N. 407-408 novembre-dicembre 2014
euro 7,50
TEMPO PRESENTE
LE MUSE E IL MINISTERO * SILENZIO E POLITICA * VIAGGIO INTORNO ALL’UOMO * MARGINALIA * FRAMMENTI * GARIBALDI * ORONZO REALE * ETICA POLITICA DEMOCRAZIA * “LA BUONA SCUOLA” * LETTURE
a. aghemo r. balduzzi g. bianco a. casu g. cotroneo g. di bella m. di michele g. jannuzzi m.g. melchionni g. monsagrati g. pagliano a. patuelli f. pezzuto j. rastrelli a.g. sabatini s. traversa l. violante Spedizione in abbonamento postale: comma 20, lett.B, art.2 legge 23 dicembre 1996, numero 662, Filiale di ROMA
DIRETTORE RESPONSABILE
Angelo G. SABATINI
COMITATO EDITORIALE
Alberto AGhEMO - Angelo AIRAGhI - Giuseppe CANTARANO Antonio CASu - Girolamo COTRONEO - Elio D’AuRIA - Teresa EMANuELE Alessandro FERRARA - Gaetano PECORA Luciano PELLICANI - Angelo G. SABATINI - Attilio SCARPELLINI CONSIGLIO DEI GARANTI
hans ALBERT - Alain BESANçON - Enzo BETTIzA Karl Dietrich BRAChER - Natalino IRTI - Bryan MAGEE Pedrag MATVEjEVIC - Giovanni SARTORI REDAzIONE
Coordinamento: Salvatore NASTI Angelo ANGELONI - Paola BENIGNI - Matteo MONACO - Francesco Russo Marco SABATINI - Guido TRAVERSA - Andrea TORNESE - Sergio VENDITTI COORDINAMENTO GRAFICO ED EDITORIALE
Salvatore NASTI
PROPRIETà: Tempo presente s.r.l. - Casella postale 394 - 00187 Roma Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 17891 del 27 novembre 1979 La collaborazione alla Rivista, in qualunque forma, è a titolo gratuito. Direzione, redazione e amministrazione: Via A. Caroncini, 19 - 00197 Roma tel. 06/8078113 - fax 06/94379578 Stampa: Pittini Digital Print Viale Ippocrate, 65 - 00161 Roma (RM)
Prezzo dei fascicoli: Italia € 5,00; doppio € 7,50 - Estero € 6,50; doppio € 10,00 Arretrati dell’anno precedente: il doppio Abbonamento annuo: Italia € 25,00 - Estero € 44,00 Abbonamento sostenitore € 100,00 L’abbonamento non disdetto entro il 30 novembre dell’anno a cui si riferisce si intende tacitamente rinnovato. Spedizione in abbonamento postale: comma 20, lett. B, art. 2, legge 23 dicembre 1996, n. 662, Filiale di Roma Chiuso in redazione il 10 gennaio 2015
TEMPO PRESENTE
Rivista mensile di cultura N. 407-408 novembre-dicembre 2014
PRIMA PAGINA ALBERTO AGHEMO, Le Muse e il Ministero. Evoluzione e rivoluzione dei Beni Culturali, p. 3
COMMENTO GIROLAMO COTRONEO, Il silenzio: una categoria politica? p. 6 ANGELO G. SABATINI, Viaggio intorno all’uomo, p. 10 CORSIVO GIOVANNI JANNUZZI, Buon Anno 2015, p. 20
OSSERVATORIO JACQUELINE RASTRELLI, Tunisia: Rivoluzione dei Gelsomini, atto secondo, p. 22 GABRIELE DI BELLA, La Città dalle sette vite, p. 24 MARGINALIA ANTONIO CASU, I volti del Gattopardo. Le origini del trasformismo, p. 26 FRAMMENTI ANGELO G. SABATINI, Frammenti di sicurezza, p. 27
UOMINI E IDEE GIUSEPPE MONSAGRATI, Garibaldi, p. 28 MARIA GRAZIA MELCHIONNI, Oronzo Reale, p. 32 PRESENTAZIONE DEL LIBRO Etica Politica Democrazia di Antonio Casu, p. 36 SILVIO TRAVERSA - ANGELO G. SABATINI - GERARDO BIANCO LUCIANO VIOLANTE - RENATO BALDUZZI ANTONIO PATUELLI - ANTONIO CASU DISCUSSIONE FRANCESCO PEZZUTO, “La Buona Scuola” del governo Renzi. p. 49
LETTURE GRAZIELLA PAGLIANO, L’assalto al cielo. Donne e uomini nell’emigrazione italiana, di Andreina De Clementi, p. 54 MAURIZIO DI MICHELE, Calcio criminale, di Pierpaolo Romani, p. 55
PRIMA PAGINA
Alberto Aghemo
Le Muse e il Ministero. Evoluzione e rivoluzione dei Beni Culturali
Muse si aggirano inquiete tra siti d’arte, musei, chiese, ruderi e nobili palazzi. Da quando il Mibac ha guadagnato un “t” ed è diventato il Ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo, molte cose sono successe in Italia e un’inusitata accelerazione si è impressa alla percezione ed alla gestione del “bene culturale”. Il binomio cultura e turismo, certo non una novità sotto i cieli del Bel Paese, sembra ormai destinato, con la definitiva conversione in legge del decreto cultura, a declinarsi in modo affatto nuovo. Con la nuova legge (l. 106/2014), proposta e fortemente voluta dal ministro Dario Franceschini, arrivano novità significative per i beni e le attività culturali ed il turismo, a cominciare dall’ArtBonus, che prevede la deducibilità del 65% delle donazioni devolute per il restauro di beni culturali pubblici, le biblioteche e gli archivi, gli investimenti dei teatri pubblici e delle fondazioni lirico sinfoniche, fino ad arrivare alle agevolazioni fiscali per favorire la competitività del settore turistico. Tra le maggiori innovazioni le misure per Pompei, per la Reggia di Caserta, per il recupero delle periferie; ma all’elenco si aggiungono, inter alia, le semplificazioni amministrative in campo turistico, le foto libere nei musei, il riesame dei pareri delle soprintendenze, l’istituzione della Capitale italiana della Cultura. Grande soddisfazione e grandi attese: “Finalmente - ha affermato Franceschini - anche in Italia ci sono strumenti fiscali adeguati per sostenere la cultura e rilanciare il turismo. Questa legge abbatte due barriere: quella del rapporto
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tra pubblico e privato e quella della separazione tra la tutela e la valorizzazione, che per troppo tempo hanno monopolizzato il dibattito italiano. Adesso non ci sono più scuse: veniamo da anni di tagli, è arrivato il momento di investire”. Dopo anni di sterili dibattiti e di allarmi lanciati al vento, dopo che un autorevole ministro aveva affermato che “la cultura non si mangia” e aveva dato avvio ad una drastica politica di tagli agli investimenti di settore, finalmente approccio culturale ed approccio gestionale giungono a coniugarsi: come negli anni del secondo Dopoguerra quando, vantando le bellezze ed il ricchissimo patrimonio artistico del Paese, si andava dicendo che “il turismo è il petrolio dell’Italia”. Da ora, tornare a parlare di gestione non solo conservativa, ma anche economica e finanziaria del patrimonio culturale non è più peccato: arrivano, come s’è detto, i crediti d’imposta (cospicui) per gli investitori che si faranno carico di interventi di manutenzione, protezione e restauro di beni culturali pubblici, ma anche mirate attività di crowdfunding e fundraising e l’organizzazione in capo al Mibact di nuove apposite strutture per incentivare le donazioni. Ogni anno, inoltre, il ministero varerà un piano strategico “Grandi Progetti Beni culturali”, mirato a pianificare e a sostenere la crescita della capacità attrattiva del Paese. Nel decreto ci sono anche misure volte a garantire la tutela ed il decoro dei complessi monumentali interessati da rilevanti flussi turistici e si torna a parlare di lavoro, con l’ annunciata assunzione di
Alberto Aghemo
“giovani per la cultura”, anche in deroga alle norme che limitano l’inserimento nei ruoli pubblici di personale a tempo determinato. Ma cambiano anche - e significativamente - le regole per il recruiting: nei poli museali e negli istituti di cultura statali di rilevante interesse nazionale gli incarichi dirigenziali potranno essere conferiti a persone anche esterne alla PA, purché “di comprovata qualificazione professionale in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali e documentata esperienza di gestione di istituti e luoghi della cultura”. Insomma, arrivano gli “esperti”, selezionati con procedure trasparenti (concorso europeo): quanto basta ad alimentare la levata di scudi delle “strutture” che hanno formato per decenni dirigenti abilissimi nell’esegesi (spesso ardua) delle circolari ministeriali ma totalmente impermeabili alle ragioni della gestione economica e - diciamola, la brutta parola del marketing culturale. E quella dei dirigenti museali non sarà l’unica fronda che il nuovo corso dovrà sconfiggere: diverse sacche di conservazione (non artistica né culturale) sono in fermento… Qualche piccola Vandea è tuttavia comprensibile a fronte di tanta e così radicale innovazione: in quasi quarant’ anni di vita, infatti quello dei Beni culturali è diventato un dicastero consolidato e di grande prestigio che ha tuttavia alimentato, come sempre avviene, una sua specifica cultura “ministeriale” ed ha allevato e formato una sua nomenklatura. Proprio mentre Franceschini apre un nuovo corso nella storia del ministero e delle sue politiche risulta esercizio utile e produttivo rifare la storia - almeno
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quelle più recente - delle politiche dei beni culturali in Italia e ricordare che il decreto cultura arriva a compimenti di quarant’anni di vita il ministero, quasi a suggello di una conseguita maturità. Risale infatti al 14 dicembre 1974 il decreto legislativo 657 che istituì, con procedura d'urgenza, il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. Giovanni Spadolini, che se ne era fatto promotore presso l’allora presidente del Consiglio Aldo Moro, dette a questo evento il significato di autentico afflato morale e civile. Non era possibile pensare, esclamava l'eminente studioso, giornalista e parlamentare repubblicano, che l'Italia, terra di cultura e di un ric-chissimo e inestimabile patrimonio artistico, non avesse un ministero deputato alla tutela e valorizzazione di quel retaggio immenso, incomparabile rispetto a qualunque altra nazione al mondo. Il ministero fu istituito al termine di un lungo travaglio civile e politico: lo ricostruisce e ce lo ricorda con efficacia Andrea Ragusa con uno studio ampio e documentato, I giardini delle Muse. Il patrimonio culturale ed ambientale in Italia dalla Costituente all’istituzione del Ministero (1946-1975), recentemente edito per i tipi di FrancoAngeli nella collana della Fondazione di Studi Storici Filippo Turati. Si tratta di un libro apprezzabile e raro vuoi per lo scrupolo e l’ampiezza della ricostruzione storica, vuoi perché, come si suol dire, “colma un vuoto”, stante l’esiguità della letteratura scientifica sull’argomento. Attraverso uno studio analitico del dibattito parlamentare e del confronto di idee sulla stampa e nella pubblica
Le Muse e il Ministero
opinione, il libro di Ragusa offre un contributo originale all’esame di un tema che ha visto, nell’Italia del secondo dopoguerra, il riconoscimento del patrimonio culturale come oggetto di un diritto fondamentale che ha conquistato un suo posto al centro delle politiche negli anni che - tra ricostruzione e “miracolo economico” - segnarono la definizione di nuovi apparati di tutela e di sicurezza sociale. L’ampio disegno tracciato da Ragusa prende dunque le mosse dai lavori della Costituente per ricordare le tappe fondamentali del rinnovamento del diritto amministrativo verso una concezione moderna del bene culturale, che creò i presupposti culturali non meno che giuridici e politici - per l’istituzione del Ministero. Un Ministero nato “per” i Beni Culturali e Ambientali, come fu a suo tempo assai rimarcato, giacché quel "per" intendeva ribadire una chiara indicazione della mansione di servizio per antonomasia, propria di ogni ministero ma in questo caso particolarmente esaltata. Poi il dicastero ha cambiato più volte nome e in qualche misura missione - nei decenni successivi: ripetutamente riformato fino all’attuale “rivoluzione” impressa dal ministro Franceschini. E il saggio di Andrea Ragusa - ci piace sottolinearlo proprio mentre il dibattito
sui beni culturali riprende con vigore - si offre come una guida preziosa per comprendere a fondo genesi e motivazioni di tante profonde trasformazioni. Tra i numerosi titoli di merito dello studio, valga qui ricordare l’ampio spazio dedicato a ricordare come al cognome "Franceschini" sia legato anche la genesi dell’intera vicenda, poiché il Ministero dovette in buona misura la sua istituzione agli esiti conseguiti dalla Commissione di indagine Per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio istituita nel 1964 e presieduta dall'On. Francesco Franceschini, autorevole parlamentare e uomo di cultura. Fu proprio la Commissione Franceschini, attraverso un serrato dialogo con sommi giuristi, tra cui Massimo Severo Giannini, uomini di cultura e esperti di varia estrazione e competenza a produrre, nel 1967 i tre corposi volumi contenenti le proposte sulla cui base Spadolini poté meglio concepire il “suo” Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. La storia ci dona a volte curiose simmetrie. Tra queste il disegno complesso di genesi, evoluzione e rivoluzione dei Beni Culturali: da Franceschini a Franceschini, cinquant’anni dopo.
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OSSERVATORIO
Girolamo Cotroneo
Il silenzio: una categoria politica?
Nel 1967, in un saggio dal titolo Verità e politica, Hannah Arendt scriveva che «nessuno ha mai dubitato del fatto che verità e politica siano in rapporti piuttosto cattivi l’una con l’altra, e nessuno, che io sappia, ha mai annoverato la sincerità tra le virtù politiche. Le menzogne sono sempre state considerate dei necessari e legittimi strumenti non solo del mestiere del politico o del demagogo, ma anche di quello dello statista». Queste parole sembrano legare in diade indissolubile politica e menzogna: e che questo sia un convincimento piuttosto diffuso nella cultura europea, lo prova, ad esempio, un saggio apparso nel secondo decennio del Settecento, scritto da Jonathan Swift, l‘autore del celebre I viaggi di Gulliver, con il titolo L’arte della menzogna politica, dove, tra l’altro, si legge: «Ci è stato detto: “il diavolo è padre delle menzogne e fu bugiardo fin dall’inizio”; perciò l’invenzione è indiscutibilmente antica. Ma quel che è peggio è che il primo uso che egli ne fece fu puramente politico, volto a minare l’autorità del principe e distogliergli un terzo dei sudditi dalla loro obbedienza». E poco dopo aggiungeva che nonostante «il diavolo sia il padre della menzogna, egli, come altri grandi inventori, pare aver perso molta della sua reputazione a causa dei continui miglioramenti che sono stati apportati alla sua opera». Né Swift si fermava qui. Nel quarto e ultimo libro, Viaggio al paese degli Huyhnhnm, del suo capolavoro, un paese abitato da “equini” e dove la menzogna era sconosciuta, quando a Gulliver, che aveva menzionato la figura del “ministro di Stato”, vennero chieste spiegazioni sulle caratteristiche di colui che nel suo lontano paese veniva designato in questo modo, aveva così risposto: «Gli dissi che il primo ministro, o capo del Governo, la
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persona cioè che intendevo descrivergli, era un essere totalmente privo di gioia e di dolore, di amore e di odio, di pietà e di ferocia; o, perlomeno, non dà sfogo ad altra passione che non sia una violenta cupidigia di ricchezza, di potere e di onore». E aggiungeva che questo personaggio «si serve delle parole per tutto, fuori che per esprimere il suo pensiero, non dice mai una verità se non con l’intenzione che venga presa per una menzogna, né una menzogna se non col preciso intento che sia presa per una verità; coloro di cui più dice corna alle spalle possono esser sicurissimi del suo favore, ma se comincia a lodarvi in faccia o con altri, da quel momento stesso siete un uomo morto. Il peggior segno che si possa aver da lui è una promessa specialmente quando è rafforzata da un giuramento; in tal caso chi ha una certa saggezza si ritira e abbandona ogni speranza». Questo immagine dei governanti, che ho voluto riportare per intero nonostante la sua lunghezza, non esprime soltanto le idee di Swift, ma, di là del radicalismo estremo, che si potrebbe persino definire qualunquismo, con cui si presentano, dovuto anche, se non soprattutto, all’ essere un testo letterario, non un trattato di politica; questa immagine, dicevo, esprime una visione piuttosto diffusa nei paesi europei. Non entro comunque nel merito circa la sua maggiore o minore vicinanza al vero. Mi sembra, invece, piuttosto importante segnalare che la letteratura su questo tema è vastissima; e in essa, sulla questione dell’inscindibile legame della politica con la menzogna, si incontrano talora convinzioni profonde, come, ad esempio, quelle che si possono leggere in un volumetto, Elogio della menzogna, pubblicato per la prima volta nel 2006 e apparso nel nostro paese nel
Il silenzio: una categoria politica?
