nel quale avviene la produzione di senso, l’evasione verso l’altro e l’equivoco permanere dell’altrove nel qui è espletato dallo stesso Augé, che scrivendo «l’individuo si considera un mondo in sé»22 da adito implicitamente alla distinzione tra ciò che è l’individuo e ciò che si fa resto, approdando a quello che è il terzo componente della trinità surmoderna dell’eccesso, l’ego. Prendendo in causa Freud (padre della concezione occidentale di ego), si può asserire infatti che la sovrabbondanza di egoità sia data da una smisurata assenza di Super-ego, arenatosi, questo, alla soglia del XX secolo assieme a ciò che avrebbe dovuto rappresentare, un legislatore chiamato a discriminare indiscriminatamente, il «Dio è morto»23 di Nietzsche per intendersi, e dal totale asservimento del citato eccesso all’id, alla voluttà dei sensi, tanto che Zygmunt Bauman, in Modernità liquida, paragona il mondo a un banchetto ricolmo che attende unicamente di essere razziato. In questa caduta, il cui apogeo coincide con la crisi dello stato-nazione e l’allontanamento dell’individuo dalla politica, sta il grande vuoto, la voragine causata dallo schianto delle certezze che ha portato senza fermate alla genesi della surmodernità. A definire il vissuto dell’uomo all’interno della sua dimensione rimane così il binomio id-ego, 21 Ivi. 22 Ivi. 23 Friedrich Nietzsche, La gaia scienza
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che, abbandonata ogni coscienza transfenomenica, «si propone di interpretare da sé e per sé le informazioni che gli vengono date»24, generando appunto un’«individualizzazione dei percorsi»25, che si trasmuta nella creazione di una nuova e molteplice divinità, l’immagine speculare di ognuno, che diviene arconte dell’altro, facendosi altro dell’altro, finzione della finzione, prigione, come ricorda Augé, che sfugge alla «coscienza degli attori»26. Questo cambiamento, trasformazione della trinità id/ego/super-ego in piano bipartito tra i primi due termini, che senza vincoli, se non i loro stessi, comunicano e inferiscono l’azione, si evince ottimamente nell’opera di Marina Abramovic Rhythm 0, nella quale l’artista serba, dandosi passivamente alla volontà degli spettatori, mette a nudo l’assenza di coscienza dell’individuo contemporaneo, che, accorgendosi della sua effettiva passività, arriva a metterne a rischio la vita. Performance che ricorda molto da vicino le prove alle quali vengono sottoposti i monaci buddisti nella cultura tibetana, spesso lasciati in confino con piacenti oggetti del desiderio, ai quali devono resistere riuscendo a rimanere concentrati su di sé, in una condizione transfenomenica, o, per rimanere in ambito sartriano, in una condizione non «immanente a sé»27. Un altro artista che riassume 24 Marc Augé, op. cit. 25 Ivi. 26 Ivi. 27 Concetto ben espresso dallo stesso Sartre ne L’essere e il nul-
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Marina Abramovic Rhythm 0
bene l’assunto è l’austriaco Hermann Nitsch, che con la sua opera espleta in maniera radicale il concetto baumaniano secondo il quale all’oggi l’esistenza si sintetizza nella soddisfazione compulsiva dei desideri. «Il mio tema è l’intensità del mio eccitamento, il ribollimento del piacere, la voluttà di procreazione»28 afferma Nitsch nel suo Manifesto, per continuare confessando «La mia incapacità potrebbe significare di essere stato troppo poco intenso, di aver coltivato con la mia arte troppo poco piacere, di aver liberato troppo poca fregola»29 denunciando così apertamente la sua totale sottomissione all’id, il jiva sanscrito, l’involucro dettante le necessità fisiologiche. In opere come Orgien-und-Mysterien-Spiel, o 6-Tage-Spiel, si evince come l’austriaco si consacri totalmente alla pulsione, all’effimero, mettendo in scena riti pregni di tensioni viscerali, dove il sangue e la carogna, simboli del piacere dionisiaco, vengono letteralmente elevati a reliquie. Tuttavia, proprio come la surmodernità, l’opera nitschiana è il sintomo inequivocabile di un’assenza di fondo, lo stesso Nitsch puntualizza «ogni discesa nel perverso, nel disgustoso, avviene nel senso di un salvifico rendere coscienti»30. Torna quindi la figura del sacrificio, il richiamo disperala, dove scrive «L’essere è sé. Ciò significa che non è né attività né passività. Non si può tuttavia dirlo “immanente a se stesso”, perché l’immanenza è sempre un rapporto a se stesso. Ma l’essere non è rapporto a se stesso, è invece se stesso. Riassumeremo tutto questo dicendo che l’essere è in sé». 28 Hermann Nitsch, Manifesto, Marzo 1963 29 Ivi. 30 Ivi.
