L'INFINITO FA PARTE DI ME

BETTONI MARIA

CL. IIIA SCUOLA SACRA FAMIGLIA

A.S. 2019/2020

L’ infinito fa parte di me

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Indice Introduzione “… lei giovane e fragile, inquieta ed insoddisfatta …”  La famiglia  “ … mi sento marcia …”

“… dentro di me c’è una sorgente più profonda …”       

La contemplazione e la meditazione Non pensare ma ascolta Etty e l’ arte Il paesaggio dell’ anima Dio Ascoltare Inginocchiarsi

La grande crescita  Ricerca di protezione  Dio non può aiutare

Il rifiuto dell’ odio  La verità  Dietro la maschera trasparente di un soldato

La sofferenza     

Accettazione Spier Il dolore Una duplice vocazione Abbiamo lasciato il campo cantando

Una donna per i nostri tempi  Pensieri tratti dall’ intervista con Claudia Munarin

Conclusione 2

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Introduzione Il 9 marzo 1941 un’ebrea olandese ventisettenne di nome Etty Hillesum vergò le prime parole del diario che, con le lettere che in seguito scrisse da un campo di smistamento, è divenuto uno dei più notevoli documenti affiorati dall’Olocausto nazista. Esso narra la storia di una vita che, nell’arco di soli due anni e mezzo, subì una completa trasformazione; la storia di una donna che, scavando dentro sé, ha scovato una sorgente più profonda; la storia della “ragazza che non poteva inginocchiarsi” che imparò a pregare.

Una storia che sento molto vicina a me: una ragazza che non si fidava troppo della religione istituzionale, ma in cui il desiderio di un’autentica spiritualità era più forte che mai. La sua storia dimostra concretamente che la via della fede non è, come tante voci nel mondo contemporaneo sostengono, un’illusione assurda che non conduce in nessun luogo.

In questo approfondimento ho voluto, quindi, focalizzarmi sugli aspetti del suo pensiero e della sua vita che mi hanno colpito maggiormente.

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“… lei, giovane e fragile, inquieta ed insoddisfatta …”

Etty Hillesum nacque nel 1914 in Olanda, a Middelburg, in una famiglia ebrea non praticante. Trasferitasi ad Amsterdam, si laureò in legge e cominciò a studiare lingue slave e a dare lezioni di russo (la lingua della madre). Era una giovane donna colta, vivace, curiosa. E molto irrequieta.

La famiglia Etty cresce in un ambiente che lei considera “un manicomio”. La madre, che viene descritta come “il modello di ciò che non dovrò mai diventare”, è una donna eccitabile ma vuota, il cui umore oscilla pazzamente tra “vitalità forzata” e "lamentosa stanchezza”. Il padre “evita semplicemente la vita” considerandola “caos” e giustificando tutto con la filosofia. I due fratelli più giovani, soffrirono con Etty moltissimo a causa della situazione famigliare; infatti Jaap venne ricoverato in più occasioni in istituti psichiatrici e Mischa divenne psicotico a sedici anni, fu in cura per schizofrenia e fino al termine della sua breve esistenza fu un ragazzo insicuro e fragile.

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Etty, proprio per questo, non era una persona equilibrata, avviata sulla strada della santità, infatti, le prime pagine del suo diario rivelano una giovane insicura, emotivamente disturbata e con una vita sessuale disordinata, in lotta con una vita interiore turbolenta, che non le riesce di capire e che di tanto in tanto la getta in un profondo stato di depressione. L’8 Marzo 1941 scrisse una lettera a Julius Spier, psicologo e psicoterapeuta tedesco, con il quale aveva cominciato ad incontrarsi. Il testo mostra quanto chiaramente Etty si renda conto dei propri bisogni; dopo aver accennato alla sua “completa solitudine”, “incertezza” e “paura”, scrive:

“Ed ecco che improvvisamente un frammento di caos mi stava guardando dalla profondità della mia anima. Dopo che ci siamo lasciati, mentre tornavo a casa, desideravo che un’ automobile mi investisse, allora ho pensato: oh, bene, devo essere pazza come il resto della mia famiglia … . Ma so di non esserlo, semplicemente, devo lavorare ancora molto su me stessa prima di diventare un’adulta e un essere umano completo.”

Il giorno dopo Etty iniziò questo lavoro su se stessa con l’aiuto di Spier e grazie alla scrittura del diario.

Con Spier instaurò una relazione terapeutica assai fuori dal comune, lontana da ogni idea convenzionale di terapia come l’intendiamo oggi noi, che abbiamo ben chiari i confini e i ruoli della professione. Ma vi fu anche molto altro.

I termini “terapista e “paziente”, in effetti, non sono sufficienti per descrivere l’amicizia ricca, complessa e intima intrecciata tra Etty con quell’uomo carismatico e più anziano, dal quale si sentiva attratta e con il quale lottava Julius Spier spiritualmente e letteralmente. Etty fu “colpita da una sorta di libertà interiore che emanava da lui”, libertà di cui lei aveva grande bisogno. Allora, estremamente determinata a “fare un po’ di chiarezza in me stessa”, Etty fu in grado di mantenere il controllo della parte peggiore di sé, ovvero il desiderio estremo di avere una relazione con lui. Questo autocontrollo durò ben 5

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poco infatti Etty divenne da paziente a segretaria e amante. Malgrado gli alti e bassi e i violenti impulsi dovuti alla natura appassionata di lei, il rapporto con lo psicoterapeuta si rivelò estremamente positivo: lui le diede sicurezza emotiva, lo stimolo intellettuale e l’acume psicologico di cui aveva un disperato bisogno.

“… mi sento marcia …”

Tuttavia il viaggio in cerca della propria “verità”, della propria “identità”, da lei affrontato con coraggio ed onestà straordinari, la condusse a una profonda battaglia personale.

Nel suo cammino si scontrarono la nera incertezza, che la portò a grandi momenti di depressione e odio verso se stessa “In certi momenti mi esalto e mi credo capace di chissà quali grandi imprese, e subito dopo sprofondo nuovamente nella più nera incertezza”

voglio qualcosa ma non so che cosa”

“Mi odio profondamente, e questo è quanto”

“Io

E la limpida chiarezza

“Per la prima volta ho sentito la mia grande forza interiore”

“Paura mortale su tutta la linea. Collasso totale. Assenza di autostima. Ripugnanza.

Panico”

“Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si estendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini, e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave” 6

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Questa battaglia sento di viverla anche io quotidianamente e provarla soprattutto quando ascolto alcuni brani di Beethoven; per questo, quando il professor Grandi ci ha chiesto di scrivere una lettera a questo grandissimo compositore, ho deciso di dirglielo: “Caro Beethoven, Tu mi hai fatto capire, con la tua (anzi non solo tua, ma di tutti) sonata “patetica”, quanto sia incontenibile la realtà, incontrollabile, impossibile da racchiudere in poche parole, in pochi accordi; mi hai fatto comprendere che sfidare la vita non ha alcun senso, perché dovremmo solamente alzare lo sguardo e affidarci per, finalmente, come dice un’ altra mia grande amica, “rotolare melodiosamente dalla mano di Dio”. E vivere in modo così certo, affidandosi, è difficile, lo ammetto! Ma, negli ultimi tempi, quando mi trovo in difficoltà lo sai cosa faccio? Alzo gli occhi al cielo stellato sopra di me, guardo le stelle e comprendo che questa difficoltà è così piccola rispetto a tutta la bellezza infinita a cui sono destinata e di cui sono fatta e pensando a ciò, mi ritrovo colma e piena.

Tuttavia lì, davanti alle stelle, mi rimbomba in testa “Moonlight” che fa nascere in me una strana sensazione, l’esigenza, la nostalgia, la voglia di arrivare in alto e toccare quello che mi corrisponde; e da un momento all’altro mi ritrovo dalla più totale pienezza al disperato vuoto. Mi sento come l’Icaro, voglio volare, voglio arrivare da Lui, voglio capire.

