TEMPO PRESENTE 405-406 set-ott 2014

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N. 405-406 settembre-ottobre 2014

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TEMPO PRESENTE

DEMOCRAZIA * POLITICA LIQUIDA * MERCATI E CRISI * JIHAD ISLAMICA * TRASFORMISMO * BIOETICA * VITA BUONA * CINEMA DI GENERE * FOIBE

g. cantarano a. casu r. catanoso a. ferrara g. jannuzzi g. lupi v. meschesi a. patuelli a.g. sabatini r. speranza c. vallauri Spedizione in abbonamento postale: comma 20, lett.B, art.2 legge 23 dicembre 1996, numero 662, Filiale di ROMA


DIRETTORE RESPONSABILE

Angelo G. SABATINI

COMITATO EDITORIALE

Alberto AGhEMO - Angelo AIRAGhI - Giuseppe CANTARANO Antonio CASu - Girolamo COTRONEO - Elio D’AuRIA - Teresa EMANuELE Alessandro FERRARA - Gaetano PECORA Luciano PELLICANI - Angelo G. SABATINI - Attilio SCARPELLINI CONSIGLIO DEI GARANTI

hans ALBERT - Alain BESANçON - Enzo BETTIzA Karl Dietrich BRAChER - Natalino IRTI - Bryan MAGEE Pedrag MATVEjEVIC - Giovanni SARTORI REDAzIONE

Coordinamento: Salvatore NASTI Angelo ANGELONI - Paola BENIGNI - Matteo MONACO - Francesco Russo Marco SABATINI - Guido TRAVERSA - Andrea TORNESE - Sergio VENDITTI GRAFICA

Salvatore NASTI PROPRIETà: Tempo presente s.r.l. - Casella postale 394 - 00187 Roma Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 17891 del 27 novembre 1979 La collaborazione alla Rivista, in qualunque forma, è a titolo gratuito. Direzione, redazione e amministrazione: Via A. Caroncini, 19 - 00197 Roma tel. 06/8078113 - fax 06/94379578 Stampa: Pittini Digital Print Viale Ippocrate, 65 - 00161 Roma (RM)

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TEMPO PRESENTE

Rivista mensile di cultura N. 405-406 settembre-ottobre 2014 PRIMA PAGINA Segni e significati di una crisi (5) ROBERTO SPERANZA, Post-democrazia, p. 3 ALESSANDRO FERRARA, Crisi della democrazia nell’era della democrazia come orizzonte?, p. 5 COMMENTO GIUSEPPE CANTARANO, Una politica “liquida”, p. 11

OSSERVATORIO ANTONIO PATUELLI, I mercati e la crisi, p. 14 GIOVANNI JANNUZZI, La Jihad islamica non è guerra di religione, p. 21 MARGINALIA ANTONIO CASU, I volti del Gattopardo. Il trasformismo, p. 26

FRAMMENTI ANGELO G. SABATINI, Andare nel profondo del corpo, ma solo per la salute, p. 27 UOMINI E IDEE ANTONIO CASU, Thomas More: Il potere e l’utopia, p. 28 ROSARIA CATANOSO, Ágnes Heller per una vita buona, p. 32 VIVIANA MESCHESI, Etica dei limiti, p. 37 LE MASCHERE DELL’ARTE GORDIANO LUPI, La morte del cinema di genere, p. 44 L’OCCHIO DELLA STORIA CARLO VALLAURI, La tragedia delle foibe nella rievocazione di Paolo Mieli, p. 47

LETTURE CARLO VALLAURI - Emanuele Severino, La potenza dell’errore. Sulla storia dell’Occidente, p. 48



PRIMA PAGINA

Segni e significati di una crisi (5) Roberto Speranza - Alessandro Ferrara

Roberto Speranza Post-democrazia

“Post-democrazia”: così Jürgen Habermas chiama la realtà che a suo avviso si è venuta a creare in Europa in questi ultimi tempi. È un’espressione forte, che il grande filosofo e politologo tedesco usa per descrivere in che modo l’essenza stessa della democrazia sia andata evolvendosi sotto la pressione della crisi che da qualche anno colpisce duramente le nostre economie e le nostre società. Per Habermas il problema è semplice e complesso al tempo stesso: il potere è scivolato dalle mani dei popoli ed è andato a finire in quelle di istituzioni di dubbia legittimità democratica e comunque percepite dai cittadini come distanti, poco o per nulla attente ai loro bisogni e alle loro aspettative. Si può essere liberi di credere che sia esattamente così o ritenere che questa sia una provocazione intellettuale o poco più. Sta di fatto che appare difficile, a guardare le istituzioni europee e lo stato di salute di tanti Paesi del “vecchio Continente”, pensare di potere andare avanti così. Pare invece obbligatorio cambiare rotta, pena il naufragio del progetto europeo e la crisi irreversibile delle nostre democrazie. “A un certo punto, dopo il 2008”, ha detto lo stesso Habermas, “ho capito che il processo di espansione, integrazione e democratizzazione non avanza automaticamente, ma è reversibile, e che per la prima volta nella storia dell’Ue stiamo assistendo allo smantellamento della democrazia. Non credevo che una cosa del genere fosse possibile. Siamo arrivati a un bivio”. Non credo, purtroppo, che ci sia esagerazione ed eccessivo pessimismo, in queste parole. È questa la posta in gioco.

Quella che stiamo vivendo si può davvero considerare un’epoca in cui torna di straordinaria attualità una vera e propria “questione democratica”. Non può che essere così, se si pone attenzione al progressivo svuotamento dei poteri delle nazioni in tanti e diversi ambiti, al sentimento di crescente insicurezza che attraversa le nostre società, a come i cittadini sentono più incerti i loro diritti, alle terribili difficoltà che i giovani incontrano nella ricerca di un lavoro che consenta loro di mettere a frutto il proprio talento o anche solo di realizzare i propri piani di vita in modo soddisfacente e dignitoso, a quanto la politica e le istituzioni appaiono deboli e inadeguate di fronte a tutto questo. E poi sì, c’è il nodo delicatissimo dello spostamento di troppi poteri, decisioni e risorse da istituzioni legittimate dai cittadini – “democratiche”, appunto – a luoghi e sedi extraistituzionali, e c’è l’avanzare preoccupante di concezioni populistiche e plebiscitarie della politica e del ruolo della leadership. Di quest’ultimo aspetto, in particolare, molti osservatori hanno cominciato ad interessarsi all’indomani delle recenti elezioni europee, anche se in realtà il fenomeno del “populismo”, o se si preferisce del “nazional-populismo”, ha origini molto meno recenti. A contraddistinguerlo, oggi, sono elementi che contrastano apertamente con il regolare funzionamento di una moderna democrazia: c’è la sfiducia nei confronti dei governi eletti e la valorizzazione del popolo come unico depositario della responsabilità delle decisioni pubbliche, c’è la difesa – quasi sempre demagogica – degli interessi della massa dei “piccoli” contro i “grandi”, c’è la chiusura delle comunità nazionali o locali contro “altri”

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Roberto Speranza

– immigrati, stranieri, minoranze etniche, fedeli di altre religioni – verso i quali l’unico atteggiamento possibile è quello della diffidenza o meglio ancora del rifiuto; e c’è, a tenere insieme tutto, il principio del rapporto diretto, emotivo piuttosto che razionale, tra popolo e leadership carismatica. Alberto Martinelli ha scritto recentemente un bel saggio su questi temi. I “nazional-populisti”, che fanno dell’antieuropeismo la loro bandiera più visibile, sbagliano secondo lui diagnosi, perché non si può sostenere che recessione e disoccupazione siano causate dall’euro, anzi: la moneta comune ha evitato che la crisi globale avesse conseguenze peggiori. In più è sbagliata la terapia, perché non è ritirandosi all’interno dei propri confini che si possono affrontare le sfide mondiali, regolare la finanza e competere con le grandi potenze. Nonostante sbaglino così tanto, i “nazional-populisti” hanno però un indubbio successo, scrive Martinelli, perché sfruttano la paura, il disagio sociale, la sfiducia verso la politica tradizionale e perché offrono risposte semplici a problemi complessi: basta uscire dall’euro e i problemi economici spariranno, basta contrastare l’immigrazione, eliminare la moneta comune e abbattere le élites tecnocratiche e tutto andrà per il meglio. Un messaggio solo negativo, risposte che sono solo “contro”, rifiutando la complessità delle situazioni e criticando la democrazia rappresentativa, spesso insistendo su non ben definite forme di democrazia diretta. Unendo alle tendenze populiste l’altro fenomeno, quello delle derive oligarchiche di cui in qualche modo Habermas sottolinea la pericolosità, ecco che la “questione democratica” precisa i suoi contorni e si delinea come un grande ed attuale problema. Ad affacciarsi nel dibattito pubblico è addirittura un allarmante quesito: se la democrazia non rischi di essere o di apparire un regime politico non adatto a governare processi complessi come quelli di una economia globale in crisi. I nodi da sciogliere sono molti e sono

complicati, questo è certo. Basti pensare, per tornare alle parole di Habermas, ai gravi difetti che ha avuto ed ha il processo di costruzione dell’Europa unita, alla necessità di sostituire la politica dell’austerità con una politica più flessibile sui vincoli e sui tempi del risanamento, per far imboccare alla politica economica europea la strada della crescita e del lavoro e per avvicinare le istituzioni comuni ai cittadini dei Paesi dell’Unione. Oppure basti pensare, per restare a casa nostra, al delicato e decisivo tema dell’equilibrio tra rappresentanza e governabilità, su cui si regge ogni democrazia sana e funzionante. Una democrazia si indebolisce e può morire per l’eccesso di mediazioni e l’incapacità di decidere. Ma anche le democrazie che decidono si reggono sul rispetto degli avversari e delle regole del gioco, sul bilanciamento dei poteri, sull’indipendenza dell’informazione e in ultima analisi sulla capacità di correggersi profondamente senza scardinare i pilastri su cui poggiano le istituzioni e la stessa convivenza civile. La sfida da affrontare e da vincere è dunque quella di un rafforzamento contestuale degli istituti della democrazia della rappresentanza, a cominciare ovviamente dal Parlamento, e di quelli di una democrazia che sia efficiente e “governante”. È per questo che quella attuale deve diventare una legislatura in cui finalmente si portano a termine le riforme che il nostro Paese aspetta da anni. Alternativa temo non ci sia: o la politica dimostra che sa fare questo, che sa rinnovare se stessa e le istituzioni per corrispondere meglio alle domande e alle esigenze dei cittadini, o si finirà per dare un vantaggio troppo sostanzioso alle forze che pensano che le istituzioni democratiche debbano essere abbattute o almeno lasciate morire per consunzione. La riforma del Senato e una nuova legge elettorale sono due pilastri portanti di questo disegno di rinnovamento. Si tratta di dare al Paese istituzioni più efficienti e meno costose, con il superamento dell’attuale bicameralismo, la revisione del Titolo V della

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Crisi della democrazia nell’era della democrazia come orizzonte?

Costituzione, l’attuazione di un federalismo funzionale e solidale. Per quanto riguarda il cosiddetto “Italicum” approvato alla Camera, c’è la possibilità di migliorarlo a Palazzo Madama, dopo di che spazio per i bluff non ce n’è più: è tempo di giocare, tutti, a carte scoperte, perché la posta in gioco non riguarda il destino dei singoli ma la tenuta delle istituzioni, perché l’obiettivo è fondamentale ed imprescindibile, ed è quello di affrontare l’attuale “questione democratica” e rendere più forte la nostra democrazia. Alessandro Ferrara Crisi della democrazia nell’era della democrazia come orizzonte?

E’ dai tempi in cui ero studente che sento parlare di “crisi della democrazia”, un’espressione che mi ha sempre insospettito. Infatti la democrazia a quel tempo non c’era neanche in tutta l’Europa, ad esempio non c’era in Grecia, in Spagna e in Portogallo. Non c’era in tutta l’Europa ad Est di Berlino. Non c’era in America Latina, e quando si affacciava pacificamente, nel Cile di Allende, veniva affogata nel sangue. Non parliamo poi dei regimi che predominavano in Medio Oriente e nel Nord Africa. Adesso in tutti questi paesi la democrazia è diventata un orizzonte indiscusso, dove “orizzonte indiscusso” significa che la democrazia non è più, come è stata per 24 secoli, una fra le varie forme di governo possibili, ma la forma di governo legittima per eccellenza, rispetto alla quale le altre rappresentano gradi diversi per gravità dell’arbitrio istituzionalizzato. Nessuno pensa che la Norvegia, la Svezia, la Danimarca, l’Olanda, la Spagna o il Regno Unito non siano democrazie solo perchè il capo dello Stato è un re o una regina. Questa ovvietà non è solo un’ovvietà: è la prova di come la democrazia sia passata dall’essere un regime alternativo ad altri all’essere un orizzonte imprescindibile, la forma di governo legittima per

antonomasia. E tutto questo mentre sempre si continua a parlare di crisi della democrazia sui giornali, nei convegni, e in televisione. Quindi inizierò con un’affermazione forte: la tesi della “crisi della democrazia” è fuorviante. Non solo sbatte di peso contro l’evidenza di milioni e milioni di persone che in tutto il mondo hanno rischiato e rischiano la vita per averla, la democrazia, ma soprattutto dirige la nostra attenzione nel punto sbagliato. Machiavelli e Montesquieu hanno entrambi insistito sul fatto che una repubblica o una democrazia non può fiorire né durare nel tempo se impiantata in contesti dove non si è usi al “vivere civile” ovvero dove i cittadini non tengano in considerazione e non posseggano la “virtù” ovvero, tradotto, non posseggano una cultura civica dell'anteporre il bene comune a quello particolare. Una pianta ha bisogno, per attecchire, di suolo e condizioni accoglienti. La stessa pianta, a parità di dotazione genetica, crescerà rigogliosa in un terreno fertile e appassirà se trapiantata in un terreno arido e inospitale. La tesi della “crisi della democrazia” contiene un elemento potenzialmente fuorviante se ci induce a cercare qualcosa di storto nella pianta democratica e non nel terreno sociale, storico, culturale, economico, in cui è chiamata a crescere o nei modi in cui questo terreno è andato cambiando negli ultimi decenni. Per questo motivo preferisco parlare di “condizioni inospitali” in cui oggi, nelle società del XXI secolo, la democrazia come regime politico è chiamata ad operare – condizioni che già erano inospitali nella seconda metà del XX secolo e lo sono divenute ancora di più oggi. E più che di crisi preferisco parlare di trasformazioni che la democrazia subisce, ad opera del divenire sempre più inospitale del terreno socio-economico e culturale che la ospita, e di autotrasformazioni che la democrazia può porre in essere per rispondere a queste nuove sollecitazioni.

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Alessandro Ferrara

1. Condizioni inospitali, vecchie e nuove, per la democrazia Cominciamo con le prime, le trasformazioni del terreno in cui la pianta democratica si trova a vivere. Una delle più sintetiche ma accurate ricostruzioni delle “condizioni inospitali” in cui si trova ad operare un regime democratico inserito in società complesse come le nostre è stata fornita dal costituzionalista americano Frank Michelman, il quale in un suo saggio del 1997 dal titolo How Can the People Ever Make the Laws? A Critique of Deliberative Democracy, le ha così riassunte: 1) la immensa estensione del corpo politico nelle società moderne, con elettorati di decine e talvolta centinaia di milioni di votanti -- una massa che per la sua imponenza nullifica l’ “importanza percepita” della propria partecipazione e incoraggia quella che è stata chiamata da James Fishkin “ignoranza razionale”; 2) la complessità dell'articolazione istituzionale, che rende difficile cogliere tutte le connessioni fra agire politico, conseguenze del proprio voto ed effetti reali; 3) la anonimità dei processi di forazione della volontà politica, sempre meno mediati da interazione “in presenza” e sempre più catalizzati dai media generalisti prima e ora dalle nuove possibilità del web 2.0; 4) l'irriducibilità del pluralismo culturale, che fenomeni di migrazione di massa e di radicalizzazione religiosa portano ad accentuare, facendo sì che una “politica dell’identità” spesso conflittuale soppianti la relativamente maggiore omogeneità culturale che stava sullo sfondo dei “conflitti distributivi” di gran parte del secolo passato; 5) completerei il quadro di queste condizioni inospitali "storiche" con una quinta, la quale concettualmente appar-tiene al quadro teorico che aveva in mente Michelman, ovvero la crescente selettività e differenziazione della cittadinanza su scala domestica: gli stessi processi migratori che radicalizzano il pluralismo portano le nostre democrazie ad allontanarsi sempre più dalla fictio di un coestensività del corpo politico con la

totalità dei cittadini “liberi ed eguali” che vivono stabilmente entro un certo territorio e le rendono sempre più simili a quelle antiche, in cui i cittadini optimo jure decidevano democraticamente del destino dei tanti non cittadini. A queste condizioni avverse che la democrazia si trova da decenni ad affrontare sul terreno delle società stesse in cui è nata, se ne possono aggiungere altre, non così evidenti negli anni ‘80 e ‘90. Ne nomino alcune, per poi soffermarmici brevemente: 6) la finanziarizzazione dell'economia capitalista; 7) l'accelerazione del tempo su scala societaria e globale; 8) la spinta alla aggregazione sovranazionale che viene dalla globalizzazione; 9) la trasformazione della sfera pubblica per indebolimento dei media tradizionali; 10) l'utilizzo su ampia scala dei sondaggi e il loro riflesso sulla legittimità degli esecutivi. Sulla finanziarizzazione: la democrazia ha sempre avuto un rapporto ambivalente e intriso di tensioni con l'organizzazione capitalistica dell'economia, ma è un fatto innegabile che la moderna democrazia rappresentativa non si sia potuta stabilizzare se non in combinazione con un'economia capitalista. Il capitalismo degli ultimi tre decenni, però, ha dei tratti profondamente diversi anche da quello postfordista. Il valore del lavoro diminuisce costantemente da mezzo secolo a questa parte in Occidente e questa trasformazione, dovuta a fattori per un verso di razionalizzazione tecnica e per l'altro geopolitici (il mercato globale del lavoro), ha un impatto che va ben al di là delle relazioni capitale-lavoro e della stessa sfera economica. Assistiamo al tramonto del lavoro dipendente come generatore di ricchezza e di prestigio sociale, anche nel terziario, e al tramonto della grande industria fordista: per Detroit il nemico più insidioso non è stato il sindacato, ma Wall Street. Inoltre, la finanziarizzazione dell'economia squilibra ogni rapporto di forza a favore

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Crisi della democrazia nell’era della democrazia come orizzonte?

del capitale e della rendita e ridimensiona implacabilmente i redditi, la ricchezza relativa, il potere di acquisto e conseguentemente anche l'influenza politica dei ceti medi che ruotano attorno al lavoro dipendente. Il lavoro dipendente si fa precario, flessibile, sempre meno retribuito, viene appaltato all'esterno, si desindacalizza, perde capacità di coagulare consenso attorno a sé. Inoltre la finanza appare più in grado di generare ricchezza che non la produzione e i suoi strumenti si fanno sempre più "virtuali" e sganciati da ogni riferimento reale. Un'azienda vale quanto valgono le sue quotazioni in borsa, e le sue quotazioni in borsa sono funzione delle attese di guadagno "a breve", non più tanto dei cosiddetti “fondamentali”: (le azioni Fiat hanno oscillato fra 14 e 5 e di nuovo 14 euro nell’epoca pre-Marchionne, e oggi sono di nuovo ai minimi, in funzione dell'ipotesi di fusione con Chrysler). Wall Street detta legge alla economia "reale": sua creazione sono le bolle e i loro scoppi, prima quella delle dot.com, poi quella immobiliare, poi quella dei mutui subprime. Non è difficile scorgere qui una condizione quanto mai inospitale per la democrazia, che già aveva difficoltà ad arginare le dinamiche capitalistiche classiche e soltanto con il New Deal aveva iniziato a farlo. Inoltre, l'accelerazione del tempo societario preme nella direzione di una verticalizzazione dei rapporti sociali e politici. C'è sempre meno tempo, in tutti gli ambiti, per la collegialità, la deliberazione, la consultazione. Un partito contemporaneo, un'azienda del XXI secolo, ma anche una ONG che voglia stare al passo ed essere riconoscibile nella sfera pubblica, una redazione di giornale che voglia non restare indietro, deve prendere posizione, pronunciarsi, vendere e investire, cogliere un'occasione di visibilità, uscire con una notizia prima dei concorrenti e in un mondo in cui il tempo è il "tempo reale" di Internet. Questa necessità profila in modo più pronunciato la riconoscibilità, la discrezionalità e in ultima analisi il

potere del leader politico, del CEO, del responsabile, del direttore di testata - al di là degli sforzi organizzativi e delle culture politiche, aziendali, deliberative che li esprimono. La democrazia non potrà rallentare il tempo della vita sociale nell'epoca di Internet e della connettività globale in tempo reale, però dovrà misurarsi con la sfida di neutralizzarne l'impatto verticalizzante. Un'ottava condizione inospitale è data dal fatto che la crescente incapacità dello Stato nazione "medio" di misurarsi con le sfide globali - i flussi migratori, la criminalità organizzata, il terrorismo, il mutamento climatico, la sicurezza internazionale - costituiscono una spinta potente all'aggregazione sovranazionale. L'Unione Europea è spesso citata come il battistrada di questo processo, che trova repliche sotto i nomi di ASEAN, Mercosur, Ecowas, ecc. Questo processo in realtà pone la democrazia di fronte alla necessità di sopravvivere, in forme che rimangono da indagare, alla dissoluzione di quel nesso di nazione, apparato statale, mercato nazionale, cultura, lingua e memorie comuni a cui era collegato il suo fiorire nel moderno sistema degli Statinazione. Governance, in contrapposizione a “governo”, soft-law e best practices e benchmarking e moral suasion sono le parole chiave che acquistano centralità rispetto al classico binomio normazione-sanzione, ma è tutt’altro che chiaro quali nuove forme assumerà l’autorialità legislativa dei cittadini (l’obbedire a leggi che si è contribuito a fare), e come si possa distinguere fra governance democratica e governance tecnocratica. Ancora, la sfera pubblica delle società democratiche sta subendo una nuova trasformazione a pochi decenni di distanza da quel "mutamento strutturale" descritto da Habermas in Storia e critica dell'opinione pubblica. Da un lato l'audience atomizzata dei grandi media generalisti conosce inizi di riaggregazione sotto l'effetto dei social media - Facebook, Twitter, i blog, etc. - e la comunicazione si indirizza ora alle decine, al massimo centinaia di persone messe in rete dai social media.

