Andra Livia Ristea
[Romania]
451° Fahrenheit 451º Fahrenheit è la temperatura alla quale brucia la cellulosa. Prima di arrivare al quattrocento cinquantesimo grado, si avrà il tempo di un grado per domandarsi perché io e non un altro membro appartenente alla nazione romena, viva pienamente l’italiano, l’Italia, l’italianità, le italiane e gl’italiani, la lingua con la quale anagraficamente non sono nata, la lingua che non avrei saputo, sarebbe poi diventata la lingua della scrittura, della filosofia, della vita. L’11 Gennaio 1987, la Transilvania ha spurgato un cogito urlante e saturnino. Ma che cosa ha pensato la Transilvania in quel momento? Tutto quello che il mondo non pensava, cioè un corpo posticipato dalla lingua anticipatrice. La prima parola sarebbe stata piuttosto della lingua che già era là, che non era ancora della bimba appena partorita. La lingua non era la sua, era della gente. Onestamente la Transilvania non ha pensato un bel niente, nessuno pensa ai neonati che nascono dall’altra parte del mondo, alla lingua che dovranno parlare. Ma la lingua ci anticipa e al tempo stesso ci corre dietro, nascendo insieme alla nostra conquista del luogo. La lingua è già là in mezzo ai suoi parlanti, in mezzo ai quali successivamente saremo doppiamente anticipati. Ma la lingua della gente non sarebbe stata la lingua della scoperta di me stessa, dell’annaffiamento letterario. Il romeno non sarebbe mai stato il mio destino capace di risvegliare la profonda conoscenza del mio progetto e della mia vocazione. Ho davvero mai pensato in romeno? Ho mai parlato in romeno davvero? No e No. Ad oggi, in quanto studentessa di filosofia a Verona ed amante della scrittura, ritrovarmi a fare i conti, con quello che il romeno in quanto lingua ed in quanto vissuto radicale possa significare per me, non apre molte domande, ma perché forse le domande non sono mai sorte con un loro perimetro intorno al quale tracciare il raggio. Il romeno in quanto lingua madre, in quanto anticipatrice vivace del mio corpo posticipato, in quanto lingua dell’Est, in quanto lingua dei miei genitori, dei miei nonni, dei miei bisnonni, è una lingua che conosco ma che non mi provoca, in quanto rimane la lingua che ancora mi corre dietro, senza prendermi se non a livello formale – Lingua romena, piacere. Come stai? Chi sei? Perché mi corri dietro? – Ed anche quando mi corre dietro non sento le sue caviglie esclamative, non invoca i miei neuroni perché non mi sconvolge. Ho sempre provato un disagio nel sentire il suono della mia voce, parlare il romeno, anche durante i quattordici anni che ho vissuto immersa nella vita della lingua. Non so bene cosa provo per il romeno, perché in fondo non provo nulla. Il conflitto tra suono ed espressione concettuale rappresenta per me il motivo dei miei risciacqui di collutorio romeno, incapaci di rappresentare l’importanza del contenuto tramite il romeno stesso. Per me affermare un contenuto articolato e importante di qualche idea, facendolo per esempio in romeno ed in italiano, quello che provo con una certa immediatezza, è propriamente la qualità del suono della lingua romena la quale non si trova all’altezza dell’espressione, un graffio linguistico che toglie all’idea la lucentezza. Se l’italiano è per me la lingua della scrittura, dello scavo, alla ricerca della profondità diamantata, il romeno rimane e rimarrà assurdo, inconcludente, banale. Ma questo è anche dovuto alla mia incapacità artistica di scrivere in romeno un saggio, un romanzo, un qualsiasi elaborato di carattere letterario. Se non avessi mai incontrato la lingua italiana non avrei mai scoperto la vocazione per la scrittura, e insieme l’alchimia dei suoni e l’orbita ricamata dalle parole. La lingua italiana in sé, coincide con l’essere che mi costituisce, il “cogito ergo sum”, traslato, diventa per me: italianizzo dunque sono. E per me italianizzare significa accrescere l’avidità amorosa verso tutto l’universo linguistico italiano. Italianizzare non significa familiarizzarsi, abituarsi, adeguarsi, integrarsi, bensì vivere la lingua dell’Italia come la lingua della conoscenza, la lingua che non mi anticipa perché non mi fa sentire posticipata, mi incontra perché mi ha sempre aspettata. È quasi sempre straziante parlare o scrivere di come in realtà l’italiano sia per me l’espressione della quale non dubito mai. La precisione che s’insolca nelle sue rughe la