Elena de Lourdes Echavarria
[Messico]
LA CASA DENTRO L’ANIMA
Dona Lapa era nera, scimmiesca. Aveva il sorriso primitivo e le narici orangutane; gli occhi quanto bastava per vedere. Era la mia tata. Lei significava la cura costante, l’allegria (e la risata) negra e spalancata; l’allegria povera, quella che comunque c’è. La mamma: bella, altera e ricca; Donna del latte prosciugato, a fare da babbo a tutti noi. Ordini, direzione, inquadramenti religiosi. Lei organizzava la grande casa col cortile; la calura soffocante, le cucarachas a tappeto. Così, per me, non c’era la tetta, ma c’era la tata. Dona Lapa, nelle sue giornate libere, mi portava al suo paese impolverato, alla sua casa di terra senza porte. Lì mi sedeva sul letto duro di legno e restavamo incorniciate dalla zanzariera beige aristocratica a passare del tempo. Mi offriva acqua da bere raccolta nel cantaro gocciolante, e bevevo lentamente dalla zucca scavata. Mi portava nel bagno dalle pareti di tela sorrette da quattro pali. Mi indicava il buco per terra e mi diceva: «Qui si fa come le aquile: in piedi». Poi, tornavamo alla casa paterna. Arrivavo direttamente al bagno di marmo, e non mi veniva di sedermi. Si andava a giocare nel patio, ben curato, tra ibiscus, felci ed i fiorellini rossi con le spine, chiamate “Spine di Cristo”. Dopo, di nascosto, andavamo a vedere le telenovelas e Dona Lapa cantava insieme a Pedro Infante e viveva il ruolo di Maria Felix. La mamma, invece, non cantava ma comandava. Sentiva miagolare le sue interiora sapendosi tradita dal suo uomo e mi parlava solo del rigore delle aquile; e io mi perdevo nel buco, mi pungevo con le spine di Cristo e la tradivo con Dona Lapa. Perché cercavo una tetta dentro l’anima, e per fortuna trovavo la tata.