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Hermann Nitsch,6-Tage-Spiel
to alla presenza della deità, o, come recita Battiato nella sua Ermeneutica, «tornano i vecchi testamenti»31. Freud nelle sue opere con finalità sociologiche […] utilizzava l’espressione «uomo comune» (der gemeine Mann) per opporre […] la media degli individui alle élite illuminate, cioè a coloro che fra gli individui umani sono in grado di fare di se stessi l’oggetto di un percorso riflessivo.32
In questo passo Augé riporta una distinzione fondamentale, ovvero quella tra uomo comune e uomo illuminato, il quale non si estingue con la surmodernità, ma vi rimane semplicemente all’ombra, invisto agli occhi del perenne transitare del contemporaneo, acquietato nella tormenta della riflessione ontologica, senza effettuare quel darsi all’altro, quell’esondare la sfera privata terminante nel collasso dell’assunto pubblico caratteristico della sua controparte. Sempre Augé, citando Lévi-Strauss, scrive «per essere esatti è colui che definiamo sano di mente ad essere alienato, poiché accetta di esistere in un mondo definito dalla relazione con altri»33, ovvero accetta di essere in quanto, di farsi nulla distanziandosi da sé, fuggendo dal vuoto che gli è proprio. Riprendendo nuovamente L’essere e il nulla di Jean-Paul Sartre: 31 Franco Battiato, Ermeneutica, Sony Music, 2004 32 Marc Augé, op. cit. 33 Ivi.
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Il nulla, essendo nulla d’essere, non può venire alla luce che in virtù dell’essere stesso. E viene infatti all’essere ad opera d’un essere singolare, l’essere dell’uomo, l’Esserci. La realtà umana, l’Esserci, è l’essere in quanto, nel suo essere e per il suo essere, è il fondamento unico del nulla nel seno dell’essere.34
Surmodernità quindi come ricerca di identità e paura del conoscersi, cerca del Graal e fuga dal martirio, quale un mondo che ripiega e si compiace dell’esserci piuttosto che darsi al sé, all’ignoranza che per natura ottenebra la condizione umana, «promesso all’individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio e all’effimero»35, estrinsecato in ciò che Augé definisce il nonluogo, rappresentazione e deiezione del verbo surmoderno: la trinità dell’eccesso. Nel nonluogo si conclude il colpo di stato effettuato dalla sovrabbondanza nei confronti della necessità, il ribaltamento totale del punto di partenza, l’economia curtense, nella quale confluivano verso i mercati unicamente le eccedenze delle varie produzioni, oltre le quali si trafficava il superfluo o beni elitari, oltrestanti l’impellenza dell’individuo. Il divenire storico ha determinato il progressivo affermarsi di una civiltà dell’eccesso, dove l’epidermico si è sostituito al necessario facendosi esso stesso indispensabile. E’ del superfluo infatti che si nutre l’identità non risolta, e al contempo rifuggita, dell’uomo contempo34 Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla 35 Marc Augé, op. cit.
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raneo, che ha visto declassare le possibilità passate (il luogo) a evenienze complementari, relative -la chiesa che si fa souvenir-, non più esaustive del vuoto che avrebbero dovuto colmare, e le proposizioni instaurate (il nonluogo) nascere già impotenti. L’impossibilità e la non volontà della surmodernità di supplire all’individuo determina così il nevrotico transitare delle masse lungo le arterie di comunicazione, negli antri degli aeroporti e nei supermercati, trasportando la moltitudine di io a una cerca che mai si compirà, una messa in scena dove il soggetto, che già si finge la sua immagine, si cerca altrove, nell’altro, nell’oggetto, riducendosi così finzione della finzione, immagine dell’immagine, decentrandosi sempre più da sé. Augé ci parla di questa distanza che si viene a creare, di questo allontanarsi dai primevi riferimenti come «triplo decentramento»36: i centri storici, culla del vivere passato, vengono aggirati, percorsi alla loro periferia da chilometrici intrecci autostradali finalizzati al traffico di merci e persone; il focolare, antica sfera gravitazionale della casa, viene sostituito dalla televisione e dai computer -parafrasando l’antropologo francese, Hermes si sostituisce ad Estia- , mentre l’individuo «si dota di strumenti che lo pongono in contatto costante con il mondo esterno»37, dislocandosi anche nell’intimo della sua prossimità fisica. Questa perenne connessione con il restante trova la sua massima espressione nell’istituzione della rete e, 36 Ivi. 37 Ivi.