2008, dove l’autore, un giovane scrittore basco, Ignacio Mendiola, ha scritto: «Conviviamo con la menzogna politica, con quel tipo di menzogna insulsa che genera guerre, scenari fittizi di pace e democrazia, transizioni esemplari o, se necessario, la creazione semiotica di armi di distruzione di massa. Conviviamo con una menzogna che trama il suo infame passato e il suo futuro da brivido, e conviviamo anche con la sua impunità, con le macerie di chi ha sostenuto una tesi che, pur rivelatasi falsa, manca ancora di una logica e di una assunzione di responsabilità. La menzogna si è liberata della responsabilità e irrompe sulla scena politica ordendo trame che aspirano, come la celebre mappa di Borges, a coincidere con il territorio». Naturalmente, come nella vita quotidiana, anche in politica, di là del radicalismo presente ancora una volta in queste parole di Mendiola, c’è menzogna e menzogna: le più diffuse sono quelle piccole e meschine volte a ottenere consensi; ed è questa menzogna che oggi mi sembra largamente in uso nelle vicende politiche; ed molto lontana da quella legittimata da Platone quando, in una delle sue più grandi opere, la Repubblica, scriveva: «E se a qualcuno sarà dato il diritto di mentire, questo spetta soltanto a chi ha il governo della città per ingannare i nemici o i cittadini, quando lo esiga l’interesse dello Stato: nessun altro ha il diritto di occuparsi di tali problemi». Una indicazione che ha sempre accompagnato la cultura, o, meglio, guidato l’azione politica occidentale, raggiungendo talora, in nome della “ragion di stato”, coperta e giustificata con la nota formula degli arcana imperii, anche soluzioni estreme, e non sempre lodevoli. Credo del tutto scontato dire che la menzogna non è una caratteristica soltanto della politica. E’ infatti molto diffusa anche nella vita quotidiana, come sapeva bene Orfeo, il cane al quale, nell’epilogo di un suo romanzo del 1914, Niebla, Miguel de Unamuno, ha affidato il compito di pronunciare l’orazione
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funebre per il padrone morto; un’orazione nel corso della quale il cane parla della natura degli uomini, e dell’uso che essi fanno di ciò che li divide radicalmente dagli animali, e li rende a loro “superiori”: il linguaggio. Dopo avere detto:«¡Qué extrño animale es el hombre!», e che «y luego habla, o ladra de un modo complicado», concludeva che «la lingua le sirve para mentir, inventar lo que no hay y confundirse». Queste parole, dove non vi è alcun accenno alla politica, sembrano tuttavia davvero adeguate ad essa: forse nessuno più dei politici – i poeti e gli scrittori si muovono in tutt’altra dimensione, in quella disinteressata della fantasia, della creatività, con finalità soprattutto estetiche –; nessuno più dei politici, dicevo, usa la parola per «inventar lo que no hay», per esaltare risultati non raggiunti, progetti non realizzati, misure dichiarate ogni volta risolutive, e altro ancora. *** Lo scopo di questa nota non è però quello di indugiare sui possibili usi della parola, del linguaggio, né quello di affrontare la questione della menzogna politica; vorrei invece ricordare – in un momento in cui sembra, o è, del tutto dimenticato – un messaggio che invita a praticare una delle più importanti, e più difficile da praticare, tra le virtù: il silenzio. I giudizi, i dibattiti filosofici, intorno a questa che ho voluto chiamare “virtù”, sono innumerevoli: qui mi limito a ricordare, come esempio, le ultime, poetiche, parole dell’Amleto: «Il resti è silenzio»; un versetto del Talmud: «La parola vuole una moneta, il silenzio due», e infine una frase di Gesualdo Bufalino: «La parola è una chiave, il silenzio un grimaldello». Ma ciò che vorrei soprattutto ricordare è un aureo libretto apparso intorno al 1711, opera di un famoso predicatore di quel tempo, l’Abbé Joseph Antoine Toussaint Dinouart, dal titolo, appunto, L’Art de se taire, l’arte di tacere, apparso, credo per la prima volta, in Italia nel 2013: «Si deve smettere di tacere», scriveva il celebre
Girolamo Cotroneo
abate inaugurando il primo capitolo del suo prezioso libretto, «solo quando si abbia qualcosa da dire che vale più del silenzio». A questo primo precetto ne seguivano altri. Ne ricordo alcuni: «C’è un tempo per tacere come c’è un tempo per parlare. – Il tempo per tacere deve essere nell’ordine sempre il primo: non si saprà mai parlar bene se prima non si è imparato a tace-re. – Tacer-e quando si è tenuti a parlare è una cosa da deboli e da imprudenti, tanto quanto parlare quando si deve tacere è sintomo di leggerezza e indiscrezione. – L’uomo non è mai tanto pa-drone di sé quanto lo è nel silenzio: quando parla egli sem-bra perdersi, per così dire, al di fuori di sé, e dissolversi nel discorso al pun-to di appartene-re meno a se stesso che agli altri». L’Abbé Dinouart sapeva bene che non sempre il silenzio è una virtù. Dopo avere detto che «c’è un silenzio di disprezzo quando non ci degniamo di rispondere a coloro che ci parlano, o che aspettano un nostro parere su un argomento, e anche quando consideriamo con freddezza e alterigia tutto ciò che dicono»; dopo aver detto questo, dunque, aggiungeva che questa «specie di silenzio, quello di disprezzo, è frutto dell’orgoglio e dell’amor proprio. Gli uomini con questa caratteristiche sono convinti che nessuno meriti di ricevere un solo attimo della loro attenzione». Concludeva, però, che «talvolta di questo silenzio può avvalersi anche un uomo giudizioso che, tacendo, disprezza ciò che
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non ritiene degno di una maggiore considerazione», restituendogli così il suo carattere soprattutto virtuoso. I precetti che abbiamo incontrato hanno un valore di carattere mora-le, talora persino di opportunità: ma il celebre Abate, parlava pure di quello che chiamava il “silenzio politi-co”, a proposito del quale scrive-va: «Il silenzio politico è quello di un uomo prudente, che si contiene, che si comporta con circospezione, che non si apre sempre, che non dice tutto ciò che pensa, che non chiarisce sempre la sua condotta e le sue intenzioni. E’ un u o m o » , aggiungeva, «che, senza tra-dire le giuste ragioni, non risponde sempre esplicitamente per non lasciarsi scoprire […] E’ un uomo che si distingue da tutti gli astuti, furbi, di cui il mondo è pieno, i quali è inutile definire omium t e m p o r u m homines», uomini, diremmo oggi, “per tutte le stagioni”. Il passaggio più importante di questo “consiglio”, di questo invito a una menzogna “accorta”, o comunque misurata, è il riferimento alla “prudenza”; e non certo a caso, tornando ancora più indietro nel tempo, ritroviamo il tema del silenzio in un apposito capitolo, Elogio del silenzio, di un volume di Gerolamo Cardano, noto pensatore dell’età del Rinascimento, apparso per la prima volta in italiano nel 2001, dal titolo piuttosto ambiguo, Il prosseneta, ovvero della prudenza politica: ambiguo, perché “prosseneta” ha, come segnala il più importante dizionario della lingua italiana,
Il silenzio: una categoria politica?
un significato affatto spregiativo, indicando il “sensale”, il “ruffiano”; una parola qui accostata a una di ben altro valore, la parola “prudenza”, quella prudentia, che i Romani consideravano la virtù politica per eccellenza: questo perché, e potrebbe essere la ragione per cui Cardano ha accostato i due termini, la politica richiede talora compromessi non sempre onorevoli, oltre che continue mediazioni. Tra i suoi suggerimenti e consigli Cardano includeva anche quello secondo cui «in generale il saper tacere, come accennò il filosofo al re, non è meno importante del saper parlare»; ma trattandosi di un’opera diretta espressamente ai politici, non poteva non includere l’uso della parola, non poteva certo suggerire ai politici il silenzio come principio assoluto. Ciò che invece richiedeva loro in maniera decisa era di riflettere su ciò che intendono dire prima di dirlo; e soprattutto la semplicità, la chiarezza, nel dirlo. Scriveva: «Il proposito di un discorso è quello di muovere gli affetti degli uomini, in modo da ottenere ciò che è in loro potere ed è per questo che conviene adoperare in questo ambito la massima diligenza. Il precetto principale deve essere la brevità, anche perché le ultime parti si collegano
meglio alle prime». Ma al centro del suo discorso rimaneva sempre il silenzio: questo, scriveva, «non solo basta, ma rimane comunque una risorsa straordinaria, soprattutto in una situazione controversa o quando temiamo che diventi tale o che qualcuno pretenda da noi qualcosa»; e concludeva con un breve, ma forte, avvertimento: «In generale ricordati questo: che solo il silenzio lascia integre tutte le cose». Queste parole, l’evocare un silenzio che “lascia integre tutte le cose”, ci riportano a quelle di Orfeo, il cane di Unamuno, che vedeva, come sappiamo, le parole soprattutto come un mezzo per falsificare le cose. E questo potrebbe portare alla conclusione che la menzogna si vince forse più con il silenzio che disapprova, che non usando un contro-argomento. E qui – a conclusione – vorrei fare un riferimento alla politica attuale: nel crescente astensionismo mi sembra di percepire il silenzioso rifiuto opposto a una classe politica sempre meno amata; una risposta silenziosa, ma di un silenzio assordante, a quel fiume di parole dal suono spesso, troppo spesso, falso, che essa continua a pronunciare. Ma purtroppo non è una risposta rassicurante.
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Angelo G. Sabatini
Viaggio intorno all’uomo
Il tema della nostra riflessione è di quelli che entusiasmano per la ricchezza delle sollecitazioni che ne derivano ma scoraggiano per la vastità del territorio da esplorare. Il percorso da compiere nel viaggio cui siamo invitati a partecipare e per le molte stazioni da conquistare e per il tempo necessario per sostare e raccogliere le offerte di conoscenza che emana dai diversi luoghi, è compito disarmante. Un viaggio intorno all’uomo è anche un viaggio entro l’uomo. Si combina così una diade che esalta l’immagine di un essere esemplare nell’universo che però non sempre è riducibile ad una descrizione esaustiva. Lo scarto tra ciò che di esso vogliamo conoscere e ciò che di fatto riusciamo a racchiudere in una rappresentazione concettuale, in una definizione o in una immagine, è tale che la sua persistenza nello sforzo che compiamo per afferrarne la identità, la specificità dell’essere uomo, induce a gettare le armi della conoscenza a favore di quelle dell’immaginazione creativa, rifugio salvifico dallo spettro del nichilismo in agguato. La tentazione della rinuncia a qualsiasi viaggio incombe come spada di Damocle su un desiderio di conoscere che viene sopraffatto dalla realtà di un uomo che nella sua essenza e nel suo essere nel mondo rispecchia la condizione storica di una società, quella attuale, che Zygmund Bauman ha definita liquida-moderna. Intendendo con ciò porre in evidenza come l’uomo non possa mai fermarsi in una stazione di stabilità e di certezza. L’uomo è un essere in divenire. Questa traduzione in chiave moderna del noto aforisma attribuito a Eraclito (panta-rei, tutto scorre) esprime bene la condizione di base di un essere
privilegiato del cosmo, l’uomo, che nel suo essere confitto nel tempo e nello spazio subisce il confronto con il mutamento e il divenire rimanendone sconfitto e trasferendo a chi ne voglia cogliere la condizione esistenziale la persuasione di Blaise Pascal che l’uomo è un enigma. Ammonimento di verità plausibile ma comunque efficace per distoglierci dall’entusiasmo di poter compiere con successo quel viaggio intorno all’uomo capace di presentarcene l’essenza nella sua interezza metafisica. Il grande sociologo della cultura Zygmunt Bauman ha riassunto con una silloge efficace la condizione dell’uomo d’oggi definendo la società attuale “mondo liquido-moderno” e la vita dell’uomo “vita liquida”. La sintesi del significato che tali espressioni hanno è l’incipit del libro Vita liquida. Essa merita di essere letta perché verrà utilizzata come paradigma di interpretazione del “Viaggio intorno all’uomo”, tema del nostro incontro. “Vita liquida e modernità liquida sono profondamente connesse tra loro. Liquido è il tipo di vita che si tende a vivere nella società liquido-moderna. Una società può essere definita “liquidomoderna” se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure. Il carattere liquido della vita e quello della società si alimentano e si rafforzano a vicenda. La vita liquida, come la società liquidomoderna, non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo. In una società liquido-moderna gli individui non possono concretizzare i propri risultati in beni duraturi; in un attimo, infatti, le attività si traducono in passività e le capacità in incapacità.”
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Viaggio intorno all’uomo
Questo testo può accompagnarci nel viaggio cui ci accingiamo a procedere. Un viaggio che porta con sé l’attenzione alla complessità di cui si struttura. Una complessità che, a volerla analizzare in profondità, comporterebbe una attenzione complessa che non può trovare spazio in questo incontro. Siamo così costretti a individuare quelle stazioni più rappresentative che consentono di muoversi all’interno della complessità con maggiore facilità. Al di là delle opzioni che ciascun viaggiatore può definire, egli è costretto a non perdere di vista la natura della società attuale che si presenta come una “società complessa”. Una società che, nata a seguito dell’incidenza che alcuni eventi culturali e tecnici hanno determinato, si confronta con la concreta differenza rispetto alla società tradizionale. Il segno più evidente è un conflitto tra vecchio e nuovo in una trasformazione della società in cui la difesa della tradizione diventa un compito molto arduo. Questa condizione di trasformazione storica porta anche ad un mutamento generazionale. Con la conseguenza che la discrasia tra vecchio e nuovo si traduce in un conflitto di generazioni nello stesso presente della nuova società. Una conseguenza particolarmente significativa è che se a compiere il viaggio intorno all’uomo d’oggi sono esponenti della nuova generazione il disappunto per un nuovo che agli occhi di una generazione matura è consistente, l’attuale società agli occhi delle nuove generazioni è l’equivalente di un momento di conquista di modernità. La complessità dell’attuale società finisce così col generare giudizio contrastante tra viaggiatori diversi per generazione rendendo difficile il colloquio tra coloro che si accingono a compiere il viaggio intorno all’uomo. Di qui un primo segno della complessità materiale della società tradotta in complessità culturale.
Un’analisi di ciò che l’uomo è in questa società si complica allorché l’attenzione va sull’uomo come soggetto che opera entro il mondo e l’uomo come soggetto della propria condizione: un intrecciarsi di relazioni che può al limite diventare parossistico allorché a riflettere sull’uomo entra in gioco la condizione della relazione dell’uomo con il proprio simile. Tutto ciò significa che muovendoci verso la comprensione dell’uomo nel contesto del suo mondo di appartenenza emerge il bisogno di capire la condizione umana immersa nella complessità del mondo in cui esso vive. Per evitare che questa via d’accesso alla comprensione della posizione dell’uomo nella società complessa finisca col rendere inane lo sforzo intellettuale occorre fornirsi di un paradigma di lettura della realtà che conduca l’osservatore a selezionare quelle stazioni del viaggio che rispondano ai due compiti fondamentali: capire il mondo della complessità e fornire il viaggiatore di quegli strumenti che lo portino nel cuore della società entro cui l’essere uomo si realizza pienamente. Si può accettare il proprio posto nel mondo-società allorché si riesca a trovare una via d’accesso a quel mondosocietà in cui si è esistenzialmente costretti a vivere ma si salvi anche la sostanza propria dell’uomo come soggetto di quel mondo e non invece come oggetto. Non va dimenticato che la ragione del conoscere il mondo entro cui l’uomo vive è espressione di quel sentimento di appartenenza al mondo alimentato dal sentimento profondo della libertà. In questo senso il viaggio intorno all’uomo è il viaggio che un esploratore compie perché nel territorio conquistato possa costruire la propria dimora. Nel caso specifico che più ci interessa il compito è quello di vedere se nella società complessa c’è ancora posto per la libertà dell’uomo; perché un uomo non libero mortifica il senso di appartenenza
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Angelo G. Sabatini
“umana” e “soggettiva” laddove non libero si compie una mortificazione del senso stesso dell’umanità. La possibilità di conseguire risultati utili nella comprensione dell’uomo del nostro tempo è legata all’acquisizione di uno strumento capace di penetrare nella complessità del mondo dove l’uomo è radicato. Personalmente assumo come paradigma interpretativo la crisi morale e/o spirituale che più di ogni altro aspetto può aiutare a cogliere la natura e la radicalità del disagio dell’uomo del nostro tempo.. E’ chiaro che tale scelta è la traduzione in schema interpretativo di una presa di coscienza da parte mia della natura del disagio esistente. Pertanto la comprensione della crisi è il risultato di una esplorazione della tendenza dell’uomo d’oggi a voler guidare un processo, quello della civilizzazione, evitando che le articolazioni del suo manifestarsi possano tradursi in dominio sulla propria persona. Di qui la necessità di individuare i valori che sono l’antecedente storico della crisi del presente per verificare se essi possano ancora essere utilizzati oltre che per intendere la trasformazione subita accertare la loro capacità di illuminare la vita dell’attuale società. Si tratta in fondo di esplicitare l’insoddisfazione dell’uomo che volendo utilizzare i valori della tradizione per comprendere il mutamento si accorge che esso ha portato con sé l’esigenza di
aggiornare i valori della tradizione o di crearne di nuovi. Nella lista dei valori operanti nel rapporto dell’uomo con la realtà d’oggi vanno evidenziati quelli cui si fa in genere riferimento allorché si vuole comprendere la vita dell’uomo della tradizione. Sono i valori che hanno trovato le proprie radici nella società classificata come borghese. Valori che hanno continuato a svolgere la loro funzione nella tormenta società del XX secolo, il secolo che Eric J. Hobsbawm ha denominato “secolo breve”. E’ un complesso di valori dove hanno trovano un posto privilegiato la famiglia, la scuola, la religione: tre istituzioni su cui lo Stato moderno, pur con distingui ricorrenti, ha potuto edificare i suoi successi. . Ognuno di essi ha subito una trasformazione piuttosto rilevante a partire proprio dalla fami-glia intesa come istituzione, quella tradizionale che anche ad uno sguardo superficiale non può sfuggire il ruolo primario nella formazione dell’uomo e che oggi si trova a vivere una profonda crisi: instabilità della coppia, assenza di uno o entrambi i genitori, la cui autorità è sempre più indebolita, figli che esigono sostegno economico sempre maggiore, non più il conflitto sano tra genitori e figli ma piuttosto l’estraneità; quasi scomparsa la trasmissione dentro le mura di casa del valore delle cose che contano, non ultima ma particolarmente importante la presenza della televisione che la fa da padrona costruendosi un terreno fertile per la diffusione di mo-delli culturali e