A quel punto inizia una battaglia interiore in me, mi ritorna alla mente la sinfonia numero 5. Una lotta che continua tutt’ora: l’ affidarsi totalmente contro la grande nostalgia, la grande esigenza; si scontrano, lottano, rotolano, si inseguono, combattono con ferri affilati, con tutte le loro forze, consumando, però, le mie. E io mi ritrovo come uno straccio. Sembrano gli ultimi colpi della battaglia; invece no!

Quest’ultima continua non si ferma e io non posso farci nulla.

Quindi ti chiedo, caro Beethoven se potevi darmi un consiglio, per spegnere questa mia grande battaglia interna e arrivare ad essere veramente felice (sinfonia numero 9)”

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“… dentro di me c’è una sorgente più profonda …”

Etty entrò in terapia con Spier senza aver ricevuto dai genitori un’educazione basata sull’osservanza religiosa; quando decise di affrontare i propri problemi si accinse ad esplorare approfonditamente una disciplina in gran parte “laica”. Per quanto ne sappiamo, Etty non era particolarmente interessata alla pratica di una fede religiosa, né mostrava curiosità nei confronti di alcuna manifestazione culturale. Quindi a questo punto sorge una domanda: da dove è scaturita la fede religiosa destinata a svolgere un ruolo essenziale in ciò che Etty in seguito è diventata? Come ha fatto la comparsa nella sua storia?

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La contemplazione e la meditazione Il primo passo verso la fede religiosa, non venne compiuto in virtù di un interesse nei confronti della “religione”, ma sulla spinta del senso di inadeguatezza generato in Etty dal modo in cui lei, giovane intellettuale educata in un’università moderna, si confronta con il mondo che la circonda, soprattutto attraverso la mente. Era qualcosa che aveva a che fare con i limiti della razionalità.

E per quanto la sua mente fosse brillante, man mano che imparava ad analizzare e a categorizzare i fenomeni, fu invasa da un senso di alienazione, di disagio: le pareva che la mente umana occupasse una posizione troppo centrale e che tendesse inevitabilmente, attraverso la propria ragione, a “soggettivizzare” i fenomeni, considerandoli esclusivamente in funzione di se stessa. Senza sapere cosa stesse facendo , scoprì dentro di sé la necessità di trovare un’altra risposta. La ragione da sola non bastava, c’era bisogno di qualcos’altro. Non tanto della risposta della mente, capace di comprendere e di affrontare la vita attraverso il pensiero, quanto di quella del cuore, che semplicemente ascolta e accoglie ciò che è.

Dopo circa un mese dall’inizio degli incontri con il terapeuta, Etty si accorse di un suo grande cambiamento nel suo modo di reagire a ciò che la circondava. In passato considerava la realtà con la sola mente, mentre ora, in modo del tutto inconscio e semplice chinava la testa e “riceveva” nel proprio cuore ciò che si trovava intorno a lei. Questa semplice, spontanea reazione dimostrava che qualcosa stava accadendo.

Era stato compiuto un cambiamento.

“Poco fa, mentre ero seduta sul portaimmondizie, al sole, sul nostro piccolo terrazzo di pietra, con la testa appoggiata al tino del bucato e con il sole che batteva sui rami forti, scuri, quieti e spogli del castagno, ho avvertito assai chiaramente la differenza tra allora e adesso (…) Il sole sui rami scuri, il cinguettio degli uccelli, e io sul portaimmondizie al sole. In passato ero stata spesso seduta così, ma, salvo una volta, non mi ero mai sentita come questo pomeriggio. In passato consideravo l’albero e il sole con l’ intelletto. Volevo mettere sulla carta molte parole per spiegare perché il momento fosse così bello. Volevo capire perché tutto era così perfetto, volevo misurare quella sensazione, profonda e primitiva, con la mia mente (…) In altre parole, volevo assoggettare la natura, tutto, a me stessa. Mi sentivo in dovere di intraprenderla. E il fatto puro e semplice è che ora lascio semplicemente che accada(…) Mentre ero seduta là al sole, inconsciamente ho chinato il capo, come per ricevere in quantità ancor maggiore quel nuovo sentimento che provavo nei confronti della vita. Improvvisamente capii in profondità come uno possa cadere bruscamente in ginocchio e trovare la pace così, con il volto nascosto tra le mani”

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Questo è un momento molto importante per Etty poiché in ella è nato un grande desiderio, fragile e incerto, ma che comunque le ha fatto individuare una strada da seguire. Ella ha intuito cosa voglia dire “completezza” è qualcosa che ha a che fare con un “inconscio” inchino del capo, che le permette di “ricevere” non un’idea, ma un sentimento per la vita.

Chi di noi non si è mai chiesto cosa sia la vera completezza per la vita; chi di noi non si è mai chiesto dove si possa trovare questa pienezza e come possiamo incontrarla.

Io, alla sera quando sono nel mio letto, le luci sono spente e il buio inonda la stanza, ammetto di chiedermelo; eppure anche se tutte le sere la domanda si ripropone, la risposta non la trovo mai …

Spier la incoraggiò in questo approccio contemplativo. Egli credeva che una vita religiosa fosse importante e incoraggiò i suoi allievi a dedicare ogni mattina un po’ di tempo alla concentrazione, alla meditazione e all’ascolto.

“Penso che proverò comunque: mi rivolgerò verso me stessa per mezz’ora ogni mattina prima di cominciare a lavorare e ascolterò la mia voce interiore, lasciandomi andare. La si può chiamare meditazione, per quanto non mi fidi ancora del tutto di questa parola. Ma in fondo perché no? Una buona mezz’ora all’ interno di me stessa … Ma non è così semplice. È una tecnica che va imparata. Prima bisogna ramazzare via un bel po’ di irrilevanti rifiuti, frammenti e scarti interiori. Anche una testa piccola può essere intasata da distrazioni di nessuna importanza. È vero che possono esservi anche emozioni e pensieri edificanti, ma il disordine è sempre presente. Quindi, la meditazione deve avere per scopo la trasformazione del proprio profondo in una vasta pianura deserta, senza ingannevoli sterpaglie che impediscono la visuale, di modo che in te possano entrare un po’ di “Dio” e un po’ di “Amore”.

Nel suo difficile viaggio dentro di sè le fu di grande aiuto il fatto di non essere cresciuta in una famiglia praticante e di non possedere un linguaggio specifico cui far ricorso per esprimere ciò che le stava accadendo. In altre parole, ciò che divenne poi la sua fede proveniva fin dall’ inizio dalla sua immediata esperienza benché non avesse nient’altro a disposizione.

Il cammino puntava verso l’interno ed andando avanti Etty avvertiva sempre più chiaramente una separazione tra la mente e ciò che più nascosto lei stava cercando.

A questo punto io mi vorrei fermare per meditare su questa grande cosa che Etty prende l’abitudine di fare: guardare dentro se stessa. Mi capita spesso di dovere fare i conti con quello che c’è dentro di me, di dovere rivivere ricordi difficili, di dover accettare anche l’oscurità che sopravvive nel mio essere. E proprio per questo ammiro il grande coraggio di Etty e la sua determinazione nel seguire la difficoltosa 10

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strada che conduce a ciò che è più nel profondo, ciò che lei sta cercando, ciò che si trova sotto la coscienza.

Non pensare ma ascolta Il 5 ottobre, di sera tardi, fa la seguente riflessione: “Un giorno riuscirò sicuramente a trovare un equilibrio tra il pensare e il sentire. Ma il mio sistema è questo: non parlare, non dar retta al mondo esterno, sii perfettamente immobile, cerca di far risuonare il tuo essere più profondo e ascoltalo.