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in particolare, dei social network, dove appunto il soggetto può mettere in scena la sua immagine, farsi esso stesso oggetto, rappresentazione, rompendo definitivamente ogni legame con la causa transfenomenica per annegare nel fenomeno, l’io esisto in quanto appaio. Una posizione ben più estrema dell’io sono in quanto ho frommiano38, una sua evoluzione che non implica più una relazione intima tra il soggetto e l’oggetto, ma una totale compenetrazione tra le parti, un farsi uno che omologa l’individuo contemporaneo rendendolo sì individuo, ma individuo come tanti. Il decentramento surmoderno è ben estrinsecato nella definizione etimologica di esistenza, ēx sistentia, ovvero avere l’essere da, che lega l’esistenza ad altro, a un fatto esterno, in questo caso l’immagine, riportando a quell’essere in quanto sartriano, il nulla d’essere. Si spiega così il «non esisto dunque sono»39 di Carmelo Bene ne La voce di Narciso, atto dissociativo rispetto al decorrere dell’estetica contemporanea, che si affranca perfettamente all’immagine che danno i Veda40 dell’oggi, il Kali Yuga, o età del ferro, ovvero un periodo nel quale l’uomo è destinato a inabissarsi nell’ignoranza spirituale e nell’allontanamento dal sé. E’ nella solitudine apparente della sua immagine che l’individuo surmoderno dunque si compie o, come 38 Tema affrontato da Erich Fromm in Avere o essere? 39 Carmelo Bene, La voce di Narciso, Il saggiatore, 1982 40 Antichissima raccolta di testi sacri della civiltà degli arii.
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Carmelo Bene in Nostra Signora dei Turchi
scrive Augé, nella «contrattualità solitaria»41: quella relazione che instaura il nonluogo con chi lo esperisce, quel comunicare fittizio che non abbandona mai l’uomo contemporaneo, che non gli permette di problematizzarsi. Invero il nonluogo solleva l’individuo dal porsi l’assunto ontologico, gli concede l’anonimato liberandolo da sé, congedandolo provvisoriamente dal chi sono io?: Lo spazio del nonluogo libera colui che vi penetra dalle sue determinazioni abituali. Egli è solo ciò che fa, che vive, come passeggero, cliente, guidatore. […] Oggetto di una blanda possessione alla quale si abbandona con maggiore o minor voglia e convinzione, come qualunque posseduto egli gusta per un po’ le gioie passive della disidentificazione e il piacere più attivo di recitare una parte.42
Sebbene l’antropologo francese, concludendo nei nonluoghi, dia adito ad un venire di un’etnologia della solitudine, la solitudine a cui fa riferimento prende le sembianze di una solitudine non propria, non quindi un vero rimanere con sé, poiché nell’accezione augiana questa è meglio una volontà di fuga, di stare fuori da sé, di farsi altro, o più banalmente diviene un fare per sé e da sé. E’ illuminante in questo senso la definizione che ne da la ricercatrice Maria Miceli: «la solitudine [...] è un’esperienza necessaria, ineluttabilmente connessa alla condizione umana. È la nostra stessa individualità a imporci la solitudine; non è possibile sfuggirle se non 41 Marc Augé, op. cit. 42 Ivi.
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a costo di perdere la nostra identità»43 chiarendo come questa viaggi unitariamente alla necessità e all’identità, concetti sostituiti dalla surmodernità con l’epidermico e l’anonimato. Risulta impensabile dunque come possa parlarsi di effettiva solitudine nel contesto della contemporaneità, richiamandola senza effettuare una distinzione. D’altronde come ogni messa in scena, quella dell’individuo, è composta da un attore e da uno spettatore, colui con il quale avviene il dialogo, sia anche solo un cash-dispender.
43 Maria Miceli, Sentirsi soli, Il Mulino, 2003
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Sull’oggetto d’uso
Chiudendo il discorso sull’altro, ipotesi nella quale si consuma e muore l’uomo contemporaneo, si vuole ora parlare dell’oggetto d’uso e ragionare sulle due parole che compongono questo termine, vale a dire “oggetto” e “uso”. La prima è fondamentale posta in relazione al già citato concetto di immagine, poiché a differenza di questa è l’altro effettivo e non l’altro dell’altro, la sua messa in scena. L’oggetto è infatti elemento imprescindibile del mondo, della creazione stessa, poiché ciò che viene disvelandosi con l’atto della genesi è sempre l’altro rispetto al soggetto, ma un altro che si fa portatore di significato, che in sé esprime il soggetto attraverso il verbo44. Nel momento in cui l’uomo non inferisce identità nell’oggetto, quando non tenta di riconoscersi se non in sé45, questo allora non si fa immagine, 44 L’oggetto compone infatti con il soggetto e il verbo una sorta di trinità, dando con la sua presenza coerenza a ogni altro termine del discorso. 45 Quando viene disertata quindi l’affermazione Io sono questo
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illusione, ma rimane nella sua essenza, in comunione con l’individuo, ed anzi può affiancare il soggetto nella ricerca di sé fungendo da via negationis46, capace di riportare i termini del discorso al vuoto, alla caligine ontologica. Se da un lato dunque l’oggetto può significare apocatastasi47, esatta coincidenza con l’essere -l’in sé sartriano-, dall’altra può immergere l’uomo in un nulla esponenziale, inabissandolo ancora di più fuori da sé48. L’altro termine, uso, diviene invece fondamentale poiché si deduce da una necessità, ed acquisisce dunque differente accezione in base alla natura del bisogno che va a supplire. Anche in questo caso la posizione è duplice, in quanto l’uso può essere in funzione di un presentarsi interno alla condizione esistenziale, dunque la fame -la lancia usata per cacciare-, la sete -la borraccia adoperata per contenere il liquido e portarlo facilmente alla bocca-, o altre necessità relative all’essere corporeo dell’individuo; oppure in quanto una necessità impercepita, non da intendersi con questa i bisogni effimeri e impersistenti demarcati dal mercato e dall’economia di profitto, prettamente storici e ultralibidici (quindi non ad essere della libido ma a lei contingenti). Anche in per affrancarsi nell’Io sono Quello, dove l’oggetto non è inteso nient’altro che come il soggetto inconosciuto. Il termine deriva dal sanscrito So ham, e quello è appunto riferito al sé celato, il Dio invisto. 46 Anche intesa come teologia negativa. 47 Ritorno all’origine. 48 In uno stato molto simile alla malinconia descritta da Sören Kierkegaard in Aut-Aut.
