Raffaele K. Salinari
L’ALTALENA Il gioco e il sacro dalla Grande Dea a Dioniso Prefazione di Carlo Flamigni
Edizione Punto Rosso Collana Materiali Resistenti
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Finito di stampare nel settembre 2014 presso Digital Print, Segrate, Milano EDIZIONI PUNTO ROSSO Via G. Pepe 14 - 20159 Milano Telefoni e fax 02/87234046 edizioni@puntorosso.it; www.puntorosso.it Direzione Editoriale: Roberto Mapelli e Raffaele K. Salinari. Redazione delle Edizioni Punto Rosso: Nunzia Augeri, Alessandra Balena, Eleonora Bonaccorsi, Laura Cantelmo, Loris Caruso, Serena Daniele, Roberto Mapelli, Stefano Nutini, Nelly Rios Rios, Erica Rodari, Raffaele K. Salinari, Pietro Senigaglia, Domenico Scoglio, Franca Venesia. Revisione finale di Lorenza Raiola Collana “Materiali resistenti” La collana “Materiali resistenti” nasce dall’esigenza di ripensare alla radice i concetti-soglia per un nuovo pensiero della liberazione possibile. Oltrepassando le parole guida del Novecento, abbiamo voluto creare uno spazio di cultura e pratica politica segnato dalla rottura epistemologica con idee quali rivoluzione, democrazia, partecipazione, libertà, sviluppo, e ripensarle alla luce delle domande e delle esperienze che la costruzione di un “altro mondo possibile” ci pone. In questa collana “eretica” sono ospitati autori e testi di frontiera, che con le loro immagini speriamo contribuiscano ad illuminare un non-ancora che è già presente ed opera nella sensibilità e nelle urgenze del secolo. Direttore Editoriale della Collana: Raffaele K. Salinari
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Le ierodule sull’altalena Prefazione di Carlo Flamigni
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Capitolo 1 Introduzione: il gioco e il sacro
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Capitolo 2 La vertigine e la maschera
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Capitolo 3 L’aura della Grande Dea
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Capitolo 4 Dalla Grande Dea a Dioniso
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Capitolo 5 Il mito greco: Erigone
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Capitolo 6 Donne, dee, eroine, ed altre impiccate
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Capitolo 7 Il tarantismo
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Capitolo 8 Il catartico dondolio
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Capitolo 9 Una rêverie in altalena
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Bibliografia Sitografia
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Le ierodule sull’altalena Prefazione di Carlo Flamigni
È certamente un privilegio scrivere una prefazione a questo bellissimo libro, un saggio affascinante, scritto con un linguaggio altrettanto raffinato quanto di facile comprensione, un testo che se non viene trattato con cautela gronda citazioni e cultura, tutti ingredienti che non possono essere “dispersi nell’ambiente”. Molto onestamente debbo dire che non so per quale ragione Salinari abbia chiesto proprio a me di scrivere una prefazione, quello che so delle altalene l’ho appreso proprio leggendo il suo libro, e d’altra parte non sono certamente un antropologo. Immagino - ma non ho avuto il coraggio di chiederglielo - che la sua scelta abbia a che fare con il mio antico interesse per la condizione femminile, che mi ha portato a scrivere di argomenti simili, un tema che ancora mi affascina. In ogni caso non dirò una parola a proposito delle altalene (dove potrei trovare il coraggio?) e mi limiterò a considerare un solo argomento, quello della sessualità femminile come diretta manifestazione del sacro nella vita del mondo: le varie forme di prostituzione sacra (o meglio, alcune di esse) consentivano alle sacerdotesse al servizio di una specifica divinità femminile di trasmettere agli uomini con i quali si intrattenevano, parte dell’energia vitale della Dea, che tramite il loro corpo, entrava in contatto con lo sposo-amante. Mi sarebbe piaciuto aggiungere un secondo tema, generalmente molto trascurato, quello della donna che si ribella agli dei e si rifiuta di giurare loro ubbidienza, Lilith, per intenderci, ma ho dovuto rinunciare dopo aver constatato di aver utilizzato fin troppo spazio al primo tema (ma sarebbe stato molto interessante discutere su come dondolava l’altalena della prima moglie di Adamo). Voglio cominciare sottolineando il paradosso che caratterizza la questione delle prostitute sacre, almeno come la interpreta una parte degli studiosi: l’altalena sulla quale la Dea le colloca - prima le porta tanto in alto da sfiorare la soglia della divinità, e poi le precipita in
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basso, così vicino al fango e alla disperazione del vizio da sfiorare la contaminazione - un paradosso che, come vedremo, non è certamente l’unico che siamo destinati a incontrare in questa materia. Vi dirò poi perché questa storia della prostituzione sacra sia solo una ipotesi, e nemmeno una delle più gradite agli antropologi, una ipotesi oltretutto molto criticata da una parte del mondo femminista. La prima divinità femminile della quale parla questo libro porta il nome di Potnia, una divinità che racchiude in sé, esaltandole, tutte le virtù e le qualità soprannaturali che gli uomini sono in grado di capire, di apprezzare, di invidiare e di temere. Tutto ciò, naturalmente, perché Potnia è la Dea Madre, la Grande Dea che tutto ha generato e di tutto mantiene il controllo. A dire il vero lo studio dei miti e delle religioni non sembra dare particolare rilievo all’esistenza di divinità femminili “potenti”, un attributo che d’altra parte non può proprio essere negato alla Dea Madre: ed è altresì vero che nelle varie dimore degli Dei sono presenti figure maschili e femminili, che sono diverse per il fatto che queste ultime sono in genere solo comprimarie e dispongono di un potere limitato, una raffigurazione pressoché inevitabile delle società che confinavano le donne alle sole attività casalinghe, quelle che nessuno si è mai sognato di negare loro: guardare alla casa, educare i figli. D’altra parte le donne si sono accontentate di poter dichiarare, giunte alla fine della loro passeggiata terrena, sciocchezze come “domo mansi, lanam feci” e non potevano certamente pretendere, dopo aver passato una vita intera sedute su uno sgabello della cucina, di trovare protezione da dee che avevano la poltrona prenotata nel salotto buono del loro Olimpo. Questo punto di vista però cambia se si prende in esame il periodo più antico del quale esiste memoria storica: in queste epoche la presenza di divinità femminili dotate di un potere assoluto è costante e fondamentale ed è solo con grande lentezza che questo potere si sgretola, le figure si modificano, compaiono tratti ambigui, poi connotazioni maschili, le dee sono sempre meno donne, fino a diventare divinità non femminili (vogliamo dire maschili?). Ma sulla frammentazione di questo antico potere tornerò più avanti. Le prime immagini antropomorfiche scolpite o disegnate nell’età
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della pietra riguardavano soprattutto figure femminili: i ritrovamenti relativi al paleolitico constano prevalentemente di rappresentazioni di donne nude, che complessivamente fanno pensare di essere state prodotte per riti religiosi o magici e hanno convinto gli antropologi dell’esistenza di un forte apprezzamento delle virtù femminili e di una conseguente elaborazione di una mitologia costruita prevalentemente su una serie di donne/dee. Nel periodo storico nel quale ebbe inizio la coltivazione della terra le figure femminili si modificarono, proiettando una immagine di donna forte e carica di attributi riferibili a un grande potere fisico: tutto ciò fu a lungo interpretato come un riferimento a divinità che avevano il controllo di molti elementi naturali e potevano concedere il dono della fertilità, alla terra, agli animali e all’uomo. Gli antropologi misero quindi questo potere mitico in relazione con una cultura religiosa molto antica, costruita quasi esclusivamente sul culto di divinità femminili e stabilirono che anche questi elementi di una mitologia ancestrale facevano immaginare l’esistenza di una civiltà più progredita di quanto fosse lecito supporre. In cima a questo Olimpo piramidale si collocava quasi naturalmente la Grande Dea, o Dea Madre, il cui culto si diffuse in molte parti del Mediterraneo per tutta l’età del bronzo, un’epoca nella quale le civiltà progredirono in modo significativo. Nel corso di questa epoca storica la condizione della donna subì notevoli modificazioni, e lo stesso accadde per quanto riguardava il culto delle divinità femminili, che mantenne comunque un forte impatto sulla società in luoghi diversi e stabilì solide tradizioni. In molte città-stato della Mesopotamia i re rendevano legittima la loro ascesa al trono sposando la Dea che i loro sudditi veneravano con un rituale al quale ci si riferiva come a un “matrimonio sacro”: in queste cerimonie la Dea era rappresentata da una sacerdotessa la cui qualifica corrispondeva a una sorta di “custode della divinità” e il cui corpo era destinato ad ospitare lo spirito della Dea nelle varie fasi della cerimonia e, presumibilmente, nei momenti di intimità che seguivano le nozze. Questa necessità di trovare un accordo con la divinità femminile che consentisse agli uomini di maggior prestigio
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di avvicinarsi il più possibile alle altezze del sacro (traendone i maggiori vantaggi possibili) si diffuse e divenne regola soprattutto tra le caste guerriere e tra gli uomini che avevano ambizioni di comando in molte aree del Mediterraneo. Una civiltà si segnalò in modo del tutto particolare, nel’età del bronzo, per l’importanza che attribuì al culto della Dea Madre, e questa fu la civiltà minoica, il nome che è stato attribuito alla cultura cretese nel periodo che va dal 2700 al 1450 a.C. Molte delle ipotesi che riguardano questa religione, definita genericamente “matriarcale”, non sono state dimostrate con certezza, poiché la mancata decifrazione della scrittura - il Lineare A e il Lineare B - costringe a teorizzare partendo dalle sole immagini che ci sono pervenute. È comunque probabile che i cretesi adorassero una o più dee, conosciute sotto diversi nomi (ma soprattutto come Potnia e Grande Madre) e raffigurate con aspetto diverso. I principali attributi di queste dee erano la colomba (simbolo di fertilità), il serpente (una immagine chiaramente collegata con la terra e la natura) e il leone (l’esempio più significativo di animale selvatico). Ci sono prove dell’esistenza di divinità maschili contemporanee, ma i tributi e gli onori riservati alle dee erano incomparabilmente superiori. Le immagini pittoriche che hanno a che fare con figure femminili si riferiscono anche a sacerdotesse e a semplici adoratrici delle dee, ma in molti casi sembrano proprio riguardare differenti divinità: una divinità madre della fertilità, una signora degli animali, una protettrice della città (e del raccolto, e della famiglia), una custode dell’oltretomba. A questo punto si apre un ventaglio di ipotesi: è possibile che si tratti sempre della stessa divinità, la Grande Madre, considerata nelle sue differenti prerogative, ma è anche possibile che nel tempo si sia sgretolata l’immagine della Grande (e unica) Dea Madre e che dai suoi frammenti siano nate molte e diverse Protettrici, un modo piuttosto efficace per indebolire il potere del matriarcato per consegnarlo piano piano a un nuovo Olimpo, prevalentemente maschile. È anche possibile che la Grande Madre fosse in relazione con un Dio, (quasi certamente Poseidone) probabilmente conosciuto come “lo scuotitore della terra” e rappresentato da due simboli, il
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sole e il toro; esisteva in effetti un mito che ne parlava e che raccontava della morte autunnale e della rinascita primaverile di questo Dio, del cui destino era comunque sempre arbitra la Grande Madre. Potnia è un termine del greco antico generalmente usato per indicare una donna di rango elevato e spesso utilizzato in riferimento a una dea, in alternativa a “Despoina”, “la Signora”, un nome attribuito a diverse dee che compaiono nella mitologia dell’epoca. Più tardi Potnia assorbì le prerogative di un’altra divinità, Kore, la dea dei misteri eleusini che celebravano il mito di Persefone (1600-1000 a.C.): anche in questo caso il mito si riferiva a una altalena tra la vita e la morte, il ratto della figlia di Demetra, che Ade imprigiona nel suo tristissimo regno, e successivamente la ricerca, l’ascesa e il ricongiungimento con la madre. Ma Persefone non ha rispettato il digiuno, ha mangiato tre semi di melograno, e per questo ogni anno dovrà tornare dal suo rapitore, provocando il lutto della natura, l’inverno, il periodo in cui la vita è sospesa fino al risveglio primaverile. Una altalena. In realtà Potnia dovrebbe essere solo un titolo onorifico, usato anche come cortesia rivolgendosi a una donna, ma obbligatorio in caso in una interlocutrice di rango elevato: nel lineare B si trova come Po-ti-ni-ja. Quando il termine è usato per indicare la Dea Madre, viene quasi sempre aggettivato e in qualche caso associato al nome di un Dio, Wa-na-ka, anche questo un attributo di Poseidone. Il termine Potnia ha la stessa radice di “potere” e di “potenza” e si trova in molte tavolette scritte in Lineare B ritrovate a Cnosso e a Pilo in associazione con una serie di attributi: Po-ti-ni-ja dapuritojo, signora del labirinto; Po-ti-ni-jatheron, signora degli animali; Po-ti-ni-ja athana; Po-ti-ni-jasito, padrona del raccolto; Po-ti-ni-ja hippeja, signora dei cavalli. Omero cita una Potnia Theron e si riferisce con molte probabilità ad Artemide e nella Grecia classica la parola era usata per indicare anche Atena, oltre naturalmente Persefone. I frequenti riferimenti a Poseidone hanno fatto immaginare anche una differente origine del nome Potnia, che potrebbe derivare dal nome di un Dio di sesso maschile (Potidas, probabilmente Po-
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seidone), che però esiste anche in forma femminile più certa, Posidaija; qualche confusione si è creata anche con Britormartis (o Diktinna), la dolce signora, una divinità armata di arco, faretra e corta spada la quale, verosimilmente identificandosi con altre divinità analoghe della civiltà cretese-micenea (a loro volta derivate da culti asiatici), era considerata vergine e protettrice della maternità per sincretismo, oltre che cacciatrice e signora di belve e costituì il prototipo da cui fu derivata l'Artemide ellenica. In ogni caso, le si chiami come si vuole, che si tratti di una unica divinità o di un modo per riferirsi a un intero Olimpo femminile, nel quale si accalcano dee che proteggono le caverne, le montagne, i serpenti, le colombe e la fertilità degli uomini e degli animali, non vi è dubbio sul fatto che l’adorazione delle dee era prevalente nella cultura minoica e nell’età del bronzo, anche perché di questi eventi è testimone la prevalenza assoluta di sacerdotesse e di donne in generale nei riti religiosi. Nei dipinti dell’epoca gli uomini non sono mai ritratti in atteggiamenti che riflettano capacità di comando e possesso di potere. È comunque possibile che di Dee Madri, nella religione minoica, ce ne fosse inizialmente una sola e che si trattasse di una divinità onnipotente, che si prendeva cura di tutto e che di tutto era l’origine. Si può pensare in questo caso che la frantumazione del suo potere, successivamente ripartito tra un certo numero di divinità femminili, prima di trovare padroni di sesso diverso, (Gea, Rea, Cibele, Demetra, oltre a un gran numero di divinità minori) sia dovuta a un tentativo della componente sociale dominante, i maschi, di ridimensionare il potere della Potnia. Alcune rappresentazioni della Dea Madre - come la Po-ti-ni-ja Newopeo e la Po-ti-ni-ja Sphagianeia sono in realtà semplici rappresentazioni locali della Potnia, e non hanno alcun significato aggettivante. L’attenzione degli studiosi si è dunque concentrata su Potnia Theron e su Athana Potnia: la prima, la più rappresentata nell’arte minoica, aveva precisi riferimenti con la natura e, soprattutto, con gli animali selvatici, ed era colei che controllava le forze naturali fino a sottometterle al volere degli uomini (divinità simili erano oggetto di culto in tutto il vicino oriente e soprattutto in Siria e in Babilonia).
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Nel tempo il potere di Potnia Theron si indebolì e si limitò alla protezione della caccia e dei boschi, gli stessi attributi che ritroviamo in Artemide, il cui potere sulla natura diviene esclusivamente predatorio (e non ha più nulla di generativo, così come è privato di ogni connotazione sessuale). Sono testimoni di questa perdita di potere le immagini sacre che raffigurano Potnia in compagnia di alcune figure maschili, - guerrieri, sovrani - e Artemide in associazione con altre donne e con ninfe dei boschi. Un processo di depotenziamento simile riguarda Athana Potnia, che è inizialmente la figura che meglio rappresenta la Dea Madre, protettrice della fertilità (degli uomini e della terra), ed è “madre delle montagne”, che sono la “spina dorsale del mondo”. Come ho detto, se è vero che - come molti sostengono - l’erede diretta di Athana è Atena, non può sfuggire anche il suo depotenziamento, la perdita di qualsiasi legame con il potere generativo femminile attraverso una de-sessualizzazione che la rappresenta alla fine come una divinità vergine. Molti studiosi si sono domandati se queste due Potnie sono in realtà la stessa Dea Madre, declinata in forme diverse, una domanda alla quale non è stato possibile dare una risposta. Resta comunque dimostrato il fatto che la Potnia ancestrale era chiaramente collegata con gli elementi naturali che riguardano la sessualità e la generazione e che questo potere le è stato sottratto con un’opera di frammentazione lenta e progressiva: ne sarebbero prova la scomparsa nel tempo dei simboli fallici (generativi) e dei riferimenti alle proprietà di alimentare il genere umano che la caratterizzavano e che facevano di lei una divinità unica e multiforme, che assumeva carattere diverso a seconda dell’interpretazione del concetto di fertilità che le veniva attribuito (e che era indicato dall’aggettivo che accompagnava il suo nome). Questa conclusione sembra trovare conferma anche nell’analisi del depotenziamento della Potnia “dea dei serpenti”. Nessuna delle divinità dell’Olimpo greco sembra derivare da questa Dea Madre, ma divinità che hanno un serpente come simbolo se ne trovano molte nella religione tardo-cretese, quella che sopravvisse anche nel periodo classico. In particolare l’erede della Potnia dei serpenti po-
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trebbe essere la già citata Britomartis, la dolce signora, figlia di Giove e di Carme, una delle ninfe cacciatrici che seguivano Artemide. Per sfuggire alle insidie di Minosse, Britomartis si gettò in mare e fu salvata quasi per caso da alcuni pescatori che un realtà se la ritrovarono nelle reti. Artemide la premiò per la sua virtù, la rese immortale e le cambiò il nome in quello di Dictynna (signora delle reti). Anche in questo caso la desessualizzazione è radicale perché la Dea viene privata del suo potere generativo (diviene un simbolo della castità sterile) e si contrappone a Minosse (il vero simbolo generativo) che finisce con l’arricchirsi del potere del quale lei viene privata. Si può dunque concludere che prima della religione greca, il cui Olimpo è dichiaratamente e spudoratamente maschilista, esisteva un culto dedicato in modo esplicito a una o più divinità femminili e materne, dissolto a seguito di un lungo lavorio di logoramento e depotenziamento operato dal sesso che era comunque socialmente dominante. Si può anche concludere che è per lo meno improbabile che quella società fosse realmente matriarcale. Se la Dea Madre era colei che aveva il potere su tutto, e che questo potere esercitava anche in favore dell’uomo, innalzandolo fin quasi a sé attraverso il controllo dell’energia sessuale femminile, che le era intimamente legata, della quale aveva il controllo tanto che, come riferisce Salinari, «ne rappresentava la potestà essenziale» in quanto era «una diretta manifestazione del sacro nella vita del mondo», dato che la Potnia «racchiude ed esalta la divinità del femmineo e la femminilità del divino». Il problema è di capire quale rapporto esiste tra amore e morte, quali sono gli estremi ai quali il gioco dell’altalena riesce a condurci: amore come “toglimento di morte”? come sperimentazione della morte della propria individualità nel corso della vita? come approvazione della vita fin dentro alla morte? come anticipazione della morte? Cito ancora Salinari: “…l’erotismo del dondolio arriva a noi dalla trasformazione di un gioco - l’altalena - che antichi miti descrivono come simbolizzazione della morte; per questo il nesso tra morte ed erotismo sfugge a chiunque non ne veda il senso religioso. Inversamente il senso religioso sfugge a chiunque trascuri il legame che esso presenta con la morte e l’eroti-
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smo”. Soprattutto, aggiungo, se non si coglie la relazione tra la divinità che protegge e promuove la fertilità e chi la rappresenta e la sostituisce, si fatica a comprendere il significato della cosiddetta “prostituzione sacra”, il “sacro coito della coppia sacerdotale sul nudo terreno, rigato dai solchi aperti dalla virile fatica del vomero”, un rapporto durante il quale le sacerdotesse erano le viventi incarnazioni della dea, deputate ad amministrare per suo conto il piacere della carne e, attraverso di esso, il piacere della dea di fecondare e di esse re fecondata. Per illustrare in modo compiuto la storia e i caratteri della prostituzione sacra è necessario uno spazio del quale non posso disporre. Per questa ragione mi limiterò ad alcuni esempi, scelti tra quelli che mi sono sembrati più interessanti e significativi. Se la prostituzione è immaginata come manifestazione della vita sociale presente in molti contesti, è per lo meno probabile che il tipo di attività sessuale che associamo con maggior difficoltà al concetto di “mercenario” e che troviamo particolarmente difficile comprendere è quello che ha a che fare con la religione. Posso capire che per un cristiano mettere sullo stesso piano il sesso a pagamento con elementi del mondo metafisico e sovrannaturale sia cosa assolutamente blasfema, non è un caso che la nostra cultura sia complessivamente molto restia a discutere insieme di sacro e di profano. In realtà, in tempi molto lontani, in luoghi e in realtà storiche molto particolari, queste difficoltà non esistevano: ad esempio, nell’antica Grecia lo stesso atto sessuale era considerato un gesto portatore di una sua propria sacralità. In ogni caso la più profonda testimonianza di unione tra sessualità e religione la si trova nelle società nelle quali la prostituzione era considerata un elemento essenziale della venerazione degli Dei. Questo particolare modo di considerare la prostituzione era presente in alcune aree del Mediterraneo, in Asia Minore, nell’India meridionale e nell’Africa occidentale, ma certamente ha avuto il suo iniziale e più importante sviluppo in Mesopotamia. La storia di questa regione è certamente collegata alla fertilità prodotta dai due fiumi che la delimitano, il Tigri e l’Eufrate. Cinquemila anni prima di Cristo, alcune popolazioni provenienti dal basso-
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piano Sarmatico - la zona geografica che confina con il Danubio e con le coste settentrionali del Mar Nero - si spostarono alla ricerca di luoghi nei quali la terra fosse più fertile e giunsero così in questa nuova regione nella quale formarono inizialmente agglomerati urbani autosufficienti e isolati che finirono col collegarsi e col formare stati di proporzioni sempre maggiori, nei quali il controllo dell’economia, del lavoro e del commercio fu ben presto prerogativa della classe sacerdotale. Le conquiste di questa civiltà furono numerose e importanti: la ruota, l’aratro, l’irrigazione dei campi coltivati, la lavorazione della ceramica e dei metalli. Alla guida della regione si succedettero numerose etnie: i semiti di Ur e di Uruk, i Sumeri (che svilupparono la scrittura cuneiforme), gli Accadi, i Babilonesi, gli Assiri del Nord. Era comunque la religione il collante tra le differenti etnie, il fattore che dava continuità alle successioni al potere, e questo soprattutto perché era capace di controllare completamente la vita sociale e politica dei vari popoli. Così nel periodo delle città-stato dei Sumeri, ogni città apparteneva a una differente divinità: Ur a Nannar, Uruk ad An, Sippar a Utu, Enki a Eridu e Nippur a Enlil. Ogni divinità corrispondeva a qualcosa di molto concreto, di cui gli uomini avevano esperienza: Nannar alla luna, An al cielo, Utu al sole, Enlil al vento. In questo senso si poteva dire che ogni città era sacra, anche perché il centro della comunità era comunque il tempio e gli dei lo abitavano in quanto vi erano rappresentati dalle loro immagini sacre. Tutto quello che veniva prodotto dagli abitanti veniva consegnato al tempio e i sacerdoti si incaricavano di distribuire quanto non serviva agli dei. Si trattava evidentemente di una religione politeista, che vedeva alla cima della piramide del potere gli dei del cielo, del vento, delle acque e della terra, tutti rigorosamente di sesso maschile, con l’unica eccezione di Ninhursage, inizialmente adorata come dea della terra e successivamente divenuta una vera e propria Dea Madre, colei che era capace di esprimere tutto il suo potere generando il re. Scendendo dall’apice di questa piramide si incontrava una congerie di divinità minori che rappresentavano il sole, la luna, la stella del mattino, la pioggia e la guerra, dei certamente immortali ma non on-
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nipotenti. Costoro avevano creato gli esseri umani per delegare i compiti che ritenevano ingrati e ciò faceva degli uomini e delle donne gli schiavi ubbidienti degli dei. Secondo la tradizione, gli esseri umani tentavano disperatamente di comprendere la volontà dei loro padroni, ragione per cui aveva acquisito enorme importanza la divinazione: inevitabilmente la società si era impregnata di superstizione ed era del tutto asservita alla casta sacerdotale, dominata com’era dal timore di poteri spirituali invisibili che finivano col formare un mondo parallelo dal quale la vita reale riceveva messaggi simbolici di difficile interpretazione. L’importanza e il ruolo stesso delle varie divinità erano destinati a modificarsi nel tempo anche a seconda del potere acquisito dalla città che era sotto la loro protezione. Poteva anche accadere che una certa divinità cambiasse nome o che le toccassero nomi diversi nelle differenti aree della Mesopotamia, e non era infrequente la fusione tra due divinità simili. Fu probabilmente così che dalla crasi di Inanna, Ninhursaga e Enlil emerse una nuova, unica dea, Ishtar, che, nata nel periodo babilonese, passò senza particolari mutamenti al culto assiro, mantenendo inalterato il proprio potere. Le caratteristiche e i poteri di questa nuova dea erano naturalmente la somma di quelli delle dee che si erano fuse per darle vita: Ishtar acquistava poi particolare vigore dal fatto che l’unione tra diversi poteri la faceva nascere come una divinità composita che rappresentava l’amore in tutti i suoi aspetti: sentimentali, sessuali e procreativi. In lei infatti si sommavano i poteri della Dea Madre, Ninhursaga, con quelli di Enlil, il principio maschile della procreazione, e di Inanna, la divinità della bellezza e dell’amore fisico. L’importanza di questa divinità la si intuisce considerando il grande numero di miti che la riguardano e i poemi epici dei quali è protagonista. Il più noto di questi miti la vede discendere agli inferi per riportare in vita il suo adorato figlio (e amante) Tamur, minacciando ogni sorta di sciagura se non la lasceranno passare oltre la soglia sacra. Sua sorella Allatu, la divinità che regna sui morti, le concede di entrare, ma le impone di lasciare tutte le sue vesti e tutte le sue armi fuori dalla porta, inviando poi contro di lei ogni sorta di
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spiriti maligni che Ishtar sistematicamente sconfigge (non dimentichiamo che Ishtar è anche la dea della guerra). In tutto il tempo che trascorre negli inferi la terra non produce frutti, tutto appassisce e muore, gli animali non procreano, lo stesso mito della sterilità invernale che ritroveremo nel racconto che riguarda Demetra e Persefone; così gli dei impongono a Allatu di lasciarla tornare sulla terra e un tribunale degli inferi le concede di portare con sé Tamur e di rivestirsi di tutti i suoi ornamenti abituali, l’emblema lunare, il loto, la cintura sacra. È anche grazie alla diffusione di questi miti che il suo culto si diffonde in tutta l’area mediterranea: il nome cambia nelle varie aree geografiche, diventa Astarte in Grecia e a Canaan, Attar in Mesopotamia orientale, Astar in Abissinia, Ahtar in Arabia, Atergatis in Siria: ovunque rappresenta la forza della natura che dà la vita come madre di tutti, la dea della fertilità, per gli uomini e per gli animali, colei che apre l’utero e protegge le partorienti, la dea che favorisce l’amore sessuale e alla quale si rivolgono le prostitute per ottenere protezione. Ishtar ha però un doppio potere, può dispensare sia la vita che la morte: anche come Persefone ritorna ogni anno negli inferi e in sua assenza tutto il mondo si spegne e la natura sembra pervasa da un soffio di morte, è la stagione invernale che durerà solo fino al ritorno della dea, colei che apre di nuovo le porte alla vita: lo stesso concetto della mitologia greca, probabilmente lo stesso che si ritrova nel principio ispiratore della quaresima e del ramadan. Il ritorno della fertilità nella terra diventata sterile stabilisce l’immagine erotica e sessuale della dea, che interpreta tutti i mutevoli ruoli della femminilità e può essere madre, figlia, sorella, amante: viene addirittura venerata come “colei che accetta tutti”. Eppure in questa sua disponibilità totale non c’è mai sospetto di peccato: Ishtar agisce secondo la sua natura e la sua natura è questa, dove lei ama, lì deve concedersi, sempre e solo fedele a se stessa, mai realmente posseduta, destinata a restare vergine tra i suoi amanti, per quanto numerosi possano essere. Mi viene in mente che alcune dee greche particolarmente note per la loro vivacità e per non disdegnare la vita sessuale e la promiscuità erano definite dai greci
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come παρθένοι, vergini, perché non sarebbero mai state soggette al potere maschile. In questo quadro religioso alla donna era destinato un ruolo che potremmo definire tradizionale, perché è lo stesso che ritroviamo in altre parti del mondo a secoli di distanza, malgrado enormi diversità culturali e sociali. Si può comunque affermare che i suoi ruoli principali erano quelli di moglie e di figlia visto che di lei disponevano completamente il marito, il padre e, se restava vedova, il figlio maggiore. Era molto poco probabile comunque che potesse comportarsi da “persona” al di fuori della famiglia, perché non esisteva come individuo. Le ragazze venivano educate per essere pronte ad assumere i loro ruoli obbligati di moglie e di madre e imparavano a filare, a tessere, a cucinare, a macinare il grano e a produrre bevande che poi la famiglia metteva in vendita. Alcune di queste ragazze diventavano esperte nelle materie squisitamente femminili - come evitare le gravidanze, come curare la sterilità, come assistere a un parto, come procurare un aborto - ma una vera forma di indipendenza non veniva comunque mai raggiunta. Con l’arrivo della pubertà le ragazze venivano date in matrimonio e si trattava sempre di sponsali organizzati dalle famiglie: c’erano persino luoghi nei quali la figlia doveva andare sposa prima del menarca, poiché le mestruazioni venivano interpretate come fossero aborti e gli aborti erano cosa eticamente riprovevole. Nel codice di Hammurabi un notevole numero di leggi è dedicato al matrimonio e alla famiglia: il codice stabiliva, ad esempio, che una bambina o una ragazza promessa sposa entrava a far parte della famiglia del fidanzato e se costui moriva era tenuta a sposarne il fratello o un cugino. In effetti, la famiglia del promesso sposo la comprava, pagando una somma che avrebbe poi assegnato al marito pieni diritti sulla moglie. Se costei era sterile il marito aveva il diritto di divorziare e il ripudio della sposa era autorizzato dalla legge per molti comportamenti ritenuti scorretti o offensivi e che in casi estremi potevano essere anche puniti con la morte, una condanna che veniva prevalentemente eseguita dai famigliari stessi dello sposo che potevano teoricamente scegliere tra vari mezzi, ma quasi sempre
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sceglievano l’annegamento. Sul piano della libertà sessuale, le norme erano estremamente semplici: l’uomo era autorizzato ad avere rapporti extramatrimoniali, la donna scoperta in atto di adulterio veniva annegata in un fiume. In una condizione sociale che prevedeva sanzioni così severe per un tradimento è difficile comprendere come potesse avere spazio la prostituzione sacrale: in realtà esistevano piani diversi per i comportamenti etici, quelli concreti e quelli simbolici, e i due piani generalmente non collimavano: in ogni caso la sessualità rituale e religiosa, il cui controllo era affidato completamente alla casta sacerdotale e che era strettamente legata al sacro, aveva sempre la meglio. È evidente che le sacerdotesse che si concedevano nei templi potevano apparire, per chi aveva con la religione un rapporto diverso e non concepiva la possibilità di mescolare vita sessuale con la spiritualità, delle volgari prostitute, e non può essere un caso che il concetto di degradazione morale, nelle culture monoteiste, fosse associato a Babilonia. In realtà la prostituzione sacra non aveva niente a che fare con i comportamenti libertini né tanto meno con una particolare (e altamente improbabile) libertà delle donne: le sacerdotesse si limitavano a incarnare la dea in un luogo diverso dal resto del mondo, il tempio, e in un ambito completamente sacralizzato. Sotto la supervisione della dea, sacerdotessa e cliente si dedicavano a un gesto che aveva lo scopo di dimostrare devozione e che faceva parte del culto della dea stessa. La sacerdotessa era al servizio della dea e la incarnava lasciando all’amante il compito di adorarla in sua vece; gli uomini accettavano di rappresentare Baal, il toro sacro, il principio virile divino. La rappresentazione era sempre la stessa: il consorte amava appassionatamente la dea e ne riceveva in cambio amore altrettanto appassionato: il pagamento di un obolo era considerato molto semplicemente un’offerta rituale alla dea, niente a che fare con la conclusione inevitabile di un rapporto mercenario. Questa sessualità, duramente criticata da quasi tutti i popoli contemporanei, intendeva semplicemente onorare la dea come rappresentante dell’amore per tutte le cose create e come simbolo della generazione ed escludeva
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qualsiasi tipo di ricerca del piacere da parte delle persone coinvolte. Questo era vero sia per le sacerdotesse “serve” della dea sia per le donne che nei vari templi babilonesi e fenici giacevano con uno straniero, per una sola volta, prima di sposarsi. Naturalmente questa interpretazione della prostituzione sacra non era né compresa né accettata da chi apparteneva ad altre religioni. Eusebio (Chronicon, V libro), uno storico del III secolo, la considerava: “Una scuola di empietà per uomini dissipati… che ritenevano di dover onorare il loro dio con la lussuria più impura”. È invece vero che tutto questo rito era stato completamente sacralizzato. Le donne che erano entrate nei templi per viverci tutta la vita come sacerdotesse di Ishtar facevano parte di una gerarchia (le Entu, che erano in cima alla piramide e avevano la stessa dignità degli alti sacerdoti; le Naditu, di origine aristocratica, che avevano fatto la promessa di restare nubili e di non avere figli; le Quadishtu, che servivano nel tempio per periodi limitati; le Ishtaritu, specialiste nel canto e nella danza); alla base di questa piramide c’erano le donne che dedicavano alla prostituzione un solo giorno della loro vita e la cui estrazione sociale era molto diversa nelle diverse aree geografiche. Le sacerdotesse godevano di grande libertà, sia sociale che economica, e avevano un approccio più facile con la cultura, tutto secondo schemi che riproducevano quelli della casta dei sacerdoti. Quelle di loro che non avevano promesso di restare nel tempio per sempre, una volta tornate a casa facevano molta fatica ad adattarsi al tradizionale ruolo femminile ed erano considerate pessime mogli potenziali. Nella Mesopotamia del III millennio a.C. era annualmente praticata la ierogamia, che consisteva nell’unione sacra tra il re - che impersonava il Dio Dumuzi - e una prostituta, nelle vesti della dea Inanna, uno dei molti nomi di Ishtar e che in realtà simboleggiava l’unione tra il cielo e la terra. Il matrimonio si celebrava nel tempio e il rapporto sessuale tra i due sposi aveva lo scopo di assicurare la fecondità della terra e del bestiame e la prosperità del popolo e del paese intero. Scrive Fernando Henriques (Prostitution and Society. A survey. Vol.