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Alessandro Ferrara

Queste reti non sono composte da atomi, ma da molecole sociali costituite da individui che si conoscono. Ritornano gli opinion leader che filtrano la comunicazione e ne orientano la decodifica. Il grande squilibrio fra emittenti concentrate, ad alta intensità di capitale, e riceventi dispersi e passivi, comincia ad appianarsi. Dall'altro lato, però, la disponibilità di notizie e informazioni nella rete sta generando una crisi strutturale del giornalismo di qualità affidato alla carta stampata. Il giornale vende notizie già note che si possono ottenere prima e gratuitamente sulla rete. In risposta a questa difficoltà i giornali si settimanalizzano e offrono commenti qualificati a notizie già diffuse nella rete. Tuttavia la domanda rivolta a "commenti autorevoli" è molto più ridotta rispetto alla domanda di notizie fresche, e da qui il declino delle vendite dei quotidiani e la loro minore appetibilità per il mercato pubblicitario. Quindi la democrazia del futuro dovrà fare i conti con una sfera pubblica influenzata da queste trasformazioni. Infine, un capitolo a parte è rappresentato dall'utilizzo sempre più esteso dei sondaggi a campione per misurare il consenso rispetto agli indirizzi politici adottati dal governo. Perchè questo sarebbe un fattore di potenziale alterazione degli equilibri democratici? Si consideri la percezione della legittimità di un capo di governo, presidente o primo ministro che sia, prima dell'uso massiccio dei sondaggi. La legittimità "percepita" era collegata fondamentalmente all'ultimo risultato elettorale. Le sue variazioni nell'intervallo fra due elezioni erano oggetto di mera supposizione e di polemica fra opposti campi politici. Con l'utilizzo regolare dei sondaggi, invece, la "legittimità percepita" assume l'andamento altalenante del mercato azionario: sale o scende in funzione di variabili diverse, esibisce trend ascendenti o discendenti, cadute e "rimbalzi". Queste oscillazioni "in tempo reale" conferiscono forza e credibilità diversa alle azioni dell'esecutivo e soprattutto, nel

quadro della divisione dei poteri, inducono gli altri poteri a reagire diversamente, e dunque a modificare i checks and balances, nei confronti di iniziative dell'esecutivo collocate ai margini della legalità e dei confini giurisdizionali. Una cosa è l'agire di un governo ai limiti della propria sfera giurisdizionale, e la risposta degli altri poteri a questa assertività quando l'esecutivo goda, per ipotesi, del 65% dei consensi, e tutt'altra la loro risposta quando i sondaggi mostrano un calo dei consensi sotto il 50%, il tutto sempre rimanendo per definizione immutato l'ultimo risultato elettorale. Soprattutto, questa nuova condizione assume una problematicità ancora più pronunciata se, considerata la accelerazione del tempo societario, pensiamo che gli esecutivi sono incentivati ad impegnarsi in indirizzi politici che diano risultati non nel lungo periodo, non entro le prossime elezioni, ma nei sondaggi della prossima settimana.

2. La trasformazione del liberalismo e la sopravvivenza della democrazia Se questo è il quadro delle condizioni sociali e storiche con cui la democrazia deve misurarsi, quali mosse adattive può essa mettere in campo? La democrazia non ha solo "subìto" trasformazioni ma da 30 anni a questa parte si è anche autoriformata, nella visione che il cosiddetto liberalismo politico, a partire dall’opera di John Rawls e Bruce Ackerman fra altri, è venuto elaborando. Non posso entrare qui nei dettagli, ma scelgo di concentrarmi su una sola operazione di autotrasformazione che il pensiero liberal-democratico ha compiuto dagli anni ‘90 in poi e che a mio avviso rappresenta la chiave di volta per capire come la democrazia può sopravvivere a condizioni divenute tanto inospitali. Questa chiave di volta ha a che fare con il problema di ripensare la legittimità democratica nel nuovo contesto. Per legittimità democratica intendo un sinonimo di “giustificazione politica”, ovvero la risposta che possiamo dare oggi

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Crisi della democrazia nell’era della democrazia come orizzonte?

alla domanda con cui è iniziata 24 secoli fa in Occidente la conversazione intorno al governo legittimo, con la sfida di Trasimaco a Socrate, "non vedi tu che la giustizia è l'utile del più forte?". Riformulata, la domanda che da sempre è oggetto di attenzione da parte di chi si occupa di filosofia politica da un punto di vista normativo suona così: Che cosa distingue l'uso legittimo del potere dall'uso arbitrario della forza? Ascoltiamo la risposta che John Rawls offre a questa domanda nel 1993. Afferma Rawls: “Noi esercitiamo il potere politico in modo pienamente corretto solo quando lo esercitiamo in armonia con una costituzione tale che ci si possa ragionevolmente aspettare che tutti i cittadini, in quanto liberi ed eguali, ne accolgano, alla luce di principi e ideali accettabili per la loro comune ragione umana, gli elementi essenziali” (J. Rawls, Liberalismo politico, nuova edizione ampliata, Einaudi, Torino 2012, p. 126). Come tutte le definizioni, questa formulazione così complessa ci parla attraverso il non-detto. L'apparentemente innocua frase "in armonia con una costituzione" contrasta con "in armonia con il volere dell'ultima maggioranza espressa da regolari elezioni", con "in armonia con ciò che il Paese desidera, così come attestato da sondaggi attendibili", con "in armonia con le nostre tradizioni politiche", con "in armonia con la Bibbia, il Corano o un altro testo sacro", con "in armonia con il nostro destino storico", con "in armonia con la nostra idea di moralità", "in armonia con le nostre possibilità di affermazione vitale", non dice nulla di tutto questo che è stato pur detto. Dice "in armonia con una costituzione", che dunque - scritta o non scritta nella forma canonica, come è il caso del Regno Unito - deve esistere. E in armonia con una costituzione tale che ci si possa ragionevolmente aspettare che riceva il consenso di tutti i cittadini - non solo di quelli credenti, di quelli abbienti, di quelli di una certa etnia, di un certo genere, o di un certo orientamento politico - ma di

tutti i cittadini, e non de facto, in stile plebiscitario da adunata in piazza Venezia, ma di tutti i cittadini in quanto liberi ed eguali. Ovvero, la costituzione, nei suoi elementi essenziali, e non in tutti i suoi dettagli, deve ricevere - per fungere da parametro della legittimità dell'azione di governo - il consenso di tutti i cittadini in una situazione in cui nessuno è più libero o eguale di altri, e nessuno può premere sui recalcitranti, incentivarli, dissuaderli dal dissentire, ecc. Infine, questo consenso nei confronti degli elementi essenziali della costituzione deve essere dato da tutti i cittadini alla luce di principi ed ideali accettabili alla loro comune ragione umana. Anche qui la definizione parla attraverso il non-detto. Il consenso deve essere dato per ragioni di principio, etiche, non per ragioni prudenziali, ovvero alla luce del timore delle conseguenze politiche di un mancato accordo o di un consenso negato. Una costituzione accettata per timore della guerra civile che potrebbe seguire dalla sua mancata promulgazione può legittimare un modus vivendi, una tregua, un cessate il fuoco, un armistizio con le armi sotterrate in attesa della venuta di qualcuno, ma non l'esercizio stabile e duraturo del potere in un quadro temporalmente esteso. Questo è il nucleo normativo essenziale del liberalismo politico, oltre al richiamo a concetti come la ragione pubblica, il ragionevole, gli oneri del giudizio e molti altri, su cui non posso qui soffermarmi. Il punto interessante è che questa definizione del potere legittimo, formulata nel 1993, può essere intesa come una risposta auto-trasformativa, da parte della democrazia, alle condizioni inospitali di cui abbiamo parlato. Due implicazioni sono a mio avviso essenziali. Primo, Rawls accoglie la proposta ackermaniana di una concezione dualistica della democrazia. L'insieme di condizioni sociali, economiche e storiche sopra elencate fanno sì che sia pressoché impensabile valutare la “rispondenza a giustizia” o legittimità di un ordinamento

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Alessandro Ferrara

politico prendendo come metro la possibilità che ogni sua istanza, ogni suo segmento possa godere di una giustificazione esauriente che incontri il consenso di tutti i cittadini. La definizione di Rawls contiene l'implicazione che nelle condizioni della società contemporanea sopra descritte dobbiamo accontentarci di molto meno: non possiamo pensare che ogni delibera di un qualsiasi consiglio comunale debba rispondere alla nostra idea complessa di una società giusta. Ci saranno sempre, in altri termini, aspetti dell'azione di governo, dell'operato dei magistrati o dell'attività legislativa del parlamento che un singolo cittadino esperirà come coercitivi e ingiusti nei confronti della sua persona, della sua parte politica o della sua categoria sociale. Al posto di una illusoria versione del lockeano "consenso dei governati" ne subentra una più sobria che prospetta il costituzionalismo democratico come un doppio livello di giustificazione. Subentra cioè l'idea, tipica della riflessione liberale proposta in We the People da Bruce Ackerman, pienamente accolta da Rawls in Liberalismo politico, che il misurare la rispondenza a giustizia di un ordinamento politico sulla base del suo essere giustificabile di fronte a ogni cittadino ha senso, nel contesto divenuto sempre più "inospitale" delle società complesse, solo per un livello "alto" del diritto e del sistema politico - il livello che coincide con la costituzione, neanche presa nella sua interezza, ma solo nei suoi aspetti principali - mentre per tutti gli atti legislativi, amministrativi e giudiziari di livello "ordinario" la giustificazione consiste nella mera conformità al quadro costituzionale (in un quadro, ovviamente, in cui sono all’opera meccanismi di judicial review o controllo costituzionale). Il che ci conduce all'altra implicazione di questo modello liberale. Non esiste più la centralità del parlamento come luogo

privilegiato in quanto presuntamente più prossimo al popolo-sovrano. La branca legislativa, nel suo operare ordinario, è solo una fra tre e non dotata di un particolare valore: la sovranità popolare si esprime in egual misura anche nelle altre. O meglio, la politica “normale” come puzzle-solving dell’intreccio degli interessi, come crocevia di lobby particolariste, può non essere demonizzata perché in essa il “popolo”, inteso tecnicamente come "il titolare della sovranità", è silente, non già attivo come nell’immaginario giacobino. Il titolare della sovranità non si cura di emendamenti alla legge di stabilità o di leggine ad hoc. Si pronuncia solo sulle revisioni o gli emendamenti alla Costituzione, in sistemi come quello statunitense in cui la ratifica è prevista sempre e il Congresso soltanto propone un emendamento alla Costituzione. Riassumendo: alle condizioni sempre più inospitali a cui è chiamata ad operare, la democrazia può rispondere rivedendo in direzione dualistico-costituzionalista la sua nozione di legittimità democratica ed aprendo quindi la strada ad una tutela anche giuridica dei suoi cardini fondamentali, i diritti, rispetto allo strapotere di maggioranze elettorali divenute più permeabili alla influenza del denaro e dei media e può rispondere rendendosi capace di funzionare meglio anche su quella scala sovranazionale ove più si esercita la pressione delle nuove condizioni inospitali. Chiudo quindi con una nota di fiducia. Non si sono mai viste condizioni tanto inospitali per la democrazia come oggi, nelle società complesse, ma la capacità autoriformatrice della democrazia - che è sopravvissuta al passaggio dall’essere tipica delle piccole città-Stato ai grandi stati-nazione della modernità - è più versatile di quella di qualunque altro regime politico.

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COMMENTO

Giuseppe Cantarano

Una politica “liquida”

Ha perfettamente ragione Angelo Panebianco (Corriere della sera del 26 febbraio) quando scrive che il caso del senatore Di Girolamo e quanto, man mano, emerge dalle numerose inchieste giudiziarie sulla politica locale «chiamano direttamente in causa le modalità di reclutamento della classe politica». Non solo periferica, evidentemente. Ma anche centrale. Mentre le altre vicende giudiziarie che hanno travolto la Protezione civile, Telecom e Fastweb, sono riconducili ad altri aspetti. Concernenti la presunta virtuosità della cosiddetta società civile. Che spesso si tende a contrapporre – un po’ troppo sbrigativamente e sommariamente – al ceto politico. Irrimediabilmente corrotto. E ormai quasi del tutto assorbito nelle sue melmose pratiche consociative. No, la società civile non è migliore della società politica. Diciamo pure che la società politica – forse sarà superfluo ribadirlo – è lo specchio nel quale la società civile si riflette. Più o meno fedelmente. E non c’è bisogno dell’ inchiesta sui due miliardi di euro riciclati da manager e ‘ndrangheta, per confermarlo. Una delle «più colossali frodi poste in essere nella storia nazionale», come i pubblici ministeri di Roma definiscono l’affaire nel quale sono coinvolti Fastweb e Telecom. Né c’è bisogno dell’altra inchiesta sulla Protezione civile. Non ci sono da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. Come ci eravamo illusi all’epoca di

Tangentopoli. Da una parte gli angeli e dall’altra i demoni. No, la società civile non può ergersi a modello nei confronti della Casta. Piuttosto che ignare vittime delle oligarchie del Palazzo – come lo chiamava Pasolini – gli imprenditori coinvolti nelle inchieste ne sono lucidi, consapevoli complici. E’ ancora prematuro, forse, per dire se si tratta di una nuova Tangentopoli. Ma non si può neanche sottovalutare la portata della corruzione – come ha fatto Berlusconi – dichiarando che, a differenza di Tangentopoli, ci troviamo di fronte a “birbantelli”. Che agiscono isolatamente. No, l’odierna ondata di scandali giudiziari – osservata perlomeno da una certa prospettiva - non può essere assimilabile a Tangentopoli. Anche perché l’inchiesta di Mani pulite rappresentò l’occasione per ridurre il peso della politica nella società. E nell’economia, naturalmente. Da vasti settori dell’opinione pubblica, quell’ inchiesta venne percepita come l’occasione per liberarsi dalla pervasività arrogante della politica. Efficacemente simboleggiata dalla pratica delle “mazzette”. Insomma, da una parte c’erano i concussi, dall’altra i corrotti. Così, perlomeno, quella imbarazzante e vergognosa pagina della recente storia italiana ci è stata raccontata. Oggi, a differenza di venti anni fa, la pratica diffusa della corruzione dilaga nel contesto di un sistema politico piuttosto debole, diciamo così. Nel quale i partiti –

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Giuseppe Cantarano

meglio, quel che di essi è fortunosamente rimasto – sono diventati semplici contenitori. Una specie di scatole vuote. Dentro le quali il personale politico è pressoché deresponsabilizzato. Nel senso che, una volta allentatosi o addirittura dissoltosi il vincolo - ideale, culturale, ideologico - dell’appartenenza ad una comunità politica, ognuno pensa individualisticamente a se stesso. Se vent’anni fa il politico pretendeva la “mazzetta” per il partito, oggi cerca di utilizzare il suo potere per esclusivi interessi personali. Se vent’anni fa la politica si sforzava ancora di trovare e mantenere, in qualche modo, un difficile equilibrio tra vocazione e professione – come diceva Max Weber -, oggi sembra che del primo requisito non sappia che farsene. La politica è ormai diventata soltanto una privilegiata professione. Che, a differenza delle altre, viene svolta da un personale – ce ne parlava già Platone nell’Apologia di Socrate - privo di competenze. Per averne una controprova sarebbe sufficiente prendere in considerazione l’abnorme inflazione legislativa. Che contribuisce a rendere ineffettuale la decisione politica. O più semplicemente, gettare uno sguardo sul governo delle nostre città, del nostro territorio, della sanità, della scuola, della giustizia. Una volta la selezione del ceto politico, oltre che alle immancabili cooptazioni, veniva affidata alla mediazione dei partiti. Alle loro articolazioni democratiche diffuse in tutto il paese. Oggi il personale politico viene reclutato o per investitura personale del “principe”. Oppure mediante la rituale celebrazione delle finte “primarie”. Cesarismo da un lato, populismo dall’altro. Invocare l’autoriforma dei partiti, francamente, non serve a nulla. Se non a blandire i cittadini. A tranquillizzarli. A rassicurarli. Quei cittadini che sempre di più appaiono disincantati. E che credono sempre meno alla funzione pubblica della politica. Testimoniandolo non solo con il crescente astensionismo che si registra nelle varie elezioni. Ma con il distacco, il disinteresse verso la politica in quanto ta-

le. Quella che ha per soggetti i partiti, insomma. Certo, qualcosa di concreto si potrebbe subito fare. Lasciando stare l’ inutile e zuccherosa retorica moralizzatrice. Diventata ormai una noiosa litania. Si potrebbe metter mano, tanto per fare un esempio, al sistema del reclutamento del ceto politico. Ma a farlo dovrebbero essere i partiti. Che si limitano, però, soltanto ad invocare nuove regole. Nell’incapacità più totale di realizzarle. Anche perché, il vuoto lasciato dalla liquefazione dei partiti di massa è stato riempito dai partiti personali. I cui militanti sono per lo più costituiti dal personale politico eletto. O autonominatosi. Dentro quel circolo vizioso dell’ autoreferenzialità. Dal parlamento alle regioni, dalle province ai comuni, comunità montane, circoscrizioni, consorzi, aziende municipalizzate, asl e tanti altri enti del tutto inutili e costosissimi per le tasche del contribuente. Che servono soltanto per risarcire profumatamente quei luogotenenti periferici che hanno organizzato la macchina per dare la caccia ai voti. Insomma, gli odierni partiti personali sono diventati dei veri e propri comitati elettorali. Che si mobilitano esclusivamente in vista delle elezioni. Per poi sparire. Ve l’immaginate questi comitati elettorali impegnati a scrivere nuove regole per favorire un reclutamento più trasparente del personale politico? E per garantirne una migliore qualità? E poi, diciamo la verità: perché mai questi comitati elettorali dovrebbero adottare decisioni che andrebbero contro i piccoli e grandi “principi”, alla cui corte sono stati mobilitati? Ma ammettiamo pure che si decidano finalmente a farlo. Cambierebbe poco o niente, in realtà. In quanto resterebbe comunque immutato quell’intreccio perverso tra economia e criminalità organizzata che, per tessersi ed estendersi, ha necessariamente bisogno della politica. E questo è vero non solo per quelle regioni meridionali in cui il rapporto tra politica, criminalità ed economia è ormai più che consolidato. Non basta riformare l’odierna legge

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Una politica “liquida”

elettorale – che ha consentito alle oligarchie dei partiti di nominare direttamente il personale politico – e reintrodurre il sistema delle preferenze. I comitati d’affari locali non aspettano altro. Sia chiaro. Di riforme c’è assolutamente bisogno. Anzi – come ha anche ricordato Montezemolo – la corruzione è la perfetta conseguenza delle mancate riforme. Oltreché, evidentemente, di chi corrompe e si lascia corrompere, avrebbe dovuto forse aggiungere. Certo, la corruzione è la perfetta conseguenza soprattutto delle mancate riforme istituzionali. Anch’esse sempre invocate invano, come uno stonato ritornello, sia a destra che a sinistra. Prendiamo l’inchiesta sulla Protezione civile. Nessuno più si stupisce, ormai, che anche per lavori di ordinaria amministrazione si faccia ricorso a procedure straordinarie. Soggette, evidentemente, a meno controlli. Ma è giusto o no chiedersi come mai, in una democrazia matura come la nostra, per governare l’ordinaria amministrazione, si faccia sempre più spesso ricorso a procedure straordinarie? Ed è lecito oppure no chiedersi come mai il ricorso straordinario ai decreti legge non solo è sempre più frequente, ma tende ad assorbire l’intero processo legislativo? E lo sappiamo o facciamo finta di ignorarlo che i maxi emendamenti, blindati dal voto di fiducia, servono spesso per soddisfare le richieste – non sempre legittime - delle clientele e consorterie locali? E’ evidente che abolendo il bicameralismo perfetto – il sistema più congeniale per far ricorso alla straordinarietà dei decreti legge – si darebbe finalmente corso all’ordinaria

legislazione. Tendenzialmente, meno opaca e più trasparante. Ma chi ci crede più alle promesse – di destra e di sinistra – delle riforme istituzionali? Chi ci crede più alle strombazzate Bicamerali? Chi davvero è così ingenuo da credere che i partiti – che questi comitati elettorali siano in grado di effettuare una autoamputazione parlamentare, rinunciando ad una consistente fetta del loro personale politico? Ribadiamolo. No, non c’è davvero bisogno di piagnucolose giaculatorie infarcite di retorica moralizzante alla Savonarola, per intenderci. Che sono inevitabilmente destinate a lasciare il tempo che trovano. Certo, c’è assolutamente bisogno dell’ intervento, del lavoro insostituibile e prezioso della magistratura. Che però, come sappiamo e com’è ovvio che sia, arriva sempre dopo. Post factum, come si dice. Se vogliamo scongiurare il rischio che anche questa seconda Repubblica – come la prima – venga travolta dalla delegittimazione, è necessario rimettere al centro della nostra convivenza civile e politica quella che Max Weber chiamava “etica della responsabilità”. Perché è vero che servono regole. E’ vero che servono controlli. E maggiore trasparenza nelle decisioni. Insomma, è vero che quelle tanto auspicate e attese riforme istituzionali sono indispensabili. Ma è altrettanto vero – ce lo ripeteva Norberto Bobbio - che la democrazia non può esaurirsi soltanto nel rispetto del suo formalismo procedurale. Anche se – diciamo la verità - vista l’aria che tira nel nostro paese, sarebbe di per sé già un miracolo che ciò finalmente avvenisse.