Questa è l’ unica strada” Il giorno dopo ancora a proposito di questo “equilibrio” scrive: “Bisognerebbe vivere basandosi non soltanto sulle facoltà mentali, ma anche su risorse più profonde e durature, pur se, naturalmente, si deve accettare con gratitudine la mente come un prezioso strumento per scavare nei problemi posti dall’anima” “devi vivere e respirare con la tua anima(…) se vivi soltanto con la mente, la tua esistenza è davvero povera” Etty e l’ arte Poco tempo dopo Etty affronta la figura dell’artista, scrivendo: “Mi sono resa conto che non si può spiegare l’essere umano con nessuna forma psicologica: solo l’artista è in grado di rendere ciò che resta di irrazionale nell’ uomo” “Solo l’artista” Etty sapeva bene che gli esseri umani possono essere profondamente irrazionali, lo aveva constatato nella sua famiglia e in se stessa. Era convinta che soltanto l’artista potesse rappresentare il potere dell’irrazionale, perché l’arte insegue una conoscenza più profonda, perché l’arte ha l’obiettivo di comunicare senza censura, di rappresentare la realtà da tutti i suoi punti di vista.

Questa riflessione mi ricorda moltissimo quella che abbiamo fatto in video lezione di storia dell’arte. Affrontando il romanticismo, periodo in cui vi fu un esaltazione dell’irrazionalità dell’ uomo, ci siamo chiesti quale fosse il vero scopo dell’arte. Ed abbiamo constatato che essa ha come scopo principale la comunicazione; una comunicazione senza filtri che non deve essere censurata nemmeno nel caso in cui diventi offensiva o dica cose ritenute dalla gente come “brutte” e “violente” poiché l’uomo è anche cose “brutte” e “violente”. Più personalmente parlando e 11

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riprendendo gli ideali romantici, penso che alcuni balletti, alcune musiche e alcuni quadri possano essere definiti come “specchio dell’ anima”.

Il paesaggio dell’ anima Etty era dotata di una immaginazione spirituale molto fervida. Si può dire, in effetti che le basi della sua vita spirituale siano state fornite dalla sua immaginazione spirituale, cioè dalla sua apertura nei confronti delle immagini che sorgevano dal suo inconscio, e dalla sua esplorazione delle parole in maniera cosciente. Anche lei, grazie alla propria immaginazione, era un’artista.

Inizialmente le immagini che le sovvengono sono oscure e minacciose. Tuttavia, poco alla volta, il caos cede il passo all’ordine, all’orizzonte appare un chiarore, ed ella comincia ad immaginare il proprio mondo interiore come qualcosa di luminoso e spazioso. Scrive: “Il mio paesaggio interiore è fatto di grandi pianure, infinitamente vaste,quasi prive di un orizzonte visibile: ogni pianura sfuma in quella successiva.

Quando siedo accoccolata su quella sedia, con la testa china, erro per quelle pianure solitarie …“. In che modo tale senso di spazio interiore fosse parte di lei risulta chiaro da un’ annotazione posteriore contenuta nel suo diario: “Stamattina, subito prima di svegliarmi, ho provato una sensazione quasi tangibile: come se racchiusa in me vi fosse una miriade di spazi e distanze che cercavano di irrompere per aprirsi a distanze e spazi ancora più vasti. Era come se le distanze fossero oggetti tangibili che dovevo liberare. Era come lo scalpiccio furioso di cavalli rinchiusi in una stalla sovraffollata. Il senso dello spazio in me è particolarmente forte(…) come se infinite steppe si estendessero al mio interno: posso vederle, sentirle e muovermi attraverso esse”.

Etty definisce il suo mondo interiore come “il paesaggio dell’anima”. Esso è la sua salvezza anche se non è limitato alla terraferma.

Un mattino, come in un sogno, si vede fluttuare come una barca in mezzo alle onde “Scivolo attraverso il grigio Oceano dell’ Eternità come una barchetta”. Non si tratta di un sogno ad occhi aperti. Il suo subconscio sta creando un’immagine attraverso la quale Etty definisce se stessa, in un’ottica di armonia e integrazione. È la salvezza.

Pochi giorni dopo, nuovamente alle prese con la depressione, scrive: “Ancora una volta sono stata (…) salvata da un’ immagine” e ricorda che “pochi giorni fa (…) l’ immagine di me che navigo attraverso i giorni (…) ha impedito che fossi fatta a pezzi 12

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e lasciata in balia dei venti”. E aggiunse: “Trovo che (…) tutta questa analisi mi renda ancora più miserevole, mentre un’ improvvisa immagine poetica(…) mi libera.”

Ha trovato un sistema, più efficace e profondo della sola ragione, per affrontare il proprio disordine. Esso la salva dalla depressione e le schiude la parte più intima della sua vita, affinché possa trovare la parte di sé “più profonda e migliore”. A tutto ciò Etty comincia a dare il nome di “Dio”.

Dio La parola “Dio” fa la sua comparsa in questa accezione il 10 agosto 1941, cinque mesi dopo il suo primo incontro con Spier. Sembra che appaia in modo casuale, ma leggendo attentamente ci rendiamo conto di essere di fronte ad un momento di cambiamento. Etty ha percepito qualcosa di profondo, sebbene non riesca ancora ad esprimerlo a parole. È nella casa dei genitori a Deventer. Riceve una lettera da Spier: leggendola, in principio si sente “alienata” e “fuori sintonia” con lui e con se stessa. Scrive nel diario: “Sono di nuovo in contatto con me stessa, con la parte più profonda, migliore di me, che io chiamo Dio, e anche con te”. Questo momento di contatto è caratterizzato da un forte senso di interconnessione. Etty scrive: “Ho una nuova percezione di me stessa e del mio legame con te e con i miei simili”. Per tentare di dare un’ idea di quanto sia importante per lei questo momento, ricorre all’uso di una metafore: “Quel momento, così importante per me, è dentro di me come un tutto completo e perfetto, ma non trovo ancora le parole per descriverlo”.

Secondo lei, “Dio” è la parte più profonda e migliore di sé e ciò che vi è in lei di più profondo e migliore è appunto il suo “far parte di” il suo essere “in comunione con Spier e con tutti gli esseri umani”.

Etty comprende, quindi, che il “suo vero io” non si identifica nell’io individuale e separato, l’ego, ma negli esseri umani in comunione tra loro, oltre le barriere che li separano. Capito questo Etty divenne una persona universale, alla ricerca della comunione con tutte le genti al di là di ogni confine.

Ascoltare Ma è soltanto all’inizio del suo percorso. Mentre comincia a percepire la propria profondità interiore, Etty si rende conto di avere molto da scoprire e molto da ricevere. Così impara ad ascoltare. Scrive: “Questa parola mi sembra intraducibile ascoltare me stessa, gli altri e il mondo”. E ascoltando continua la sua ricerca: 13

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“Ascolto con grande concentrazione, con tutta me stessa, tentando di scandagliare il significato delle cose (…) continuo a cercare qualcosa ma non so cosa”.

Una sera, due giorni dopo, la sua ricerca produce una delle immagini più significative del suo cammino: “Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo” .

In quel momento definisce il proprio compito, la propria missione: “disseppellire” quel Dio che giace dentro di lei.

Inginocchiarsi Poche pagine dopo ci attende una nuova sorpresa: questa volta non si tratta di un’immagine, ma di un movimento che sembra coglierla di sorpresa e che le crea imbarazzo: “Questo pomeriggio, improvvisamente mi sono ritrovata in ginocchio sul tappetino marrone di cocco del bagno, con la testa nascosta nella sottoveste che giaceva sulla sedia di vimini rotta. Davvero, inginocchiarmi non mi riesce facile: provo una specie di imbarazzo. Perché? Probabilmente a causa di una piccola parte di me che è critica, razionale, atea. Sento un gran bisogno di inginocchiarmi con la testa tra le mani, per trovare un po’ di pace e ascoltare la sorgente nascosta dentro di me”.

Quel gesto le crea “imbarazzo” a causa della sua parte “razionale”.

Mi capita moltissime volte che la parte “razionale” prenda il controllo delle mie decisioni e scelte; tanti “perché” tanti “forse” tanti “non ha senso”, eppure quando seguo quel lato “ateo” la vita non mi da nulla, è tutto un passaggio, non vi è un punto fisso, uno scopo … che mistero.