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questo caso giunge in aiuto L’essere e il nulla di Sartre: Husserl ha posto in chiaro come la coscienza sia sempre coscienza di qualcosa. Ogni coscienza è posizionale in quanto sempre essa si trascende per raggiungere un oggetto, esaurendosi in questa posizione stessa: quanto vi è di intenzionale nella mia coscienza attuale è diretto verso il fuori, verso il tavolo.49
Come la coscienza, la necessità è sempre necessità di qualcosa, e nel giungere al suo oggetto muore, si consuma, generando un perpetrarsi costante della necessità stessa: parafrasando Eraclito, in comunione con la sua dottrina dei contrari, un termine richiama costantemente la presenza dell’altro. Questo samsara50 continuo si pone in netto contrasto con la struttura piramidale dei bisogni teorizzata da Abraham Maslow, secondo la quale mediante il raggiungimento di varie tappe su una scala di necessità questa si evolverebbe e permetterebbe all’individuo di aprirsi all’autorealizzazione, istituendo antiteticamente il baratro della soddisfazione isterica del bisogno51. In realtà, come per l’assunto dell’identità che si decentra nell’altro, anche la necessità deve guardare in sé per sbiadire nel vuoto ontologico, per riconoscersi dunque quale contingenza fittizia, per nulla indispensabile all’assunto ontico. 49 Jean-Paul Sartre, op. cit. 50 Eterno ciclo di vita e morte. 51 Come afferma Zygmunt Bauman in Modernità liquida.
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La necessità però non può assurgere da sola alla sua nullificazione -che non corrisponde per nulla al suo adempimento-, abbisogna altresì che il suo mediatore, come succede comunemente, operi per lei. Il mediatore è l’oggetto, che ne prende le parti nel dialogo con l’individuo, questo infatti determina il grado di morte del bisogno nell’uomo, ovvero la sua capacità di supplire alla mancanza dalla quale la necessità si manifesta. E’ indubbio in questo senso la vicinanza tra l’uomo e la necessità, entrambi scaturiti da quel per-sé proprio di Sartre. L’essere della coscienza, in quanto coscienza, è tale da esistere a distanza da sé come presenza a sé; questa distanza nulla che l’essere porta nel suo essere, è il nulla. Ne viene che affinché esista un sé, occorre che l’unità di questo essere comporti il suo proprio nulla come nullificazione dell’identico. Il per-sé è l’essere che si determina esso stesso ad esistere come tale da non poter coincidere con se stesso. Cosí il nulla è questo buco d’essere, questa caduta dell’in-sé in quel sé in virtú di cui si costituisce il per-sé. Il nulla è la messa in questione dell’essere da parte dell’essere, cioè proprio la coscienza o per-sé.52
Il per-sé è dunque la determinazione, la messa in questione53 dell’essere, e, proprio in seno a questa messa in questione, si vuole citare la distinzione fatta da Bruno Latour nei Primi passi verso una filosofia del 52 Ivi. 53 Non come questione in sé, ma come questionato.