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OSSERVATORIO

Antonio Patuelli

I mercati e la crisi

Ampia sintesi della relazione del Presidente dell’Abi all’assemblea annuale dell’Associazione

Dopo sei anni di una crisi che ha prodotto una lunga recessione, non basta fare ogni sforzo per la ripresa, non basta approfondire le statistiche, non è sufficiente leggere flussi, previsioni e andamenti. Con sguardo severo e rigoroso occorre una riflessione intellettuale all’altezza di un passaggio storico tanto importante per analizzare le cause profonde della più lunga e grave crisi del dopoguerra, per comprenderle e contrastare la preconetta disillusione verso la cultura del mercato che è uno dei più pericolosi virus che la crisi ha portato e che rischia anche di minare le basi del funzionamento della Democrazia occidentale. La crisi, nata oltre Oceano e oltre Manica, è innanzitutto frutto di economie e di una finanza dagli sguardi miopi che hanno assecondato tendenze favorevoli all’eccesso del rischio, al guadagno troppo rapido, massimo e talvolta avido; hanno incoraggiato l’indebitamento eccessivo, disincentivando capitalizzazioni, rafforzamenti patrimoniali, inducendo propensioni a consui non proporzionali alle capacità reddituali. Una crisi derivata anche da tendenze di anarco-capitalismo che si sono sviluppate oltreoceano e oltremanica proprio nella fase storica nella quale “capitalismo” e “mercato” hanno trionfato dopo la caduta dei regimi novecenteschi dell’Est europeo e con la globalizzazione dei mercati e delle comunicazioni.

Il capitalismo senza più rivali, salvo il confronto tuttora sottovalutato con la finanza islamica, è, quindi, talvolta divenuto più egoista e più imprudente. Ma quando si è invertita la tendenza espansiva dell’economia, quando la crescita ha dovuto arrestare la sua corsa, sono esplose le contraddizioni di quel capitalismo con troppo poche regole e talvolta anche poca etica. E così sono emersi i più gravi scandali come le manipolazioni truf-faldine di cambi e di indici di mercato. Questi casi hanno fatto germogliare nuove tendenze anticapitaliste e antimercatiste, non più in nome del ritorno ai caduti miti del Novecento, ma assecondando frustrazioni, interpretando e cavalcando neo nazionalismi, con stati d’animo fortemente caratterizzati da populismi. Tutto ciò rischia di confondere una grave crisi “nel” capitalismo con la crisi “del” capitalismo. E questa è, davvero, la prima questione decisiva.

L’Italia e l’Europa Cause ed effetti, verità e luoghi comuni di questa crisi trovano in Italia una lettura talvolta paradossale. La crisi non è nata in Italia, dove gli eccessi sono stati molto più limitati che altrove, ma ha trovato l’Italia debole, con un enorme debito pubblico, condizionata da un circuito vizioso di alte tasse e forte evasione fiscale che appesantiscono i co-

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I mercati e la crisi

sti di produzione e deprimono i consumi. Gli scandali internazionali ed europei delle manomissioni degli indici di mercato non sono avvenuti in Italia, così come nessuna banca italiana è fallita o è stata nazionalizzata. In Italia non sono mancate le crisi bancarie, ma sono state sopportate dagli azionisti, tutti privati, e dal comparto bancario nel suo complesso, anche attraverso il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi che utilizza solo risorse private delle banche. Ma la crisi finanziaria venuta da lontano è divenuta in Italia anche una crisi produttiva e sociale e infine una crisi morale e di identità culturali. La diffusa ostilità all’Europa e alla sua più ambiziosa e ardita realizzazione, la moneta comune, sintetizza questi malesseri diffusi che rischiano di allontanare l’Italia dall’Occidente per farla scivolare inconsapevolmente verso peronismi sudamericani o nei gorghi di un Mediterraneo di nazionalismi antistorici e lontani dall’Europa e dall’Occidente. Per questo occorrono severe e rigorose analisi critiche della crisi “nel” capitalismo: per correggere distorsioni ed estremismi bisogna definire una nuova cultura delle regole di mercato, nel mercato, capaci al contempo di non soffocarlo e garantirne un più corretto ed equilibrato funzionamento. Occorre non subire l’Europa, ma esserne protagonisti costruttivi, correggendo innanzitutto le contraddizioni interne, le anomalie che penalizzano l’Italia, consapevoli che la crescita economica non possa essere perseguita per un tempo prolungato attraverso un sempre più enorme debito pubblico. In tale quadro occorre apprezzare il ruolo fondamentale e lungimirante della Banca d’Italia, riconosciuto anche internazionalmente, proprio nel culmine della crisi, innanzitutto dalla nomina di Mario Draghi alla guida della BCE. La BCE ha compiuto scelte decisive per il salvataggio della moneta, per il risanamento del sistema finanziario europeo con nuove regole che attribuiscono inscindibilmente

responsabilità e oneri a chi li assume, senza poterli scaricare su altri. L’Unione Bancaria europea, con regole identiche per tutti, è una condizione essenziale per la competizione di mercato senza privilegi e discriminazioni. Il paradosso italiano è lo sconforto e la diffidenza troppo ampia che configurano una malattia morale che non è solo motivata dalle cause e dagli effetti della crisi, ma che viene da più lontano e sconta anche i limiti pluridecennali di una democrazia malata che non ha un coerente modello di democrazia occidentale e ne soffre le conseguenze senza individuarne con nitidezza le cause e per lunghi anni ha stentato a compiere scelte giuste, coraggiose e lungimiranti indipendentemente dagli umori dei sondaggi. Il semestre di Presidenza italiana rappresenta una importante opportunità per il nostro Paese per svolgere un ruolo attivo e positivo in Europa per il rilancio dell’integrazione e anche per un deciso passo in avanti in materia di unione politica. Il cancelliere Helmut Kohl sosteneva, infatti, che “l'unione politica è la contropartita indispensabile per l'unione economica e monetaria ( ... ). E’ fallace pensare si possa sostenere l'unione economica e monetaria in modo permanente senza unione politica”. Il Rapporto che ha fornito la base per il Trattato di Maastricht affermava che l'Unione economica e monetaria avrebbe bisogno di “un alto grado d’integrazione delle politiche economiche (…) in particolare nel settore fiscale”. Occorre recuperare in pieno la nitida visione strategica dei padri fondatori dell’Europa come Luigi Einaudi scrisse nel tragico 1944: “Il disordine attuale delle unità monetarie in tutti i paesi del mondo, le difficoltà degli scambi derivanti dall’incertezza dei saggi di cambio tra un paese e l’altro e più dalla impossibilità di effettuare i cambi medesimi, hanno reso evidente agli occhi di tutti il vantaggio che deriverebbe dall’adozione di un’unica unità monetaria (…) dappertutto in Europa, (…) quanta semplificazione, quanta facilità nei

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Antonio Patuelli

pagamenti, nei trasferimenti di denaro, nei regolamenti dei saldi! (…) “Il vantaggio del sistema non sarebbe solo di conteggio e di comodità nei pagamenti e nelle transazioni interstatali. Per quanto altissimo, il vantaggio sarebbe piccolo in confronto di un altro, di pregio di gran lunga superiore, che è l’abolizione della sovranità dei singoli stati in materia monetaria. Chi ricorda – aggiungeva Einaudi - il malo uso che molti Stati avevano fatto e fanno del diritto di battere moneta non può aver dubbio rispetto alla urgenza di togliere ad essi

Insomma noi nel ventunesimo secolo ci troviamo a dover risolvere una crisi “nell’Europa” e non “dell’Europa”.

cosiffatto diritto. Esso si è ridotto in sostanza al diritto di falsificare moneta (…). E cioè – continuava Einaudi – al diritto di imporre ai popoli la peggiore delle imposte, peggiore perché inavvertita, gravante assai più sui poveri che sui ricchi, cagione di arricchimento per i pochi e di impoverimento per i più, lievito di malcontento per ogni classe contro ogni altra classe sociale e di disordine sociale. La svalutazione della lira italiana e del marco tedesco – sottolineava Einaudi –, che rovinò le classi medie e rese malcontente le classi operaie fu una delle cause da cui nacquero le bande di disoccupati intellettuali e di facinorosi che diedero il potere ai dittatori”.

una Europa fortemente integrata economicamente, dove manca soprattutto l’“Unione fiscale”, cioè l’uniformità delle regole fiscali. Infatti, dopo la creazione dell’Unione economica europea, di quella doganale, dell’ unità monetaria e ora anche con l’Unione bancaria, è indispensabile e sempre più urgente anche una riforma della tassazione in questo mercato più che mai unico. Altrimenti le asimmetrie e in particolare l’eccesso di pressione fiscale in Italia, innanzitutto sui fattori produttivi fra cui le banche, trasformerebbe l’Europa da vincente strategia, in fonte di contraddizioni penalizzanti per chi mantenesse le più alte tassazioni. Tali disparità, se prolungate, rischie-

Le banche italiane e la crisi In Italia le imprese bancarie e le imprese in genere hanno sopportato e continuano a subire da sole gli effetti della crisi senza “bad banks”, senza aiuti di Stato e con alti livelli di tassazione. Questa situazione d’emergenza, se si prolungasse, rischierebbe di compromettere la ripresa italiana delle produzioni e dei servizi in un mondo globalizzato e in

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I mercati e la crisi

rebbero di penalizzare gravemente l’Italia nello sviluppo e nell’occupazione, nei livelli di qualità sociale. Dobbiamo, quindi, avere piena consapevolezza che la soluzione dei cronici mali italiani non sta in tardive nostalgie di un passato irrimediabilmente superato e che non torna: l’improbabile ritorno alla Lira porterebbe effetti nefasti soprattutto per i più deboli e per i risparmiatori, sarebbe un crudele attacco all’equilibrio sociale, un rimedio peggiore del male. La via da seguire è diversa, richiede senso di responsabilità e implica innanzitutto la piena e coerente adozione dei principi, dei doveri e diritti fondamentali di una matura civiltà economica e democratica. Sono doveri e diritti e senso di responsabilità che non riguardano solo imprese e cittadini, ma richiedono una rinnovata consapevolezza del ruolo “di esempio” dello Stato e delle sue articolazioni territoriali. Le grandi speranze in un modello federale delle istituzioni italiane si sono infrante sul confuso e conflittuale regionalismo che è scaturito dalla riforma del 2001 del Titolo Quinto della Costituzione che non ha realizzato l’attesa semplificazione e riforma dello Stato, ma un ulteriore appesantimento di strutture istituzionali e legislative. I lentissimi pagamenti dei debiti della Pubblica Amministrazione hanno accentuato la crisi assommandosi all’alta pressione fiscale. Solo realizzando riforme, innanzitutto costituzionali, non confuse, ma frutto delle grandi culture occidentali e innestando un circuito virtuoso con più etica e più efficienza, a cominciare dalle Istituzioni, si potrà costruire davvero una non effimera speranza e favorire una ripresa veramente solida e duratura. *** In Italia la realizzazione delle privatizzazioni delle imprese bancarie, fortemente e diffusamente volute, ha, però, acuito un clima di maggiore preconcetta diffidenza verso le banche. L’Italia non appartiene storicamente al novero dei paesi più ricchi d’Europa e

ancora subisce le conseguenze di un assai difficile Novecento acuito proprio un secolo fa dalla terribile Grande Guerra che, seppur vittoriosa, fu rovinosa per la giovanissima democrazia italiana. Dal 1926 furono, quindi, sviluppate politiche di “pietrificazione” del debole mondo bancario dell’epoca, penalizzato anche dai costi economici e dai salvataggi industriali del primo dopoguerra e poi dall’arrivo anche in Italia della “grande crisi”. Le nazionalizzazioni degli anni Trenta irrigidirono gran parte del mondo bancario italiano che fu coinvolto in diverse crisi e scandali e che vide, accanto a esempi mirabili come la Banca Commerciale di Raffaele Mattioli, anche frequenti casi di politicizzazione delle pratiche creditizie con problemi di stabilità bancaria e interventi di risorse pubbliche anche camuffate dalla dizione di “fondi di dotazione”. Quelle pratiche politicizzate e anche clientelari del credito pubblico diseducarono i costumi di troppa parte di quegli italiani che si abituarono a concessioni di credito con dubbi presupposti. Le privatizzazioni bancarie hanno rappresentato una fortissima svolta, consolidata col “Testo Unico” del 1993 che ha riconosciuto in pieno alle Banche il ruolo di imprese quali sono, tutte private e tutte in concorrenza. Fu un passaggio epocale, anche con un progressivo e sempre più significativo affinamento nelle tecniche del credito, con sempre maggiore attenzione al merito creditizio, alla misurazione e alla gestione del rischio e a tutti quei principi, spesso anticipati dalla Banca d’Italia, che hanno trovato negli anni formalizzazione nelle normative europee. La natura di imprese delle Banche italiane è ben compresa dai milioni di azionisti bancari che realizzano uno dei momenti più evoluti di democrazia economica del nostro Paese, ma spesso non è del tutto “metabolizzata” sia dalle Istituzioni, spesso dimentiche delle responsabilità di azionisti e di amministratori, sia da settori di popolazione prima troppo abituati alle false comodità

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di un credito che da vent’anni non è più a fondo perduto, ma attività di impresa che risponde a regole di legge e di mercato. E’, quindi, dalla fine degli anni Novanta che si è dipanata questa situazione di critiche preconcette verso le banche italiane che va corretta con un maggiore senso di responsabilità da parte di tutti a cominciare dalle Istituzioni. Infatti le Banche in Italia hanno sopportato, assieme alle imprese e alle famiglie, il peso della crisi con uno Stato che non ha effettuato i salvataggi, frequenti negli altri paesi d’Europa e negli USA, ma che ha addirittura accentuato la pressione fiscale sulle Banche. A questo clima, a queste politiche fiscali, occorre una svolta decisa di senso di responsabilità, se non si vuole penalizzare non solo le Banche, ma tutto il circuito produttivo italiano. Le Banche in Italia, di ogni tipo e natura, pensano ed operano in positivo, combattono ogni elemento di decadenza, rappresentano una frontiera avanzata di innovazione di imprese tutte in concorrenza fra loro, sono impegnate quotidianamente per la legalità in un Paese eccessivamente abituato all’evasione fiscale e all’illegalità. Anche per questo le Banche in Italia spesso non sono amate: ma la legalità è una fondamentale e prioritaria esigenza da diffondere. E quando emergono e vengono giudiziariamente accertati casi di violazione di leggi da parte di esponenti bancari, la nostra indignazione è ancor maggiore di quella che quotidianamente proviamo verso la troppo diffusa trasandatezza civile che caratterizza un’Italia che è troppo assuefatta ai casi quotidiani di corruzione, di evasione fiscale e di criminalità in genere che configurano una vera crisi dell’etica pubblica. Concepiamo la “difficile arte del banchiere” non come una professione come le altre, ma come la più complessa e responsabile che deve basarsi sempre innanzitutto sull’intransigenza morale, non solo nell’applicazione continua di tutte le leggi, ma anche con un’austerità morale che non può e non deve subire eccezioni. Chi guida le banche deve avere alti ideali

e forte determinazione come ebbero i volontari nel Risorgimento, i giovani universitari toscani a Curtatone e Montanara nel ’48 e i garibaldini a Calatafimi nel ’60. *** In questi sei anni di crisi i prestiti bancari in Italia sono passati dai 1.555 Miliardi di euro dell’agosto 2008 ai 1.711 Miliardi di Euro dell’aprile scorso con un picco nel luglio 2012 con 1.800 miliardi di Euro. In Italia, oltre una impresa su quattro è divenuta “deteriorata”. Le sofferenze lorde nello stesso periodo sono passate da 43 a 166 miliardi di Euro. Il complesso dei crediti deteriorati ha superato i 290 miliardi di euro (da 86,5 miliardi di fine 2008). Il deterioramento dei crediti è stato fronteggiato con giganteschi accantonamenti e con ben quasi cinquanta miliardi di Euro di aumenti di capitale, tutti privati e senza alcun intervento pubblico. Questi sono elementi emblematici di sforzi esemplari di rafforzamento di solidità, presupposti di ripresa dello sviluppo e dell’occupazione. Questi comportamenti bancari non dovrebbero essere sottovalutati da nessuno, ma incoraggiati in ogni settore istituzionale e produttivo, sulla base di politiche che non penalizzino, ma incoraggino i fattori tutti del risparmio, degli investimenti e delle produzioni, oltretutto in una fase di forti rischi per gli equilibri internazionali, dall’Ucraina al Nord Africa e al Medio Oriente tutt’altro che stabilizzati, né pacificati. La riduzione degli spread verso i titoli di Stato tedeschi ha limitato gli effetti del peso dell’enorme debito pubblico italiano, ma i sintomi di ripresa sono ancora limitati, frenati innanzitutto dalle croniche debolezze italiane. Infatti, fra i principali paesi europei, l’Italia, dall’inizio della crisi, ha subito un’ acuta caduta del Pil e sta vivendo una debole ripresa. La produzione industriale sta mostrando lievi segni di miglioramento, ma di questo passo si dovrebbero attendere anni per ritornare ai livelli pre crisi. La disoccupazione è molto alta e si dilata la sotto occupazione “in nero”.

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L’economia italiana è appesantita anche dalle difficoltà di combinare efficacemente i fattori produttivi, dalla molto limitata dimensione delle imprese, dalla loro frequente sottocapitalizzazione, dagli scarsi investimenti nella ricerca, dal mercato del lavoro, dai tempi della giustizia civile lunghi un multiplo rispetto a quelli delle altre principali economie, dai limiti nelle infrastrutture e dai tempi della Pubblica Amministrazione. Tutto ciò pesa su tutte le imprese fra cui le Banche che hanno subito un significativo declino di redditività: negli ultimi tre esercizi è negativa la redditività media dei primi quaranta gruppi bancari italiani, evidenziando complessivamente andamenti peggiori rispetto alla media UE. Anche se ora rallentano i nuovi flussi di sofferenze, lo stock accumulato, nonostante le iniziative delle banche, non sarà rapidamente smaltibile e potrà evidenziare riprese di valore soltanto se il quadro economico italiano darà segni ben maggiori di ripresa. Inoltre la raccolta bancaria continua ad essere inferiore agli impieghi, non favorita da quello che, invece, fu l’acume di De Gasperi che, nel secondo dopoguerra, vide nel risparmio e negli investimenti il volàno per la ripresa. In questi ultimi anni le Banche, che come sempre sostengono tutte le imprese, hanno anche attivato in Italia ogni tipo di iniziativa per contrastare la crisi e hanno partecipato a molteplici accordi fra pubblico e privato: oltre 400mila piccole e medie imprese hanno usufruito delle moratorie per oltre 20 miliardi di liquidità aggiuntiva, mentre oltre centomila famiglie in difficoltà hanno avuto sospensioni dei mutui. La collaborazione tra la Cassa Depositi e Prestiti e le Banche, per misure a sostegno di imprese e famiglie, ha prodotto una serie di accordi che hanno stanziato risorse per complessivi 22,5 miliardi di euro, per accrescere la competitività produttiva italiana a cominciare dalle piccole e medie imprese, dal mercato immobiliare e a seguito di eventi sismici.