Nell’autunno 1941 Etty è ancora titubante e spesso si abbandona a fantasie romantiche. Nonostante ciò, il gesto dell’inginocchiarsi inizia a radicarsi in lei. A volte il desiderio di inginocchiarsi nasce dalle banali occupazioni legate al suo ruolo di governante e “alle mille faccende giornaliere da sbrigare”. Tuttavia praticando questa forma di preghiera, si accorge che gradualmente essa è diventata una necessità, non più una scelta. Questa sensazione di necessità sembra provenire da un luogo esterno a lei. In dicembre scrive: “Ieri sera mi sono trovata improvvisamente in ginocchio nel mezzo di questa grande stanza, tra le sedie di 14

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acciaio sulla stuoia chiara. Un gesto spontaneo; spinta a terra da qualcosa più forte di me”. Ma si tratta di un’esperienza ancora nuova e imbarazzante, perché porta con sé echi del passato di Etty, momenti di tenerezza e intimità che aveva conosciuto con gli uomini. Scrive: “Tempo fa mi ero detta: mi esercito nell’inginocchiarmi.

Esitavo ancora troppo davanti a quel gesto che è così intimo come i gesti dell’amore di cui non si può parlare se non si è poeti”.

Sei giorni più tardi, dopo aver letto il decimo capitolo del Vangelo di Giovanni, alla sua fantasia si affacciano immagini di pastori e greggi di pecore, offrendole un punto su cui concentrare la sua preghiera. Si inginocchia su una moquette d’oro (rivestimento per pavimenti simile a un campo di grano) e tenta di riunire “il gregge selvatico delle sue sensazioni”, spingendolo “a tornare nella parte più remota del mio io interiore”. E aggiunge: “Bisogna continuamente riunire se stessi attorno al proprio centro. Occorre governare il gregge disordinato dei (…) pensieri, delle emozioni e delle sensazioni (…) come il buon pastore”.

Inginocchiarsi diventa sempre più una disperata ricerca di protezione, affinché la sua fragile umanità rimanga viva e non sia avvelenata e annichilita dalle barbarie.

Alla fine di giugno 1942 i nazisti introdussero una quantità di nuove regole allo scopo di isolare e separare la popolazione ebraica di Amsterdam. Viene introdotto il coprifuoco; agli ebrei è proibito entrare in case di proprietà di non ebrei e fare acquisti in negozi non ebrei salvo nello spazio tra le 15 e le 17, non possono entrare nelle stazioni ferroviarie o viaggiare su tram e autobus e, come se non bastasse, non possono comunicare tra loro perché le loro linee telefoniche vengono tagliate.

Questo attacco alla loro libertà porta Etty “in un abisso di angoscia e scoramento” . E questo senso di stanchezza, privazione e distruzione fa crescere in lei una necessità sempre più forte di inginocchiarsi. Scrive: “Stamattina, all’improvviso, ho sentito la necessità di inginocchiarmi sul ruvido tappetino di cocco del bagno, con la testa china, che quasi toccava il mio grembo (…) Potrei rimanere così per giorni; con il corpo simile alle pareti di una piccola cella che mi accoglie al suo interno”.

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La grande crescita

Così, esitando, con l’imbarazzo all’inizio e in seguito con gratitudine, Etty impara a pregare. In un mondo “prossimo al collasso”, Dio diventa la base della sua crescente consapevolezza, la fonte dei sui giudizi morali e il nome che assegna al centro della sua anima. Etty scrive: “Ora ascolto tutto il giorno ciò che alberga dentro me, e anche quando sono in compagnia di altre persone (…) sono capace di estrarre forza dalle sorgenti più profonde di me stessa”. Le parole di Etty esprimono uno stato di robusta salute interiore.

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Naturalmente, come ho anticipato precedentemente, il suo viaggio spirituale non fu sempre all’insegna della beatitudine. Vi furono momenti di oscurità e di dubbio.

Sebbene stesse rimodellando la propria coscienza, la vita per lei non fu mai un percorso tranquillo. Né pensava che avrebbe dovuto esserlo. Conosceva l’importanza, nel processo di crescita, del dubbio, del non sapere, e, sebbene parlasse apertamente delle sue certezze interiori, era sospettosa perfino nei loro confronti. In una sua annotazione sul diario scrive: “è una cosa molto positiva che quegli stati d’animo non durino a lungo. Di tanto in tanto è bene essere strappati dal proprio centro e catapultati in uno stato di inquietudine (…) Non bisogna mai essere certi di nulla, se no la crescita si arresta” Etty stava crescendo e il sentimento di una profonda vita interiore che vi era in lei, la stava trasformando sotto ogni punto di vista.

La sua carica erotica, così bruciante nei suoi anni di studentessa, era incanalata in una nuova direzione. Ella conosceva la forza del desiderio, che talvolta la ossessionava ancora. Sapeva però anche quanto potesse rivelarsi utile, se ben guidata verso un nuovo scopo. Scrive: “Sì, alimenterò il mio desiderio, e forse riuscirò a domarlo e a guidarlo sicura verso il fine a cui è destinato”. Etty, quindi, non si dimentica del suo passato, dei suoi errori, del “caos” che vi è in lei, ma lo custodisce in sé con l’obiettivo di convertirlo in qualcosa di buono ed utile.

Etty imparò ad assorbire le emozioni negative senza disconoscerle. Cominciò a disporre di un saggio equilibrio e imparò a vivere con i propri momenti di depressione e a vederli per ciò che realmente erano, “fossi fangosi” in un “vasto paesaggio in fiore”.

Mi sento molto vicina ad Etty durante i suoi momenti di depressione poiché io, oltre ad essere una persona molto vivace e curiosa, sono fragile e pensierosa. Mi capita di sentirmi soffocare; sento i pensieri che mi martellano, sento lo stomaco attorcigliarsi, il cuore battere forte e le domande portarmi giù, dove certezza non c’è e dove la luce è solo un lontano ricordo. Nella mia vita, mi è capitato di affrontare un momento molto difficile che ha stravolto il mio modo di guardare il mondo, di guardare gli altri e di guardare me stessa. Questo periodo è terminato anche se i segni di ciò ci sono ancora e ci saranno sempre. Inizialmente questi segni mi mettevano paura perché mi ricordavano una grande sofferenza, mentre oggi, ho 17

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imparato a guardarli, non come qualcosa da dimenticare, ma come una caduta in mezzo ad un grande e fiorito prato.

Per Etty, l’istante presente divenne sacro. Una mattina scrive: “Quella tazza di caffè deve ora essere bevuta con reverenza, perché ogni giorno potrebbe essere l’ultima”.

Successivamente, al capo di transito di Westerbork, le parole di Matteo (6,34) diventeranno importantissime per lei: “Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini”.

La seconda settimana del primo anno di scuola media, mentre facevamo un lavoro su Dorothy e il suo cammino verso la strega dell’est, la professoressa Parenti ci chiese di inventare un personaggio da aggiungere alla compagnia di Dorothy e di dire quale fosse il desiderio di quest’ ultimo. Io inventai Cuoricina, ovvero una carta da gioco che non riusciva a godersi l’oggi poiché la sua mente viaggiava sempre nel domani. Quando inventai quel personaggio presi spunto dalla persona che ero io in quel momento e da quello che avrei voluto cambiare di me stessa. Ed oggi posso dire di essere riuscita ad esaudire il grande desiderio di Cuoricina poiché sento di avere subito un grande cambiamento, una grande trasformazione. Non appesantisco più l’oggi con i pesi del domani, al contrario cerco di sfruttare al massimo tutto il tempo che mi viene donato oggi. E questo mio cambiamento lo devo moltissimo ai lavori di antologia, in particolare al lavoro di Steve Jobs, il quale ogni mattina si guardava allo specchio e diceva: “Se oggi fosse l’ultimo giorno della mia vita, farei quello che sto per fare?”.