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sociali particolarmente futili. La famiglia sta attraversando un periodo in cui si intrecciano crisi e speranze. Per quanto riguarda le crisi, innanzitutto abbiamo quella della vita, si vive nella contraddizione o di paura del mettere al mondo un figlio, oppure di volerlo a tutti i costi, anche ricorrendo alla procreazione medicalmente assistita; nello stesso tempo c’è anche il rifiuto totale di una gravidanza ed il ricorso all’aborto. La vita che dovrebbe essere accolta ed amata, in quella “culla” che le è propria, come la famiglia, viene invece proprio da essa in un certo senso rinnegata. Altra crisi possiamo riscontrarla nell’ amore, che non viene più vissuto come un sentimento nel quale c’è il dono ed il rispetto reciproco ma, spesso, come qualcosa di materiale: come una semplice ricerca di piacere personale ed egoistico. Ciò genera una profonda incrinatura nel rapporto di coppia, perché viene meno quel fattore unitivo e oblativo che invece è fondamentale per l’unione della coppia stessa. Ma le trasformazioni non sono avvenute solo a livello dei diversi modi di aggregarsi, bensì anche a livello interno. Ad essere cambiati sono, soprattutto, i rapporti reciproci fra i vari membri ed il modo di “stare insieme”. Un ritratto della famiglia d’oggi che viene presentato da uno studio del Censis dove emergono i grandi mutamenti e dove si è persa la centralità per diversi motivi. I dati emersi da tale studio sono significativi: per il 64% la famiglia è troppo sola e non riceve adeguato supporto da soggetti come la scuola; per il 50% la difficoltà sta nel contrapporre alternative valide ai modelli di vita proposti dai mezzi di comunicazione; il 50% dice che i padri sono assenti o delegano alle madri l’educazione dei figli; il 42% mette in risalto che le madri di oggi non sono quelle di una volta, protettive al limite dell’ansioso e non lo sono perché stressate dal lavoro in casa e
fuori; ed il 40% dice che la famiglia non riesce a trasmettere ai figli valori positivi come tolleranza e rispetto per gli altri. Parallelamente alla crisi della famiglia emerge quella della scuola che si trascina tra chi ne difende la funzione di istituzione creatrice di valori e chi ne vede il deperimento con grave danno per la formazione non solo culturale ma anche civile dei giovani. La scuola e l’università, non solo in Italia, affrontano da almeno un decennio momenti di grave crisi. Tra le cause fondamentali della crisi ce n’è una che determina tutte le altre: la scuola e l’università non sono state capaci di rispondere alle sfide della contemporaneità, sfide che oggi sono radicalmente differenti rispetto a quelle del passato. Di fronte ad una realtà estremamente più dinamica, complessa, liquida, l’istituzione scolastica non è riuscia ha liberarsi completamente da una eredità dell’Ottocento: statica, chiusa, settoriale, monolitica. Messi di fronte a studenti che naturalmente erano figli del loro tempo, e quindi incredibilmente più vivaci rispetto al passato, gli insegnanti, costretti ad agire in strutture non adeguate, hanno reagito prevalentemente in due modi. Nei paesi tendenzialmente conservatori, tra cui l’Italia, gli insegnanti hanno reagito in modo passatista. Chiudendosi a difesa della scuola perduta, dei valori di un tempo; reputando i giovani d’oggi come degenerati, hanno creduto che l’unica via per sopravvivere fosse quella dello scontro frontale con il presente: e quindi hanno celebrato la severità, il sacrificio, la fatica come i veri valori da opporre ai giovani barbari edonisti e dissoluti. Nei paesi più pronti a riconoscere le novità, ad esempio negli Stati Uniti, si è fatta strada invece l’alternativa formativa presentista. Alcuni insegnanti si sono convinti che bastasse portare qualche innovazione di facciata per rendere più semplice ed efficiente l’apprendimento. Le due tipologie di insegnanti, passatisti e presentisti, si distinguono
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facilmente anche per l’atteggiamento che hanno di fronte i nuovi media. Il professore passatista è essenzialmente legato al paradigma tipografico e rifiuta in toto le altre tecnologie, soprattutto le nuove. Non ha mai pensato che l’apprendimento potesse passare anche attraverso media differenti dalla stampa: fotografia, cinema, televisione e oggi computer, internet. Il professore presentista, al contrario, accetta le nuove tecnologie e crede che il loro impiego possa risolvere ogni problema. Ma il suo impiego delle nuove tecnologie è spesso superficiale e acritico, non diffe-rente dall’uso mercificato che i giovani sono abituati a farne al di fuori della scuola. Inoltre la centralità dei media nell’apprendimento non significa che attorno ai media si giochi tutto il destino della scuola. Nella crisi della scuola contemporanea c’è in ballo qualcosa in più, che gli insegnanti passatisti e presentisti non comprendono. Ed è qualcosa di profondo, legato anche alle trasfor-mazioni mediali, ma in modo da portare conseguenze dirompenti in ogni settore: è il cambio di paradigma epocale che segna la transizione dal sapere autoritario, trasmesso a senso unico, imposto, verticistico, al sapere reticolare, costruito collettivamente, condiviso. Questa trasformazione paradigmatica, indotta indubbiamente anche da innovazioni mediali, non è stata per nulla compresa nelle sue potenzialità da chi ricopre posti di comando. Per questo motivo si è creata una scollatura, una frattura mai vista prima d’oggi tra due sole generazioni in successione. A rendere più critica la situazione della scuola è il diffuso lassismo dei giovani
ma spesso anche dei docenti. Gli uni sfiduciati moralmente dallo scarso interessamento mostrato verso di essi dai Governi che, nell’ansia riformista, hanno finito con l’indebolire il fondamento morale della formazione e gli altri, invece, hanno perso il rispetto dell’autorità dell’istituzione scolastica e dei suoi docenti. Anche qui come per altre istituzioni portatrici di valori la trasformazione della società è diventata il prodotto di essi e, nello steso tempo, ne hanno assorbito il senso della crisi. Non si può ignorare il grado di crisi della religione che ha subito lo stesso processo accelerativo della famiglia e della scuola. Nel contesto del processo di desacralizzazione che la cultura laica e illuminista ha portato avanti negli ultimi due secoli, la religione, almeno nella parte rituale di essa, ha visto una dimi-nuzione di partecipazione specialmente della generazione più giovane. La partecipazione dei giovani al seguito delle visite pastorali dei Pontefici nelle varie aree del mondo non può autorizzare a parlare di intensa partecipazione dei giovani alla vita religiosa. Emblematica è l’assenza di adolescenti e di giovani ai riti religiosi quali la celebrazione della messa e la partecipazione alla vita parrocchiale. E’ da notare che è proprio l’indebolimento dell’autorità della famiglia e della scuola che porta in primo piano la critica condizione dei giovani diventati un motore di malessere sia pure nella contraddizione di specchio della crisi ma anche sensori di un movimento di speranza per la formazione di valori nuovi per la società e per la politica. In fondo la speranza di poter far sì che
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la crisi della società d’oggi non rivesta soltanto la funzione speculare di un mondo in costante instabilità, ma possa anche essere motivo ispiratore di una trasformazione in positivo di questa complessa società che per essere produttrice di progresso e di valori necessita di una energia morale e culturale fortemente attiva. Ma i giovani non sono soltanto la speranza di una società nuova ma rappresentano anche la difficoltà che l’innovazione trova allorquando intenda operare fattivamente alla trasformazione. Non va trascurato il fatto che l’azione innovatrice dei giovani d’oggi è il segno di un messaggio ancora elitario anche se spesso viene manifestato nel segno di una realtà di massa. Al di qua di coloro che contestano c’è la vera massa di quanti non partecipando si destinano alla indifferenza, privilegiando gli spazi ludici del tempo libero oppure chiudendosi in se stessi acuendo un disagio che specialmente nell’adoles-cenza può diventare una vera e propria patologia generando quel sentimento di diversità che a volte si traduce in tossicodipendenza, in omosessualità, di anoressia e bulimia. Il risultato è la trasformazione del periodo problematico in stato di solitudine e depressione. La conseguenza è l’inclinazione ad interrompere le attività sociali, compresa la scuola, e a isolarsi. Il coordinamento di questi valori forniva un tempo il quadro di riferimento attivo per la posizione dell’uomo nel contesto della civiltà. Si aggiunga a questo mutamento di valore delle istituzioni cui abbiamo fatto cenno la crisi della cultura che da prevalentemente umanistica si è fatto scientifica e tecnologica. L’uomo che è stato per secoli il luogo privilegiato della conoscenza, della curiositas, della creatività artistica e della spinta all’esplorazione del globo, è diventato homo tecnologicus e economicus: due dimensioni della vita sociale un tempo marginali come valori di
formazione etica e mutatisi essi stessi in orizzonte avvolgente della vita dell’uomo di oggi. A generare questa situazione di dominio dell’economia e della tecnica è intervenuto l’affermarsi della simbiosi tra economia e tecnologia che sotto la spinta di una ideologia della produttività ha finito con il trasformare la società dei produttori in quella dei consumatori. Nell’ambito della psicologia dei consumatori si è annidato il fenomeno, estremamente dannoso, che favorsce l’inclinazione al consumo sia quantitativo che qualitativo. La formazione di una società dei consumi che è stata generata nell’ambito dell’economia mondiale dal 1945 ad oggi è stata accompagnata da una tendenza all’aumento progressivo dei consumi, sia del singolo che della collettività. La società italiana a partire dagli anni ’60 la chiamiamo «società dei consumi», che comprende la stragrande maggioranza degli individui. Dal 1950 al 1970, i livelli medi di vita sono più che raddoppiati in valore reale e la diffusione del credito ha consentito di consumare in anticipo e ancora di più. Malgrado disuguaglianze non trascurabili, tutte le classi sociali sono state catapultate nelle «meraviglie» della società dei consumi. La percentuale sempre maggiore di salariati (tra il 75 e l’85%della popolazione attiva all’inizio degli anni ’70), l’impatto dei mezzi di comunicazione di massa(mass media), il ruolo della pubblicità e della standardizzazione, tutto questo ha contribuito a determinare una certa uniformità degli stili di vita. La sete di consumo è stata, peraltro, esacerbata dal ricordo lontano delle difficoltà degli anni ’30 e da quello, più vicino, delle privazioni di guerra. Il consumo non ha come scopo solamente la soddisfazione dei bisogni, esso ha anche altri significati: l’affermazione di una posizione sociale (nozione di standing), il gusto della «gratuità» (desiderio di oggetti inutili o
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gadgets) o, per alcuni sociologi, l’appagamento di un’insoddisfazione latente. Comunque sia, alcuni consumi hanno un carattere discriminante, nella misura in cui, per un certo periodo, essi rimangono appannaggio esclusivo di una minoranza, nell’attesa di generalizzarsi e di essere sostituiti da altri nel loro ruolo di status symbol. Ogni decennio ha visto alcuni prodotti giocare questo ruolo: l’automobile, la televisione, la lavatrice o le vacanze al mare negli anni ’50; la seconda casa, la cinepresa, la lavastoviglie o le vacanze in montagna negli anni ’60; la barca, la televisione a colori, il congelatore e le vacanze all’estero negli anni ’70. Così come afferma un geografo: «Dopo aver prodotto l’indispensabile con l’agricoltura e il superfluo con l’industria, l’economia delle mercanzie offre l’inutile. Questo cambiamento è vissuto da alcuni come una straordinaria liberazione, da altri come un’angosciante alienazione». La società dei consumi, basando le proprie fortune sulla promessa di soddisfare i desideri umani in un modo impossibile ed inimmaginabile per qualsiasi altra società precedente, riesce a rendere permanente la non soddisfazione. Il consumo favorisce il principio della competitività connessa all’invidia: il consumatore entra nell’agone della competitività mediante il possesso di un prodotto scelto dal gruppo di appartenenza. La mancanza di consumo di un prodotto nella condizione di competitività nel gruppo può dar luogo ad una emarginazione con relativa conseguenza dell’emergere di uno stato d’animo di sconfitta o di esclusione. La promessa di gratificazione è quindi allettante soltanto finché il desiderio non è stato soddisfatto o meglio finché sussiste il sospetto che il desiderio non sia stato realmente e pienamente soddisfatto ed è proprio la mancata soddisfazione dei desideri la convinzione ferma e costante secondo cui ogni atto per soddisfarli lasci ancora molto da
desiderare e da migliorare a far volare l’economia che si rivolge ai consumatori. E’ stato ampiamente dimostrato che in questo modo il consumismo è un’ economia basata sull’inganno, sull’ esagerazione e sullo spreco. Inganno esagerazione e spreco non sono segnali del malfunzionamento di tale economia ma garanzie della sua salute e del suo sviluppo e l’unico regime nel quale la società dei consumi può assicurarsi la propria sopravvivenza. L’espansione dei consumi avviene nel contesto di una società che viene denominata “società di consumatori”. Di particolare interesse per capire la reale natura del consumismo è la “sindrome consumista” che porta nei rapporti interpersonali a modellare l’esistenza, anche quella quotidiana, a modellarsi a somiglianza dei mezzi e degli oggetti di consumo. Tale sindrome implica molto più che la seduzione delle gioie dell’ingerire e del digerire, del divertirsi o dello star bene. Essa è una vera sindrome, un complesso di atteggiamenti e strategie variegati ma strettamente interconnessi, disposizioni cognitive, giudizi e pregiudizi di valore, assunzioni sia esplicite che tacite sul mondo e sul modo di stare al mondo, visioni di felicità e modi per perseguirle, cioè preferenze di valori. Il consumismo, diventando un valore, per la sua natura di transitorietà, entra naturalmente in conflitto con i valori della tradizione. Siamo di fronte ad un dualismo che vede i valori della tradizione come paradigmi di stabilità e di permanenza nel tempo, mentre il consumismo ha in sé il principio della accelerazione del cambiamento. La conseguenza è che i prodotti che alimentano il consumo non possono avere una durata che vada oltre il momento di soddisfazione dell’acquisizione degli oggetti del desiderio. “Pertanto - sottolinea Bauman nell’opera citata - la società dei consumi non può che essere una società di eccesso e di sperpero e per ciò stesso di ridondanza e scarto a piene mani”.
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La vita dei consumatori è una sequenza di prove ed errori, un’esistenza di sperimentazione continua. La sintesi della logica del consumo la si ritrova in un osservatore del commercio al dettaglio che ha esclamato: “Abbiamo bisogno che le cose si consumino, si brucino, si logorino, si sostituiscano e si scartino a ritmo crescente”. Guardando alla società del presente si è certamente colpiti dall’evoluzione della conoscenza arricchita sia nella esplorazione dell’uomo-natura che dell’uomo, luogo propulsore della conoscenza stessa, grazie al progresso delle scienze psicologiche e biologiche che consentono di esplorare la natura, essa stessa complessa, dell’uomo stesso. Ma l’evoluzione della conoscenza arricchisce gli strumenti di accesso al mondo in termini, sia pure problematici, di conoscenza scientifica. E’ indubbio che rispetto al passato la possibilità per l’uomo di possedere se stesso e il mondo come suo habitat è di gran lunga più ampia e in tal senso dovrebbe poter legittimare la richiesta di conoscere la sua origine e il meccanismo di crescita all’interno di questo mondo. Con lo stesso spirito dobbiamo spingere lo sguardo verso il nuovo mondo della comunicazione elettronica, verso Internet. Un luogo dove tutti possono prendere la parola, acquisire conoscenza, produrre idee e non solo informazioni, esercitare il diritto di critica, dialogare, partecipare alla vita comune, e costruire così forme d’organizzazione sociale e politica qualitativamente diverse da quelle attuali, ridando senso adeguato anche ai riferimenti a eguaglianza e cittadinanza. Internet sta realizzando una nuova, grande redistribuzione del potere. Per questo è continuamente a rischio. In nome della sicurezza si restringono libertà. In nome di una logica di mercato miope si restringono possibilità di accesso alla conoscenza. Alleanze tra grandi imprese e Stati autoritari impongono nuove forme di censura.
Di fronte a Internet ci preoccupiamo che esso possa deve divenire uno strumento per controllare i milioni di persone che se ne servono, per impadronirsi di dati personali contro la volontà degli interessati, per chiudere in recinti i proprietari delle nuove forme della conoscenza. E’ singolare e paradossale che le risposte metafisiche e religiose, rispetto alle domande che si suole definire metafisiche, potrebbero acquisire maggior forza probante con la espansione della conoscenza, mentre di fatto il risultato delle ricerche nel settore della conoscenza scientifica porta al moltiplicarsi di domande che generano il desiderio di conoscere, con il risultato di decostruire l’architettura delle risposte metafisiche o religiose favorendo la sindrome dell’abbandono o con il rischio di un nichilismo che finisce con l’indebolire la struttura morale della coscienza dell’uomo e della società in cui si trova a vivere. Questo momento dell’incontro dell’uomo con il proprio essere o con il rapporto con l’essere del mondo come società, conduce il viaggiatore che circumnaviga l’uomo ad uno spazio del proprio essere in cui si affacciano problemi particolarmente “sensibili” quali la felicità, la povertà, la libertà, la persona e la tecnologia: modi di essere dell’uomo che nella società complessa in cui viviamo, dove il senso del divenire schiaccia l’essere inglobandolo in sé, lo priva della dimensione della stabilità. Le riflessioni fin qui espresse ci portano verso una mappa del viaggio in cui prevale l’immagine che molti con Bauman definiscono “liquida” per la condizione dell’uomo in continua incertezza. Con la conseguenza che l’uomo viene dominato dalla preoccupazione di non riuscire a tenere il passo dietro agli avvenimenti che muovendosi velocemente genera stress, disagi estesi, consumismo ossessivo, paura individuale e sociale, legami fragili e mutevoli, città poco vivibili.