Invece sulle Banche in Italia, negli ultimi cinque anni, sono “piovuti” più di 670 provvedimenti normativi (circa due e mezzo a settimana!), sia di natura burocratica e regolamentare (con effetti sui sistemi informatici, sulle procedure e quindi “non a costo zero”), sia con impatti economici importanti come riduzioni e limitazioni alle commissioni e ai tassi di interesse, imposizioni di clausole contrattuali, revisioni alle basi imponibili IRES e IRAP, alterazioni di pre-esistenti assetti negoziali in contratti di durata, imposte variamente definite di bollo, correzioni di normative sul calcolo degli interessi, sempre più gravosi anticipi di pagamenti di imposte. Il tutto in modo non organico, spesso senza proporzionalità, senza un disegno economico di lungo periodo, creando incertezza del diritto e nel diritto, senza valutare appieno gli effetti distorsivi che alcune scelte regolamentari generano sui comportamenti e sulle offerte di servizi e prodotti. Mentre nell’Unione Europea serve anche un uniforme diritto penale dell’economia per evitare disparità e contraddizioni. Insomma, mentre in altre parti della UE e negli USA anche gli Stati intervenivano per salvare le banche, mentre la Repubblica italiana ha perfino elargito contributi di decine di miliardi all’Unione Europea per salvare altri paesi dai rischi di bancarotta, in Italia, invece, il settore pubblico non ha speso un Euro, ma ha aumentato più volte i pesi sulle Banche. Tuttora, infatti, sussistono penalizzazioni delle attività bancarie in Italia rispetto alle concorrenti nella UE: dal trattamento delle svalutazioni e perdite sui crediti a quello del costo del lavoro ai fini IRAP, dagli interessi passivi nella tassazione societaria IRES e IRAP, all’IVA di gruppo, dall’ampio ruolo di sostituto d’imposta a vari calmieri dei prezzi - anche se altrimenti definiti - fino alle addizionali sorprendenti e talvolta anche tardive. Inoltre in Italia le Banche espletano gratuitamente ben 21 attività obbligatorie verso le Pubbliche Amministrazioni

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Antonio Patuelli

soprattutto nell’impegno per la legalità. Chiediamo, quindi, alle Istituzioni della Repubblica un forte ripensamento di queste normative avverse: non sollecitiamo privilegi di alcuna natura, ma chiediamo con forza che le Banche che operano in Italia non siano penalizzate nella competizione del mercato unico europeo. Altrimenti le conseguenze sarebbero gravissime e con effetti prolungati su tutto il mondo produttivo e su tutta la società italiana. Insomma, è ora di riconoscere in Italia il ruolo decisivo e positivo delle Banche a sostegno dell’economia e della legalità con gradi di efficienza superiori a quelli della Pubblica Amministrazione e anche di diversi altri settori produttivi. Negli ultimi anni le banche italiane hanno fatto ogni sforzo per arginare la crisi e rafforzarsi con investimenti e razionalizzazioni che non possono e non debbono interrompersi. Ugualmente occorre che le imprese in genere favoriscano una nuova stagione di finanziamenti alle loro attività che trovano più sostegno nelle banche quando vi è maggiore trasparenza nei bilanci delle imprese e vi è l’impegno degli imprenditori ad investire nelle loro imprese, non reclamando finanziamenti soltanto dalle banche.

Imprese bancarie e cultura del risparmio Oltre alle misure straordinarie per affrontare le emergenze della crisi, le Banche in Italia – in costruttivo e apprezzato confronto con le associazioni dei consumatori – hanno avviato importanti iniziative per rendere sempre più semplice e chiaro il rapporto con la clientela. Per colmare le lacune degli italiani in campo economico e finanziario, a partire dai ragazzi, è stata anche appena costituita dall’ABI la Fondazione per l’educazione finanziaria e al risparmio. Le nuove attività spaziano dalla creazione di materiale didattico innovativo e dal linguaggio comprensibile, fino all'orga-

nizzazione di eventi nelle scuole (e non solo) e alla rete. In Italia mancano, infatti, adeguate iniziative pubbliche per l'educazione civica e civile e per l'educazione finanziaria e al risparmio, che sono presupposti per la pienezza dei diritti di cittadinanza.

Conclusioni L’obiettivo strategico prioritario dell’ABI, associazione di cultura e di regole, è stato ed è il perseguimento di regole identiche per le banche nel mercato unico europeo. Questa nostra bussola è frutto della profonda convinzione che soltanto con un piano completamente livellato le Banche e in genere le imprese italiane possono com-petere proficuamente. Altrimenti, con superiori pesi burocratici e fiscali, gran parte delle nostre imprese subirebbe sempre più la concorrenza. La nostra bussola ci conduce a non tentare di fuggire dal mercato, ci sollecita a parteciparvi in una competizione senza privilegi o discriminazioni. Questa linea non ha alternative! Ogni nostra riflessione ed azione è stata indirizzata con premesse di alto valore etico: gli interessi devono, infatti, sempre svilupparsi in coerenza con i principi costituzionali. L’economia deve sottostare al diritto, ma innanzitutto all’etica per costruire un circuito virtuoso di progresso economico, sociale, giuridico e morale, coniugando l’economia con le virtù morali e civili, convinti che si debba lavorare instancabilmente e coerentemente per la pienezza della democrazia economica e civile, cercando di innalzare i poveri e gli ignoranti e non deprimendo gli agiati e i sapienti, con un’opera di concordia e non di guerra sociale, sempre per costruire e mai per dividere o distruggere, combattendo il pessimismo sterile. Lavoriamo per un’altra Italia e per un’altra Europa, più costruttive e per un nuovo clima di fiducia, senza mai arrenderci di fronte alle difficoltà. La ragione non si stanca di combattere. 20


OSSERVATORIO

Giovanni Jannuzzi

La Jihad islamica non è guerra di religione *

Animali feroci (Irak)

Ci sono voluti gli orrori che stanno compiendo i guerriglieri della jihad islamica contro cristiani, yazidi, curdi e sciiti, per risvegliare la coscienza dell’Occidente che pareva addormentata. Si sta ripetendo quello che accadde negli anni Novanta in Bosnia o in Kossovo. Anche allora, file interminabili di persone costrette a fuggire per terrore, migliaia di persone trucidate barbaramente, tra cui donne, vecchi, bambini. Allora, la coscienza mondiale mise anni per ridestarsi e ci volle la scoperta delle fosse di Srebrenica, con centinaia di cadaveri, o le centinaia di migliaia di kosovari in fuga perseguiti dalle forze serbe perché Stati Uniti e NATO dicessero basta e intervenissero con la decisione e i mezzi che essi soli posseggono. Eppure, quello che si stava preparando in Irak non era un mistero per nessuno, tutti sapevano che i fanatici della jihad – gente che fa apparire persino Al-Qaeda ragionevole – nel conquistare grandi territori avevano in mente solo odio, odio e distruzione di tutto quanto non si piega alla loro oscura, barbarica legge. Bene li ha definiti un sacerdote cristiano rifugiato a Erbil: sono “animali feroci”. Ci è voluta la prova evidente della loro ferocia, la scelta imposta alla gente tra convertirsi o morire, perché il Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite emettesse una condanna non assortita però da alcuna misura effettiva, e che anche la Lega Araba vi si associasse (con non poca ipocrisia: gli jihadisti sono finanziati e armati da vari Stati arabi, quelli sulla carta più evoluti e amici

dell’Occidente, come Qatar e Arabia Saudita). E perché il Sommo Pontefici mettesse alla fine da parte l’irenismo del dialogo a tutti i costi, reclamasse protezione per i cristiani perseguitati e gridasse la sua indignazione, il suo forte richiamo: “non si può fare la guerra, non si può uccidere in nome di Dio”. E ci è voluto lo spettacolo delle folle in fuga mostrate dalla TV perché gli Stati Uniti reagissero. Certo, si può comprendere il dilemma in cui si trova il Presidente Obama. Non vuole e non può riaprire una guerra in Irak dissennatamente voluta dal suo predecessore, pur sapendo che la responsabilità della situazione attuale risale a George Bush e ai falchi della destra, ed è determinato a non inviare soldati americani sul terreno. Ha ragione, ma una Superpotenza come gli Stati Uniti, se vuol proteggere gli interessi propri e dei suoi alleati e mantenere il suo standard di moralità, non può voltare gli occhi dall’altra parte o aspettare che altri le tolgano le castagne dal fuoco. Ci sono situazioni in cui la prudenza è saggia (come nell’affare siriano, in cui Obama, fermandosi sull’orlo di un intervento militare diretto, ha quasi evitato disastri maggiori) ed altri in cui è solo colpevole debolezza. Ora, Washington si è finalmente mossa su varie linee: massiccio aiuto umanitario agli iracheni in fuga, pesanti bombardamenti aerei sulle posizioni militari degli jihadisti, aiuti militari alle milizie curde, rimaste per ora quasi sole a combattere con qualche efficacia la marea dei fanatici. Basterà? Non credo: Obama stesso ha detto con franchezza

* I tre interventi escono contemporaneamente su "Tempo presente" e "Europa futura".

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Giovanni Januzzi

che la questione non si risolverà in poche settimane o mesi. Alcune cose sono però certe: la prima è che non si può lasciare che si installi tra Irak e Siria un’entità jihadista potente e in grado di controllare e finanziarsi con il petrolio, decisa a combattere e distruggere l’Occidente; la seconda è che il problema non riguarda solo gli Stati Uniti, ma anche l’Europa, la Russia, l’India, la Cina, lo stesso Iran. È da augurarsi (voglio dire: è da credere) che le diplomazie di questi Paesi cerchino in questi momenti una forma di intesa. Putin dimentichi le sue ambizioni in Ucraina, l’Occidente e la smetta di rimuginare sulla Crimea: il pericolo islamista che avanza è cosa di ben altra portata e minaccia tutti. La terza cosa è ovvia: ben poco si potrà fare se gli iracheni stessi non trovano la saggezza di superare le loro dissidenze confessionali e facciano fronte comune al pericolo che li minaccia ormai molto da vicino con una controffensiva militare ben preparata ed efficace (per favore, non ci si parli di dialogo: il dialogo con chi pensa solo alla maniera migliore di farci fuori e lo sbandiera nei suoi minacciosi messaggi, è un suicidio). Se la jihad giungesse a Bagdad, che senso avrebbero le dispute che oppongono Al Maliki e Al Abadi, che senso avrebbe l’odio che tutti nella Regione riservano ai curdi? Sarebbe davvero strano se, alla fine, questi risultassero i soli in grado di resistere alla marea jihadista e l’Occidente non potesse fare altro che appoggiarsi su di essi, come sta già cominciando a fare. Strano, ma inevitabile, anche se questo non piacerebbe affatto a chi, come la Turchia, teme i curdi come una minaccia alla sua

integrità territoriale e da sempre li perseguita. Secondo le notizie di stampa, Renzi ha parlato al telefono con Obama di questi problemi, e il Ministro degli Esteri Mogherini ha fatto capire che si sta valutando qualche azione italiana, non solo per partecipare, con americani, inglesi e francesi all’opera umanitaria, ma anche per rafforzare la resistenza curda. Non so quanto queste prospettive siano realistiche. Credo però che l’Italia possa svolgere un ruolo proprio nel mobilitare le risorse dell’Unione Europea (con tutti i miei dubbi sulla sua efficienza). E intanto, per favore, si occupi dell’altro pericolo molto simile a quello iracheno, la situazione in Libia che ci tocca da vicino e nella quale forse non è impossibile per noi svolgere un ruolo più impegnato. Un’ultima considerazione, e mi scuso se vengo ripetendola da tempo: il mondo in cui viviamo non è tranquillo né sicuro, non indeboliamo le nostre già scarse capacità di difesa e teniamoci stretto il migliore strumento di garanzia che abbiamo, quella Alleanza Atlantica che da 65 anni ci fornisce la sicurezza di cui abbiamo bisogno.

Non è guerra di religione, è guerra di civiltà

Nel suo nuovo delirante appello, la jihad islamica invita a uccidere i miscredenti, minaccia di occupare Roma, frantumare le nostre croci, rendere schiave le nostre donne e piacevolezze del genere. Come ci siano giovani, occidentali come noi, che corrano come montoni di Panurgo a

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La Jihad islamica non è guerra di religione

ingrossare i ranghi della barbarie terrorista è un fenomeno da studiare in psichiatria. È comunque evidente che i capi jihadisti cercano di spingere i loro seguaci a una guerra di religione per tentare di allineare contro di noi l’intero Islam. Ma guerra di religione non è e non può essere. Non si tratta di affermare le bontà del Corano rispetto a quelle del Vangelo. È lecito discuterne, ma non pretendere di decidere la questione con le stragi. Chi lo fa o cerca di farlo mostra la sua natura puramente e semplicemente criminale. Va combattuto ed eliminato, con tutti i mezzi disponibili. Quella che è in atto è la guerra dichiarata dalla barbarie contro la civiltà, del fanatismo omicida contro la tolleranza pacifica e la battaglia deve essere condotta sino alla fine del nemico dichiarato. Spero di sbagliarmi, ma personalmente non credo che quanto la coalizione creatasi a Parigi sta facendo o si proponga di fare sia sufficiente. Non credo che gli attacchi aerei siano sufficienti. Non credo che basterà armare la mano degli iracheni e dei curdi. Non credo che sia possibile prescindere dalla collaborazione di Siria, Iran, Russia, India. Intanto, però, il fronte contro la barbarie terroristica deve essere unito, senza fessure, anche al nostro interno. Non sono permesse riserve, ambiguità, distinguo (del tipo grillino, ma non solo). La civiltà in cui viviamo, e che è oggi minacciata, può piacerci o no. Possiamo deplorarne gli eccessi, la lassitudine morale, le ingiustizie, possiamo lamentare l’avidità di denaro o di potere (il Papa lo fa ogni giorno come sa e può), ma è centomila volte migliore di quello che ci propone l’oscurantismo jihadista. Possiamo e dobbiamo cercare di migliorarla con tutti i mezzi pacifici e civili a nostra disposizione, ma non possiamo permettere che sia distrutta nelle sue fondamenta. I partiti abituati a scannarsi su tutto, si uniscano almeno su questo: di fronte alla minaccia, si

reagisce compatti. Il Governo ha mostrato fermezza, inviando aiuti e armi alle popolazioni direttamente minacciate dallo stragismo jihadista. Merita appoggio. Ma il nemico non sta solo nelle lontane pianure mediorientali, sta tra noi, nelle nostre città, predica nelle moschee e nei centri di insegnamento che, civilmente, abbiamo consentiti. Il dovere dello Stato è vigilare e combattere il rischio con ogni mezzo, perché il suo primo dovere è proteggere la sicurezza dei cittadini. Questo dovere riguarda anche i governi di segno socialista. Se non lo adempissero, spingerebbero la gente prima o poi nelle braccia della destra estrema che promette “pugno duro”. Un appello dunque alle c.d. “reti sociali”. Voi difendete, o credete di difendere, cause meritevoli, vi esaltate per la sorte dei palestinesi e di altre minoranze che soffrono. Come darvi torto? Ma quello che è in atto è cosa diversa. La minaccia jihadista colpisce tutti, anche voi: davvero pensate che, in una società dominata dall’estremismo religioso vi sarebbe posto per voi, per le vostre istanze laiche, per il vostro spirito di ribellione? Per le vostre donne? Per la parità di diritti che rivendicate? Credete davvero che i palestinesi starebbero meglio? E le altre minoranze? I curdi, gli yazidi, i cristiani d’Oriente? Ma ragionate, qualche volta! E mi sia permesso, alla fine, un appello anche al Sommo Pontefice. Santità, lei è un esempio luminoso di retta coscienza, di tolleranza, di umanità. Ma quando lei tituba sul diritto di respingere il terrorismo con la forza, lei non fa che alimentare il pacifismo suicida di chi pensa che solo il dialogo serva, che non vi sia guerra accettabile, neppure quella giusta. Ma sono secoli che la Chiesa teorizza ed accetta la guerra giusta. I cristiani non possono essere agnellini indifesi che si consegnano nelle mani del lupo. Il martirio è privilegio di pochi, di pochissimi, non si può prescriverlo alle moltitudini. E il dialogo va bene, ma tra

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Giovanni Jannuzzi

gente che parta dagli stessi principi. Se un assassino viene a casa mia, armato e desideroso di uccidermi, la risposta non è il dialogo. La risposta è difendersi, con tutti i mezzi possibili.

I campi dell’odio

Circolano nella Rete varie immagini di manifestazioni svoltesi in passato in varie città inglesi. Sono foto agghiaccianti, che la stampa inglese ha evitato di pubblicare per non aggravare una situazione già tesa. In esse si vedono cartelli con espressioni di proterva minaccia nei confronti dell’Europa: “Vi distruggeremo”, “La vostra eliminazione è iniziata”, “Ricordate l’11 settembre”, “L’ Europa è il cancro, l’Islam la cura”, “Uccidiamo tutti quelli che criticano l’Islam” e peggio. Alcuni le mettono in dubbio, pensano che siano montaggi, ma così non è. Sono autentiche. E le persone, uomini per lo più giovani, agiscono a viso scoperto, quasi per provocazione, tanto si sentono sicuri della nostra debolezza e della loro impunità, tanto contano sulla nostra determinazione, per sé giusta, a non rispondere all’odio con l’odio. Eppure dovevano pensare che questa arroganza avrebbe attirato l’attenzione delle autorità inglesi. Che i loro autori sarebbero stati, com’è avvenuto, identificati e sorvegliati. Forse speravano che queste eventuali misure avrebbero innescato altre reazioni a spirale. O forse sbagliamo noi ad attribuire una logica qualsiasi a chi è mosso solo dall’odio, un odio cieco, fine a sé stesso, che deve darsi sfogo con le minacce e gli insulti. Ma chi pensa che siano solo

chiacchiere, senza conseguenza, si sbaglia. È la punta emergente dell’ iceberg, ma sotto c’è chi pianifica e realizza atti terroristici. A Londra quelle manifestazioni furono seguite da un gravissimo attentato nel centro, che fece morti e feriti. È accaduto in Inghilterra, ma potrebbe accadere in altre parti della nostra Europa. Sono l’altra faccia, quella del “nemico interno”, di una minaccia che sta trovando il suo epicentro nei campi dell’odio in Siria e Irak, dove terroristi criminali sgozzano ostaggi innocenti, terrorizzano e uccidono centinaia, migliaia di persone colpevoli di non sacrificarsi al loro stesso fanatismo. Tanto odio ci prende in un certo senso di sorpresa. Non pensavamo di meritarlo, quali che fossero i nostri torti, le nostre mancanze. Per decenni abbiamo aperto le nostre frontiere, accolto i diseredati del mondo, abbiamo messo un punto d’onore nel mostrarci tolleranti, aperti alla diversità, rispettosi della fede e dei costumi altrui. E se l’Occidente fosse stato davvero così ingiusto, così persecutorio, da meritare tanto odio, che colpe hanno i cristiani di Oriente, gli yazidi, i curdi, gli sciiti, massacrati a migliaia? Abbiamo permesso le moschee in Europa e rinunciato ad avere chiese laddove non sono consentite. Che colpe aveva la Chiesa cristiana di Tikrit, ora rasa al suolo dalla furia jihadista assieme all’antica moschea sciita? Erano simboli di un passato antico e civile che persino Saddam Hussein aveva rispettato. Riflettano i soliti pacifisti, i dialoghisti ad oltranza, gli zeloti grillini, le reti sociali, quelli per cui il nemico ha sempre ragione e noi sempre torto. Ho letto discorsi pronunciati all’ONU che fanno

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La Jihad islamica non è guerra di religione

male. Alcune voci hanno criticato gli Stati Uniti, in presenza di Obama, per gli attacchi aerei alla jihad, o hanno sentenziato che “non si stabilisce la democrazia con le bombe”: come se si trattasse di democrazia da ristabilire e non di genocidio da fermare! A loro vorrei chiedere: che fareste se il terrore, invece di colpire il poco amato Occidente, venisse sulle vostre terre, minacciasse le vostre famiglie? Altre posizione espresse a New York sono apparse più complesse. Il Presidente iraniano, Rohani, ha duramente condannato l’ISIS, accusandolo di voler distruggere la civiltà, però ha criticato gli Stati Uniti per gli attacchi in Siria condotti senza il permesso di Assad. La Russia è sulla stessa linea. Sono posizioni viziate da un’interna contraddizione: se si riconosce il male, se si pensa che vada estirpato, non si puó condannare chi lo sta contrastando. Ma riflettono “a specchio” una analoga contraddizione occidentale: se l’ISIS va distrutto, e se Iran e Siria sono utili in quest’opera, non sarà a lungo produttivo respingerne la collaborazione. Il costo per questa scelta sarebbe accettabile solo se fosse la sola condizione per permettere un intervento militare della Turchia, la sola potenza regionale che ha forze più che sufficienti per il compito. I turchi dicono di volersi impegnare, ma per il momento stanno fermi, pur preoccupati del massiccio esodo di Curdi verso il loro Paese. Ripetiamocelo: contro il terrorismo, la

sola risposta possibile è combatterlo con tutte le forze, con tutte le risorse anche militari disponibili, laddove una risposta militare è necessaria. A questo proposito, vale la pena chiedersi se quello che sta facendo l’Italia sia sufficiente. Io ritengo di sì, tenendo conto delle condizioni reali. Pierluigi Battista, sul Corriere della Sera, crede invece che dovremmo partecipare direttamente ai raid. Avrà magari ragione. La questione è però: con quali aerei? Va da sé che l’azione militare non è sempre la risposta. Contro il “nemico in casa” non servono aerei e bombe. Basta la forza della legge. Tolleranza zero, non per chi professa o pratica una religione diversa dalla nostra (Dio ne guardi!) ma per chi ne trae pretesto per praticare o anche solo predicare odio e violenza. Se qualcuno minaccia la nostra sicurezza, va messo in condizioni di non nuocere, applicando fino in fondo le norme del Codice penale e quelle sull’ espulsione. Forze dell’ordine e magistratura non devono avere il minimo tentennamento. Lo dobbiamo a noi stessi, ai nostri figli. E lo dobbiamo anche alla gran maggioranza di musulmani che vivono e lavorano tra di noi, rispettando le nostre leggi. Né noi né loro meritiamo che una minoranza fanatica stravolga questa convivenza e ci spinga (se le istituzioni non fanno fronte al pericolo con la necessaria severità) nella braccia di regimi disposti ad applicare, indiscriminatamente, il pugno duro.