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design, sì da introdurre il design nel discorso sull’oggetto d’uso, in quanto disvelato a posteriori della necessità54. Latour parla di «materie di fatto»55 e «materie in questione»56, asserendo «Più gli oggetti si trasformano in cose, cioè più le “materie di fatto” si trasformano in “materie in questione” più esse divengono sempre più profondamente oggetti di design»57. Dunque il design è inteso come allontanamento da sé, oggetto che si distanzia dalla sua essenza generalizzandosi, facendosi epidermico e contingente, poiché il questionato è di per sé non essenziale, non necessario, e in certo senso si presenta laddove la necessità in quanto tale può essere disertata: nel design infatti l’uomo abbandona sé stesso come nel nonluogo augiano, si concede l’anonimato interpretando il fruitore, l’utente compiaciuto della propria evasione. Quella effettuata dal design in questione è quindi un’elusione alla quiddità del soggetto, un distrarlo atto a decentrare la sostanza del discorso altrove, anzi, un vero e proprio generare discorso; è parlamento, dibattito continuo, interminabile spiegarsi, nascita e morte istantanea dell’assunto questionato, sul quale lo sguardo dell’individuo transita fremente di esaudirsi in ogni sua funzione, permettendo a questo di lasciare invista la sua impotenza. 54 Poiché la questione si edifica sempre su qualcosa. 55 Bruno Latour, Primi passi verso una filosofia del design, EIC, 2009 56 Ivi. 57 Ivi.
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Bruno Latour
Se il design scaturisce dopo la necessità, non coincidendo dunque con essa e trascendendo così il suo essere oggetto per farsi cosa, nasce però a priori di sé stesso58, come ricorda Latour «sarebbe assurdo distinguere ciò che è design da ciò che è stato pianificato, calcolato, impostato, organizzato, imballato, confezionato, delineato, prefigurato, bricolato, programmato, disposto e così via»59. Questo risiedere nel prima lascia tentare un paragone con l’intendere beniano dell’azione, ovvero il precedere l’atto, il compiersi effettivo nell’Aion60, inscrivendo il design sempre al di fuori dell’atto stesso, come immagine del prima e del dopo che ne spodesta l’immediatezza storicizzandolo61, fingendolo parte del suo essere azione. Latour stesso riconosce questa delocalizzazione del design, scrivendo che «sottende un’umiltà che sembra assente nella parola “costruire” o “edificare»62 poiché «il concetto di design non presuppone niente di fondativo»63. E’ infatti il passo prima e quello successivo la fondazione, ma mai coincide con la fondazione stessa. Il design nasce dunque da una necessità e diviene necessario in quanto nato, disvelandosi come una sorta di essere-per-la-necessità64, poiché tra lui e 58 Nel progetto invero, la via di mezzo tra la necessità e la cosa 59 Ivi. 60 L’eternità, il tempo infinito o, in termini beniani, l’irraggiungibilità dell’attimo nel quale si espleta l’atto. 61 La storicizzazione dell’atto può essere ben intesa come estetizzazione dello stesso, la sua messa in scena. 62 Ivi. 63 Ivi. 64 Riprendendo l’essere-per-la-morte di Martin Heidegger.
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questa vi è una reciproca diserzione, un assentarsi costante: se il design è tempo e storia come Chronos, la necessità lo è come Aion, e se uno tende ad avere uno scopo, a farsi assoluto, l’altro rimane costantemente vittima della storia, cadendo nella temporalità estesa del passato e del futuro. [Design] non si riferisce mai a un processo che comincia da zero: progettare è sempre un riprogettare. C’è sempre qualcosa che esiste come dato, come una questione, come un problema. Il design è un compito che viene successivamente per rendere qualcosa più attraente, più commerciale, più usabile, più userfriendly, più accettabile, più sostenibile e così via, in relazione ai vari vincoli a cui il progetto deve adeguarsi.65
Da questo estratto, sempre dallo scritto di Latour, è interessante notare come si denunci tra le righe il carattere politico del design, poiché la questione, il parlamentare, è sempre un adattamento nei confronti di qualcosa, un adagiarsi a determinati fattori che vincolano il progetto stesso. In questo senso il design è qualcosa di già dato in partenza, che a posteriori diviene unicamente l’espletazione della volontà di chi ne inscrive i termini; è in certo senso uno specchio dove chi progetta può rivedere sé, e dove ogni ente considerato nella progettazione viene impresso. Per fare un confronto, anche in questo caso attingendo all’esperienza beniana, si può utilizzare la critica fatta dallo stesso Bene al teatro per 65 Ivi.
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Francisco Goya,Saturno [Chronos] che divora i suoi figli
rendere più nitido il discorso sul design: come al teatro viene infatti ammonito di essere un gesto prettamente politico, ovvero alla ricerca del consenso dello spettatore, uno spettacolo quindi, allo stesso modo il design mutua le sue forme in base agli intenti e alle aspettative di ogni ente che va a percorrere, dal progettista, lo sceneggiatore dello spettacolo, agli utenti, gli spettatori, coloro che devono essere soddisfatti, le cui attese sigillano in ultima analisi il prodotto in quanto tale. Riappare così quell’essere in quanto sartriano, comune alla condizione umana come al progetto, o meglio, alla cosa descritta da Latour. Il design, come l’individuo contemporaneo, è sempre altro da sé, anch’esso decentrato in maniera esponenziale dalla sua essenza: non il questionato ma la questione, poiché è nella questione in sé che risiede la sua quiddità. Il progetto infatti trova nella questione il suo fattore indispensabile, per poter essere deve trattare qualcosa, questionare, e il cortocircuito avviene ogni qual volta si da spettacolo, si asseconda la volontà dei questionati, si da una risposta, una risoluzione alla questione, involvendo l’assunto a un passivo, o, meglio, un passato, il questionato, che de facto è l’estetizzazione del transfenomenico, la storicizzazione dell’atto66. Se Dio nella sua immagine, il creato, muore, allo stesso modo il design muore nel progetto, nella medesima maniera in cui l’uomo lo fa nelle sue definizioni. L’onnipo66 Quiddità, transfenomenico e atto vengono qui usati come sinonimi di sé.