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Siamo in un momento storico in cui si sta non solo ripensando ma ridefinendo l’umano e in ciò contribuisce certamente il progresso scientifico. In fondo si sta smarrendo l’alfabeto dell’umano, di ciò che è la persona, di ciò che è l’uomo, e con i valori e le categorie costitutive proprie dell’umanità del tipo di convivenza e di società che da questa ridefinizione consegue. Questo processo di accelerazione del vivere umano di cui già Michel de Montaigne ci ricor-dava affermando che “la vie est un mouvement inégal, irregulièr et multiforme” trova il suo motore di accelerazione dall’incessante innovazione scientifica e tecnologica. I ritmi della vita conoscono accelerazioni e mutamenti profondi. La tecnologia libera la vita da antiche schiavitù, quelle dello spazio e del tempo, e questa è già realtà per milioni di persone. Internet non è soltanto il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto. È un luogo dove la vita cambia qualità e colore, dove sono possibili l’anonimato e la moltiplicazione delle identità, la conoscenza e l’ubiquità, la libertà pie-na e il controllo totale. In rete ognuno può essere dav-vero “uno nessuno e centomila”, come diceva Luigi Piran-dello, e vedere realizzata l’aspirazione dello Zelig di Woody Allen: “Vorrei essere tante persone. Forse un giorno questo si avvererà”. La grande trasformazione tecnologica cambia il quadro dei diritti civili e politici, ridisegna il ruolo dei poteri pubblici, muta i rapporti personali e sociali, e
incide sull’antropologia stessa delle persone. E con ciò emerge dal profondo della trasformazione in atto della società la domanda centrale che salva l’uomo dalla sua dissoluzione, dal suo liquefarsi: Quali sono le dimensioni e il luogo della libertà nell’età della scienza. della tecnologia e del consumismo? È giusto invocare la protezione della vita privata, lo spazio del suo essere libero; ma non basta. Il nostro modo di vivere è divenuto un flusso continuo di infor-mazioni, inarre-stabile, che noi stessi alimentiamo per avere accesso a beni e servizi. La trasparenza sociale ci avvolge. Le tecnologie dell’informazione non solo si impadroniscono della nostra vita, ma costruiscono un corpo elettronico, l’insieme delle nostre informazioni personali custodite in infinite banche dati, che vive accanto al corpo fisico. Il doppio corpo non è più solo quello del Re medievale, di cui ci ha parlato Ernst Kantorowicz. È ormai attributo di ogni cittadino. Cambia il mondo intorno a noi, e dentro di noi. La società della sorveglianza celebra i suoi riti e può cancellare i fondamenti della civiltà giuridica. “Non metteremo la mano su di te”, era la promessa della Magna Charta, l’atto di nascita dell’habeas corpus. Oggi il corpo è sempre in pericolo, e la mente non è più un rifugio inviolabile. Il corpo viene trasformato, anzi costruito, per renderlo direttamente compatibile con la società della sorveglianza. Chip elettronici sotto la pelle, etichette intel-
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ligenti o braccialetti elettronici permet- della normalità. tono di controllare e seguire un corpo Per scongiurare questi pericoli non ci si ormai assimilato a un qualsiasi oggetto può affidare soltanto alla naturale in movimento, controllabile a distanza capacità di reazione di Internet. È tempo con le tecnologie satellitari o con quelle di affermare alcuni principi come parte delle radiofrequenze. della nuova cittadinanza planetaria: In una dichiarazione del governo libertà di accesso, libertà di utilizzazione, inglese dell’estate del 2004 si parla di diritto alla conoscenza, rispetto della persone che debbono essere “tagged and privacy, riconoscimento di nuovi beni tracked”, etichettate e seguite, legate comuni. È tempo che questi principi sempre con un invisibile e tenacissimo siano riconosciuti da una inedita Carta guinzaglio elettronico, il cui simbolo è dei Diritti, in un Bill of Rights del nuovo già incarnato dal telefono cellulare. E, millennio. sempre in Inghilterra, già si ricorre ai Riemergono così il destino individuale, “wearable computers” messi al polso dei la vita di ciascuno di noi. Senza una lavoratori, che cons-entono di control- fortetutela delle informazioni che le larne movimenti e ritmi di lavoro, di dar riguardano, le persone rischiano sempre loro continue e stringenti istru-zioni. di più d’essere discriminate per le loro Davanti a noi sono mutamenti che opinioni, cre-denze religiose, condizioni toccano l’andi salute: la tropologia stessa privacy si delle persone. presenta così Siamo di fronte a come un elemenslittamenti proto fondamentale gressivi. Dalla della “società persona “scrudell’eguaglianza”. tata” attraverso la Senza una forte videosorveglianza tutela dei dati e le tecniche bioriguardanti le metriche si può convinzioni polipassare ad una tiche o l’appartep e r s o n a nenza a partiti, “ m o d i f i c a t a ” "Magna Carta (British Library Cotton MS Augustus II.106)" s i n d a c a t i , dall’inserimento associazioni, i di dispo-sitivi elettronici, in un contesto cittadini rischiano d’essere esclusi dai che ci individua appunto come processi democratici: così la privacy “networked persons”, persone diventa una condizione essenziale per perennemente in rete, configurate in essere inclusi nella “società della modo da emettere e ricevere impulsi che partecipazione”. Senza una forte tutela consentono di rintracciare e ricostruire del corpo elettronico, la stessa libertà movimenti, abitudini, contatti, personale è in pericolo: diventa così modificando così l’autonomia delle evidente che la privacy è uno strumento persone. Ci avviciniamo così alle necessario per difendere la “società della frontiere del post-umano, dove persone libertà”, e per opporsi alle spinte verso la e corpi diventano apparati costruzione di una società della tecnologicamente complessi. sorveglianza, della classificazione, della La vita non è più quel movimento selezione sociale. libero e multiforme di cui parlava Solo così la vita può tornare ad essere Montaigne, ma una entità da tenere irregolare e multiforme, il regno continuamente sotto controllo per dell’autonomia e della diversità. ricondurla implacabilmente sui binari 19
CORSIVO
Giovanni Jannuzzi
Buon Anno 2015
Alla mia età lo si sa bene: gli anni sono scansioni arbitrarie con cui ci illudiamo di dare un senso, un ordine, un’intellegibilità, all’uniforme passare del tempo dal quale siamo trascinati. Però è difficile sottrarsi alla suggestione del cambio di data e resistere – nonostante lo scetticismo – all’abitudine di fare, a ogni fine di anno, bilanci e previsioni come se il cambio di numero potesse mutare veramente la natura delle cose. Non so se l’anno che sta per chiudersi sia stato un “annus horribilis”, ma un po’ da dimenticare lo è di certo in Italia, in Europa e nel mondo. Da noi una crisi economica che dura da ormai sei o sette anni ha continuato a trascinarsi senza apparenti miglioramenti, nonostante le intenzioni del Governo e della maggioranza. Fatti scandalosi di corruzione hanno tornato a indignarci, dando l’impressione di un dilagare del malaffare quasi inarrestabile nonostante l’operato della Giustizia. L’Europa non ha ancora ritrovato sul serio la via dello sviluppo e neppure quello dell’unità solidale. Nel mondo, l’avanzata della jihad in Irak, in Siria, gli orrendi massacri perpetrati dal fanatismo islamico anche altrove, la ripresa delle mire espansive della Russia di Putin e la sua brutale azione contro l’Ucraina, hanno creato tensioni che hanno fatto persino temere rischi di guerre globali. Eppure, non tutto è stato completamente negativo. In Italia, un governo, nato in modo discutibile con quello che è apparso un vero e proprio colpo di mano, ha comunque messo all’ordine del giorno il rinnovamento delle istituzioni e del costume e la ripresa economica, culturale, civile. Si può – si deve, anzi – criticare molte delle modalità usate dal Premier, ma non credo sia giusto combatterne i
programmi. E pur essendo ogni giorno sotto il tiro, più ancora che delle opposizioni, di una parte della propria maggioranza, di quella eterna sinistra incapace di governare ma capace di distruggere tutto quanto di nuovo e di buono appaia nel suo stesso campo, porta a casa importanti provvedimenti uno dopo l’altro (ritengo che Renzi debba accendere un cero alla sgangherata demagogia dei grillini, che rendono quasi obbligatorio per decenza il ricompattarsi della maggioranza, come si è visto nel voto sulla Legge di Stabilità). Va detto, per giustizia, che in questa fase della nostra vita politica, Berlusconi e Forza Italia si sono mossi con senso della misura e spirito in fin dei conti costruttivo. Speriamo che duri! Sul piano dell’economia, è permesso forse sperare che siano state messe in questi mesi le basi per una ripresa, sia pure modesta, per il prossimo anno (modesta, sì, ma il passaggio dal segno negativo a quello positivo nel PIL sarebbe di per sé una spinta essenziale per ritrovare la necessaria fiducia). La corruzione è una piaga aperta e sanguinante, ma vorrei fare una considerazione che mi sembra essenziale: il lato peggiore in casi di corruzione è l’impunità, e questa in Italia non c’è. Giustizia, Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza funzionano e i corrotti, non tutti, certo, ma parte almeno, finiscono sotto processo. Credetemi, non è così dappertutto nel mondo. E questo, un minimo di tranquillità dovrebbe darcelo. In Europa, il passaggio dallo scolorito Barroso al più “politico” Juncker può costituire la premessa per un cambio di velocità. Il programma di investimenti annunciato dal neo-Presidente è in questo senso un buon segno. Le resistenze
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Buon Anno 2015 restano forti e occorrerà molta tenacia da alcuni loro alleati abbiano reagito con le parte di Paesi come Italia, Francia, armi all’assalto del terrorismo estremista Spagna, per spuntarla. A questo e che questo sia stato, almeno così proposito, ho letto qua e là valutazioni parrebbe, contenuto. poco generose sul semestre di presidenza E allora lasciamoci andare alla vecchia italiana. Solo chi non conosce la realtà abitudine di fare gli auguri del caso. europea poteva immaginarsi che l’Italia L’Italia ne ha bisogno: auguri perché potesse, con una sorta di bacchetta riforme e ripresa economica occupino la magica, cambiare ordine del giorno e scena dell’anno che viene. Sarà, ahimè, vedute in seno all’Unione. Forse Renzi un anno che vedrà il congedo volontario stesso si è illuso di poterlo fare, portando di un grande e caro Presidente della a Bruxelles i metodi che sta utilizzando Repubblica, Giorgio Napolitano. in Italia. Non era possibile e non è Preferiremmo davvero che restasse al quindi giusto accusarlo di mancato timone. Ma se questo non è possibile, che successo. Quel poco che si poteva ottenere il suo successore sia almeno una figura è stato ottenuto: l’introduzione, per la rispettabile e rispettata, che nasca da un prima volta, dell’idea di sviluppo, consenso ampio e dia a tutti le necessarie l’esclusione degli investimenti produttivi garanzie di imparzialità e di difesa delle dal Patto di Stabilità. Poco? Non lo so. istituzioni. Ma le cose in Europa vanno così, con L’Europa ha bisogno di un augurio lentezza e tra mille contrasti e ogni passo speciale: che le buone intenzione di avanti è come smuovere una montagna. Juncker si realizzino, senza ritardo e Nel mondo, il fatto che la crisi ucraina senza troppi ostacoli e che il sistema sia non abbia degenerato in una vera guerra meno burocratico, meno impersonale, più è di per sé un fatto positivo, segno della vicino alla gente e alle loro vere sostanziale prudenza con cui ci si è mossi preoccupazioni. dalle due parti. Ed è buon segno che non Il mondo merita pace, o almeno quella tutti gli europei – come è apparso forma speciale di pace che è la “non evidente nell’ultimo Consiglio sotto guerra”. È troppo sperare che Occidente presidenza italiana – siano disposti a e Russia ritrovino la via del dialogo lasciarsi andare all’automatismo di costruttivo? Nel Medio Oriente e sanzioni punitive contro una Russia che, dovunque operi (anche in casa nostra) il alla fine, è interesse di tutti recuperare ad terrorismo sanguinario, è troppo una normale cooperazione con augurarsi che l’intera società reagisca, l’Occidente (più che le sanzioni, a far non solo con una facile indignazione, ma pensare Putin è venuto il crollo del con i mezzi preventivi e repressivi che si prezzo del petrolio, che ha colpito impongono? È troppo augurarsi che nel duramente la sua economia). Nel Medio 2015 le nostre città, le nostre strade, le Oriente, le buone notizie sono nostre case, siano un po’ più tutelate e pochissime, anzi nulle. La crisi va sicure? Auguri, speranze, illusioni di avanti, con il suo tragico corteo di sangue, circostanza? Chi lo sa! Ma senza un po’ anche se da un po’ di tempo il distratto di illusioni che sarebbe la vita? sistema d’informazioni pare guardare da un’altra parte (è difficile sapere – forse la nostra Jacqueline Rastrelli lo sa e può dircelo – per esempio, che è successo delle città siriane assediate dalla jihad). Il solo Questo articolo appare in contemporanea fatto positivo è che gli Stati Uniti e anche su ©Futuro Europa® 21
COMMENTO
Jacqueline Rastrelli
Tunisia: Rivoluzione dei Gelsomini, atto secondo
La Tunisia non conosce ancora la portata della vittoria del Partito Nidaa Tounès, ma il Paese si rende conto dell’immensa occasione che queste prime elezioni politiche avvenute dopo la destituzione di Zine Al Abdine Ben Ali, nel 2011, le stanno offrendo per portare avanti il lungo cammino verso la Democrazia. Al di là del risultato, la tenuta di queste elezioni è già di per sé una vittoria democratica di grande valore. Per quanto concerne l’astensionismo, annunciato come essere un possibile sgradito “ospite” (ci si aspettava un’astensione del 50%, ma alla fine hanno votato il 60% degli aventi diritto), il suo peso non ha influito sulla portata dell’evento, anche se vi è stata una tangibile flessione rispetto al 2011, con un milione di elettori in meno. Tre anni dopo la caduta di Ben Ali, la vittoria di Nidaa Tounès sembrerebbe, a prima vista, mostrare che la Tunisia non ha tagliato completamente i ponti con chi aveva collaborato con il regime. In seno alla formazione vincente, ritroviamo in effetti vecchi dirigenti del “benalismo”, primo tra tutti il leader del movimento nostalgico, Beji Caiid Essebsi, 87 anni, che ha servito prima Burghiba e poi Ben Ali. Qualcuno parla di controrivoluzione di velluto, laddove la giustizia non ha forse fatto sufficientemente la sua parte lasciando a “piede libero” figure di un passato non proprio trasparente e pensa che oggi questo possa costituire un problema, insinuando il tarlo dell’impunità, un’impunità che verrebbe condonata di fatto,o per via legislativa, costituendo un problema per la democrazia. Ma per osservatori più “attenti” questa è stata una cattiva lettura
fatta dai media occidentali del risultato di questa elezione. Si dimentica in effetti che 70% dell’elettorato è secolarizzato, che gli elettori non hanno più molta fiducia negli islamisti e che Nidaa Toudès è costituita si, da un’ala conservatrice formata dagli ex RCD ( Partito di Ben Ali), ma anche da un’ala sindacalista e più a sinistra, rappresentata Da Taieb Baccouche. La forza della Tunisia oggi sta proprio nella sua capacità di mediare tra vecchio e nuovo in una continua crescita verso la Democrzia. I risultati delle elezioni dimostrano il bipolarismo della vita politica tunisina. Da una parte Ennahda, il Partito islamista. Dall’altra Nidaa Tounès, la formazione laica, o più precisamente “secolare con l’accezione anglosassone del termine” come tiene a precisare Baccouche, il Segretario generale del Partito. Durante la campagna elettorale, le forze politiche hanno giocato molto sui sentimenti anti Ennahda che dimostrava la popolazione, e in effetti Nidaa Tounès è riuscita a catalizzare il rigetto per gli islamisti che i tunisini ritengono responsabili per l’instabilità, l’insicurezza e la situazione economica e sociale. Ma il bipolarismo in Tunisia è relativo perché nessun Partito può governare da solo. Il Paese si sta quindi dirigendo verso una coalizione per via delle modalità delle elezioni. Chiunque sia il vincitore, Nidaa o Ennahda, il punto è che la Tunisia avrà bisogno di un Governo di coalizione nazionale, di un politica consensuale. E’ proprio questo modo di fare politica che ha salvato il Paese da ciò che invece stanno attraversando gli altri Paesi coinvolti dalla Primavera Araba, ha fatto presente
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Tunisia: Rivoluzione del Gelsomini, atto secondo
il leader di Ennahda, Rached Ghannouchi a cui va il pregio di aver saputo dar prova di saggezza tattica contenendo l’impazienza degli islamisti più radicali, capendo che non era forse un bene per il suo movimento prendere tutto il potere in un solo colpo. I Fratelli Musulmani in Egitto ne stanno pagano ancora le conseguenze. Nidaa Tounès potrebbe allearsi al suo avversario? In questo momento tutti i giochi sono aperti. I leader dei due partiti si sono visti durante la campagna e un’alleanza sarebbe nell’interesse di tutti. La giornata del 26 Ottobre è stata molto importante per la Tunisia. I tunisini sono andati a votare i loro Consiglio dei deputati del popolo per cinque anni. Come abbiamo visto, ci sono andati con una proporzione commentata da più parti – chi positivamente, chi negativamente – ma in numero sufficiente per legittimare l’istanza politica e il Governo che andrà a formarsi. È vero che i risultati hanno sancito il bipolarismo, che i piccoli Partiti denigravano e sembravano temere come un flagello per loro. I tunisini non li hanno però ascoltati e hanno consacrato il bipolarismo tra Nidaa e Ennahda. Alla loro lontana periferia ci sono due altri Partiti con i quali dovranno fare i conti ( anche se i voti presi non li rendono sufficientemente pericolosi) e con i quali dovranno condividere il peso della moderazione. Si tratta del Fronte popolare, una coalizione la cui base elettorale forse non riuscirà a costituire anche una base politica abbastanza solida e del Partito Tunisino Libero (PTL) del giovane imprenditore Slim
Riahi accusato da qualcuno di arroganza finanziaria, ma che è riuscito a sedurre buona parte dell’elettorato, soprattutto giovanile. Da tenere sott’occhio anche il Partito del giovane tecnocrate Yacine Brahim, l’Afek Tounès, che potrebbe giocare un ruolo importante in futuro. Per quanto riguarda la pletora degli altri partiti ha prevalso il discredito (Partiti “vecchi” o litigiosi o con leader troppo egocentrici)o la semplice selezione naturale (per quei partiti con progetti privi di spessore e senza ideologia). Il 26 Ottobre è venuta fuori la Tunisia dalla civiltà tre volte millenaria e dotata di un seme di Democrazia ereditato da Cartagine ancora fertile. Queste elezioni hanno sancito un importante passo della società civile tunisina, ma anche un grande progetto di incontro tra un Partito con una mag gioranza popolare ancora suscettibile di ampliarsi visto che, non dimentichiamolo, i due terzi dei tunisini non ha votato. La “Troika” (Ennahda, CPR, Ettakol) non ha funzionato e ora la Tunisia non deve cadere nella trappola di un Governo di unità nazionale che sia la sua caricatura, con la sola differenza di avere una base più larga. Un Partito eletto con una maggioranza ha il dovere di attuare il suo programma sulla base di un’ideologia ben delineata. Nidaa sembra avere la competenza necessaria per condurre il suo mandato: sta a lui ora di vedere con chi allearsi, come preannunciato nel suoprogramma elettorale, in base ad affinità ideologiche e di condivisione dei valori etici che permetteranno alla Tunisia, soprattutto ai giovani, di avere un vero futuro. I tunisini sanno di aver
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Gabriele Di Bella
assistito ad un evento incredibile: la nascita di un polo secolare, non islamista e attivo, che è stato capace di non cadere nella trappola dei brogli, delle manipolazioni, senza esercito che lo spalleggiasse ma che ha vinto grazie all’aiuto delle classi medie e delle elite imprenditoriali che si sono mobilitate per lui. Culla della Primavera Araba, la Tunisia ha vissuto un altro “D day” importante. Finora è riuscita a smentire la tesi cara ai partigiani dello statu quo nella regione che avevano decretato in una sorta di ipoteca sulla sicurezza del Paese, che qualsiasi cambiamento politico avrebbe aperto la porta verso il caos. Fino ad oggi la Tunisia ha dato prova di avere i nervi saldi. Adesso il Paese ripone le sue speranze nel vedere costituirsi
un’Assemblea tanto equilibrata quanto rappresentativa. Una seconda vita per la Rivoluzione dei Gelsomini è forse possibile. Adesso aspettiamo il prossimo appuntamento, tra un mese, che sancirà l’elezione del Presidente della Repubblica. In contrasto con il Presidente uscente, Moncef Marzouki, e con il Presidente dell’Assemblea nazionale costituente, Mustapha Ben Jaafar, il leader di Nidaa Tounès, Eji Caid Essebsi sembra ormai posto sulla rampa di lancio. Secondo gli esperti beneficerà della spinta elettorale di queste politica, anche perché Ennahda non ha presentato nessun candidato ufficiale. Ma anche se ha carte buone in mano, la partita è tutta da giocare.
Gabriele Di Bella
La Città dalle sette vite
Giorgio Pacifici e Ugo Pacifici Noja, La Città dalla 7 vite, Fontana di Trevi Edizioni, 2013, pp. 400
Ben oltre il “caso dei marò” e la disdetta di un contratto da 560 milioni di Euro a Finmeccanica (per dodici elicotteri Agusta Westland), l’India resta per l’Italia un Paese ancora tutto da scoprire. A dispetto della sua crescente influenza politica, economica e culturale, il gigante asiatico ci appare più familiare per la sua tradizionale cucina speziata, il cinema Bollywoodiano, La Città della Gioia, e un noto turismo spirituale. Solo di recente, l’India ha trovato spazio sulle prime pagine dei nostri giornali per le sue “dure” prese di posizione in vicende che sono solo un pretesto per affer-mare un’egemonia che va ben oltre i confini regionali. C’è bisogno però di conoscere meglio il nostro interlocutore asiatico, al di là delle apparenze. Ed è proprio con questo fine che esce nelle librerie, per la Fontana di
Trevi Edizioni, La Città dalle sette vite, il libro di Giorgio Pacifici e Ugo Pacifici Noja, che racconta il cuore pulsante del gigante asiatico, Delhi, senza piegare questa lettura alle controverse, e solo contingenti, vicende. Non una guida turistica, precisano gli autori, ne tanto meno un saggio storico, avendo avuto al contrario un occhio di riguardo alle più recenti mutazioni della società indiana. Lo studio degli Autori è frutto, prima di tutto, dell'incontro di due studiosi europei (sociologo, il primo e giurista e storico sociale, il secondo) con la ricchezza, la diversità e le contraddizioni, di un'antica città e una più antica cultura. Pacifici e Noja, descrivono luoghi visitati personalmente e ne riscoprono le radici più profonde. Ma non mancano, in questo volume, anche interventi di professori, saggi, poeti e blogger indiani, che con la loro viva voce descrivono le tante anime della Delhi di
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La Città dalle sette vite
ieri e di oggi: la tradizione ma anche la modernità. Un aspetto da non sottovalutare questo, per un studio sociologico, che così si arricchisce di linguaggi e stili diversi ma ben integrati tra loro, in modo da rendere questo prezioso saggio un'opera “corale”. I temi affrontati sono quelli tipici richiesti da un'analisi sociologica: la storia, il costume, i gruppi sociali; ma anche quelli meno scontati come: le questioni di genere, l'antica aristocrazia, l'università, il sistema sanitario e la metropolitana. Un capitolo a parte, arricchito da foto uniche, è dedicato alla dettagliata descrizione dello sviluppo urbano di Delhi e a quartieri come Gurgaon e Dwarka, luoghi simbolo della modernità indiana, o Chandni Chowk: un tempo sede di dimore nobiliari e luogo di tradizioni, vittima, oggi, del sovraffollamento e del degrado. Come in un grande racconto collettivo gli Autori danno voce alle personalità più o meno note dei settori strategici dello sviluppo economico ed umano di Delhi, perché è in questa città che si ritrova la sintesi delle con-traddizioni e delle meraviglie dell’India intera e dove si trova, con le parole degli Autori, il “Bastone del Comando” del subcontinente: “Per l’India non esiste problema di rilevanza nazionale o internazionale che in qualche modo non vada a riflettersi su Delhi” (pag.143). Non mancano poi brevi confronti con la cultura europea, che aiutano il lettore ad orientarsi nel labirinto indiano, fino a considerare anche il particolare punto di vista degli expat (gli stranieri residenti e benestanti) nella società indiana. Ed è proprio una di loro, Francesca Aragone, che nel suo microsaggio chiarisce il senso del titolo che gli Autori hanno scelto per il loro lavoro: “Delhi è stata la capitale di diversi imperi e ufficialmente all’interno dell’area su cui oggi sorge New Delhi gli storici contano sette diverse città costruite nel corso degli anni. C’è
chi arriva addirittura ad enumerarne 16. Qualunque tesi si voglia sposare, bisogna poi aggiungere alla conta un’ultima città, ovvero la Delhi Imperiale, che dà origine a quella che noi chiamiamo New Delhi. Oggi giorno le 7 città sono fuse senza soluzione di continuità …” (pag. 24). L'analisi è condotta con rigore e con sguardo aperto anche sugli elementi più critici della società indiana: la corruzione, ancora largamente diffusa e la violenza sulle donne, ampiamente raccontata anche dai media europei. Il linguaggio utilizzato dagli Autori è chiaro e lo stile accattivante e mai banale. Da notare che il volume è aperto con l'intervento del mecenate italiano Emanuele F.M. Emmanuele, Presidente della Fondazione Roma, che nel 2012 ha sorpreso la Capitale con la mostra “Akbar. Il Grande Imperatore dell'India”. Nel suo brillante contributo Emanuele richiama le tante affinità che accomunano Delhi con Roma: entrambe in passato capitali di grandi imperi. Giorgio Pacifici e Ugo Pacifici Noja hanno “catturato” il genius loci della Capitale indiana e l'hanno concentrato per sempre in questo piccolo ed elegante volume della Fontana di Trevi Edizioni e a testimonianza del forte legame tra i due studiosi e la capitale indiana, i ricavati dei diritti d’autore andranno a beneficio della Women Work & Health Initiative: un’associazione senza fini di lucro, che promuove l’alfabetizzazione delle donne del quartiere Sangam Vihar a Delhi. Ma La città dalle sette vite, è anche il primo volume della collana Spazio, spezie e fiori di Ibiscus, curata dallo stesso Giorgio Pacifici e destinata ad esplorare la varietà umana e culturale del continente asiatico. Aspettiamo dunque ancora che Giorgio Pacifici ci inviti e ci conduca a conoscere questo magico e imprevedibile territorio.