La sua immaginazione spirituale continuò a nutrirla di immagini dello spazio interiore. Una tarda sera di settembre del 1942 immagina un’intera flotta di navi che giacciono, con i propri tesori mai trovati e perduti, in fondo all’oceano, simbolo delle profondità che albergano dentro lei, scrive: “Nel mio cuore sono già naufragati tanti galeoni e per tutta la vita cercherò di riportare alla superficie una parte dei tesori che ora giacciono sul fondo”.

La sua disciplina e il suo autocontrollo crebbero in costanza e rigore. Ella nel diario registra le sottili oscillazioni della sua vita interiore, alla ricerca della verità, dimostrandosi assai determinata a conservare un saldo controllo di se stessa.

In lei si fece sempre più profonda la convinzione che alle radici del cuore umano vi siano bontà e non, sebbene l’evidenza sembri mostrare il contrario, malizia e odio.

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Ricerca di protezione All’avvicinarsi del 1942 le condizioni di vita subirono un rapido peggioramento.

Furono abolite preziose libertà; i beni di consumo divennero di difficile o impossibile reperimento; molti amici sparirono; sopravvivere giorno dopo giorno divenne sempre più faticoso. Il livello di ansia tra la popolazione ebraica crebbe. La speranza e il senso di appartenenza comunitaria divennero beni irrinunciabili. Il mondo intorno a lei si stava disintegrando e dovunque c’era terribile paura.

In questa tempesta aveva bisogno di protezione. E quindi iniziò a ritirarsi nel suo “rifugio” : “stendo intorno a me la preghiera come un oscuro muro protettivo, dentro cui mi ritiro come ci si potrebbe ritirare nella cella di un convento (…) Posso immaginare un tempo in cui starò inginocchiata per giorni di seguito aspettando che i muri protettivi siano sufficientemente forti da impedire che io vada del tutto in pezzi e che il mio essere si smarrisca e sia completamente annientato” .

Ella coltiva il triplice segreto che ha imparato sul ruvido tappeto di cocco: raccoglimento, quiete, ascolto. E praticando questa disciplina trova protezione e, con il sottofondo dei salmi, un grande senso di pace, proveniente da qualche immensa, materna sorgente di vita. Si sente profondamente tranquilla e stranamente sorpresa che in mezzo a tutto questo orrore possa esistere una consolazione così grande. Una notte, mentre guarda il cielo dalla finestra aperta, scrive: “pensavo: com’è strano. C’è la guerra. Ci sono i campi di concentramento. Piccole barbarie si accumulano di giorno in giorno. Camminando per le strade; io so che in quella casa c’è un figlio in prigione, in quell’altra un padre preso in ostaggio o un figlio diciottenne condannato a morte. E questo capita a due passi da casa mia. So quanta gente è agitata, conosco il grande dolore umano che si accumula e si accumula, la persecuzione, l’oppressione, l’odio impotente e il sadismo (…) Eppure, in un momento di abbandono, io mi ritrovo sul petto nudo della vita e le sue braccia mi circondano così dolci e protettive, e il battito del suo cuore non so ancora descriverlo.

Così lento e regolare e così dolce, quasi smorzato, ma così fedele come se non dovesse arrestarsi mai, e anche così buono e misericordioso. Io sento la vita in questo modo, né credo che una guerra, o altre insensate barbarie umane, potranno cambiarvi qualcosa”.

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Nell’infuriare della guerra quella giovane donna non va in pezzi. Qualcosa la sostiene. E mentre la sua fede cresce e si rafforza, ella esplora con più matura introspezione il mistero della sua vita con Dio. Dio non può aiutare Una domenica mattina all’alba, prega: “mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte(…) ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. (…) cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente in me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dovere aiutare te, e in questo modo possiamo aiutare noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. (…) Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali, ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi. Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolvere, forchette e cucchiai d’argento invece di salvare te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: me non mi prenderanno. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia”.

Etty in questa situazione terribile capisce che Dio non può aiutarli eppure comprende che è suo compito non abbandonare con amarezza la fede in quel Dio, ma proteggerlo e vegliare su di lui, perché se perdono Dio perdono tutto, la loro umanità, integrità, la bellezza e la vita. Se perdono Dio sono destinati a disintegrarsi.

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Il rifiuto dell’ odio

Fin dai primi anni ’30 gli ebrei europei dovettero subire le conseguenze di un odio terribile e antico. Naturalmente l’antisemitismo non nacque nella Germania di Hitler: la sua storia, lunga e odiosa, risale ai primordi del cristianesimo. La civiltà cristiana è stata deturpata da una serie di persecuzioni, che annoveravano tra le loro vittime la madre di Etty, costretta a riparare dalla Russia nei Paesi Bassi nel 1907.

Tuttavia, in Germania, dopo la prima guerra mondiale e in seguito alla grande 21

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depressione, l’antisemitismo era cresciuto, toccando livelli di ferocia senza precedenti. L’idea che i mali della Germania fossero da imputare agli ebrei era alla base della propaganda nazista e la politica del Terzo Reich, quale si affermò quando Hitler prese il potere, era incentrata sull’eliminazione degli ebrei, di cui ci si doveva disfare affinché la nazione divenisse “pura” dal punto di vista razziale.

Quest’ideologia sfociò nella Soluzione Finale e nel tentativo di sterminio di un intero popolo.

Gli eserciti di Hitler avanzavano, investendo le nazioni europee, dove risiedevano ebrei che erano fuggiti dalla Germania negli anni ’30 e che ora erano di nuovo un bersaglio: non deve destare stupore il fatto che la popolazioni ebraiche perseguitate abbiano sviluppato un odio nei confronti dei tedeschi. Ad Amsterdam, negli anni ’40, esso si manifestò come reazione alle misure restrittive alle quali fu sottoposta la numerosa popolazione ebraica locale.

In questo clima Etty Hillesum cominciò a scrivere il diario. È interessante notare che nella prima parte del documento i riferimenti alla guerra siano rari. Sembra quasi che l’autrice sia troppo intenta a raccontare i propri sentimenti, le amicizie, le letture e, soprattutto, la terapia e il rapporto con Spier, che fa passare tutto in secondo piano. Tuttavia, nelle pagine iniziali del diario, le capita di scrivere a proposito dell’ odio: non può evitare di farlo. “è un problema attuale: il grande odio per i tedeschi che ci avvelena l’animo.

Espressioni come “che anneghino tutti, canaglie, che muoiano nel gas”, fanno ormai parte della nostra conversazione quotidiana; a volte fanno sì che uno non se la senta più di vivere in questi tempi (…) Quell’odio indifferenziato è la cosa peggiore che ci sia. È una malattia dell’ anima(…) odiare non è nel mio carattere”.

Già all’inizio del diario Etty prende decisamente posizione contro l’odio. Non intende abbandonarsi a quel sentimento, scrive: “Per farla breve, ecco come la penso davvero: le barbarie naziste evocano lo stesso tipo di barbarie dentro di noi (…) dobbiamo respingere le barbarie che sono dentro di noi, e non dobbiamo riempirci di odio, perché altrimenti il mondo non sarà in grado di spostarsi di un centimetro dal fango in cui si trova.”

Si potrebbe pensare che questa dichiarazione sia dovuta all’idealismo giovanile di una ragazza ingenua che non aveva ancora sperimentato in pieno la brutalità e l’orrore di un nemico che perseguiva la loro distribuzione e non considerava gli ebrei 22

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creature umane. In ogni caso, man mano che la sua vicenda si dipanava e condividendo la sorte disperata della sua gente, le sue convinzioni si rafforzano e venivano espresse in un linguaggio sempre più preciso. All’ inizio si limita a dire: “L’odio non fa parte della mia natura” e “dobbiamo respingere la barbarie che è in noi”; in seguito arriva a dichiarare che l’odio è per lei semplicemente impossibile: “Non posso odiare”.

Questa più profonda convinzione si manifesta in lei in seguito a uno specifico episodio avvenuto un mattino, quando gli ebrei sono ammassati in una sala per essere registrati. Un giovane ufficiale della Gestapo urla il suo indirizzo, minacciandola. Dopo aver descritto l’incidente annota: “Un’ altra cosa ancora dopo quella mattina: la mia consapevolezza di non essere capace di odiare gli uomini malgrado il dolore e le ingiustizie che ci sono al mondo”. Conserverà questa convinzione fino alla fine, anche sul treno per Auschwitz.