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MARGINALIA

di Antonio Casu

I volti del Gattopardo. Il trasformismo.

Nel precedente editoriale, con il quale si inaugurava questa rubrica, con riferimento al recente libro di Alan Friedman ci siamo chiesti chi sia davvero il Gattopardo, e se il vero Gattopardo in realtà non sia affatto colui che viene additato come tale. Occorre dunque identificare il vero Gattopardo e proseguire l’indagine. Certo Friedman ha ragione da vendere quando rivolge al popolo italiano un accorato appello a unire le forze, superando le tante e radicate divisioni che lo affliggono, per abbandonare la cultura conservatrice e abbracciare con coraggio la strada del rinnovamento. Ha ragione anche quando mette in guardia che i tempi sono stretti e che per cambiare occorre immediatezza e determinazione. E tuttavia, per non cadere nel velleitarismo occorre individuare l'avversario e, soprattutto, definire un progetto. La ricetta di Friedman è, in ultima analisi, basata su pochi quanto essenziali ingredienti: un governo di legislatura, legittimato dal voto popolare, che ponga mano alle riforme necessarie. Un'opera da porre in essere con "più schiettezza, più onestà", "con un dibattito basato sui fatti, sulla trasparenza". Difficile non essere d'accordo. Anzi, nessuno sarà di certo in disaccordo, almeno a parole. Propongo dunque, a Friedman e a noi, di proseguire l'indagine. Se ci limitiamo alle indicazioni di buon senso, non ne veniamo a capo. Se vogliamo davvero cambiare il Paese, occorre individuare i comportamenti concreti da modificare. Occorre una coesione sociale vasta sui comportamenti ammessi e su quelli non ammessi, o almeno non premianti. Sui principi generali tutti sono formalmente d'accordo, e per contro chi non vuole cambiare si trincera proprio dietro le affermazioni di buon senso e facile popolarità. Chi è davvero il Gattopardo? Il primo sospettato, sulla base del ragionamento che precede, è il trasformismo. In politica, quando si parla di trasformismo non si intende l’adozione di comportamenti volti a mantenere o acquisire posizioni di potere o di privilegio, per se stessi o per la propria parte

politica, perché questa caratteristica è propria dell’agire politico. E neppure il frequente ricorso al compromesso e al sotterfugio, perché anche questo non è un tratto distintivo del trasformismo (Harendt). Ciò che distingue il trasformismo da altre manifestazioni del realismo politico è la disinvolta transizione da posizioni politiche, culturali e ideologiche ad altre distanti e tra loro incoerenti, percepite non come il frutto di una evoluzione del pensiero ma come il perseguimento di vantaggi politici e personali. Un atteggiamento di questo tipo non può farsi mettendo ogni volta le cose in chiaro, e questo determina l’aggiramento delle sedi nelle quali si attua il confronto politico. In sostanza, dunque, il trasformismo realizza una specifica modalità di elusione della responsabilità politica del titolare del mandato nei confronti di chi lo ha eletto, ad esempio in Parlamento. Tre sono gli elementi fondamentali di questa prassi. Il primo è l'assenza di progetti politici organici e di ampio respiro, sostituiti da intese programmatiche circoscritte nel tempo e nell'oggetto. La gestione del presente preclude in tal modo la prospettiva del progetto politico di medio e lungo periodo. In tal modo, inevitabilmente, si rinvia la soluzione dei problemi strutturali. Il secondo è l'utilizzo sistematico della cooptazione nella maggioranza di deputati dell'opposizione. Un frutto avvelenato della cooptazione è l’assenza di alternanza al potere. La partecipazione democratica, che almeno tendenzialmente è un flusso che muove dal basso verso l’alto, si trasforma in controllo, un flusso inverso in cui chi detiene il potere preclude la possibilità di ampliare o sostituire anche in parte il gruppo dirigente. Il terzo è diretta conseguenza dei primi due: il trasformismo, percepito dal corpo elettorale come “attaccamento alla poltrona”, determina una crisi di fiducia nel sistema politico, e dunque disaffezione dei governanti e delegittimazione dei governanti. (segue)

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FRAMMENTI di Bioetica

di Angelo G. Sabatini

Andare nel profondo del corpo, ma solo per la salute

E’ ormai di pubblico dominio la convinzione che vasti e importanti progressi, grazie all’utilizzo della tecnologia, sono conseguiti dalla medicina in tutti i settori delle patologie che investono il corpo umano. Progressi che rendono possibile l’esplorazione della malattia nelle sue componenti biologiche e nella pratica clinica attraverso un processo di scambio di informazioni scientifiche tra analisi, prognosi e terapia. Emerge lo spettacolo di un corpo attraversato da mille componenti rese unite da una razionalità perfetta che dona al corpo quello stato di benessere chiamato “salute”. Di qui la necessità di possedere abilità di investigazione in direzione tecnica e sensibilità di gestione di un corpo che non è soltanto l’oggetto di una classificazione scientifica ma è anche e fondamentalmente il soggetto che “patisce” la perdita dell’equilibrio funzionale del corpo (la malattia) e reagisce, al di qua e all’interno della patologia, come “essere che vive”. Il corpo diventa vita, registro di situazioni complesse e di percezioni di stati multipli, terreno di conquista di quelle scienze mediche su cui agiscono con prepotenza la biotecnologia e le correzioni che la ricerca scientifica e la terapia farmacologica vi operano. La scienza medica ha seguito con successo il processo di accresciuta visibilità scientifica della costituzione biologica del corpo e delle tecniche di correzione delle sue anomalie funzionali inoltrandosi fino al terreno impervio del limite entro cui l’intervento sul corpo viene legittimato nel rispetto della salvaguardia dell’essere il corpo un “essere vivente”. Per questa via la scienza medica ha aperto sentieri affascinanti consentendo alla riflessione filosofica, nelle sue varie articolazioni, di legittimarsi nel voler comprendere il significato che tale scienza ha per l’essere vivente. Le affascinanti prospettive che si sono aperte nel campo della genetica e della medicina ci immettono forse nel cuore di un’epoca in cui molti problemi possono trovare una soluzione con grandi benefici per l’umanità, ma anche con notevoli rischi per l’identità personale degli

individui. Di qui la necessità di una disciplina, la bioetica, che ci impegna ad interessarci ai problemi aperti dalle applicazioni sull’uomo della genetica e della bioingegneria e della loro influenza psicologica e morale. Su questa via la Bioetica chiama in causa tutti, filosofi, teologi, psicologi e giuristi, ma anche il malato, il suo ambiente famigliare e le sue convinzioni etico religiose per definire i limiti entro cui l’ingegneria genetica e la medicina sono legittimate ad agire. Il più affascinante, ma anche il più preoccupante, degli interventi sulla vita biologica è la manipolazione genetica. Ma non solo: un elenco delle tematiche emergenti, specialmente quelle denominate “sensibili”, mostra la vastità dei campi d’intervento della riflessione etica e la complessità degli interrogativi che finiscono col mettere in discussione la legittimità stessa delle tecnologie biologiche applicate all’uomo: la manipolazione genetica, l’eugenetica, la sperimentazione su esseri umani, la fecondazione artificiale, la sterilizzazione, la modificazione del sesso, i trapianti di organi umani, gli anticoncezionali, l’aborto, l’AIDS, gli psicofarmaci, la vita artificiale, l’eutanasia, la verità e il medico. Una problematica che concerne la vita umana nel suo complesso configurarsi come corpo e come psiche, terreno su cui la scienza e persino la politica possano operare manipolazioni dannose per l’uomo. Un esempio ci viene fornito dall’utilizzazione della genetica umana nella pratica giudiziaria da parte del diritto.. Si pensi, a solo titolo esemplificativo, alla rilevanza che alla genetica viene attribuita in documenti internazionali (tra cui la Carta dei diritti del U.E.) per cercare di prevenire forme di discriminazione basate di essa. Sono momenti di uno scenario per certi versi esaltante che colpisce l’immaginazione dell’uomo comune, ignaro, spesso, dei rischi crescenti cui conduce la scienza senza un codice etico che ne stabilisca possibilità e limiti.

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UOMINI E IDEE

Antonio Casu

Thomas More. Il potere e l’utopia

Lo Stato di diritto si è retto per lungo tempo su un crinale netto e distintivo: la separazione tra sfera pubblica, territorio della politica, e sfera privata, sottratta alla politica. La sfera pubblica regolata dal diritto, la sfera privata come sede della coscienza morale, del corpo, dell’affettività, ma anche della produzione, della libertà d’iniziativa economica. La sfera pubblica soggetta al principio di pubblicità, la sfera privata a quello della riservatezza, del segreto. Tutto ciò è ormai superato. L’economia ha rivendicato i suoi spazi d’intervento nella sfera più intima della persona, la politica ne ha sancito l’estrema espansione. La politica, come tecnica della mediazione e della rappresentazione degli interessi, ha inseguito l’economia senza riuscire ad orientarla sulla base di parametri condivisi. La stessa inclinazione ad avere un quadro di riferimento etico è stata interpretata come una pretesa inaccettabile, una limitazione alla libertà. La progressiva corrispondenza tra espansione della libertà personale ed espansione dei diritti economici ha travolto ogni segreto recesso della personalità, ha espiantato la sfera più intima, la sfera della corrispondenza, delle comuni-cazioni, perfino quella del corpo, della sessualità, della riproduzione. Tutto oggi deve essere ostensibile, pubblico, condiviso. I social network informano e strutturano, riducendolo in paradigmi non liberi ma

predeterminati, il linguaggio e le sue manifestazioni. I modelli rappresentati dai mass media presentano la tutela della sfera privata come residuale, mentre acclamano e propagano la condivisione dei comportamenti politically correct, e dunque sostanzialmente si sostituiscono alle sedi tradizionali della formazione, la scuola e l’università, sempre più prive di ruolo, se non in quanto funzionali alla logica del mercato. Le discipline universitarie sono sempre più orientate non tanto alla formazione di un cittadino consapevole, dotato di spirito critico, ma di un homo oeconomicus, che recepisce come propri i valori del mercato. Perfino la filosofia, che nasce nella Grecia classica come problematizzazione dell’ordine e del potere, ed è quindi intrinsecamente filosofia politica, è sempre più filosofia della scienza, più adesiva che critica all’ordine costituito. Eppure la politica e la filosofia sono due strumenti intimamente legati. La politica tende all’ordine sociale, la filosofia ne indaga le contraddizioni, la filosofia politica indaga e teorizza modelli di coesistenza civile. Filosofia e politica tra loro sono in contraddizione, ma si tratta di una contraddizione armonica. Tutta la storia della filosofia e della politica dell’occidente si articola intorno ad uno schema bipartito: sensibile-sovrasensibile. In origine vi è il Logos, che racchiude in sé la complessità, è armonia della rela-

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Thomas More. Il potere e l’utopia

zione. Il Logos è infatti Principio, ma è anche in sé Linguaggio (o Parola), Fondamento e Ragione. La storia della conoscenza umana è la conseguenza della frammentazione di quell’unità originaria, e il cammino verso la sua ricomposizione. La rottura dell’equilibrio della relazione originaria ha portato di volta in volta al prevalere di ciascuno dei significati originari - limitati nella traduzione latina di Verbum, ordinariamente inteso e compreso come Parola – e dunque alla pluralità delle conoscenze, tra loro separate e concorrenziali. La frammentazione ha indotto alla negazione. La Ragione è giunta a negare il Principio, revoca in dubbio il Fondamento, scredita la stessa Parola. La rivendicazione del primato della Parola, se si distanzia dalla Ragione, alimenta il dubbio sull’esistenza di un Progetto, dunque del Fondamento, e allontana dal Principio. E via dicendo. La rottura della Relazione originaria, il separare [diabàllein] ha reso ardua la difficoltà della conoscenza. Solo un tentativo di ri-comporre [symbàllein] può recuperare la prospettiva unitaria, la legge fondamentale dell’armonia. Ciò che l’uomo separa, allontana dalla relazione originaria, dalla verità dell’origine. Per progredire nel cammino della conoscenza, l’uomo ha bisogno di verità, ha bisogno di simboli. Per lunghissimo tempo l’esigenza di ordine proprio della politica si è servito della trascendenza, si è aggrappato alla trascendenza. La rappresentazione politica dell’Ordine, l’adesione della realtà a un’idea auto-legittimante, assoluta, e perciò stesso non sovvertibile, è ciò che Carl Schmitt ha descritto come teologia politica. La rappresentazione del Bene si è proposta come identificazione del Potere con il Bene. “L’effetto della teologia politica è dunque la eticizzazione della politica, cioè il valore etico del potere politico e la pretesa di incarnare il Bene e il Giusto nell’ordine politico” (Bazzicalupo, Politica, 2013, p. 27). Quale incommensurabile distanza con l’etica come riscoperta di un ethos condiviso,

quel presupposto che secondo Böckenförde costituisce il “principio di sostentamento” di ogni Stato, che tiene insieme, simbolicamente, una comunità! Nel Cinque-Seicento il riferimento trascendente viene progressivamente meno, anche a seguito di sanguinose guerre civili di religione. Il Seicento vede l’affermazione della secolarizzazione. Il fondamento di legittimità del potere non è più il Logos, ma il Contratto sociale. L’uomo è artefice e fondamento del potere che legittima, sia pure in un negozio diseguale. Il moderno contrattualismo edifica lo Stato in almeno tre versioni principali. Hobbes descrive il contratto come l’unico rimedio per uscire da una condizione ferina di conflittualità generalizzata e permanente [homo homini lupus]. Lo scambio è tra protezione, cioè sicurezza, e libertà. Nel pactum subiectionis l’individuo consegna al sovrano tutta la sua libertà di scelta. E’ il Leviatano, lo Stato assoluto. Locke descrive un patto diverso, nel quale il conferimento del governo si sedimenta sopra una base inalienabile di diritti naturali, pre-esistenti e dunque prepolitici, come la libertà e la proprietà. La sovranità non può conseguentemente essere assoluta. Ed è il sorgere delle liberal-democrazie, nella versione anglosassone. La Costituzione americana è figlia di Locke, non di Hobbes. Rousseau richiama il principio di autodeterminazione del popolo, e dunque la sovranità popolare, che ne incarna la volontà, è sempre giusta. La volontè generale eccede la somma delle volontà individuali, manifesta un ethos comune che si riconosce e si legittima nella dimensione dell’unità politica. Sarà la base teorica della Rivoluzione francese e la radice lontana dei totalitarismi del Novecento. Come si colloca Thomas More tra questi due estremi, tra questi due fondamenti di legittimità, l’uno trascendente, l’altro immanente? More, pur riconoscendosi nel Logos, lui cattolico, umanista e neo-platonico, tiene ben

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Antonio Casu

distinti i due ambiti: religioso e politico. Non fa sua la commistione tra di essi che ha portato alla crisi dell’antico fondamento di legittimità del potere. Distingue tra la sfera di Cesare e la sfera di Dio. Non usa la religione per il mantenimento dell’ordine politico. E’ questo il sostrato della sua prospettiva, originale e alternativa: l’utopia. L’utopia moreana non è, a priori, il riconoscimento della legittimità del potere politico, di ogni potere, ma la consapevolezza che il potere politico ha comunque un fondamento, e che legittimarlo non cambia la sua ragione d’essere, che è il suo stesso essere potere. Il potere tende ad auto-legittimarsi nelle forme più idonee al suo autosostentamento, e pertanto il suo fondamento di legittimità può cambiare, anzi, in realtà, non può non cambiare. Ma in Thomas More il fondamento di legittimità del potere politico, contingente e relativo, non si riferisce in ogni caso al diritto divino, alla sua radice trascendente. Il potere esprime la sua adesione al Logos per quello che effettivamente realizza, per il suo agire, per le conseguenze del suo operato, non in base alla sua dichiarazione di legittimità, o al fondamento al quale si aggrappa. Dunque, in assenza di un presupposto permanente, che può sussistere ma non sussiste necessariamente, si apre lo spazio della critica sociale e politica, e la rivendicazione di un mondo migliore. Proprio per questo, nel suo “lucido realismo”, come ebbe a rilevare Firpo, il padre dell’utopia moderna indica un non-luogo (fisico) nel quale possa liberamente dispiegarsi la libertà spirituale, la libertà di coscienza. Ecco perché Thomas More. Certo Sir Thomas è un santo, per i cattolici e anche per gli anglicani. Certo è anche un martire, un testimone della sua fede. Ma non è soltanto questo. Se questa fosse l’unica ragione, anzi, non sarebbe realisticamente proponibile ai credenti di altre religioni o confessioni cristiane, e tantomeno ai non credenti, come paradigma per la modernità. E non è

soltanto la ricerca di un campione della cristianità da esibire in momenti di crisi generale, di smarrimento sociale e individuale, come peraltro avviene sempre, direi: necessariamente, in tante circostanze della storia, e come è stato anche per More, dichiarato santo nel 1935, a quattrocento anni esatti dalla sua esecuzione pubblica, nei giorni angosciosi che precedevano la seconda guerra mondiale; e proclamato Patrono dei governanti e dei politici da Giovanni Paolo II nel 2000, nel nuovo mondo che si delineava dopo la caduta del Muro di Berlino, un mondo globalizzato e imprevedibile. Il fatto è che la ragione della sua importanza risiede nel continuum tra la vicenda personale e quella pubblica, e tra queste e il suo pensiero. Certo egli è stato un testimone di libertà. Della sua libertà; ma anche di quella degli altri. Non vi è traccia in More di quella teologia politica descritta da Carl Schmitt. Né quando le cose gli andavano bene; né quando gli andarono male. Si pensi, tra le prime, al tentativo di mitigare - infruttuosamente! - gli eccessi filo-papisti di Enrico VIII durante la stesura della sua Assertio septem sacramentorum, che gli valsero il titolo di Defensor fidei. E soprattutto si pensi ad Utopia, un’isola situata tra la fine della respublica christiana e lo Stato, tra medioevo e modernità: si pensi alla demistificazione del potere e della forza, al peso dato alla sapienza e alla condivisione. E tra le seconde, si pensi alla rivendicazione della libertà di coscienza durante tutto l’iter processuale: per sé, certo; ma non solo, anche per gli altri, con eguale intensità e rispetto. Ecco, in questo Thomas More è antesignano della modernità. Perché lui, così colto, così dotto, così celebrato, non fonda la sua fede sull’imposizione, ma sull’esempio; non sull’esercizio della dommatica, ma sulla coerenza di vita; non sul giudizio, ma sul rispetto. Thomas More non ha usato il suo potere - e che potere, quando era Lord Cancelliere d’Inghilterra! – per imporre le sue convinzioni, quantunque fossero le più

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Thomas More. Il potere e l’utopia

profonde e radicate. E neppure si è servito della fede per sostenere e rafforzare il suo potere, e meno che mai il Potere in generale. Testimone autentico della libertà, sua e altrui. L’umanesimo di More è l’umanesimo rinascimentale, ma la radice di quel movimento di pensiero è a sua volta la radice del pensiero liberale moderno. D’altronde, la traslazione dall’antica teologia politica che legittima al potere ricorrendo al sacro alla moderna teologia politica che pone l’uomo al centro della politica rivela una falsa indole liberale. Sacralizza l’uomo, ne disconosce i limiti. Il potere, delegittimata la trascendenza, divinizza l’uomo, i suoi bisogni. Nulla di ciò in More. La sua libertà è interiore, la sua dignità è intangibile. In More la separazione tra la sfera di Cesare e la sfera di Dio è solida. Il riconoscimento di legittimità dei due ambiti, imperium e sacerdotium è antica (evangelica) e moderna insieme. La religione non è per More instrumentum regni. Non la utilizza per il potere, non la asserve al potere. Per salvaguardare questa distinzione, e con essa la libertà di coscienza, rinuncia al potere. Di più, rinuncia alla vita. Per il suo modo di intendere la

verità, rinuncia alla vita terrena. Il messaggio è universale. La sfera della coscienza è intangibile dal potere. E al contempo non può essere imposta ad altri. More è il fondatore della moderna obiezione di coscienza, ricorda Francesco Cossiga. Ma schiude le porte ad un pensiero liberale autentico, aperto alla coesistenza, al dialogo. More affida la difesa dei suoi valori alla testimonianza, spinta fino al sacrificio estremo, non alla forza. E inoltre, nella distinzione tra le due sfere, nella riproposizione pervicace di una lealtà, spinta all’estremo, per ciascuno dei due ambiti, More è un campione, moderno, di laicità. Laico perché libero, non libero perché laico. E dunque, come disse una volta sempre Cossiga, “un santo campione dello Stato laico”. Per questo, la strada tracciata da More è utile per i contemporanei, proprio perché sfugge al duplice rischio del clericalismo e del relativismo etico, e alle tante improprie commistioni, dal confessionalismo al giurisdizionalismo. Questa accezione della laicità è dunque a salvaguardia della libertà, è paradigma di libertà, di quella religiosa come di quella politica.