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I, Macgibbon and Kee, Londra, 1962) che dovremmo distinguere tra due diversi tipi di prostituzione sacra, il primo relativo a donne che erano chiamate a concedersi a uno sconosciuto in una località considerata sacra (generalmente un tempio dedicato a una dea) e che poi si sposavano e conducevano una vita normale, il secondo riguardante donne che si dedicavano al servizio di un tempio come “prostitute sacre” per un certo periodo di tempo e, talora, per tutta la vita. Delle prime ha scritto Erodoto nel suo I libro facendo riferimento al tempio di Militta: “I babilonesi hanno una vergognosa tradizione: ogni donna nata nel Paese deve andare una volta nella vita al tempio di Venere e aspettare l’arrivo di uno straniero a lei sconosciuto con il quale congiungersi carnalmente. Le donne più ricche, troppo orgogliose per mescolarsi con le altre si fanno condurre nel tempio da carrozze chiuse, seguite dalla servitù, e lì aspettano di poter avere il loro incontro. La maggior parte delle donne se ne sta invece seduta all’interno della zona del tempio comunque considerata sacra, con la loro testa ben agghindata, e intorno a loro c’è sempre una grande folla di persone che va e viene, per semplice curiosità o perché cerca una ragazza di proprio gusto; ci sono corridoi che consentono a questa gente di camminare tra le ragazze e così è consentito a tutti di fare la propria scelta. Una volta che una donna si è seduta e ha scelto il proprio posto, non lo può più abbandonare e non può tornare a casa fino a che il rito non si è compiuto, uno straniero l’ha scelta, le ha gettato una moneta d’argento in grembo e l’ha condotta con sé fuori dall’area sacra. Per tradizione lo straniero le deve dire solo le parole «che la dea Militta ti sia benevola». Militta è il nome che Assiri e Babilonesi usano per indicare Venere. La moneta, quale che fosse il suo valore, non poteva essere rifiutata, la legge stabiliva che la donna doveva seguire quell’uomo e avere un rapporto con lui: soddisfatta la dea (e appagata la lussuria dell’uomo) la donna poteva tornare a casa e da quel momento non esisteva dono che la potesse comprare. Alcune donne erano alte, slanciate e molto belle e queste restavano poco nel tempio, gli stranieri facevano a gara per portarle fuori dal recinto; altre invece erano tanto brutte che nessuno le sceglieva e
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alcune di loro, si diceva, erano state costrette a restare nel tempio più di un anno prima di trovare un estimatore. Una tradizione molto simile a questa veniva rispettata in alcuni luoghi nell’isola di Cipro”. È bene ricordare che la testimonianza di Erodoto - priva com’è di riscontri nella documentazione cuneiforme - potrebbe essere del tutto inventata, un mito storiografico o una cattiva interpretazione del ruolo femminile nei culti della Mesopotamia. Scrive ad esempio Sergio Ribichini (Atti del II Congresso Internazionale del Mondo Punico, Cartagena, 2000) che se la prostituzione sacra avesse avuto un ruolo tanto importante nel culto di Babilonia, qualche documento a riprova dovrebbe pur esistere tra i tanti che sono stati trovati dagli archeologi. In realtà ad oggi non è stata trovata alcuna traccia né di questo tipo di prostituzione né di un meretricio organizzato e regolamentato nell’ambito dei Templi e dei loro culti. Come ho detto, il luogo dove si svolgeva questo commercio era il tempio dedicato alla dea della fertilità, Ishtar, che era attrezzato di alloggi e di terreni coltivati che dovevano sostenere una prestigiosa gerarchia femminile. È molto probabile che, al contrario di quanto sosteneva Erodoto, le prostitute sacre non si concedessero agli stranieri, una possibilità che era concessa alle prostitute vere e proprie che lavoravano nel tempio e nei postriboli della città, che per quanto ci è dato sapere erano le sole a concedere favori sessuali agli stranieri e che finalizzavano il loro lavoro (certamente non tutto il loro lavoro) alla raccolta di denaro utile per finanziare le attività del tempio. Le vere prostitute sacre erano strutturate in un complesso sistema gerarchico al cui vertice si trovava l’alta sacerdotessa, spesso la figlia del re, che personificava la dea Ishtar. Certamente un rapporto tra queste donne e la prostituzione sacra non esiste, o almeno non ne è mai stata trovata traccia nelle iscrizioni e nelle rappresentazioni artistiche: ci è noto che di queste prostitute “commerciali” ne esistevano tre tipi, le cosiddette “recluse”, le donne con abiti sgargianti e le donne con i capelli ricci ed è per lo meno probabile che Erodoto abbia descritto le prime, le recluse o shamkhat, che esercitavano la loro professione nel santuario. È anche molto probabile che queste donne, che dedicavano la propria vita alla dea, non scegliessero il
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loro destino ma se lo trovassero assegnato fin dalla nascita come “status” irrinunciabile. Comunque Erodoto non sembra particolarmente informato, non dice se queste donne sono vergini e nemmeno se le donne sposate debbono partecipare al rito. Sappiamo per certo però che a Heliopoli, in Fenicia, le ragazze vergini dovevano sacrificare la propria purezza con un rito molto simile. Ce lo racconta Socrate Scolastico detto anche Socrate di Costantinopoli - nella sua Storia Ecclesiastica: “Chi sia stato a scrivere le leggi per gli abitanti di questa città ci è ignoto, ma possiamo giudicare di quanta scarsa moralità fosse dotato considerando le pratiche che erano tenute a seguire i suoi cittadini: la legge stabiliva che le donne dovevano appartenere a tutti, con la naturale conseguenza che nessuno poteva sapere chi fosse il padre di questo o di quel bambino. Inoltre le loro vergini venivano offerte agli stranieri di passaggio”. Socrate non stabilisce, nel suo libro, quali fossero in realtà i rapporti tra questo tipo di prostituzione e la religione, ma la cosa risulta più chiara leggendo gli scritti di Salminius Hermias Sozomenus, un altro scrittore di storia della religione, che nella sua Historia Ecclesiastica scrive: “Gli abitanti di Heliopoli, la città che sorge vicino al monte Libano, e quelli di Aretusa, in Siria, commettono azioni di ancora maggiore crudeltà. I primi sono colpevoli di un atto di barbarie al quale sarebbe difficile credere se non esistessero testimoni diretti: spogliano le vergini sacre, quelle sulle quali nessuno ha ancora posato gli occhi, e le espongono nude perché siano oggetto di derisione. Poi, dopo aver inflitto loro altre forme di punizione, le rasano, aprono loro l’addome con un coltello affilato e inseriscono nella cavità addominale lo stesso cibo con il quale nutrono i loro maiali: portano poi le donne ancora vive nei porcili, dove gli animali divoreranno tutto insieme, i loro alimenti abituali e l’intestino delle povere donne. Sono convinto che questo barbaro costume rappresenta un atto di vendetta nei confronti del divieto di costringere le vergini della città a prostituirsi alla vigilia delle nozze, una tradizione religiosa che era stata proibita da Costantino contemporaneamente alla distruzione del tempio di Venere (sulle cui rovine aveva fatto costruire
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una chiesa)”. Sembra dunque evidente che anche le vergini fenicie dovevano essere deflorate da uno straniero e che questo atto barbaro doveva precedere il loro matrimonio, un sacrificio fatto in onore di Venere. Claudius Allianus, lo storico che scrisse Varia Historia nel III secolo dopo Cristo, riferisce dell’esistenza di un rito molto simile in Lidia dove, come a Heliopoli e a Militta, le ragazze venivano costrette a un singolo atto di prostituzione, dopo il quale erano tenute a mantenersi caste fino al matrimonio. Una legge analoga era osservata dagli Amoriti, antichi abitanti della Palestina e della Siria che abitavano anche vaste aree della Babilonia (fondarono la prima dinastia di Babele) e altre conferme della diffusione della prostituzione sacra si trovano in alcuni apocrifi del vecchio testamento e nella Vita di Costantino scritta da Eusebio. Sembra che gli Amoriti costringessero le loro donne a prostituirsi per una intera settimana prima del matrimonio, e Strabone nella sua Geografia scrive che questo periodo era ancora più lungo tra gli Armeni: “I sacri riti in onore di Anaitis sono tenuti in gran conto dagli Armeni che hanno costruito grandi Templi in suo onore, soprattutto in Acisilene, dove sono dedicati al suo servizio schiavi di ambo i sessi. Questa tradizione non ha in sé alcunché di speciale, in molte città della Grecia hanno avuto spazio abitudini del tutto simili: ma in Armenia gli uomini più importanti delle tribù usano consacrare alla dea le loro figlie quando sono ancora vergini ed è costume che queste ragazze si prostituiscano a lungo nei templi che le sono dedicati prima di sposarsi… E le giovani donne si scambiano regali con gli uomini che le hanno scelte e si tratta spesso di doni sontuosi: va detto che queste giovani donne non accettano qualsiasi uomo si presenti al loro scranno e pretenda di fare sesso con loro, esigono uomini del loro stesso rango sociale”. Questa prassi esiste anche nella Lidia, come testimonia una iscrizione trovata a Tralle che racconta la storia della vita di una donna di nome L. Aurelia Aemilia. Come ho già ricordato, Erodoto, dopo aver descritto quanto, a suo avviso, accadeva in Babilonia, nei santuari dedicati a Militta, ag-
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giunge che: “Un costume del tutto simile vige anche in alcuni templi dedicati alla dea a Cipro”. Ora, come è ben noto, Cipro è la terra di Afrodite, la dea lussuriosa e adultera, e nei miti greci è anche il luogo indicato come patria della prostituzione. Esistono numerosi miti che riguardano Cipro e che raccontano come il meretricio ebbe inizio, collegandone l’origine alla vita di personaggi femminili dell’isola e interpretando la serie di eventi che mescolavano la storia della dea con quella delle eroine cipriote e con la nascita della prostituzione come una sorta di punizione divina. Apollodoro (Bibliotheca) scrive, ad esempio, la sua personale versione della storia di Cinira, re di Cipro: “Che ebbe l’ardire di trasferire le lascive orge di Afrodite dalla notte al giorno, per soddisfare la sua ambizione del momento, che era quella di divinizzare una sgualdrina della sua isola”. La storia dunque presenta Afrodite come una meretrice di Cipro, certamente una delle tante, della quale il re dell’isola si è talmente preso da volerla innalzare al rango di una dea e da edificarle uno dei templi più famosi dell’intera Asia. La leggenda ha in seguito trovato conferma negli scritti di un buon numero di scrittori cristiani, tra i quali Clemente, Arnobio, Firmico Materno e Lattanzio. Scrive Giovanni di Capua (Le puttane degli dei, Ed. Scipioni, 1998) che in Armenia la prostituzione sacra era dedicata a una divinità chiamata Anaitide, alla quale venivano dedicati santuari simili a quelli babilonesi, circondati da mura, organizzati al proprio interno in modo da poter ospitare quanti intendessero dedicarsi al culto della dea. Al tempio potevano accedere solo forestieri ai quali soltanto veniva concesso quell’amore sacro, richiesto in nome dell’ospitalità. Chi veniva accolto doveva offrire un dono che veniva ricambiato con un regalo di valore almeno pari a quello ricevuto. Sacerdoti e sacerdotesse venivano scelti tra le famiglie più importanti e restavano nel recinto sacro un tempo che veniva stabilito con un accordo tra l’alto sacerdote e la famiglia: quando lasciavano il tempio non portavano con sé niente di quanto avevano ricevuto, tutto era devoluto al culto di Anaitide. Le sacerdotesse godevano di un prestigio tanto maggiore quanto più alto era il numero di forestieri ai quali si erano concesse ed era
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motivo di orgoglio per un uomo poter sposare una di loro: chi si accingeva a questo passo si informava presso il tempio - che evidentemente teneva il conto di tutto quanto avveniva entro le sue mura del numero di stranieri che l’avevano scelta, perché questa scelta era considerata un atto di omaggio alla sua bellezza e alla sua capacità di piacere. Secondo Strabone, essere ammessi al sacro culto di Anaitide non era facile: le ragazze venivano selezionate in base ai canoni estetici del tempo e dovevano dimostrarsi idonee alla intensa vita sessuale che le attendeva. Una parziale conferma ci giunge invece da Giustino, uno storico romano che racconta di un tipo di prostituzione che si svolgeva in particolare a Cipro, e che doveva servire a chi la praticava per procurarsi il denaro necessario per avere una dote e potersi sposare. Giustino scrive di vergini che venivano inviate sulla riva del mare “dotalem pecuniam quaesituras”, un meretricio dunque i cui proventi andavano direttamente alle donne e non al tempio. L’incontro con il “cliente” non si svolgeva nel tempio, ma sulla riva del mare, ma questo non toglieva nulla alla sacralità dell’incontro sessuale: erano chiaramente stabiliti i giorni nei quali il rapporto doveva aver luogo (virgines ante nuptias statutis diebus, precisi giorni precedenti le nozze) ed era chiaramente stabilito che con quel gesto le ragazze si liberavano dell’obbligo previsto nei confronti di Venere e si assicuravano una vita onesta per il resto dei loro giorni (pro reliqua pudicitia libamenta Veneri soluturas). Il riferimento alla riva del mare fa in effetti pensare che gli stranieri fossero in effetti marinai che sostavano nell’isola e lo stesso Giustino ne accenna ricordando che a Cipro si fermò Didone con i suoi, quando era in fuga da Tiro dove il fratello Pigmalione le aveva ucciso il marito Sicheo. Secondo questo racconto Didone fece rapire un centinaio di queste giovani donne per poter dare una compagna ai giovani fenici che l’avevano seguita in esilio e per non privare di un futuro Cartagine, la città che si accingeva a fondare. Luciano di Samosata, nel De Dea Syria, un testo del II secolo, racconta di una singolare variante della prostituzione sacra che esisteva in una città della Fenicia, Byblos, dove ogni anno si organizzava una
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festa onore di Adone. Ricordo a quei pochi che non l’hanno presente, che il mito di Adone, figlio del rapporto incestuoso tra Mirra e il padre di lei Cinira, ucciso da un cinghiale aizzatogli contro da Ares per aver trasgredito a una decisione di Giove, è stato oggetto di culto in varie parti della Grecia, e che il suo mito è connesso con quello del tutto simile raccontato in varie parti della Fenicia. Ed ecco il racconto di Luciano: “Ho visto nella città di Byblos un grande tempio innalzato in onore di Venere nel quale si celebrano cerimonie in onore di Adone. I cittadini di quella città affermano che quello che accadde ad Adone a causa della bestia che lo uccise si verificò proprio lì, nella loro città, e che in memoria di quel fatto gli abitanti ogni anno si battono il petto e si lamentano e tutta la contrada è in lutto. E quando tutto quel piangere e battersi il petto è alla fine, dapprima fanno delle offerte, come se fosse morto, ma poi il giorno dopo fanno finta che sia vivo e lo portano fuori, all’aria aperta, e si rasano del tutto la testa come fanno gli egiziani quando muore Apis. Ma tutte le donne che rifiutano di rasarsi debbono fare una penitenza e per un giorno intero vendere la propria bellezza e il proprio corpo. Questa offerta vale solo per gli stranieri e il denaro guadagnato con la prostituzione viene dato tutto al tempio di Venere come offerta alla dea”. Nota Fernando Henriques che queste donne che si prostituivano erano donne libere, non erano sacerdotesse e non erano persone consacrate alla dea, e che la loro prostituzione era sacra in quanto serviva per pagare un’ammenda alla dea, ammenda dovuta al fatto di essersi rifiutate di farle cosa grata. Così il loro atto sessuale, che aveva coinvolto uno straniero, faceva guadagnare al santuario il denaro necessario per la loro sopravvivenza e in questo senso quel rapporto aveva una precisa connotazione sacra. È possibile che questa usanza rappresentasse la continuazione di pratiche più antiche - probabilmente modificate dal tempo - che riguardavano Astarte e che costringevano le donne a prostituirsi al servizio della dea. È bene ricordare che in effetti la divinità siriaca assimilata ad Afrodite era Atargatis, una dea che condivideva molti tratti con altre divinità Canaanite come Anat, Asherah e Ashtarte.
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Non è chiaro a quale ceto queste donne potessero appartenere né è chiaro da quali famiglie provenissero le sacerdotesse prostitute. Alcune testimonianze, relative soprattutto al culto che si teneva a Locri, fanno ritenere che alle giovani donne dell’aristocrazia fosse proibito impegnarsi in una attività che donne di ceto inferiore potevano svolgere nei lupanari, e che queste sacerdotesse/prostitute appartenessero a caste inferiori e soprattutto alla schiera delle schiave. Altre fonti fanno invece intuire che queste donne svolgessero un ruolo assimilabile a quello di “matrona della casa”. Una famosa scultura in marmo, il cosiddetto Trono Ludovisi, è stato indicato da vari studiosi come proveniente da fabbriche artigiane della polis di Locri Epizefiri e potrebbe provenire dal tempio di Afrodite, all’interno del quale costituiva il parapetto del bothros, la cavità scavata nella terra attraverso la quale era possibile comunicare con i defunti o con le divinità sotterranee. Cosa rappresenti questa opera e chi l’abbia realmente costruita è questione insoluta, ma una delle interpretazioni più accettate propone che raffiguri nella parte centrale Afrodite che nasce dalla spuma del mare e viene aiutata a uscire dall’acqua da due ancelle, mentre sui lati del bassorilievo appaiono una suonatrice di flauto adagiata su un cuscino e una donna rivestita da un manto intenta a deporre incenso in un braciere. Dunque l’etera-sacerdotessa poteva essere vista come una donna colta, erudita, votata all’amore, in piena armonia con la sua seconda figura, l’altra, morigerata, ammantata, spargitrice di profumi. Ma che a Locri Epizefiri esistesse una prostituzione sacra che aveva luogo nel tempio dedicato alla dea dell’amore lo confermano molte altre testimonianze. Ne ha scritto Clearco, un filosofo peripatetico cipriota vissuto tra il IV e il III secolo che ha descritto in molte occasioni gli aspetti emergenti delle culture orientali. Clearco ha descritto le varie forme di prostituzione rituale e non rituale che esistevano non solo nella sua isola, ma anche nella Lidia e in varie città della Magna Grecia e in particolare a Locri Epizefiri. Egli spiegava che la prostituzione sacra che aveva luogo nei templi aveva carattere abituale, che la clientela che si recava nei templi per aver rapporti sessuali con quelle particolari prostitute era costituita da stranieri e
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che la continuità di quel “servizio” era assicurata da un certo numero di donne di estrazione sociale molto bassa che erano convinte di partecipare a un rito e di sacrificare in nome della dea. Nell’antico Egitto la prostituzione sacra era altamente apprezzata soprattutto se aveva un carattere generativo e in un contesto religioso del tutto diverso. È bene sottolineare anzitutto che in quel Paese e in quell’epoca la condizione femminile era certamente la migliore del mondo. Le donne avevano uno status sociale elevato e la società era di tipo matrilineare, era addirittura abbastanza frequente che i passaggi di proprietà ereditari avvenissero attraverso la linea femminile. Le donne potevano partecipare alla vita politica, amministrare i propri beni e scegliere da sole chi dovesse essere il compagno della loro vita e gran parte del rispetto che veniva loro riservato era in relazione alle loro capacità procreative, che oltretutto erano considerate un mistero che le collegava con il mondo delle divinità. Per questo motivo l’attività sessuale aveva assunto un carattere mistico e la prostituzione era una professione molto rispettata. Che le donne si prostituissero perché traevano dall’attività sessuale un vantaggio economico è probabile, ma non esistono documenti che lo provino: si trattava comunque di una società fortemente sessualizzata, convinta tra le altre cose che il sesso avrebbe continuato ad allietare uomini e donne anche dopo la morte e che dava un grande valore alla fertilità. La mitologia religiosa era uno specchio quasi fedele di questa società: essa rifletteva un equilibrio tra divinità maschili e femminili, con qualche inevitabile contraddizione dovuta agli altrettanto inevitabili conflitti di genere. La perfetta parità tra i due sessi rifletteva il loro concetto dell’esistenza di un equilibrio universale perfettamente armonico che non riguardava solo la terra e il mondo dei vivi, ma anche il pantheon degli dei. Uno dei più antichi miti sull’origine del mondo aveva come protagonista Atum, unico essere esistente in tutto l’universo, considerato nell’atto di dedicarsi all’unico atto creatore consentito a un uomo in assoluta solitudine, quello della masturbazione: la mano di Atum, artefice di tutte le creazioni umane, simbolo del potere creatore della mente, con l’evolversi della teologia egizia divenne il
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simbolo dell’elemento femminile contenuto nella mente del Dio e venne identificata con la dea Lusaas, divenuta poi madre di Shu, il dio che rappresentava l’atmosfera luminosa, la luce e l’aria, e Tefnut, la divinità che indicava soprattutto l’umidità. Da questa prima coppia vennero poi generati Geb e Nut, il dio della terra e la dea del cielo. Gli Egiziani sacrificavano a un grande numero di divinità, molte delle quali erano femminili; la stessa dea interpretava ruoli che mutavano nel tempo, soprattutto perché alla maggior parte di esse toccava il compito di assorbire e inglobare divinità simili (ma generalmente non identiche) che venivano adorate nei paesi limitrofi. Iside, ad esempio, moglie di Osiride, era nota come la benefica Dea Madre ed era considerata colei che concedeva la vita e nutriva i trapassati; Ma’at era invece la dea dell’ordine e della verità, colei che controllava l’equilibrio del cosmo e che si era creata da sola nel momento in cui il mondo era iniziato. Venuta sulla terra per portare la verità e la pace era anche colei cui spettava il compito di pesare, negli inferi, il cuore degli uomini, mettendo su uno dei due piatti della bilancia la sua piuma. Senza l’ordine imposto da lei, credevano gli Egiziani, tutto sarebbe tornato al caos primordiale. Questa capacità di amministrare insieme amore e morte apparteneva anche a Hathor, spesso raffigurata anche come una mucca dalle corna lunghissime, colei che governava l’amore, la protettrice delle donne, la dea della felicità. Questa duplice personalità era comune anche alle dee minori: Anquet, una divinità assorbita dalla religione dominante nel Sudan, dea dell’acqua e della lussuria; Bastet, conosciuta come dea del fuoco, dei gatti, della casa e delle donne in gravidanza, docile e gentile nel suo ruolo di protettrice della casa, e aggressiva e feroce nelle battaglie; Neith, dea della guerra e della tessitura; Qetesh, dea della natura, dell’estasi sacra e del piacere sessuale, ma capace di assumere il ruolo vindice di Hathor, alla quale veniva spesso assimilata. Agli occhi degli antichi egizi queste dee rappresentavano tre figure femminili fondamentali, la guerriera, la madre e la prostituta. Le dee guerriere erano capaci di distruggere la vita, cosa che facevano con terribile ira, ma mai per odio personale: uccidevano per conservare l’esistenza quando la consideravano minacciata, e pertan-
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to il loro scopo era quello di difendere quello che era stato generato. La Dea Madre era la più amata dai fedeli ed era definita in primo luogo dalla sua capacità di partorire (e successivamente di sostenere e nutrire, attività equivalenti a quella di proteggere il popolo). Ne era esempio Iside, che rappresentava le virtù generative espresse al massimo grado e che gestiva il ruolo di colei che dona la vita. Che poi potesse esistere una divinità definita come protettrice delle prostitute e delle amanti, dipendeva dal fatto che gli egiziani godevano della vita sessuale in modo libero e aperto. Le giovani donne non sposate avevano normalmente rapporti sessuali liberi, un costume dal quale dipendeva la difficoltà di identificare la paternità dei nuovi nati e che costringeva la società ad organizzarsi in senso matrilineare. La prostituzione, poi, non solo era accettata, ma era anche molto apprezzata e le prostitute godevano di uno status sociale elevato: la loro attività veniva percepita come una sorta di rito sacro, capace di compiacere gli dei soprattutto nel momento in cui consentiva di concepire e le prostitute erano nell’insieme considerate come una sorta di sacerdotesse. La prostituzione sacra e generativa era talmente onorata che persino Iside le veniva mitologicamente collegata al punto da essere definita una prostituta di Tiro. Contrariamente a quanto accadeva in altri luoghi, in Egitto la prostituzione sacra era riservata alle figlie dei nobili e gli stranieri pagavano il loro obolo direttamente al tesoriere del tempio che lo utilizzava interamente per i bisogni dei sacerdoti e il pagamento dei salari. Altrove una parte di questo denaro (o persino tutto l’obolo versato dallo straniero) andava alle donne, spesso per essere utilizzato per formare la dote necessaria perché si potessero maritare. A Erice c’era una particolare festa dedicata a Venere che veniva chiamata αναγώγία, l’imbarco: Venere partiva per la Libia, imbarcandosi su una nave scortata da colombe che sparivano per nove giorni. Al loro ritorno si faceva una nuova festa, la κατάγωγη, il ritorno in porto, e la dea tornava nel suo tempio. Queste festività descrivono in effetti un rapporto rituale tra Erice e il santuario africano di Sicca-Veneria, un altro luogo celebre dedicato al culto di Venere Ericina. Scrive Valerio Massimo (Factorum et dictorum memorabilium, IX)
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che in quel tempo le donne puniche praticavano un tipo di prostituzione sacra svolta in un contesto pre-matrimoniale: le ragazze in età da marito si recavano nel tempio e raccoglievano il denaro necessario per la dote concedendosi a sconosciuti. Erano donne libere che, per il fatto di iniziare il loro viaggio nella prostituzione a partire dal santuario della dea immaginavano di procurarsi il denaro in suo nome. Anche questo tipo di meretricio non era esercitato regolarmente e l’incontro sessuale non avveniva nel tempio, il che rende questa consuetudine diversa da quelle che consideriamo parte della prostituzione sacra. Testimonianze relative alla prostituzione sacra si trovano anche negli scritti degli autori cristiani. Sant’Atanasio, vescovo di Alessandria, nella sua Apologia contro i pagani scriveva che: “Un tempo in Fenicia le donne si prostituivano pubblicamente nei templi offrendo loro le primizie del loro corpo. Pensavano, con quell’atto di prostituzione, di placare la loro dea e di renderla favorevole”. Sembra un’affermazione di un uomo molto sicuro di quello che dice, ma in realtà non è proprio così, visto che non ci sono precisi riferimenti ai luoghi nei quali questi riti si svolgevano né sono riportate le fonti. Eusebio di Cesarea, nella sua Vita Constantini, dà merito all’esercito imperiale di aver messo fine alle pratiche dissolute che avevano luogo nel tempio dedicato ad Afrodite, sul monte Libano, dove erano state documentate perversioni di ogni genere - commerci sessuali illegali, adulteri, atti ignobili e immorali - come era inevitabile che accadesse in un luogo privo di leggi e di controlli. Sozomeno, nella Historia Ecclesiastica, conferma tutto e aggiunge che grazie a Costantino era stato vietato alle vergini di prostituirsi prima del matrimonio. In effetti tutte le diverse forme di sessualità rituale collegate alla sacralità di una dea rappresentano una congerie di riti della fertilità nei quali le forze riproduttive della natura sono personificate e adorate. La grande Dea Madre cambia il suo nome a seconda delle tradizioni e della religione delle differenti civiltà: Venere, Astarte, Ishtar, Astoreth, Iside, Afrodite, sono sempre la stessa Dea, adempiono sempre e ovunque alle stesse funzioni. A Hierapolis, la città della Frigia che dominava la valle del fiume Lykos sulla strada che collega-
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va l’Anatolia al mar Mediterraneo, il grande baccanale religioso si chiamava Letoia perché era dedicato a Lete, la Dea Madre del luogo, il cui culto era diffuso in gran parte dell’Asia minore, dove la Dea era adorata con nomi molto simili e veniva accreditata di poteri praticamente identici. Questa divinità copulava con i suoi amanti Adonis, Tammuz - in un rito che si ripeteva ogni anno e che era necessario per la rinascita (o forse meglio dire il risveglio) della natura e il ritorno della fertilità: ogni anno l’amante moriva per poi rinascere nel rapporto sessuale; ogni anno gli alberi davano i loro frutti per poi morire e rinascere ancora. Le interpretazioni della prostituzione sacra che veniva imposta alle giovani vergini per un limitato periodo di tempo sono diverse e probabilmente ne esistono di specifiche per ogni cultura. In qualche modo la giovane donna chiamata a sacrificare la propria verginità imitava il comportamento della dea, eseguendo il rito che assicurava la fertilità della terra e la riproduzione degli animali e rendendo fertile anche il proprio grembo. Il sacrificio fatto dalle ragazze babilonesi a Mylitta suggeriva invece una sorta di “rito di passaggio”, l’iniziazione alla vita sessuale, l’ingresso dell’adolescente nella vita adulta. Queste iniziazioni puberali avevano un notevole rilievo in molte società, con connotazioni naturalmente diverse (ad esempio non in tutti i luoghi il rituale esigeva la deflorazione). In realtà, la lacerazione dell’imene ha avuto molto frequentemente connotazioni mistiche, nelle quali si mescolava la paura, la magia e il timore del sovrannaturale. Una delle più frequenti forme di superstizione associa l’idea del sangue versato a seguito della deflorazione con quella del sangue mestruale, notoriamente carico, in quasi tutte le culture, di significati magici, prevalentemente negativi. Ebbene, in modo molto simile anche il sangue della deflorazione è stato considerato velenoso (in alcune parti dell’India veniva addirittura usato per uccidere la donna rivale) sino al punto da ritenere necessario evitare allo sposo il rischio legato al primo rapporto sessuale e cercare un sostituto disposto a esorcizzare questo pericolo affrontandolo in prima persona. Questo comportava rituali di vario genere nei quali la deflorazione veniva eseguita meccanicamente e il primo rapporto
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veniva affidato al re, al capo della tribù, a un sacerdote, a uno sciamano o a uno straniero. In altre culture la deflorazione era un evento pubblico che veniva affidato a un certo numero di persone che si davano il cambio per suddividere il rischio. Erodoto, nelle Storie, scrive dell’esistenza di un privilegio reale a deflorare le vergini che sono in procinto di accasarsi, in uso presso i Libici Adimarchidi, ed è possibile che una usanza del genere esistesse anche in Mesopotamia. Secondo alcuni antropologi la degenerazione di questi rituali arcaici e il fatto che la verginità fosse collegata a un tabù molto forte sarebbero responsabili della comparsa dello ius primae noctis nel nostro Medioevo, ma sappiamo che la diffusione reale di questo diritto è in realtà molto incerta. Lo stesso Erodoto, sempre a proposito di una popolazione libica, i Nasamoni, scrive che era usanza di questo popolo che le loro spose passassero la prima notte di nozze con gli invitati al banchetto, i quali erano naturalmente tenuti a ricompensarle con doni adeguati. Pomponio Mela (Chorographia) racconta di un rito molto simile a proposito di una differente popolazione libica e Diodoro Siculo scrive addirittura che nelle isole Baleari gli ospiti entravano nel letto della sposa in ordine di anzianità. È opinione diffusa che queste abitudini siano state in realtà molto più diffuse di quanto si ritenga. Ad esempio, nei viaggi di esplorazione è capitato a molti europei di vedersi offrire, da parte di indigeni che abitavano in varie parti del mondo, le loro mogli. Questa storia è ben esemplificata dall’esperienza dei Portoghesi i quali, giunti sulla costa di Malabar, furono sollecitati da quegli abitanti a deflorare le loro spose e ricevettero richieste simili da parte di numerose giovani vergini in cerca di marito, timorose di non riuscire a trovarne uno se uno straniero di buon cuore non avesse provveduto a liberarle di quell’ostacolo meccanico, l’imene. È certamente possibile che lo stato sociale delle prostitute nel mondo antico fosse influenzato notevolmente dal loro rapporto con la religione, e che alcune forme di prostituzione rituale fossero un elemento residuale della primitiva forma di comunione sessuale che è stata certamente l’abitudine nelle società più antiche; una seconda
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interpretazione collega invece la prostituzione sacra, o almeno quella prostituzione che esigeva che il rapporto sessuale avvenisse con uno straniero, con il costume presente in alcuni clan di costringere parte delle loro donne a sposare uomini di gruppi diversi da quello in cui erano nate e cresciute. Debbo anche dire che parlare esclusivamente dei tempi antichi è limitativo: il cortigianato sacro vive ancora nell’India meridionale, in alcune popolazioni Ewe lungo la costa degli schiavi tra gli Akikuyu dell’Africa Orientale e nelle popolazioni Tsi della Costa d’Oro. Johanna H.Stuckey (Ancient Mother Goddesses and Fertility Cult, Journal of the Association for Research on Mothering, 2005, 7/1, 32) non crede a questa immagine della prostituzione sacra e accusa la cultura tradizionale maschile di essere incapace di immaginare un ruolo culturale per le donne dei tempi antichi che non sia in qualche modo connesso con la vita sessuale. L’autrice ricorda come molti dei convincimenti in proposito si siano basati sulla Bibbia ebraica su autori di libri di storia come Erodoto, Strabone e Luciano, e sui primi scrittori cristiani. In realtà, ammette, molte attività rituali del Mediterraneo orientale avevano a che fare con la promozione della fertilità della terra ed è possibile che in questo contesto, in luoghi come la Mesopotamia e la Siria, i “sacri matrimoni” coinvolgessero sacerdotesse che dopo le nozze si congiungevano carnalmente con il Re. L’assunto secondo il quale la prostituzione sacra non fosse solo una realtà storicamente dimostrata ma si svolgesse nel contesto dei riti di fertilità sembra preso di sana pianta dalla Bibbia degli ebrei che associa deliberatamente il termine qe deshah (donna consacrata) a zonah (prostituta). Naturalmente la maggior parte degli studiosi non fece sforzo alcuno per distinguere tra sesso rituale e sesso a pagamento e in ogni caso non afferrò il principio secondo il quale se il sesso rituale produceva una offerta di denaro al tempio non si poteva certamente parlare di prostituzione. L’associazione non casuale e forzata tra i due termini, donna consacrata e prostituta, compare più volte nel Deuteronomio, un testo particolarmente nazionalista e molto ostile alla religione dei Canaaniti, che attribuisce deliberatamente la qualifi-
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ca di prostitute alle numerose sacerdotesse che lavoravano nei templi dedicati a divinità femminili. Un problema molto simile riguarda la Siria, come risulta dagli archivi di Ugarit che documentano l’esistenza di riti religiosi molto simili a quelli dei Canaaniti. Nei loro templi lavoravano con varie funzioni molte donne, ma non c’è ragione alcuna per immaginare che si trattasse di prostitute, una ipotesi del tutto ingiustificata. Nella liste delle persone che lavoravano in quei templi il termine semitico Kharimtu, usualmente tradotto come prostituta, si trovava spesso scritto vicino all’elenco del personale femminile ed era quasi naturale che le donne il cui nome era inserito in questi documenti ne uscissero malconce. I termini semitici che sono stati tradotti come “prostituta sacra” sono Naditu, Quadishtu e Entu. Non ci sono prove che ai primi due si possa associare un riferimento ad una vita meno che casta; diverso è il caso di Entu, la “donna che è dea”, una sacerdotessa che avrebbe potuto interpretare Inanna e avere un rapporto rituale con il re. Queste funzionarie del tempio godevano di un altissimo prestigio sociale e dovevano ubbidire a leggi che imponevano loro regole etiche di comportamento molto rigide: ne consegue che qualsiasi cosa fossero, certamente non erano prostitute. È vero, d’altra parte che per un certo periodo di tempo - probabilmente per alcuni secoli - in Mesopotamia il “matrimonio sacro” fu un importante rito religioso: il re, partecipando al rito, diventava il consorte di Inanna, con la quale condivideva l’immenso potere sulla fertilità e che lo associava a sé facendolo partecipe della sua divinità. D’altra parte non esiste alcun riferimento scritto, nessun documento, nessuna iscrizione che ci racconti cosa accadeva tra il re e la sacerdotessa dopo il matrimonio, nella stanza da letto nella quale, probabilmente, si ritiravano, probabilmente senza testimoni, una stanza da letto che non è mai stata descritta e che, sempre molto probabilmente, non conteneva altalene. E poiché non sappiamo nemmeno se gli attori di quella rappresentazione erano esseri umani o statue, dobbiamo limitarci a ritenere “almeno possibile, se non probabile” che si trattasse del re e di una Entu. Spero che i lettori abbiano notato il gran numero di volte in cui sono stato costretto a
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scrivere “probabilmente”. Secondo Johanna Stuckey in quella stanza da letto c’era veramente Enanna, presente in prima persona per vivere quella esperienza vivificatrice nel corpo di una medium, una donna, forse una sacerdotessa, che entrava in trance che le consentiva di entrare nel suo corpo per essere protagonista del rito; nello stesso modo si può pensare che anche il re rendesse disponibile il proprio corpo del quale poteva così impadronirsi il dio Dumuzi. Del resto, esempi di questo genere ce ne racconta persino l’Antico Testamento: nel primo libro di Samuele (8:3-25) la cosiddetta maga di Endor, colei che evoca lo spirito di Samuele su richiesta di Saul (una donna che, almeno nella tradizione rabbinica, si chiama Zefania ed è la madre di Abner, il comandante dell’esercito di Saul) è una medium. Nello stesso modo dovevano essere delle medium le sacerdotesse dell’oracolo di Delfi e le Menadi devote a Dioniso, e medium (quasi tutte donne) ne esistono in alcune religioni. Se questo era il caso, la donna che impersonava Inanna doveva godere di un prestigio realmente eccezionale, perché era stata la stessa dea a sceglierla. Insomma, niente prostituzione, ma semplice devozione religiosa e ubbidienza al volere della dea, le prostitute che lavoravano nei templi o in connessione con un luogo sacro erano una cosa ben diversa, tanto diversa da non meritare nemmeno un commento. La cosa strana è che queste stesse cose le diceva molto tempo fa Niccolò Tommaseo nel suo Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua Italiana: “Le prostitute nei templi pagani per atto di devozione, meretrici non erano; e si credevano per opera meritoria”.
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Introduzione: il gioco e il sacro
La distanza dalla natura non è grave, ogni civiltà prende distanza dalla natura; ma l’assenza di un Cosmo non è sostituibile da un fatto sociale G. De Santillana
Che senso ha scrivere una storia dell’altalena, richiamarne i significati sacri, gli usi visionari, le ascendenze mitologiche? In fondo è solo un gioco, un innocente passatempo per bambini che però, qui sta l’arcano, mai lascia indifferenti, sempre turba l’anima in modo inspiegabile. Forse è perché viene da un tempo lontano, quando le distanze tra l’umano e il divino non erano, come oggi, incommensurabili, e quel gioco simboleggiava la loro congiunzione: una pratica estatica, per rigenerarsi al cospetto della zōé. Nell’antica Grecia zōé significava Vita, senza nessuna caratterizzazione ulteriore e senza limiti: esistenza incondizionata. E questa zōé, che non ha contorni e neppure definizioni, ha il suo sicuro opposto in thánatos, la morte. Ciò che in zōé risuona in modo certo e chiaro è «non morte»: qualcosa che non la lascia avvicinare a sé; da questo Bataille vedrà nell’erotismo l’affermazione della Vita sino dentro la morte. Una declinazione di zōé è anche «tempo dell’essere» - chrónos toû eînai - non nel senso di un tempo vuoto ed immobile in cui l’essere entra e rimane fino alla morte, bensì come continuum dell’esserci, in cui le vite caratterizzate, le singole bíos, trascorrono; e così la Vita passa attraverso queste singolarità poiché ha bisogno di ognuna di esse, della loro irripetibile unicità, per continuare ad esistere: ex-sistere, cioè ergersi saldamente in fronte alla morte. Prima che il pensiero razionalizzante creasse l’Occidente con i suoi idoli ed i suoi dei, l’ebbrezza di vivere prevaleva sul controllo dell’esistere, e l’altalena era un modo per percorrere il bordo del vortice estatico. A quel tempo governava il nostro mondo una sola Grande Dea: Lei rappresentava il culto universale della Vita, che includeva la luna 37
ed il sole come manifestazioni della sua sfera di influenza. Questa religiosità agricola, sorta nel Mediterraneo e in Asia minore dai semi del neolitico, aveva al centro la figura, una e insieme polimorfa, della Potnia; dŏmĭna di tutto e di tutti, era legata ai cicli delle stagioni e alla fertilità della terra come a quella delle donne, le sue «piccole potnie». La religione preellenica era, allora, la religione del «femminino eterno» di cui la Terra Madre è il macrocosmo mirabile, mentre le singole donne rappresentavano tanti meravigliosi microcosmi che nella loro intima vita ripetevano la immensa vita di Gaia. Era per Lei che ci si inebriava, ci si accoppiava, se ne cercava la visione balzando sull’altalena formata dalle corna del toro; altre movenze del corpo erano gesti sacri e visionari a Lei dedicati: la «danza del ventre», le acrobazie, i dondolamenti dai rami. Con l’avvento della cultura greca la potenza di questa Grande Dea verrà ripartita e scomposta tra le divinità maschili e quelle femminili del pantheon classico, già espressioni di una umanità che si allontana dal divino per pensarsi come unico protagonista della storia. Solo erede e testimone della primigenia unità resterà Dioniso, il dio-archetipo della «vita indistruttibile»: emanazione trans-gender della Dea, manterrà aperta la porta verso l’ebbrezza mistica che avvicina al vortice della Vita, dove Lei ancora intreccia la «trama nascosta» che unifica la realtà. Ora è tempo di riaprire lo sguardo alle verità tramandate dai suoi miti, per tornare a concepirci come parte della Terra Madre, e non contro di essa. Abbiamo bisogno di ritrovare le immagini che ci portano alla sorgente del sacro, cioè della Vita stessa: troppo lontano ci ha portato l’ignoranza delle relazioni che legano la nostra esistenza a tutte le altre. Rileggere un mito significa renderlo attuale; Schelling dice che nulla di ciò che è, e di ciò che diviene, può essere e divenire senza che un’altra cosa contemporaneamente sia e divenga, poiché all’interno della natura stessa non esiste nulla di originario, nulla di assoluto e per sé stante: gli atti di culto che hanno preceduto quelli attuali non erano semplici gesti di superstizione dovuti all’ignoranza
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dei fenomeni naturali, ma creazioni possenti generate da questa consapevolezza. I miti della Dea sono le antiche testimonianze dell’unità del vivente: questo era il messaggio del divino nel quotidiano. E allora, uno sguardo alle manifestazioni del passato può esserci di aiuto per riequilibrare il nostro rapporto col presente, per domandarci verso quale ricerca debbano ampliarsi i nostri pensieri per potersi mettere in sintonia con tali fenomeni. La voce della Madre Materia non si è spenta; essa ci raggiunge ancora, seppur debolmente, in momenti particolari, nei quali il nostro essere torna ad ascoltare le sue parole: quando andiamo in altalena possiamo sentirle, poiché quell’atto ha il potere di evocare l’illo tempore delle favole; dondolandoci ritroviamo la circolarità dell’esistenza, la ciclicità della vita e la percezione soggettiva di viverla adesso, immersi nel fluire del nostro kairos. La memoria del corpo rinnova così il dondolio che lo ha cullato nei primi momenti della vita e, ancora, i passi estatici della prima esistenza nell’esistenza. Anche nella preghiera, come in ogni forma di meditazione, di discesa in se stessi, è il dondolio che coagula il pensiero e aiuta la concentrazione a dissipare la coscienza superficiale per aprire quella profonda; similmente si dondola chi è preso dall’ebbrezza che nasce dal vino, dalle droghe, dalla musica, dalla danza, o da Eros. Nelle pratiche sciamaniche, in cui si vola nei cieli che compongono gli strati della realtà superiore, il dondolio è l’operatore per eccellenza, come pure nelle sedute catartiche o nelle ordalie, nelle quali i fedeli offrono il proprio corpo al movimento altalenante per cogliere la visione del divino. Da dove origina tutto questo e cosa ne resta oggi? La statuina trovata ad Haghia Triada, a Creta, e risalente all’epoca minoica, raffigura una donna che si dondola in altalena; sul sigillo d’oro cosiddetto di Minosse, proveniente da Thisbe in Beozia, un’altra figura femminile si lascia dondolare dall’albero sacro - ipostasi fitomorfa della Dea - come faranno le sue epigoni “impiccate” di epoca ellenica, mentre gli acrobati volteggiavano tra le corna del toro. Dalle taurocatapsie della Creta minoica ai Voladores messicani e
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gli hook swinger dell’Orissa induista, sino all’altalena nepalese, questo strumento sostiene e sostanzia le pratiche estatiche di ogni tempo e parte del mondo. E allora, se seguiamo il percorso che parte dall’altalena come simbolo della Grande Dea sino alle divinità impiccate, per giungere ai pendagli che oscillano dai nostri specchietti retrovisori, forse ritroviamo nelle immagini odierne l’antica luce del sacro. Quando l’altalena ci dondola, tutti questi aspetti - storici, mitologici, cultuali - sono compresenti e tornano ad attraversarci, mentre noi siamo un punto mobile nel flusso della Vita; siamo vita nella Vita. Certo l’altalena e le sue infinite varianti e utilizzi - il trapezio, lo scivolo, la giostra - riescono sempre a darci questa perspicua sensazione di essere continuo, di «eterno ritorno», direbbe Mircea Eliade. È il principio dell’Ilinx, della «vertigine»: l’ebbrezza che strappa al mondo razionale e mette, seppur per un solo momento, sull’orlo dell’imponderabile, esposti alla visione delle forze che governano il mondo senza che le si possa mai governare. Ancora e sempre, l’attrazione per la «vertigine» resta una necessità della vita psichica; anche se la civilizzazione odierna l’ha voluta confinare in luoghi separati - come i Luna Park nei quali l’ebbrezza “normalizzata” non deve aprire le porte all’incontro con le forze della natura - una libera e semplice altalena, con il suo movimento “lunare”, semicircolare, può generare un vorticoso contatto con l’Intelligenza della zōé. Perché il cielo, ed il mondo sotto di esso, si muovono con movimento circolare? Si chiede l’egizio Plotino nelle Enneadi, e lui stesso risponde: perché imitano l’Intelligenza. E il movimento circolare, prosegue il filosofo: «È un movimento della coscienza, della riflessione, e della vita che ritorna su se stessa, che non esce mai da sé e non passa ad altro, appunto perché deve abbracciare tutto in sé: infatti la parte principale del vivente abbraccia il tutto e lo unifica. Ma non l’abbraccerebbe come un essere vivente, se rimanesse immobile, né avendo un corpo, manterrebbe in vita le cose che con-
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tiene: infatti la vita del corpo è movimento. Sicché il movimento circolare risulta composto del movimento del corpo e di quello dell’anima, e siccome il corpo si muove per natura in linea retta, e l’anima lo trattiene, dai due deriva quel movimento che ha del movimento e della quiete». E allora, nessun gioco come l’altalena può simboleggiare meglio la visione di un corpo e di un’anima uniti nel generare questa combinazione di “quiete e movimento” che riflette, sul piano del microcosmo umano, l’Intelligenza stessa che ordina ed abbraccia il Cosmo. «Io, se non lo sapete figliuoli, vi ho data vita per mezzo della voluttà e del moto» dice la Venere rinascimentale e neoplatonica di Marsilio Ficino, divinità della vita che genera altra vita secondo «voluttà e moto»; principio femminile che fornisce alla zōé quell’animazione caratterizzante propria delle vite particolari: le bíos. Venere, «anima del Mondo» secondo Plotino, agisce dunque attraverso il moto ondeggiante che il suo paredro, Eros, suggerisce ai corpi. E come non associare queste caratteristiche alle sensazioni eccitanti, erotiche, che proviamo in altalena: la voluttà sensuale evoca il suo moto, il suo moto ondeggiante porta seco la voluttà. Questa sensualità, l’erotismo del dondolio, arriva a noi dalla trasformazione di un gioco - l’altalena - che antichi miti descrivono come simbolizzazione della morte; per questo il nesso tra morte ed erotismo sfugge a chiunque non ne veda il senso religioso! Inversamente, il senso delle religioni sfugge a chiunque trascuri il legame che esso presenta con la morte e l’erotismo. Sinossi dell’esistenza, metafora dell’origine che sempre torna alla sua meta, l’altalena è dunque un prisma, un gioco d’aria, un volo magico concesso agli umani. Ma queste sono solo potenzialità che vanno portate ad effetto da un intento; ed è esattamente alla creazione di questo intento che vogliamo contribuire evidenziando il legame che unisce l’altalena alla zōé. Estendere la trama delle analogie significa essere sostenuti, nella nostra ricerca, dalla tela della realtà; questa preziosa unità analogica potenzia il nostro essere nel Mondo. Un obiettivo esistenzialmente ed essenzialmente politico dunque,
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poiché questi termini sono aspetti di uno stesso divenire, di una potenza dell’esserci che manifestiamo attraverso la nostra singolarità pienamente dispiegata. Ralph Waldo Emerson sosteneva che la natura non esiste per realizzare uno o più fini personali, bensì innumerevoli e infiniti benefici; non vi è in essa una volontà particolare, una foglia o un ramo ribelle, tutto è invece oppresso dall’incombere di una sola tendenza: obbedisce a quell’esubero o eccesso di vita che negli esseri coscienti chiamiamo estasi. C’è una vita che possiamo descrivere solo possedendola, come succede ad Alice mentre attraversa il suo specchio: la sacralità del gioco fonde la struttura dell’anima nostra col sorriso di Dioniso.