“Non posso odiare gli altri” cosa intende con questa affermazione? Alla luce di quanto gli ebrei di Amsterdam e dei Paesi Bassi hanno subito in quel periodo, possiamo ragionevolmente domandarci come Etty Hillesum sia riuscita a mantenere le proprie convinzioni. Quali intuizioni, quale disciplina mentale la aiutarono a conservare il proprio ideale?

La verità La convinzione in base alla quale riteneva l’odio semplicemente impossibile, almeno per sé, derivava dal suo amore per la verità. Etty era profondamente interessata, animata da una passione fuor dal comune, per “ciò che è vero”. Ecco perché evitava di odiare: l’odio blocca il complicato processo di comprensione sia nella gente che nelle nazioni. Esso chiude la mente delle persone, devia energia preziosa incanalandola nel rancore, fa sì che si smetta di porsi domande scomode e produce risposte semplicistiche e superficiali. Allora scoprire il vero diventa impossibile. E quando si abbandona la verità, la gente è sopraffatta da una terribile cecità.

Anche io come Etty amo moltissimo la verità poiché la ritengo la fondamentale per qualsiasi rapporto; non può esistere un’amicizia se vi è la menzogna, non può esistere un rapporto tra madre e figlio se vi è la menzogna, poiché nella menzogna nessuna pianta può crescere.

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Dietro la maschera trasparente di un soldato …

Ma c era un’altra ragione per cui lei non poteva odiare. Nel corso della sua storia, sia ad Amsterdam che a Westerbork, ella continuò a vedere i volti degli esseri umani sotto le orride maschere della guerra, rifiutando di accettare l’idea che gli odi e le inimicizie delle guerre costituissero il suggello della storia umana.

Esiste qualcosa di più profondo, che fa sì che gli uomini, in tutta la loro vulnerabilità, appartengano gli uni agli altri al di là delle divisioni: segni di questo legame più profondo si scorgono nei volti delle persone, in certi particolari rivelatori della loro umanità, che deve essere assolutamente conservata, anche in mezzo alla guerra.

La ricerca di tale umanità da parte di Etty è rivelata proprio nell’episodio in cui il giovane ufficiale della Gestapo le urla contro. Mentre ella è in attesa insieme agli altri, vede quel giovane camminare su e giù “palesemente scontento” e “cercare in continuazione pretesti per urlare a quei disgraziati ebrei”. Quando tocca ad Etty, egli comincia a inveire contro di lei perché non gradisce l’espressione della donna. Lei è sorridente, ma lui pensa che stia “ridendo in modo strafottente”. Etty dice: “Non me ne accorgo proprio, è la mia espressione normale”. Lui urla: “Per favore non dica scemenze, vada fuori”. Scrive ancora Etty: “Credo che questo fosse il momento psicologico in cui dovevo spaventarmi a morte, ma quel trucco l’ho capito troppo in fretta. In fondo non ho paura, non per una forma di temerarietà, ma perché sono cosciente del fatto che ho sempre a che fare con esseri umani …”.

Dietro la maschera trasparente del soldato Etty vede un ragazzo infelice. Che è tormentato e assillato, sgradevole e molle, pietoso nel suo bisogno di fare il bravaccio e di umiliare il prossimo. Scrive: “Avrei voluto cominciare subito a curarlo, ben sapendo che questi ragazzi sono da compiangere fintanto che sono in grado di fare del male; diventano pericolosissimi se sono lasciti liberi di avventarsi sull’umanità” La convinzione che dietro la squallida realtà della guerra vi fossero essere umani fallibili e feriti divenne così fondamentale per lei da trasformarsi nella lente attraverso la quale guardare ogni cosa, persino un ambiente buio come quello di Westerbork. Scrive: “Mi sforzo di guardare le cose dritte negli occhi, anche i peggiori crimini, per scoprire il piccolo essere umano nudo nel mezzo del naufragio causato dall’ insensatezza delle azioni umane”.

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Questo sguardo di Etty mi ricorda moltissimo lo sguardo di Emilio Lussu nel testo, analizzato in antologia, “Avevo di fronte un uomo”. In questo testo, il protagonista, nonché soldato della prima guerra mondiale, trova un nascondiglio per riuscire ad osservare la trincea nemica in modo chiaro, senza farsi vedere e scrutando le azioni, le abitudini dei nemici si accorge che dietro al nemico vi è un uomo con le sue stesse necessità; un uomo che fuma, un uomo che beve il caffè e scrive lettere alla sua amata. Scrive: “L’ufficiale austriaco accese una sigaretta. Ora egli fumava.

Quella sigaretta creò un rapporto tra lui e me. Appena vidi il fumo, anch’io sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare che anche io avevo delle sigarette. Fu un attimo. Il mio atto del puntare, ch’era automatico, divenne ragionato. Dovetti pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno (…) avevo davanti un uomo”.

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La sofferenza

Il 30 Luglio 1942 Etty, su sua richiesta, viene trasferita nel campo di Westerbork, per lavorare al programma per il Benessere sociale della gente in transito. Etty lo aveva chiesto perché voleva condividere il destino del suo popolo e arrivata nel campo si ritrovò ad occupare una posizione privilegiata che, momentaneamente le risparmiò

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dal essere spedita ad Auschwitz. Purtroppo in questo periodo Etty si ritrova ad affrontare sempre di più la grande sofferenza che vi è nel mondo.

Accettazione Etty Hillesum scrive a proposito della necessità di accettare, assorbire e addirittura di abbracciare totalmente il futuro di morte e distruzione impossibile da evitare.

L’enorme, impossibile sfida che si trovò ad affrontare, che tutti gli ebrei dovevano affrontare, consisteva nel prepararsi alla fine, nell’anticiparla, persino allenandosi a immaginare come sarebbe stata, assorbendola pienamente in ogni suo possibile aspetto … “cosicché, quando fosse infine giunta, non li avrebbe schiacciati”.

Annota: “Vogliono la nostra fine e il nostro annientamento, non possiamo più farci nulla illusione al riguardo, dobbiamo accettare la realtà per continuare a vivere”. Ma come si può “continuare a vivere?”

Mentre lotta per comprendere cosa significhi accettare totalmente la sofferenza, sente di avere fatto in qualche modo un passo avanti.

“Tante cose successe dentro di me, in questi ultimi giorni: ora, finalmente, qualcosa si è cristallizzato. Ho guardato in faccia la nostra misera fine, che è già cominciata nei piccoli fatti quotidiani; e la coscienza di questa possibilità fa ormai parte del mio modo di sentire la vita, senza fiaccarla” La consapevolezza di un’imminente morte violenta è terribile per un essere umano.

Eppure, Etty ritiene che sia essenziale riuscire ad accettarla. Bisogna che gli ebrei accettino pienamente quest’idea, se non vogliono essere paradossalmente annientati dalla prospettiva della morte. Etty giunge alla conclusione che la morte debba essere accolta, non temuta.

Vorrei sottolineare il fatto che il senso di accettazione che prova Etty, non è una rassegnazione, o un’accettazione per tamponare la tristezza e il timore della fine; al contrario è lo stare davanti alla propria fine, il comprendere che la morte è una tappa inevitabile della vita.

Etty parla della morte come una vecchia conoscenza. Contemplando la morte scopre che essa non sminuisce la sua vita, ma la arricchisce in modo straordinario: “La possibilità della morte si è perfettamente integrata nella mia vita; questa è come resa più ampia da quella, dall’ affrontare ed accettare la fine come parte di sé. E 27

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dunque non si tratta, per così dire, di offrire un pezzetto di vita alla morte perché si teme e si rifiuta quest’ultima, la vita che ci rimarrebbe allora sarebbe ridotta a un ben misero frammento”. Riconoscendo l’inevitabilità della morte, Etty comincia a sentirsene libera.