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UOMINI E IDEE

Rosaria Catanoso

Ágnes Heller per una vita buona

La corruzione è un male antico. Già Platone, nella Repubblica, distingueva tra un oro incorruttibile, quello della conoscenza e del valore morale, e un oro che contamina, quello delle proprietà e dei beni materiali. Per risanare la corruzione presente nella polis, Platone immaginava che i “custodi” della città dessero il buon esempio. Oggi, più che mai, dobbiamo esigere dai politici la consapevolezza che il loro ruolo pubblico preveda anche una sobrietà di vita. Possiamo e dobbiamo pretendere da tutti, a partire dalla politica, di agire in conformità all’etica. Non solo per arginare la corruzione. Ma prima ancora per progredire insieme agli altri. Consapevoli che perseguire la strada dell’onesta, della correttezza, della giustizia sia più conveniente a soddisfare i nostri bisogni economici e desideri personali. Oggi, tra corruttore e corrotto, non c’è poi così tanta differenza. Il corruttore, del resto, ha la tendenza a giustificare il proprio male. Addirittura non riconosce il proprio atto disonesto, dal momento che la sua condotta trova il consenso del corrotto. Quest’ultimo, a sua volta, minimizza la sua colpa. Si giunge al punto in cui il corrotto si autogiustifica, volendo credere di essersi limitato ad accettare un’offerta. Questa dialettica che lega corrotto e corruttore, in apparenza, porta a ritenere che non sussista un grave danno. In ciò si radica e si estende il carattere contagioso della corruzione. Le leggi possono certo limitare un reato. Ma diventano insufficienti quando si “banalizza” lo stesso. Serve un forte impegno educativo per spezzare questo circolo vizioso. La corruzione si combatte educando persone vigili e critiche, capaci di riconoscere il male, anche quando si cela dietro forme invitanti. Strumento idoneo a

controbattere la corruzione diventa la riflessione - intesa come prassi - nel momento in cui è interrogazione sul vivere quotidiano, degli uomini all’interno della città. Pensiero come pratica con cui immaginare Un’etica per la politica, ricorrendo al titolo di un saggio di filosofia morale di Bertrand Russell1. Un’etica come strumento umano creato per accrescere la cooperazione sociale e l’armonia tra le persone. Le dinamiche sociali e le condizioni storiche in cui viviamo ci interpellano nel ricercare non più formule metafisiche e trascendenti a cui aderire, ma precetti etici “possibili” da attuare. Si può scegliere di agire moralmente, nei nostri tempi, proponendo modelli e pratiche virtuose. Tenendo sempre in considerazione che «senza una moralità civica le comunità periscono; senza una moralità personale la loro sopravvivenza non ha alcun valore. Pertanto moralità civica e moralità personale sono ugualmente necessarie»2.

Alla ricerca di una filosofia pratica

La politica ha bisogno di uomini e donne che scelgano liberamente, che siano in grado di indicare con la loro vita uno stile da seguire. Persone per le quali l’agire «inserito nel contesto globale dell’esperienza umana ha svelato un valore non puramente operativo e pratico, bensì espressivo dell’umanità dell’essere umano»3. Da quanto finora espresso emerge come essere cittadini onesti è possibile solo se primariamente si è uomini buoni. Per riflettere sull’ipotesi dell’esistenza di cittadini onesti che siano al contempo uomini buoni possiamo seguire la riflessione sull’etica proposta da Ágnes Heller. Filosofia profonda ed azione politica in lei si coniugano in modo mirabile.

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Ágnes Heller per una vita buona

Interessata ad un pensiero che si radica fortemente sul principio della responsabilità, Heller ha sempre posto la sua conoscenza al servizio della libertà, della pace, della salvaguardia dei diritti umani. Uomo-società, pensiero-azione, teoria-prassi, giusto-buono, sono le categorie che, come una tavolozza pittorica, rendono variegati e dipingono i suoi scritti con mille pennellate diverse. L’allieva di Lukàcs, inizialmente ha riscoperto la dimensione umanistica della dottrina di Marx. Sotto il profilo filosofico-politico, la riflessione helleriana trova la sua più originale e compiuta formulazione nella teoria dei bisogni.4 L’interesse per il tema dei bisogni, maturato all’interno della Scuola di Budapest, vuol essere una critica al cosiddetto “socialismo reale”. Dalla prospettiva di un “nuovo radicalismo di sinistra”, Heller è giunta ad un rigetto di tutte quelle visioni che possano essere ricondotte alla filosofia della storia. Una tale critica travolge il marxismo stesso. Ritenendolo incapace di liberarsi, in via definitiva, di quei residui di filosofia della storia di stampo hegeliano. Del resto è innegabile che l’autonomia e la libertà, presenti nei bisogni umani, siano in antitesi con qualsiasi visione teleologica. Il tentativo di ritornare a Marx, epurandolo da ogni residuo di filosofia della storia, si mostrerà difficoltoso, a causa della intrinseca problematicità della nozione di bisogno radicale a svincolarsi completamente da tale prospettiva concettuale. In seguito, il suo percorso intellettuale si è venuto notevolmente arricchendo e sistematizzando. Fin quando nell’ultimo bellissimo saggio I miei occhi hanno visto5, con l’ausilio di un’intervista filosofica, ripercorre le

tappe della sua esistenza, costellata dagli eventi tragici del Novecento. Per Heller solo una filosofia che torna a porsi le domande radicali sarà in grado di parlare agli uomini. E scrive: «Qual è la verità? Cos’è l’essere? Cos’è la felicità? Cos’è la morale? Come possiamo descriverle? Come sono possibili? Sono le domande tradizionali della filosofia che non interessano solo i filosofi ma in qualche modo ogni persona che si trovi a riflettere sui fondamenti della sua esistenza»6. Apparentemente sembra presente una cesura fra le opere degli anni ’70 – in cui l’influenza del marxismo, è certamente più evidente, e le riflessioni successive. In particolare, nella fase più recente del suo pensiero si sofferma sulla relazione con l’altro. In verità il suo itinerario filosofico ha come approdo la risoluzione dell’eterna dicotomia tra ambito etico e politico, affinché il vivere insieme miri alla costituzione di istituzioni democratiche e libere. Heller dice che: «l’etica è la condizione del mondo»7. Questo vuol dire che le norme giuridiche e morali fanno sì che l’indi-viduo fuoriesca dall’istintività e si misuri continuamente con i propri limiti, in una crescita continua. Heller, così, vuole superare la distinzione tra la politica e la morale. Ella è consapevole che riabilitare il modello della razionalità pratica significhi andare oltre il dualismo tra l’ambito conoscitivo e l’ambito etico. Tra essere e dover essere. Heller, quindi, vuol difendere principi universali validi in ogni situazione.

Un’etica della contingenza

Poniamoci, insieme alla Heller alcuni quesiti. È possibile credere, a dispetto

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Rosaria Catanoso

dell’individualismo imperante, che la scelta di essere autenticamente se stessi e al contempo di condurre una vita buona, sia attuale? Cosa si deve fare per agire bene? La modernità pretende di fondare solo sull’individuo la validità della norma morale. L’individuo riconosce come arbitro solo la propria coscienza, anche se ciò può verificarsi nelle due forme opposte di arbitro unico e di arbitro ultimo. Nella prima l’individuo è ritenuto l’unica fonte della moralità. Nella seconda, invece, si assume la responsabilità delle sue scelte di fronte ad altri e le giustifica in modo da essere compreso. Così non è l’io ma l’intersoggettività ad essere posta a fondamento dell’agire morale. Due sono i punti fondamentali dell’etica helleriana. Il primo elemento è l’esigenza di fondare l’universalità della bontà. Il secondo è l’esigenza di superare i limiti di un’etica fortemente individualista. Questa è un’etica che ruota intorno all’uomo e alla sua finitezza. E scrive che: «Ogni etica è un’etica del limite. Abbiamo bisogno di una filosofia morale perché siamo esseri finiti; se fossimo immortali, se non fossimo sotto la pressione del tempo, non vi sarebbe bisogno di etica, saremmo tutti buoni e virtuosi. La morte è il limite principale»8. Nell’universo normativo ed etico delineato dalla Heller è possibile coniugare bontà e giustizia9. Esistono uomini, infatti, che sono buoni cittadini. Persone disposte a “scommettere” in un mondo migliore, nonostante la presenza delle ingiustizie. Heller a riguardo dice che: «Se il mondo può essere diverso da com’è, il mutamento può essere ottenuto solo attraverso gli sforzi. È in questo modo che gli stati liberal-democratici, con cittadini uomini e donne sono stati istituiti»10. Il segno che distingue il cittadino passivo dal buon cittadino è l’impegno nel risolvere i problemi di giustizia e ingiustizia di uno Stato. Il buon cittadino si fa carico dei diritti dei più deboli. Aiutando coloro che non riescono ad esporre le loro problematiche. Scoprendo e risolvendo i

loro bisogni. Si impegna, in questo modo, personalmente per loro conto nella sfera pubblica. I buoni cittadini dedicano tempo per dirimere le questioni ingiuste. Con loro continua a vivere lo spazio dell’agorà. Essere un buon cittadino è un impegno politico. Agire politicamente implica anche la capacità di discernere e persino rinunciare a un incarico se questo porti ad atti disonesti e scorretti. Heller ritorna a Socrate e al suo paradosso, secondo cui è giusto patire un torto, piuttosto che commetterlo. Socrate è la figura di uomo che scommette in favore della rettitudine. La rettitudine rappresenta un valore universale, a prescindere dal tempo e dalle circostanze soggettive. Scegliere di subire un torto piuttosto che commetterlo è una definizione formale. Non necessita, inoltre di alcune deduzione razionali. E include tutte le persone che sono, sono state, saranno buone, secondo qualsiasi sistema normativo. Muovendo dal recupero della tesi socratica per la quale è meglio subire un torto che commetterlo, Heller perviene all’affermazione di quel legame fra etica ed estetica che si incarna nella bellezza della persona buona11. Sebbene la bellezza non appartenga necessariamente alla persona onesta, quest’ultima può essere una persona bella o in ogni caso può diventarlo. L’essere retti costituisce, così, il presupposto dell’essere una persona bella; pur non configurandosi come condizione di per sé sufficiente. La bellezza della moralità, intesa come bellezza di una determinata azione, non risiede tanto, o soltanto, nel riconoscimento della bontà di un particolare atto. Ma nel fatto che tale atto è meritevole di lode per la sua bontà. E, in più, per il modo con il quale è compiuto. La relazione contemplativa che intratteniamo con il bello richiede anche un certo tipo di visibilità o di conoscenza, o di udibilità delle azioni morali. Un’azione può essere di suprema bontà, ma se rimane confinata nel campo della segretezza, se non può

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Ágnes Heller per una vita buona

essere “contemplata” non può essere apprezzata dal punto di vista estetico. La dimensione estetica di un’azione è rinvenibile là dove l’atto suscita nell’osservatore non solo apprezzamento, ma anche piacere. Il piacere diviene elemento che consente di valutare colui che agisce non solo come persona buona. Ma anche come anima bella. Colui che sceglie di essere uomo buono avrà cura degli altri. Evitando di nuocere ad altre persone. Mantiene fede alle promesse fatte. Preferisce subire una calunnia pur di non tradire le confidenze di un amico. Non volta le spalle a chi è perseguitato ingiustamente. E ancora dice sempre ciò che pensa, correndo il pericolo di mettere a repentaglio il proprio lavoro e la propria posizione sociale. Un'altra caratteristica dell’uomo buono è riuscire a percepire compassione, nel senso di sentire la sofferenza altrui come la propria. Per giungere, così, ad amare profondamente altri oltre che se stessi. Del resto una persona che non ama non può essere il depositario e l’espressione della norma della bontà umana.

Persone buone: la scelta

Heller è convinta che le persone buone esistono. La loro presenza dà legittimità all’etica. Come sono possibili le persone buone oggi? L’avverbio di tempo indica i mutamenti strutturali della morale. La contingenza costituisce l’elemento essenziale della morale. Infatti nel presente agiscono persone concrete che provano emozioni, gioiscono, soffrono, scelgono, ragionano e parlano. Accettare la scommessa della contingenza diventa l’unico modo perché gli individui della modernità si impegnino in un progetto esistenziale. Nel mondo moderno ognuno progetta il suo percorso individuale, scegliendo cosa voler diventare e come sviluppare le proprie doti. In tutto ciò si sceglie, anche, di voler essere una persona buona. In questa prospettiva scegliere di essere “uomini buoni” diviene la base di tutte le

scelte concrete12. Scegliere se stessi come persone buone è una responsabilità che va intrapresa hic et nunc. Con coraggio e convinzione. Accettando le proprie sconfitte e debolezze, le condizioni più o meno fortunate della propria nascita. Riunendo i talenti e in un progetto di vita unitario e singolare. L’etica elaborata dalla filosofa pone al centro un uomo che si affatica. Volendo per sé una vita unica a dispetto dei modelli propinati socialmente. L’uomo buono è colui che, innalzando la bontà a norma universale del suo agire, non è un santo, non riuscendo ad essere totalmente immune dalle insidie e dai tormenti del mondo contingente. Solo la persona buona può raccontare la vita degli altri e la storia del mondo. Soltanto la persona buona ha la dote dell’empatia, così solo la buona azione tocca il cuore della riflessione filosofica. Tutti sappiamo cosa diciamo quando parliamo di una buona azione. La filosofa ricorre al racconto di tanti uomini buoni che sono vissuti. Raccontare le opere compiute dalle persone buone diviene una sorta di saggezza pratica, con cui asserire che le persone buone si riconoscono dai gesti. Del resto per Heller «non si può scrivere di filosofia morale, se non si hanno figure esemplari di cui far uso per illustrare la bontà morale»13. Si riporta a tal proposito la lettera-testamento presente in Filosofia morale, scritta da un padre, condannato alla morte dentro le camere a gas, alla figlia: «Mia cara figlia Agi, se pensi a me, devi ricordare che, se scegli la strada dell’amore, la tua vita sarà equilibrata e armoniosa, hai solo bisogno di un po’ più di fortuna di quella toccata a tuo padre, e tutto ti andrà bene[…] nonostante tutto ciò che è accaduto negli ultimi anni, non ho perduto la mia fede[…]. Il male può vincere, per il momento, ma sarà il bene, alla fine a trionfare. Ogni persona buona porta il suo granello di sabbia per la vittoria finale»14. Quest’uomo è il padre di Ágnes Heller. Egli vuol testimoniare

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Rosaria Catanoso

un bene a dispetto di un male dirompente e di un orrore dilagante. Un bene che tutela la vita e la libertà. Un bene per il quale si è disposti, con coraggio e responsabilità a rischiare. Superando i confini dell’individualità per aprirsi all’altro, cui si è uniti da legami di mutualità e reciprocità.

«Senza una moralità civica le comunità periscono; senza una moralità personale la loro sopravvivenza non ha alcun valore. Pertanto moralità civica e moralità personale sono ugualmente necessarie» Ágnes Heller

Le virtù civiche per la «vita buona»

Abbiamo visto come la persona onesta sia quella che ha scelto, fra bene e male, se stessa. E ancora come essa si impegni a scegliere valori e norme per ragioni morali. E infine come il tipo di valori e norme riguardino anche la sfera politica e sociale. Soffermiamoci adesso sulle virtù civiche che Heller pone a fondamento dell’uomo buono e del cittadino onesto. Le virtù che la filosofa prospetta sono: «la tolleranza radicale, il coraggio civico, la solidarietà, la giustizia e le virtù intellettuali della disponibilità nei confronti della comunicazione razionale e della phronesis»15. La virtù della tolleranza radicale rimanda al riconoscimento di modi di vita diversi e alla disponibilità a partecipare a un dibattito razionale con gli altri. Per quel che concerne la prudenza, o phronesis, è una virtù necessaria a valutare ponderatamente un evento. Tale virtù è quella che appartiene per eccellenza al cittadino. Man mano che la si usa, la prudenza diverrà tratto caratteristico del cittadino. Altra qualità importante è il coraggio civico, che consente la critica rivolta agli altri, e ai governi. A tal proposito, per Heller «l’individuo dotato di coraggio

civico non ricerca la contrapposizione fine a se stessa. Agisce in base ad una istanza democratica, nella speranza che la giustizia trionfi, che la propria espressione di dissenso venga accolta da altri, che alla giusta causa sia connessa una possibilità di successo. Qualora ciò non avvenga il portatore/la portatrice di coraggio civico manterrà la sua posizione a meno che non lo/la si convinca dell’erroneità di tale posizione»16. Nelle virtù del buon cittadino rientrano, anche, la sincerità e la pazienza. I cittadini, così, attuando le virtù civiche, miglioreranno l’esistenza e la politica negli stati. Dando a tutti la possibilità di vivere liberamente e dignitosamente. Di riconoscersi diversi come uomini, e uguali come cittadini. Agire secondo tali virtù garantisce una vita buona. Sola condizione per essere felici. Note

B. Russell, Un’etica per la politica, Laterza, BariRoma 2008. 2 Ivi, p 20. 3 L. Boella, Il coraggio dell’etica. Per una nuova immaginazione morale, Raffaello Cortina, Milano 2012, p. 73. 4 Á. Heller, La teoria dei bisogni in Marx, Feltrinelli, Milano 1974. 5 Á Heller, I miei occhi hanno visto, il Margine, Trento 2012. 6 Ivi, p. 117. 7 Á. Heller, Etica generale, Il Mulino, Bologna 1994, p. 81. 8 Á. Heller, Una vita per l’autonomia e la libertà. Intervista a cura di V. Franco, in «Iride», 16, 1995, p. 590. 9 G. Costanzo, Ágnes Heller: Costruire il bene. Una teoria etico-politica della giustizia, Edizioni Studium, Roma 2007. 10 Á. Heller, Filosofia Morale, il Mulino, Bologna 1997, cit. p. 213. 11 Á. Heller, “La bellezza della moralità”, contenuto in La bellezza della persona buona, Diabasis, Reggio Emilia 2009, pp. 115-140 12 Á. Heller, L’etica della personalità, l’altro e la questione della responsabilità, in ”La società degli individui”, 1998, n. 2, p. 135. 13 Á. Heller, Filosofia Morale, cit. p. 13. 14 Ivi, p. 15. 15 Á. Heller - F. Feher, “Etica del cittadino e virtù civiche”, in Á. Heller - F. Fehèr, La condizione politica postmoderna, Marietti, Roma 1998, p. 98. 16 Ivi, p. 94. 1