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La vertigine e la maschera
Tutto avrebbe dunque origine dal gioco? J. Huizinga
L’altalena è un gioco; ma che tipo di gioco è? A quale categoria appartiene, come e perché la sua funzione risulta centrale nell’evoluzione della civiltà occidentale? Che cosa lo identifica con la Grande Dea mediterranea? Roger Caillois, nel suo saggio Il gioco e gli uomini, sostiene che lo spirito di gioco è essenziale alla cultura, e che certi giochi e giocattoli sono residui culturali: sopravvivenze incomprese di una condizione superata, o elementi presi a prestito da altre civiltà e che si trovano espropriati del loro significato all’interno di quella in cui sono introdotti. Per questo appaiono in qualche modo estranei al funzionamento della società in cui li si riscontra; vi sono soltanto tollerati, mentre in una fase precedente, o nella società dalla quale hanno avuto origine, erano parte integrante delle istituzioni, religiose o laiche. In quel contesto, certamente non erano affatto dei giochi, nel senso che si dà ai giochi dei bambini, ma non per questo partecipavano meno dell’essenza del gioco, come acutamente verrà definita da Huizinga. È dunque mutata la loro funzione sociale, non la loro natura; il “transfer”, cioè la degradazione che hanno subìto, li ha svuotati del loro significato politico o religioso, ma questo decadimento non ha fatto altro che svelare, isolandolo, ciò che in essi non era che puro gioco, struttura del gioco. Si è dunque portati a pensare che, in molti casi, non ci sia passaggio, svilimento di una attività seria degradata a divertimento infantile, ma piuttosto presenza simultanea di due diversi registri: il bambino indiano si divertiva già con l’altalena ai tempi in cui l’officiante faceva religiosamente oscillare Kama o Krishna sull’altalena liturgica sfarzosamente ornata di ghirlande e pietre preziose. Ecco come il gioco può essere utilizzato per leggere l’evoluzione culturale di una civiltà analizzando quali tipologie ludiche sono «centrali» e quali «pe43
riferiche», rispetto agli usi correnti. A questo proposito, sia Johan Huizinga nel suo Homo Ludens, sia Roger Caillois in La maschera e la vertigine, ritengono che nell’evoluzione dei «giochi prevalenti» si possa vedere il progredire della civiltà, anzi la nascita stessa della civiltà, nella misura in cui questa consiste nel trasmutare della comunità umana dal sottostare ai capricci di un cosmo caotico ed imprevedibile, legato ai giochi che definiremo come «maschera e vertigine», ad un universo governabile che poggia su un sistema di diritti e doveri regolati dall’interno del consesso sociale, sempre meno sottoposto all’arbitrio di forze indomabili. Qui, come giochi prevalenti, troviamo invece quelli legati all’Agon, competitivi, e per compensazione i giochi di Alea, affidati al totale capriccio del Fato. Ma cos’è il gioco? Nel corso del pensiero umano, da Aristotele e Platone sino ai matematici ed agli statistici, passando per psicologi ed antropologi, molte sono le definizioni di «gioco». Per la nostra disamina, che include esplicitamente l’altalena, ci serviremo di quella proposta da Huizinga, poi integrata da Caillois rispetto ai giochi di Alea. Nel 1933, rettore dell’Università di Leida, Huizinga scelse come tema della sua prolusione I limiti del gioco e del serio nelle culture: egli voleva dare sia una definizione comprensiva ed esaustiva di «gioco», sia dimostrare l’importanza del suo ruolo nello sviluppo delle civiltà. Huizinga definisce il gioco in questo modo: «Considerato per la forma si può dunque, riassumendo, chiamare il gioco un’azione libera, conscia di non essere presa «sul serio» e situata al di fuori della vita consueta, che nondimeno può impossessarsi totalmente del giocatore; azione a cui in sé non è congiunto un interesse materiale, da cui non proviene vantaggio, che si compie entro un tempo e uno spazio definiti di proposito, che si svolge in un ordine secondo date regole, e suscita rapporti sociali che facilmente si circondano di mistero e accentuano, mediante travestimento, la loro diversità dal mondo solito». Questa sostanziale “eccezionalità” viene rilanciata da Caillois quando sottolinea l’intuizione di Huizinga nell’aver colto l’affinità
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che lega il gioco e l’arcano, il mistero. Una sottolineatura importante per quello che concerne l’altalena e, più in generale, le attività legate alla «vertigine» che, come vedremo, abbinate alle maschere, al travestimento, sono la base dei riti di possessione e di iniziazione in molte culture tradizionali. Queste sono antecedenti e sempre confliggenti con quelle regolate da leggi sociali e politiche ben ponderate, per di più sostenute da una tecnologia che tende a mettere gli imprevisti della vita sotto controllo. In sintesi, sostiene Caillois, il movimento da uno stato di natura, o meglio sottoposto ai capricci di una natura imperscrutabile e indominabile, a una civilizzazione che può, in qualche misura, dominare gli eventi, passa anche attraverso l’evoluzione dal prevalere dei giochi e dei riti legati alla «vertigine ed alla maschera», Ilinx e Mimicry li definisce l’autore, a quelli caratterizzati dall’Agon e dall’Alea, dove questi ultimi, dominati dal caso, Alea appunto, sono in qualche modo legati ad una insopprimibile esigenza di trasgressione dalle regole codificate, ma rappresentano anche una ambigua porta di accesso all’imperscrutabile. Ecco la classificazione che propone Caillois: Agon, giochi di competizione secondo regole stabilite. Qui valgono le capacità individuali e di squadra nel raggiungere il miglior risultato: la vittoria. Le regole, condivise ed equanimi, servono a dare a tutti, in linea di principio, le stesse possibilità di riuscita, a preconizzare una parità di partenza. In questi giochi competitivi, a livello fisico e mentale, la molla del partecipante è quella di vedere le sue abilità riconosciute come superiori. Seguono i giochi di Alea: dalla parola latina che indica il gioco dei dadi, la Sorte: entità impersonale ed imperscrutabile, che dispensa i propri favori o torti senza che entri nel gioco nessuna caratteristica personale del giocatore, né di ordine morale, né abilità di alcun tipo. Dadi, roulette, slot machine e via enumerando, sono i giochi tipici governati dall’Alea, dall’affidamento totale del giocatore alla Fortuna. Evidentemente stiamo parlando dell’esatto opposto dell’Agon anche se, a certi livelli, e come in tutte le cose, i due opposti si intrecciano:
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come quando la ventura nel ricevere o meno carte buone viene potenziata o diminuita dall’abilità del giocatore. Nell’Alea per così dire “pura”, il tiro dei dadi, testa o croce, la sfida è allora quella di vincere, non tanto contro un avversario, quanto contro il Destino stesso, spesso chiamato a guardare con favore il giocatore proprio perché egli si mette totalmente nelle sue mani. A questi giochi è legata, come forma degenerativa, la superstizione, cioè l’idea che il caso impersonale ed equanime possa essere influenzato in qualche modo. Da qui l’uso dei talismani, ma anche il ruolo delle carte da gioco come forma di divinazione. Senza entrare nell’argomento, ma solo per citarlo in coerenza con l’altalena, vale la pena ricordare, a questo proposito, il ruolo dei Tarocchi che, come dodicesimo arcano, vedono l’Appeso o l’Impiccato. È un giovane sospeso per il piede sinistro a una trave, con il ginocchio destro ripiegato a croce sull’altra gamba. In analogia col dodicesimo segno dello zodiaco, i Pesci, che corrispondono al sacrificio e ai piedi, egli sperimenta la punizione riservata in passato ai traditori, o ai debitori. In realtà, sebbene la carta descriva un antico supplizio, il giovane viene sempre raffigurato con un volto sereno, quasi estatico; in alcuni casi, come nel caso dei tarocchi Rider-Waite, ha anche il capo contornato da una vera e propria aureola. A questi elementi si riconducono molti dei significati simbolici associati all’Appeso in cartomanzia, che lo abbinano all’accettazione del proprio fato, ma anche all’armonia interiore legata alla possibilità di osservare il mondo da un altro punto di vista. In letteratura citiamo il caso di Orlando; il furioso paladino viene legato a testa in giù e, recuperato il senno, afferma: «Lasciatemi così. Ho fatto tutto il giro e ho capito. Il mondo si legge anche all’incontrario. Tutto è chiaro». Altre impiccate, legate al mito dell’altalena, ci riporteranno alle stesse ascendenze mistiche. Walter F. Otto dà una definizione acuta di superstizione, riprendendo il concetto di fondo che nei giochi si esprime qualcosa di sacro, e dunque che il suo carattere: «Non sta già - come insegnò il Taylor - nel serbar fede in ciò che è superato, e nonostante che le
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premesse di tali credenze abbiano cessato d’esser vitali, bensì nell’adattare alle concezioni più meschine e nel mettere a servizio dell’egoismo, manifestazioni che un tempo erano state suscitate da un’idea grandiosa» (Otto, p. 42). Zolla descrive la Dama - l’Amante invisibile dispensatrice angelica della visione divina, o megera della dannazione eterna, facce di un’unica medaglia - come perennemente evocata ai tavoli da gioco: il fascino femminile, l’eterno femminino, ha il potere d’incatenare anche il Destino e volgerlo a favore di colui al quale ha concesso le sue grazie. Qui sfidare la sorte è, al tempo stesso, gioco mortale e massima vittoria, dato che la posta in gioco è la Gloria elargita dalla Dama; Zolla ci ricorda come l’inno vedico (X, 34, 2) chiama i dadi «sorsate di soma», divini carboni ardenti dalla calda melliflua magia. In origine erano piccole conchiglie, vulve che esprimevano la sorte. Anche i giochi su tavola provengono da operazioni magiche volte a far avvenire gli eventi simboleggiati dalle mosse delle pedine o a rammemorare e ripristinare certi accadimenti primordiali. Queste rievocazioni di eterne morti e resurrezioni comprendono la variante di San Giorgio che, all’infinito, trafigge il drago che, all’infinito, lo tortura e lo uccide. Forse il grande mistero del gioco d’azzardo, da qui il suo fascino, deriva ed allude all’azzeramento finale del conto dei guadagni e delle perdite: la fine dei tempi. E di tutta questa ricchezza mitica qualcosa in bisca permane. Una pallina che rotola, una carta sbattuta sul tavolo, gettano una magia non meno forte dei dadi vedici. La pallina esita, la carta resta sospesa e a chi la guarda si rizzano i capelli in testa, il sangue abbandona le gote, come in un incubo. Al tavolo da gioco il tempo si ferma o si accelera, di certo non rispetta l’orologio: come nel reame della Dama. Zolla conclude facendoci notare come l’audacia al gioco e la gagliardia del maschio sono miticamente accoppiate, semplicemente perché la Dama dice la ventura e quindi «si porta a letto il beniamino nel copione arcaico» (cfr., Zolla, pp. 94-96). De Santillana parla, a questo proposito, di «dadi falsati dagli dei»,
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mentre nei Veda compare anche l’altalena che, come vedremo, sarà l’operatore per diversi riti, ordalie e sacrifici in onore di alcune divinità indù. Nel suo libro Ka, una lettura dei Veda, Roberto Calasso descrive, ad un certo punto, una «altalena d’oro», punto di congiunzione mistico tra il gioco dei dadi, il rito sacrificale della vacca ed i procedimenti iniziatici. «Entrando nella sabhā (luogo di convegno e udienza, gioco, ma anche ambiente iniziatico, centro del palazzo di Varuna, signore degli dei n.d.a.), le colonne davano un senso di vertigine, come una foresta geometrica o una nicchia foderata di specchi. Così doveva essere anche nel telestérion di Eleusi, quando l’iniziato entrava e non capiva il perché di quel parallelepipedo d’aria scandito da colonne a pari distanza l’una dall’altra, in tutte le direzioni. Poi nell’immensa sala qualcosa si muoveva. Ombre fra le colonne. […] Alzando gli occhi, si riconosceva a un tratto un’altalena d’oro. Tutto il resto erano porte e colonne. Qualcosa stava per accadere…» (Calasso, p. 186). Passiamo adesso ai giochi di Mimicry: quelli che si basano sul travestimento, sul “facciamo come se”. Ogni gioco, ovviamente, è ed ha una parte di «illusione»: parola che significa proprio «entrata in gioco» (in-lusio). La Mimicry prende le mosse dalla capacità mimetica (questo significa), di certi insetti che riescono a trasformarsi, anche radicalmente, per sfuggire ai predatori o per predare essi stessi. La Mimicry è, dunque, l’arte del travestimento illusorio, della maschera che cela il volto, dell’ambiguità identitaria che, nel gioco, o “stando al gioco”, viene accettata per convenzione, e così apre un mondo altro rispetto a quello della quotidianità. Un mondo in cui tutto è possibile perché l’illusione tutto può creare. La maschera è, però, anche il diaframma che separa il mondo della realtà «ordinaria» da quella «separata»; la finzione scenica può usare la maschera per sciogliere trame altrimenti irrisolvibili - il Deus o Dea ex machina - ma anche evocare arcani e gettare così lo spettatore all’interno del totaliter aliter, in cui chi porta la maschera non agisce
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“come se” ma impersona forze oltremondane, potenze che regolano la vita degli uomini ed alle quali si può dare momentaneamente un aspetto ed una voce. Basta pensare al ruolo della maschera nelle culture tradizionali di tutto il mondo; a quanto questo strumento sia irrinunciabile per suscitare visioni, introdurre iniziazioni, mettere in soggezione, incutere reverenza sacrale. Vedremo come «la maschera e la vertigine» siano le cifre di quelle civiltà in cui l’umanità sente fortissimo il potere dell’ignoto, dell’invisibile, del Fato, delle divinità capricciose e gelose; delle società in cui i legami tra individui sono ancora labili e si manifestano proprio nel momento in cui la «maschera e la vertigine» agiscono insieme. Sulla storia del Fato rinviamo al densissimo Fato antico e Fato moderno di De Santillana, in cui l’evoluzione di questo concetto si intreccia, ancora una volta, con il «gorgo», in particolare con il «vortice di latte» del cosmogonico Visnù ed il «Mulino di Amleto», il Grotti delle leggende norrene. Il «vortice-gorgo» è la categoria in cui rientrerà l’altalena; qui ci limitiamo a citare l’icastica intuizione che apre il saggio: «L’idea del Fato prende forma quando l’uomo non subisce come le bestie, ma cerca di rendersi conto e non accetta il dono di origine, le grand don de ne rien comprendre à notre sort». Un caso di abbinamento «vertigine e maschera» che riprenderemo, è certamente quello della tragedia greca, nella quale il personaggio centrale, Dioniso, era simboleggiato dalla sua maschera: «Il travolgente avvento del dio e la sua indeclinabile presenza hanno trovato un simbolo anche più eloquente di tutte le forme del culto finora descritte, un’immagine da cui traspare l’enigma perturbante della sua duplicità, e con esso la sua frenesia: la maschera. Nella festa della vendemmia, celebrata dalle donne addette al culto del dio, Dioniso era presente in figura di una maschera» (Otto, p. 92). Dioniso, il dio della «vertigine», dell’ebbrezza, del gorgo vitale, del Das Unheimliche è, non per caso, anche il protagonista della tragedia, della «maschera» che narra la sua vicenda tra nascita, vita, morte e resurrezione; «il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare», dice
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Freud nel suo saggio del 1919 sul Das Unheimliche, il «perturbante» appunto. La «maschera» è comunque sempre ed ancora legata ad una forma di straniamento sia sensoriale sia animico; forse il caso contemporaneo più poetico ed emblematico, è descritto nel Libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa, il cui cognome in portoghese significa «persona», cioè l’appellativo della maschera, la dramatis personae da cui deriva anche il personne, «nessuno» in francese: nomen omen. Sarà proprio la trasformazione della dramatis personae teatrale a sancire il passaggio, in Grecia, dal periodo arcaico nel quale dominavano la «maschera e la vertigine», il momento storico cioè in cui l’umanità si sentiva ancora sottoposta alle potenze naturali e non poteva che assecondarle gettando uno sguardo attonito dentro al loro abisso, alla civilizzazione occidentale come la conosciamo ancora oggi. Vedremo come l’altalena metaforizza storicamente e culturalmente proprio questo transito da una civilizzazione della «maschera e vertigine» come fu quella della Grande Dea di Cnosso in altalena, ad una dell’Agon e dell’Alea, simboleggiata dalla festa ateniese delle Aiόra. L’ultima categoria di giochi è dunque l’Ilinx: la «vertigine», cui appartengono l’altalena ed i suoi simili. Ilinx è una parola greca che significa «gorgo», da cui deriva, nella stessa lingua, il termine «vertigine» (ilingos). Sono i giochi che: «Si basano sulla ricerca della vertigine e consistono nel tentativo di distruggere per un attimo la stabilità della percezione e a far subire alla coscienza lucida una sorta di voluttuoso panico. In tutti i casi si tratta di accedere a una specie di spasimo, di trance o smarrimento che annulla la realtà con vertiginosa precipitazione» (Caillois, p. 40). Qui parliamo evidentemente dei giochi odierni: quelli che si trovano nei parchi pubblici o nei Luna Park; nulla a che fare con quelli dell’epoca in cui dominava sul sensorio umano l’accoppiata «maschera e vertigine». Eppure, come cerchiamo di dimostrare con riferimento anche
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alle odierne altalene, qualcosa dell’antico potere visionario permane. Cominciamo col notare che «spasimo, trance, smarrimento», le tre caratteristiche determinative del gioco «a vertigine», sono una triade tipicamente dionisiaca. Lo sparagmos, lo «smembramento» del dio, e dunque la sua morte e conseguente rinascita, la «trance», classicamente bacchica e menadica, ed infine lo «smarrimento», tanto caro alla sensibilità eretistica di flâneurs quali Baudelaire e Benjamin: «E mentre l’ago percorreva il disegno del ricamo che diventava sempre più chiaro, io cedevo alla tentazione di smarrirmi nel reticolo del rovescio che, ad ogni punto con cui sul davanti si chiariva la meta, diventava sempre più intricato»; così il filosofo descrive il suo «smarrirsi» in Infanzia berlinese. È lo stesso sentimento che un tempo preludeva ogni iniziazione orfica. È pure evidente che la «vertigine» comporta necessariamente un potenziale pericolo di morte, e conseguentemente di erotismo. Anche nelle sue forme più commerciali, e dunque “sterilizzate”, come quelle che oggi si trovano nei Luna Park, viene sempre suggerita una residua possibilità di questo tipo. Ma dobbiamo anche ricordare che queste forme circostanziate di «vertigine», pur essendo tali, non si espandono liberamente nella vita quotidiana, non rappresentano un mezzo per arrivare alla visione del soprannaturale, per entrare in contatto con il sacro. Sono, anzi, l’opposto: rappresentano un ambito separato dalla realtà in quanto, appunto, «gioco»; cioè esperienza particolare e dunque non suscettibile di aprire porte che potrebbero non richiudersi, evocare visioni che prendono con i loro artigli terribili l’intelletto e lo stritolano sino ad annientarlo. Si dice che le arrugginite armi del passato sono quelle che fanno più male… Forse da questo punto di vista, e ce la dice lunga sulla patologica quotidianità in cui ci ha spinto la nostra ansia di controllo, è l’Alea il mezzo più usato per accedere pericolosamente all’insondabile. Nessuna giostra, nessuna montagna russa, per di più inserita all’interno del mondo separato del Luna Park - nel quale si entra acquistando un biglietto che consente di provare il brivido, ma non il
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rischio, della «vertigine» - possono essere strumenti dell’esperienza estatica, com’era al tempo delle civiltà imperniate sulla «vertigine e la maschera». Allora, al tempo della Dea, il vortice mostrava la realtà ultima delle cose ed era all’insondabile giudizio delle forze soprannaturali afferrare o meno l’anima di chi guardava l’invisibile, osava sondare l’insondabile. L’azione delle macchine odierne è limitata dalla loro stessa programmazione: quando smettono di funzionare smette anche la confusa sensazione che hanno innescato, e della quale rimane, al più, un transitorio ed innocuo effetto di sballottamento, peraltro già presto dimenticato. Ovviamente, tra questi giochi, che comprendono dall’antichissima trottola ai moderni ottovolante, dalle giostre orizzontali che vengono azionate dalle mani dei bambini sino al “palo di maggio”, l’altalena è ancora quello più usato per ottenere la triade autentica degli effetti di cui parla Caillois: spasimo, trance, smarrimento. Questo significa che, al fianco dei giochi da baraccone edulcorati e “normalizzati”, esiste sempre un potenziale visionario che l’altalena, e gli altri giochi di «gorgo» possono sprigionare se inseriti nel contesto giusto, usati con il retto intento. Le forme estatiche, di trance o di «vertigine», procurate dall’altalena e dai suoi giochi epigoni, le troviamo in ogni tempo ed in ogni cultura, ancora oggi: dai Voladores messicani sino agli hook-swinger dell’India meridionale. «I dervisci cercano l’estasi girando su se stessi secondo un moto che va man mano accelerando scandito dal ritmo sempre più precipitoso dei tamburi. Il panico e l’ipnosi della coscienza sono raggiunti mediante il parossismo di una rotazione frenetica, contagiosa e partecipata. In Messico i Voladores Huastechi e Totonachi si issano sulla cima di un palo alto da venti a trenta metri. Con due ali attaccate ai polsi, assumono le sembianze di aquile. Si allacciano alla vita l’estremità di una corda che passa poi tra le dita dei piedi in modo che essi possano effettuare tutta la discesa con la testa in giù e le braccia aperte. Prima di arrivare a terra, compiono
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diversi giri completi, tredici secondo Torquemada, descrivendo una spirale che va mano a mano allargandosi. La cerimonia, che comprende diversi voli ed inizia a mezzogiorno, viene spesso interpretata come una danza del sole calante, accompagnato nel suo tramonto da uccelli che simbolizzano altrettanti morti divinizzati. Non è del resto necessario appellarsi ad esempi tanto peregrini e prestigiosi. Ogni bambino conosce altrettanto bene, girando vorticosamente su se stesso, il modo di accedere a uno stato centrifugo di dispersione e sbandamento in cui il corpo non ritrova che a fatica il suo equilibrio» (ibid., p. 41). Questi gesti, l’ascensione su un alto palo, come nel caso dei Voladores, la sospensione e poi l’oscillazione e la rotazione, sono spesso motivi tipicamente iniziatici che ritroviamo in molte altre tradizioni. Queste forme di altalena sono anche vere e proprie ordalie, cioè giudizi divini, cui il fedele si sottopone per avere un segno della grazia, o una visione, per attirare la benevolenza delle divinità nei suoi confronti o di quelli della comunità. A questo proposito vale la pena ricordare l’ordalia detta Danza del Sole, praticata dai membri di diverse tribù Pellerossa delle pianure dell’America del nord. Gli uomini votati a questa forma di autotortura erano appesi per mezzo di spiedi conficcati nei muscoli del petto, o delle spalle, a una cinghia di pelle fissata a un palo; venivano poi fatti ruotare su se stessi da altri partecipanti alla cerimonia. In India, in particolare nel Deccan, si praticano tuttora riti di questo tipo, che possono consistere, secondo i casi, nel salire un palo sacro - o, in altre situazioni, una scala sacra - nell’appendersi con una fune a un’asta girevole assicurata alla sommità di una lunga pertica per sottoporsi poi a una prova di volo centrifugo provocato dalla rapida rotazione dal basso dell’asta stessa o, ancora, nell’oscillare altalenando come un pendolo: rimanendo sospesi per mezzo di corde a una trave montata su un carro processionale. Il rituale di queste ordalie include, nella maggior parte dei casi, il ricorso a forme di autotortura compiute con l’uso di ganci, spiedi, chiodi o spine. I protagonisti di queste dimostrazioni di rigore peni-
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tenziale possono essere, secondo i gruppi sociali che organizzano i raduni religiosi, dei devoti di Shiva o di una forma della Dea, quasi sempre appartenenti ad una bassa casta o fuori casta; in altri casi si tratta di adivasi, popoli nativi o tribali, che comunque compiono i riti in onore di divinità maschili come Shiva - il Dioniso indù - oppure di altre divinità femminili. I riti si svolgono, nella maggior parte dei casi, nel periodo dell’equinozio di primavera, che corrisponde nella religiosità induista all’anno nuovo. Il più noto di questi è la cawak pùjà, celebrato nelle zone di confine fra lo Stato del Bengala e quello dell’Orissa alla vigilia del višuvat (l’equinozio di primavera); esso rappresenta il momento culminante della festa conosciuta generalmente come Gàjan: l’ultima adorazione pubblica del dio Shiva prima del capodanno solare hindu. In questa occasione si svolgono danze estatiche accompagnate dai musicisti itineranti appartenenti alla casta dei suonatori Bàul. Alle danze si alternano pratiche di automortificazione corporale: perforarsi in varie parti del corpo con spilloni, camminare su tizzoni ardenti, gettarsi su una distesa di arbusti spinosi o su una fila di lame allineate, o ancora, giacere su una tavola ricoperta di chiodi. Alla vigilia della celebrazione della cawak pùjà si pianta nel terreno una pertica alta fino a dieci metri, chiamata albero del cawak, sulla cui sommità, per mezzo di un perno, è fissata un’asta che può dondolare liberamente in senso circolare. I penitenti di bassa casta, detti, in bengali, bhakta o sannyàsì, si preparano spiritualmente all’ordalia digiunando e praticando queste mortificazioni corporali; poi salgono a turno, per mezzo di una scala di legno - forse un residuo rituale della scala sciamanica - sopra ad una piattaforma eretta a lato del congegno; sono quindi assicurati con delle fasce a un gancio fissato ad una corda pendente e fatti dondolare e ruotare. Mentre girano vorticosamente, gli uomini appesi all’albero del cawak (termine derivato dal sanscrito cakra, che significa ruota o macchina rotante) gettano fiori alla folla sottostante, invocando i nomi delle varie incarnazioni di Shiva e della Dea. Alcuni sostengono
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l’interpretazione che il movimento rotatorio impresso ai devoti simboleggi il movimento di rivoluzione del sole e, di conseguenza, l’intero ciclo della vita sulla terra, che da esso dipende. Calasso, ne Le nozze di Cadmo e Armonia, nel capitolo dedicato ad Erigone ed alla sua altalena, ci ricorda come questo gioco, in Oriente, simboleggi il solstizio: «Modello di quel gioco è l’«altalena d’oro nel cielo» di cui parla il Rgveda. Ogni volta che il sole si avvicina al solstizio rischia di impazzire; il mondo trema, perché la corsa dell’astro potrebbe procedere per inerzia, invece di invertire la rotta. E lì appunto si disegna quell’arco di cerchio che è l’altalena d’oro nel cielo. Giunto all’estremo dell’oscillazione, il sole torna indietro, come la fanciulla ateniese che un Satiro spinge sull’altalena» (Calasso 2, p. 56). Il višuvat annuncia l’arrivo della stagione secca, in cui ha inizio il lavoro nei campi, e rappresenta la fine e l’inizio di questo ciclo vitale. Per tutte queste ragioni sembra che con la cawak pùjà s’intenda propiziare soprattutto l’aspetto solare di Shiva e quello tellurico della Shakti, ossia la potenza creatrice della Grande Dea sua consorte. In alcune zone del Bengala occidentale un grosso gancio ricurvo è inserito attraverso i muscoli della schiena del penitente che si sottopone all’ordalia, pur senza essere usato, come avveniva in passato, per sostenerne il peso quando lo si appende all’albero del cawak. È evidente come tale usanza rappresenti un residuo della principale caratteristica del rito così com’esso era eseguito in tempi andati, ossia appendendo all’asta girevole un gancio che era poi conficcato attraverso i muscoli delle scapole. Le prime testimonianze europee di questa pratica votiva datano dal XV secolo, ed indicano come essa fosse eseguita anche da donne. Tutte le pratiche hindu di hook-swinging - espressione inglese composta dai termini hook, gancio, e swinging, oscillare, dondolare, essere appeso, ruotare - furono gradualmente proibite nel corso del XIX secolo dalle autorità coloniali britanniche, in pieno accordo con le élites indiane educate all’occidentale. Nei primi decenni di quel secolo la cerimonia della cawak pùjà aveva raggiunto un grado di elaborazione impressionante: in Benga-
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la, soprattutto a Calcutta, le macchine usate per compiere questo rito erano divenute di proporzioni gigantesche, e potevano sostenere il peso di dodici penitenti oscillanti alla volta. A conferma di queste ritualità dall’alto valore estatico, Caillois ci ricorda che in primavera si fanno solennemente dondolare Kama, dio dell’amore, e Krishna, protettore degli armenti: l’altalena cosmica «spinge l’universo in un su ed in un giù eterno in cui sono trascinati gli esseri ed i mondi». In Nepal la festività legata all’altalena estatica è certamente il Dashain, chiamata anche Durga Puja (le offerte per Durga), in onore della Dea Durga (colei che non si può avvicinare). Durga è una delle manifestazioni di Devi, la Grande Dea induista che ricomprende, tra le sue varie ipostasi antropomorfe, anche Sarasvati, Parvati, Lakshmi e Kali. In particolare Durga è l’incarnazione dell’energia creativa femminile (Shakti); di carattere ambivalente, ha in sé, come la Potnia mediterranea, entrambi i poteri di creazione e distruzione. Il Dashain è una festività che dura un paio di settimane e cade intorno a settembre ottobre, connessa con le fasi lunari; celebra la vittoria della Dea sul demone Mahishasura che aveva portato la guerra nel mondo degli dei e degli uomini. Il padre di Mahishasura, Rambha re dei demoni (asura), si era innamorato di un bufalo d’acqua, in realtà la principessa Shyamala colpita da una maledizione che l’aveva così trasformata. Mahishasura, nato da questa unione, era dunque in grado di mutare la sua forma da umanoide a quella di bufalo (Mahisha è infatti la parola sanscrita per bufalo): tornano qui echi che richiamano il mitologema di Pasifae e di suo figlio, il Minotauro. Per combattere il demone, gli dei della sacra Trimurti - Brahama, Visnù e Shiva - avevano concentrato la loro mente e, attraverso l’energia radiante di Indra, evocato Durga dalle cento braccia. A cavallo di una tigre ruggente ella aveva sconfitto il demone-bufalo, tagliandogli la testa. La cruenta battaglia era durata diversi giorni e diverse notti; Durga finalmente era riuscita a uccidere il potente Mahishasura il deci-
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mo giorno della luna crescente. Per questo è chiamata anche Mahishasuramardini, la distruttrice di Mahishasura: una sconfitta del male ad opera delle forze depositarie del bene, qui simboleggiate dalla Dea Madre, a cui ci si rivolge con diverse donazioni (puja) di fiori e frutti, ma anche di animali e dell’inebriante hashish; possiamo immaginarne l’effetto combinato con quello dell’altalena! I sontuosi vestiti delle donne, tutti colorati di rosso in onore della Dea, richiamano il sangue versato nel combattimento e quello dei sacrifici cruenti degli animali; vestendo questi abiti nuovi ed indossando gioielli per abbellire la persona, i fedeli la adorano attraverso una preghiera speciale (Mantra Devi) che la celebra come Principio Creatore Universale. «Ya Devi Sarva bhuteshu Matri rupena samsthita, Ya Devi Sarva bhuteshu Shakti rupena samsthita, Ya Devi Sarva bhutesu Shanti rupena samsthita, Namestasyai Namestasyai Namestasyai Namoh Namah». «La Dea che è Onnipresente come la personificazione della Madre Universale, La Dea che è Onnipresente come l’incarnazione dell’Energia Divina, La Dea che è Onnipresente come il Simbolo della Pace, Mi inchino a Lei, mi inchino a Lei, mi inchino a Lei». Esiste, più interessante, anche un’altra versione della storia che descrive Mahishasura come un fervente devoto di Durga-Devi, la Madre di tutti gli esseri. Quando, ad un certo punto della storia universale, ella vide i Deva (divinità), gli esseri più perfetti della sua creazione, agire da corrotti per via del loro stesso potere, fece chiamare il suo fedele più devoto e gli diede il potere di sconfiggerli, per dare loro una lezione. Mahishasura si sottomise al suo volere e rinacque così come demone invincibile, anche perché lo stesso Brahma lo aveva reso invulnerabile agli uomini. Quando i Deva cominciarono ad affrontare Mahishasura si resero conto che egli assommava il potere di tutti loro. Essi allora si rivolsero umilmente alla Grande Dea affinché ella potesse sconfiggerlo, riconoscendone così il ruolo insostituibile e primario nella creazione e nel mantenimento dell’ordine cosmico. Solo dopo quel pentimento Durga scese in battaglia e sconfisse il
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suo stesso devoto ma, memore dell’impegno che egli aveva profuso, gli promise che sino alla fine dei tempi, anche se sotto forma di demone, sarebbe stato ricordato; ecco perché, ogni volta che vediamo una immagine di Durga-Devi, scorgiamo ai suoi piedi anche Mahishasura trafitto dal mistico tridente della Dea. Anche qui, come nel caso della Grande Dea minoica, vediamo il ciclo del figlio che diventa paredro e viene ucciso dalla Dea per poi rinascere, in questo caso come figura associata alle celebrazioni. Momolina Marconi, a proposito di questa relazione, ci ricorda che quello della Dea fu in realtà un predominio, non un dominio assoluto; accanto a Lei non poteva mancare, se pure all’ombra della subordinazione, il maschio paredro, il quale, prima che paredro, fu figlio della Dea, espresso da Lei stessa, madre prima che amante: divino riflesso di un ordine sociale ben stabilito, questa loro unione non faceva che concretare la perfezione androginica distrutta. Il tema dell’androginia lo vedremo espresso in Dioniso, il dio del transito dal maschile al femminile e viceversa, espressione della mediazione greca tra l’antica podestà della Grande Dea, e quella sopraggiunta di Zeus padre. La Dea dunque, essenzialmente ma non esclusivamente autonoma, conosce l’unione col maschio a Lei soggetto, il quale fu carne della sua carne, da Lei generato e nutrito con tenerezza… e da ultimo da Lei disperatamente pianto il giorno della morte. Di fronte all’eternità della Dea, infatti, il paredro, più vicino all’uomo, come lui nasce ed è soggetto a perire: morte non apparente, ma neppure definitiva, per il tocco miracoloso della Dea che, dopo il disperato compianto, lo riconduce alla vita (cfr., Marconi, p. 61). Quando descriveremo l’incontro tra la Basilinna e Dioniso tornato dal mondo infero evocato dal «mana» altalenante delle donne, vedremo come questo potere di rinascita - non resurrezione, si badi bene - operato dalla Dea verso il figlio-amante-paredro, è presente nel culto del dio anche in epoca greca; ritroveremo le stesse tracce nel rapporto tra la Vergine Maria ed il Cristo morto in alcune devozioni ancora presenti nel Sud d’Italia, nelle quali la camminata don-
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dolante dei penitenti è l’operatore dell’estasi religiosa e della conseguente rinascita. Tornando al Dashain, vediamo come questa sia una festività che concentra altre componenti simboliche legate al gioco. Oltre la celebrazione del mito, infatti, troviamo le gare di aquiloni che, come evidenzia Caillois, sono un oggetto che simboleggia l’anima che si eleva, legata al corpo con un filo sottile. Ma sono le altalene che danno il senso profondo della festa; si chiamano ping in nepalese e]sono costruite dai membri della comunità con metodi tradizionali, impiegando corde a base di fibre vegetali intrecciate, bastoni di bambù e legno. Queste altalene, alte sino a venti metri, vengono montate una settimana prima l’inizio della festa e smontate alla fine del Tihar che si celebra dopo il Dashain. L’atmosfera viene completata, per assicurare un “surplus di vertigine”, da altre giostre rotanti e dal consumo dell’hashish sacro a Shiva. In Tailandia, nella capitale Bangkok, esiste infine un’altalena gigante, attualmente posizionata di fronte al tempio buddista di Wat Suthat; questa (Sao Ching Cha), era usata sino agli anni Trenta del secolo scorso durante una cerimonia braminica che ricordava la creazione e la discesa sulla terra da parte di Shiva, accompagnato dai Naga, i serpenti cosmici. La struttura originaria risale al 1784 ed ha subìto diversi rimaneggiamenti e riparazioni sino ad essere definitivamente posta a riposo nell’attuale locazione: alta circa una trentina di metri e la sua base circolare ricorda la terra e le acque della creazione. La cerimonia braminica, Tri-yampawai, che consisteva nel dondolarsi pericolosamente sino a prendere una sacca con delle monete d’oro, avveniva nel primo mese del calendario lunare tailandese e durava una decina di giorni. Se ci spingiamo sino all’Oceania ritroviamo questi stessi aspetti nella Leggenda di Akaui nella quale si narra dell’altalena usata dalle figlie del re. Gli orecchini tradizionali in denti di balena riproducenti la scena, detti Putaiana o Taiana, si possono attualmente vedere al Museo di Quai Branly.