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MARGINALIA
di Antonio Casu
I volti del Gattopardo. Le origini del trasformismo
Il trasformismo in politica ha radici lontane. Ma le sue manifestazioni, come vedremo, sono sempre le stesse. E forti sono le analogie col presente. Vediamo le principali. Per rimanere alla storia contemporanea, ricordiamo che nella Francia rivoluzionaria le elezioni del 1792 avevano consegnato alla Convenzione due ali estreme, la Gironda e la Montagna, ed un centro moderato e maggioritario, la Pianura, presto spregiativamente definita la Palude, un appellativo destinato in seguito a grande fortuna, e che ancora oggi viene utilizzato nel gergo politico. La collocazione al centro dello schieramento e l'intrinseca eterogeneità politica dei suoi componenti rese la Palude indispensabile per la formazione di qualunque maggioranza. Fu così che la Palude prima consentì ai montagnardi di trionfare sui girondini, inaugurando la stagione che prese significativamente il nome di Terrore, per poi prendere il potere alla morte di Robespierre, ed infine svolgere un ruolo decisivo anche in seguito, nella fase che portò alla costituzione del 1795, o Costituzione dell'anno III, secondo il nuovo calendario repubblicano. Una costituzione che, risentendo nel suo impianto della negativa esperienza del Terrore, assegnava il potere ad un organo collegiale, il Direttorio, e proponeva un modello costituzionale attento a non favorire l'egemonia di un politico né dell'assemblea. Un modello esportato poi alle repubbliche italiane. In Italia, il termine trasformismo prende piede in particolare dopo l'unificazione nazionale, e designa una prassi contraddistinta dal variare delle maggioranze grazie al passaggio di parlamentari, sia della Destra che della Sinistra, da uno schieramento all'altro. Un fenomeno antico, si diceva. Ed anche una prassi che in realtà si era instaurata anche prima dell’Unità d’Italia, nelle assemblee parlamentari del Regno di Sardegna. Una manifestazione di trasformismo viene ritenuta il cosiddetto Connubio, cioè l’alleanza maturata nel 1852 tra la componente progressista della Destra storica, che aveva il suo leader in Cavour, e quella più moderata della Sinistra. In realtà, tuttavia, il fine di Cavour era quello di ampliare la base parlamentare al fine di attuare riforme strutturali nel Regno di Sardegna, in una
fase storica nella quale occorreva sostenere sul piano economico l’industrializzazione e sul piano politico il processo di unificazione nazionale. Un rilevante effetto del Connubio fu la creazione di una nuova centralità delle componenti moderate, e una corrispondente perdita d’influenza delle ali estreme. Ma è importante notare una caratteristica di quel processo: la distinzione tra maggioranza e opposizione non venne meno. Piuttosto si venne a creare una zona grigia tra parlamentari che militavano in fronti formalmente opposti, nella quale si costruirono intese e alleanze. Una zona grigia, una fascia smilitarizzata nel teatro di una lotta politica nella quale la maggioranza e l’opposizione continuavano a svolgere il loro ruolo istituzionale. La maggioranza, che tra il 1861 e il 1976 era guidata dalla Destra storica, erede e interprete del pensiero liberale e risorgimentale. La Destra aveva un problema principale: doveva risanare il bilancio statale che durante le tre guerre d’indipendenza del 1848, 1859 e 1866 si era fortemente squilibrato. Per farlo aveva tra l’altro aumentato, allora come oggi, il livello della pressione fiscale. L’opposizione, che al tempo si chiamava Sinistra, senza aggettivi qualificativi, aveva dunque buon gioco nel rappresentare il disagio sociale derivante dai provvedimenti più restrittivi e impopolari. Fece epoca la protesta sociale sulla cosiddetta tassa sul macinato. E un altro motivo di diffuso malcontento fu la politica nei confronti del Mezzogiorno che, allora come oggi, non fu capace di riequilibrare il suo modello di sviluppo generando ricchezza e lavoro. Inoltre il modello amministrativo era centrato sul modello piemontese, e anche la classe dirigente che operava nel Mezzogiorno veniva dal Nord, mentre quella borbonica ne rimase ai margini. Insomma, non ci fu la sperata osmosi e le due Italie restarono separate. Il Brigantaggio, e la repressione che ne seguì, ne costituì la manifestazione più evidente. Furono queste le ragioni principali per le quali nelle elezioni politiche del 1876 si registrò la caduta della Destra storica e l’avvento al potere della Sinistra. I problemi tuttavia, brigantaggio incluso, non si risolsero con l’alternanza al governo del Paese.
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(3-continua)
FRAMMENTI
Una sicurezza oscurata
Una linea progressista della storia dovrebbe condurci ad un Paese saturo di positività: una società libera e rassicuratrice, un corpo di soggetti operosi e solidali, un castello senza ponti levatoi, una giustizia equa e redentrice, una comunità affratellata nel rispetto dei simili che valorizza la parità di genere, una scuola che al sapere astratto aggiunge l’arte del fare e l’operosa sapienza del creare, uno Stato che teoricamente dovrebbe dismettere l’abito del guardiano per assumere quello dell’ospitalità e, last but not least, fornire ai destinatari della sua autorità e potere il dono della sicurezza. Un gioco prospettico di speranze disseminate tra il terreno di una storicità contingente e trainante e la rappresentazione di un luogo dipinto sulla tavolozza del desiderio che all’attesa fornisce l’alimento dell’immaginazione e al richiamo del bisogno risponde con l’inno alla gioia ritmato con la danza onirica d’una profezia salvifica: antidoto che un destino oscuro manovra irresponsabile. La delusione non riesce ad attingere il processo di disincanto della nienteficazione in agguato e l’uomo si culla nella frantumazione di un corso d’acqua friatica bevuta con ritmo saltellante, melodia che incanta il danzatore inesperto immolatosi al ritmo sfrenato verso la consumazione totale del volere quella felicità appagante che la linea progressiva della storia promette. Il sostegno alla fede utopica di poter eternizzare il bene e con esso la gioia viene purtroppo reso instabile dal seme dell’incertezza, dal germe della fragilità nell’universo umano, dall’imponderabile processo di disgregazione della protezione morale che la volontà opera nel rapporto del singolo con la comunità; pena il sorgere della rottura dell’equilibrio tra uomo e società e lo scatenarsi del male nella vita della comunità. Emerge prorompente la condizione della violenza e lo stato di insicurezza nella vita individuale e collettiva. Allora il teatro della vita collettiva si popola di attori, gli umani, che smentiscono la rappresentazione del bene, infrangono la regola della responsabilità e del diritto per cedere alla forza dell’istinto, dell’irrazionale, del demone dell’ aggressività generando stupore nei propri simili, essi stessi sospinti nel gioco del rapporto carnale e vittima. Di qui la condizione di fragilità di una vita che sconfessa la tendenza alla sicurezza e alla pace per irrorare l’esistenza individuale e
di Angelo G. Sabatini
collettiva con il complesso degli atteggiamenti del sospetto e della diffidenza. Lo sguardo si fa dubbioso e scrutatore sul compagno di viaggio che ti siede accanto o di fronte, sul viandante che calpesta lo stesso marciapiede, sull’individuo che nel parco getta il suo sguardo sui bimbi che ignari danzano come farfalle agili sospinte dal vento inconsapevole del probabile gesto di una mano pronta a colpire. Il mondo sognato dall’utopica riflessione dell’intellettuale costruttore di città regolate dal desiderio di una vita socialmente sana e prosperosa si converte di fatto nella città segnata da vicoli oscuri, dove si annida la sorpresa di un predatore pronto a convertirti in vittima o nella stanza di una dimora costruita per la nascita di un nido produttore di felicità convissuta trasformata in laboratorio di violenza, in officina di soprusi generati dal primordiale istinto del dominio. In questo labirinto di oscurità dilagante l’uomo si spoglia della veste ornata di certezze gratificanti e portatrici di luce per scivolare nel buio di una sicurezza frantumata. Il coibente di una città costruita sulla roccia si sgretola rovinando a valle dell’insicurezza, spazio privilegiato per il rapace condor della paura, che trascina l’inerme preda nella caverna degli istinti libertari. Ed è così che la violenza, anche quando non s’impossessa della città dell’uomo, produce frammenti di umanità tradita, covati e coccolati in uno sparo di pistola, in un coltello di cucina, in un laccio che soffoca, in uno stupro bestiale, in un furto di icone sacre, in un gesto folle come quello di Mada Kobobo, ghanese di 31 anni, che nel maggio del 2013 a Milano aggredisce due persone e sulla strada che percorre come un automa, colpisce con un piccone un pensionato e uccide davanti a un bar un uomo e si scatena contro un ragazzo. Il demone della violenza canta vittoria non solo perché tronca la vita di cittadini inermi svegliati da una esistenza pensata serena e protetta dalla vigile coscienza di essere parto di un tutto chiamato città, comunità, ambiente, segnali di appartenenza ad una società difesa dal potere protettivo e rassicurante di una struttura statale che difende i suoi cittadini; la vittoria è più profonda e più coinvolgente perché mina la certezza dell’essere protetti da quella sicurezza metafisica che l’uomo, come cantava Rousseau, in natura è buono.
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UOMINI E IDEE
Giuseppe Monsagrati
Garibaldi. Due secoli di interpretazioni Garibaldi. Due secoli di interpretazioni, a cura di Lauro Rossi segretario del Comitato nazionale delle celebrazioni per il bicentenario di Giuseppe Garibaldi presieduto dal sen. Andrea Marcucci.
Questo libro chiude degnamente le attività del Comitato nazionale delle celebrazioni per il bicentenario di Giuseppe Garibaldi e descrive attraverso 151 lemmi recanti il nome di altrettanti personaggi vissuti a cavallo tra XIX e XX secolo i percorsi biografici, politici e culturali di quanti tra i contemporanei e successivamente tra i posteri ebbero a incrociare la loro vita o i loro studi o comunque la loro attività intellettuale e di lavoro con il personaggio passato alla storia con il soprannome di Eroe dei due Mondi. Quello che ne risulta è un profilo a più mani che ci restituisce i mille modi in cui fu di volta in volta visto, percepito e rappresentato l’uomo dei Mille: servirà certamente agli addetti ai lavori ma allo stesso tempo sarà godibile da qualunque lettore nutra qualche interesse per le vicende, gli uomini e le idee che hanno portato l’Italia all’Unità. Può costituire una garanzia in questo senso il fatto che con Garibaldi e con quanti hanno scritto su di lui raramente ci si annoia. Grazie al contributo degli studiosi chiamati a collaborare, all’incirca una novantina, ci troviamo in condizione di conoscere, spesso scoprendole per la prima volta, le vite e l’impegno di lavoro di alcuni compagni e compagne di lotta di Garibaldi, di uomini politici sia del suo tempo che dei decenni successivi, di poeti, romanzieri, memorialisti e narratori, coevi e posteriori, oppure di registi cinematografici, o di pittori, scultori e disegnatori: tutti in qualche modo soggiogati – anche i detrattori - dal fascino di un uomo capace, con la sua personalità, di parlare a chiunque con il linguaggio più facilmente decifrabile,
quello dell’azione e dell’esempio. Anche gli storici sono qui adeguatamente rappresentati, ma senza quella preponderanza che ci si potrebbe aspettare, a riprova del fatto che per accostarsi a Garibaldi, ora come allora, il punto di partenza non è necessariamente quello dei professionisti della ricerca. Anzi, per dirla tutta, leggendo taluni di questi lavori, a volta dalle dimensioni di veri e propri saggi, vien fatto di pensare che un eccesso di accademismo, privilegiando una chiave di lettura per così dire ideologica ovvero iperspecialistica, possa pregiudicare una piena comprensione del personaggio e delle sue molte sfaccettature togliendogli quel tanto di mitico con cui lo osservava la gente del popolo: di qui l’impressione che un quasi contemporaneo come Ernesto Teodoro Moneta o un poeta come Carducci colgano bene le caratteristiche umane del Nizzardo senza tuttavia lasciarsi sfuggire quelle qualità di realismo e lungimiranza politica che in sede storica sono state più volte messe in dubbio. Vero è che anche tra i contemporanei, e soprattutto tra quelli che appartenevano allo schieramento repubblicano o più genericamente democratico – in una parola la Sinistra di allora – era abbastanza diffuso il giudizio di chi vedeva in Garibaldi un grande uomo d’armi ma una povera intelligenza politica ma questo non pregiudicava né l’ammirazione né il rispetto per lui. Molti degli interventi qui riuniti ruotano attorno a questo tema, che con l’altro del rapporto Garibaldi-Mazzini su cui pure mi soffermerò costituisce, almeno sotto il profilo storiografico, l’asse di una
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Garibaldi. Due secoli di interpretazioni
riflessione che, iniziata negli anni delle lotte per l’unificazione, ha poi innervato di sé le ricerche di biografi e storici. Di solito tale giudizio rifletteva una preoccupazione, che nei democratici era quella di una possibile eccessiva cedevolezza del Nizzardo alla monarchia (era questo il caso di un Asproni, di un Bovio, di un Guerzoni, di un Andrea Costa, per non parlare di Bakunin o di Marx che al di là della monarchia vedevano la struttura sociale su cui essa poggiava); nei liberali conservatori alla D’Azeglio o alla Cavour il timore era invece quello che una sovraesposizione del guerrigliero potesse oscurare la figura del sovrano a tutto vantaggio della propaganda mazziniana. Ripresa, come dicevo, dagli storici, una impostazione del genere reca in sé una buona dose di tendenziosità e di astrattezza: si spiega così la reazione risentita di Alessandro Galante Garrone che giudica assai sospetto l’accanimento contro le presunte insufficienze di Garibaldi come politico. D’altro canto l’affermazione di Rosario Romeo stando alla quale in Garibaldi il lato davvero deteriore sarebbe costituito dall’istanza populistico-illiberale da cui deriverebbe la sua fiera avversione per le istituzioni rappresentative coglie certamente un dato di fatto quale l’antiparlamentarismo; e tuttavia può essere condivisa solo se tale istanza la si riferisca al conflitto con Cavour e coi governi di Destra e non al periodo successivo al 1870, che è quello in cui proprio attraverso una presenza assidua in Parlamento prende corpo il rifor-
mismo sociale di Garibaldi: quel riformismo, per intenderci, che piacerà tanto a Bettino Craxi, anche lui presente in questa selezione assieme ad altri uomini politici del Novecento, a Nenni che lo precede di qualche anno con una biografia scritta durante l’esilio, ai comunisti Gramsci, Longo, Secchia, Togliatti, sempre consapevoli della dimensione popolare del personaggio che non hanno dubbi a inserire nella loro tradizione pur nella critica di un Risorgimento borghese e di classe, agli uomini di Giustizia e Libertà, i vari Rosselli, Calamandrei, Bauer, Ernesto Rossi, che invece accolgono tutto di Garibaldi facendo di lui il campione del riscatto nazionale da nemici interni ed esterni. A questa lunga lista di protagonisti della lotta politica novecentesca in cui figurano anche i nazionalisti e un Mussolini qui analizzato in tutta la sua complessità gli unici cattolici che si possono aggiungere sono rappresentati da alcuni gesuiti dell’Ottocento e da qualche storico reazionario, a riprova di una distanza che i cento anni e più trascorsi da quegli avvenimenti non sono riusciti a colmare. Ci si potrebbe chiedere se un libro come questo, sorta di dizionario biografico nel quale sono stati fatti entrare personaggi così eterogenei, sia da leggere o solo da consultare. Chiaramente il primo livello è quello proprio dei dizionari: si leggono i singoli profili, in cerca un po’ alla rinfusa di curiosità e notizie riferibili più o meno direttamente all’uomo intorno al quale ruotano gli
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Giuseppe Monsagrati
interventi qui raccolti. Non direi che è questo l’unico livello disponibile e nemmeno il più consigliabile. Un esercizio che un lettore accorto potrebbe compiere (e non solo in funzione di una migliore conoscenza di Garibaldi) sarebbe a mio parere quello di intrecciare tra loro alcune di queste biografie, quasi facendole dialogare e rintracciando in filigrana i punti di frizione o di raccordo. Come evolve l’atteggiamento della Sinistra verso le lotte nazionali nel passaggio per così dire dall’eredità della Rivoluzione francese all’impatto avuto dalla rivoluzione russa? cioè a dire nel passaggio dai rivoluzionari romantici agli internazionalisti e poi ai protagonisti della vita politica del Novecento? E quale è il rapporto tra trasformazione politica del mondo e ricerca storica? tra nascita dell’Italia unita e vita culturale del paese? Uno dei vantaggi dell’impostazione diacronica di quest’opera sta appunto nel fatto che essa consente, per usare un termine preso in prestito dal lessico merceologico, la tracciabilità delle idee con le quali si è misurata e sulle quali si è venuta formando la vita non di un uomo ma di più generazioni di cittadini italiani, europei e in qualche misura anche extraeuropei. Qui non c’è solo il Risorgimento: qui c’è il Risorgimento come luogo d’origine dell’Unità nazionale, ma c’è anche il Risorgimento come matrice delle ideologie del periodo post-unitario, e Garibaldi costituisce la sintesi più efficace di un’epoca storica in cui confluisce la questione italiana, in un quadro complessivo che però va ben oltre i confini della Penisola. Questa è solo una delle tante sollecitazioni che possono venire dalla scelta di accostarsi a Garibaldi attraverso più tagli prospettici. Parafrasando una celebre affermazione di Jules Michelet penso di poter dire che c’è in tutto il Risorgimento (e forse anche nella successiva storia dell’Italia liberale) un solo personaggio (e non se ne conoscono altri) che possa prestarsi a una così ricca e variegata molteplicità di approcci quale