Spier Nel mese di luglio la salute di Spier, sofferente di un cancro ai polmoni, continua a peggiorare: è ormai prossimo alla morte. Ella lo assiste in forza di un permesso speciale accordatole dall’autorità tedesca. Il deterioramento delle condizioni dello chirospicologo pone Etty di fronte all’impatto di una grave perdita, che la coinvolge particolarmente.

Il 15 settembre 1942 Spier muore ad Amsterdam ed Etty si ritrova a scrivere una lettera per lui: “in te c’erano tutto il male e tutto il bene che possono esserci in un uomo. I demoni, le passioni, la bontà e l’amore per gli uomini, in te che sapevi tanto capire, che sapevi cercare e trovare Dio. Hai cercato Dio dappertutto, in ogni cuore umano che ti si è aperto e dappertutto hai trovato un pezzetto di Lui. Non ho mai rinunciato a questo, potevi essere impaziente nelle cose piccole ma in quelle grandi eri così paziente, così infinitamente paziente”.

La morte di Spier è affrontata da Etty con una grande speranza, è la certezza del cielo a segnare questo passo così importante della sua vita. I mesi che seguono sono per lei mesi di una profonda maturazione, Etty verifica la verità di ciò che aveva incontrato facendo esperienza di una apertura a tutto, a Dio, agli amici, agli altri, alla difficile situazione in cui si trova a vivere con il suo popolo. Lei sa di trovare qualcosa di positivo in ogni circostanza.

“Io credo che dalla vita si possa ricavare qualcosa di positivo in tutte le circostanze, ma che si abbia il diritto di affermarlo solo se personalmente non si sfugge alle circostanze peggiori”

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Il dolore “Certo, accadono cose che un tempo la nostra ragione non avrebbe creduto possibili.

Ma forse possediamo altri organi oltre la ragione, organi che allora non conoscevamo, e che potrebbero farci capire questa realtà sconcertante. Io credo che per ogni evento l’uomo possieda un organo che gli consente di superarlo. Se noi dai campi di prigionia, ovunque siano nel mondo, salveremo i nostri corpi e basta, sarà troppo poco. Non si tratta infatti di conservare questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva. A volte penso che ogni nuova situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove prospettive. E se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente, se non li ospitiamo nella nostra mente e nel nostro cuore, per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione, allora non siamo una generazione vitale. Certo, non è semplice, e forse meno che mai per noi ebrei; ma se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati ad ogni costo, e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione, allora sarà troppo poco (…). Per questo mi sembrava così pericoloso sentir ripetere: “Non vogliamo pensare, non vogliamo sentire, la cosa migliore è diventare insensibili a tutta questa miseria”. Come se il dolore, in qualunque forma si presenti a noi, non facesse ugualmente parte dell’esistenza umana”.

Il dolore è sempre stato qualcosa di inconcepibile per me; non riuscivo a capire perché le persone si ammalassero, perché i ragazzini di sedici anni morissero negli incidenti, perché un virus potesse uccidere molta gente. Questi miei dubbi mi hanno spesso portato, e spesso mi portano, a non credere nell’esistenza di un Dio poiché, se mi era inconcepibile il dolore, me lo era ancora di più l’idea che ci fosse qualcuno che permettesse tutto ciò. Ma poi, leggendo questa lettera, mi sono resa conto che la morte, il dolore e la sofferenza sono parte dell’esistenza umana e che il problema non è di quanto duri la vita, ma di quanto si sia riusciti a vivere. Potrei nominare moltissimi esempi di persone che, pur trovandosi in situazioni peggiori o essendo morti giovanissimi, hanno vissuto più di tutti noi. In cima alla lista possiamo mettere la stessa Etty che ha vissuto più negli ultimi tre anni della sua vita, che nei ventisette anni precedenti. Inoltre, mi colpisce moltissimo come lei voglia che questa sofferenza possa essere un fattore di crescita per il futuro; capisce che l’obbiettivo non è scampare alla sofferenza ma imparare da essa.

E se si guarda al dolore con questo sguardo è tutta un’altra cosa 29

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Una duplice vocazione Nel campo, circondata da un gran numero di “povere creature che non sanno come vivere”, Etty sentì di avere proprio ciò che voleva per l’immane compito di dare sostegno ai prigionieri: nel suo cuore vi era un profondo pozzo pieno di compassione ed era ben addestrata nell’ arte di ascoltare gli altri. La sua vocazione a occuparsi del prossimo era basata soprattutto sulla fiducia nel significato interiore dell’esistenza che aveva scoperto.

Lo psicoterapeuta Viktor Frankl, sopravvissuto ad Auschwitz, ha scritto che in condizioni estreme, quando tutto ti viene strappato via, si può vivere soltanto se si è trovato qualche significato profondo che dia un senso alla propria esistenza.

Etty vide che la gente intorno a sé era vuota e in preda alla paura, priva di qualunque sostegno contro il terrore. Desiderava fortemente aiutarla a trovare, come lei aveva già fatto, uno scopo e un significato profondo. Usando un’ efficace metafora, paragona le persone internate a Westerbork a case con le porte spalancate “Io entro e giro per corridoi e stanze, ogni casa è arredata in modo un po’ diverso ma in fondo è uguale alle altre, di ognuna si dovrebbe fare una dimora consacrata a te, mio Dio”.

Ma Etty era animata da una vocazione ancora più forte. Nel corso dei mesi aveva esercitato la propria abilità con le parole e si era resa conto di essere in grado di “leggere le persone”; ebbene, il suo sdegno morale di fronte ai soprusi che quella gente era costretta a subire crebbe al punto da farle sentire il dovere di scrivere: “Ma se io ho un dovere nella vita, in questo tempo, in questo stadio della mia vita, è proprio quello di scrivere, annotare, conservare”. Si fa cronista: “In questo momento so più che mai che ho un compito nella mia vita, un piccolo progetto fatto apposta per me. Dovrò passare attraverso tutto quanto (…) Diventerò la cronista delle nostre vicissitudini”.

La sua penna diventa lo strumento con il quale combattere il male. Ma la loro vita quotidiana è dura e brutale e la storia è spietata: è difficile raccontarla in tutto il suo orrore. Etty si paragona a un fabbro posseduto da una sorta di passione primitiva: “Dovrei impugnare questa sottile penna stilografica come se fosse un martello e le mie parole dovrebbero essere come tante martellate, per raccontare il nostro destino e un pezzo di storia com’è ora e non è mai stata in passato.”

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La sua più grande paura era di esser presa dal torpore e di non poter svolgere il proprio compito. Per riuscire a vedere oltre la superficie delle cose, era necessario che rimanesse viva nel cuore, in continuo contatto con la sua spumeggiante vita interiore e sempre in grado di “ascoltare se stessa, gli altri e Dio”. Temeva in particolar modo l’apatia perché le avrebbe bloccato l’accesso alle sue risorse interiori, impedendole di portare a termine il suo compito più urgente “Dare testimonianza”. Scrive: “Deve esserci qualcuno che passi attraverso tutto ciò e testimoni che Dio è vivo, persino in tempi come questi”.

Questo paragrafo riprende l’idea del paragrafo precedente, infatti Etty vuole dare testimonianza del dolore che sta affrontando il suo popolo per fare sì che si impari da esso; per fare diventare il dolore uno stimolo per la crescita.

… abbiamo lasciato il campo cantando…

Il 7 settembre 1943 Etty e la sua famiglia salirono sul convoglio diretto ad Auschwitz.

I genitori di Etty con tutta probabilità furono mandati nelle camere a gas direttamente all’arrivo. Mischa morì probabilmente a Varsavia nella primavera del 1944 ed Etty nell’autunno del 1943 (non è possibile stabilirne il giorno esatto ma la sua morte viene indicata nel 30 novembre 1943).