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Anche lo scivolo, altro gioco di «vertigine», accomunato all’altalena in tutti i parchi gioco, deriva dal culto della Grande Dea che, dice la Gimbutas, «era celebrata sulla sommità dei monti, coronata con grandi pietre». In specifico, ad alcune di queste, dotate di una superficie levigata e inclinata, veniva attribuito il potere di concedere la fertilità alle donne sterili. In Germania e nei paesi scandinavi sono ancora chiamate Brautstein, pietra della sposa: vi sedevano sopra e le usavano come scivolo per potenziare la fertilità. La glissade, «scivolata» in francese, veniva praticata segretamente in Francia ancora nel XVIII e XIX secolo. Nella Russia del secolo scorso era anche presente una cerimonia che si svolgeva durante la cosiddetta “settimana grassa” e vedeva i giovani sposi protagonisti di scivolate dalle alture come rito di fertilità (vedi sitografia). Queste pratiche sono molto antiche, e vengono testimoniate nella Creta minoica, in Inghilterra e nell’area baltica, in vari periodi storici. Ad esempio, la collina sacra di Rambynas sul Nemunas, nella Lituania occidentale, veniva utilizzata a tale scopo fin dal XIV secolo, mentre ancora nel XIX secolo le coppie di sposi offrivano doni a questi scivoli di pietra per chiedere fertilità in famiglia e nei campi. Grandi pietre, con la superfice levigata, erano dedicate a Ops Consiua, dea romana della fertilità della Terra. Anche nella cultura di Golasecca (IX-IV secolo a.C.) che si sviluppa a partire dall’età del bronzo nella pianura padana presso il Ticino, troviamo pietre lisce che venivano usate come scivoli per garantire la fertilità; spesso sono state inglobate nelle chiese per eliminare così il culto pagano. Alcuni nomi dialettali di queste pietre sono particolarmente evocativi della loro funzione: Pria scugente (pietra scivolosa), Pietra Lubricam, Roc d’la sguija, Sass della Lissea, Roch d’la vita. Pierre Saintyves, nel suo Las Madres Virgenes y los embarazos milagrosos, ha raccolto una mole impressionante di riti inerenti al culto di questi scivoli di pietra. Tra gli esempi: il blocco di granito di Sarrance, il pilastro di Orcival, il menhir di Kerveathon, la pietra eretta di Poligny e la roccia nella valle di Aspe, nei Pirenei.
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Di questi movimenti pendolari, legati certamente all’altalena ma, più in generale, ad ogni oggetto oscillante con un moto di accelerazione e decelerazione che mette il soggetto in condizioni di trance, troviamo innumerevoli tracce anche in musica e nella letteratura. Una canzone come Helter Skelter dei Beatles descrive un «vortice continuo» su uno scivolo elicoidale (a questo allude il titolo), rendendo bene l’atmosfera di visionarietà con rimandi erotici in cui sono immersi i protagonisti. «When I get to the bottom I go back to the top of the slide. Where I stop and I turn and I go for a ride. Till I get to the bottom and I see you again. Do you, don’t you want me to love you. I’m coming down fast but I’m miles above you. Tell me tell me tell me come on tell me the answer. You may be a lover but you ain’t no dancer». «Quando arrivo in fondo, torno indietro in cima allo scivolo. Qui mi fermo, mi volto e parto per un altro giro. Finché non arrivo in fondo e ti vedo ancora. Vuoi o non vuoi che ti ami? Sto arrivando giù velocemente ma sono ancora miglia sopra di te. Dammi, dammi, avanti, dammi la tua risposta. Puoi anche essere un’amante, ma non sai ballare!» In letteratura, ad esempio, si può citare Il pozzo ed il pendolo di E. A. Poe, racconto in cui l’operatore centrale è un orripilante meccanismo pendolare che, lentamente, dovrebbe squarciare il petto del protagonista, immerso nel profondo pozzo in cui l’Inquisizione lo ha scaraventato. E dunque anche qui c’è una sorta di ordalia: il giudizio divino cui si usava sottoporre chiunque fosse accusato di eresia, stregoneria, commercio con i demoni e quant’altro. La messe di apparati oscillanti, pendolari, altalenanti, usati per queste ordalie, in realtà vere e proprie sevizie, è notevole, come si può vedere nei musei degli oggetti di tortura. Tutti venivano utilizzati per ottenere una forma di terrore straniante, allucinatorio, che potesse poi generare una “confessione”. Basti pensare alle altalene che venivano lentamente dondolate sott’acqua sino a far quasi annegare il soggetto e poi tirate su. Anche nel racconto di Poe, maestro della «vertigine», emerge progressiva-
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mente un piano inquietante e profondo, di una latente ambivalenza: la relazione quasi simbiotica che lega il condannato con l’atroce meccanismo. Funzionerebbe, esisterebbe addirittura, la macchina senza il condannato? Non è forse la forza immaginale dell’uomo imprigionato nel fondo del pozzo - metafora del peccato inconfessato anche a se stesso - a far funzionare l’oscillazione del pendolo dandogli la spinta necessaria? Dove si origina il dondolio dell’enorme lama se non dalla paura che evoca il letto del supplizio, dal terrore di quello specifico e unico individuo, cui quella specifica ed unica macchina è intimamente connessa? Per gli occhi sbarrati del condannato solo il vortice generato dalla letale falce esiste… «Il resto è pazzia, pazzia della memoria che si affanna dietro argomenti proibiti…». Tornando ad una realtà più comune, ma di certo non meno inquietante, dobbiamo evidenziare come nei luoghi in cui la «vertigine» viene gestita per impedirle di rimettere in discussione le regole della nostra società ordinata e competitiva, mai essa deve incontrare la «maschera». Nei Luna Park il tutto è organizzato, infatti - al contrario dei rituali estatici autentici - per sviare o dominare il potere congiunto dell’Ilinx e della Mimicry. In particolare è da notare come in questi posti non vi sia traccia della Mimicry che, anzi, a sua volta viene confinata all’interno del carnevale, in tutte le varie forme che esso assume attualmente. Il Luna Park è dunque il regno esclusivo ed escludente dell’Ilinx normalizzato e normato, quindi normalizzante: un ossimoro, che però funziona; la separatezza di questi luoghi è già data per acquisita dalla loro ubicazione, quasi sempre fuori città, in terreni altrimenti desolati, periferici, o dal fatto di essere comunque perimetrati in modo evidente, eccessivo. Si avverte subito la sensazione di entrare in un luogo a parte, e dal quale si potrà uscire quando lo si desidera, come a volontà sarà possibile rientravi. Un posto dove domina una sorta di “stato di eccezione permanente”, che quindi ha il compito di riaffermare le regole che gover-
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nano il resto del mondo: quello esterno. Già questo depotenzia alla radice il potere estatico dell’Ilinx: all’interno del perimetro desacralizzato - e secolarizzato attraverso lo scambio di moneta - nessun officiante dirige la cerimonia, mentre si incontra solo chi stacca i biglietti o gli imbonitori. Qui l’aria che si respira non è quella della festa legata alla visione, all’attesa dell’epifania divina, ma, al contrario, domina incontrastata e potente la «macchina mitologica». Furio Jesi la definisce come l’insieme di quegli apparati normalizzatori che nella nostra modernità alludono alle grandi imprese mitologiche, archetipiche, proponendo al fruitore-consumatore un effimero ruolo di eroe o eroina che mai potrà essere autenticamente vissuto, poiché concepito per esaurirsi nella forma reificata ed inautentica dell’acquisto. Nel caso del Luna Park sono le macchine a produrre continuamente, ed in serie, questa allusione eroica, il più delle volte bonaria e spaccona; congiuntamente agli ammiccamenti di tipo sessuale queste vuote evocazioni di forza, coraggio, astuzia, abilità, intelligenza, attraversano come una debole corrente elettrica l’aria, mentre oscurano l’epifania del sacro dietro luci al neon. Qui il vortice è regolato da calcoli precisi, macchinali, scanditi da percorsi che combinano, in dosi perfette, ma innocue, i vari elementi che un tempo portavano oltre la soglia: mostri da combattere, tesori da ritrovare, duelli implacabili, prove di coraggio, amori da conquistare, visioni ultramondane; tutto si riduce a esperienza da baraccone, sottolineata dall’immancabile musichetta clownesca. E tuttavia, è la «vertigine» che dà il la, ci ricorda Caillois, descrivendo il volume, l’importanza e la complessità dei macchinari che dispensano l’ebbrezza in sequenze regolari, da tre a sei minuti. Laggiù, dei vagoncini seguono le rotaie disposte lungo un arco di circonferenza quasi perfetto, in modo che il veicolo, prima di raddrizzarsi, sembri precipitare in caduta libera e i passeggeri attaccati ai sedili abbiano la sensazione di precipitare col treno. Più in là sono sospesi in gabbie che li fanno oscillare… Tutto è calcolato per provocare sensazioni viscerali e un ottuso spavento, un
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timore che mai si trasforma in panico: velocità, caduta precipitosa, scosse, rotazione accelerata unita a salite e discese alternate, non dovranno arrivare ad evocare il grande dio Pan, custode della natura. Un’ulteriore trovata utilizza la forza centrifuga: mentre il pavimento si ritrae e si abbassa di qualche metro, tiene aderenti alla parete di un gigantesco cilindro dei corpi senza appoggio. Questi assalti organici vengono poi avvicendati a innumerevoli sortilegi annessi, atti a provocare smarrimento, a suscitare confusione, nausea e qualche momento di brivido che tosto finisce in risa, come poco prima, all’uscita dell’infernale marchingegno lo smarrimento fisico si trasformava immediatamente in indicibile sollievo (cfr., Caillois). Se, infine, combiniamo la suggestiva riflessione di Jesi sulla «macchina mitologica» - ciò che nella civilizzazione contemporanea produce continue allusioni alla permanenza del mito, cioè alla sua perenne riscrittura attraverso la nostra esperienza personale, ma senza che ciò possa mai realmente avvenire - e queste osservazioni di Caillois, arriviamo a descrivere perfettamente l’attuale espressione dell’Ilinx normalizzato: quella virtuale. Da qualche tempo, oramai, il «vortice» viene generato all’interno di vere e proprie macchine computerizzate, nelle quali si viene rinchiusi per vivere la modalità «gorgo virtuale»: una maniera del tutto artificiale, oramai sganciata dalla realtà dell’esperienza corporea reale; qui gli ondeggiamenti, il vento, i capovolgimenti, il paesaggio, i personaggi, tutto insomma, è solo effetto di elaboratissime proiezioni tridimensionali che ci sfiorano lo sguardo schermato dagli occhiali 3D, mentre si è seduti in appositi abitacoli “animati”. Eppure, in questa nostra civiltà di «vertigine artificiale» e edulcorata, depotenziata e fuorviante, esiste ancora un mondo nel quale il sacro risplende nella sua forma più autentica: il circo. «Una solitudine mortale… Ma l’angelo si fa annunciare, devi riceverlo da solo. Per noi l’Angelo è la sera, scesa sulla pista sfolgorante. Non importa se, paradossalmente la tua solitudine è in piena luce e l’oscurità formata da migliaia di occhi che ti giudicano, che temono e sperano che tu cada: danzerai al di sopra e al centro di una solitu-
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dine desertica, gli occhi bendati, se puoi, le palpebre sigillate. Ma nulla - soprattutto non gli applausi o le risate - ti impedirà di danzare per la tua immagine. Tu sei un artista - ahimè - non puoi sottrarti alla voragine spaventosa dei tuoi occhi. Narciso danza? Civetteria, egoismo, amore di sé; no, si tratta di ben altro. Forse della Morte stessa… La Morte - la Morte di cui ti parlo - non è quella che seguirà la tua caduta, ma quella che precede la tua apparizione sul filo… Tu entri e sei solo. Apparentemente, perché Dio è là. Egli viene non so da dove, forse lo portavi tu entrando, o lo evoca la solitudine, è lo stesso. È per lui che fissi la tua immagine». Così Jean Genet vede Abdallah, il suo amante funambolo, nel libro omonimo. Un testo nel quale l’autore ripercorre, non solo la sua storia d’amore per il giovane, ma le fasi della sua iniziazione all’arte della corda. Il trapezio ed il funambolo rientrano appieno nell’Ilinx, insieme all’altalena. Il tempo nel quale si svolge questa gestualità fantastica, è mitico, poiché ogni accadimento sembra avvenire lì ed ora, ma per sempre. E dopo l’attraversamento, o il salto mortale, l’acrobata sembra recitare, come fosse la preghiera che chiude il rito del corpo ostentato al pubblico, meravigliato egli stesso di essere ancora vivo, i versi che Rimbaud dedicò alla sua rocambolesca permanenza nella Comune di Parigi: “Ce n’est rien! J’y suis! J’y suis toujours!”. Anche le varie acrobazie col solo corpo mimano il «vortice». La loro ascendenza, dai tempi protostorici, è nell’allusione alla sfera, alla spirale, alla ruota: tutti simboli della continuità cosmica. L’acrobata riprende col corpo questi motivi, come vediamo nella rappresentazione della dea egiziana Nut o nella taurocatapsia minoica, sino alle coreografie delle danze macabre medioevali. Il rispetto che si prova per questi artisti che impegnano la vita per dare allo spettatore un brivido di emozione autentica, e per provarlo essi stessi, scaturisce limpido da un’aura di sacralità immutata nel tempo. Come ci ricorda giustamente Waldemar Deonna nel suo Il simbolismo dell’acrobazia antica, questi gesti erano anticamente sacri, riper-
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correvano momenti cosmogonici, e la loro vicinanza alla morte tali li rende ancora oggi. E, forse, anche i protagonisti di attivitĂ â€œvertiginoseâ€? come il bungee jumping, epigoni del mito di Aracne trasformata in ragno da Atena, ci dicono in fondo della inconsapevole necessitĂ di superare con mezzi estremi la narcosi contemporanea, e ritrovare cosĂŹ nel pericolo il senso della vita.
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L’aura della Grande Dea
Conoscere il nome di una divinità in un dato luogo e tempo è di gran lunga meno importante che conoscere la natura dei sacrifici che le o gli venivano offerti R. Graves
Ogni gioco sacro origina da un centro di irradiazione, il punto intorno al quale nascono i suoi gesti e i suoi strumenti. L’altalena è un gioco di «vertigine» che scaturisce dall’aura della Grande Dea, come forma evolutiva delle sue ipostasi fitomorfe: gli alberi sacri. Vedremo come le donne che si impiccheranno, a partire dal mito greco di Erigone, e che, in seguito, troveranno simboleggiato il loro macabro dondolio nel gesto dell’altalena, altro non sono che degenerazioni progressive di questa prima immagine divina che vede la Dea stessa come altalena: principio ciclico in perenne trasformazione e rigenerazione. Parliamo della Potnia anatolico-mediterranea dai molti nomi, Demetra, Rea, Cibele… una figura prismatica, le cui manifestazioni passavano senza soluzione di continuità dal mondo vegetale a quello minerale ed animale. Questa «fluidità» è un tratto fondamentale della religiosità preellenica, che ignorava la distinzione tra regni naturali, come ancora oggi troviamo nel dreamtime degli aborigeni australiani e, più in generale, nella visione di tutti i popoli totemici. In particolare, come antecedenti dell’altalena, a noi interessano le ipostasi fitomorfe e minerali della Dea, la sacralità di alcuni alberi che direttamente la rappresentano, o la sua raffigurazione sotto forma di pilastro e colonna. «Nel noto sigillo d’un anello d’oro scavato a Micene, ma di ispirazione e forse anche di fattura prettamente minoica, Demeter, la Terra Madre cretese, siede sotto un albero, che è l’altra sua vivente realtà vegetale, nudi il busto e le braccia, turgidi i seni sostenuti dalla mano sinistra, la lunga gonna scampanata, a balze. […] Al sigillo aureo di Micene è bello accostarne due altri pure d’oro, provenienti da Cnosso e da Mochlos, nei quali la Potnia minoica ap67
pare in atteggiamento dominatore sopra una svelta galea, che porta come insegna di comando il doppione vegetale di Lei, l’albero sacro […]. La Potnia dunque, pur fondamentalmente donna, può tuttavia essere donna a un tempo ed animale, donna ed albero, donna e pietra più o meno rozzamente squadrata, donna e pilastro o colonna di sasso o di legno […]. Siamo così entrati nell’immenso dominio vegetale della Potnia, che va dal filo d’erba agli alberi delle millenarie foreste, dominio in cui essa si sente donna e albero insieme, donna che partorisce un albero, albero che partorisce una creatura umana […] ne è plastica rappresentazione, nella civiltà di Harappa lungo il corso dell’Indo, il sigillo con la dea nuda e divaricatissima, che emette dal proprio «aidòlon» una fronda. Vi si oppongono nel delta nilotico l’albero di sicomoro da cui sporge la dea Hathor o semplicemente l’albero munito di braccia, e nel mondo anatolico, sulle monete di Aphrodisia e di Mirra, Letô che appare in parte già uscita fuori, in parte inguainata ancora nel tronco del suo albero sacro, cioè del suo doppione». Pestalozza descrive poi le evoluzioni di queste primigenie rappresentazioni che, progressivamente, da alberi sacri, diventano prima statuette appese e dondolanti, poi personaggi femminili “maledetti” che muoiono impiccate per una qualche forma di trasgressione all’ordine maschile. «Gaia è la grande quercia oracolare di Dodona, prima che Zeus la spodestasse; una grande quercia sul litorale efesino è pure la realtà vegetale di Letô prima, poi di Artemis, intorno a cui le Amazzoni conducono le danze rituali; Artemis kedreàtis a Orcomeno di Arcadia fu certamente prima un grande ginepro, «iuniperus excelsa», anche se poi si collocò tra i rami un rozzo simulacro ligneo della dea (come, del resto, anche ad Efeso), e Artemis Karyàtis in Laconia, prima di essere una statua all’aperto, fu un noce possente, intorno a cui le vergini del luogo eseguivano la loro celebre danza. […] Anche Artemis Apanchomène (impiccata) risale con ogni probabilità all’uso di appendere una immagine della dea ad un albero che la
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rappresentava nel suo aspetto vegetale, uso di cui non sono rare le sopravvivenze nel folklore europeo» (Pestalozza, pp. 25-49). Più avanti l’autore riprende i legami che accomunano il «palo di maggio», forma dell’axis mundi, ad altre costumanze, come quella del taglio della betulla in Russia, che viene poi vestita di abiti femminili nel giorno di Pentecoste (discesa dello Spirito Santo) oppure, ancora più evocativo, l’appendere una bambolina biancovestita agli alberi la quarta domenica di quaresima. Sul rotolo dell’Exultet della cattedrale di Bari, il passo che invita la terra a rallegrarsi per la Pasqua (rinascita) è simboleggiato da una donna coronata di foglie che regge due alberi circondata da animali diversi. L’albero è quindi un simbolo di elevazione, una scala naturale attraverso la quale l’umanità può giungere alle sfere celesti, esattamente come l’altalena nel suo moto ascensionale; l’analogia tra altalena ed albero è dunque immediata. L’iconografia cristiana lega strettamente l’albero sacro alla Madonna: nel Miroir de la Redemption (1478), nell’allegoria dell’albero sognato da Jesse - padre di David - e che esce dal suo petto, troviamo al centro la Madonna circondata, anche qui, da tutte le forme della manifestazione, con in capo lo Spirito Santo che le incarnerà il Cristo. Un «albero mariano» dunque, che fa dire a San Cirillo di Alessandria: «L’albero della vita celato in mezzo al Paradiso è cresciuto in Maria. Uscito da lei ha sparso i suoi semi su tutti i popoli». A Massaquano, antica frazione di Vico Equense alle pendici del Monte Faito, durante la Pentecoste è direttamente la Madonna che viene celebrata con una processione nella quale sulla sua statua vengono riversati petali di rosa. Come si vede, queste sono sopravvivenze delle arcaiche epifanie fitomorfe della Dea, in cui l’accento è messo sull’albero sacro che, in questo modo, produce una forma di comunanza, di identificazione, con figura della divinità. Il giudizio di Pestalozza, in merito all’evoluzione del mitologema, è icastico: «Tutti i miti di metamorfosi femminili arboree, nelle redazioni contraffatte in cui li leggiamo, sono le deformazioni patriarcali
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di miti originariamente matriarcali, in cui la Potnia arborea regnava sovrana». In sintesi, il mito greco di Erigone, come vedremo, sarebbe una «deformazione» riduttiva del culto originario dell’albero sacro, non di una donna impiccata, ma della raffigurazione fitomorfa della Dea che, in questo modo, emanava il suo potere creatore. Infine, ma non per ordine di importanza, non dimentichiamo che anche Dioniso veniva, secondo Pausania (Descrizione della Grecia 2, 2, 6) adorato sotto forma di albero, in particolare quello stesso sul quale Penteo, il “doppio” del dio da lui sconfitto, si era issato per guardare le menadi. Scoperto, esse lo avevano fatto a pezzi. Da questo episodio la Pizia aveva poi ordinato di adorare in quell’albero il nume, e dal suo legno erano state ricavate due statue del dio che Pausania descrive in Corinto. Queste premesse servono ad inquadrare, in una sfera più ampia e più antica cronologicamente, la prospettiva storico-mitologica che analizzeremo nei prossimi capitoli. Considerando dunque l’altalena come espressione, prima diretta, poi mediata, della Grande Dea - lo vedremo bene nella gestualità minoica - risulta più chiara la traiettoria della sua progressiva emarginazione ad opera del nascente dominio patriarcale. In questa prospettiva bisognerà leggere sia la spiegazione sociologica secondo cui le «impiccate» lo fanno per sfuggire ad una violenza sessuale, sia quella antropologica dell’«eros precluso». Momolina Marconi motiva chiaramente le varie forme di depotenziamento della Dea da parte dei nuovi poteri: attraverso il controllo dell’energia sessuale femminile che, nella religiosità mediterranea, era legata alla Dea e ne rappresentava la podestà essenziale, si poteva capovolgere l’ordine dei poteri e la loro natura. Questo perché la sessualità femminile era una «diretta manifestazione del sacro nella vita del mondo» dato che la figura della Potnia, e dunque di tutte le «piccole potnie», racchiude ed esalta la «divinità del femmineo e la femminilità del divino». Per quanto concerne l’evoluzione iconografica della Dea, le caratteristiche del suo matriarcato e, più in generale, gli aspetti della
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sua preminenza, rinviamo decisamente agli studi vastissimi, ed articolati su più prospettive, della Gimbutas, Percovich, Noble ed Eisler, che hanno l’indubbio merito di aver fornito materiale originale e documentatissimo sulle manifestazioni della Dea, non solo nel Mediterraneo, ma anche nell’Europa dell’Est e nel Medio Oriente sino dal neolitico, per poi spiegarne il declino alla comparsa dei popoli «androcentrici e guerrieri», provenienti dall’Asia. Una storia della sessualità legata alla Grande Dea la troviamo anche ne Le lacrime di Eros di Bataille, in cui il nesso sacralità-sessualità viene declinato attraverso le immagini della Potnia a partire dall’arte primitiva sino alle sue raffigurazioni contemporanee. Questa relazione tra potenza sessuale, erotismo e creazione, è ancora più esplicito nei miti mesopotamici, sia nella versione sumera sia accadica, che narrano la discesa di Inanna-Ishtar agli Inferi per risvegliare Tammuz, il fratello-figlio-amante della dea. Nella versione sumera del mito, Inanna discende all’Ade portando indietro nel grembo, come fosse un nascituro, il dio che ella ha così salvato dal sonno di morte. In questa discesa la dea deve progressivamente svestirsi di tutti i suoi gioielli, sino a rimanere nuda di fronte all’ultima porta. La sua splendente nudità, raffigurata in molti bassorilievi mesopotamici, sarà la moneta con cui ella pagherà il debito verso la sorella Ereshkigal, la regina del mondo dei morti, e poter così infondere nuova vita all’amato. Altrettanto interessante è la versione accadica, secondo cui Inanna viene imprigionata dalla sorella ed impiccata. Come conseguenza di questa morte mistica, peraltro messa in conto dalla dea, perisce anche la terra, sulla quale tutto diviene sterile: animali, uomini e piante. A questo punto, proprio come nel mito di Persefone, e per altri versi in quello della sconfitta del demone Mahishasura da parte di Durga, gli dei evocano un messaggero che intercederà per la liberazione della dea, affinché torni la vita. Qui ritorna la determinante della Dea Madre: quella di generare il proprio figlio-fratello che diviene paredro, per poi morire ed infine
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rinascere per volere di lei. La ritroveremo in Dioniso e nel parto di Arianna, ma anche nella relazione tra Maria e Gesù. La necessità, per i nuovi poteri patriarcali, di sussumere e governare il potere della Dea era legato non solo alla sua potenza generatrice, ma anche al fatto che questa fosse sostenuta da una sessualità assoluta, che «trapassa vogliosa dall’uno all’altro paredro»: «Centauro, sono la tua cavalla bionda, fammi pregna di te; schiumo, nitrisco. Tritone, sono la tua femmina azzurra: salsa come un’alga è la mia lingua, entrambe le gambe squama sonora. Chi mi chiama? La buccina notturna? Il nitrito del tessalo, il tonante Pan? Sono nuda, ardo, gelo, ahh chi mi afferra?». Sono, in questi versi delle Trachinie di Sofocle, racchiuse tutte le sfumature della potenza erotica generatrice della Potnia. Non dobbiamo dimenticare, a questo proposito, il ruolo fondamentale che svolgevano le nugig, in sumerico, le quadishtu, in ebraico, le zermasitu, in assiro, le devadasi, in hindi, ed infine le ierodule, íερόδουλη (íερόν, tempio, δούλη, schiava) in greco: sono le prostitute sacre che, attraverso i loro accoppiamenti, trasmettevano agli uomini parte dell’energia vitale della Dea, o meglio, permettevano agli uomini di entrare in contatto con essa. Ishtar è quindi lei stessa la Grande Prostituta che «divinamente e incessantemente si adopera alla propagazione della vita universa». Nell’inno avestico ad Ardvi Sûra Anâhitâ, si loda la Dea che «rende perfetta la funzione del seme dei maschi e degli uteri delle femmine», funzione comune anche alla Grande Dea mediterranea, la cui nudità possiede un «mana» analogo, soggetto alle condizioni naturali della vita. Qui non si dice, si badi bene, che la Dea è mortale ma che, al contrario, la sua immortalità passa attraverso la morte e la rinascita, lo stesso principio dell’«archetipo della vita indistruttibile» che troviamo nella figura di Dioniso; nel secondo millennio avanti Cristo, le divinità di Creta nascono e muoiono come i loro adoratori. Ed è per ancorare simbolicamente questa certezza che nasce il mito della dea impiccata, a significare, attraverso una morte particolare, sospesa, la fine ed un nuovo inizio. Tornano gli echi che troviamo in alcune canzoni, in cui il macabro e certamente esecrabile ge-
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sto del linciaggio, viene suggerito con l’immagine dei «frutti strani» che pendono da un albero, segno comunque, in un ambito di realtà più vasto, di resistenza e lotta per i diritti sociali, dunque di rinascita. Nella celebre versione di Strange Fruits di Billie Holiday, ad esempio, pubblicata dall’etichetta Commodore, il trombettista era Frankie Newton, nero e comunista, in omaggio al quale il famoso storico, anch’egli comunista e grande intenditore di jazz, Eric J. Hobsbawm scelse il suo pseudonimo di critico musicale. «Southern trees bear a strange fruit, Blood on the leaves and blood at the root, Black bodies swinging in the southern breeze, Strange fruit hanging from the poplar trees». Sono versi che si riferiscono, esplicitamente, alle impiccagioni dei neri nel Sud razzista degli USA, ma il «sangue sulle foglie e sulle radici» non può che ricordarci lo stesso sangue sacrificale col quale veniva asperso l’albero di Attis, o a cui si appendevano gli oscilla in epoca romana. Quando riprenderemo la trattazione del mondo creto-egeo-anatolico, vedremo che il motivo delle dea appesa non è infrequente. Queste si chiamano, Gorgô, Arianna, Elena, Fedra… Pestalozza fa osservare che queste divinità femminili non muoiono mai di morte “naturale”: muoiono tutte di morte violenta, generalmente provocata da altre divinità femminili. La morte di Arianna e di Fedra da Artemide, la morte di Gorgô da Atena, la morte di Elena da Polisso, che egli descrive come una potnia minore, decaduta, la morte di Aracne, la tessitrice di Colofone in Lidia, che cerca di impiccarsi per sfuggire alla collera di Atena ma che essa trasforma in ragno, come scrive Dante nel Purgatorio (XII, 43-45): «O folle Aragne, sì vedea io te, Già mezza ragna, trista in su li stracci, Del’opera che mal per te si fé». «E qual è il tipo di morte comune anche ad altre piccole potnie ed eroine… Charila… Erigone, ed a massime Potnie come Artemis… e la mesopotamica Inanna? La morte per sospensione ad un albero. A mio modo di vedere, non solo siamo qui fuori dal termine naturale della vita umana, che non mi sembra lecito identificare con morte violenta, come avviene a proposito di queste Potnie maggiori o minori; ma è il loro stesso morire che viene qui in di-
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scussione». Ed è precisamente considerandole originate da un rito di rigenerazione della Vita, prosegue Pestalozza, che le storie sacre delle dee e delle eroine che si appendono trovano la loro naturale spiegazione, così che le protagoniste vengono sottratte alla mortalità. Ludwig Deubner interpreta in questo modo il mito di Erigone, e Charles Picard analogamente il mito di Fedra, fornendo la chiave per interpretare tutti gli altri. Alla terracotta funeraria di Haghia Triada, rappresentante un’altalena sospesa tra due pilastri sormontati da uccelli, e la Dea su di essa in atto di spingersi in alto, faremo dunque corrispondere lo stupendo «skyphos» attico che, in una faccia, riproduce le Aióra con la Basilinna seduta su di un’altalena sospesa a sei funi e sospinta in alto energicamente da un satiro nudo con la coda equina e, nell’altra, la Basilinna in abito nuziale seguita dallo stesso satiro, che si accinge all’incontro con Dioniso.
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Dalla Grande Dea a Dioniso
L’antica Europa non aveva dei. La Grande Dea era considerata immortale, immutabile e onnipotente, e il concetto della paternità non era stato introdotto nel pensiero religioso R. Graves
La «religione della Terra Madre», della immensa Potnia che la incarna, significa dunque religione di una Dea che raccoglie in sé, compone e ricombina dentro una personalità unica, tutti gli aspetti della Grande Dea Madre Nutrice di Tutto, la pántōn genéthla; così possiamo riassumere i caratteri della religiosità arcaica. Se riprendiamo il significato che ancora riveste il rito dell’altalena come lo abbiamo descritto durante le celebrazioni induiste, in particolare nelle sue forme ordaliche nell’India vedica e nelle festività nepalesi dedicate alla Grande Dea, possiamo avventurarci nell’ipotesi che esso rappresenti specularmente, per l’Occidente - in particolare per la mitologia greca dalla quale esso origina - uno degli snodi del complesso passaggio che costituisce, secondo Caillois, «l’accesso a quella che comunemente viene chiamata civiltà». Abbiamo visto come, secondo questo studioso, la civilizzazione consisterebbe nel progressivo slittamento da una società imperniata sui giochi di «maschera e vertigine», ad una caratterizzata da quelli di «Agon e Alea». Ricostruendo il filo della storia di questo gioco rituale, prima del suo utilizzo come simbolo della Grande Dea, poi come elemento di un culto dionisiaco, possiamo tracciare l’evoluzione che lega la civiltà mediterranea arcaica e matriarcale a quella greca e patriarcale. L’uso cultuale dell’altalena, dunque, segue il passaggio di attribuzioni dalla podestà della Potnia a quella di Dioniso: il dio punto di equilibrio e di transito, incerto e instabile, ma al tempo stesso potente e vitale, tra maschile e femminile, natura e cultura, vita e morte, nella storia del nostro mondo, e non solo. «Comunque, causa o conseguenza che sia, ogni volta che una grande cultura riesce ad emergere dal caos originale, si riscontra una sensibile regressione delle forme di simulacro e vertigine: esse ven75
gono allora svuotate della loro antica importanza, respinte alla periferia della vita pubblica, ridotte a ruoli sempre più modesti e intermittenti, se non addirittura clandestini e illeciti, oppure confinate nell’ambito limitato e regolato dei giochi e della fantasia, in cui esse apportano all’uomo le stesse eterne gratificazioni, ma regolarmente represse, e volte ormai solo a distrarlo dalla sua noia o riposarlo dalla sua fatica, senza più follia né delirio […]. L’evoluzione è sorprendente e significativa, e non si riferisce soltanto ad un caso particolare. Nello stesso periodo, un po’ dovunque in Grecia, i culti orgiastici ricorrono ancora alla danza, al ritmo, all’ebbrezza per provocare nei corpi l’estasi, l’insensibilità e la possessione da parte del dio. Ma quelle vertigini, quei simulacri, sono ormai vinti. Non costituiscono assolutamente più i valori principali della polis. Perpetuano un mondo remoto. […] Il regno della Mimicry e dell’Ilinx, in quanto tendenze culturali riconosciute, venerate, imperanti, è infatti condannato non appena lo spirito approda dalla concezione del Cosmo a quella di Universo, cioè, ordinato e stabile, senza miracoli né metamorfosi. Tale universo appare come l’ambito della regola, della necessità, della misura, in una parola: del numero. In Grecia, la rivoluzione si può cogliere anche sotto alcuni aspetti molto precisi. Così i primi pitagorici usavano ancora i numeri concreti. […] Il numero, la misura, lo spirito di rigore che emanano, se sono incompatibili con i turbamenti ed i parossismi dell’estasi e del travestimento, consentono in cambio il subentrare dell’Agon e dell’Alea come regole. Nel momento stesso in cui la Grecia si allontana dalle società magiche, sostituisce la frenesia delle antiche feste con la serenità delle processioni, fissa un cerimoniale (a Delfi) perfino per il delirio profetico, dà valore di istituzione alla comparazione regolata e all’estrazione a sorte» (Caillois, pp. 117-128). E certamente, come abbiamo sostenuto in altri studi (cfr., Il Gioco del Mondo), e come magistralmente hanno argomentato Horkheimer e Adorno nel loro classico Dialettica dell’illuminismo, l’Occidente nasce anche da questa “scissione” tra umanità e mondo, tra umanità e natura, proprio a partire dalla necessità di superare la visione della ci-
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clicità e dell’unicità dell’esistenza che, inevitabilmente, include anche la percezione immanente e onnipresente della morte fisica di ognuno di noi. Essere immersi nel ciclo della vita, essere esposti all’estatica visione della Dea, intesa come prismatica ipostasi della zōé, porta certamente a confrontarsi con l’irrazionale che vi regna, con l’angoscia dell’imponderabile. Questa fragilità esistenziale ha spinto una parte dell’umanità a creare l’Occidente, a cercare cioè forme del pensiero che tendono al controllo dell’esistenza a partire dalla ricerca di una verità oggettiva, la filosofia, sino allo sviluppo delle regole sociali ed economiche che mettono l’uomo, con la sua soggettività raziocinante, al centro dell’universo. Da questo bisogno di dominio sul proprio destino sono nate poi una filosofia della scienza con la sua episteme e la conseguente tecnologia. Ma la necessità del controllo passa anche attraverso la mutazione del «potere» che, da originariamente imperniato sulla rigenerazione ed il mantenimento della vita, il potere di, diventa col tempo un potere su, gerarchico. Qui scorgiamo un aspetto centrale nel passaggio storico dalla civiltà minoica, che poggiava le sue basi su un matriarcato «più che di autorità, di comprensione e di prestigio muliebri», a quella patriarcale dominata dai Dori - «barbari senza remissione» - che la Marconi definisce «brusco e buio». Per l’evoluzione storico-mitologica di queste diverse fasi, dal neolitico all’invasione achea del XIII secolo a.C., rinviamo all’introduzione a I miti greci di R. Graves, che disegna mirabilmente il passaggio da un mondo ed una religiosità matrilineare, ad una patriarcale dalla Grande Dea a Zeus - per poi arrivare alle religioni monoteiste attuali. Da questa progressiva razionalizzazione, e gerarchizzazione, del pensiero occidentale sul Mondo, arriviamo alla sfida finale che segna la nostra modernità tecnologicamente orientata, il grande esperimento che già ora si rivela, per la maggioranza dell’umanità, un inganno tragico: il superamento del limite della vita, il diniego della morte come parte costitutiva della vita, la rimozione che oggi ali-
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menta l’enorme macchina edonistico-consumogena ed anche la trasformazione della natura in un insieme di materie prime inanimate, da utilizzare per il nostro crescente controllo sulla biosfera, e non certo come un insieme animato col quale vivere in equilibrio, e dal quale trarre suggerimenti per orientare il nostro stesso modello di civiltà. De Santillana, nel suo saggio sul Fato, sintetizza che la gravità di questo percorso non risiede tanto nel distacco dalla natura, per certi versi consustanziale all’intelligenza umana ed alla sua volontà di comprensione, quanto nell’aver cancellato dalla nostra visione il Cosmo che ci contiene ed esprime - il Fato degli antichi appunto - nel quale le leggi di natura erano, sì da conoscere, ma perché immutabili nella loro perfetta interazione. In definitiva una visione squilibrata e squilibrante delle relazioni natura-cultura, che mette a repentaglio la nostra stessa vita, accecata dalla volontà di affermazione e di sottrazione all’ordine superiore delle cose. Torna qui la riflessione di Valéry quando diceva che ogni vera metafisica esige che l’uomo sia partecipe di uno spettacolo che in qualche modo lo esclude. In sintesi, come abbiamo visto, la «maschera e la vertigine» sono legate a forme non solo estreme di visione ed estasi, alla morte ed alla percezione del «gorgo» nel quale da un momento all’altro può cadere la vita, ma anche a più blandi legami sociali e, soprattutto, all’angoscia esistenziale di non poter governare i fenomeni che determinano l’esistenza, sia del singolo sia della società. «L’unione imitazione (Mimicry) vertigine è così dirompente, così fatale, da appartenere naturalmente alla sfera del sacro e da fornire, forse, una delle spinte principali di quella mescolanza di terrore e seduzione che lo definisce. La forza di un simile sortilegio mi appare invincibile, al punto che non mi meraviglia affatto che all’uomo ci siano voluti dei millenni per liberarsi del miraggio. Vi ha guadagnato l’accesso a quella che comunemente viene chiamata civiltà. Credo che l’avvento di quest’ultima sia la conseguenza di una
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scommessa press’a poco analoga dappertutto per quanto tentata in condizioni dappertutto diverse […] producendo l’incrinatura che ha segretamente messo in crisi l’accordo della vertigine e dell’imitazione, che tutto faceva credere di una duratura stabilità. […] La ricerca della trance e del panico assoggettano nell’uomo discernimento e volontà, ne fa il prigioniero di estasi ambigue ed esaltanti in cui si crede un dio, di rapimenti che lo dispensano dall’essere uomo e lo annientano» (Caillois, pp. 94-96). E dunque, per Caillois, il «progresso» sarebbe questo passaggio da una visione, ed organizzazione, della società governata dall’estasi, ad una in cui ci si affida al merito ed alle regole condivise, alle scienze esatte ed al pensiero raziocinate, e nelle quali regnano i giochi di Agon, ma anche quelli legati all’Alea che, come abbiamo visto, giocano il ruolo di sfogo alle regole troppo ferree della competizione. Anche Marija Gimbutas, l’archeologa che più di ogni altra ha studiato sul terreno i vari aspetti della Dea, apre il suo Il linguaggio della Dea, con questa riflessione. Ora, fatte le doverose premesse, possiamo seguire questa evoluzione, certamente suggestiva ed affascinante, attraverso le mutazioni di destinazione d’uso cultuale delle due componenti che, nella Grecia classica, caratterizzano i riti dionisiaci: l’altalena e la tragedia. Prima di tutto va detto che queste sono manifestazioni chiaramente legate al connubio «maschera e vertigine», e dunque originariamente ad un certo tipo di visione del mondo. La «maschera e la vertigine» verranno utilizzate durante le Anthestéria - la festa dionisiaca di primavera - come tragedia (la maschera) e altalena (la vertigine), ma rappresentano già forme evolutive, “civilizzate”, di culti molto più antichi, nei quali il mascheramento e l’estasi vertiginosa erano al servizio della zōé colta nella sua essenza immediata: potente ed ingestibile, sovraordinata rispetto alla possibilità umana di governarne le regole. Nel periodo arcaico, protostorico, questi erano, infatti, dispositivi che servivano ad evocare l’epifania della Grande Dea mediterranea, espressione analoga a Devi, la Grande Madre della creazione cosmica, ed alla Pacha Mama della religiosità latino americana originaria;
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senza di Lei la Vita non si rinnova e senza il suo «mana» (Shakti) neanche gli dei della Trimurti o della Santissima Trinità cattolica possono esercitare il loro mandato: dare luogo al mondo fenomenico, mantenere, distruggere e rinnovare l’ambito contingente della creazione. Nella Creta minoica, dove per millenni, certamente dal 4000 a.C., ha dominato una sola divinità - la Grande Dea senza nomi, Madre di tutti gli altri dei - il sacro non era separato dalla vita di ogni gior no, e le sue manifestazioni, a partire da quelle attribuite a Dioniso, il dio della «vita indistruttibile», nella sua ipostasi taurina, erano immediate: visionarie e mistiche. Kerényi riporta nel capitolo Gestualità minoica del suo Dioniso, un giudizio di H. A. Groenewegen-Frankfort che, per così dire, illumina, attraverso un’analisi delle forme d’arte, la concezione religiosa da cui sarebbero poi nati i riti originari dell’altalena che ritroveremo, “civilizzati”, nelle Anthestéria. «L’arte cretese non conosceva quella tremenda distanza fra l’essere umano e il trascendente, che poteva indurre nell’uomo la tentazione di cercare una via d’uscita dallo spazio e dal tempo. Altrettanto poco conosceva la magnificenza e la vanità delle semplici azioni umane che sono legate al tempo e allo spazio. A Creta gli artisti non hanno conferito consistenza al mondo dei morti facendone un’ombra del mondo dei vivi, non hanno eternato gesta superbe, e neppure hanno elevato attraverso i loro templi una modesta pretesa ad essere presi in considerazione dagli dei. Là, e là soltanto - contrariamente a quanto accadde in Egitto e nell’Asia Minore - la pretesa umana di svincolarsi dal tempo fu disprezzata, dando luogo alla più totale adesione alla leggiadria della vita che il mondo abbia mai conosciuto. Poiché vita significa movimento, la bellezza del movimento era intessuta in quella trama di forme viventi che si definiscono “scene naturalistiche”. Questa bellezza si mostrava nei corpi umani occupati nei loro giochi severi e ispirati da una presenza trascendentale, giochi liberi e insieme conformi alle regole, senza alcuno scopo, proprio come senza scopo è il tempo ciclico».