quella documentata in questo volume. Come per Michelet, che però si riferiva alle caratteristiche eroiche dell’uomo, questo personaggio è Garibaldi. Ora è evidente che nella nostra storia sono parecchie le figure che nei rispettivi campi d’azione o di pensiero hanno esercitato un peso ragguardevole: un peso forse superiore al suo, o magari senza forse, se si pensa al ruolo svolto da un Cavour e prima ancora da un Mazzini. E però nessun altro ha saputo al pari di Garibaldi farsi ascoltare dalla gente e convincerla quale che ne fosse il livello culturale o il ceto di appartenenza o il paese d’origine a sostenere una causa che altrimenti sarebbe stata affare riservato alle corti e alle diplomazie. Nessuno – lo si vede da queste pagine - ha saputo ispirare con la stessa intensità i poeti, i romanzieri, gli artisti; nessuno è entrato nell’immaginario collettivo con la stessa prepotenza ma anche con la stessa umanità con cui vi ha fatto irruzione questo marinaio figlio di marinai, spesso uscendone trasfigurato nelle forme del mito o della leggenda: che è un altro segno della sua popolarità. Trasmesso e interpretato da lui l’ideale umanitario della nazione ha avuto più forza agli occhi delle masse perché, a prescindere da aspetti quali il disinteresse personale, l’onestà, la lealtà, proveniva da un uomo che era nato in una città posta ai margini della Penisola e presto destinata a non farne più parte: se in lui il sentimento nazionale era così forte, come non poteva esserlo in coloro la cui italianità era geograficamente meno precaria? Peraltro era appunto questa sua origine periferica a conferirgli i caratteri del cittadino d’Europa che mentre si batteva per la libertà della propria patria non riusciva a non pensare alle patrie altrui, tanto da fare di Caprera all’indomani del 1860 uno dei luoghi d’approdo privati più frequentati del Mediterraneo. Certo, l’amore delle folle non gli evitò di divenire spesso il bersaglio di molte critiche, appunto perché da più parti gli fu rimproverato di essersi prestato troppo
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Garibaldi. Due secoli di interpretazioni
docilmente ai disegni egemonici dei Savoia; resta il fatto che quando intorno al 1854 fece la sua scelta e cominciò a renderla pubblica, Garibaldi non agì né per opportunismo né per una rinunzia all’ideale repubblicano della giovinezza, ma per una realistica considerazione delle forze in campo e della possibilità di ottenere con quelle forze ciò che la sola iniziativa dal basso non avrebbe mai consentito di raggiungere. Se c’era bisogno di un’occasione per dimostrare il suo fiuto politico non ne avrebbe potuto avere una migliore, tant’è vero che alla fine lo stesso Mazzini dovette piegarsi: la
diffusa pedagogia della nazione, vorrei concludere con un’ultima osservazione di carattere eminentemente storico. Ritorna soprattutto attraverso gli scritti dei memorialisti e anche degli storici l’antica e mai risolta questione del rapporto conflittuale di Garibaldi con Mazzini, un Mazzini che non sempre esce bene da alcuni di questi contributi, là dove ad esempio lo si dice favorevole alla dittatura o lo si qualifica come “prigioniero delle sue formule filosofico-religiose”. Che si accettino o meno tesi del genere, è mia opinione che quanto di buono e positivo in termini di dedizione alla causa e di
differenza tra i due è che Mazzini, pur accettando l’unità monarchica, non perse mai di vista l’obiettivo della repubblica; Garibaldi invece, malgrado tra il 1861 e il 1870 si scontrasse più volte con le durezze del regime e nel suo intimo si sentisse repubblicano, non contestò mai la legittimità del potere monarchico, coerentemente con la teoria che aveva enunciato quando aveva parlato del regno inglese come di una repubblica perché garante del massimo di libertà possibile per i suoi sudditi. Riservando ad altra occasione una analisi del volume che dia lo spazio che merita anche al Garibaldi dei letterati e a quello dell’iconografia, fondamentale per l’uso che se ne fece in funzione di una più
senso della democrazia c’è stato nell’Italia pre e post-unitaria discende quasi sempre dalla lezione di Mazzini e di Garibaldi: non da uno solo di essi ma da entrambi, nella sintesi interpretativa che ne fece la tedesca Ricarda Huch prima di approdare all’opposizione al nazismo, o nella biografia garibaldina dell’inglese Jasper Ridley, obiettore di coscienza al tempo della seconda guerra mondiale; ovvero nelle riflessioni degli uomini di Giustizia e Libertà, capaci di andare ben oltre il dato biografico puro e semplice e dunque tralasciando i motivi personalistici del dissenso per cogliere invece il lato più fecondo e più reciprocamente condizionante del loro agire: mai per se stessi, sempre per il loro paese. 31
Maria Grazia Melchionni
Oronzo Reale
Il 23 gennaio 2012, presso la Sala della Lupa di Palazzo Montecitorio, è stata commemorata la figura di Oronzo Reale con la partecipazione di Valerio Onida, Livia Pomodoro, Valerio Zanone, Maria Grazia Melchionni, Stefano Folli e Giorgio La Malfa. E’ stata l’occasione per riportarmi alla seconda metà degli anni ‘80 allorché, collaboratore de La Voce Repubblicana, ebbi modo di conoscere e frequentare Oronzo Reale. In omaggio a quegli incontri ritengo doveroso ricordarlo riproducendo l’intervento di Maria Grazia Melchionni, autrice anche del volume Oronzo Reale 1902-1988. Storia di vita di un repubblicano, Marsilio Editore. (AGS)
Ringrazio il Presidente, ringrazio la sig.ra Gianna Radiconcini che mi ha invitata a partecipare a questa Tavola rotonda che onora un personaggio storico a me caro, ringrazio il pubblico che è presente e, poiché tutto ciò che era importante dire dello statista e del giurista è stato detto, autorevolmente detto, concentrerò il mio intervento sulla storia personale di Oronzo Reale – su aspetti della petite histoire, se vogliamo – cercando di rappresentare l’uomo Oronzo Reale, così come lo ho conosciuto nel corso delle conversazioni che avemmo fra aprile e settembre del 1985 ogni sabato pomeriggio, nel tranquillo salotto della sua casa di via del Pollajolo, il salotto di una casa borghese italiana, che ricordo con alcuni bei quadri dell’Ottocento sulla parete e su un tavolino i fiori freschi accanto al piccolo ritratto della moglie, scomparsa oltre vent’anni prima. Borghese era del resto l’estrazione familiare di Oronzo Reale, undicesimo figlio di un imprenditore edile leccese, Vito Reale, la cui ascesa socio-economica era stata favorita dallo sviluppo delle infrastrutture viarie promosso sul finire dell’Ottocento in diverse regioni italiane e all’estero1, e di una donna energica, Antonietta Zaccaria, impeccabile nei ruoli tradizionali di madre e di benefattrice. Quando nacque il loro undicesimo figlio, il 24 ottobre 1902, Vito e Antonietta gli imposero il nome del Santo Patrono della città, per impetrarne la grazia di non avere altri figli. A dispetto del nome, che suonava un po’ metallico con quella zeta, Oronzo
sviluppò una personalità accattivante. Era un giovane simpatico, intelligente, ironi-co, affettuoso, allegro, divertente e per queste sue doti fu naturale che emergesse fin da ragazzo come leader fra altri giovani. La sua formazione ideologica e politica avvenne nel quadro familiare, attraverso i modelli forniti dalle esperienze dei fratelli maggiori Egidio e Attilio, figure tipiche della generazione dei “figli del Risorgimento”, impregnati degli ideali repubblicani e democratici di derivazione mazziniana, che avevano assorbito sui banchi di scuola dalla lettura del popolare scritto etico e pedagogico di Giuseppe Mazzini, Dei doveri dell’uomo, e che erano largamente diffusi nell’ambiente politicoculturale leccese anche per effetto del tipo di evoluzione socio-economica verifi-catasi in Terra d’Otranto a fine secolo XIX2. Le azioni eroiche compiute in Francia durante la Prima guerra mondiale da Attilio, medaglia d’argento e croce francese, accesero anche nel fratello adolescente la passione politica3. Di Egidio, che era il fratello primogenito, maggiore di lui di oltre quattordici anni, Oronzo seguì le orme nel muovere i primi passi in politica. Egidio aveva cominciato la sua militanza politica repubblicana a sedici anni, organizzando a Lecce la prima associazione repubblicana. Oronzo lo fece a diciassette, costituendo nella città il circolo giovanile Goffredo Mameli. Egidio aveva fondato nel 1909 un giornale di ispirazione mazziniana, «Il Dovere», dirigendolo da solo per due anni4; Oronzo nel 1920 ne
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Oronzo Reale
ravviò la pubblicazione, insieme a Pantaleo Ingusci. Non che Oronzo fosse succube del fratello maggiore, poiché aveva una personalità ben distinta, ma per un insieme di circostante i percorsi di vita dei due giovani furono per un tratto molto simili. A Roma, durante gli anni dell’università, Egidio aveva collaborato attivamente a giornali e riviste repubblicani5; quando arrivò anch’egli a Roma, Oronzo fu nominato segretario generale della Federazione giovanile repubblicana e direttore dell’organo di questa, «L’Alba Repubblicana»6. Egidio si era laureato in Giurisprudenza a Roma nel 1912 e aveva cominciato a fare l’avvocato; Oronzo andò a Roma nel novembre del 1920 per iscriversi ad Ingegneria, ma giunto al secondo anno, impedito a frequentare dall’impegno politico e negato come sentiva di essere per il disegno, passò a Giurisprudenza e poi si diede all’avvocatura. Non solo, ma Egidio sposò Teresa Garbini nel 1922 e Oronzo sposò poi la sorella minore di Tina, Giuseppina, che era bellissima ma che morì giovane. Egidio si schierò contro il fascismo fin dall’estate 1919, in preparazione delle elezioni di novembre, e il giovane Oronzo fu tra quelli che lo affiancarono7, così come fu l’anima della campagna elettorale del fratello a Lecce nel 1924 contro il candidato fascista che era Achille Starace8. Così, sia per i legami familiari che per le idee repubblicane ed antifasciste, Oronzo fu molto vicino ad Egidio, fino a quando questi, nel 1926, per sfuggire alla persecuzione fascista lasciò l’Italia clandestinamente. L’impegno profuso nella lotta politica dai due fratelli Reale in occasione di quelle famose elezioni, che si svolsero sulla base delle legge maggioritaria Acerbo, pose entrambi nel mirino delle autorità fasciste: Egidio, che era membro della direzione del Pri9, ed Oronzo che, dopo aver lasciato per limiti di età nel 1924 la segreteria della Federazione giovanile repubblicana e la direzione de
«L’Alba Repubblicana», aveva fondato nel 1925 un giornale universitario, «Il Goliardo», con il quale andava contrastando la diffusione del fascismo e del nazionalismo nell’Ateneo romano. Nel 1926 entrambi furono condannati al confino, ma mentre Egidio fu arrestato e la misura poté essergli in un primo tempo applicata, Oronzo riuscì a darsi alla macchia, finché il confino non gli fu tradotto in sorveglianza. Riparato in Svizzera, Egidio continuò da lì la lotta antifascista, mentre Oronzo rimase a Roma, all’11 di via Fiammetta, nella condizione del sorvegliato speciale, continuando a lavorare un po’ nello studio di avvocato con un amico, Ettore Troilo, dopo che il fratello era dovuto scappare all’estero, ma al margine della vita pubblica e sociale. Nell’intervista con me egli ricorda alcuni momenti di quegli anni, nei quali l’isolamento di coloro che non si schieravano con il regime fu crescente, fino all’acme segnato dall’impresa etiopica; ricorda alcuni episodi riguardanti il controllo di polizia, ora pressante, ora lasco, ma comunque condizionante, al quale era sottoposto nei suoi movimenti e nei suoi incontri. Il quadro che egli fa della situazione è preciso nella sua essenzialità e chiaro, gli snodi della storia sono tutti rappresentati, i buoni e i cattivi sono nettamente identificati, ma non c’è odio nelle sue parole, non c’è desiderio di rivalsa. Il suo racconto, come scrissi allora, è “una pagina di umanesimo, impastato di capacità di comprensione e di tolleranza”10. Profilandosi la fine del fascismo, nella primavera del 1942 Oronzo Reale partecipò in pieno all’operazione di rinascita dei partiti, insieme a un gruppo romano di vecchi appartenenti al Pri, molti dei quali avvocati, che elaborarono in proposito un loro “Programma dei platani”, con l’obiettivo, fra le altre cose, di porre mano alla questione istituzionale e di dar vita ad un grande movimento repubblicano, antifascista, ma ben distinto dai socialisti, e che su queste basi
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Maria Grazia Melchionni
aderirono come membri fondatori al Partito d’Azione. Membro del Comitato esecutivo del PdA dal settembre 1943, rappresentante dello stesso nel Cnl romano dal 1944, Oronzo Reale rimase ligio alla pregiudiziale repubblicana anche di fronte all’emergere di tendenze compromissorie, confermandosi uomo di grandi principi. La guerra aveva fatto tabula rasa del quadro politico in Italia e tutto era da rifare. Oronzo, che aveva una personalità costruttiva, protesa verso l’avvenire, e non aveva grandi interessi oltre alla politica, vi si dedicò anima e corpo, e nel dopoguerra non fece più l’avvocato, ma solo il politico. Molto intelligente, dotato di senso pratico, di carattere mite perché temperato da sense of humour, easy going si direbbe oggi, Oronzo fece una rapida ascesa nella gerarchia del PdA prima e del ricostituito Pri poi e nelle cariche politiche: nel 1945 fu nominato consultore nazionale e nel giugno 1958, alla Terza Legislatura Repubblicana, venne eletto deputato al Parlamento11. Che dire della personalità di Oronzo Reale? Un uomo tranquillo, abitudinario: vecchie amicizie, extra politiche; l’abbonamento all’Opera; d’estate sempre in montagna, a Premosello (Domodossola), dove la famiglia della moglie era di casa, o nella bella Svizzera. Che avesse una personalità etica glielo riconobbero anche i fascisti, dandogli atto di una buona condotta morale, “non altrettanto civile e politica”. Visse “la lotta per la Resistenza come un momento di grande tensione morale”12, non aveva spirito vendicativo perché guardava avanti; era ponderato nei giudizi
e preciso, garbato nell’esprimerli; dotato di visione politica e deciso, ma prudente nel perseguirla. A proposito dei suoi giudizi, vorrei citarne due, che mi sembrano rappresentino la sua capacità di introspezione psicologica e di sintesi espressiva: “Sforza era un uomo di cui avevo una grandissima considerazione. Era un uomo orgoglioso e vanitoso, ma non ambizioso. Mostrava una notevole fermezza e convinzione nei confronti di certe idee fondamentali che raramente si trovano in un uomo politico”13. “Giovanni Malagodi, uomo di estrema intelligenza e di rarissime qualità, ma poco portato per la politica”14, un giudizio che avrebbe potuto essere sottoscritto da Jean Monnet, il quale aveva una grande considerazione per Malagodi, e con lui intrattenne una corrispondenza particolarmente fitta, ma che ne stigmatizzava regolarmente i suggerimenti di azione politica. Molto importante e lucida è la sua testimonianza sulle origini della Repubbli-ca, durante la quale egli fece parte – sono le sue parole – “di quella selezionatissima élite di politici che animò il PdA nella sua breve stagione politica”. La lettura di quelle pagine offre spunti di riflessione anche in relazione all’attualità politica, come quando vi si parla della scelta a favore della Repubblica presi-denziale fatta dal Direttivo del PdA nel preparare il programma per la Costituente15. Le nostre conversazioni, che avrebbero dovuto svolgersi solo intorno a quel tema, dopo aver abbracciato anche il periodo del fascismo, si spinsero molto oltre e riguardarono tutto il tempo della
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Oronzo Reale
sua lunga segreteria del Pri (1949-1963): quattordici anni durante i quali ci furono momenti difficili da superare, sia nella vita interna del Pri (la sconfitta elettorale del 1953, i dissensi fra Pacciardi e La Malfa), che nella scelta delle alleanze politiche. Nelle elezioni del 1958, Reale fu candidato al Parlamento nel collegio di Ancona, fu eletto e poi rimase deputato ininterrottamente fino al 1976. Mantenne la segreteria politica del Pri negli anni cruciali del varo dei primi governi di centrosinistra16, ma l’elettorato non lo seguì nella nuova strada indicata e, dopo le elezioni del 1963, che andarono male, egli lasciò la segreteria politica per entrare nel governo Moro come ministro della Giustizia. Fu quindi la segreteria Reale che portò a termine la missione di far evolvere la politica italiana verso il centro-sinistra, mentre La Malfa la continuò e la accentuò.17 Un invito che, rileggendo l’intero corpus documentale, mi rammarico di non avergli rivolto è quello a raccontare attraverso quali esperienze e quali considerazioni era avvenuta l’evoluzione della sua politica in tal senso rispetto a quella di una decina di anni prima, quando aveva concepito la rinascita del Pri su posizioni nettamente distinte dai socialisti. Una risposta, comunque, emerge ugualmente dalle sue parole poiché egli fa riferimento alla maturazione che si era verificata delle condizioni, anche e soprattutto internazionali, per un’evoluzione dei socialisti verso il centro, che da parte repubblicana si riteneva utile accompagnare e assecondare18. I ruoli di ministro guardasigilli, ministro delle Finanze e giudice costituzionale coronarono la sua carriera politica fra il 1963 ed il 1986. Non mi soffermerò sugli eventi più importanti di quest’ultima fase – la delicata operazione politica e diplomatica che fu la legge sul divorzio e la riforma del diritto di famiglia, che non fu facile disancorare dagli stereotipi tradizionali per adeguarlo all’evoluzione
avvenuta nella vita socio-economica e culturale italiana – che sono stati già trattati e vorrei chiudere celebrando la figura di Oronzo Reale con un’espressione inglese che gli si attaglia a mio avviso molto bene: a very decent man.
NOTE 1 Sonia Castro, Egidio Reale fra Italia, Svizzera ed Europa, Milano, Franco Angeli, 2011, p. 20. 2 Idem, pp. 22-23. 3 Maria Grazia Melchionni, Oronzo Reale 19021988. Storia di vita di un repubblicano storico, Venezia, Marsilio, 2000, p. 26. 4 Castro, Op. cit., p. 26 e nota 47. 5 Idem, pp. 26-27. 6 Melchionni, Op. cit., p. 29. 7 Castro, Op. cit., p. 40. 8 Melchionni, Op. cit., p. 31. 9 Fino allo scioglimento del Pri nell’ottobre del 1925. 10 Melchionni, Op.cit., p. 19. 11 Nel 1955 Oronzo Reale, pur essendo segretario politico del Pri, non entrò a far parte del Comitato Monnet, perché all’epoca non era parlamentare. La scelta del membro da designare fu fatta dalla direzione del Pri – dopo che Jean Monnet aveva fatto rappresentare da Egidio la necessità che egli aveva di introdurre nel suo Comitato solo personalità munite dell’investitura parlamentare – fra Ugo La Malfa, direttore de La Voce Repubblica, e Randolfo Pacciardi, ex segretario politico, e cadde su La Malfa. 12 Melchionni, Op. cit., p. 64. 13 Idem, p. 62. 14 Idem, p. 129. 15 Idem, p. 97. 16 1962, governo Fanfani, con Pri più Psdi e con appoggio esterno dei socialisti; 1963, governo Moro con Pri, Psdi e socialisti. 17 Melchionni, Op. cit., p. 146. 18 Idem, p. 148.