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UOMINI E IDEE

Viviana Meschesi

Etica dei limiti: per una lettura della teoria delle segnature

In questi anni un discreto interesse è andato coagulandosi intorno ad una teoria dimenticata dalla cultura e che diversi autori hanno il merito di aver di nuovo messo al centro del dibattito filosofico: la teoria delle segnature. Ci proponiamo allora di passare in rassegna le diverse analisi dedicate a questo argomento, con particolare riferimento alle intuizioni di M. Foucault, E. Melandri e G. Agamben, per portare alla luce quello che a nostro avviso si propone essere un'ulteriore emersione, nella storia della filosofia, di tutti quei tentativi di esibire l'incontro di istanze troppo spesso declinate in maniera dicotomica o irriducibilmente compromissoria di una visione inclusiva. La teoria delle segnature, posta da Foucault nel cuore della cultura rinascimentale, si pone a nostro avviso come lente ermeneutica di un certo modo di considerare il linguaggio e il suo valore epistemico, nella sua messa in relazione con la riflessione inerente il nesso logica-analogia, così come è stata proposta da E. Melandri1, il quale non a caso ha dedicato alle segnature una parte delle sue riflessioni, e che un pensatore come Agamben ha significativamente declinato prendendo le mosse proprio da tale teoria. Le linee di fondo che questo scritto si propone di far emergere hanno a che fare con la capacità di trasgressione della segnatura dal sistema binario dell' episteme rappresentativa attraverso il suo essere medium tra una costellazione analogica ed un'altra, limitando la polisemia e garantendone un'ermeneutica, nel rispetto della sua ricchezza. La segnatura, intelligenza del limite, si pone come "indice" che allude, sulla base di un sistema semiologico già dato, ad una

data interpretazione che sia efficace; in qualche modo si pone allora come garante di quella relazione logicaanalogia che E. Melandri propone ne La linea e il circolo. La segnatura, trasgredendo continuamente la dimensione semiotica da cui parte, si pone in sempre nuove relazioni ermeneutiche e, come l'allegoria benjaminiana, opera una traslazione che tuttavia allude al contesto di partenza e allo stesso tempo la orienta verso il novum. E l’ethos a cui questo movimento fa riferimento è suggestivamente in linea con quanto analizzato finora, orientando la trasgressione verso la garanzia di pensabilità. E' Foucault il primo a puntare l'attenzione su questo argomento, in Les Mots et les choses2, dedicando diverse pagine alle segnature. In tale contesto, il filosofo francese prende le mosse dal linguaggio, sostenendo preliminarmente l'originaria trasparenza ed inerenza per "similitudine" delle cose ad esso3 (ipotizzando il primato di una pre-babelica scrittura naturale), poi distrutta per castigo agli uomini. Foucault delinea un progressivo oblio di questa concezione, così viva nel XVI sec., in favore di una sollecitazione rappresentativa del linguaggio, rispondente all'istanza significante dei segni. La "sovranità del Somigliante" - prerogativa dell'episteme rinascimentale - da una parte esibendo la sua organizzazione ternaria di dominio formale dei segni, di contenuto da essi segnalato e di similitudini che legano i segni alle cose designate, e dall'altra risolventesi in una figura unica4, si specchia in una disposizione triadica del linguaggio che "infatti, inizialmente esiste, nel suo essere grezzo e primitivo" e si pone come "unico e assoluto", ma "subito dopo, fa nascere

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Viviana Meschesi

due altre forme di discorso che vengono ad affiancarlo: al di sopra di esso il commento [...] e al di sotto il testo"5. Ma tale complessità, ci avverte il Nostro, è destinata a sparire alla fine del Rinascimento, per trovare da una parte una più stabile sistemazione binaria, e non più ternaria, dall'altra rinunciando come linguaggio ad essere "scrittura materiale delle cose" in favore di un regime rappresentativo del segno. Se dunque vi era un tempo in cui l'arte del linguaggio

simpatia/antipatia, alla quale spetta la sovranità e la scaturigine di tutte le forme della somiglianza. Il lavoro di queste similitudini, in particolare grazie al gioco dell'ultimo tipo descritto, dovrebbe garantire quel giusto grado di identità che eviti la univoca assimilazione o dispersione, e tutto ciò non sarebbe possibile, ci avverte il Nostro, "se una nuova figura della similitudine non subentrasse a compiere il cerchio - a renderlo a un tempo perfetto e evidente"8. Occorre un contrassegno che renda riconoscibile la similitudine, "occorre era un modo di "accennare", di significare che le similitudini sepolte vengano qualcosa e a un tempo di disporre dei segni segnalate sulla superficie delle cose"9 e attorno a questa cosa: un'arte quindi di la "segnatura" si pone proprio come nominare e poi, attra"contrassegno visibile verso un raddoppiamento delle analogie invisia un tempo dimostrativo bili"10 e decorativo, di captare Non vi è somiglianza questo nome, di senza segnatura. Il circoscriverlo e celarlo, di mondo del simile non può designarlo a sua volta essere che un mondo mediante altri nomi che segnato.11 ne costituivano la presenza differita, il segno seIl sapere del XVI condo, la figura, che, come abbiamo l'apparato retorico6 già sottolineato, è un ora, nell'arte modersapere "delle somina, solo la letteratura glianze", si fonda a è in grado di comsua volta "sul rilevamento di tali segnapensare il funzionature e sulla loro mento significativo decifrazione"12. del linguaggio. Foucault vede in questo il tentativo di Se è vero che la similitudine è la forma recuperare - tuttavia parzialmente7 - e costitutiva del segno - il vincolo tra mettere al centro l'essere del linguaggio quest'ultimo e ciò che esso indica così come aveva fatto il XVI sec. tuttavia non si risolve in omologia, ma E la teoria delle segnature si situa rimanda ad un'ulteriore somiglianza che proficuamente in questo contesto. trova nella segnatura una forma mediana Le similitudini operanti nell'episteme della somiglianza stessa: del XVI sec. sono da Foucault coagulate [...] tanto che l'insieme dei segni fa slittare, sul in quattro tipologie: la convenientia, che è cerchio delle similitudini, un secondo cerchio che legata alla contiguità spaziale, la duplicherebbe esattamente e punto per punto il aemulatio, somiglianza senza contatto primo, non fosse che per il leggero scarto che operante appunto nella distanza, trasferisce il segno della simpatia nell'analogia, l'analogia, sovrapposizione delle quello dell'analogia nell'emulazione, quello delprecedenti e dunque potente funzione di l'emulazione nella convenienza, la quale polivalenza con universale campo di richiede a sua volta per essere riconosciuta il applicazione, ed infine la coppia segno della simpatia.13 38


Etica dei limiti: per una lettura della teoria delle segnature

Foucault, facendo un ulteriore passo in avanti nella sua analisi delle segnature, individua quella che appare come una caratteristica precipua di tale episteme: la "pletoricità", ovvero la sua illimitatezza, a causa della sua stessa costituzione. Segni e similitudini si avvolgono reciprocamente in una spirale che sembra non avere termine, di qui la "necessità" delle segnature, atte a garantire un sapere, affinché "l'infinita ricchezza d'una somiglianza introdotta come terzo elemento tra i segni e il loro senso sia accordata alla monotonia, la quale imponeva il medesimo profilo della somiglianza al significante e a ciò che esso designava"14. In che modo è possibile tale accordo? Posta l'ermeneutica come "l'insieme delle conoscenze e delle tecniche che consentono di far parlare i segni e di scoprirne il senso" e posta la semiologia come "l'insieme delle conoscenze e delle tecniche che consentono di distinguere dove i segni si trovano, di definire ciò che li istituisce in quanto segni, di conoscere i loro nessi e le leggi di concatenamento"15 per Foucault il XVI sec. ha sovrapposto queste due istanze nella forma della similitudine. Il senso è nel coglimento della somiglianza. Ma il sapere si produce, a ben guardare, proprio nello scarto di questa sovrapposizione.

Tutto sembrerebbe immediato ed evidente se l'ermeneutica della somiglianza e la semiologia delle segnature coincidessero senza la più piccola oscillazione.16

Su questo punto si inserisce, in riferimento al problema delle segnature, un intervento di Enzo Melandri del 197017 e che vale la pena di analizzare al fine di far emergere delle linee di fondo. Melandri vede la segnatura come una specie di "segno nel segno"; essa "aderisce al segno nel senso che indica per mezzo della fattura di questo il codice con cui decifrarlo"18. Per cui essa si delinea come quella variazione, secondo una determinata successione di

assetti strutturali, che rende possibile la correlazione.

La segnatura è [...] quell'indice che, nel contesto di una semiologia data, rimanda univocamente a una data interpretazione.19

La correlazione che Melandri vede tra ermeneutica e semiologia, resa possibile dalla segnatura, equivale alla possibilità di una permeabilità tale da permettere un passaggio dall'ermeneutica alla semiologia e viceversa. Dice Melandri che se l'ermeneutica decifra i segni e la semiologia indica quali cose siano segni e quali no, "i due termini sono correlativi: una cosa è un segno solo se decifrabile, e d'altra parte una cosa è decifrabile solo se è un segno"20. Ma questo movimento non esclude il posizionamento delle segnature, che è un posizionamento nel limite, nello scarto di questa correlazione, che a ben guardare non è tuttavia una coordinazione stricto sensu. Spieghiamo meglio. Mantenendo salda infatti l'idea di una correlazione tra semiologia ed ermeneutica, che non sia tuttavia coordinazione, dove cioè vi sia "simmetria" ma non "biunivocità"21, appare evidente la necessità, per così dire, di una posizione che soddisfi il criterio del tertium comparationis e che si ponga in maniera "trascendentale", pena - ci avverte Melandri - la caduta nell'aporia wittgensteiniana "per la quale la forma della rappresentazione - cioè la segnatura - non può essere in se stessa rappresentata semiologicamente, perchè il sistema dei segni già la esibisce identificandosi"22. E' chiaramente un'ermeneutica (determinata storicamente, come l'episteme) ad essere presupposta alla correlazione stessa. In una concezione ermeneutica, e non più semiologica, continua Melandri, ci si muove nel medio dell'interpretazione, e non del segno, e da qui ne consegue un dato, a nostro avviso, interessante [...] la legalità degli usi segnici può al massimo costituire un ostacolo. Ma non il criterio per lo sviluppo di nuovi codici di lettura. [...]23

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Viviana Meschesi

La trasgressione provoca il collasso della struttura su cui si regge l'episteme in una concezione semiologica; in quella ermeneutica, il principio di coerenza e non contraddizione è meno coercitivo in favore di "una pluralità di livelli interpretativi, ciascuno subordinato a diversi principi e dunque sovraordinato a una diversa semiologia"24. Ed è la segnatura a garantire la specificità di ogni episteme25: essa palesa la variazione struttu-rale della modalità della correlazione, rendendo possibile i modi di essere del sapere. Attraverso la segnatura, l'ermeneutica e la semiologia entrano in una dialettica gnoseologica, garantendo "l'interpretazione" e l'efficacia delle disposizioni generali alle quali va ricondotta ogni episteme. L'efficacia pragmatica della segnatura va di pari passo con la possibilità di dislocazione della relazione semiotica fra signans e signatum in nuovi contesti e nuove reti epistemologiche. Agamben in un saggio dall'emble-matico titolo Signatura rerum26 in concomitanza con l'analisi dei testi di Foucault e Melandri sulla teoria delle segnature, afferma che

[...] la segnatura non esprime semplicemente una relazione semiotica fra un signans e un signatum; essa è piuttosto ciò che, insistendo in questa relazione, ma senza coincidere con essa, la sposta e la disloca in un altro ambito, inserendola in una nuova rete di relazioni prammatiche e ermeneutiche.27

significato in un mondo di rimandi finito. Pena il mutismo. Per Böhme infatti - ci avverte Agamben - il segno è muto: è solo la segnatura che garantisce il senso e dunque la conoscenza. E' un paradigma indiziario, allora, così come è stato riflettuto da C. Ginzburg28, a suggellare la "riemersione" della segnatura dopo la sua totale sommersione ad opera dell'Illuminismo. L'attenzione per il particolare, sintomo di una totalità non immediatamente percepibile ma nel particolare stesso manifestata, divie-ne vero e proprio metodo per autori quali Morelli, Co-nan Doyle e Freud nel senso di ricerca di "tracce: più precisamente sintomi (nel caso di Freud), indizi (nel caso di Sherlock Holmes), segni pittorici (nel caso di Morelli)"29. L'indizio è dunque una segnatura e Agamben indica un esempio emblematico di applicazione del paradigma indiziario: facendo riferimento alle didascalie che accompagnano oggetti e foto raccolti dalla polizia in relazione alle indagini sui delitti commessi da H. Landru (1919) e conservati presso il Cabinet des estampes della Bibliothèque nationale di Parigi30, egli rileva che

l'indizio rappresenta, cioè, il caso esemplare di una segnatura che mette in relazione efficace un oggetto, in sé anodino e insignificante, con un evento (in questo caso un delitto, ma anche, nel caso di Freud, l'evento traumatico) e con dei soggetti (la vittima, l'assassino, ma anche l'autore del quadro). Il Buon Dio, che secondo il celebre motto di Warburg [...] si nasconde nel Se il segno significa poiché porta una dettaglio, è un segnatore.31 segnatura, quest'ultima ne orienta - predeterminandola - l'interpretazione e Le segnature, eccedendo il significato l'efficacia d'uso. E dunque inserisce il ristretto di dimensione semiotica, per40


Etica dei limiti: per una lettura della teoria delle segnature

mettono di mettere in una "efficace" relazione una serie di dettagli con l'identificazione di un individuo o di un evento. Una vera e propria filosofia della segnatura è inoltre ravvisabile, a parere di Agamben, nei frammenti che W. Benjamin ha dedicato alla facoltà mimetica32. Per il filosofo tedesco essa è quella facoltà specificamente umana di percepire somiglianze, la quale nel nostro tempo registra una irreversibile decadenza. E la lingua, così come la scrittura, si svela in tale analisi come un vero e proprio archivio delle somiglianze e delle corrispondenze non-visibili. La somiglianza immateriale in Benjamin funziona così come la relazione indagata da Agamben tra segnature e segni, ovvero come "un complemento irriducibile dell'elemento semiotico della lingua, senza il quale il passaggio al discorso risulta incomprensibile"33. Il semiotico è il portatore (Träger) nel quale, come in un lampo, appare la somiglianza. Nella riflessione successiva di Benjamin, a partire dal Passagen-Werk, le segnature prenderanno il nome di "indici" (Index) o di "immagini" (Bilder)35. La ricerca di Benjamin, descrivibile proficuamente nell'ambito del paradigma indiziario (Agamben ci ricorda a ragione la parentela etimologica tra index ed indicium), è volta al coglimento di quegli oggetti di scarto, secondari, che con più forza esibiscono una segnatura o un indice che li rimanda al presente, permettendone il coglimento, seppur fugace. Ci sembra appropriato arricchire la riflessione di Agamben su Benjamin, sostenendo che anche nell'allegoria -tropo centrale della riflessione benjaminiana - in contrasto al "simbolo plastico" è possibile ravvisare l'intelligenza delle segnature36. Tale concezione dell'allegoria, differentemente dall'interpretazione tradizionale che la descrive come "metafora continuata", mostra sfiducia nei confronti del paragone esplicito, facendole preferire la creazione di dissimiglianze paradossali e facendola

dunque deporre evidentemente per un potenziamento polisemico all'interno del linguaggio. L'associazione arbitraria, che da una parte distrugge la struttura, dall'altra cerca nel dettaglio la Darstellung della verità nel medium del fenomeno in una previa dimensione di incompatibilità tra idea e concetto, tra avere e essere della verità. Darstellung che rende ragione di un complicato mosaico ove la capricciosa varietà delle singole tessere non lede la maestà dell'insieme,37

e dunque, come segnatura, mette in relazione una serie di dettagli con l'intero. Segnatura come dislocazione di tracce in una nuova rete ermeneutica che allo stesso tempo potenzi e limiti una polisemia. Aggiungiamo così un ulteriore tassello alla nostra riflessione: se è vero dunque ciò che afferma Agamben e cioè che "la teoria delle segnature [...] interviene [...] a rettificare l'idea astratta e fallace che vi siano dei segni per così dire puri e non segnati, che il signans significhi il signatum in modo neutrale, univocamente e una volta per tutte”38, si tratterà allora di ripensare tale relazione. Ci sembra di poter definire, a questo punto, tale relazione come rapporto con un certo grado di polisemia già dato - che limita necessariamente l'azione ermeneutica- e che allo stesso tempo ne garantisce quella sufficiente ricchezza. Foucault non esita a rilevare infatti un nodo: sembrerebbe infatti che questo mondo che si regge sulla somiglianza e che ne ha fatto il fulcro della sua episteme, tradisca in ultima analisi un "sapere [...] sabbioso [...] condannato a non conoscere mai altro che l'identico"39 e per di più solo al termine di un percorso di cui non si scorge il termine.

La somiglianza non dimora mai stabile in se stessa; resta fissata soltanto se rinvia ad un'altra similitudine, che a sua volta ne richiede di nuove.40

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Viviana Meschesi

of the doctrine of signatures runs as follows: this theory, placed by M. Foucault at the heart of Renaissance culture, can be understood as an hermeneutical lens in order to consider a certain way to intend the language and its epistemic value. Moreover its connection to the reflection about logic and analogy, such as E. Melandri thinks about, lies at the heart of the discussion and is analyzed very deeply by G. Agamben. The main theoretical consequence behind this orbidden by culture, is analyzed by some authors, that have placed this doctrine at the centre of an interesting debate. In particular this study focuses on M. Foucault’s, E. Melandri’s and G. Agamben analysis about the doctrine of signatures, with the aim to underline a further emergence , in the history of philosophy, of instances too often interpreted in a dichotomic way. My argument in favor of this interpretation of the doctrine of signatures runs as follows: this theory, placed by M. Foucault at the heart of Renaissance culture, can be understood as an hermeneutical lens in order to consider a certain way to intend the language and its epistemic value. Moreover its connection to the reflection about logic and analogy, such as E. Melandri thinks about, lies at the heart of the discussion and is analyzed very deeply by G. Agamben. The main theoretical consequence behind this doctrine is signature’s possibility of transgression from the binary system of epistemic rationality, because it can be a medium between an analogic constellation and an another. Consequently this is related to a limitation of polysemy in order to define an Ethics of the Limits: an hermeneutics. Signature is interpreted as an interpretation of the doctrine of index, starting from a strengthened semiotic dimension, that alludes to a certain signatures. interpretation that must be incisive. In this paper the discussion centers on the Furthermore this provides the connection doctrine of signatures. This theory, apparently between logic and analogy. On the whole signature, breaking the starting forbidden by culture, is analyzed by some authors, that have placed this doctrine at the semiotic dimension, builds new hermeneutical centre of an interesting debate. In particular links: in fact, I argue that this mechanism, such this study focuses on M. Foucault’s, E. as the benjaminian allegory, achieves a Melandri’s and G. Agamben analysis about translation that always alludes to the starting the doctrine of signatures, with the aim to context, but at the same time points this underline a further emergence , in the history of translation to a novum. philosophy, of instances too often interpreted Moreover this view is in line with a specific ethos, that directs the transgression to a in a dichotomic way. My argument in favor of this interpretation warranty of thinkability.

Tale valore di accumulazione infinito, ci rimanda a quella dittatura dell'analogia che Melandri ne La Linea e il circolo41 considera una conseguenza di una noncorrelazione tra logica e analogia, in particolare riferendosi alla storia dell'Oriente dove una razionalità analogica libera dalla "funzione inibitrice della logica", ha condotto sì a precocirispetto all'Occidente - altezze razionali quali la conquista dello zero assoluto e dell'infinito, per implodere tuttavia nel "silenzio e nulla del nirvana". La segnatura allora si pone come necessario argine alla proliferazione monotona del simile attraverso un "aggancio" ad una rete definita di relazioni ermeneutiche. Tale aggancio se pensato in un contesto più ermeneutico che semiologico, così come abbiamo cercato di chiarificare, permette nel necessario movimento trasgressivo proprio di ogni tentativo di avvicinare il limite, luogo naturale della segnatura stessa, di non implodere nella sua stessa struttura ma, nell'accettazione dell'inclusione del terzo in un sistema imposto come binario, di svilupparsi in una pluralità di livelli interpretativi propri di un sapere che prenda sul serio il linguaggio ma che non voglia rinunciare ad un’istanza veritativa di orientamento.