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Questa gratuità del «tempo ciclico» colpisce la sensibilità contemporanea, quella per intenderci de “il tempo è danaro”, e ci rimanda ad altri modi di vita, presenti all’interno di modelli culturali considerati sino a pochi anni or sono “minori” o “primitivi”, nei quali il trascorrere del proprio tempo di vita è l’unica realtà oggettiva, come dice il verso di Baltasar Grancian: «Non abbiamo di nostro che il tempo in cui vive chi non ha neppure dimora». La gratuità del «tempo ciclico» si collega così alla convivialità, ai momenti dello scambio e della condivisione, a quel «fare tempo» che oggi viene recuperato in chiave non solo esistenziale - il tempo della qualità - ma politica, ricercando la dereificazione del proprio tempo di vita, la «cura di sé» di cui parla Foucault come mezzo per destrutturare il dominio biopolitico. Calasso sottolinea come il «mistero a Creta, era palese, e nessuno tentava di nasconderlo». Le «cose innominabili» erano spalancate dinanzi agli occhi di tutti. Un esempio artisticamente superbo di questa visione «minoica» dell’esistenza, lo troviamo nella “tomba del tuffatore” di Paestum: l’espressione del protagonista che si immerge in un mare oltremondano con un sorriso nel quale «l’ebbrezza del vivere, sopravanza la serenità dell’esistere». Continuando a seguire la descrizione della gestualità legata al culto della Grande Dea, troviamo che il gesto è determinato dal gioco, e tuttavia gioco e corpo costituiscono entrambi un unico gesto indivisibile, per cui si potrebbe dire che un tale movimento - contemporaneamente libero e limitato - sia come «ispirato da una presenza trascendente». La Grande Dea della natura e della vita sarebbe stata là: «spettatrice divina»; ora, ed è il punto centrale, questa unità tra umano e divino nel gioco viene simboleggiata dalla raffigurazione della Dea in altalena: l’oggetto è così la sua stessa ipostasi. La gestualità minoica presuppone così la possibilità di epifanie, prodotte o rese credibili grazie alla capacità visionaria suscitata dal gioco: l’altalena o l’acrobazia tra le corna del toro. È un utilizzo diverso, dunque, da quello che vedremo nella festa delle altalene, le
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Anthestéria: i gesti che si compiono nell’esperienza visionaria di una epifania sono infatti gesti autentici, non ripetitivi, diversamente da quelli del culto, che non possiede il carattere originario della visione. Vediamo emergere qui lo scopo arcaico, sacro, della «vertigine», che si produce attraverso l’altalena così come nell’acrobazia tra le corna del toro; le determinanti essenziali sono le stesse: la creazione dell’Ilinx mediante l’accelerazione improvvisa, l’elevazione, il rischio potenzialmente mortale e poi l’abisso. Le troviamo, d’altra parte, tutte condensate e riassunte nel gesto di ascendenza dionisiaca che evoca il «vortice» col quale il dio della «vita indistruttibile» si identifica, descritto da Nonno di Panopoli nelle Dionisiache. «Agguantando un indiano dal centro del corpo, lo fa rigirare, tutto rigido, sulle punte elegantemente ricurve delle sue lunghe corna e lo lancia in alto nell’aria, da dove l’infortunato ricade piroettante e ruzzolante» (traduzione di p. b.). Spingendoci oltre nell’analogia tra i due giochi, possiamo vedere il più rischioso dei gesti minoici come un dondolio: il lottatore afferra le corna e si lascia gettare in alto dall’animale; fa una o anche più piroette nell’aria e tocca terra dietro di esso. Qui l’acrobazia col toro configura una vera e propria altalena, selvaggia ed elegante al tempo stesso, le cui braccia altro non sono che le corna dell’animale. Il gesto è determinato dal gioco, e tuttavia gioco e corpo costituiscono entrambi un unico indivisibile, unificato dalla forza di una presenza divina. Un gioco «libero», come lo è ogni Ilinx, e che ancora oggi ritroviamo nella gestualità della Corrida de recortes, vera e propria taurocatapsia, come pure nella Festa di San Fermín a Pamplona, alla quale chi scrive partecipò da ragazzo correndo dinanzi ai tori dall’uscita della stalla sino alla Plaza de toros, provando l’estasi ineffabile della vita che sfugge alla morte. E, forse, questo saggio è solo un ex voto suscepto per ringraziare, di/o quel momento non è dato sapere; ma questa è un’altra storia. L’altalena avviene tra le corna del toro dunque, producendo la
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«vertigine» che porterà alla visione della Dea. Ma il toro rappresenta Dioniso, il dio dal piede di toro, adorato in forma teriomorfa sin dalla sua comparsa. E allora l’acrobazia taurocatapsica altro non è che un’altalena che ha come strumento il dio stesso. Nel passaggio alla civiltà greca, Dioniso verrà poi sostituito da una altalena vera e propria, sulla quale dondolerà la sua sposa Erigone, e le vergini si prepareranno così all’incontro col dio; le forme si manifestano in quanto si trasformano. L’evoluzione del binomio «maschera e vertigine» include, abbiamo detto, l’uso della maschera tragica: anch’essa subirà una coerente trasformazione, che segna il passaggio dalla centralità del ciclo di Dioniso a quello delle vicende umane, come visionariamente argomenta Nietzsche ne La nascita della tragedia. Dunque, pure nella storia di quest’antica forma di arte, come nel passaggio dal gioco vorticoso tra le corna del toro al gesto di Erigone, vediamo il trascorrere dell’antica podestà della zōé verso la sua declinazione umana. La tragōdía originaria, la «danza attorno al caprone», veniva rappresentata con la maschera del dio posta al centro del palcoscenico. La maschera, cui allora si dedicava il ditirambo, non svelava, ma velava il volto divino; mascherandolo, proteggeva l’umanità dalla visione diretta della sua forza incommensurabile. Poi, col tempo, simboleggiò un volto umano su di un altro volto umano, una dramatis personae che del sacro originario ed originante non emanava più che un pallido ricordo. Passati i secoli, la visione immediata della Grande Dea di Creta, alla quale venivano dedicati questi culti, si rattrappisce: appaiono statuette della Dea che tengono in mano papaveri; si staglia qui la figura di Demetra, ancora Grande Madre ma già mediata nella sua visione epifanica dall’estasi farmacologica dell’oppio. Dobbiamo supporre che in epoca tardo minoica l’oppio abbia ravvivato la capacità di evocare visioni che prima si producevano senza (cfr., Kerényi, pp. 29-40). Ora, le droghe, quelle psicotrope in particolare, sono sempre state supporti importanti per la comprensione umana del mondo; han-
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no contribuito a tendere il nostro arco sensorio sino a rompere con le loro frecciate le false dualità che ci opprimono, ma al contempo ci proteggono: conscio/inconscio, persona/cosmo. Soma era l’antico nome di Shiva, il Dioniso indiano; la sua identificazione col nettare allucinogeno omonimo, che mostrava l’universo nella sua essenza e nel suo potere, rende ragione del fatto che l’archetipo della «vita indistruttibile» si può cogliere solo nei contatti che legano tra loro i contrari, a partire da quello da cui tutti gli altri derivano: vita/morte. In ogni pianta c’è questa verità profonda, unitaria, che vibra: è per questo che le droghe più potenti, inebrianti, guaritrici, illuminanti, si ricavano da esse. Nietzsche, nella Gaia scienza, propone una storia delle droghe come storia del sentire; ogni periodo dell’umanità ha avuto le sue droghe, i suoi stupefacenti di riferimento, spesso identificati con le divinità del ciclo vita/morte: Osiride «sta all’ombra dell’albero noubs», identico secondo alcuni all’erba stupefacente omerica moly, che tanto ruolo ebbe nella vicenda legata al fascino sovrumano di Elena, e sicuramente all’ayahuasca amazzonica, usata dagli sciamani per comunicare col mondo vegetale ed animale e trarne così le risposte necessarie all’equilibrio del tutto. L’oppio della Cina che «abbatte il fisico ed esalta la mente», come diceva De Quincey nelle sue esperienze visionarie, farmaco principe per tutta la medicina orientale, simbolo sacro di Demetra in Occidente; la canapa indiana fumata dai seguaci di Shiva, e non solo: la setta degli Assassini che uccidevano per la promessa di tornare alle sue beatitudini. E come non parlare del dionisiaco vino mediterraneo, o della sacra foglia di coca degli altipiani andini, segno dell’alleanza tra quei popoli e la Pacha Mama, ma anche della cola africana che serve a sostenere il corpo negli stati di possessione, o della teobromina, nutrimento degli dei, principio del cacao; impossibile dimenticare il caffè e la meditativa pianta del tè, nata dalle palpebre tagliate di un bodhisattva in perenne risveglio, come le moderne droghe allucinogene derivate dall’LSD che aiutarono la beat generation ad «espandere l’area della coscienza»… e via enumerando, per arrivare alle più importanti
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di tutte: le nostre endorfine, reggitrici impareggiabili di ogni stato di gioia e dolore. Coleridge, un frequentatore del laudano, così poetizza il ruolo ricongiungente degli stupefacenti, nel suo L’arpa eolia: «E che dir poi se tutte le cose della natura animata, non fossero che arpe vere e proprie di diversa foggia, il cui brivido si traducesse in pensiero mentre sovra esse passasse, plastico e immenso lo stesso soffio intelligibile, anima di ciascuno ed al contempo Dio di tutti?». Questa sinestesia aiuta il transito della soglia, il ricongiungimento, la visione del sacro. Anche le luci psichedeliche che emanano dalle vetrate colorate delle cattedrali, unite al salmodiare ininterrotto dei fedeli ed ai loro digiuni, sono strumenti della medesima visionarietà sacramentale. Non abbiamo lo spazio per analizzare qui le deviazioni contemporanee da questi cammini, ma possiamo dire che l’uso odierno degli stupefacenti è tutto all’interno del mondo desacralizzato che ci circonda e ci attraversa, e dunque che l’effetto prodotto da questi operatori non può che essere degenerato, come tutto ciò che oramai afferisce al «regno della quantità», secondo la definizione dell’Occidente coniata da Renè Guenon. Nel passaggio epocale, paradigmatico, da una visione immediata della zōé ad una mediata dalla presenza della soggettività umana nel mondo, ecco emergere l’emblematica figura di Dioniso; il dio dell’ebbrezza compare improvvisamente a Pilo in un santuario dell’aria cretese, nel 2000 a.C.. «Cosa è Dioniso», cosa simboleggia a questo punto della storia del sacro nel Mediterraneo? A quale esigenza culturale e cultuale risponde il dio della zōé? Una risposta possibile nasce dall’ipotesi che egli rappresenti il processo di progressiva soggettivazione della bíos umana che, lentamente, smette di essere solo spettatrice estatica della visione divina - di «giocare per la Dea» - per prendere posto da protagonista sulla scena del mondo. Se la danza minoica sul toro, la «vertigine» del dondolio tra le corna dell’animale, l’immagine stessa della Dea in altalena, portavano l’uomo più vicino alla divinità anche a prezzo del rischio mortale,
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adesso la bíos umana, nel suo processo di soggettivazione, ha bisogno di una divinità che combini estasi ed archetipo della «vita indistruttibile» con la presenza dell’uomo nella storia; che faccia da specchio, con il suo ciclo, non solo a quello della Natura, ma della vita umana caratterizzata, che vuole essere anch’essa celebrata. Così nasce Dioniso e si afferma il suo avvento: nelle celebrazioni, nel culto del dio che nasce, muore e rinasce, si rispecchia finalmente l’umanità. «Nel contemplare Dioniso, l’uomo non riesce più a staccarsi da se stesso: Dioniso è un dio che muore», dice Giorgio Colli; a legarci indissolubilmente a lui è il mito orfico che narra la nascita dell’umanità dai residui calcinati del suo corpo, cotto dai titani. Si abbandona così la visione mistica della Dea, potente ma ingestibile, per trascorrere lentamente nel culto dionisiaco: la forma che allude sì alla visione ma senza la sua immediatezza dirompente. L’estasi viene allora confinata in periodi precisi, formalizzati nelle feste dedicate al dio dell’ebbrezza e nei gesti delle sue menadi, baccanti, coribanti: tutte figure eccezionali, attraverso le quali l’eccezione serve a confermare la regola. Dioniso è dunque un dio di passaggio, in tutti i sensi, di tutti i sensi; un dio sinestetico - come le droghe psichedeliche - nel quale il delicato ed instabile equilibrio tra razionale ed irrazionale, tra vita e morte, tra natura e cultura, tra Eros e Thanatos, tra io e mondo, maschile e femminile, ordine e caos, sarebbe stato poi a sua volta superato dalle nuove religiosità monoteiste e patriarcali, più adatte a staccare completamente l’uomo dalla natura e condurlo verso quell’antropocentrismo ottuso e totalizzante che viviamo oggi: quando lo spreco sembra l’unica necessità, e il misticismo un retaggio che ancora è in odore di eresia. Questo punto mediano, ma non mediato, questa particolarissima forma di conjunctio oppositorum, possiamo definirla con l’allusivo termine «dionisiaco». Dionisiaco è un polisema che comprende sia il «chi» della divinità alla quale si riferisce, come descritta da Nietzsche ad esempio in opposizione all’«apollineo», sia il «cosa» sensazionale che può ancora
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oggi vivere una semplice persona ebbra di vino. Ognuno di noi cerca e vive momenti dionisiaci, la cui determinante essenziale altro non è che la percezione immediata ed istantanea di tutti gli opposti che la vita contiene: un precipitarsi nella totalità dell’essere senza frapposizioni di sorta. Ma, a differenza dei secoli passati, precristiani, questo confronto immediato con le cose è purtroppo decisamente residuale nell’economia della nostra formazione psichica attuale. Al contrario, all’interno del processo storico che parte dalla religiosità mediterranea arcaica ed arriva a quella greca, possiamo vederlo come il punto di equilibrio, certo instabile ed ambivalente, che in Grecia si era raggiunto tra natura e cultura. Ecco che, ispirate a questo nuovo centro di equilibrio dionisiaco, nascono le grandi festività legate al ciclo della zōé, i riti equinoziali e solstiziali della classicità greca. Di conseguenza e di converso, alla progressiva coerenza interna del principio dionisiaco corrisponde specularmente la prismatizzazione della Dea: vediamo chiaramente come le figure di riferimento femminili per ognuna delle feste si dipartono da Lei; ipostasi diverse che, nel corso del tempo, con il suo disgregarsi, ne prenderanno via via il posto scomponendone l’unitarietà. Anche Dioniso appartiene a questa genealogia, essendo egli nato da Lei e per Lei, come suo paredro: in origine, infatti, egli era solo la soggettivazione antropomorfa (il dio dal piede di toro) di quella teriomorfa, che era una delle più comuni e gradite della Dea. Pestalozza ci ricorda come, nel mondo mediterraneo, una prediletta epifania della Potnia Theron, la signora degli animali, fosse proprio l’epifania bovina; a cui corrisponde nel divino paredro della Dea, figlio di Lei o fratello, l’epifania taurina. Più frequentemente, però, la Potnia mantiene le sue forme muliebri di fronte al paredro in aspetto teriomorfo, a Lei soggetto ed obbediente. Dunque Dioniso antropomorfizza il toro, e di esso mantiene diverse caratteristiche, tra cui quella della sottomissione al principio femminile creatore. Diodoro Siculo, d’altra parte, riporta la nascita del dio da Deme-
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tra o Persefone sedotta da suo padre sotto forma di serpente, dunque da una forma di Dioniso stesso. E, esattamente in virtù di questo legame essenziale tra la natura dionisiaca e quella della Grande Dea, vedremo come egli, pur essendo il dio che eredita la forza divina della zōé incondizionata, avrà comunque bisogno di Arianna, Erigone, Demetra, o delle sue baccanti, per dare una forma duratura alla bíos caratterizzata, per animarla. Riprenderemo il significato di certe affermazioni quando descriveremo, durante la festa delle altalene, sia la mixis tra la Basilinna ed il toro, che rappresenta Dioniso, sia la relazione tra il dio e l’altalena di Erigone. E infine, se ancora ci fosse bisogno di richiamare la filiazione diretta tra la Grande Dea e Dioniso, basta rileggere le Dionisiache di Nonno, in cui, per descrivere la nascita del vino, l’autore ci dice esplicitamente che Rea, la Grande Dea, allevava Dioniso nella sua grotta. Anche Apollodoro colloca Semele, la madre mortale, vicino a Gea. Solo in epoca tarda uno Zeus totalmente patriarcalizzato - per affermare la sua podestà sulla potenza femminile riproduttiva - addirittura partorisce il dio dalla sua coscia, come già aveva fatto con Atena dalla testa, dopo aver ingoiato con l’inganno Metis, la «saggezza accorta», madre di lei. «Quanto doveva apparire assurdo che il femmineo Dioniso, sempre circondato da uno stuolo di donne come sue compagne più fide, fosse stato generato unicamente da un uomo», commenta ironicamente Otto. Parimenti assurda è la estromissione di Maria, madre di Gesù, dalla compagine trinitaria, in cui il Principio femminile è sostituito dallo Spirito Santo che, con la sua indeterminata definizione, a mala pena riesce a velare la vera ed originaria potenza che simboleggia: la capacità autogenerante della Dea che qui viene separata dalla figura della Madre di Dio proprio per evitare che in lei la Grande Dea si ricomponga. L’ambivalenza dionisiaca è dunque un residuo gilanico minoico, come direbbe Riane Eisler, in altre parole il segno di una identità
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non legata ad un solo «genere» sessuale ma ad una relazione tra i due: il che rende il dio emanazione della Dea più di tante altre divinità femminili. Questo spiega anche la sua illimitata libertà di metamorfosi, questo sovrano trascorrere dall’uno all’altro regno della natura assumendone gli aspetti più mescolati e vari che segnano di un marchio preellenico indelebile la sua figura, che le donne orgiasticamente possedute dal nume acclamavano come toro scalpitante, drago volante, pantera tatuata, leone ruggente, vivido guizzare di fiamma, dice il Pestalozza. Il passaggio del testimone dalla Grande Dea a Dioniso, sua emanazione per antropomorfizzazione, coincide dunque con la conquista di Creta da parte dei greci. Per questo diciamo che con essi, in età classica, nasce l’Occidente. E proprio nel momento del passaggio dalla Grande Madre ad una divinità maschile, anche se sessualmente ambivalente, inizia il regno della vita umana che celebra se stessa: nasce qui la soglia che segna il distacco della cultura dall’onnipotenza della Natura, la fine della sottomissione assoluta dell’umano al divino. I culti dionisiaci, anch’essi inizialmente visionari, seppure tali poiché “potenziati” dal vino, servono dunque per mantenere aperta la relazione tra il potere temporale dell’uomo e quello spirituale della Grande Madre. È certo però che, lentamente, anch’essi si “formalizzano” arrivando prima in Attica e poi ad Atene, la culla dell’Occidente, della filosofia come ricerca di una verità oramai fuori dalla esperienza diretta dell’uomo. Quando l’evo antico terminerà con la chiusura dell’Accademia platonica a Roma da parte di Giustiniano, nel 529, vedremo sopravvivere nei secoli solo alcuni “relitti” dionisiaci - è il caso del tarantismo o della processione dei Misteri a Taranto - come unione della «maschera e della vertigine». L’uso dell’altalena, come “vestigia” dionisiaca, sopravvivrà anche in alcune feste popolari dei secoli passati, come pure in certi canti. Nella Roma rinascimentale, ad esempio, troviamo la Canofiena, uno dei giochi in occasione delle feste che venivano organizzate per
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il divertimento popolare. La Canofiena era una sorta di grande altalena multipla sospesa anche a diversi metri di altezza; ancora nel XIX secolo si usava in occasione della vendemmia nelle campagne romane, e di una parte del Sud: Puglia e Basilicata. La particolarità della Canofiena era la musica, a base di tamburello o di tammorra campana. Questa tipologia musicale la incontriamo anche in Marocco e Algeria, stabilendo un’interessante analogia tra la sensualità tutta corporea delle danze arabe e beduine, e la sessualità del contenuto dei canti che trattano in prevalenza di corteggiamento, dove il corteggiato o la corteggiata deve rispondere. Il gioco, ancora ricordato in città, viene citato da Carlo Emilio Gadda in una battuta di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana: «Me pare mi nonna su la canofiena». In Puglia e Basilicata, ancora oggi, si usano i «canti dell’altalena», eseguiti senza accompagnamento strumentale. Musiche vocali, melodiche, senza alcun punto di riferimento per il mantenimento di una intonazione costante, questi canti senza musica sono tipici della cultura che li esprime, capaci di dare forma al silenzio dei campi e di suonare come una preghiera propiziatoria durante le feste agrarie. Qui ritroviamo le osservazioni di De Martino riguardo la sessualità nella pubertà, come nel rito delle Altalene ad Atene. I motivi ricorrenti per i canti lucani chiamati “U Tront”, ad esempio, vedono alternarsi allusive scene di caccia a incontri fortuiti che scatenano una trasgressione sessuale, come l’amplesso in casa della donna sposata. I canti e le altalene hanno nomi propri: ogni canto è legato ad un tipo di altalena ed al ritmo impresso dai dondolanti; ad esempio i due cantori si pongono spalla contro spalla nel caso dei canti pugliesi. Qui si fissa l’altalena facendo passare la corda, detta zoca, in un gancio infisso sulla volta della stanza - lo stesso principio dei tarantolati di un tempo - oppure attraverso una delle travi del soffitto, o ancora sull’uscio di casa. Altre versioni prevedono l’altalena appesa ad un albero. Gli Scimabuli così chiamati a Volturino, o Sciàmpele a Motta Montecorvino, o Nzàmmaruculea, sono canti dalle suggestioni arcaiche,
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capaci di evocare la connessione essenziale tra la terra e gli uomini. In Puglia ci si dondolava nel senso dell’asse, ed è l’unica altalena tradizionale ad avere questo andamento longitudinale, insieme alla Canofiena romana. Questa progressiva degenerazione ed emarginazione dei culti di «maschera e vertigine», la ritroveremo anche nell’uso di certi oggetti simbolici, ad esempio gli oscilla delle case romane, che via via si trasformano sino ad assumere la forma dei pendagli che dondolano dagli specchietti retrovisori delle nostre auto. E forse, come estrema forma di relitto-vestigia, possiamo anche annoverare i cagnolini che continuamente muovono la testa sui lunotti posteriori delle automobili, oppure le manine meccaniche che salutano compiendo sempre lo stesso gesto oscillatorio. Non sono forse queste le forme residuali, quanto quotidiane, del moto di quell’altalena sulla quale, un tempo, dondolava Erigone e, ancora più anticamente, veniva venerata la stessa Dea? Se questo genere di oggetti, peraltro estremamente kitsch, hanno comunque un fascino, forse lo si deve, come del resto per tutto ciò che annoveriamo in quella eterogenea categoria, alle ascendenze che essi richiamano. Perché, se è pur vero che «maschera e vertigine» hanno lasciato il posto all’ordine sociale che conosciamo, dimentico del linguaggio dionisiaco e, dunque, della relazione biunivoca tra noi ed il mondo, forse sarebbe saggio tornare, quanto più possibile, all’ebbrezza spontanea e, se non alla visione, almeno alla sua evocazione, richiedendola a quegli stessi giochi che in passato ce l’hanno così generosamente elargita. Non si tratta allora di andare indietro ad un tempo improponibile e in cui, tra le altre cose, governavano il terrore e l’arbitrio degli dei, ma di riequilibrare il rapporto con il mondo dentro e fuori di noi. A questo proposito, nel capitolo conclusivo, faremo una modesta proposta al fine di motivare il ripristino nei parchi pubblici delle altalene di una volta: non quei giochi mortificanti e rachitici che, in nome della sicurezza, amputano l’esperienza infantile dell’ebbrezza e della visione, ma di vere altalene, quegli oggetti favolosi che genera-
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no in noi la consapevolezza che si è vivi perchÊ si rischia di morire, e che esiste qualcosa che ci comprende tutti.
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Il mito greco: Erigone
Chi sa… cosa è Arianna F. Nietzsche
Il passaggio dall’altalena tra le corna del toro in onore della Grande Dea al dondolio della vergine suicida Erigone è racchiuso nel mitologema greco. In estrema sintesi, narra di questo: un pastore di nome Icario ricevette da Dioniso il segreto del vino. Di questo nettare egli fece dono ai suoi colleghi pastori che, credendosi avvelenati, lo uccisero. La fedele cagna Maira corse a cercare la figlia Erigone che, di fronte al cadavere del padre, lanciò una maledizione prima di impiccarsi per il dolore: da quel giorno, nella ricorrenza del suo gesto, tutte le vergini si sarebbero impiccate sino a quando gli assassini del padre non fossero stati trovati ed il suo sacrificio espiato. Così andò; di fronte a quel susseguirsi di impiccagioni verginali, gli abitanti di Atene si rivolsero all’oracolo delfico, che sentenziò la necessità di inventare un gioco che potesse simboleggiare l’impiccagione senza causare la morte. Così nacque il rito dell’altalena. Ma, per comprendere appieno il mito, dobbiamo situarlo all’interno della sua evoluzione: le storie non vivono mai vite solitarie, sono inserite in un grande albero del quale dobbiamo ritrovare le radici attraverso i rami. Abbiamo già documentato il fatto che il fondamento storico cultuale sul quale si basa questa ricostruzione del rito tratto dal mito, risale ad un’epoca molto più remota: precisamente alle ipostasi fitomorfe della Dea, poi successivamente alla taurocatapsia minoica ed infine alla sua stessa immagine in altalena. Infatti, nella zona che circonda il palazzo di Aghia Triada, presso Phaestos, venne trovata una statuina di terracotta, risalente al XVI secolo a.C., che rappresenta una figura femminile che si dondola in altalena. Il luogo di rinvenimento era un piccolo reliquiario e la statuetta, sormontata da due uccelli che stanno per spiccare il volo, for93
se mediatori tra il mondo dei mortali e quello degli dei, evoca, all’interno dell’arte minoica, l’ipostasi della divinità che, in questa cultura, significa l’altro da sé, lo «spettatore divino». A Malthi in Messenia e a Mari in Mesopotamia si trovarono altre due statuette della Dea, risalenti allo stesso periodo, seduta e approntata per la sospensione. Una figura femminile in trono che doveva essere destinata a dondolarsi la troviamo anche in un santuario della dea babilonese Ninhursag, risalente al III millennio a. C., come pure in varie parti della Grecia sono state rinvenute figure preistoriche che, come gli oscilla, erano destinate allo stesso scopo. Alle origini, dunque, la sfera del mito e del suo rito appare molto più ampia e decisamente meno tinteggiata di toni oscuri rispetto al mito greco, essendo certamente presente il tema della morte ma, più ancora, quello della rinascita. E di morte e rinascita parla il simbolo più conosciuto di Cnosso, il regno della Grande Dea: il labirinto. «Una grande figura femminile della cerchia dionisiaca apparve su una tavoletta di Cnosso, in un contesto di poche parole senza nomi; e tuttavia fu il primo personaggio divino della mitologia greca che poté essere immediatamente conosciuto […] è la Signora del Labirinto: essa deve essere stata una Grande Dea. […] Socrate, nel dialogo che Platone pubblicò con il titolo di Eutidemo, nominò il labyrinthos (241 B, C) e lo descrisse come una figura in cui è facilissimo riconoscere una linea a spirale o a meandro che si ripete all’infinito. […] Sia la spirale sia il meandro vanno intesi come percorsi che si fanno involontariamente avanti ed indietro, se si continua a seguirli» (Kerényi, pp. 102-105). «Io sono il tuo labirinto... », dirà Dioniso ad Arianna nella poesia di Nietzsche. Arianna «moglie di Dioniso», come dice Euripide nell’Ippolito, è una divinità lunare, legata alla parte umbratile dell’esistenza, come Persefone e Demetra. Su alcune monete di Cnosso la troviamo raffigurata su una faccia, mentre su quella opposta compaiono i meandri del labirinto con iscritta una falce di luna. Questa sua caratteristica affinità con la costruzione dedalica le consentirà di orientare Teseo, ma anche di
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identificarsi con il movimento dell’altalena, che riproduce le fasi lunari nel loro continuo mutamento: come i meandri del labirinto. Le tre fasi della luna si riflettevano anche nella figura della Grande Dea come vergine, ninfa e vegliarda. Altra identificazione fu quella che vedeva la vergine associata all’aria, la ninfa alla terra e la vegliarda al mondo infero. Queste letture gettano luce anche sulla modalità della morte di Arianna, o di una delle sue morti, quella per suicidio mediante impiccagione, che la identificherà poi con Erigone, la vergine che ha generato il rito dell’altalena. Il mito, lo verificheremo tra poco, in questo caso «esistenziale» - come lo storico delle religioni Raffaele Pettazzoni definiva quelli che simbolizzano le fasi della vita - non va separato dal rito che lo richiama e lo attualizza. E allora possiamo pensare all’altalena come ad un gioco che “svolge” il labirinto; una sorta di trasformazione del percorso terrestre, forse in origine una danza, in moto pendolare: la traiettoria, che richiama la falce di luna, ne risolve i meandri in eterne oscillazioni. Luna ed altalena divengono così le facce di una metafora aerea che richiama le fasi di una perenne ricerca interiore, mai terminata, inesausta; una prova continua, a tratti mortale, che sembra tornare incessantemente al punto di partenza, e della quale il labirinto è sempre stato il simbolo più immediato. «Essendo caduti, allora, come in un labirinto, mentre credevamo, ormai, di essere alla fine, risultò che ci trovammo, di nuovo, al punto di partenza della ricerca e che ci mancava proprio quello che fin da principio cercavamo» dice Platone nell’Eutidemo (291-B, C). Anche nei Misteri di Eleusi le danze labirintiche rappresentavano il cammino dell’anima verso la sua liberazione; i motivi a meandro, presenti in maniera ubiquitaria in ogni tempo e luogo, sono anche un simbolico riferimento alla zōé non passibile di interruzioni. Seguendo queste suggestioni capiamo perché nel palazzo di Cnosso il corridoio dal soffitto a meandri conduce verso la principale fonte di luce della costruzione, chiara simbologia della rinascita. Le analogie tra il labirinto e l’altalena, come vedremo analizzando il mito di Erigone, non si fermano qui: il costruttore del labirinto,
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l’architetto Dedalo, famoso per la maestria e l’ingegno tecnologico, fu a sua volta rinchiuso nella costruzione e riuscì a fuggirne attraverso l’invenzione del volo, l’elevazione verso il cielo, che l’altalena riproduce nella sua funzione simbolica. Questi riferimenti iniziali ad Arianna, ed al labirinto come percorso ripetitivo, un «avanti ed indietro», servono ad inquadrare le ascendenze dionisiache del mito fondatore: la storia di Erigone, l’«Arianna di Ikarion» che diverrà la prima baccante, vergine e amante del dio; una delle tante personificazioni della Grande Dea che, all’inizio della storia mediterranea, presiedeva al rinnovamento eterno della Vita. E allora entriamo nel mito greco che, per primo, come tutti i miti, ci descrive la festa delle altalene, e facciamolo guardando al firmamento, alla costellazione celeste in cui è fissato per sempre. Se l’andare in altalena è un riferimento polare nel cielo microcosmico delle nostre immagini archetipiche, è naturale che abbia un corrispettivo proprio nella costellazione che ci narra la sua storia: la Vergine o, in altre versioni, Sirio. Nel mito, ripreso da Eratostene, Sirio appare come la cagna Maira, la “scintillante”, un nome proprio per una tale stella. È questa cagna, poi trasformata da Dioniso in luminoso astro, che troverà il cadavere di Icario, l’eroe del dêmos di Ikarion, al quale il dio aveva deciso di far dono del vino. Ma, come spesso accade nelle relazioni diseguali tra uomini e dei, nell’asimmetria che vige tra la finitezza dell’umanità e l’indifferenza delle divinità - direbbe Varrone: parchissime di misericordia - il segreto procedimento si rivela, per il suo portatore, una maledizione. Icario, infatti, viene ucciso dai suoi amici - mandriani dei boschi di Maratona presso il monte Pentelico - poiché accusato ingiustamente di averli avvelenati proponendo loro di gustare il nettare senza tagliarlo con l’acqua, come Enopione più tardi consigliò di fare. Dioniso dunque, il dio che muore e rinasce, protagonista della tragedia greca, signore della zōé, è all’origine del mito greco dell’altalena, che a lui sarà legata anche da altre pratiche tutte riconducibili all’essenza del «dio dell’ebbrezza», del quale il vino è l’araldo.