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tenza, si potrebbe dire, è collocata sempre a priori, poiché nell’immagine questa si consuma, si fa impotente67. E’ l’impotenza infatti che si lascia e che si può definire, e il design è appunto, come sottolinea Latour, «un antidoto alla hybris e alla ricerca di certezze assolute, di principi assoluti e di rotture radicali»68. Questo inabissare la progettazione verso la progettazione della cosa, piuttosto che dell’oggetto, rende però estrinseca la sostanza epidermica -o meglio, non sostanza- del design, a detta del filosofo francese: «Nel design c’è sempre qualcosa di leggermente superficiale, qualcosa di chiaramente ed esplicitamente transitorio, qualcosa di legato alla moda e, dunque, qualcosa di relativo»69. In realtà tra oggetto e cosa, oggetto in questo caso inteso sempre nel contesto del discorso latouriano, quindi oggetto come frutto di progettazione e non oggetto in-sé70, non vi è differenza alcuna, se non che la cosa ha l’unica virtù di denunciarsi labile ed effimera in principio. Queste due figure si frangono all’atto nella medesima maniera, cambiano solo le premesse, entrambe sono immagini d’altro, e come ogni immagine sono prossime alla fine, con l’unica variabile che l’oggetto lascia disattesi gli in67 In comunione con l’immagine della creazione del mondo sanscrita, Purusa, o con la filosofia espressa da David Maria Turoldo ne Il dramma è Dio. 68 Ivi. 69 Ivi. 70 L’oggetto che da coerenza al soggetto, partecipe della trinità soggetto-verbo-oggetto.
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tenti, mentre la cosa no, è già pronta allo schianto e in certo modo cosciente del suo essere cadaverico.
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De-progettare
Se dunque il progettare è tendere a disertare gli intenti e cadere nel peccato di avanzare un’ipotesi71, il progetto che diviene opera può dirsi, citando Carmelo Bene nei Quattro momenti su tutto il nulla, «una ricaduta residuale, un escremento nell’etimo, ciò che separa e cade dall’organismo vivente della vita»72, che, accorto o meno nei confronti del suo decomporsi, del disfacimento della carogna che rappresenta, percorre asintotico la questione, ricadendo immancabilmente però, ogni volta, nel questionato. Questa ricaduta, mai esitata nell’intendere contemporaneo, è insita nell’etimologia stessa del progetto, ovvero, dal latino proiectāre, gettare oltre, fare avanzare, poiché racchiude in sé, al contempo, un potenziale di premessa e di epilogo. Gettare oltre e gettare avanti sono infatti concetti profondamente differenti, poiché, sebbene nella forma possano suscitare somiglianza, nella sostanza si escludono aprioristicamente: 71 Si riprende ancora una volta la lezione di Dostoevskij. 72 Carmelo Bene, Quattro momenti su tutto il nulla, Rai, 2001
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avanti è storicità, è colpo di stato dell’azione sull’atto73, è futuro insostanziale, temporalità fittizia, mentre oltre è il vuoto dal quale l’uomo rifugge, la caligine ontologica, la tenebra che tutto sottende e che giace irrisolta, non un nulla ma il Nulla74. Oltre è superare un valico, un ostacolo, avanti è illudersi di procedere nell’eternità dello spazio e del tempo. Nel discorso, l’arroganza volitiva d’ogni mia intenzione è irrimediabilmente frustrata […] Questa mia voce è me attraverso un medium equivoco di un discorso altro dal presupposto, virgolettato, mio discorso. Il dire è la messa in voce, altra da questo o quel pensiero argomentato, voce che perciò dice nulla.75
Il dissertare beniano permette di far luce sull’estraneità del mezzo d’espressione -in questo caso il progetto- rispetto al trattato, che è il detto, il pensiero argomentato, ciò che rende esponenziale l’estetizzazione; aprendo l’individuo all’abbandono nella sola significante, a spogliarsi interamente della gelida carcassa del significato76, del continuo riconoscersi e identificarsi. Sospendere il significato77, quindi lasciarsi alla «messa 73 Il sostituirsi postumo ad esso. 74 Il primo infatti è il nulla dell’effimero, il secondo è il Nulla imperscrutabile, che impropriamente potrebbe dirsi sostanziale, e qui usato anche come sinonimo di sé o essere. 75 Ivi. 76 La dualità significante-significato può essere intesa qui come il sé e la sua estetizzazione, o, in termini augiani, il qui e l’altrove. 77 Paragonabile all’epoké.