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Note

Etica dei limiti: per una lettura della teoria delle segnature

E. Melandri, La linea e il circolo. Studio logicofilosofico sull’analogia, Il Mulino, Bologna 1968. 2 M. Foucault, Les mots et les Choses: une archeologie des sciences humaines, Gallimard, Paris 1966; trad. Le parole e le cose, Bur, Milano 1967. 3 "Nella sua forma originaria quando fu dato agli uomini da Dio stesso, il linguaggio era un segno delle cose assolutamente certo e trasparente poiché assomigliava ad esse”, ivi, trad., pag. 50. 4 "[…] poiché la somiglianza costituisce tanto la forma dei segni quanto il loro contenuto”, ivi, pag. 57. 5 Ibidem. 6 Ivi, pag. 58. 7 "[…] non vi è più ora infatti quella parola prima, interamente iniziale, la quale fondava e circoscriveva il movimento infinito del discorso, il linguaggio è ormai destinato a proliferare senza origine nè termine nè promessa. E' il percorso di tale spazio vano e fondamentale a tracciare di giorno il testo della letteratura", ivi, pag. 59. 8 Ivi, pag. 40. 9 Ibidem. 10 Ibidem. 11 Ibidem. 12 Ivi, pag. 40-41. 13 Ivi, pag. 43. 14 Ivi, pag. 46. 15 Ivi, pag. 43-44. 16 Ivi, pag. 44. 17 Enzo Melandri, Nota in margine all'Episteme di Foucault, in "Lingua e stile", V, 1, 1970, 145-156. 18 Ivi, pag. 147. 19 Ivi, pag. 148 20 Ibidem. 21 Ne La linea e il circolo, op. cit., leggiamo infatti: "Da una parte non c'è ermeneutica senza semiologia: come potremmo rendere espliciti i canoni interpretativi se non disponessimo di un veicolo segnico, relativamente ai "significanti" del quale si definisca il criterio di lettura? D'altra parte è vera anche la conversa: non c'è semiologia senza ermeneutica. Come potremmo infatti, fare di una cosa il segno significante di un'altra (il "segnale, l'"indice", l'"icona", il "simbolo", il "nome", o l'"allegoria") o, ancor peggio, di un fenomeno il "sintomo" di qualcosa di trans-fenomenico, se non disponessimo di un codice relativamente al quale si definisca l'interpretazione?”, ivi, pag. 79. 22 E. Melandri, Note in margine all’episteme, op. cit., pag. 148 23 Ivi, pag. 149. 24 Ibidem. 1

Anche se in una nota Melandri specifica che Foucault utilizza tale termine solo in relazione all'episteme rinascimentale, pre-scientifica, rispetto alla scienza moderna. E' questo uno dei punti su cui Melandri opererà una "generalizzazione”. 26 G. Agamben, Signatura rerum. Sul metodo, Bollati Boringhieri, Torino 2008. 27 Ivi, pag. 43. 28 C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, Einaudi, Torino 1979; cfr. Agamben, op. cit, pag. 69-73. Si veda anche, per una contestualizzazione del paradigma indiziario all’interno della correlazione logica-analogia V. Meschesi, Sistema e trasgressione. Logica e analogia in F. Rosenzweig, W. Benjamin ed E. Levinas, Mimesis, Milano 2010, pag. 17 e sgg. 29 C. Ginzburg, op. cit., pag. 66. 30 "Si tratta di una serie di piccole vetrine sigillate simili alle cornici di un quadro, in cui sono classificati in perfetto ordine spille da balia, bottoni, pigini e graffette di metallo, frammenti di ossa, fiale contenenti polveri e altre minuzie del genere. Qual è il senso di queste piccole collezioni, che ricordano irresistibilmente gli oggetti onirici dei surrealisti? Le didascalie che accompagnano ogni vetrina non lasciano dubbi: si tratta di frammenti di oggetti o di corpi che, come indizi o tracce, intrattengono un rapporto particolare con il delitto", Agamben, op. cit., pag. 72. 31 Ivi, pag. 71-72. 32 W. Benjamin, Sulla facoltà mimetica, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, pag. 71-74. 33 G. Agamben, op. cit., pag. 74. 34 W. Benjamin, Das Passagenwerk, in Gesammelte Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1987, trad. I “Passages” di Parigi, Einaudi, Torino 2000. 35 Agamben ci ricorda inoltre la II tesi Über den Begriff der Geschichte "Il passato porta con sé un indice segreto che lo rimanda alla redenzione", in Gesammelte Schriften, op. cit., trad. Tesi sul concetto di storia, in Angelus Novus, op. cit., pag. 76. 36 Per una più approfondita analisi del concetto benjaminiano di allegoria nel più ampio contesto di una relazione di logica-analogia segnata dal paradigma indiziario, si veda V. Meschesi, Sistema e trasgressione, op. cit., pag. 125-188. 37 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiel, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1974, trad. Il drama barocco Tedesco, Einaudi, Torino 1999, Premessa gnoseologica, pag. 4. 38 G. Agamben, op. cit, pag. 65. 39 M. Foucault, op. cit. pag. 45. 40 Ivi, pag. 44. 41 E. Melandri, op. cit. 25

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LE MASCHERE DELL’ARTE

Gordiano Lupi

La morte del cinema di genere

Un cinema di genere che non c’è più. Almeno in Italia, perché negli altri Paesi (USA, Francia, Germania, Spagna) le varie cinematografie tengono ben strette le tradizioni culturali. Dite a un regista spagnolo di rinunciare al mélo (li fa persino Almodovar!), o a un francese di non fare avventurosi, noir, cappa e spada, a un americano di non girare cinema bellico, western, fantastico. Noi ci siamo giocati persino il melodramma di Matarazzo e Visconti (Catene, Rocco e i suoi fratelli), per non parlare del neorealismo rosa (ucciso dal correre del tempo) e conviviamo con quel che resta della commedia all’italiana (ridotta a brandelli). Il cinema di genere non esiste più. O meglio, si è trasferito in televisione, ultima frontiera – fiction del genere, che replica se stessa al cinema con i famigerati televisionmovie di Brizzi, Genovese, Russo e compagnia cantante. La fine del cinema di genere è diretta conseguenza della scomparsa dei produttori indipendenti, dei magnati che investivano in cinema e di tanti scellerati avventurieri. In cambio è rimasto il produttore unico nazionale: la televisione, sia RAI che Mediaset. Ogni tanto qualche Film Commission fa da supporto economico, ma il vero produttore resta mamma TV. Adesso si produce soltanto per la televisione, lo scopo è farsi acquistare il film da una

rete generalista o tematica; servono confezioni curate (nemmeno più di tanto), soprattutto innocue, per tutti, non sconcertanti, né sanguinolente, adatte a passaggi televisivi senza tagli, a ogni ora del giorno. Sono rimasto allibito nel vedere su SKY La stanza delle farfalle di Gionata Zarantonello, a notte fonda, certo, ma senza tagli. Le eccezioni provengono da registi indipendenti che lavorano in digitale, autori di pellicole persino sequestrate (Morituris del bravo Picchio), in ogni caso boicottate, sforbiciate, di solito destinate all’oblio. Tulpa di Zampaglione è una di queste, ma anche Shadow e Paura 3D dei Manetti Bros. Film dignitosi, un tempo da sala cinematografica nel fine settimana, adesso si spartiscono le briciole del niente. Resta Dario Argento, ma su di lui meglio stendere un pietoso velo. Meglio ricordarlo ai tempi di Fulci. Meglio pensare che avrebbe avuto la forza e il potere di costruire una factory. Non l’ha fatto. Ed è la sua colpa più grande. Non è stato sempre così. In Italia avevamo un fiorente cinema di genere. Basti pensare alle varie sfaccettature della commedia, ideate per far sorridere mostrando le gambe delle attrici, in costume da bagno (la commedia balneare di Luciano Emmer) come in abito greco – romano (il peplum di Campogalliani, Freda…), in un’Italia che

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Gordiano Lupi

chiedeva erotismo e liberazione sessuale. Non solo. Pasolini girava il Decameron e registi minori s’inventavano il decamerotico, estremizzando le scene di erotismo e i contenuti salaci del modello colto. Tinto Brass girava Salon Kitty, la Cavani Il portiere di notte, e subito veniva fuori il nazi-erotico (da alcuni chiamato erroneamente nazi-porno), che portava alle estreme conseguenze la tematica lesbica, sadica, violenta di un campo di concentramento nazista. Per non parlare del prison-movie, detto più spesso women in prison, alto o basso che fosse, da Rondi a Mattei, costruito su trame abbastanza simili con protagoniste donne tra le sbarre. Erotismo lesbico e sadismo alla base delle storie. Generi e sottogeneri, quindi, come la commedia sexy, che deriva dal decamerotico (in salsa moderna), ma si specializza in erotico – campagnolo (La nipote di Nello Rossati) peccati in famiglia, tonacamovie (monache nel peccato), sexy scolastico, infermieristico, sexy ospedaliero, sexy militare, malizie perverse (storie di lolite desunte da Nabokov passando per Samperi)… Non dimentichiamo le tante commedie erotiche di ambientazione esotica, trame anche serie e introspettive alla base dell’esotico – erotico, ma anche erotici – patinati a imitazione de La chiave di Tinto Brass (fenomeno anni Ottanta, portato avanti da D’Amato e Gaburro). Prima c’era stato il musicarello, basato su una canzone o su un cantante di successo, che portava al cinema schiere di fan e tante ragazzine innamorate del divo di turno. E che dire dell’intero ciclo degli Emanuelle movies, con una emme sola, inventato da Massaccesi con l’attrice feticcio Laura Gemser? Imitazione pura, ma con un suo perché. Citiamo il filone esorcistico, sottogenere del cinema horror, nato sull’onda del successo de L’esorcista, con pellicole di buon livello come L’anticristo e L’ossessa e persino una parodia efficace come L’esorciccio di Ciccio Ingrassia. Siamo nel campo della commedia – horror: altro sottogenere! Non dimentichiamo le commedie che

prendono il nome da un attore: Buzzanca-movie, Pozzetto-movie, Celentano-movie, persino Dorelli-movie. Marco Giusti ha inserito nel suo Stracult anche termini come Guida-movie per il cinema sexy della bionda attrice meranese. Mi sento di condividere, mentre non esiste un Fenech-movie, visto che sono troppo diverse le tematiche da pellicola a pellicola. Non va scordato il cinema comico di Franco & Ciccio, vero e proprio sottogenere parodistico, pronto a replicare ogni successo cinematografico. Il melodramma incontrava la sceneggiata napoletana nei Merola-movie, ma anche il musicarello nei Nino D’Angelo-movie. Tutto finito. Tutto dimenticato. Vediamo i generi veri e propri che hanno fatto la fortuna del cinema italiano, i generi classici che adesso Tarantino omaggia: horror (Deodato, Bava, Freda, Fulci…), poliziottesco (Massi, Lenzi), noir (Di Leo), western (Leone, Carnimeo…), bellico (Castellari), avventuroso, cappa e spada, con i sottogeneri degli Zorro-movie e a un certo punto pure dei Vietnam-movie girati nelle Filippine (Mattei, Margheriti). Bruno Mattei è il regista simbolo del cinema di genere, perché l’ha fatto fino alla fine, sfruttando le varie tipologie fino all’esaurimento, lasciando il suo pubblico mentre era ancora alle prese con uno zombi-movie girato alle Filippine insieme al fido Antonio Tentori. Ricordiamo sottogeneri tutti nostri come il lacrima-movie, commistione di melodramma e di pellicole stile Love Story, racconti strappalacrime di bambini che muoiono tra atroci sofferenze e di famiglie distrutte, persino partendo da una canzone (Piange il telefono) o da geniali intuizioni (Il venditore di palloncini, Bianchi cavalli d’agosto, L’ultima neve di primavera, L’ultimo sapore dell’aria). Raimondo Del Balzo è il mentore del sottogenere, ma non mancano incursioni di registi insoliti come Martino e Deodato. Film che riscuotono un grande successo per un breve

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La morte del cinema di genere

periodo e che vengono esportati all’estero, soprattutto in Giappone, dove si vendono i biglietti insieme ai fazzoletti. Che dire invece del cannibalmovie, inventato da Martino, Deodato e Lenzi? Il primo esempio horror – avventuroso che anticipa il cannibalmovie è Il paese del sesso selvaggio di Lenzi. Genere tutto italiano, imitato ovunque, soprattutto nelle Filippine e nei paesi asiatici. Genere fero-ce, reportage terrifi-cante dalle zone più disparate del globo. Genere che deriva dal mondomovie di jacopettiana memo-ria (Mondo cane) e anche dai tanto vituperati mondo sexy di notte. Ci dimentichiamo di qualcosa. Restando all’horror non possiamo fare a meno di citare il gotico (Freda, Bava…), d’ispirazione nordeuropea, tra castelli cadenti, spettri, streghe e oscure apparizioni; lo splatter (Bava junior con Demoni 1 e 2), il gore (Fulci docet con L’aldilà, Non si sevizia un paperino, Lo squartatore di New York), ma anche lo stupro e vendetta (Non violentate Jennifer, L’ultima casa a sinistra, La casa sperduta nel parco), che il giovane Picchio cita a non finire in Morituris. Dimentico il postatomico e tutto il cinema fantascientifico, caro a Luigi Cozzi e Alfonso Brescia, ma che in Italia non è mai stato facile realizzare per carenza di fondi. E il barzelletta-movie? Altro genere italiano al cento per cento, per dirla con

Abatantuono e il suo terrunciello milanese, che pure lui ha costituito un sottogenere. Il cinema di Pierino, ma anche il più alto modello di Fantozzi sono tipologie cinematografiche tutte italiane che non possiamo limitarci a definire farsa. E infine l’ultima frontiera del genere: il porno, il cinema hard che nasce con la trama (Joe D’Amato e i film caraibici), per finire nello squallore del tutto sesso senza uno straccio di sceneggiatura. La fine del cinema di genere è anche la fine delle salette di terza categoria, i cinemini di paese stile Nuovo Cinema Paradiso. La morte dei cinema che passavano western, peplum, horror, commedie sexy e verso la fine degli anni Settanta (e i primi Ottanta) persi-no il porno, per trasformarsi negli anni Novanta e Duemila in centri commerciali, parcheggi o profumerie. Non ci resta che la televisione. E accanto allo squallore del piccolo schermo, la passione di molti giovani intraprendenti: Picchio, Simone, Fratter, Albanesi, Zarantonello, Zampaglione, Bianchini, Nero, Tagliavini, Piana, Bessoni.

* L’articolo esce in contemporanea anche su “Futuro Europa”, Quotidiano online di politica e cultura - www.futuro-europa.it/

L’autore dell’articolo ha un suo blog “La Cineteca di Caino”

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L’OCCHIO DELLA STORIA

Carlo Vallauri

La tragedia delle foibe nella rievocazione di Paolo Mieli

Dopo aver relegato la trasmissione sulla giornata del ricordo delle foibe alle ore notturne, per farla conoscere quindi al numero più basso dei fruitori del servizio pubblico nazionale, la RAI ha, il giorno successivo, invece affidato a Paolo Mieli, al mezzogiorno della domenica, una rievocazione storicamente ineccepibile. Lo storico ha ricordato che violenze squadriste e la persecuzione ventennale subíta dagli slavi inseriti dal 1919 alla seconda guerra mondiale nel Regno d’Italia (basti pensare che la maggior parte dei condannati a morte dal tribunale speciale fascista appartenevano proprio a quella minoranza etnica), risalendo quindi alla radice del risentimento che ne era naturalmente scaturito, e poi ha descritto con molta precisione il succedersi di quegli infausti eventi sia subito dopo l’8 settembre ’43 sia ai primi di maggio del 1945 quando le autorità militari alleate accondiscesero alle richieste di far arrivare per primi a Trieste i partigiani jugoslavi. Una serie di eventi drammatici sui quali peraltro vi è una ampia bibliografia storica, oltre che di indubbie pagine di grandi scrittori, a cominciare da Claudio Magris: l’infamia di quei fatti costituisce una delle pagine orribili dei “nostro” Novecento ed ancora una volta abbiamo avuto modo di constatare come per molti italiani (soprattutto i giovani) si trattava di “novità” assolute, ma queste constatazioni appartengono al nostro passato, perché adesso si preferisce guardare alle bellezze piuttosto che alle pagine nere. Dicevamo che il servizio di Mieli, con

la consulenza di un altro storico, Giovanni Sabbatucci, ha saputo ben puntualizzare origini, caratteri e aspetti politici di quella esperienza, specie per quanto riguarda le conseguenze delle decisioni allora stabilite nei cosiddetti trattati di pace. Indubbiamente la complessità dei rapporti tra gli Stati interessati spiega come l’intero problema della divisione di quei territori si sia poi prolungato dai trattati di Parigi agli accordi di Osimo, firmati per l’Italia dal Presidente Moro. Influì naturalmente sul protrarsi delle dispute al riguardo anche la personalità del maresciallo Tito (uno dei veri “vincitori” usciti da quegli eventi) alla cui causa si dovette piegare in quella circostanza qualsiasi altra posizione quando si trattò di stabilire quali unità militari dovessero entrare per primi nella città giuliana. La condizione di profughi costretti dapprima a salvarsi con la fuga poi a cercare una nuova vita anche lontano (specie in Australia) avendo constatato come essi non fossero bene accolti in parecchie città italiane appartiene alla logica spietata dell’esito dei conflitti. Ma ogni volta che riemergono i particolari di quegli eccidi colpisce la spietata crudeltà a danno dei nostri connazionali. E le conseguenze nefaste di certe violenze (come quelle precedenti ai fatti narrati) non vanno dimenticati se si vuol scrivere la storia per quello che è accaduto veramente, e per risalire alle indubbie responsabilità di singoli come di gruppi politici o etnici. Le parole sobrie di Mieli hanno contribuito a dare all’intera trasmissione il senso di una constatazione storica ineccepibile.

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LETTURE

Carlo Vallauri Emanuele Severino, La potenza dell’errore. Sulla storia dell’Occidente, Rizzoli 2013

Questo libro è un autentico colpo al centro tra “verità” di principî e “realtà” dei fatti. Punto di partenza è il fiore colto nella sapienza filosofica e poetica in un mondo sempre più guidato dalla tecnica, argomento prezioso al quale il filosofo ha in passato dedicato alcune delle sue pagine più ricche e profonde. Naturalmente lo “scambio delle parti” avvenuto nel farsi degli eventi riconduce inevitabilmente, nella nostra civiltà, al cristianesimo da un lato, e all’islam all’altro visti nella stagione di inserimento nella modernità contro cui tuttavia – osserva l’autore – oggi cristianesimo e islam si trovano alleati. La potenza “cieca” della tecnica involge ogni nostro atto è infatti le macchine razionali si sono trovate di fronte “uno Stato sempre più obsoleto rispetto ai bisogni della società civile”. Siamo ancora in grado di comprendere ciò che avviene attorno a noi? Il dubbio è lecito giacché le forze del capitale e del lavoro perseguono strade differenti anche se efficienza e solidarietà indurrebbero ad una maggiore integrazione. Il prevalere di “governi tecnici” dimostra il superamento delle condizioni nelle quali nei tempi trascorsi si erano inviluppate speranze andate deluse. Tra Europa, Russia ed America le identità si sono andate confondendo, al di là delle rispettive forze e delle potenziali aspirazioni. Al di là del nichilismo serpeggiante le fedi non sono venute meno perché vi è un fatale “eterno ritorno”, osserva con lucido acume Severino. Ma il destino mostra sempre i suoi segni dalla “necessità” nell’essere alla “concretezza dell’errore”. Ecco il punto dolente e insuperabile della “necessità” che si frange davanti a noi. E nel “contenuto dell’interpretazione” che si

rende palese la dimensione del farsi della storia, come la viviamo nella realtà. Si guardi in particolare – scrive il filosofo – alla difficoltà di andare “oltre l’essenza”. E qui torna l’attenzione all’Occidente nella continuità storica e filosofica del pensatore. Così relativismo, evoluzionismo e realismo tornano nel gioco di quella “istoria filosofica dell’umanità” nel cui ambito vive il nostro presente. Così si modifica anche il modo d’intendere “la bellezza” ed il “mondo”. Citazioni ricche, vibrazioni intense, di anime, e di sentimenti di contro alle politiche giustificatrici. Ma le competenze “tecniche” prevalgono nella pluralità dei concetti diffusi e nello sforzo di comprensione e compenetrazione dei concetti. Le regole sembrano ormai scomparse di fronte all’avanzata delle tesi galoppanti sull’onda dei media. Ecco l’altro elemento dolente. La fine scrittura del filosofo colpisce per la nettezza dei suoi giudizi: nell’insieme il discorso dei pensatori citati riconduce ai grandi temi che ritornano alla “contraddizione” propria del “pensiero”. La distinzione della “necessità e libertà” dall’errore mantiene alto il livello del linguaggio, nel contrasto tra “destino” e “alienazione”. Qui è il punto critico del nostro essere. Tutta la grande disputa ideologica riporta – come rileva Severino – alla contingenza degli eventi rispetto all’esprimersi delle libere volontà. Qui si attorcigliano allora i nodi quando il nostro maggior filosofo cerca di penetrare nelle “cose segrete” dimostrando che esse “sono peraltro manifeste ed in piena luce nel più profondo d’ogni essere umano”. La filosofia non ammette sconti tra “errore” e “verità”. Pagine potenti di realismo – osserviamo – di idee e percorsi al fine di mantenere quelle distinzioni fondamentali, in base alle quali non può sussistere alcun infingimento. Ecco allora “verità” contro “errore”, come nel pensiero filosofico.

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Copertina del n. 1-1956 di TEMPO PRESENTE diretto da Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte


Copertina del n. 1-1980 di TEMPO PRESENTE diretto da Angelo G. Sabatini


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