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Sappiamo esattamente dove fosse situata Ikarion, poiché, nel linguaggio popolare, al luogo è rimasto il nome di «Sto Dionyso», da Dioniso. Solo qui troviamo il nome del dio, che altrimenti nella Grecia cristiana è stato trasformato in San Dioniso. Ikarion non è da confondere con Ikarios, l’isola del mare omonimo in cui, comunque, si situava uno dei luoghi di nascita del dio: il legame con Dioniso è fissato nel nome della capitale dell’isola, che si chiamava Oinoe, la «città del vino». E dunque, possiamo dire che Dioniso, nato ad Ikarios, trasporta il segreto del vino ad Ikarion. Dal mito, che Eratostene riprende dalle fonti antiche, emerge la protagonista della nostra storia: Erigone, la figlia di Icario, vergine e bella; sarà trasformata in una stella, o in una costellazione, contribuendo così alla spirale infinità delle analogie e delle trasposizioni. Gli antichi mitografi, quelli precedenti Eratostene, dicono che dopo l’uccisione di Icario da parte dei pastori che si credevano avvelenati, la cagna Maira, fedele compagna dell’emissario dionisiaco, torna da sua figlia per avvertirla della tragedia paterna. Comincia così l’angosciante erranza della ragazza alla ricerca del corpo amato, un topos che include, tra molti altri, la ricerca del cadavere smembrato di Osiride da parte della sorella-amante Iside. In altre versioni del mito, riportate da Pausania nel suo Perigesi della Grecia (II, 18, 5) e da Apollodoro nell’Epitome (VI, 25), Erigone è invece la figlia di Egisto e Clitennestra. Queste varianti riprendono alcuni elementi che costituiscono la celebre tragedia di Euripide, rappresentata per la prima volta nel 408 a.C. nel teatro di Dioniso: Clitennestra uccide il marito Agamennone, reo del sacrificio della figlia Ifigenia, e sposa il cugino di lui, Egisto. Oreste, figlio di Clitennestra ed Agamennone, uccide la madre uxoricida ed il cugino del padre che ne aveva con l’inganno sposato la vedova. Erigone, in queste versioni figlia della coppia Clitennestra Agamennone, lo insegue sino ad Atene; qui, disperata per la sua assoluzione ad opera di Atena, si impicca. Significativa prefigurazione di quello che sarà lo strumento simbolico che libererà le vergini attiche dalla sua maledizione, l’altalena appunto, Erigone, «copiosa figliolanza», traduce il suo nome Graves,
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oppure «nata all’alba» - tutti appellativi che la includono in uno degli aspetti della Grande Dea - viene, nei miti più antichi, chiamata Alêtis, l’errante, con riferimento non solo all’errabonda e disperata ricerca del cadavere, ma anche al suo carattere lunare, di perenne mutazione astrale. La luna e la morte - aspetti della Grande Dea - si sovrappongono alla figura di Erigone sulla sua altalena, così come lo sbocco del mito sarà verso la rigenerazione e la vita. Erigone erra dunque come la luna nel cielo, senza posa. A volte scompare, nera ed invisibile, minacciosa, come inghiottita dal mondo infero. Se per la civiltà greca Dioniso è oramai il dio della zōé, la vita senza caratterizzazioni, Erigone, figura epigona della Dea, ne è il principio animatore, caratterizzante: colei che dà l’anima alle bíos. La zōé indifferenziata, infatti, cerca l’animazione: per caratterizzare le sue forme, le sue bíos, ha sempre bisogno del principio femminile. Questo «fare anima» - mutuando la celebre espressione di Keats - è necessario alla zōé per trascendere il suo stadio seminale, totipotente ma indistinto, e trasformarlo in atto. Erigone, quindi, è il principium individiationis di Dioniso. Qui la complementarietà simbolica tra le due divinità è evidente; si può dire che siano aspetti dello stesso Principio che si esprime attraverso attributi diversi; dalla relazione tra Erigone e Dioniso nascerà anche un figlio, Stafilos, che può essere inteso come la zōé che si rende carne: Stafilos morirà e risorgerà, come il dio stesso. Anche con Arianna avviene tutto questo: una versione del mito ci narra della «Signora del Labirinto» che muore di parto e del figlio nato nell’Ade; una nascita mistica che riprende così il mitologema della Grande Dea che procrea la sua discendenza. «E così Arianna divide con tutti coloro che appartengono a Dioniso un destino tragico e, coi più eletti di questi, anche la sua liberazione dall’Ade dopo la morte e la sua elevazione all’Olimpo», ci ricorda Otto. L’Assunzione, o Dormizione di Maria, riflettono lo stesso percorso mistico. In altre versioni del mito, narrate da Igino, Apollodoro ed Eliano, è Dioniso stesso che viene ucciso dai pastori, ed Erigone piange il
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suo sposo affetta da una forma di mania che la raffigura così come la prima baccante. Si impicca dunque ad un albero che potrebbe essere anche una vite scaturita dal corpo dell’amante; in tempi lontani questa sviluppava un vero e proprio tronco, ancora visibile in alcuni musei di storia naturale, come quello di Firenze. Graves sostiene invece l’ipotesi del pino, nominato da Virgilio nelle Georgiche: l’albero sotto il quale il frigio Attis fu castrato. In altre narrazioni dal corpo del dio scaturirà la vite, e il suo sacrificio darà agli uomini il mezzo per raggiungere l’ebbrezza, attraverso la quale egli tornerà ogni volta a rinascere, continuando così il ciclo della Vita. Erigone dunque, come nel mito di Iside e Osiride, termina il suo vagare al ritrovamento del corpo del padre o amante, Icario o Dioniso, che l’antica festa ateniese delle Anthestéria - la festa dei germogli - faceva coincidere col Giorno delle Brocche (Choēs), nelle quali si trasferiva il vino per essere bevuto, ed in grandi paioli si cucinava la panspermia, una miscela di prodotti vegetali che esaltavano le forze vivificatrici della natura risorta. Lo stesso giorno le giovani vergini ricordavano il sacrificio di Erigone andando sulle altalene, le Aiόra. Era il momento in cui l’inverno volgeva alla fine ed i fiori cominciavano a spuntare dalla neve residua. Il verbo antheîn, che indica questo movimento floreale, dà appunto il nome alla festa, Anthestéria, ed al suo mese, Anthestērin. I versi di un ditirambo dicevano: «Ora è venuto il tempo, ora ci sono i fiori». Ma la scena del ditirambo non era l’Atene nei giorni della festa, bensì un richiamo ai fiori che Persefone stava cogliendo quando venne rapita da Ade, il signore del mondo infero. Ecco che torna, imperioso, il raccordo tra il gioco dell’altalena, la vergine impiccata, e la storia del dio che in questo periodo emerge dal mondo sotterraneo portando con sé anche le anime dei defunti ad abbeverarsi alle brocche col vino. Le anime dei morti venivano chiamate díspioi: le assetate, e non di semplice acqua avevano sete, bensì del vino dei píthoi, i grandi recipienti di argilla aperti nel primo giorno della festa e dai quali il nettare dionisiaco veniva trasferito nelle brocche, nelle choēs, che davano il
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nome al terzo giorno delle celebrazioni. Qui ci troviamo immersi pienamente in una atmosfera frammista di ebbrezza e spiriti dei morti: dunque aperta al puro erotismo, ne dedurrebbe Bataille. Era questo delle Anthestéria, infatti, anche il tempo in cui Dioniso, tornato dagli inferi, giaceva con le donne di Atene, tutte simboleggiate dalla Basilinna, moglie dell’árchōn basileús. In epoca romana lo stesso periodo veniva definito Mundus patet: il mondo infero restava aperto, seppure per pochi giorni, ma senza l’ebbrezza dionisiaca, e dunque senza l’erotismo della festa ateniese. E così, il giorno delle brocche, le giovani andavano in altalena, in onore di Erigone; anche ai bambini era consentito dondolarsi, perché quel giorno essi imitavano tutto quanto accadeva pubblicamente nella grande festa. I giovani Kuroi bevevano il vino la prima volta. La relazione tra la morte e l’altalena dunque, come vediamo dal mito, è diretta: essa è un’attività comunque potenzialmente letale: per questo può simboleggiare la trasfigurazione simbolica della morte proprio a partire dalle sue intrinseche caratteristiche. Il legame tra l’altalena e la morte rituale durante le celebrazioni dionisiache è anche dovuto all’indubbio carattere ctonio del dio poiché, come dice icasticamente Eraclito «Ade e Dioniso […] sono un’unica e medesima cosa», a sottolineare la cifra infera di una divinità legata, per metà della sua esistenza/ciclo, al mondo dei morti. Ed infatti, durante le Anthestéria risorgevano le anime dei defunti ma anche i keres, forme che veicolavano miasmi, influenze nefaste che dovevano essere purificate con katharmoi. L’ultimo giorno della grande festa, in conclusione di tutte le celebrazioni, nelle case venivano scacciate queste entità insieme alle anime dei defunti, oramai appagate dai culti a loro dedicati e dalle libagioni di vino, col grido «fuori i keres, sono finite le Anthestéria!». Ecco che, allora, come dice Otto, pienezza di vita e violenza di morte, ambedue sono in Dioniso egualmente misurate: nulla è attenuato, ma nulla è distorto. Ma dove c’è Thanatos c’è anche Eros, e la festa delle altalene è impregnata di sensualità e di vera e propria sessualità, intesa e vissuta anche come momento problematico della vita muliebre, in cui av-
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viene un passaggio non sempre facile a compiersi. Ernesto De Martino, nel suo studio sui tarantolati, coglie appieno il legame tra fase puberale - dunque ancora “virginale” della vita femminile - e la stagione successiva, quella matrimoniale, con il corteo di pulsioni suicide legate al travaglio del momento. Riprenderemo questi aspetti più avanti, nei capitoli dedicati al tarantismo ed all’altalena come deflussore di un «eros precluso», ma qui ci preme anticipare come la festa delle Aiόra assumesse un connotato sessuale evidente, dato che il giorno dopo si celebravano le nozze della regina con Dioniso, e che la notte delle altalene era vista come preparazione a queste. In sintesi le vergini, identificandosi con Erigone, si preparavano esse stesse all’incontro col dio, proprio come la loro eroina aveva fatto all’origine del mito. L’idea che qualcosa di altalenante servisse come scongiuro della cattiva sorte, auspicio beneaugurale, o come gesto di purificazione, la troviamo “imbalsamata” anche nel rito romano degli oscilla, che richiama il mito originario seppur “disumanizzato”. Nel Libro II delle Georgiche (vv. 388 sgg.), infatti, compaiono questi versi oltremodo indicatori: «Et te, Bacche, vocant per carmina laeta, tibique oscilla ex alta suspendunt mollia pinu» (E te, Bacco, invocano con lieti carmi e in tuo onore appendono oscilla agli alti pini). Il termine latino oscilla, da cui l’odierno «oscillazione», deriva da os-oris, bocca o più estensivamente faccia; probabilmente in origine un’effigie del dio stesso. Dunque è in onore di Dioniso, durante le Paganalia o le Sementivae faeriae, feste della semina, che vengono fatte dondolare queste immagini. Durante i Compitalia invece, feste in onore dei Lari, venivano appese figurine in legno che rappresentavano gli schiavi e i bambini della famiglia. Qui la figura di Erigone scompare e viene sussunta dalla figura della divinità del vino - a cui in epoca romana era stato ridotto Dioniso-Bacco - o richiamata dalle bambole antropomorfe. In queste occasioni gli oscilla venivano sospesi, in onore dell’antico sacrificio, alla vite, ma anche ad altri alberi importanti per il raccolto, o dalla valenza sacrale, come gli ulivi, la quercia e il pino. Nel periodo imperiale, infine, ogni casa aveva, sospeso tra i porti-
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ci, un oscillum raffigurante varie divinità, sempre con una qualche ascendenza o correlazione dionisiaca. A questo proposito un oscillum molto ben conservato è visibile nella chiesa di San Clemente in Laterano a Roma, proveniente dal mitreo sottostante. Ritornando alla festa dell’altalena come rito che segna il transito dalla podestà assoluta della Grande Dea minoica, la Potnia matriarcale mediterranea, alle divinità maschili e patriarcali greche, ribadiamo che il ruolo di Dioniso in questo contesto è certamente anche quello di divinità di passaggio e, in una certa forma, di mantenimento delle attribuzioni femminili legate all’«archetipo della vita indistruttibile» nei nuovi rapporti di forza del pantheon greco. Dioniso eredita dalla Potnia alcune caratteristiche tipicamente femminili, interpretandole però a suo modo, cioè ricombinandole per renderle minimamente compatibili con il resto delle divinità elleniche, anche se la sua eccentricità, gli eccessi e, soprattutto, la sua vicinanza permanente alle donne, lo rendono comunque un dio poco “olimpico”. Sembra un paradosso; se, però, pensiamo alla distinzione tra «sesso» e «genere», cioè tra il corredo genetico e la percezione culturale che si ha dei due sessi e che i due sessi hanno di se stessi, ci si rende conto che Dioniso non era tanto sui generis, quanto trans gender ante litteram, per così dire; anzi per essere più descrittivi, nel caso della sessualità, o meglio del «genere dionisiaco», non dovremmo solo usare il suffisso trans, che in latino significa «al di là», ma anche quello cis «al di qua». Ed infatti Dioniso è in permanente transito nei due sensi sia del «sesso» sia del «genere»: è come se il dio fosse stato intrecciato sul telaio immaginato tra queste polarità, al tempo stesso oppositive ma anche complementari. Non a caso W. F. Otto definisce Dioniso una divinità che vive tutta la sua esistenza all’interno della «irradiazione» della Grande Dea, appaiandolo a Paride, l’eroe orientato dalla dea della bellezza. Le caratteristiche dionisiache sono, anche ma non solo, congenitamente femminili proprio perché il dio non solo è chiamato a svolgere questo compito, ma a testimoniarlo, come ci ricorda W. F. Otto:
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«In Eschilo il dio è chiamato sprezzantemente “il femmineo straniero”; talvolta viene chiamato anche “uomo-donna” o tra i suoi aggettivi spiccano Dyalos, ibrido, e Gynnis, effeminato. I cristiani si fanno beffa della sua effeminatezza, del che può rendere testimonianza anche la strana storia del suo incontro con Prosimno. Si narra infatti che Ermes avesse affidato ad Ino Dioniso fanciullo con l’incarico di allevarlo come una bambina. La sua femminilità si manifesta anche nel suo modo d’amare, perché tutta la sua esistenza è illuminata e coronata dall’amore delle donne. Quanto sia vicino ad Eros ed Afrodite lo dice già il canto di Anacreonte che comincia con l’invocazione “O signore che hai per trastulli Eros possente, le Ninfe dagli occhi scuri e la purezza di Afrodite”» (Otto, p. 185). L’attualità della figura di Dioniso è, allora, legata non solo alla sua ambivalenza sessuale - tra i suoi nomi troviamo sia Pseudoaner, falso-uomo, che Enorchos, testicoluto - quanto alla possibilità di vederlo come un recettore della potenza generativa femminile che egli poi tesaurizza all’interno di un essere maschile molto vicino all’origine dalla quale promana la sua «natura». In sintesi una divinità ricombinata e ricombinante, consapevole testimone della reale scaturigine dell’energia vitale: in Dioniso è l’aspetto maschile che si dispone ad accogliere quello femminile. Calasso ci ricorda che i suoi nemici «dicevano che rivelava i misteri e le iniziazioni per sedurre le donne». Se le Cariti gli fanno un regalo sarà un peplo, che è veste femminile. Inoltre Dioniso insidia le donne in ogni momento perché la loro fisiologia confluisca in lui. Il succo della vite gli appartiene come ogni succo della vita. Clemente Alessandrino lo definisce chiaramente choiropsálēs cioè colui che «tocca la vulva», anzi che sa farla vibrare. E i Sicioni lo venerano anche come «eforo delle parti femminili» (Calasso 2, p. 60). In questa luce possiamo leggere la visita della Basilinna al tempio di Dioniso, ed il loro accoppiamento mistico: un vero rito di trasmissione delle forze creatrici femminili, incarnate dalla regina e da ogni singola donna, alla divinità che, in quel momento storico, era
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l’erede dell’«eterno femminino». In effetto la “resurrezione-rinascita” di Dioniso da parte della Basilinna, così come poi sarà quella del Cristo ad opera della Madonna in alcune devozioni del Sud d’Italia, avviene ad opera della potenza femminile. E così, come la Basilinna è la vera protagonista del rito del Boukoleîon, dato che è lei a sancire il ritorno della vita rianimando Dioniso attraverso la relazione erotica, ogni uomo dovrebbe essere consapevole del continuo passaggio mediato dall’erotismo femminile. «Il rito gratificante, così come si svolgeva, si elevava ben al di sopra di ogni aspetto animale; ed era connesso, come si è già accennato, ad un altro più segreto evento cultuale: le nozze del dio con la donna che occupava in città il rango più elevato, colei che in regime di piena democrazia era ancora insignita del titolo di «regina». […] Il fondamento del preludio - è così che dobbiamo ora concepire il dondolio - risiedeva nel mito dell’eroina dionisiaca di Ikarion. Con lei si identificavano le ateniesi; e ciò non solo in qualità di ragazze che si dondolano, ma anche di donne mature; anzi proprio di donne che avevano raggiunto la pienezza della vita e che speravano di conservarla anche nella morte […]. Secondo tutti gli indizi le donne ateniesi erano le autentiche titolari del culto dionisiaco della città» (Kerényi, pp. 159-160). Il significato sessuale della festa dell’altalena è dettagliato da Kerényi nella descrizione delle varie fasi che vedono la Basilinna accompagnata nel Boukoleîon, letteralmente una stalla per tori, nella quale ella si accoppiava misticamente con Dioniso. Negli stessi giorni anche le quattordici Gérairai, un gruppo ristretto di sacerdotesse dionisiache, amministrava culti simili in un tempio situato nella palude vicino alla città, luogo che simboleggiava la congiunzione tra il mondo dei vivi e quello dei morti, dal quale Dioniso era tornato. La Basilinna, dunque, veniva accompagnata sin sulla soglia del Boukoleîon dalle quattordici Gérairai, che però si fermavano prima del limite che solo lei poteva oltrepassare. Cosa succedesse dentro, in quale modo avveniva l’accoppiamento, non è dato sapere. Ciò che possiamo dedurre è che fosse qualcosa di meno di un atto mera-
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mente sessuale, forse con un simulacro fallico del dio, e qualcosa di più che un semplice gesto simbolico. «Era infatti lecito parlare del fatto che la regina diventasse la moglie di Dioniso ma non delle ineffabili cerimonie sacre: queste erano il prêgma divino a cui alludeva il medico Areteo, il mystérion. Che essa potesse diventare moglie di Dioniso solo in virtù di un mystérion era indubitabile. Era un theîon prêgma che la univa al dio: ma qui siamo sulla soglia da cui ha inizio la segretezza […]. L’ipotesi più probabile è un contatto fisico della regina con un ágalma arcaico, il riferimento primitivo al carattere fallico della vita indistruttibile; è anche evidente che nella solitudine del Boukoleîon si svolgeva una conversazione sacra con l’immagine del dio venerata da secoli; una conversazione altamente erotica […]. Tutta Atene sapeva comunque che la regina veniva data in moglie al dio in modo non diverso da quello proprio dei matrimoni terreni, anche se paradossalmente qui un “matrimonio celeste” era “terreno” o un “matrimonio terreno” era “celeste”» (Kerényi, pp. 285-287). Ma ciò che qui ci interessa, come fenomeno catartico di massa, è il comportamento di tutte le donne ateniesi in quei giorni “dell’altalena”, e non solo della Basilinna o delle Gérairai. Durante la festa, infatti, mentre gli uomini gareggiavano nel bere, o i bambini giocavano con gli otri pieni di mosto e cosparsi di miele, le donne ateniesi seguivano l’esempio della Basilinna, accoppiandosi col dio… o con uomini diciamo meno divinizzati ma più reali. Qui entriamo in un campo molto vasto e complesso, cioè quello della sessualità sociale al tempo della Grecia classica in cui, notoriamente, il ruolo della donna era confinato alla casa ed alla riproduzione; possiamo dunque facilmente comprendere quanto, in certi periodi, questa sessualità compressa e controllata dovesse, e potesse, trovare altre forme espressive. È ancora Kerényi che ce ne parla: «Per l’intera giornata Atene si era preparata alle nozze divine della regina: le ragazze, ma anche le donne, dondolandosi sull’altalena. Non sembra umanamente ammissibile che, sole in casa, non attendessero anch’esse il dio. […] Non si può d’altronde dire che gli uomini, terminato il program-
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ma festivo, tornassero subito a casa dalle loro donne. […] Aristofane parla di etère e danzatrici che si univano agli uomini nei banchetti. Le donne dovevano forse languire da sole a casa nel giorno della festa del loro dio? Non era possibile che ricevessero una visita dionisiaca, o che un richiamo dionisiaco le attirasse all’aperto? […] Uno skyphos di alto valore artistico mostra su un lato come una giovane donna segue il “richiamo”. L’espressione del suo volto, il suo abbigliamento, il capo velato, non sono quelli di una baccante. Con gli occhi spalancati essa procede verso l’ignota avventura […]. La donna fa parte per se stessa, al di fuori dell’ordine statuale; equivale alla regina quando prende la via del Boukoleîon» (ibid., pp. 287-288). Due passaggi ci sembrano interessanti: la «preparazione» all’incontro con il dio per mezzo dell’altalena, e l’affermazione che la donna in questi momenti «fa per se stessa»: significa che si muovevano «al di fuori dell’ordine statuale» creando di fatto uno “stato di eccezione” dell’ordine costituito che ribadisce - come tutte le eccezioni - le regole dei periodi ordinari, finendo così per enucleare ancor più le pratiche dionisiache dalla quotidianità. D’altra parte non bisogna pensare che la sessualità dionisiaca fosse legata solo alla riproduzione, anzi; il dio non viene mai rappresentato in forma itifallica, come invece i suoi satiri, anche se il suo fallo veniva portato in processione; egli, dunque, non rappresenta tanto questo aspetto, quanto la forza della vitalità in sé, anche indipendente dai suoi risvolti ed implicazioni riproduttive. La prova, tra le altre, è raffigurata sulle brocche che venivano usate durante la festività, sulle quali troviamo una scena di accoppiamento tra muli, notoriamente sterili. A questo proposito, chiosa Kerényi: «Anche qui, proprio come nel dondolarsi che costitutiva uno dei divertimenti della festa, si approda ad una gioia di vivere priva di scopo». È dunque evidente che Dioniso riceve dal femminile la sua essenza, che si pone nel raggio di irradiazione del principio femminile, che si sente di «genere» femminile, non solo per rigenerarsi, ma per trarre da esso la sua forza di rigenerazione. Se guardiamo al dio come uno Shiva mediterraneo, poi, ci accorgiamo che il parallelo tra
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Dioniso Arianna-Erigone e Shiva Sati-Parvati, è perfetto: entrambe le divinità cicliche, infatti, ricevono dalla controparte femminile il potere di portare ad effetto il loro. E questo ci dice anche la differenza radicale del suo amare le donne rispetto alla rapacità degli altri dei, stupratori o presto dimentichi delle loro amanti, mortali o divine, mentre «l’amore di Dioniso è un amore estatico che lo lega eternamente all’amata», dice ancora Otto. È allora possibile affermare, tutto sommato e considerato, che egli sia realmente la divinità di passaggio tra la Grande Dea creto-egeo-anatolica, ed il mondo greco, l’anello di congiunzione che ancora vibra all’ombra dell’altalena. In sintesi, come abbiamo già argomentato, attraverso il rito dell’altalena ed il suo preminente uso da parte delle donne, affiora chiaramente un substrato più antico, in cui la rinascita è del demos nel suo complesso, parte maschile inclusa, legato alla benevolenza della Dea che, attraverso la sua potenza sessuale e sessuata, simboleggiata dall’elevazione dell’altalena, fa rinascere la Vita, alleviando la pesante coltre di incertezza legata a questi momenti di transito. Il rito dell’altalena simboleggia così il transito della forza generatrice che, mercé il dondolio, si ridinamizza, mentre gli accoppiamenti mistici e carnali non fanno che fissarne, per così dire, il ritorno. La lettura di queste scene e gesti risulta in questo modo più profonda e prospettica: se vediamo le donne in altalena come i soggetti centrali della festa, e di conseguenza la Basilinna come rappresentante della Grande Dea che elargisce la forza vitale infinita al dio sua emanazione, suo paredro ed erede, appare chiaro come l’altalena sia l’operatore che richiama sul demos la benedizione della sua vitalità inesausta. E allora, la scena sacra assume un senso affatto diverso: vediamo chiaramente il dio, appena emerso dal mondo dei morti, riprendere le sue forze - rinascere - mercé il potere creatore della Dea; cosa che avviene anche per tutti gli altri uomini nello stesso periodo. Anche la religione cristiana originaria assumerà caratteri dionisiaci, basti pensare a Gesù che si definisce «la vera vite» (Giovanni XV,
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1-2) e come gli apostoli si debbano attaccare a lui «come grappoli al tralcio». L’anima cristiana si considerò, come l’orfica, serrata al corpo come in un sepolcro. La teologia cristiana è in parte esoterismo dionisiaco: consideriamo soltanto la centralità del vino come simbolo di resurrezione. Ma, forse più essenziale ancora, è proprio la relazione tra la Madonna, ciò che resta della Grande Dea nella concezione patriarcale cristiana, e Gesù, suo figlio. A Taranto, il Giovedì santo, la Madonna addolorata cerca il figlio morto nei sepolcri allestiti presso le varie chiese. Osservando la processione che la accompagna si notano subito i Perdoni che, a piedi scalzi, i volti coperti da un cappuccio (torna la maschera!), nazzicano, cioè si cullano - questo significa in dialetto la parola - assumendo questa camminata dondolante tutta la notte. Anche chi porta la statua nazzica, come pure i fedeli tutti. Se si osserva lo sguardo della statua, oltre il velo nero (Eros e Thanatos) che lo adombra come fosse quello di una danzatrice del ventre - altra forma della maschera - si capisce che questo cercare non è dettato solo dal dolore, ma dalla volontà di dargli la possibilità di risorgere: è lei che fa rinascere il figlio. Joseph Roth ne La cripta dei Cappuccini dice ad un certo punto: «Sempre una madre aspetta il ritorno di suo figlio, del tutto indifferente se questi se n’è andato in un paese lontano, in uno vicino o nella morte». E questa attesa è un sentimento attivo, una forma di volontà, e produce una forza che tiene vivo il ricordo e dunque viva la persona. Quando questa volontà viene esercitata da una moltitudine di persone diviene un atto di fede in grado di rigenerare la Vita. Attis e Cibele, Dioniso e la Grande Dea attraverso la Basilinna nelle Antesterie... sono gli antecedenti divini del Cristo, così come Maria è ciò che ci rimane della Grande Madre. L’ottica ecclesiale ovviamente capovolge polarmente la simbologia: il patriarcato cattolico ha voluto transustanziare la naturale rinascita della vita in quella della resurrezione eterna di un corpo morto, attribuendola al potere del Dio padre. Ha spezzato così il nesso matriarcale tra vita, morte e rinascita,
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con la conseguenza evidente di far allontanare ancor più l’umanità da questo mondo e dal rispetto per la ciclicità dell’esistenza e di chi l’assicura: sotto la croce a deporre il Figlio è la Madre. E dunque per il principio degli elementi costanti che regna nel mitologema della rinascita del figlio autogenerato da parte della Madre, la lettura autentica del rapporto tra Maria e Gesù è chiara. Questa non è una interpretazione eretica, ma solo l’evidenza della naturale evoluzione che parte dal rapporto tra la Grande Dea ed il suo paredro, prima figlio, dopo amante, poi in morte da Lei stessa fatto rinascere. Se il femminile riprendesse le fila e rivoltasse in questo senso la tela della realtà simbolica cambierebbe radicalmente anche quella fattuale.
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La Basilinna in altalena, cratere attico 525 a.C. circa, Louvre, Parigi
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Donne, dee, eroine, ed altre impiccate
Dare ad ogni emozione una personalità, ad ogni stato d’animo un’anima F. Pessoa
Frazer, ne Il ramo d’oro, dedica un capitolo ai rappresentanti umani di Attis; la sua disamina si apre con un eloquente riferimento all’impiccagione: «Possiamo ipotizzare che anticamente il sacerdote che portava il nome e impersonava il ruolo di Attis alla festa primaverile di Cibele, fosse poi regolarmente impiccato al sacro albero o, comunque, ucciso ai suoi piedi; e che tale barbara usanza venisse successivamente mitigata nella forma in cui ci è nota in epoca più tarda, quando il sacerdote si limitava a far scorrere un po’ del sangue dal suo corpo sotto quell’albero, al cui tronco legava, invece di se stesso, una sua effigie […]. Sembra che in Grecia, ogni anno, l’effigie della dea Artemide venisse impiccata nel bosco, a lei sacro, di Condilèa, fra le colline dell’Arcadia dove, appunto, era chiamata l’impiccata. Tracce di un rito analogo si ritrovano forse a Efeso, il più famoso dei suoi santuari, nella leggenda di una donna che s’impiccò e che la dea, mossa a compassione, rivestì delle sue vesti divine dandole il nome di Ecate. Anche a Melite, nell’antica regione della Ftia (Tessaglia), si raccontava di una fanciulla, una certa Aspalide, che s’impiccò; ma sembra che fosse un’Artemide sotto altra forma. Dopo la sua morte, infatti, non fu possibile ritrovarne il corpo; ma fu rinvenuta una sua effigie accanto all’immagine di Artemide. […] Ogni anno, le vergini sacrificavano all’immagine un capretto che immolavano impiccandolo, poiché si raccontava che così si fosse data la morte Aspalide. Il sacrificio aveva forse sostituito l’usanza di impiccare un’immagine o una rappresentante umana di Artemide» (Frazer, pp. 426-427). Pausania (VIII, 23, 5), per parte sua, così racconta l’origine del culto: nella città di Condilèa c’era un santuario della dea. Dei bambini (non si sa quanti), per scherzo, avevano messo attorno al suo simulacro una corda e la canzonavano chiamandola “l’impiccata”. La 111
popolazione di Kaphtai, indignata, li aveva lapidati. Ma la dea aveva condannato questo gesto scagliando una terribile maledizione: le donne di quella città avrebbero partorito solo figli morti. La Pizia allora, interrogata, impose di dare sepoltura ai bambini nati morti ed offrire loro ogni anno un sacrificio espiatorio. Da quel momento la dea cui si sacrificava venne chiamata Apankomené, l’impiccata. Inoltre, presso il santuario di Condilèa, ogni anno, le giovani spartane eseguivano danze particolari, indicate da Luciano col nome di karyatizein, in ricordo di un avvenimento speciale: leggiamo negli scolii alla Tebaide di Stazio «che un tempo un coro di giovani vergini era corso verso un noce per poi impiccarsi in massa ai suoi rami, temendo un pericolo»: “Cum luderent virgines meditatus ruinam omnis chorus in arborem nucis fugit et in ramo eius pependit”. Forse il pericolo era quello di uno stupro di massa, al quale le giovani preferirono la morte per impiccagione. Possiamo dunque immaginare che la danza in occasione di questa festa arcadica, in cui si ricordava l’evento macabro, mimasse in qualche modo il gesto del penzolare dai rami. Qui entra in gioco anche il fatto che Artemide fosse venerata come divinità protettrice delle giovani donne poiché, benché vergine, aveva aiutato sua madre a partorire il fratello Apollo, e aveva salvato fortunosamente dalla morte uno dei gemelli che Aura aveva concepito con Dioniso. Ma essa, come divinità lunare, aveva pure un aspetto oscuro, poi identificato con Ecate, la «regina degli spettri», trimorfa e psicopompa. Signora della notte nella sua forma di Selene, Artemide era venerata anche sotto forma di lupo (lykeia), o correlata agli uccelli stinfalidi, esseri mostruosi che si nutrivano di carne umana, uccisi da Eracle in una delle sue mitiche fatiche. Quest’aspetto zoomorfo è cruciale per capire la duplice natura della dea, legata notoriamente alla caccia ed alla sua protezione. Sempre Pausania, infatti, ci dice che a Stinfalo essa veniva adorata in un tempio adorno delle figure dei terribili uccelli; un giorno, un prode cacciatore che si era immerso nella palude all’inseguimento di una cerva, finì nelle acque limacciose rischiando così di morire.
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La dea, per onorarlo, le bonificò, e da quel momento «la gente la festeggia con maggior zelo» (ibid., VIII, 22, 6). Come abbiamo visto, sin dal mito di Erigone esiste una stretta relazione tra l’impiccagione e l’altalena; più in generale nell’antichità greca questa forma di suicidio era molto comune all’interno della comunità femminile, in particolare ad un certo momento della vita, nella pubertà, in cui il passaggio all’età matrimoniale scatenava spesso reazioni psichiche di rifiuto esiziale per la nuova condizione. Il laccio scorsoio, inoltre, il brochos, è quello stesso che vedrà la fine di Giocasta, la madre-amante di Edipo, dopo la scoperta dell’incesto, e di Elena, secondo la leggenda della sua esecuzione a Rodi dopo la fuga da Sparta seguita alla morte di Menelao. Rifugiatasi in quest’isola, viene uccisa dalle ancelle di Polisso, da lei istigate all’omicidio e travestite da Erinni, per vendicare la morte di suo marito sotto le mura di Troia. Questa era l’Elena «dendritis» (dell’albero), e presso Caphie, in Arcadia, il platano e la sorgente sacri a Menelao si trovavano vicini al santuario di Artemide «Apankomené» (impiccata); anche a Rodi, ci ricorda Frazer, si adorava la bella Elena sotto il titolo di «Elena dell’albero». Le monete di Ilio provano che i Greci asiatici sacrificavano gli animali in quella maniera; infine, anche Antigone si stringerà la gola col nodo scorsoio. Tra queste donne suicide per impiccagione troviamo anche Pasifae, la moglie di Minosse: la madre del Minotauro si sarebbe tolta la vita per la vergogna della relazione «contronatura», dopo essere rinsavita dalla follia che l’aveva, dice Dante, «imbestiata nelle imbestiate schegge». La pena capitale per impiccagione era quella che comunemente veniva comminata alle donne nella Grecia antica; celebre l’episodio omerico in cui Telemaco, dopo la vendetta di Ulisse sui pretendenti, giustizia le ancelle che avevano tradito lui e la casa ingiuriandolo o giacendo con i pretendenti. La loro morte sarà dunque disonorevole: «non d’onorata morte conviene che rendano l’alma», ragiona il figlio di Odisseo, enunciando la sentenza che racchiude già la modalità esecutiva della pena capitale.
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E così, Telemaco tende una gomena dalla «cerulea prora» di una nave ad un «grande pilastro». Segue la dettagliata descrizione dell’esecuzione e dell’agonia delle traditrici: «Tutte le ancelle dannate alla misera morte stavano coi capi in fila, con nodo scorsoio alla gola. Diedero qualche guizzo con i piedi ma fu cosa breve» (Odissea XXII). L’impiccagione era, insieme all’annegamento, la forma di soppressione di se stessi preferita dalle donne anche in caso di depressione dovuta ad altri fattori: un classico esempio è l’«eros precluso», come De Martino definisce una delle sofferenze psichiche all’origine del tarantismo. Un suicidio per impiccagione, dovuto forse a questo «eros precluso», come nel caso di Fedra per Ippolito, o di Giocasta per il rimorso della relazione incestuosa con Edipo, potrebbe essere, il condizionale è d’obbligo ma rende il caso maggiormente interessante, quello descritto da un episodio dell’Eneide che vi allude, come se Virgilio non avesse voluto, o potuto, dire tutto: parliamo della regina Amata, moglie di Latino e madre di Lavinia, la figlia promessa in sposa a Turno, re dei Rutuli. Il poema narra come Latino - in ottemperanza ad un responso di Fauno, divinità oracolare che emanava i suoi vaticini presso la fonte Albunea, vicino Tivoli - decidesse di suggellare l’alleanza con i Troiani promettendo in sposa ad Enea la figlia Lavinia. Questo voltafaccia del re provoca lo sdegno della regina, che lo accusa di tradire la promessa nei confronti di Turno. Amata farà di tutto per convincerlo a recedere dalla sua fatale decisione, sino a nascondersi nei boschi con la figlia e chiamare le altre donne di Laurento ad unirsi a lei in furiose orge dionisiache. Virgilio ci dice che la radicale ostilità verso Enea, ed il furore bacchico scaturito dalla decisione del marito, le sono stati ispirati, o forse esasperati, dal daimon Alletto, una Furia inviata da Giunone, notoriamente nemica dei Troiani, che penetra dopo varie metamorfosi nel seno della regina e la spinge a scongiurare le nuove nozze. Sarà la stessa Furia, prese le sembianze di una vecchia sacerdotessa di Giunone, a mostrarsi in sogno a Turno istigandolo alla vendet-
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ta contro i Troiani. Interessante, poiché del tutto simile alla dinamica dei casi documentati da De Martino, la descrizione virgiliana del modo in cui Alletto penetra nell’animo di Amata inducendole uno stato di mania, analogo, nelle movenze e nell’impressione che genera sugli astanti, a quello in cui i soggetti tarantolati si dicono «sfiatati dall’incontro con una serpe andando al mare» o «dopo un sogno di scorzoni» e che, pur in assenza del «morso», venivano sottoposti all’esorcismo coreutico musicale del tarantismo «senza che fosse avvertita nessuna contraddizione» (De Martino, p. 82). «Era allor la regina, come donna, e come madre, dal materno affetto, da lo scorno de’ Teucri, dal disturbo de le nozze di Turno in molte guise afflitta e conturbata, quando Aletto, per rivolgerla in furia, e co’ suoi mostri sossopra rivoltar la reggia tutta, da’ suoi cerulei crini un angue in seno l’avventò si, che l’entrò poscia al core. Ei primamente infra la gonna e ’l petto strisciando, e non mordendo, a poco a poco col suo vipereo fiato non sentito furor le spira. Or le si fa monile attorcigliato al collo: or lunga benda le pende da le tempie, or quasi un nastro l’annoda il crine. Alfin lubrico errando, per ogni membro le s’avvolge e serpe. Ma fin che prima andò languido e molle soli i sensi occupando il suo veleno, fin che il suo foco penetrando a l’ossa non avea tutto ancor l’animo acceso, ella donnescamente lagrimando sovra la figlia e sovra le sue nozze con tal quieto rammarico si dolea» […]. E la regina intanto più dal veleno era del serpe infetta: e già tutta compresa, e da gran mostri agitata, sospinta e forsennata, senza ritegno a correre, a scagliarsi, a gridar fra le genti e fuor d’ogni uso a tempestar per la città si diede. Qual per gli atri scorrendo e per le sale infra la turba de’ fanciulli a volo va sferzato palèo ch’a salti, a scosse, ed a suon di guinzagli roteando e ronzando s’aggira e si travolve, quando con meraviglia e con diletto gli va lo stuol de’ semplicetti intorno, e gli dan co’ flagelli animo e forza; tal per mezzo del Lazio e de’ feroci suoi popoli vagando, insana andava la regina infelice. E, quel che poscia fu d’ardire e di scandalo maggiore, di Bacco simulando il nume e ’l coro per tôr la figlia ai Teucri, e le sue nozze distornare, o ’ndugiare, a’ monti ascesa ne le selve l’ascose: O Bacco,
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o Libero, - gridando - Eüöè; questa mia vergine sola a te si convien, solo a te serbasi. Ecco per te nel tuo coro s’esercita, per te prende i tuoi tirsi, a te s’impampina, a te la chioma sua nodrisce e dedica» (Eneide, VII, 520-595, traduzione di Annibale Caro). Ora, può il cambio di marito per una figlia, motivato da una simile necessità politica e sostenuto da un superiore responso oracolare, scatenare una tale reazione? O dobbiamo piuttosto supporre che Amata non volesse un altro marito per Lavinia, dato che il suo legame con Turno era di natura ben diversa da quello di una futura suocera nei confronti del genero? Il dubbio è legittimo, non solo per lo scomposto comportamento di Amata all’annuncio del re, benché formalmente dovuto, o forse solo scatenato, dalla Furia insidiosa, quanto per la sua reazione al duello che poi Turno ed Enea convengono di tenere in singolar tenzone per decidere le sorti della guerra. Qui entra in gioco il legame parentale tra Amata e Turno, che poteva vantare una discendenza greca, in quanto Pilumno, fondatore di Ardea, aveva sposato Danae, figlia di Acrisio, re di Micene. Ma il punto è che il re dei Rotuli era figlio di Venilia, sorella della stessa Amata e quindi suo nipote in linea diretta. E dunque, all’annuncio del duello, la regina si rivolge a Turno con queste parole: «Turno, per queste lagrime, per quanto t’è, se pur t’è, de l’infelice Amata l’onor, l’amore e la salute in pregio già che tu sola speme, e sol riposo sei de la mia vecchiezza: a te s’appoggia, in te si fonda di Latino il regno, e la sua dignitade, e la sua casa che ruina minaccia in don ti chieggio, astienti di venir co’ Teucri a l’arme; ché qualunque ne segua avverso caso sopra me cade; ch’io teco di vita uscirò pria che mai suocera o serva io mi veggia d’Enea» (ibid., XII, 102-118). Amata è già decisa a morire - Virgilio usa il termine moritura - con il suo genero e signore. Come si intuisce, qui siamo ben oltre un ordinario rapporto fra una suocera e il (mancato) marito della figlia: quello che colpisce è l’intento di Amata, pronta a morire se Turno dovesse perire nel duello; intento suicida, sostanziato attraverso le parole di una donna innamorata: parole di passione che forse avrebbe dovuto dire la pal-
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lida Lavinia la quale, peraltro, si limita a piangere in silenzio. Invece sono le suppliche di Amata ad esprimere l’estrema fedeltà, ad ardere non solo della mania menadica suscitata dalla Furia, ma di un «eros precluso» che, infine, rompe gli argini e si dichiara: un amore che non arretra davanti alla morte, anzi, che forse la vede come la soluzione di una storia altrimenti impossibile. Qui Virgilio allude a qualche cosa di indicibile, cui si può solo poeticamente accennare seminando tra i versi gli indizi. L’epilogo tragico è alle porte: quando il duello fra Turno ed Enea viene interrotto e i Troiani, con i loro alleati Etruschi, prendono d’assalto le mura di Laurento, Amata crede che l’amato sia caduto e si suicida impiccandosi (XII, 597-604). I versi di Virgilio precipitano nella scena finale gli elementi che descrivono la condizione maniacale della donna e le tonalità tragiche del suo dolore esiziale. «Et subito mentem turbata dolore se causam clamat crimenque caputque malorum, multaque per maestum demens effata furorem purpureos moritura manu discindit amictus et nodum informis leti trabe nectit ab alta». «E subito turbata nella mente per il dolore, si proclama causa, colpa ed inizio dei mali e, impazzita, delirando a causa del misero furore, già disposta a morire, si straccia con la mano i vestiti purpurei e con un nodo di orribile morte si lega all’alta trave». Ancora una volta, la libera plasmazione di un poeta ci consente di esplorare le radici di un certo nesso mitico-rituale con profitto molto maggiore delle occasionali notizie di mitografi, scoliasti ed eruditi, come fa notare De Martino. E così, la fantasia di Virgilio ci riporta l’immagine della stessa morte di Fedra e di Giocasta, anch’esse «nodum informis leti trabe nectit ab alta», spinte all’impiccagione dalla forza di un amore impossibile. C’è, infine, a chiosare questa interpretazione del gesto, la postura finale: «purpureos moritura manu discindit amictus»; come ultimo gesto di ribellione al suo stato esistenziale Amata si è strappata le purpuree vesti, e si mostra a noi nuda; così dobbiamo immaginarcela: sospesa ed oscillante tra Eros e Thanatos. E forse, per certo non lo sapremo mai, una eco lontana, ma per-
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sistente, della tragedia «erotica» di Erigone e delle sue infinite epigoni in altalena, lo ritroviamo in una canzone di Fabrizio De Andrè, il cantautore italiano con più suggestioni classiche, capace di trasportare l’essenza di un mito dall’antichità ai giorni nostri facendolo viaggiare sulle corde della sensibilità poetica. Parliamo di Ho visto Nina volare. In questa canzone il mitologema della vergine che si dondola come operatore di deflusso di un «eros precluso» è evidente, a cominciare dalla collocazione della canzone all’interno di un album dal titolo evocativo: Anime salve, che già richiama l’orizzonte catartico dell’Aiόra, il rito dell’altalena. Una seconda osservazione che lega Ho visto Nina volare all’Aiόra è certamente il simbolismo del miele. La canzone si apre con l’immagine del «mastica e sputa», il gesto tradizionale del masticare tavolette di favo per separare il miele dalla cera. «La miel es la epopeya del amor, la materialidad de lo infinito. Alma y sangre doliente de las flores condensada a través de otro espíritu». «Il miele è l’epopea dell’amore, la materialità dell’infinito. Anima e sangue dolente di fiori condensati attraverso un altro spirito», (quello dell’ape, in specifico). Così dice García Lorca, nel suo Canto del miele, evocando nei brevi versi, Eros (amore), Afrodite (anima) anima mundi la chiama Plotino - e Dioniso (sangue dolente di fiori) smembrato e ricomposto. Mastica e sputa, da una parte il miele, mastica e sputa, dall’altra la cera, prima che venga neve: durante le grandi dionisiache, tra i giochi previsti c’era anche quello degli otri di capra colmi di mosto e spalmati col miele, sui quali i ragazzi dovevano restare in equilibrio. L’otre da calpestare era anche una ipostasi del dio che veniva ucciso dai Titani per poi essere ricomposto a partire dal suo membro, come Osiride. L’otre, così, simboleggiava ogni nemico da uccidere: la guerra e l’aggressività si trasmutava in un gioco, proprio come l’impiccagione delle vergini e la loro irrisolta tensione erotica si trasformava nel dondolio dell’altalena. Il «canto attorno al caprone» la tragōdía, è anche l’origine della tragedia come primigenia messa in scena del ciclo dionisiaco, come pure il vino, che il gioco faceva fermentare, era l’offerta alle anime
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dei defunti che, con Dioniso, tornavano dagli inferi. Il verso richiama il periodo immediatamente precedente l’inverno, prima che venga neve, quando le donne cominciano a preparare il ritorno del dio che risorgerà dalle paludi a primavera. Altrettanto eloquente il verso che richiama la trasformazione della fedele cagna Maira, e di Erigone stessa, rispettivamente nel Canis minor e nella costellazione della Vergine. La costellazione, che culmina in aprile e maggio, fra le 23 e le 24, è infatti poco appariscente perché non ha stelle splendenti. Ed ecco che De Andrè la chiama «luce lontana». Luce, luce lontana, più bassa delle stelle, quale sarà la mano, che ti accende e ti spegne? E questa mano, miticamente, è stata proprio quella di Dioniso, creatore delle costellazioni che immortalano, in un cielo lontano, le eterne, benché fioche, luci di Erigone e della sua fida cagna. Questa lontananza, voluta dal mito, certifica la proiezione astrale del passaggio tra la fanciullezza e l’età adulta, per sempre fissato nel firmamento, mercé una costellazione ancora visibile, simbolo del passato di fanciulla, ma oramai irraggiungibile e remoto, proprio come la luce di certe stelle morte da tempo la cui luce ancora a noi giunge attraverso gli spazi siderali. Ecco adesso apparire, nel mezzo della canzone, la protagonista: Nina, la giovane fanciulla che vola tra le corde dell’altalena, osservata dalla voce narrante come in una visione ormai lontana nel tempo o, forse, semplicemente da lontano, nascosto alla sua vista. Ho visto Nina volare, tra le corde dell’altalena: dalla visione emergono le pulsioni relative alla sfera dell’eros desiderato ma evidentemente precluso, che prende la forma di un atto di forza, una fantasia di violenza sessuale. La vista del corpo adorato è mediata dalle corde, come fossero un bondage erotico appena vagheggiato. Un giorno la prenderò, come fa il vento alla schiena, e se lo sa mio padre, dovrò cambiar paese, mi imbarcherò sul mare: l’interdetto paterno viene a castrare il desiderio di una posizione erotica ben definita (la prenderò… alla schiena) che trova sfogo nella fantasia della fuga per mare; la fuga richiama quella dell’erranza di Erigone e delle fanciulle che poi si impiccavano o si affogavano.