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in voce»7879, è in certo senso come porre fine alla finzione dell’identificazione, dell’identico80 costantemente ricercato. Tuttavia la sospensione equivale a morire prematuramente81, accettare la condanna del disfacimento cadaverino e annusare il fetore maleodorante delle spoglie: è questo, invero, che accompagna chi si sporge dalla rupe innanzi al vuoto che sottostà l’esistenza. Leopardi, ne L’infinito, espleta bene come il familiare, il riconosciuto, ciò che può divenire oggetto di conoscenza, e quindi la coscienza stessa, osteggi l’incedere oltre, l’intendere il progetto come un gettarsi al di la del conosciuto, del participio passato dove il Nulla si spaccia per qualcosa. E’ smascherata dunque, nei versi del poeta di Recanati, la recita e la precarietà del presunto, e l’effettiva inadeguatezza della condizione umana nel decifrare l’indecifrabilità dell’oltrestante. La diserzione del significato può manifestarsi così unicamente come abbandono, resa, spinta remota o suicidio82 che porta a permanere dall’altra parte della «siepe»83, innanzi al pendio che all’invisto si raccorda. Assume infatti un 78 Ivi. 79 Un’eco al Verbo del Vangelo secondo Giovanni. 80 Termine molto caro a Sartre «Ne viene che affinché esista un sé, occorre che l’unità di questo essere comporti il suo proprio nulla come nullificazione dell’identico». 81 La sospensione dall’esistenza, quindi anche dalla morte, un risiedere nel verbo che pone colui che è sospeso a priori di ogni cosa. 82 Da intendersi come suicidio del significato. Sbarazzarsi del corpo sarebbe una fuga ulteriore, un venire incontro alla morte come immagine e non al morire come metodologia. 83 Giacomo Leopardi, L’infinito, 1826
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tono mistico la fuga dall’immagine, dallo spettacolo per rifugiarsi nella solitudine dell’inespresso, di ciò che attraversa il momento senza lasciarsi ghermire dai sensi e dall’intelletto, molto vicino all’esortazione che rivolge lo Pseudo-Dionigi all’amico Timoteo nel suo Teologia Mistica, dove scrive: Abbandona i sensi e le operazioni intellettuali, tutte le cose sensibili e intellegibili, tutte le cose che non sono e quelle che sono; e in piena ignoranza protenditi, per quanto è possibile, verso l’unione con colui che supera ogni essere e conoscenza. Infatti mediante questa tensione irrefrenabile e assolutamente sciolto da te stesso e da tutte le cose, togliendo di mezzo tutto e liberato da tutto, potrai essere elevato verso il raggio soprasostanziale della divina tenebra.84
Il progetto, come l’uomo, per potersi gettare oltre deve quindi svuotarsi da sé, da ciò che si prefigge di rappresentare. E proprio il sé come oggetto di conoscenza, quindi come estraneità a sé, che ostacola lo svuotamento, che fa permanere l’oggetto come cosa, oggetto dell’oggetto, immagine dell’immagine. Dunque anche il progetto deve principiarsi, tornare al prima di lui, quindi all’uomo. Rimanendo in un contesto teologico, si può paragonare questo metodo alla già citata via negationis, ovvero quale pratica che permette, attraverso la sottrazione di definizione, di approssimarsi al sé, al transfenomenico. In questo senso è detta l’i84 Pseudo-Dionigi, Teologia mistica
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Federico Pazienza, Mysterium Tremendum
gnoranza nello Pseudo-Dionigi, come un dimenticarsi, un abbandonare ogni intento o, per citare Bene, «altro non resta che in tutto abbandono lasciarsi comprendere dal discorso senza appunto la nostra volontà di intenzione»85. Abbandonare il progetto dunque per lasciarsi progettare, e progettare come divenire oggetto di un discorso, rinunciare quindi alla progettazione stessa, ad un esserci86 indissolubilmente schiantato nell’effettiva prossimità della morte. Lasciare da parte così ogni significato, ogni discorso, sbarazzarsi di ogni immagine o pensamento, di tutto ciò che possa farsi conoscenza, per abbracciare invece il sé, ovvero quanto non sappia dirsi, ogni cosa funga da oblio per il pensiero. Fare scomparire il progetto, allorché il progetto inesistente è, incede e attornia la questione come eterna premessa, portando a galla la vertigine del vuoto, l’essere stesso come crisi di senso e identità introvata, «ricerca impossibile come rigorosa impossibilità del trovare»87. E’ nell’abbandono quindi che si risolve la contemporaneità, così come l’umanità stessa, figlia dell’immagine e a lei devota, impaurita dal Nulla e che nel nulla rifugge. Poiché tra Nulla e nulla vi è differenza: il nulla del fare è illudersi di poter fare qualcosa, mentre il fare Nulla è una metodologia che con questo combacia, è essere già al di la dell’esistenza, è l’aver disertato ogni diserzione possibile, d’essere o di fare. Come 85 Carmelo Bene, op. cit. 86 Dasein, dalla filosofia di Heidegger 87 Ivi.