Fra le ultime lettere che sono arrivate a noi c’è questa: “Christien, apro a caso la Bibbia e trovo questo: “Il Signore è il mio alto ricetto”. Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa sono alcuni vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. Un ordine improvviso mandato appositamente per noi dall’Aia. Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi, e così Mischa. Viaggeremo per tre giorni. Grazie per tutte le vostre buone cure. Alcuni amici rimasti a Westerbork scriveranno ancora a Amsterdam, forse avrai notizie?

Anche della mia ultima lunga lettera? Arrivederci da noi quattro.

Etty

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Una donna per i nostri tempi

Nella città di Deventer, nell’Olanda centrale, dove crebbe, sulla riva del fiume Ijssel, si trova una scultura in memoria di Etty Hillesum. Consiste di un grande blocco di pietra (un lato del quale si abbassa fino a toccare terra, suggerendo l’inizio della sua vita), che sale dolcemente verso l’alto. Proprio nel mezzo vi è una fenditura irregolare che lo spacca letteralmente in due. L’ opera è un vivido monumento a una vita di forza ed energia non comuni, che fu violentemente interrotta.

Osservando la scultura, posta in quel luogo che Etty conosceva così bene, con l’ampio fiume e il vasto paesaggio olandese, l’osservatore è colpito dall’insistenza sul fatto che la morte della nostra Etty, rappresentata dalla fenditura a tacche nel mezzo, non sia stata altro che un’interruzione. Oltre l’interruzione della morte la pietra prosegue: il secondo pezzo del blocco è grosso quando il primo. L’opera d’arte ci dice che, sebbene la vita di Etty Hillesum sia terminata violentemente ad 32

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Auschwitz, essa pure continua. Lei sopravvive nella vita di chi la conosce grazie ai suoi scritti. Lei vive in me, come vive in Claudia Munarin, curatrice della mostra con la quale ho avuto l’opportunità di parlare. Etty, confusa dal punto di vista emozionale, assai attiva sessualmente, proveniente da una famiglia confusa, disinteressata alla religione istituzionalizzata, è una persona curiosamente moderna.

Riflettere su di lei a così tanti anni dalla sua morte e udire la sua voce oggi ci costringe a permetterle di fare bruscamente irruzione nelle nostre vite e ad ascoltarla con attenzione mentre ci invita a cercare una via più vera e profonda.

In particolare, le sue parole si riferiscono a quattro ambiti. In primo luogo, Etty Hillesum mette in discussione il nostro scetticismo a proposito della fede e ci invita a ricominciare a credere. In secondo luogo, sfida le nostre idee ristrette sulla religione e ci invita a pregare. In terzo luogo, mette in discussione il nostro odio nei confronti dei nemici e ci invita a vedere. Infine, sfida la nostra disperazione a proposito del futuro e ci invita ad essere coraggiosi.

Come ho detto precedentemente, venerdì 22 maggio ho avuto l’opportunità di chiacchierare con una curatrice della mostra su Etty Hillesum e ho deciso di raccontare i concetti su cui ci siamo soffermati poiché mi hanno aiutato moltissimo a comprendere maggiormente la storia di Etty.

Pensieri tratti dall’intervista con Claudia Munarin Moderna Ciò che rende Etty una figura “moderna” è il fatto che facilmente ognuno di noi potrebbe rivedersi in lei, nei suoi momenti bui, nelle sue incertezze e nel suo cammino. Ciò che la rende così simile a noi è la realtà di cui parla e la verità con cui scrive nel suo diario. Tutta la sua umanità così evidente ci rende impossibile non identificarci in lei .

Un “tu” per se stessa Un’altra cosa che stupisce moltissimo è il modo con cui impara a guardarsi ed a giudicarsi: il fatto che diventi un “tu” per se stessa e che quindi inizi a volersi bene. E con questo non voglio dire che Etty si rassegna a ciò che è, subendo la sua emotività e la sua depressione, poiché lei nel suo diario si massacra e scrive ogni sua minima 33

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meschinità. Ma è un guardare sia la luce e sia il buio con serietà ed oggettività. È il capire di non potere essere rinchiuso in una parola o con un’etichetta, ma di essere indescrivibile. E se ci pensiamo questa oggettività è qualcosa di meraviglioso, poiché lei attraverso essa può arrivare alla verità. Etty in questo modo ottiene un’autonomia e allo stesso tempo conquista un tipo di intensità con il rapporto con gli altri che prima non aveva. Non perde il bisogno degli amici, ma lo guadagna in modo più vero, tanto che se ci pensiamo, più va avanti e più lei scrive sempre meno il diario e sempre più lettere.

Grande consapevolezza Interessante è il fatto che, leggendo il diario, quasi non ci si accorge di quando lei è nel campo e quando lei è a casa propria, ma non perché Etty sottovaluti ingenuamente ciò che sta succedendo o perché non tema la morte, anzi lei è attaccata con le unghie e con i denti alla vita; ma perché capisce che anche nel momento in cui si è annientati si può scegliere come vivere. E lei sceglie di vivere, più di altri, le situazioni, di aiutare, di lavorare. Ma non lo fa per non pensare a ciò a cui è destinata; lo fa con un’enorme consapevolezza della situazione e con la coscienza di cosa veramente vale. Coscienza ottenuta grazie al lavoro che svolge il periodo precedente a quello del campo.

Scrittrice È poi meraviglioso il desiderio di Etty di diventare una scrittrice. Desiderio che non si ferma nel momento della difficoltà, ma che trova un nuovo modo, una scorciatoia.

Etty diventa cronista della situazione a Westerbork coltivando, così, la propria passione e rimanendo se stessa anche nei momenti più bui.

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Conclusione Ma perché proprio l’ Infinito fa parte di me?

Penso che quello che ho imparato maggiormente da Etty Hillesum possa essere racchiuso nella frase “L’Infinito fa parte di me”. Infatti questa frase esprime in modo simbolico due degli aspetti più importanti di Etty.

Per prima cosa ci ricorda che lei, come noi, non può essere racchiusa in una parola, in un aggettivo, con una etichetta, con un soprannome, poiché lei è moltissime cose, è moltissime sfumature. Nella sua mente convivono il caos più profondo e la chiarezza, è riflessiva ed impulsiva, è tutto e niente. Non può essere ricordata come “L’ebrea” o “La religiosa” , non può essere ricordata come “La pazza” o “La depressa”. Lei è infinite cose. E ciò, la rende molto simile a me; se mi chiedono di descrivermi non so cosa rispondere, non posso dire di essere “la ballerina” o “quella a cui piace scrivere” poiché io non sono solo questo. Io sono infinite cose.

“Bisogna vivere con se stessi come un popolo intero: allora si conoscono tutte le qualità degli uomini, buone e cattive. E se vogliamo perdonare agli altri, dobbiamo prima perdonare a noi stessi i nostri difetti” Per seconda cosa, questo Infinito ci ricorda ciò che Etty ha trovato in sé: la sorgente che lei chiama Dio, il cielo che vive dentro di lei, la grande chiarezza. E vedendo lei che, estremamente simile a noi, è riuscita a scovare questa grande gemma in sé, ci fa capire che può succedere anche a noi, che anche noi possiamo fare chiarezza e trovare Dio. E questa cosa mi fa commuovere poiché mi fa comprendere che io, ragazza di quattordici anni piena di difetti, sono fatta per cose infinite, per cose grandi e meravigliose.

“Dio mio, ti ringrazio perché mi hai creata così come sono. Ti ringrazio perché talvolta posso essere così colma di vastità, quella vastità che non è poi nient’altro che il mio essere ricolma di Te”

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Sitografia e bibliografia  “Etty Hillesum, il cielo vive dentro di me” mostra a cura di José Clavería, Claudia Munarin, Marta D’ Angelo, Ombretta Malatesta, Paola Maria Sala, Benedetto Grava, Gianni Mereghetti.  Catalogo mostra  “Credo in Dio e negli uomini” storia di Etty Hillesum, Patrick Woodhouse  “Diario 1941- 1943”, Etty Hillesum  Intervista a Claudia Munarin  www.lastampa.it  www.circololettori.it  www.enciclopediadelledonne.it

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