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Stanotte è venuta l’ombra, l’ombra che mi fa il verso, le ho mostrato il coltello, e la mia maschera di gelso: qui l’«eros precluso», l’immagine della giovane vergine (la «verginità» è una determinante essenziale del desiderio, ogni donna è, e torna «vergine», in amore e per amore), intravista tra le corde dell’altalena, riprende il sopravvento come tensione suicida della voce narrante. Nel verso successivo, De Andrè evoca l’ombra che torna a visitare il giovane, evidentemente il senso di colpa, ed il suo mostrargli il coltello e la maschera di gelso, oggetti che entrambi rimandano sia alle maschere degli oscilla, sia alla favola di Esopo Il brigante e il gelso, in cui un brigante assassino fugge da chi lo aveva visto commettere il delitto. Lungo la strada incontra altre persone, e cerca di giustificare le sue mani sporche di sangue raccontando di essere appena sceso da un gelso ma, al sopraggiungere dei testimoni, viene impiccato proprio a quello stesso albero. Esopo fa dire all’albero: «Non mi dispiace affatto di servire al tuo supplizio, perché hai cercato di riversare su di me il sangue sparso dalle tue mani». È dunque l’albero stesso ad esprimere la condanna, animato da spirito di rivalsa, così come “animato” dai corpi pendenti era il noce di Artemide, incarnazione dello spirito vendicativo della dea. L’altalena come passaggio dall’infanzia alla maturità sessuale, legato ad un dramma finale di violenza, lo ritroviamo anche nella canzone Giochi di bimba delle Orme, scritta nei primi anni Settanta. Qui l’identificazione tra la vergine, l’altalena e la luna è esplicita, come pure il rapporto con le stelle ed il dramma finale dello stupro, forse involontario. «Come d’incanto lei s’alza di notte, cammina in silenzio con gli occhi ancor chiusi, come seguisse un magico canto, sull’altalena ritorna a sognare. La lunga vestaglia, il volto di latte, i raggi di luna sui folti capelli, la statua di cera s’allunga tra i fiori, folletti gelosi la stanno a spiare. Dondola, dondola, il vento la spinge, cattura le stelle per i suoi desideri. Un’ombra furtiva si stacca dal muro: nel gioco di bimba si perde una donna. Un grido al mattino in mezzo alla strada, un uomo di pezza invoca il suo sar-
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to, con voce smarrita per sempre ripete: Io non volevo svegliarla così! Io non volevo svegliarla così!». Qui si ripropone l’atmosfera che abbiamo descritto durante la festa delle altalene, nelle notti in cui le donne ateniesi uscivano di casa per cercare il contatto, non solo mistico, con l’eros: un’atmosfera quasi di sonnambulismo, come quella che guida la protagonista della canzone. Ma è la poesia di Federico García Lorca, La niña va en el columpio, che magistralmente poetizza il mito di Erigone e la sua relazione con le stelle: «La niña va en el columpio, de norte a sur, de sur a norte. En la parábola, tiembla una estrella roja, bajo todas las estrellas». «La ragazza va in altalena, da nord a sud, da sud a nord. Nella parabola, trema una stella rossa, più bassa di tutte le altre». Oltre ad Erigone, dunque, altri personaggi mitologici femminili terminano la loro vita in questo modo, divenendo figure ritratte poi nell’atto di dondolarsi in altalena. Una di queste è certamente Fedra, che nella Nekya dipinta da Polignoto nelle lesche dei Cnidi a Delfi, vediamo, come riportato da Pausania, dondolarsi in altalena, per cui ciò «suggerisce in maniera meno crudele, il modo in cui Fedra morì». La storia è nota: disperata per l’amore impossibile per il suo figliastro Ippolito, Fedra si impicca. La Nekya è un rito in cui si interrogano le anime o i fantasmi dei trapassati riguardo al futuro, una forma diversa dalla catabasi, come nel caso del viaggio di Ulisse nel loro mondo sotterraneo (Odissea XI). La Nekya avviene nei luoghi deputati a fungere da tramite tra questo mondo e quell’altro; celebre, ad esempio, il Necromanteion nella città greca di Epira, o l’Heraclea Pontica, sulle rive del Mar Nero. Anche la sorella di Fedra, Arianna «Signora del Labirinto», finirà impiccata in uno dei miti che narrano la sua uccisione da parte di Artemide su ordine di Dioniso, condividendo così le due sorelle una stessa sorte. Anche qui, come nel mito di Erigone e della sua celebrazione du-
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rante le Anthestéria, il gesto simbolico sostituisce la morte originaria. Altro episodio, riferito da Plutarco nel suo Questioni greche, è quello di Charila; a Delfi si celebrava la sua festa. Si narra che durante una carestia la giovane donna fosse andata al palazzo del re a chiedere del cibo. Invece di aiutarla il sovrano l’aveva malamente scacciata lanciandole dietro una ciabatta; per il disonore l’orgogliosa ragazza si era impiccata con la sua cintura. Al gesto era seguita una pestilenza che aveva ulteriormente aggravato lo stato della città; interrogato, il responso dell’oracolo era stato che la morte di Charila andava espiata. Ecco dunque che a Delfi, da quel giorno, si celebra ogni otto anni una festa in cui il re distribuisce derrate alimentari e colpisce con un sandalo una bambola con le fattezze della ragazza, che veniva poi sepolta con una corda al collo nel luogo in cui era morta Charila. Un riferimento importante ci dice che questa festa si svolgeva in connessione con un’altra detta Herois, nella quale veniva celebrato il ritorno, possiamo dire la rinascita, di Semele sulla terra. Semele simboleggia il principio ciclico della vitalità vegetale perpetua, che si manifesta come morte/resurrezione; in molte versioni del mitologema è Dioniso, suo figlio, a prelevarla dal mondo infero per trarla con sé sulla terra e far “rinascere” in questo modo la natura. Qui il rovesciamento-rispecchiamento tra la Dea e Dioniso è chiarissimo e oramai completo: è lui che fa risorgere la madre e non il contrario. Un’altra storia riguarda Aspalis, una vergine di Melitea, in Tessaglia. In questa città un tempo padroneggiava il tiranno Tartaro, che pretendeva delle vergini da violentare. Un giorno la sorte toccò ad Aspalis che, per sottrarsi alla violenza, si impicca; il fratello Astigite si vendica ed uccide il tiranno. Da questo episodio nasce una festa che vede delle giovani vergini impiccare un caprone in ricordo del sacrificio di Aspalis. L’elenco potrebbe continuare ma, a questo punto, ci interessa capire quale “filo” o laccio, intreccia le morti violente, cosa accomuna tutte queste impiccate. Una prima evidenza è che si tratta di vestigia dei riti di passaggio: le figure femminili, attraverso la metafora della
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loro «morte» alla prima parte dell’esistenza, quella virginale, e la successiva «rinascita» al periodo in cui si dovrà andare spose, e dunque riprodurre la vita, richiamano su scala microcosmica l’antecedente mitico della morte e successiva resurrezione della natura; il kathodos e l’anodos, come venivano chiamate rispettivamente la discesa infera e la ricomparsa sulla terra di Semele dopo il momento sotterraneo. Ma perché tutto questo assume una tonalità oscura, necrica, accentuata dalla morte per impiccagione? Furio Jesi così commenta queste morti: «Oltre alla morte per impiccagione, tutte le figure femminili che abbiamo citato sembrano avere in comune la natura di “donna portatrice di morte”, e spesso di “donna malefica”. Tutte, cioè, paiono riflettere in forma alterata l’originaria funzione dell’antica figura mitica femminile greca (Kore) posta sul limitare dell’aldilà e simboleggiante la morte iniziatica. Col decadere o col trasformarsi dei più antichi istituti iniziatici, quei simboli femminili di morte acquistarono anche aspetti negativi (uccisione, anziché passaggio iniziatico nell’aldilà), e si definirono le figure delle donne “malefiche” che conducono alla morte gli eroi» (cfr., Furio Jesi, Il simbolismo dell’impiccagione, in «Comunità», Anno XXVI, n. 167, Settembre 1972, pp. 196-197). L’interpretazione di Jesi delinea chiaramente sia la genesi cultuale del gesto, sia il decadimento culturale che fa della morte iniziatica una semplice impiccagione di donne più o meno “maledette”. Queste morti sospese erano invece, in origine, soggetti di un rito di rinnovamento che, nella classicità greca, oramai lontana dalla centralità della Dea Madre, svilisce la carica del gesto e il suo significato simbolico ad una morte per impiccagione. E dunque questa riduzione del dondolamento rinnovatore all’impiccagione, proveniente dal mitologema dalla vergine che si suicida e lancia una maledizione, o dalle donne che ricorrono al cappio per sfuggire ad una violenza o al loro ruolo di spose, appare chiaramente in relazione ad una concezione maschile, e soprattutto patriarcale, del mondo, come in effetto dominava in Grecia.
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Polignoto: nekya nelle lesche dei Cnidi a Delfi, ricostruzione (particolare con Fedra)
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Il tarantismo
Il grande dio Pan è morto! Plutarco
Continuando a percorrere il filo del tempo dal passato verso il nostro presente, arriviamo ai riti epigoni di quelli celebrati nella classicità greca: il tarantismo. Sono i «relitti» di ciò che un tempo era culto dionisiaco e che, alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, scompaiono, inabissandosi per sempre o forse solo carsicamente per trasformarsi in qualcosa che ancora non percepiamo. L’altalena si intreccia strettamente con l’esorcismo coreutico musicale del tarantismo, ne è parte integrante e fondativa. Fenomeno relativamente conosciuto, il tarantismo è una forma peculiarissima di “possessione” - le virgolette sono d’obbligo - circoscritto, come tale, ad un’area limitata nello spazio, la campagna pugliese delle province di Lecce, Brindisi e Taranto, e ad un arco temporale che, prendendo le mosse dall’antichità magno-greca, viene studiato come fenomeno religioso «minore» e/o patologico, nei secoli del Rinascimento e dei Lumi sino ad estinguersi, almeno nelle forme costituite, all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso. Questo esorcismo complesso, il cui significato segue le correnti della religiosità popolare pagana per poi - solo in minima parte ed in fase terminale - stemperarsi in quella cristiana, ha come centro focale la taranta: un ragno identificabile in più aracnidi (Latrodectus tredecim guttatus, Lycosa tarentula, etc.) che rappresenta, dal punto di vista simbolico, l’operatore attraverso il cui morso si manifestano una serie di pulsioni «precluse» o, più in generale, il «negativo nel quotidiano», secondo le definizioni di Ernesto De Martino, che possono così «defluire» attraverso il rito coreutico musicale corrispondente. Il tarantismo vede l’altalena come parte integrante di questo esorcismo, che rappresenta il centro della ritualità catartica, lo strumento principe del «deflusso» possibile: la liberazione dal veleno della taranta. La prima osservazione inerente al rapporto tra altalena e taranti125
smo, è che nella fenomenologia del «rimorso» - del passato negativo inoculato dal «primo morso» del ragno che ritorna ciclicamente possiamo vedere qualcosa di molto più ampio, che esonda dall’ambito circoscritto del tarantismo, per riflettere la condizione di tutti noi, immersi nella modernità come eredi di un passato negativo, cioè violentatore dello stesso pianeta che ci ospita, e le cui colpe ci ricadono addosso esigendo esorcismi e tributi, generando «rimorsi» che chiamano a officiare gli appositi riti per far «defluire il negativo del quotidiano». In altre parole, possiamo forse vedere la taranta non come animale malvagio, avvelenatore, ma come un emissario che, col suo morso, ci richiama ai nostri debiti nei confronti della natura; esattamente come gli attacchi di panico, nella interpretazione junghiana: la voce del grande dio Pan che ci blocca per parlarci e farsi ascoltare. Non è questa la sede, ma sarebbe interessante indagare quali altre modalità e forme hanno preso oggi i messaggi delle forze naturali. In questo orizzonte attualizzato, dunque, il tarantismo ci suggerisce, in senso ampio, di riaprire il confronto col «numinoso», in specifico con quella sua parte irrazionale che nel mondo si manifesta nelle forme più diverse, e che non può essere ricondotto alla razionalità se non perdendo una parte della nostra stessa umanità; questa suggestione “dionisiaca” agisce come precondizione psichica del necessario ricongiungimento tra il mondo “dentro” e quello “fuori” di noi. In particolare, il ruolo dell’altalena nell’esorcismo coreutico musicale del tarantismo, e non solo, apre il tema del «numinoso» come strumento di sostegno per le forme di autonomia simbolica; pensiamo ad esempio alla possessione come operatore della resistenza culturale che diversi popoli “subalterni” oppongono, in questo modo, alla colonizzazione del loro immaginale da parte dei loghi delle culture dominanti. Di ciò abbiamo detto in altre sedi, alle quali rinviamo (cfr., Il Castello di sabbia). Qui ci limitiamo a ricordare, come afferma anche De Martino, che il tarantismo ha rappresentato, nella specifica situazione del Sud dell’Italia di ascendenza magno-greca, una di queste forme resistenziali alla penetrazione ed all’invadenza della cultura cristiana.
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Già dopo la conquista di Taranto, nel 280 a.C., i romani avevano cercato di reprimere il dionisismo indigeno; poi il nascente cristianesimo si era incaricato di ridurre il tarantismo ad una forma di mania vedi il ruolo terminale esercitato sul rituale dalla figura di «Santo Paolo mio delle tarante» - per sterilizzarne le valenze pagane amministrando la forza eversiva della possessione. Sparì con la vittoria cristiana, dice Zolla, la percezione dell’identità di tragedia e commedia, lo sprofondamento nella vita animale e vegetale, per non dire nella sostanza minerale, la libertà con tutti i suoi rischi, la liberazione delle donne e degli schiavi per i giorni di Dioniso. «Come concordemente dimostrano testi e monumenti, Dionysos era il dio più importante della regione tarantina: nel corso delle dionisie tutta la città versava in stato di ebbrezza» (De Martino 1, p. 249). Ancora oggi, durante la processione dei Misteri, la nazzicata, la camminata dondolante con cui i fedeli seguono le statue per tutta la notte, evoca questo stato dionisiaco. Riferendosi alle pose ritratte nelle fotografie dei tarantolati, scattate in Salento nell’estate del 1959, con specifico riferimento al «completamento» dell’esorcismo coreutico musicale all’interno della cappella di S. Paolo a Galatina, lo studioso afferma che le posture: «Accennavano a una pesante storia alle spalle di questi così eccentrici personaggi, una storia che segnalava in qualche dove, in un quando e in un come determinate battute d’arresto del processo di espansione della civiltà cristiana» (ibid., p. 51). Possiamo davvero pensare, se così stanno le cose, che quelle «battute d’arresto nel processo di espansione della civiltà cristiana», in particolare della sua parte secolare, siano realmente risolte con la fine del tarantismo visibile? L’intuito ci dice che le esigenze profonde, legate alla sfera dionisiaca, non possono scomparire del tutto; perciò il soffermarsi su queste dinamiche di resistenza, o meglio di re-esistenza culturale, analizzare con la sensibilità odierna questi «conflitti tra cristianesimo e paganesimo» è uno dei filoni più fecondi nell’esplorazione della
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realtà simbolica dei tanti Sud del mondo, a partire da quello a noi più vicino, geograficamente ed antropologicamente parlando. Ed il parallelo tra il Sud d’Italia e gli altri Sud viene rafforzato, nella sua carica di contestazione dell’ordine costituito, dalle testimonianze che i primi gesuiti danno del tarantismo come fenomeno eversivo dell’ordine morale, paragonando le Puglie alle Indias de por acà (ibid., p. 52). Così, lo stesso De Martino, nell’introduzione alla sua Terra del rimorso, inquadra l’orizzonte politico che lega i «relitti» del tarantismo, da lui osservati nella campagna salentina alla fine degli anni Cinquanta, alla presenza di analoghe forme, estreme ed incontrollabili che, in tempi e luoghi diversi, sono comunque riferibili alla stessa necessità di liberarsi dalle invisibili catene del dominio simbolico. A questo proposito rinviamo a Frantz Fanon che, ne I dannati della terra, delinea magistralmente le determinanti della colonizzazione del simbolico africano ad opera dei colonizzatori, e di conseguenza la natura del trauma profondo che secoli di dominio hanno generato sui valori spirituali, prima ancora che sui corpi. Ed è proprio per guarire questo trauma, o meglio per lasciarlo pulsare come coscienza viva, memoria collettiva, a volte organizzata politicamente, che in tutto il continente africano i riti di possessione sono ancora presenti ed esclusivi. Nessun «colonizzatore», per quanto creda di poterlo fare, o di averlo fatto, ha in realtà accesso a questi strati profondissimi, insondabili, della cultura tradizionale africana, come del resto di quella latino americana, asiatica… o del Sud d’Italia. E chi lo ha fatto, come nel caso del Kurtz di Cuore di tenebra, si è ritrovato immancabilmente immerso nella follia o nell’«orrore». Molto più onesta la posizione di un Michel Leiris che, nel suo Africa fantasma, descrive i suoi fantasmi, incontrati nel viaggio verso la terra dei Dogon. Anche chi scrive ha fatto esperienza di tutto questo e dunque afferma con cognizione di causa (cfr., Cuore di tenebra, un sogno di guarigione). Potremmo dire, rifacendoci allo schema «maschera e vertigine», che questi esempi rappresentano una rivincita del «vortice» sulla razionalità agonistica del “gioco coloniale”.
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Tornando al nostro Sud, anch’esso colonizzato e traumatizzato, molti altri esempi potrebbero essere riportati, tutti inerenti a questo schema di sussunzione e trasposizione delle pratiche dionisiache sotto il patronato dei santi cristiani o della Madonna, ciò che nella chiesa cattolica resta della Dea Madre. Un esempio che vale la pena citare, perché del tutto analogo a quello di San Paolo, è il decadimento del rapporto tra le baccanti ed i loro serpenti. Questa relazione viene da lontano: dalla relazione sessuale tra la Grande Dea Rea, madre di tutti gli dei, ed il serpente cosmogonico. È lo stesso serpente che, nelle Dionisiache di Nonno, mostra al dio come ottenere il vino dall’uva. Per questo il serpente compare tra gli animali di Dioniso, insieme al toro ed alla pantera. La relazione tra il dio e i rettili verrà ripresa nel culto dionisiaco attraverso le menadi che adoperavano le serpi come ornamento della loro acconciatura, come si racconta facesse Olimpiade, la madre di Alessandro Magno. Questi animali, velenosi e destinati ad essere dilaniati durante il rito, potevano essere catturati senza eccessivo pericolo al termine della primavera, o all’inizio dell’estate, come ci dice un esperto di veleni quale Andromaco, il medico di Nerone. Ora, questo è il periodo in cui ancora oggi, nel villaggio di Cocullo in Abruzzo, i «serpari» cercano le serpi per la processione di San Domenico, il cui culto di divinità protettrice dal veleno di questi animali ha lentamente sostituito i riti pagani di origine dionisiaca. Riprendiamo, a questo punto, l’affermazione che i tarantolati, o meglio le tarantolate, data la maggioranza del genere femminile all’interno di questa forma di “possessione”, sono assimilabili alle menadi, alle baccanti dionisiache, ai coribanti di Cibele; insomma «a tutti quei fenomeni che nel mondo antico partecipavano a una vita religiosa percorsa dall’orgiasmo e dalla mania». E certo la chiesa cattolica non poteva che respingere in toto la figura della tarantolata-menade, della donna libera e ribelle all’autorità maschile e, di conseguenza, secondo i dettami di San Paolo, a Dio stesso. Infatti, seguendo la gerarchia stabilita dall’Apostolo delle genti nella prima lettera ai Corinzi: Dio è il capo del Cristo, e questi
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è il capo dell’uomo, mentre il capo della donna è l’uomo, onde la donna «riflette Dio attraverso la mediazione dell’uomo». Questa gerarchia, oltre a giustificare la predominanza del principio maschile e patriarcale all’interno della comunità cristiana, spiega il perché l’uomo può stare a capo scoperto durante le assemblee liturgiche, mentre la donna deve coprirsi il capo come segno della sua soggezione a Dio attraverso la sua soggezione all’uomo. Infatti, ogni donna lo sa, da sempre e forse per sempre, basta una ciocca di capelli femminili arricciata tra le dita o semplicemente lasciata libera al vento, per richiamare il fascino muliebre, il potente principio della rigenerazione: la podestà di Eros e di Iside-Afrodite sul Mondo. Qui si aprirebbe la riflessione sulla relazione che lega cosmesi e cosmo, ma ci limiteremo al nostro argomento concentrandoci appunto sui capelli sciolti. Possiamo ben immaginare cosa potesse significare, per l’ordine simbolico vaticano, e non solo, una chioma libera, come quella delle menadi-tarantolate, a maggior ragione mentre i lunghi capelli scomposti fluttuavano nell’aria ondeggiando al ritmo sensuale dell’altalena. Addirittura, come riferisce il medico De Raho nelle sue osservazioni dirette: «Le inferme sono discinte, hanno capelli sciolti, arruffati e non si preoccupano della nudità che spesso mostrano» (De Raho, p. 38). Molta, se non tutta l’iconografia a sfondo sessuale inerente all’altalena ha come protagoniste le donne. Rarissimi, se non inesistenti ad un certo livello artistico, sono i quadri o anche i disegni che ritraggono uomini in altalena, a meno che essi non stiano osservando, spingendo o accoppiandosi con una donna. Basterebbe la comune percezione che un uomo adulto in altalena risulta buffo, mentre una donna può andarci a qualunque età. È, d’altra parte, noto che una posizione erotica viene chiamata, nel Kama-Sutra, «altalena». Possiamo dire che l’“iconogema” - l’aura del segno grafico caratterizzante - della donna ritratta in altalena trasmette sempre il tema dell’attrazione sessuale; disegni o fotografia, ritratti o fotogrammi cinematografici, il corpo femminile in altalena è sempre aureolato di erotismo; sembra che Eros stesso stia dipin-
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gendo Venere in uno dei suoi infiniti ed ineffabili gesti incantatori. Che il soggetto osservi il corpo in altalena, che lo spinga o che lo tocchi, la donna in altalena è sempre un essere desiderato, adorato. Da qui la relazione che lega l’altalena al delicato passaggio, del quale abbiamo già parlato, concernente la sessualità femminile nelle varie età della vita. Tornando alla relazione storica, fondativa, tra il tarantismo e l’altalena, possiamo andare oltre: con riferimento al mito di Erigone ed alla sua tragica sorte, va rilevato che, nel tarantismo più antico, il rito si svolgeva attorno ad un albero, spesso una vite, con riferimenti chiari all’ascendenza simbolica, non solo specificamente dionisiaca, ma anche a quella che ruota attorno all’albero sacro ed al pencolare dai suoi rami per ricevere l’agognata liberazione dal male, o dinamizzare il flusso della Vita. Abbiamo visto come questa simbologia si ritrova, ad esempio, nella figura del palo di maggio e delle danze che intorno ad esso si intrecciano, com’è destino ed auspicio per le vite dei giovani che vi girano attorno. E ancora, nel tarantismo il momento del «rimorso», l’estate, è quello stesso dell’attesa del «pane e del vino», cioè il periodo dell’anno in cui veniva deciso il destino futuro: il «faticoso epilogo dell’anno agricolo». Evidentemente anche questo rimanda a Dioniso come «archetipo della vita indistruttibile», secondo la definizione di Kerényi, e dunque alla figura di un dio immanente ad una cultura tutta immersa nella ciclicità della vita che si rinnova, ma anche nella tragedia di ciò che può rivelarsi infausto nel suo eterno mutare. Nulla come questi periodi di sospensione sono aperti al dionisismo, essendo il dio l’essenza dell’esistenza esposta agli opposti della vita: le antinomie si fondono nella figura del «dio che muore» come nella figura di ognuno di noi. L’altalena rappresenta l’attività ludica certamente più sintonica con questa indeterminatezza e ingovernabilità dell’esistenza, metaforizza il «vortice» sino a farcelo vedere riflesso nel suo stesso movimento. Ma se la vita agraria non si può, o solo in minima parte, go-
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vernare, significa che essa va invece assecondata, accompagnata, almeno nelle sue determinanti essenziali. L’altalena entra allora in gioco ad un livello simbolico ancora più ampio e profondo, dato che il tarantismo, a differenza di altre pratiche a sfondo catartico, non ha mai avuto struttura precisa e definita: un rituale codificato e gestito da un officiante o amministrato da un clero. Questo ci ricorda che le civilizzazioni legate alla «maschera ed alla vertigine» sono caratterizzate da legami sociali più labili, come quelle contadine rispetto alle industriali. La «fluidità» del tarantismo, che ha certo contribuito a determinarne la fine ma anche l’originalità e forse la carsicità, è dunque ben simboleggiata dal perenne ed instabile oscillare dell’altalena, dalla «vertigine» che accompagna le specificità legate ai singoli esorcismi in cui ogni storia, pur accomunata dal «primo morso» della taranta, risulta unica e personizzata, esattamente come lo è ogni singolo dondolio, ogni singola vita. L’altalena, allora, è un operatore rituale che espande il suo orizzonte ben al di là del gioco “innocente” cui lo abbiamo ridotto oggi: ha la capacità di attivare, o disattivare, nell’essere di colui o colei che si dondola, quei processi di fluidificazione della realtà psichica che, tra le altre cose, sono indissolubilmente legati agli stati maniacali più diversi ed indefinibili; pensiamo, ad esempio, al labile confine, o aree di analogia e sovrapposizione, che si estendono tra paranoia e misticismo, tra estasi religiosa ed erotismo (cfr., J. Hillman). Di converso, per le stesse caratteristiche, l’altalena rientra in pieno in quei katharmoi, purificazioni catartiche, che esercitano un beneficio sui mali che il corpo riceve in eredità dall’anima, o subisce per volontà degli dei. Il tarantismo, infatti, nelle forme studiate metodicamente a partire dal Rinascimento, viene incluso tra i «relitti» di quei riti catartici dell’antichità preclassica che, nel loro progressivo disfarsi, hanno rilasciato l’esorcismo coreutico musicale legato al morso della taranta. Questo processo di dissoluzione dell’organicità rituale antica del tarantismo, osservato ad esempio da De Martino, è l’ultimo pezzo di un qualcosa che già era suppostamente un «relitto» anche al tempo
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dal quale riceviamo le prime testimonianze della taranta: verso l’anno mille, quando con le Crociate la terra d’Otranto diviene meta di eserciti. Le protocronache del tarantismo risalgono al XII secolo, mentre al ‘600 si devono le osservazioni dei padri gesuiti dei collegi di Taranto e Lecce, che le trasmisero al loro famoso confratello Atanasio Kircher nell’ambito dell’analisi sulla iatromusica. Successivamente, Epifanio Ferdinando ed il croato Giorgio Baglivi ne vollero fare un fenomeno di tipo medico, cioè una malattia - il latrodectismo - cercando di riportarlo così nell’ambito degli avvelenamenti, o dei disturbi mentali come all’epoca venivano interpretati. De Martino invece, alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, insieme alla sua équipe multidisciplinare, coltiva una visione molto più articolata del fenomeno, che egli definisce come forma originale ed irriducibile di «autonomia simbolica». Questa impostazione gli consente di collocare sia l’eziologia dell’esorcismo coreutico-musicale, sia le pratiche inerenti alla cura della mania, all’interno di una evoluzione culturale e cultuale della storia del Sud nel suo rapporto con il «numinoso»; da questo il sottotitolo della sua monografia sul tarantismo: «contributo ad una storia religiosa del Sud». Ed il «numinoso», legato alla mania dei tarantolati, non può che essere ipostatizzato in Dioniso che, evocando l’archetipo della «vita indistruttibile», rappresenta per essi anche una forma di approccio al sacro attraverso gli elementi primigeni della propria intima natura. Non intendendo approfondire il tema della mania dei tarantolati come disturbo psicologico, rinviamo alla saggistica specifica. Qui, invece, vogliamo riprendere il ruolo dell’altalena come descritto dalla letteratura barocca sul tarantismo e come osservato direttamente nei suoi «relitti» da altri testimoni del secolo passato. E allora, torniamo a dire, l’altalena, o meglio il moto pencolante e ritmico che essa genera ed asseconda, rientra appieno tra gli oggetti che compongono il «perimetro cerimoniale» del tarantismo, anzi lo delimitano dato che, come vedremo, i tarantolati si muoveranno preferibilmente all’interno del raggio di azione delle corde pendenti dal
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soffitto o dagli alberi. Più in generale, i tarantolati «motum pensilem amant» dice il Baglivi, mentre Epifanio Ferdinando osserva che essi «pensilem in cunam moveri cupiunt». Anche il Kircher afferma che «alcuni tarantolati si lasciavano pendere dagli alberi mediante funi», e che questi erano tra quelli morsi da tarante use a sospendere la loro tela tra i rami. Questa pratica era originariamente legata all’esorcismo all’aria aperta - nel quale rientrano anche il tuffo nell’acqua ed altre pratiche di oscillazione come quelle di legarsi alla poppa di una imbarcazione e farsi dondolare dalle onde - mentre in casa, nelle epoche in cui il rito è oramai un «relitto» dell’originale esorcismo silvano di chiara derivazione dionisiaca, si usano corde sospese al soffitto. Le ultime osservazioni di queste altalene sono immortalate nelle foto della monografia di De Raho, che osservò il dondolarsi delle tarantolate esclusivamente durante l’esorcismo domestico: «Questa donna al soffitto dell’umile sua dimora aveva sospeso una fune il cui capo, di poco pendente sul pavimento, nel mezzo del vano, essa tenacemente stringeva tra le mani: e lanciandosi su di essa, vi si abbandonava col peso di tutto il corpo, i piedi piantati al suolo, girando il capo in qua ed in la, il volto fiammeggiante, lo sguardo torvo» (De Raho, p. 35 sgg.). Se questa non è la descrizione di una menade… Nota giustamente De Martino che la fune pencolante dal soffitto serviva alla donna per «evitare sbandamenti oltre il perimetro cerimoniale, ma che occorre tener presente anche il significato simbolico del ragno sospeso al filo della sua tela ed oscillante in aria trasportato dal vento». Riemerge così l’analogia tra il comportamento del ragno e quello del tarantolato. Qui il simbolismo dell’altalena, intesa come operatore del gesto, il dondolarsi, che racchiude la sua determinante essenziale, torna a sovrapporsi col mitologema che vede altre donne - ricordiamo Aracne trasformata da Atena in un ragno - costrette da un nume a sospendersi tra i rami e dondolarsi per espirare una colpa, o semplicemente spinte ad impiccarsi come forma del suicidio. Come dicevamo analizzando i giochi legati alla «vertigine», forse
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una eco di questo mito possiamo ritrovarla nel Bungee jumping in cui i saltatori rimangono alla fine appesi agli elastici come ragni sulla tela. Abbiamo già parlato di queste situazioni, mentre adesso vogliamo evidenziare il nesso tra l’altalena, il ragno e la possessione. Leonardo da Vinci aveva icasticamente definito il tarantismo una sorta di «delirio da fissazione» poiché: «Il morso della taranta mantiene l’omo nel suo proponimento, cioè quel che pensava quando fu morso». Se estendiamo ora l’orizzonte simbolico del tarantismo, e cerchiamo analoghi della frenetica danza delle tarantolate, arriviamo ben presto, come abbiamo accennato parlando del colonialismo, ad incrociare riti di possessione e relativi esorcismi, provenienti da altri continenti: lo zar etiopico, il bori degli Hausa, la macumba, il candomblé, ma soprattutto il voudù di Haiti, rito di “possessione” in cui i Loa, gli spiriti della religiosità africana originaria, si impossessano del soggetto e si esprimono attraverso di esso. Possiamo dire che la taranta è il Loa unico ed egemone del tarantismo e che il gesto dell’altalena rappresenta, insieme alla danza, lo strumento attraverso cui il posseduto esprime la sua possessione, esattamente come la danza degli invasati dai vari Loa ne mima i caratteri essenziali. Per arricchire l’analogia dobbiamo ricordare che anche nei riti voudù troviamo l’associazione tra alberi e Loa, ognuno rappresentato da uno specifico tronco, gli arbes-reposoir, così come nel tarantismo vive l’associazione tra la taranta che si pencola dai rami nella sua ragnatela e l’altalena cui i tarantolati amano appendersi (ibid., p. 210 sgg.). Certo la varietà dei Loa e delle loro caratteristiche, da Ogun a Erzulì, passando per Damballah il Loa serpente, non possono sovrapporsi all’unicità della taranta che, però, ha anch’essa caratterizzazioni specifiche: libertine, tempestose, tristi, e via enumerando. Anche il carattere sessuale del tarantismo, spesso legato a problemi di «eros precluso» e di conseguente deflusso attraverso l’esorcismo coreutico musicale come forma di purificazione catartica, trova nell’altalena lo strumento principale, data la componente erotica essenziale di questo gioco. Il nesso sesso-altalena è vecchio quanto il mito di Erigone
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ed è, come abbiamo visto, legato alle festività ateniesi in cui la moglie dell’Arconte Basileus, la Basilinna, si accoppiava con Dioniso. Oltre alla danza delle tarantolate, che sovente mimava esplicitamente atti sessuali, e la localizzazione spesso genitale, o in altre zone erogene, del morso del ragno, l’altalena gioca con il suo movimento e la sua simbologia un ruolo evidente nel far defluire l’eros, a vari motivi, «precluso». Abbiamo già visto come nell’antica Grecia le giovani vergini che si preparavano al matrimonio ricorrevano a quest’attività per racchiudere, in un rito di passaggio denso di significati simbolici, il transito dal cullarsi tra le braccia materne, cioè il felice tempo dell’infanzia, a quello dell’atto sessuale col futuro marito. Anche i rimandi a Giocasta e Fedra, ad Amata, che si impiccano a causa dell’«eros precluso», per dar sfogo attraverso la morte a relazioni impossibili, trovano nel tarantismo una forma di sublimazione evidente: molte tarantolate, infatti, descrivono una vita sessuale tormentata, e dunque il ricorso all’altalena evita gesti esiziali. Prima di concludere queste osservazioni, dobbiamo completare il quadro dionisiaco del tarantismo con un accenno al ruolo della musica. Nell’esorcismo coreutico musicale il ritmo musicale ha un ruolo centrale, come il dondolamento in altalena. Zolla, aprendo il suo Il dio dell’ebbrezza, narra questo incontro con la divinità: «M’è capitato di ascoltare un raga vespertino di sarod accompagnato dal tamburello, la tabla. La musica indiana ha un andamento uniforme, comincia con assaggi lentissimi, enigmatici, di combinazioni che lentamente si dipanano e come uno strazio emerge la melodia. Sono spunti come di sogno. Infine la melodia si delinea chiaramente e via via comincia a scatenare esecuzioni su ritmi accelerati; è come se si sbrigliassero furie amorose, fino all’estasi che miracolosamente si mantiene, prolungandosi, variando, sino a gettarci nel silenzio su cui giocava il preludio… Medito l’esperienza tante volte ripetuta e mi viene in mente che una figura è sicuramente emersa, Dioniso, mite, fanciullo, giocoso e poi scatenato, rapito. Agli indiani piacque acquistare quadri occidentali di baccanali, era forse il punto di fusione fra noi e loro; Shi-
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va e Dioniso coincidono». Ed ecco come il Baglivi e l’erudito Alessandro D’Alessandro descrivono il passaggio dalla crisi all’esorcismo musicale: «Coloro che sono morsi dalla tarantola, poco dopo cadono al suolo semimorti, con perdita delle forze e dei sensi, il respiro talora affannoso, talora gemente, spesso immobili ed esanimi. Dato inizio alla musica, a poco a poco questi sintomi si attenuano, ed il malato comincia a muovere le dita, le mani e quindi i piedi, successivamente le altre membra, e con l’incalzare del ritmo melodico il movimento va gradatamente aumentando… appena il suono cessa vediamo il tarantolato perdere la coscienza e cadere al suolo privo di sensi». L’analogia tra il ritmo estatico prodotto dagli strumenti indiani, tra cui la tabla, il corrispondente del tamburello fondamento della tarantella, e l’atmosfera della musica che “accorda” il tarantolato sul ritmo della sua taranta per attivare il percorso catartico, traccia un comune percorso, ben visibile a chi cerca l’invisibile. La danza del tarantolati è essenziale, non sottoposta ancora alla scissione tra mente e corpo, tra sacro e profano, tra purezza dello stile e movimenti spontanei. È un residuo di danza primigenia, quella che gli dei danzavano insieme ai mortali. La codificazione della danza è una delle componenti della modernità che nasce tra il Medioevo ed il Rinascimento; per questo le movenze dei tarantolati sono un «relitto» di gioco sacro, irriducibile alla scissione dell’unità.