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nell’individuo si manifesti questa dualità nulliferina lo suggerisce Dostoevskij, quando in Memorie dal sottosuolo confronta «l’uomo d’azione»88 con colui che indugia nella riflessione89, e che quindi può solo far nulla, il fannullone90. Per de-progettare è necessario che l’oggetto/ progetto rinunci a fare, che faccia nulla dunque, e per farlo deve poter indugiare oltre la sua forma e la sua funzione, nell’unico ente che può invero svuotarlo dal suo essere quella cosa, il soggetto, che, privato di uno dei membri del corpo trino91, si trova gettato senza nessun cardine nel vuoto ontologico. Il progetto de-progettato non deve però sapersi, non deve essere certo il frutto di un’attenta analisi, deve cadere al contrario come un fulmine sul corpo impotente dell’oggetto, che, nel suo accadersi, si trova investito del suicidio del progetto stesso, ovvero si trova a venire meno ancor prima di farsi spoglie. La funzione dell’oggetto investito, e quindi il suo utilizzo, il suo uso, viene eluso dal rivolgersi dello stesso al soggetto, instaurando con esso un discorso volto a sottrarre senso alla sua dimensione esistenziale, 88 Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, Garzanti, Milano, 2013 89 Si veda nota 10. 90 Da Memorie dal sottosuolo «sarei un fannullone […] ma non semplice, bensì, diciamo, sensibile a ogni cosa sublime ed elevata.» 91 Si veda nota 43.
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al conosciuto nel quale l’individuo appoggia la sua totale identità. Questa teologia negativa è mirata a destabilizzare l’intorno per gettare il fruitore nella vertigine del vuoto, dell’assunto invisto, nella franchigia della riflessione volta a non risolversi, o, citando Barthes, «il trauma è, per l’appunto, ciò che sospende il linguaggio è blocca la significazione»92. Un disfarsi del progetto dunque come un disfarsi del suo essere ipotesi pratica, che sottenda quindi un agire, poiché di questa l’oggetto viene svuotato. Un’antitesi insomma delle posizioni che Klaus Krippendorff prende in The Semantic Turn: A New Foundation for Design, descritte così da Pelle Ehn: Krippendorff ’s position is that a new foundation for design must come from within, and pursue its own paradigm of inquiry and ways to generate practical knowledge. In doing so it has to acknowledge that design is not only about making things but also fundamentally about making sense of things (design is a sense-making creative activity making products that make sense to their users). What Krippendorff suggests is a foundation for design that is both practical and philosophical, a science of making and a philosophy of realizing artifacts with and for others.93
Con l’utilità pratica non viene però scongiurata l’utilità in sé, poiché questa permane al di la dell’agire. L’utile del progetto de-progettato è infatti nel suo 92 R. Barthes, L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino, 1985 93 Pelle Ehn, Recensione di The Semantic Turn: A New Foundation for Design, Artifact, 2007
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Alessandro Mendini, Valigia per ultimo viaggio
trascinare l’utente in un sospeso, legarlo, attraverso il suo stesso mezzo di comunicazione, il linguaggio, ad un limbo irriducibile nelle forme del pensiero: paradossalmente infatti il senso generato dalla relazione individuo-oggetto equivale ad una sottrazione di senso al quotidiano, nel quale l’individuo assoggettato è sottomesso. Per usare le parole di Carmelo Bene «bisogna disarticolare il linguaggio, trovarne i buchi neri, crearsi degli handicap continui per essere così in tutto abbandono in balia del significante»94. L’handicap in questo caso è la morte di ogni scienza, o meglio, di ogni conoscenza, il sospingere l’assunto laddove non sappia dirsi alcunché. Se infatti Krippendorff preannuncia una scienza del fare, qui si discorre in vista di una scienza del far nulla, o meglio, di una de-scienza, un approssimarsi al dubbio. Non v’è infatti nulla di salvifico negli intenti o che in qualche maniera si spacci per benefico verso qualcosa o qualcuno, sempre che per salvazione non s’intenda, alla maniera della mistica medievale, il totale abbandono di ogni cosa, poiché in quel caso allora, l’intento potrebbe incedere asintotico ad una qualsivoglia farneticazione di salvezza o beneficio.
94 Carmelo Bene, Fuori Orario – cose (mai) viste, Rai 3, 10 Novembre 2013
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