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Silvio Traversa, Angelo G. Sabatini, Gerardo Bianco, Luciano Violante, Renato Balduzzi, Antonio Patuelli, Antonio Casu
Etica politica democrazia
Presso la sala del Refettorio della Biblioteca della Camera dei deputati, il 30 ottobre è stato presentato il libro Etica politica democrazia di Antonio Casu
Silvio Traversa Il libro di Antonio Casu, edito da un editore di prestigio quale Rubbettino, offre oggi l’occasione di dibattere, con tanti autorevoli relatori, temi di grande interesse che il titolo del volume evoca: Etica, politica, democrazia. Nel porgere il saluto dell’ISLE, l’Istituto per la documentazione e gli studi legislativi che, unitamente alla Fondazione Giacomo Matteotti ha patrocinato questa iniziativa, desidero preliminarmente formulare a nome del Presidente dell’Istituto Augusto Barbera, impossibilitato ad essere oggi presente come pure avrebbe voluto, l’auspicio che i nostri lavori risultino particolarmente efficaci e costruttivi. Non posso non ricordare che le tematiche affrontate nel volume che viene presentato attengono alle ragioni stesse dell’esistenza dell’ISLE che ispirandosi ai principi della democrazia rappresentativa, ha tra le sue finalità statutarie quella della diffusione degli “studi sulla legislazione e le istituzioni parlamentari anche in rapporto con le istituzioni comunitarie” e di “collaborare alla impostazione tecnica ed alla documentazione delle attività legislative del Parlamento e degli altri organi costituzionali”. Così pure non posso sottrarmi dal richiamare un’amicizia ultratrentennale con l’autore il quale all’attività di fedele servitore dell’istituzione parlamentare ha felicemente e continuativamente accompagnato un’intensa attività di speculazione e di studio che si è tradotta in contributi scientifici e culturali di indubbio interesse e largamente apprezzati. In questo contesto proprio per una
qualche affinità con i temi affrontati nel volume che oggi presentiamo ricordo un altro importante volume pubblicato da Casu alla fine del 2011 con il medesimo editore e precisamente “Il potere e la coscienza” con sottotitolo “Thomas More nel pensiero di Francesco Cossiga” e che mi è molto caro non solo per il grande affetto che mi legava al Presidente Cossiga, ma altresì perché vi è attentamente analizzata la ricostruzione del ruolo determinante da Lui svolto quale autorevole proponente e sostenitore, unitamente a personalità di tutto il mondo, nei confronti del Santo Padre Giovanni Paolo II della causa diretta alla proclamazione di San Tommaso Moro patrono dei governanti e dei politici. Il che si realizzò il 31 ottobre del 2000 con lettera apostolica in forma di “motu proprio” di Papa Wojtyla e fu solennemente ufficializzato nel corso del “giubileo dei governanti e dei parlamentari” il 4 e 5 novembre di quell’anno, che ben ricordo per avere avuto l’onore di parteciparvi. Infine desidero richiamare il Convegno organizzato dal CENSIS e dall’ISLE l’8 giugno 2010 nella sede dell’Accademia dei Lincei e i cui atti sono stati pubblicati nel dodicesimo “Quaderno della Rassegna Parlamentare” con il titolo Etica e responsabilità – Principi fondamentali e società civile in Italia, a cura di Riccardo Chieppa e di chi vi parla, puntualmente citato da Casu, a conferma della spiccata sensibilità del nostro Istituto per i temi trattati nel libro che oggi si presenta. In quella circostanza i relatori affrontarono i diversi profili del rapporto tra etica e politica ed alle correlate responsabilità nel mondo del diritto e della cultura, delle
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Etica politica democrazia
imprese e delle banche, delle pubbliche amministrazioni, della giustizia e dell’informazione nonché gli aspetti deontologici nelle varie professioni. Nel ringraziarvi per l’attenzione e per la vostra numerosa partecipazione non mi resta che augurare buon lavoro a tutti noi.
Angelo G. Sabatini L’incontro di oggi si colloca nell’ambito del progetto della Fondazione Giacomo Matteotti per una serie di riflessioni sul tema dell’etica pubblica che si è tradotta già sia nella presentazione dell’aureo libro di Antonio Patuelli dal titolo Banche cittadini e imprese sia nel dibattito “Segni e significati di una crisi” (della democrazia), che è in atto sulla rivista di cultura “Tempo Presente”. Prima di affidare la parola agli ospiti mi sia consentita una breve riflessione sull’uso storico-critico della parola “democrazia” perché ci aiuta a cogliere il posto che il termine viene occupato nella riflessione di Casu. Ma ci fa anche capire le ragioni della diffidenza sul valore della democrazia e le ragioni che determinano l’inevitabile disagio attuale nei suoi confronti. L’incipit del prologo del volume ci immette subito nel cuore del problema: il soggetto centrale è la democrazia con le sue molte qualificazioni e il suo stato di salute molto critico. Va ricordato che soltanto dal secolo XIX “democrazia” assume un significato propositivo mentre dopo l’esperienza di Atene, cui guardiamo con molto interesse e apprezzamento, democrazia ha subito una lunga eclissi con un decorso degenerativo a partire da Platone che ne La Repubblica dichiara la democrazia “governo degli incompetenti, dove bisogna ascoltare il parere di qualsiasi stolto e dove ciascuno pensa a se stesso” e da Aristotele che classificò la democrazia tra le cattive forme di governo. Per millenni il regime politico ottimale venne dichiarato “Repubblica”. Basta pensare a Kant quando nel 1795 scriveva che la democrazia “è necessariamente un
dispotismo”. Dello stesso avviso erano i padri costituenti degli Stati Uniti: Hamilton parla sempre di repubblica rappresentativa, non di democrazia. Per trovare un senso elogiativo bisogna arrivare a Robespierre nel 1794; ma ciò servì a guardare con sospetto allo spirito rivoluzionario che vi era insito. Dalla seconda metà del XIX secolo la parola riacquista un significato positivo e propositivo. Perché questo richiamo storico? Per mettere in luce l’esistenza di uno spirito critico nei confronti della democrazia che fa da sostegno alla comprensione di ciò che chiamiamo “crisi della democrazia”. Una crisi che noi siamo portati a comprendere con una “preoccupazione” che potremmo dire eccessiva se chiariamo anche il valore semantico e fenomenologico della parola “crisi” usata come paradigma di lettura dello stato di disagio in cui oggi la democrazia vive. Nel Prologo Casu ci avverte che la constatazione della crisi della democrazia genera l’ansia per il suo futuro. Casu sa che il termine “crisi” usato per valutare lo stato attuale della democrazia ha esso stesso una doppia valenza: “negativa” quando l’utilizziamo per cogliere l’aspetto degenerativo del sistema politico che realizza i principi della democrazia, “positiva” quando indica il processo di trasformazione critica e di relativizzazione dell’ideale cui la teoria politica si richiama. E’ chiaro che la democrazia non gode di buona salute e, se fino ad oggi è stata un’aspirazione di milioni di persone e di molti popoli che non ne godono, ora si presenta con segni di debolezza e di inefficienza facendo dimenticare che la seconda metà del secolo scorso ne ha celebrato una impressionante serie di successi. Basta pensare l’aver sconfitto il peggior regime dittatoriale di sempre, la Germania nazista, e ha rimpiazzato dittature in Italia, Spagna, Grecia, creando in Europa occidentale una pace stabile e duratura come quasi non si era mai vista. E infine la caduta dell’Unione Sovietica.
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Angelo G. Sabatini
Un numero speciale dell’”Economist” ha fornito una descrizione efficace del cambiamento verificatosi, ponendo in luce che cosa fare delle vecchie democrazie e cosa con le nuove. Nella trasformazione della vita storica della democrazia, la descrizione sociologica di essa si riempie di elementi vari e determinanti. Questa breve riflessione serve a cogliere l’obiettivo e il metodo di ricerca di questo libro che si muove nella consapevolezza che la democrazia è un evento storico che oggi ha radici instabili perché instabile è il sistema di valori che guida la società d’oggi. E nella ricerca di una comprensione dello stato di crisi della democrazia la riflessione di Casu è illuminata dalla consapevolezza che la democrazia, perfetta nella sua struttura formale, è in fibrillazione se rapportata alla crisi di una società che a vari livelli difetta di un sistema di valori etici che nuoce alla politica, alla prassi politica, rendendo difficile l’uso corretto dei principi costitutivi di un sistema politico democratico. Da qui il titolo del libro Etica politica democrazia che di per sé rappresenta l’istanza di base della riflessione dell’Autore. Ma non è intenzione dell’Autore di dare forma ad un tribunale per accertare quali responsabilità siano da addebitare alla democrazia stessa rispetto alla crisi politica che stiamo vivendo, quanto piuttosto la chiarificazione di quali siano i fattori “reali” che ne rendono difficile la piena realizzazione. L’Autore sa benissimo di doversi muovere nella chiara consapevolezza di un quadro storico complesso e per certi versi sfuggente. Sa che le molte qualificazioni linguistiche e storiche che “democrazia” ha subito nel tempo, dalla lontana aurea stagione della sua nascita (la Polis greca) all’età del travagliato secolo della sua maturità (il Novecento), se intellettualmente danno un quadro di progressiva chiarezza di definizione maturata nei 2500 anni dalla nascita ad oggi, portano comunque con sé il travaglio, a volte benefico e a volte critico,
di quanti con occhi diversi e con forza persuasiva incerta hanno operato nella certezza che, comunque vista e comunque declinata, la democrazia è stata pensata come teoria politica più vicina alla possibilità di affermare una società libera e rispettosa dei diritti fondamentali della convivenza civile. Questa consapevolezza illumina il senso e il valore della riflessione di Casu che con passione e oculatezza si sforza di chiarire ai lettori come e perché una teoria politica così maturatasi nell’epoca di una civiltà, quella europea, tecnologicamente avanzata e socialmente dinamica, subisce un arresto per certi versi preoccupante. Una teoria politica la cui gestione attuale dà segni evidenti di un malessere che spinge alcuni commentatori di tendenza radicaleggiante a chiedersi se si può ancora parlare di democrazia in Italia e, in generale, ama definire la trasformazione un passaggio dalla democrazia moderna al bonapartismo postmoderno. Un aspetto della riflessione sulla crisi che il libro di Casu sottende ci porta alla convinzione che la prassi politica quotidiana ha perso l’aggancio alla piattaforma di lancio della sua funzione politica: l’etica. Ecco perché il titolo del libro Etica politica democrazia rappresenta una silloge circolare dove ciascuno dei tre temi evidenzia la crisi utilizzando gli altri due. L’interrelazione dei tre temi è evidente sia nel dichiarare una connessione produttiva nella presentazione di un quadro interpretativo coerente e dialetticamente efficace, e sia nel proporre la possibilità di un esito alla crisi, in termini di velata utopia, di una democrazia come modello imprescin-dibile di una società moderna e, perché no?, postmoderna come alcuni filosofi politici amano considerare la democrazia in crisi. Va rilevato che l’andamento costante delle riflessioni che alimentano questo “Breviario della crisi della democrazia” è l’attenzione a cogliere le ragioni e le forme del sisma che alimenta l’incerta vita della democrazia nelle forme e nella sostanza di una teoria politica risultata, come dice il celebre aforisma di Winston
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Etica politica democrazia
Churchill, “la peggior forma di governo eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”. Lo sforzo di Casu è quello di muoversi attraverso la consapevolezza della complessità della situazione storicopolitica attuale e che “la crisi della democrazia ha molte cause, politico-istituzionali, economico-sociali, culturali”. Ma su tutte sa che esiste anche un problema etico. Questo tema è, a mio parere, centrale nella riflessione di Casu. Del resto la sua formazione culturale, lo spirito che lo muove nella comprensione di un fenomeno storico-politico così attuale, nonché la familiarità di colloquio con uno dei più accaniti propugnatori della coscienza etica nell’agire politico, Thomas More di cui è eminente commentatore, lo spingono a cercare nella mancanza di un afflato etico nella politica la causa dell’attuale diffuso disagio e della cattiva lettura della crisi da parte di osservatori frettolosi schierati nel gruppo degli apocalittici. Il richiamo alle molte cause ci consente di ascoltare l’opinione dei nostri ospiti sul contributo che il lavoro di Casu porta alla comprensione della crisi, con particolare riferimento al tema del rapporto fra etica e politica.
Gerardo Bianco Il libro di Antonio Casu non solo può essere definito utile, ma anche, in un certo senso, “aureo”. Una siffatta definizione è possibile perché il volume condensa una profonda conoscenza della teoria politica con una chiarezza espositiva davvero esemplare. Una chiarezza di linguaggio, la sua, che non può che essere frutto di una lunga maturazione di pensiero. Casu affronta un tema centrale del nostro tempo: quello della crisi della democrazia è un discorso che viene da lontano, che sta assumendo oggi un carattere sempre più marcato, sotto certi aspetti addirittura drammatico. Böckenförde, un grande studioso di questi temi - che Casu cita - afferma che la democrazia non si giustifica per se stessa. Più precisamente, la democrazia in
sé e per sé è una forma di organizzazione della società che non ha al suo interno la propria giustificazione teorica. Non a caso nella lunga elaborazione concettuale politica, come bene precisa Casu, la democrazia è sempre accompagnata da un aggettivo, da una qualche specificazione. A questo proposito, nel prologo, l’autore offre una sorta di dizionario delle varie formulazioni della democrazia, andando subito al cuore del problema. Questa affermazione di Böckenförde si completa con la ricerca che lo stesso studioso ha fatto di dare un valore sostantivo alla democrazia. Non si può immaginare una democrazia che non abbia una base ontologica della organizzazione della società. Nel primo capitolo, Antonio Casu ripercorre con invidiabile capacità di sintesi quasi tutto il percorso del pensiero occidentale, a partire dall’indicazione del diritto antico – legato alla concezione divina – fino alla elaborazione dei grandi teorici della democrazia. Leggendo questo capitolo ritorna alla mente la Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi di Diogene Laerzio, in cui il pensiero dei filosofi antichi è sintetizzato in brevi frasi. A riprova di questa riflessione, si può fare riferimento ad un autore particolarmente caro a Casu, Thomas More. Citando lo stesso Casu, si legge: “La più alta voce dissonante rispetto tale indirizzo, nella prima metà del Cinquecento, è quella di Thomas More, per il quale il sistema dei valori etici si fonda sull’esistenza di una verità assoluta, attingibile mediante una retta coscienza. Pertanto la politica deve trovare un ancoraggio etico nella verità. Il conflitto tra Nomos e Logos si risolve in lui nell’Utopia, non velleitaria aspirazione a una peraltro inattingibile società perfetta, che caratterizzerà le utopie costruttivistiche dei secoli successivi, ma rivendicazione della libertà di coscienza come estremo baluardo contro l’abuso del potere”. La libertà di coscienza è un dato molto importante, che comporta anche un altro
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Gerardo Bianco
elemento, presente nel libro: il limite. Questo è il punto. Il limite è un concetto fondamentale. Gli antichi Romani avevano capito che la costruzione della Repubblica non si verifica senza il rispetto del mos maiorum, cioè di quel complesso di valori trasmessi di generazione in generazione e ritenuti essenziali per il mantenimento della coesione. Il grande problema di fronte al quale ci troviamo – e che Casu mette in luce – è la dissoluzione della comunanza dei valori: nel momento in cui non ci si trova più di fronte a valori condivisi, la democrazia arretra fino al punto di diventare teoria della neutralità rispetto ai valori, confondendo Stato etico e necessaria creazione di una democrazia accettabile, quale è quella dei valori condivisi, che non possono non esserne alla base. Negli anni Quaranta l’esperienza costituente poté esprimersi sotto il segno della condivisione dei valori, nonostante la profonda divisione teorico-filosofica sul modo di condurre una società. Tale divisione contrapponeva la visione comunista alla concezione delle libertà democratiche concepite in termini occidentali, seppur nel solco di un fondo valoriale comune, come per l’idea della famiglia. Sono rimasto molto colpito dall’intervista rilasciata al «Corriere della Sera» da uno scrittore giornalista di «Le Figaro», che ha pubblicato un libro nel quale sostanzialmente si sostiene la progressiva scomparsa di una originaria cultura francese. Naturalmente questo discorso è parziale e sbagliato, ma contiene un elemento di verità, riguardante la crisi della democrazia in Francia, che trova le sue ragioni nelle sue modalità meramente procedurali. La
procedura come unica giustificazione porta a conseguenze nefaste: la democrazia, diventando soltanto procedura, finisce per realizzarsi nel principio non giustificato della legalità. Il grande conflitto che non può non cimentare la riflessione dei teorici della politica e del pensiero filosofico riguarda la possibilità di conciliare insieme la democrazia come sistema di libertà (che naturalmente rimane il sistema politico più accettabile) con il problema di una società che si disperde ormai intorno alla mera richiesta di diritti. Una società che rinnega il principio che gli antichi individuavano nel fas e nel nefas, cioè in ciò che è lecito e in ciò che non lo è. Una società in cui l’unica cultura è quella acquisitiva, per cui ogni indirizzo deve essere soddisfatto, in cui non c’è più un limite. Il limite è un concetto fondamentale sul quale insiste giustamente Casu. Una società senza limiti diventa inevitabilmente un sistema che porta alla dispersione e alla deriva. Il problema è quello di riuscire a riconciliare questi elementi e a ricreare queste condizioni. Fondamentale in una democrazia è il dialogo, lo scambio di idee, l’interazione tra posizioni diverse che portano ad un elemento comune: una posizione molto presente dal punto di vista concettuale nella predicazione di Papa Francesco, imperniata sul dialogo come elemento fondante di una possibile costruzione di valori, fatta però senza pregiudizi, con la consapevolezza di chi comincia da zero e costruisce insieme, altrimenti l’esito finale non può che essere quello della destrutturazione della democrazia. In una società liquida, non sostenuta da un sistema di valori condiviso, il pericolo
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è quello della legalizzazione della stessa mancanza di valori. Basti pensare all’Olanda, dove esiste un movimento che, anche sulla base di richiami alla cultura antica, sostiene la legalizzazione della pedofilia. In Germania la legge ha deciso per la prima volta che anche l’incontro tra fratelli e sorelle può essere considerato come fatto neutrale. E’ complicato conciliare il senso della libertà con il senso dei valori condivisi, ma senza valori condivisi, non si costruisce una democrazia. Quelle di Casu sono pagine di estrema efficacia, in cui l’autore con grande consequenzialità e con rigore logico preciso trae le conseguenze di quello che potrebbe accadere La società che resta vittima della perdita di valori condivisi, diventa inevitabilmente corporativa: rispetto alla perdita di valori condivisi, emerge solo l’interesse, in una cultura contemporanea organizzata sul mero hic et nunc, dove non c’è un passato che ispira né un futuro al quale guardare, perché quello che conta è la società del web e della pura comunicazione, che Casu giustamente individua come società frammentaria, priva di quella solidità d’insieme necessaria per sostenere un sistema istituzionale efficace. Il libro è di grande interesse. Tra le indicazioni finali vi è una luce di speranza, perché si sostiene che non è detto che gli elementi di crisi, anche quelli più gravi, non possano essere l’inizio di una risposta positiva agli elementi negativi presenti all’interno della società. Alcune indicazioni vengono date in maniera estremamente chiara. Si parla degli effetti della globalizzazione, della sostituzione dell’economicismo alla politica, altro elemento fondamentale nella riflessione: nel momento in cui la politica perde il suo aggancio con il retroterra etico è evidente che la politica perda la sua fondamentale funzione di aggregazione, divenendo mero spazio di proliferazione di interessi particolari. È inevitabile che la politica entri in crisi, perché in assenza di regole la personalità
dei più forti diventa prevalente e schiacciante sui più deboli e la democrazia finisce per perdere la sua funzione di aggregazione e di comunanza. Allo stesso tempo, la ricerca dell’uguaglianza non può derivare nell’ugualitarismo, responsabile di comprimere i meccanismi della crescita e dello sviluppo. A questo proposito si pensi a de Mandeville, alla sua Favola delle api, in cui emerge l’idea che soltanto l’invidia possa essere un elemento di promozione sociale. In sostanza dobbiamo stabilire se una democrazia basata sul vizio – con una sua dinamicità – possa reggere alla lunga, oppure se sia una democrazia (quella delle libertà individuali) che in qualche maniera recupera le virtù e i valori quella che può dare le migliori risposte. Naturalmente la posizione di Casu è che non sul merito, non sul vizio, non sugli elementi negativi della competizione e dell’invidia, ma soltanto sulle virtù è possibile creare un sistema solido. L’aveva capito già Mazzini, che rovescia il discorso dei diritti in favore di quello sulle responsabilità. È una riflessione che da Aristotele, passando per Kant, giunge ai nostri giorni. Non a caso questo libro si apre con un passo tratto dell’Etica Nicomachea, in cui si sottolinea come ciò a cui l’uomo deve tendere sia il bene e non possa essere niente altro. E il bene è collegato inevitabilmente con l’etica. L’etica di Aristotele, d’altronde, non è quella individuale, ma quella della città, a testimonianza di come il filosofo greco avesse capito perfettamente che per costruire una democrazia c’è bisogno di un necessario fondamento etico.