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Tarantolati nella cappella di San Paolo a Galatina (da De Martino)
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Il catartico dondolio
Né il bene né il male sono in noi perfetti G. Prestipino
L’altalena è uno strumento terapeutico, che rientra nella categoria delle cure catartiche: opera la purificazione del corpo e dell’anima. Queste funzioni, condivise con gli oggetti di simili caratteristiche, si espletano attraverso il suo movimento oscillatorio ed il suo intrinseco ritmo dondolante. «La strada all’insù ed all’ingiù è una sola» dice Eraclito di Efeso (14 [A33]), e ancora: «dentro di noi è presente un’identica cosa. Vivente e morto, lo sveglio ed il dormiente, il giovane ed il vecchio; queste cose, una volta rovesciate, sono quelle, e queste, dal canto loro, una volta rovesciate, sono queste» (14 [A 115], cfr., Colli). Questo «rovesciamento» di senso, nel nostro caso dal male al bene, è la quintessenza del processo catartico, e può essere operato attraverso determinati gesti, la cui efficacia è spesso mediata dagli elementi fondamentali: aria, acqua, terra, fuoco. Come ogni cura, il processo catartico ha bisogno in primis di una buona anamnesi, cioè dell’individuazione della causa del male e, conseguentemente, della terapia corrispondente. Nel mondo della Grecia antica - quella dei «filosofi sovraumani», ancora sapienti e sciamani, ma già indagatori di una Verità oggettiva - viveva e veniva praticata l’idea che esistesse una relazione di «simpatia» tra analoghe manifestazioni dell’esistenza, e dunque la possibilità di evocarla e manipolarla attraverso determinati procedimenti, come insegnano il teurgo Giamblico e il mistico Plotino. Questa teoria si mantiene, come filone di ricerca e pratica terapeutica, sino al neoplatonismo di Marsilio Ficino, scomparendo poi dall’indagine scientifica nel periodo successivo, galileiano, ma restando sempre centrale nell’ambito delle guarigioni catartiche. «Una parte dell’universo è in simpatia con l’altra, come una corda tesa nella quale la vibrazione dal basso si trasmette all’alto; spesso, 139
anzi, mentre una corda vibra, l’altra ne ha, per così dire, la percezione, a causa della consonanza e anche perché è accordata alla stessa armonia. E se da una lira la vibrazione si trasmette persino in un’altra - a tanto giunge la simpatia! - anche nell’universo regna un’unica armonia, sebbene essa derivi dai contrari: essa nasce anche dai simili come dai contrari, perché tutte le cose sono affini» (Plotino, IV 4, 41). Nella visione delle pratiche di guarigione catartica il mondo è come avvolto da un fitto tessuto di analogie, che connettono tra loro tutte le sue manifestazioni; queste corrispondenze sono intrecciabili attraverso le «segnature» che evocano, attraverso la forma esterna, l’intima natura delle cose. Paracelso è lo studioso più convinto di questa epistemologia della «natura delle cose»: il IX libro del suo trattato De natura rerum, s’intitola De signatura rerum naturalium. Qui è sviluppata l’idea che tutte le cose portino un «segno» che manifesta e rivela le loro qualità invisibili. «Nulla è senza un segno», egli scrive, «poiché la natura non lascia uscire nulla, in cui essa non abbia prima segnato ciò che in esso si trova» (Paracelso, III, 7, 131). E ancora, «non vi è nulla di esteriore, che non sia annuncio dell’interiore», recita il suo Liber de podagricis; e dunque, attraverso lo studio di questi segni «l’uomo può conoscere ciò che in ogni cosa è stato segnato», cioè la sua essenziale natura e, di conseguenza, le corrispondenze con altri fenomeni naturali, di segno opposto o consonante (ibid., II, 4, 259). In questo senso «tutte le cose, erbe, semi, pietre, radici, dischiudono nelle loro qualità, forme e figure [Gestalt], ciò che è in esse», e se «vengono tutte conosciute attraverso il loro signatum», allora «segnatura è la scienza attraverso cui tutto ciò che è nascosto viene trovato» (ibid., III, 7, 133), (cfr., Agamben, p. 35). La sympatheia (συμπάθεια), abbiamo detto, definisce il rapporto di reciprocità che esisterebbe fra tutte le cose: per cui una può agire sull’altra e viceversa. La tesi è ripresa da Plotino come «legge d’armonia che collega e unisce ogni cosa nell’Universo»; «simpatici», infine, vengono definiti quegli elementi che, in virtù di particolari e
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misteriose affinità con le divinità, servono per realizzare la liberazione dell’anima dalla “custodia” corporea, come dice Platone nel Cratilo, e la sua risalita verso il cielo iperuranio da dove essa è venuta. Le pratiche che si rifanno a questa complessa ed affascinante visione cercano prima di «sintonizzarsi» con l’essenza del male e poi di capovolgerla, accompagnandolo verso la sua polarità opposta, dato che ogni male, per la legge della dualità, ha un corrispettivo positivo. Il caso più classico è quello del cullare esterno che, piano piano, riporta il polso interno ai battiti fisiologici. Abbiamo detto che in molte pratiche spirituali di purificazione entrano in gioco i quattro elementi fondamentali - aria, acqua, terra e fuoco - che simboleggiano le materie attraverso cui l’immaginazione può rendere “concreta” una idea del male altrimenti vaga: «fissarne» la natura riferendola ad uno dei quattro elementi. Per l’immaginazione umana «visualizzare» attraverso un elemento materiale l’idea di un male immateriale, rappresenta un utile ausilio al processo di guarigione. «Acqua, aria, terra e fuoco: non per nulla questi quattro elementi hanno rappresentato un ruolo così grande nelle prime cosmogonie, nelle antiche filosofie dell’universo, in quel complesso di idee e di rêveries che fu l’alchimia» (cfr., Bachelard 3, p. 12). Tra i vari dispositivi delle pratiche catartiche mediante l’elemento «aria» troviamo l’altalena: rappresenta un operatore che, attraverso il suo movimento ritmico e l’andamento dello stesso, il dondolio, è in grado di evocare e sintonizzarsi con altrettante situazioni distoniche per poi riuscire a capovolgerle, ristabilendo così l’equilibrio che si era rotto. Le origini e le tipologie di questi disturbi, che oggi definiremmo mentali, sono antichissime, forse preistoriche; l’antichità greca ce ne ha certamente fornito una prima, completa descrizione, che non intendiamo certo qui ripercorrere. Per la nostra riflessione sull’altalena catartica basterà ricordare che il mondo arcaico, quello legato alla «maschera e vertigine», come evidenzia Calasso nel suo La follia che viene dalle Ninfe, si confronta continuamente con la «follia». Omero descrive una lunga teoria di si-
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tuazioni in cui appaiono perturbazioni più o meno acute della personalità “normale” di un individuo; tante da far pensare che la “normalità” nel mondo dell’Iliade e dell’Odissea fosse una condizione alquanto eccezionale, se non addirittura marginale. L’atē, ad esempio, che prende Agamennone quando sottrae ad Achille la sua concubina, è una «forma di annebbiamento o smarrirsi della coscienza normale… una pazzia parziale e temporanea che, come ogni pazzia del tempo, viene attribuita non a cause psicologiche o fisiologiche, ma a un’operazione demoniaca esterna». Ebbene, questa forma di annebbiamento della coscienza non può essere curata da semplici riti catartici, che non basterebbero a far cambiare parere agli imperscrutabili dei che la inviano agli umani (cfr., Dodds, p. 47 sgg.). Lo stesso vale per il mĕnos, un «misterioso eccesso di energia» che ha la «forza devastatrice del fuoco»: anche questo è l’atto di un dio che aumenta o scema a suo piacimento la forza dei combattenti. È il caso di Ettore schiumante dalla bocca, con gli occhi che mandano lampi. In questi comportamenti non vi è nessuna responsabilità umana, in quanto tutto è deciso dagli dei, poiché, come dice Semonide di Amorgo, «Zeus domina il compimento di tutto quello che è, e dispone secondo la sua volontà», e dunque, per Teognide, «nessuno è responsabile della propria rovina». Anche nel caso di grandi delitti, come quello di Edipo, la colpa è proveniente dagli dei che usano l’umanità per i loro insondabili fini. Altra “potenza” generatrice di squilibrio psichico era la phthŏnos, la gelosia divina, che in alcuni casi viene presentata come causa della nemesis, la giusta punizione degli dei verso un comportamento umano. Anche la hybris, il vantarsi delle proprie opere, poteva scatenare la “giusta gelosia” degli dei e la conseguente nemesis. Nella civiltà greca arcaica, omerica, ci ricorda Dodds, gli uomini proiettano sugli dei la loro visione del mondo, sicché anche gli Olimpici sono «preoccupati anzitutto del loro onore», e quindi sensibili alle mancanze nei loro confronti. In questi casi le purificazioni sono dovute, certo, ma non per curare il corpo o l’anima, quanto
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sotto forma di sacrifici per placare ed accettare una volontà divina della quale non si coglie il senso o, meno ancora, l’equità. In epoca classica la situazione muta decisamente: un nuovo quadro nosologico prende il posto delle vecchie follie divine in quanto, anche in questo ambito, la civiltà ha preso il sopravvento sull’irrazionale, e l’umanità vuole governare anche le sue turbe psichiche. In questo contesto si inserisce il rito delle Aiόra, inteso come modalità dinamica atta a simboleggiare il passaggio dall’età prepubere a quella adulta, in particolare per le donne. Il dondolio accompagnava questo passaggio anche e soprattutto per smorzare, all’interno di un gesto simbolico, quelle manie - oggi diremmo nevrosi o addirittura psicosi - che una giovane donna poteva provare in un momento così delicato dell’esistenza, eventualmente spingendola, come Erigone, sino al suicidio. Qui il significato del gesto racchiude una serie di allusioni che vanno da quella del rituale di passaggio da una età ad un’altra, alla più evidente simbologia sessuale. E questo vagare nell’aria, questo seppur momentaneo distacco dalla comunità, è proprio una delle caratteristiche dei riti di passaggio, che impongono all’iniziando un periodo di separazione dalla società in un luogo appartato, iniziatico. «E cosa ci può essere di più separato, di più isolato di una persona issata su un’altalena, sollevata da terra, sospesa a mezz’aria?» riflette Eva Cantarella (cfr., Cantarella). Tornando all’impiccagione delle vergini, abbiamo visto come potesse essere motivata anche da un rifiuto radicale del nuovo stato, e l’altalena, con il suo dondolio, permettesse invece un deflusso positivo alle pulsioni suicide. In questi casi, dunque, l’altalena rappresenta un vero e proprio dispositivo terapeutico che evita il peggio, e riorienta verso il gioco e l’attività ludica un blocco di pensieri che, altrimenti, potrebbero coagularsi nel gesto esiziale del suicidio per impiccagione. I casi di Fedra, o della regina Amata, suicide per un amore impossibile, lo testimoniano. «Già abbiamo avuto occasione di osservare come, nelle crisi ricorrenti nel mondo femminile greco, la fuga dalla comunità civile
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comportasse spesso il rischio del suicidio, e come l’impulso suicida si compisse per annegamento o per impiccagione. In rapporto a questi rischi esistenziali che incombevano soprattutto nell’età pubere, ma che generalmente concernevano la sfera dell’eros a vario titolo precluso, determinati orizzonti mitico-rituali erano chiamati a fronteggiare le crisi: e se la fuga senza meta era ripresa e controllata nel modo che si è visto, e il suicidio per annegamento si tramutava in immersione catartica che mutava di segno al gesto insano del gettarsi in acqua, il suicidio per impiccagione trovava la sua riplasmazione nel simbolo dell’altalena […]. Tale orizzonte diventa comprensibile, cioè non arbitrario, quando come suo momento critico corrispondente sia assunto il rischio delle adolescenti di non effettuare il distacco dall’immagine paterna sostituendola con quella di un possibile sposo: onde un conflitto che si manifesta nell’inconscio come colpa per la morte violenta del padre e come rifiuto dell’accettazione del proprio destino di donna, e nella sfera conscia come impulso cifrato e irrisolvente alla fuga senza meta ed al suicidio. Il mito di Erigone evocava questo dramma […]. L’altalena delle vergini - o l’oscillare delle pupattole - realizzava in forma alienata e attenuata l’impulso suicida» (De Martino 1, pp. 231-232). Qui l’altalena gioca il ruolo di dispositivo regressivo e, allo stesso tempo, proiettivo: il dondolio richiama l’essere cullato infantile, mentre la spinta che il soggetto autoproduce, o potenzia, si inquadra nell’autonomia dell’età adulta, nel padroneggiamento del movimento sotto forma di gioco, e dunque di un passaggio tra queste due fasi della vita. Nello specifico della simbologia dell’aiόresis la spinta prodotta da altre braccia, quelle del satiro barbuto come raffigurato sullo skyphos di Berlino, diviene un sostitutivo adulto e sessuato della spinta materna, configurando così una nuova situazione in cui la dinamica può rappresentare anche lo sposo, e dunque il passaggio dalle braccia della madre, o del padre, a quelle del marito. Ma questi casi estremi, benché frequenti, di scompensi dovuti al passaggio alla vita sessuale adulta, non esauriscono certo le funzioni
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catartiche dell’altalena, che viene utilizzata da sempre come strumento per lenire disturbi più lievi, legati alle paure profonde della prima infanzia o per calmare gli spiriti eccitati dei fanciulli. Queste pratiche non hanno nulla a che fare con le varie forme di «mania» che Platone descrive nel Fedro (244 A-C) e che non vengono considerate patologiche ma, anzi, veri e propri “doni” come chiaramente li definisce Socrate: «Se, infatti, la mania fosse senz’altro un male, sarebbe stato detto chiaramente. Invece, i beni più grandi ci provengono mediante una mania che ci viene data per concessione divina». «Socrate: Non abbiamo forse detto che l’amore è una forma di mania? Fedro: Sì. Socrate: E abbiamo detto anche che ci sono due specie di mania, una che nasce da malattie umane, l’altra da un’alterazione dei comportamenti abituali prodotta dalla divinità. Fedro: Certamente. Socrate: E all’interno della mania divina abbiamo distinto quattro parti influenzate da quattro divinità. Ad Apollo abbiamo attribuito l’ispirazione profetica, a Dioniso quella telestica, alle Muse inoltre quella poetica e la quarta ad Afrodite ed Eros, e abbiamo detto che la mania erotica è la migliore» (Fedro 265 B-C). Il secondo tipo di mania è quella mistica (telestica), causata da Dioniso. Anche in questo caso gli eccessi bacchici non vengono visti come forme patologiche ma come accesso ad una conoscenza superiore, mistica appunto: le danze coribantiche che includono il dondolamento ai rami degli alberi permettono l’accesso diretto alla conoscenza infusa dal dio attraverso l’entusiasmo. Nulla a che vedere con le pulsioni suicide delle giovani vergini attiche, anzi, una forma di «liberazione» donata dal dio: «E quindi, procurando purificazioni e iniziazioni, rese libero chi ne fosse in possesso, per il presente e per il futuro, avendo trovato una liberazione da tutti i mali». Qui compare Dioniso lysios, lo scioglitore, il liberatore: i «relitti» del tarantismo, studiati attraverso i secoli, il furioso dondolarsi alle corde poste in casa, o originariamente all’aperto, esprimevano ancora queste forme di liberazione da ogni vincolo costituito e, perciò stesso, erano immancabilmente visti come turbativi della gerarchia vigente.
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Ancora, Socrate ci parla di altre manie che però non prevedono purificazioni: la mania poetica, ispirata dalle Muse che: «Impossessatasi di un’anima tenera e pura, la desta e la trae fuori di sé nella ispirazione bacchica in canti e in poesie». Ed infine la mania erotica, o amorosa, che rende folli gli innamorati, infusa naturalmente da Afrodite ed Eros: in questo caso però una certa tipologia di «altalena» aiuta. Nel libro VII delle Leggi Platone descrive infine i modi per ristabilire l’equilibrio psichico alterato dalle paure, dagli incubi, dalle angosce senza volto; in generale da tutte quelle oscure ed apparentemente immotivate agitazioni che prendono la prima infanzia sino all’adolescenza. Per ottenere questi risultati il filosofo richiama proprio il movimento ritmico delle nutrici che cullano i piccoli: questo gesto finisce col sovrapporsi ai ritmi del corpo inducendo, così, prima uno stato di simpatheia tra i due, e poi la riconduzione di quello interno, eventualmente alterato, al suo pulsare naturale. «Dunque assumiamo questo principio come trattamento richiesto dal corpo e dall’anima dei bambini molto giovani: […] movimento per quanto possibile ininterrotto di notte come di giorno, ecco quel che giova a tutti, ma specialmente ai più giovani che dovrebbero, se si potesse, per così dire vivere sempre sull’onda del mare; […] Infatti quando le madri, che l’hanno appreso direttamente dall’esperienza, vogliono addormentare i neonati che hanno il sonno difficile, danno loro non già riposo ma, al contrario, movimento, cullandoli senza sosta» (Leggi 790, C-E). Nel Timeo, oltre al mito di Atlantide, viene tracciata la cosmologia platonica e la corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo, nonché l’idea di anima mundi e sympatheia che ritroveremo in Plotino e Paracelso. È qui che Platone richiama esplicitamente l’altalena, non solo come gesto di cura, ma di prevenzione: il movimento ritmico come lenimento e costante fattore di equilibrio per l’anima angustiata e per la mente eccitata, introducendo una immagine fondamentale: quella della «Natura nutrice» che tutto e tutti culla nel suo abbraccio.
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«Se, invece, uno imita quella che abbiamo denominato nutrice e balia dell’universo, e più che può non lascia mai che il corpo sia in riposo, nella misura del possibile, ma lo mette in movimento e, imprimendogli in ogni parte determinati scuotimenti, lo difende, secondo natura, dai movimenti esteriori ed interiori e, scuotendolo in giusta misura, dispone le parti le une rispetto alle altre secondo affinità. Se uno fa questo, ebbene non lascerà che si riproducano nel corpo guerre e malattie collocando il nemico accanto al nemico ma, collocando un amico accanto ad un amico, produrrà salute. Fra i movimenti quello che avviene in sé medesimo ed ad opera di sé medesimo è il migliore. Infatti esso è affine al movimento dell’intelligenza ed al movimento del cosmo […]. Perciò delle purificazioni […] la seconda è quella che si ha mediante i movimenti oscillatori quando si è su navi, o su qualsiasi altro veicolo che non produca stanchezza» (Timeo, 88 D, 89 A). Il filosofo cita anche il ruolo fondamentale della danza nel riequilibrare i polsi interni, pratica che troviamo in tutte le tradizioni di ballo popolare. De Martino ci ricorda come la festa delle Aiόra simboleggiasse, tra le altre cose, anche questo lasciarsi oscillare nello spazio, come avesse la sua figura augurale nell’essere cullati: «È quindi un ricordo estremo, e funziona come estremo orizzonte di ripresa e di liquidazione delle situazioni infantili cui si è rimasti legati: in questo senso l’altalena, come imitazione dell’essere cullato, costituisce un vissuto progetto di ritorno indietro […]. L’infante cullato percorre e ripercorre sempre lo stesso identico spazio in termini isocroni, traccia un percorso e poi subito dopo lo cancella, senza che in questa vicenda entri in gioco il più piccolo intervento dell’infante, poiché l’operatrice è la madre: e proprio questo sempre identico spazio dapprima concesso e quindi immediatamente tolto secondo un ritmo costante, dilegua l’immediata esperienza del vivere, e subentra la quietudine del sonno» (De Martino 1, pp. 233-234). Elémire Zolla nel suo L’amante invisibile, riprende il tema del ritmo cullante inserendolo nel capitolo Come si insegna l’arte di sognare, in cui l’altalena diventa uno strumento estatico per tornare ad una «pedagogia della visionarietà».
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Anch’egli riprende le argomentazioni di Platone, ma riferendosi al Menone, in cui il filosofo: «Mostrò i meccanismi mentali di uno schiavo, che ci riconducono al centro del suo essere, dove egli custodisce repressa e nascosta la fonte della verità […]. Simbolo di questo centro della vita è l’utero, luogo della tenebra dove si forma l’occhio luminoso, telaio che tesse la carne viva, specchio che raddoppia, riflette la vita. Quando uno sciamano cuna cura una donna gestante, si traspone con la fantasia nella matrice di lei come se entrasse nella caverna o nell’uovo da cui origina il cosmo. […] La donna ha il privilegio di conoscere qualche verità per diretta rivelazione del grembo, replica fedele della caverna o uovo cosmico, polipo marino o medusa che la regge e tormenta […]. È ciò che la donna naturalmente impara dalla natura che le consente di trattare istintivamente un bambino». Zolla riprende poi i temi trattati da Platone nel Timeo ed aggiunge: «Un tempo si sapeva che il cuore della vita è ritmico. Avveniva in Africa quante volte di vedere svenire un portatore durante una marcia faticosa, allora il più vecchio della colonna gli si accoccolava accanto e con gli occhi ne percorreva i polsi. Quindi, su un tamburello, rullava dapprima il battito concitato che vedeva, di poi rallentava, e quando raggiungeva la placida batteria della salute, quell’occhio appannato ribrillava, quelle membra prostrate riprendevano vigore. Soltanto conoscenze uterine possono parlare all’uomo concepito nell’utero» (Zolla, pp. 32-33). Abbiamo già trattato questi temi nel capitolo sui rapporti tra la trance e l’altalena, qui ci limitiamo a richiamare che il tamburo degli sciamani siberiani era anche chiamato “la nave”, proprio per assimilazione alla metafora platonica del «vivere sempre sull’onda del mare». Una funzione simile, ma molto più sociale e comunitaria, la svolge anche un dispositivo come l’amaca; il «letto degli dei», come lo definivano i Maya, magistrali costruttori di questo giaciglio originariamente in fibra vegetale dell’albero hamac, in lingua guaranì, venne importato in Europa da Colombo dopo la sua “scoperta” delle Americhe. Il dondolio dell’amaca è notoriamente ipnotico, caratteri-
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stica che viene utilizzata per produrre quella consapevolezza particolare, onirizzante, che tanta parte ha nella cosmovisione delle popolazioni indigene cha abitano le foreste profonde. Nelle leggende meso-americane molti eroi guerrieri vengono rapiti in fasce dalla propria amaca dai malvagi spiriti della foresta, che prendono la forma di predatori, ma sempre l’amaca riesce a proteggere il bambino da queste intenzioni malevole, chiudendolo all’interno di una «realtà separata». Per questi, ed altri utilizzi dell’amaca tra le popolazioni indios, rinviamo non solo agli studi sulle leggende meso-americane, ma anche ai libri di Carlos Castaneda, che ben descrive la «realtà separata» in cui si muovono le forze fondamentali che influenzano la «via del guerriero». Qui è la descrizione stessa della natura mistica dell’umanità che rinvia alla trama dell’amaca, creando un’analogia che è possibile ritrovare nelle leggende locali. Nelle sedute con lo Yopo - un composto di Anadenanthera peregrina ed altre droghe allucinogene che servono a sintonizzare il pensiero umano con quello delle altre forme di vita, usato dagli sciamani amazzonici anche nelle forme di decisione collettiva, la minga - il dondolio del corpo sospeso nell’amaca gioca un ruolo fondamentale nel processo di amalgama del pensiero dei singoli per arrivare ad una decisione condivisa. Nelle culture tradizionali di molte popolazioni amazzoniche e centro americane, il rapporto empatico creato dall’amaca nella compresenza dei corpi, serve a trasmettere la conoscenza tra genitori e figli, esattamente come le donne africane tengono a contatto con il proprio corpo quello del bambino legandolo sulla schiena non solo per cullarlo, ma anche per insegnargli i fondamentali della vita attraverso il linguaggio del corpo. In molti casi anche le incomprensioni verbali vengono risolte con una dondolata comune sull’amaca, a ritrovare un ritmo comune che disperde nell’aria, l’elemento in cui volano via le colpevoli parole. Riconoscendo queste funzioni liberatorie, alcuni psicoterapeuti stanno adottando l’amaca come supporto anamnestico-terapeutico, e la sostituiscono al classico lettino.
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E dunque, l’amaca si inscrive tra degli strumenti catartici che “cullano” l’anima oltre che il corpo, inducendo uno stato di benessere psico-fisico completo. Completando il quadro dell’altalena come oggetto catartico immerso nell’aria, vale la pena citare Maurus Servius Honoratus che, nel suo Vergilii Aeneidos comentarii, descrive le purificazioni dell’anima attraverso gli elementi fondamentali, inclusa l’aria con il rito degli oscilla: «Aliae panduntur inanes suspensae ad ventos loquitur quidem poetice de purgatione animarum, tangit tamen quod et philosophi dicunt. Nam triplex est omnis purgatio. Quod in Statio legimus, ubi de auguriis tractat. Unde etiam in sacris omnibus tres sunt istae purgationes: nam aut taeda purgant et sulphure, aut aqua abluunt, aut aere ventilant, quod erat in sacris Liberi: hoc est enim “tibique oscilla ex alta suspendunt mollia pinu”» (Libro VI, v. 741 sgg.). «Altri [oggetti] sono appesi ed esposti così al vento; questo sospendere, infatti, ci parla poeticamente della purificazione delle anime e, dicono i filosofi, che tuttavia le tocca. E infatti tre sono i tipi di purificazione. […] È quanto si legge in Stazio, dove si tratta di auspici: dice che rientrano nelle pratiche sacre tutte e tre queste purificazioni, sia attraverso il fuoco, i lavacri con acqua, o sospesi in aria, come era anche nei sacri riti dedicati a Bacco: questo significa, infatti “e in tuo onore sospendono in alto un oscilla al molle pino”, perché era una sorta di purificazione». Qui, dunque, il far oscillare il corpo, o un suo simulacro, viene ritenuto un gesto catartico che accompagna l’impurità accumulata dall’anima a liberarsi nell’elemento scelto.
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Una rêverie in altalena
Gli uomini immaginano più di quanto pensano: hanno allora delle espressioni che oltrepassano il loro pensiero, che oltrepassano il pensiero G. Bachelard
La rêverie... ti avvicini lentamente all’altalena, immersa nel sole di un giardino solitario. Sai dove sei, e quando: nei luoghi dell’infanzia, al tempo in cui vivevi orientandoti coi sogni. Siedi sulla tavoletta e cominci a dondolarti; mentre il corpo lentamente prende il volo, ecco che arrivano i ricordi: si dispongono come quadri sulle pareti del passato. Ora animano una costellazione in continuo movimento nel microcosmo della coscienza; passano senza soluzione di continuità dai suoi strati più profondi a quelli più consapevoli, ed ancora, da ciò che percepisci lucidamente a ciò che avverti oscuramente. Sulla linea dell’orizzonte l’altalena delle sensazioni, dei giudizi, dei sentimenti, ondeggia attraverso i piani dell’essere. Spingi più forte; le mani serrano le corde ad ogni salita. Sarà possibile gettare uno sguardo all’immagine dell’anima? Nella luce cangiante, il vento che soffia sugli occhi riduce lo sguardo ad una rima sottile: forse la troverai nell’arcobaleno rifratto dalle ciglia. Provi a seguirne i colori per ritrovare il suo segno originale, unico; vuoi offrirlo all’Angelo del Mondo, che lo metta tra i tratti del suo Volto. La forza della suggestione accelera il moto sino a portare il corpo ad angolo retto col suolo. Ora è l’ebbrezza che parla, traccia la rotta; la traiettoria che esegui nel cielo indica la via: dovrai partire dalle stelle fisse dell’anima. La materia del corpo non mente, la sua saggezza è chiara; le stelle polari sono i giochi dell’infanzia: l’altalena legata all’aria, i tuffi all’acqua, il castello di sabbia per la terra, ed i fuochi artificiali l’elemento igneo; loro immettono lo sguardo nella prospettiva dell’eterno, quando tra il Sé ed il Mondo non c’era nessuna differenza, solo un essere sacro nel sacro. E così, come stelle remote che gettano la loro luce nello spazio 151
ma sono scomparse da eoni, ecco ricordi tanto lontani nel tempo da sembrare spenti, ma che adesso tornano a parlarti. Ora, al culmine del dondolio, senti le corde vibrare, ed i pali voler uscire dalla terra e camminare con te, come un immenso animale a quattro zampe: a un tratto il dio fanciullo balena tra la luce e l’ombra e poi scompare, lasciandoti con la promessa di sempre: sei vita nella vita, non scordare questo tuo posto nel mondo. Scendi dall’altalena e le rivolgi un cenno di gratitudine. *** Questa serie infinita di rimandi tra la nostra situazione personale e quella collettiva, tra le immagini che governano la nostra anima e le anime di chi, e di cosa, ci circonda, tra l’anima mundi e la nostra particolare, ci dice che una vita caratterizzata, bíos della zōé autenticamente consapevole della «trama nascosta» che tutto riunisce, non può che essere una vita informata dal principio della circolarità, dell’Intelligenza circolare che governa il cosmo: una vita in altalena. Chi sale in altalena, o si ricorda di quando ci andava, è sempre mosso dall’intento di spiccare un volo immaginale, di lasciare la terra per accomodarsi in una situazione non ordinaria, dalla quale vedere il Mondo e se stesso da una prospettiva diversa. Chi oscilla sull’altalena appartiene subitamente ad un’altra umanità che vuole riconciliarsi con la leggerezza. L’essere che si dondola è leggero e libero; queste due sensazioni sono inscindibilmente legate, così come i loro contrari: la pesantezza e la prigionia; l’andare in altalena rappresenta questa volontà liberata, seppure agita per un solo istante. E questa immagine aerea, se la focalizziamo, ben presto si trasforma, si dinamizza, divenendo una vera e propria sorgente di rêverie: la presa di coscienza di un soggetto orientato dalle immagini poetiche. Le immagini dell’elevazione, in particolare i simboli “verticalizzanti”, sono quelli che maggiormente coinvolgono l’uomo nella sua interezza, poiché, come afferma Bachelard, ogni valorizzazione è una verticalizzazione.
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«Ogni ascensione - ha scritto Mircea Eliade - è una rottura di livello, un passaggio nell’aldilà, un superamento dello spazio e della condizione umana» Molte sono le forme che può assumere una rêverie in altalena, tante quante sono le sensibilità e gli intenti che si muovono, ma sempre la traccia che l’altalena delinea nel cielo è la stessa dell’essere che si immerge nell’elemento aria. E così, immersi nella rêverie, l’altalena ci consente di proseguire di giorno, col nostro corpo vivo e la mente lucida, l’onirismo del volo notturno, rivivendo, attraverso la leggerezza dell’ascensione, la dinamica dell’uomo resurrezionale. L’altalena è un vettore del volo possibile, del suo concreto avvenire. Il volo onirico, sintesi fra caduta ed elevazione, è legato a quei momenti della vita in cui tutto sembra ancora possibile, un ritorno alla totipotenza infantile che esprime, nel volo, la sua immagine archetipica più poetica. Si smette di volare quando la realtà sembra annullare le nostre potenzialità, appannare i sogni, incrinare gli ideali. Sull’altalena si comprende come il giorno, a volte, esista per spiegare ciò che abbiamo intravisto in quelle notti; il dondolio ci riporta alla giovinezza dell’anima: questo movimento dinamizzante fa oltrepassare i limiti di una realtà fenomenica sempre più angusta e frammentata, desacralizzata. Nietzsche, nella sua concezione dell’estetica, dice che tutto ciò che è buono è leggero, tutto ciò che è divino corre con piedi delicati, indicando così la correlazione tra il dondolio e l’elevazione dei pensieri, il sentiero verso quegli abissi che talvolta sono le altezze. Rilke, il poeta dei Sonetti ad Orfeo, seguace di Dioniso, ci illumina a sua volta su un altro aspetto immaginale della rêverie in altalena: la paura e l’eccitazione: «Non sapevi dunque che la gioia è in realtà uno spavento di cui non temiamo nulla?». Ecco, in altalena ci si apre alla consapevolezza più profonda, alla ricomposizione dei sentimenti opposti. La sua dinamica, a livello immaginale, dispiega queste potenzialità; è il gesto stesso che crea l’ambiente nel quale esso avviene: il breve volo genera sia l’abisso verso il quale ci si getta, sia il cielo nel quale prima ci si eleva.
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La «vertigine» dell’altalena è tale perché evoca la caduta che possiamo vivere come un precipitare in noi stessi. Spesso, per accentuare questa sensazione di «vertigine interiore», si chiudono gli occhi; nel momento del ritorno tutto il nostro essere sembra cadere, partecipare di quella potenza che ci richiama verso il suolo… è la mia caduta che crea l’abisso, ci ricorda Bachelard. E dunque, non è una semplice visione delle varie facce immaginali di questo gioco che cerchiamo, ma l’esperienza del suo significato simbolico profondo: strumento di riscatto dell’immaginario personale e collettivo sottomesso alla spettacolarizzazione mercificante del bioliberismo: la sottomissione del vivente alla biopolitica, la suprema legge della plusvalenza applicata alla «nuda vita». Se è vero che «quando tu guardi l’abisso, l’abisso guarda te», come diceva Nietzsche, questo abisso creato dalla discensione dell’altalena è un luogo immaginato da noi e che per questo possiamo e dobbiamo guardare, affinché altri abissi, baratri sull’orlo dei quali camminiamo quotidianamente, ci vengano svelati. Nella brusca discesa l’unione sostanziale con ciò che ci atterrisce può diventare salvifica. Il balzo in alto - un volo vincolato concesso agli umani - questa rêverie di elevazione che sprigiona una gioia primaria, è pure intimamente legata all’equilibrio, alla dinamica della pulsazione, del battito, del ritmo che veicola la «vita indistruttibile», come quando si va in altalena in piedi, o come gli acrobati del circo che mantengono stupendamente il controllo nella piroetta mortale. Se vogliamo, possiamo cogliere, raffigurate in questi gesti armonici, sospesi nel vuoto, tutte le sfumature che legano Eros a Thanatos; si susseguono lassù, una ad una, fotogramma dopo fotogramma: prima la tensione che genera il dinamismo estatico della spinta, poi la ricerca dell’attimo immobile, della più estrema elevazione, ed infine il vivere estatico, orgasmico, della caduta, come fosse un’entrata e la subitanea fuoriuscita dal vortice del mondo infero, la cui ombra sempre ci guarda. In queste posture, come nel tuffo e nella danza, c’è tutto il ciclo della vita. Restituire al sogno di volare la pura gioia materiale del volo, il
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dionisismo del proprio corpo oscillante, rappresenta allora un accrescimento di potenza da non sottovalutare, perché il volo in sé, l’ondeggiare giocoso, apre al meraviglioso, all’estasi, alla visione delle cose così come sono; illumina il varco che si apre tra l’immaginazione delle forme e l’immaginazione delle forze che ci sospingono in alto e poi ancora in basso. La realtà che si forma e si dà forma qui, tra la fantasticheria del volo e la realtà fattuale, è la promessa stessa del futuro. Chi non ha immaginato di avere le ali mentre si librava sull’altalena? Chi non ha immaginato che la scia dell’aria alle sue spalle fosse un invisibile mantello? Quest’aria che si curva intorno al nostro movimento, l’invisibile arcobaleno scolpito nel vento dell’oscillazione, non mantiene forse la promessa della pentola dell’oro nascosta dai Leprechaun alle sue origini colorate? Per questo il corpo in altalena vive una microfisica paranormale, sottratta alle leggi vigenti: chi ha mai pensato di cadere da un’altalena? La «vertigine» del giro completo, incollati alla tavoletta dalla forza di gravità - la più potente, che tiene insieme tutto l’universo - non ci ha forse spinti sempre più in alto? L’altalena, lo abbiamo visto, è anche una culla: il dondolio delle braccia amorevoli che ci hanno calmato nei primi momenti della vita. Nelle culture sciamaniche, nelle medicine tradizionali di molti popoli “ciclici”, l’attento ascolto dei polsi, del battito, del ritmo, il salire e lo scendere altalenante del cuore e del suo respiro, serve a risanare il malato sottoponendolo ad oscillazioni che ricompongano il suo battito con quello della realtà circostante: come il cullare delle nenie addormenta lo spirito inquieto del bambino, o la danza sintonizza il corpo con l’anima. Durante una rêverie in altalena possiamo tornare a sentire questi effetti benefici sulla nostra psiche sfibrata: sono state le oscillazioni di un’altalena a calmare, mercé la combinazione con la musica, i tarantolati nelle epoche passate. Forse, per questo si dice che l’immaginazione è il vero principio dell’immortalità; non di quella cyborghizzata che la tecnologia attuale ci propone: la scomparsa del corpo biologico e la sua sostituzione con un insieme di apparati biomecca-
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nici e dell’anima con un chip di memoria, ma l’eternità ineffabile del nostro corpo sottile, la memoria delle immagini fondamentali che passano da vita a vita nell’eterno fluire dell’esistenza. E allora, l’altalena è anche una forma di meditazione, di contemplazione: l’essere dondolante diviene una freccia tesa al bersaglio; il suo telos è fondersi con il Cosmo, tornare ad essere un momento di movimento in perenne fluire. L’immaginazione dinamica unisce i poli: ci consente di capire che dentro di noi qualcosa si eleva quando un’azione viene approfondita, e viceversa che qualcosa viene approfondito quando ci si innalza. «Siamo come un ponte tra la natura e gli dei, oppure, per rimanere fedeli all’immaginazione pura, siamo i ponti più solidi tra la terra e l’aria; siamo una materia duplice in un atto solo», sostiene ancora Bachelard. Anche nella riflessione di Nietzsche: «L’essere che sale e scende è l’essere attraverso il quale tutto sale e tutto scende», la conoscenza immaginale del proprio essere nel Mondo trova collocazione prima dell’esperienza sensibile del Mondo, la anticipa creando le condizioni per un ricongiungimento tra il “dentro” ed il “fuori” di noi. E così, in altalena, il nostro psichismo può trovare l’equilibrio tra l’immaginato ed il conosciuto, tra un Mondo che è bellezza ed armonia nella nostra visione, ed un Mondo che costruiremo come tale nella nostra esperienza. È il particolarissimo contatto con gli elementi naturali, in questo caso con l’aria, che suggeriscono un ricongiungimento con le altre manifestazioni del Mondo, anch’esse immerse nello stesso pneuma. L’elemento aria è quello più simbolicamente legato all’anima, alla psiche, al soffio vitale che tutto attraversa e sostiene. Il respiro in altalena si fonde con quello del Mondo e delle sue infinite manifestazioni, l’anima personale torna in dialogo con quella della Grande Madre. Ecco come dell’esperienza immaginale dell’altalena fa parte intrinseca il vento: il respiro del Mondo. L’aria che produce il nostro altalenare ci rende consapevoli dell’aria che si muove intorno a noi quando stiamo fermi. I venti che provengono dai quattro punti cardinali riportano alla
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nostra consapevolezza le dinamiche del caldo e del freddo, del secco e dell’umido. Nel colore del vento, nella sua consistenza, si avvertono, invisibili, le presenze che ci accompagnano in altalena… c’è qualcosa nel vento: questa percezione è quella di tutti i luoghi che i venti attraversano per arrivare a noi, e che noi, a nostra volta, nutriremo con gli umori del nostro corpo. Quanto assomigliamo ad un uccello nel nostro dondolarci! Per simpatia dovremmo onorare le vite ed i voli che portano in giro per il mondo la loro bellezza, che depongono uova facendo del pianeta un luogo solo, avvolto dall’insensibile traccia delle traiettorie migranti orientate dallo stesso soffio che, nel nostro corpo, anima la vita. Se il respiro è la base dell’esistenza, il vento è la sua metafora. Non c’è bisogno di aggiungere altro per capire quanto queste affermazioni racchiudano il nucleo simbolico di un’azione veramente politica. *** Ecco, allora avanziamo, a mo’ di conclusione, una modesta proposta, partendo dalla domanda: dove sono finite le altalene oggi? Perché nei parchi pubblici ai bambini vengono proposte quelle squallide apparecchiature munite di cinture di sicurezza con una escursione di poche decine di centimetri, basse ed impiantate su basi di grigio tartan? Come faranno questi bambini esperienza del loro volo immaginario? Dove incontreranno la «vertigine e la maschera»? Quando potranno, con la coda dell’occhio socchiuso nel sorriso estatico del volo pericoloso, intravedere Dioniso bambino riflesso nella luce del sole? La scomparsa delle altalene dai parchi pubblici è la prova provata della violenza crescente che il nostro modello di civilizzazione esercita sui bambini, ovviamente con la scusa della “sicurezza”. Privati della percezione della rima tra sensibile ed insensibile, si rifugeranno nella virtualità del consumo edonistico, senza soddisfa-
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zione. E invece, l’investimento emozionale che li coinvolge nel gioco, che lo rende libidicamente produttivo, soddisfacente, è il rischio della morte e la sua visione; solo questo crea il «vortice» che penetra le ossa sino agli ultimi fondamenti del sangue. Mentre oscilliamo pericolosamente siamo noi a rendere il gioco perfettamente dionisiaco, erotico, liberatorio e creativo. Per ritrovare qualcosa del genere, lo abbiamo visto, dobbiamo andare nei Luna Park contemporanei, in cui enormi aggeggi meccanici fanno provare sensazioni simili a quelle che una volta i bambini trovavano sulla tavoletta sospesa tra i rami di un albero. Ma oggi, a differenza di quel tempo, l’illo tempore della nostra infanzia, i ragazzi sono imbragati, legati da camicie di forza dentro macchine che fanno vivere, a pagamento, un fugace brivido che non è né estasi né paura. L’altalena dei parchi pubblici odierni, con i suoi edulcorati epigoni da Luna Park, sta dunque a quella alta ed infinita di un tempo come la pornografia d’accatto sta all’erotismo. L’altalena vera, invece, evoca un’energia che esige di essere immaginata. E non è forse questa sensazione di ricreare il futuro attraverso le immagini di cui l’infanzia ha bisogno per vivere? Di una «gioia incorporea che ha appena dato inizio alla sua corsa». Immaginare significa innalzare di un tono il reale; la gioia dell’altalena, del corpo in altalena, riproduce nel microcosmo della nostra oscillazione ascensionale la stessa dinamica dell’universo in espansione. Forse possiamo arrivare a pensare, chi scrive lo pensò molte volte, che se morissimo nel punto massimo di elevazione, il nostro corpo resterebbe lì, sospeso nel cielo per sempre.
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La Grande Dea in altalena, Haghia Triada (Creta III-II secolo a.C.)
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La Signora della luna e del sole, sigillo minoico dalla cittĂ bassa di Tirinto
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Sigillo da Mochlos: la Dea e le sue espressioni fitomorfe sulla nave
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A sinistra: l’idolo dei papaveri di Gazi (Creta, circa 1350-1250 a.C.); a destra: la Dea riceve gli omaggi delle ancelle sotto l’albero sacro sormontati da sole e luna, sigillo, Acropoli di Micene
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Sospensione all’albero sacro, sigillo dell’anello cosiddetto di Minosse, Thisbe (Beozia)
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Coperchio di pisside in avorio: la Potnia Theron nutre due capre, da Minet el-Beida, porto di Ugarit, XIII secolo a.C., Parigi, Louvre.
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Dioniso
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Tomba di Thutmosi III, Iside: la Dea-sicomoro allatta il faraone (Tebe)
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Dioniso, Erigone ed Ikarion
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Una donna si prepara all’incontro amoroso durante la notte delle Altalene, Choes attico, 450–400 a.C., Fletcher Fund, Metropolitan Museum of Art, New York
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Satiro spinge sull’altalena la vergine, cratere attico, Museo di Berlino
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Terracotta lekythos, bimbo in altalena del «pittore di Lecce», 375–350 a.C., Metropolitan Museum of Art, New York (foto dell’autore)
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Taurocatapsia, Cnosso, XV secolo a.C.
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Iside-Venere-Inanna, riproduzione di epoca romana, Metropolitan Museum of Art, New York (foto dell’autore)
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Rotolo dell’Exultent, Preghiera del diacono: la terra simboleggiata da una donna (Cattedrale di Bari)
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Hook swingers, India
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La Dea con l’«aidòlon divaricato», Africa centrale, Metropolitan Museum of Art, New York (foto dell’autore)
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Oscillum, museo della chiesa di S. Clemente in Laterano, Roma (foto dell’autore)
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Bartolomeo Pinelli (1800 circa), La Canofiena
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La «vertigine»
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La «maschera», Oceania, Metropolitan Museum of Art, New York (foto dell’autore)
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P.E. Becart, Eros in altalena, matita e carboncino (1950)
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Il trapezio
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Una modesta proposta
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Bibliografia
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