Luciano Violante Uno dei grandi meriti di questo libro è quello di non precipitare i concetti all’interno di una sorta di “baratro regolatorio”, ovvero dell’idea che quando si parla di democrazia e di politica tutto debba chiudersi nei limiti di un sistema di regole. Le regole sono certamente utili e necessarie, ma esse da sole, come si è visto, non garantiscono la democrazia. Il
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merito di questo libro è di porre l’accento su quello che manca al dibattito prevalentemente regolatorio che si apre solitamente su questi temi: una Camera, due Camere, legge elettorale. La democrazia deve avere una spinta morale dentro di sé, perché senza di essa non riesce a realizzare i suoi obiettivi: è questo il senso del libro. A questo proposito è interessante soffermarsi sui fattori che – nel ragionamento di Antonio Casu – impediscono alla democrazia di realizzare se stessa. Nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, Machiavelli sottolinea un concetto assolutamente importante: soffermandosi sulla grandezza di Roma repubblicana, afferma che la grandezza di Roma repubblicana fu nella capacità di ordinare il conflitto. Parlando di ordinamento del conflitto, Machiavelli intendeva riferirsi alla necessità che lo scontro abbia dei limiti definiti. D’altronde i limiti al conflitto non derivano da un sistema di regole, ma dall’idea che un sistema politico non possa reggersi su una conflittualità permanente ed esasperata. Questo dipende dal fatto che entrambe le parti in conflitto hanno una stessa idea del futuro della comunità nella quale operano e vivono. Quello di cui si discute qui non è soltanto un problema italiano: alla fine dello scorso anno, ad esempio, gli Stati Uniti hanno vissuto un momento di fortissima tensione a causa del rifiuto dei repubblicani di garantire ad Obama la possibilità dello sfondamento del tetto costituzionale del deficit. In quel periodo, in un’intervista a «Il Messaggero», l’ambasciatore americano a Roma si espresse affermando che la società americana stava diventando sempre più una società politica americana: sempre più conflittuale, sempre più carica di tensioni e con nessun meccanismo in grado di governare questa deriva. Il secondo dato di riflessione è che quando si parla di “spinta morale” – cui Casu nel suo libro fa riferimento – la domanda fondamentale è: che cosa
caratterizza la democrazia? La risposta è: la fiducia, sia in senso orizzontale che in senso verticale. La fiducia orizzontale è quella tra i soggetti, quella verticale è la fiducia nei confronti di chi dirige, oltre che quella di chi dirige nei confronti dei cittadini. Questi due livelli di fiducia rendono forte la democrazia. Non a caso oggi il dato della fiducia è un altro dei valori fortemente in crisi e la crisi della fiducia è una grande questione della democrazia occidentale. E’ singolare che nelle democrazie tradizionali, antiche, si metta spesso in discussione il valore stesso della democrazia, mentre nei sistemi autoritari – come in Russia o in Cina – si sta invece spingendo per avere più diritti: praticamente nessuno è soddisfatto dei propri sistemi, tanto nei sistemi democratici, quanto in quelli autoritari. Siamo talmente abituati alla democrazia che non ci accorgiamo dei suoi valori e quindi non ci accorgiamo di quello che si può perdere, anche perché gli allarmi che continuamente vengono lanciati dal dibattito pubblico sul calo della democrazia e sulla perdita della democrazia fanno venire meno il senso dell’importanza della cosa: non tutti sono attacchi alla democrazia, non tutte sono perdite della democrazia. Quando tutto è un pericolo e una perdita per la democrazia, lo stesso allarme viene a perdere consistenza. Il terzo dato che Antonio Casu affronta è la questione del potere. Rudolf Smend, nel libro che scrisse in contemporanea con Weimar, ponendosi il problema di quale fosse l’atteggiamento dei tedeschi nei confronti del potere, osservava come essi avessero un atteggiamento ossequioso e servile nei confronti del potere da chiunque esercitato. Leggendo il libro di Antonio Casu mi sono chiesto: e noi, che atteggiamento abbiamo nei confronti del potere? Ho l’impressione che un certo cinismo che caratterizza la nostra storia e la nostra società ci renda abbastanza impermeabili e non particolarmente entusiasti nei
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confronti dei mutamenti. Ma la domanda che va fatta è se il potere è considerato un mezzo o è considerato il fine. La politica, infatti, è esercizio di potere, potere inteso come capacità di influenzare e condizionare il comportamento degli altri. Se il potere è il mezzo per raggiungere maggiore democrazia, maggiori diritti, una politica che risponda a valori etici, va benissimo; se invece il potere è lo scopo stesso, è la finalità, è chiaro che tutto viene subordinato alla conquista di maggiore potere. Dunque quando parliamo dell’atteggiamento nei confronti del potere è necessario operare una distinzione, perché il dato del potere come mezzo molto spesso nel dibattito pubblico sfugge e con esso sfugge il dato chiaro che il potere è consustanziale alla politica e la politica è consustanziale al potere. Non esiste politica senza potere. Può certamente esistere il potere senza politica, ma è potere militare e coercitivo, mentre il potere politico deve svolgersi sempre all’interno di circuiti democratici. L’ultimo dato sul quale voglio richiamare l’attenzione è la questione dei doveri. Viviamo ormai da tempo la stagione dei diritti – ricordo in proposito il bel libro di Stefano Rodotà Il diritto di avere diritti – ma siamo sicuri che i diritti tengano in piedi un sistema senza doveri? Io credo sinceramente di no. Credo che i diritti, senza un meccanismo di doveri, diventino armi che ciascuno agita contro l’altro per garantire i propri interessi. La Costituzione, non a caso, parla di diritti e di doveri. Nonostante l’art. 2 della Costituzione citi tanto diritti inviolabili quanto doveri inderogabili, l’esegesi prevalente si è concentrata quasi esclusivamente sull’asse dei diritti, tanto che l’ultimo libro sui doveri è quello di Giorgio Lombardi, scritto quasi cinquanta anni fa. Non si è mai studiato questo tema. Perché? Oggi c’è qualcuno che richiama la nostra comunità al problema dei doveri? E come pensiamo che ci possa essere un’etica politica se non c’è un senso del dovere? Anche perché è chiaro che una comunità che si basi solo sui doveri diventa una comunità auto-
ritaria, ma una comunità che si basa solo sui diritti diventa una comunità anarchica. Il problema – che è in trasparenza in questo libro – è il permanente equilibrio dei diritti e dei doveri. Ho l’impressione che oggi non vi siano personalità che richiamino al problema dei doveri, ma senza doveri non c’è etica e non c’è neanche democrazia. Attraversiamo oggi una fase di vera e propria debolezza culturale, visto che i doveri non fanno consenso. È sgradevole richiamare la gente ai propri doveri, anche perché chi li richiama deve essere il primo a doverli onorare e magari non lo fa. Credo che la questione dei doveri dovrebbe essere un passaggio successivo della riflessione di Antonio Casu, perché il tema è tutt’altro che secondario. Il dato che oggi non ci sia nessuna autorità politico-morale che richiami alla questione dei doveri dipende dal fatto che la democrazia della comunicazione si fonda sul consenso, più precisamente su meccanismi che fanno acquisire consenso immediato. Io credo che sia difficile oggi che qualcuno possa sfidare la carenza di consenso che verrebbe fuori invitando ai doveri. Il fatto che manchi un limite al conflitto, il fatto che non ci sia un accento sufficientemente serio sulla questione dei doveri e il fatto che non ci sia una riflessione sulla fiducia e sulla costruzione della fiducia ci costringe in una morsa tra ribellismo (inteso come “non volontà di”) e caporalizzazione. Mi ha colpito molto la ribellione dei sindaci sul tema delle nozze gay: è un diritto sacrosanto, ma sappiamo che giuridicamente non si può fare: il fatto che dei sindaci davanti alle telecamere strappino la circolare del Ministro è una chiara dimostrazione di questo ribellismo. Piuttosto che inneggiare ai sindaci che non trascrivono si potrebbe fare una battaglia politica affinché le unioni omosessuali vengano trascritte, ma non si fa. Perché parlare di caporalizzazione? Perché evidentemente un sistema che non ha queste caratteristiche diventa un sistema - seppur non autoritario - con una
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propensione al personalismo e poiché una persona da sola non può reggere un intero sistema è chiaro che per i rami vengano fuori soggetti che a loro volta occupano posizioni di potere. Questa analisi è al momento in corso in Francia, nei riguardi del sistema nazionale, dove ci si sta ponendo il problema della non rappresentatività del sistema politico, a causa delle legge elettorale vigente e al fatto che l’idea che un solo partito possa reggere un intero sistema produce questo effetto di caporalizzazione. Ho l’impressione che la riflessione di Antonio Casu sia una riflessione in fieri. Dobbiamo chiederci perché manchino leadership che si fondino su un giusto equilibrio tra diritti e doveri e non solo sulla proclamazione – talvolta estenuante – dei diritti. Il pullulare di diritti senza la minima contezza dei doveri sta producendo fenomeni piuttosto pericolosi nel sistema politico. Per questo le riflessioni di Antonio Casu sono importanti.
Renato Balduzzi Sei rapide notazioni, che altro non vogliono essere se non un invito alla lettura. Questo libro si presenta come un saggio ben scritto, denso ma di piacevole lettura, anche perché caratterizzato da una felice brevitas, che è merce rara in questi anni, dove non sembra esservi alcun punto di equilibrio tra la brevità sconcertante e deludente del tweet e la ponderosità eccessiva di tanti libri fatti con altri libri. Di Etica, politica, democrazia non è facile individuare la collocazione disciplinare. E’ uno scritto di scienza della politica? Di filosofia del diritto? Di storia delle idee? La risposta potrebbe essere, per ognuna di queste domande: anche. Infatti il volume ha carattere spiccatamente pluridisciplinare. Devo subito dire che la cosa non mi sorprende (conosco Antonio Casu da quasi trentacinque anni…), in quanto quella di muoversi agevolmente in più campi disciplinari, padroneggiandone i relativi metodi, è una caratteristica propria dell’autore. Interessante, perché,
anche in questo, non comune. Pluridisciplinare, ma non scritto a caso. Potremmo definirlo una sorta di Baedeker delle idee civili della modernità e della postmodernità. Il direttore Casu guida con perizia e competenza il lettore dentro i nodi concettuali e i crocevia della storia recente e meno recente. Ma non si limita a descrivere un itinerario (ricchissimo, articolato: si vede che Antonio non si limita a dirigere la biblioteca della Camera, ma la sa utilizzare…), si preoccupa anche di abbozzare una meta. Che cosa c’è nel volume? Direi soprattutto tre cose. In primo luogo, un itinerario intellettuale, che intreccia autori notissimi e figure sorprendenti, “guru” del pensiero democratico ed esponenti della politica e delle istituzioni, quasi a creare lo sfondo, il desktop della riflessione. In secondo luogo, la riflessione vera e propria, che è anzitutto diagnosi del disagio dell’intellettuale e del dirigente pubblico di fronte alla crisi etica della convivenza civile, all’incertezza dei suoi fondamenti e alle insufficienti risposte politico-istituzionali. Infine, un lessico di base per superare quel disagio e quelle insufficienze. Da questo lessico di base estraggo tre parole che ritornano più volte nel libro: coscienza, mitezza, fiducia. Se la prima parola è quasi scontata per chi, come Casu, ha sempre avuto tra i suoi amori intellettuali Tommaso Moro, l’accostamento della coscienza alla mitezza mi fa venire in mente un testo che sta alle origini del pensiero occidentale. Nella Prima Lettera di Pietro (3, 15-16) ci imbattiamo nel passo dove l’autore neotestamentario esorta i cristiani a rendere ragione della speranza che è in loro: è un passo molto noto, mentre lo è di meno la continuazione, che pure appare di straordinaria attualità; in quanto si precisa che questo va fatto con mitezza e rispetto, mantenendo retta la coscienza. Infine, la fiducia. In questo nostro tempo che è tempo di non fiducia e di sfiducia, in cui sembra che la cifra dominante sia
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proprio la diffidenza (verso l’altro, vicino o lontano; verso le istituzioni, grandi e piccole), non è mai sprecato insistere su questo tema: purché, come fa Casu, la fiducia sia razionalmente fondata e non soltanto emotivamente evocata. Che cosa manca nel libro? E’ una domanda quasi di rito in ogni presentazione che si rispetti, anche perché serve a dimostrare che la persona chiamata a presentare il libro lo ha effettivamente letto … Rispondo a caldo: l’Europa. Mi sembra francamente difficile uscire dalla crisi che Casu descri-ve soltanto a partire da una prospettiva nazionale, sia perché la risposta democratica della politica e delle istituzioni non potrà, per essere effettiva, non situarsi al medesimo livello che la globalizzazione dell’ etica e dell’economia impongono (e l’Europa, o almeno l’ Unione europea, allora sembra piuttosto un livello minimo), sia perché noi italiani abbiamo un urgente bisogno di trovare un qualche equilibrio tra un europeismo pratico molto avanzato – quello dei nostri giovani, quello della vita imprenditoriale e professionale – e un antieuropeismo ideologico e, forse, anche politico. Infine, quali sentieri da proseguire (secondo la celebre formula di Heidegger dei sentieri interrotti, che Casu utilizza un po’ come filo rosso delle sue conclusioni)? Sto con l’Autore e perciò condivido che ci voglia un di più di rappresentanza democratica e un di più di riconoscimento reciproco tra le culture, le etiche, le parti politico-sociali in conflitto. Quanto al primo profilo, constato però che stiamo rischiando di perdere
un’occasione. La riforma del Senato poteva essere il momento di un allargamento della capacità rappresentativa delle istituzioni parlamentari, immettendo nella seconda Camera esponenti (non “rappresentanti” in senso tecnico) dei tanti mondi vitali del nostro Paese, dalle professioni all’Università, dall’associazionismo alle autonomie locali e funzionali. Siamo ancora in tempo? Sul secondo profilo, ugualmente concordo con Antonio Casu, ponendo solo la sommessa precisazione che tale riconoscimento reci-proco non sia inteso come una generica e ambigua “pacificazione”, ma come quel mutuo apprendimento di cui parlavano l’allora cardinale Ratzinger e Juergen Habermas in un giustamente famoso dialogo di una decina d’anni orsono: che si tratti di un mutuo apprendimento, in cui ciascuno intraveda nella posizione dell’altro elementi e materiali che completano la propria.
Si è così di fronte ad un’aporia fondamentale, un vero e proprio paradosso etico della democrazia, perché una cosa è lo Stato etico, altra l’assenza o il rifiuto di una cornice di valori etici condivisi.
Antonio Patuelli Antonio Casu non è un filosofo né uno scienziato della politica. Casu è un consapevole. Consapevole perché sa da dove viene: è il direttore della Biblioteca della Camera e sa che uno dei primi atti nel 1848 dopo l’insediamento della Camera dei deputati a Palazzo Carignano in quella fatidica primavera risorgimentale fu quello di decidere l’istituzione di una biblioteca, nella consapevolezza che quello fosse il necessario fondamento di cultura civile per ben legiferare e decidere nell’aula parlamentare. Casu ne è consapevole e in questo suo volume cerca di riflettere sui principi fondanti di una democrazia costituzionale, attraverso l’analisi dei
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Antonio Patuelli
rapporti fra liberalismo e democrazia. L’autore è inoltre consapevole di avere una grande eredità morale da gestire, in un momento in cui questa autorità morale è da altri ampiamente sottovalutata. Nel 1991 Giovanni Spadolini pubblicò un indimenticato volume dal titolo Il carteggio di Benedetto Croce con la Biblioteca del Senato (1910-1952), in cui raccolse tutti gli scritti tra Croce e i direttori della Biblioteca del Senato, suoi grandi fornitori di documenti di ricerca storica e scientifica assolutamente introvabili. Nella sua prefazione, Spadolini spiegò in maniera nitida che attraverso il rapporto tra Croce e il direttore della Biblioteca si poteva analizzare il grado di decadenza della democrazia italiana e quello di avvitamento verso le fasi più difficili del regime, pur in quello che poteva considerarsi il polmone culturale del senato regio vitalizio e che dunque prescindeva dai doveri di riconoscenza nei confronti del duce. Casu è un garante consapevole: è consapevole di questa eredità storica e ne garantisce il pluralismo per gli inconsci. Le riflessioni contenute nel suo volume hanno un profilo nitido di testimonianza, di consapevolezza e di dovere civile. Senza i doveri i diritti non ci sono, perché senza i doveri i diritti vivono nell’ anarchia, nella sopraffazione e nel capovolgimento dell’equilibrio di garanzie. Mazzini e Minghetti, due personaggi ottocenteschi completamente distinti tra loro, elaborarono parallelamente teorie simili, stabilendo la superiorità dell’etica sul diritto. In un bellissimo saggio del 1834 e nel volume sull’etica pubblica, rispettivamente Mazzini e Minghetti arrivano a formulare praticamente lo stesso concetto, quasi con parole identiche, sostenendo che se un atto economicamente lecito e giuridicamente è invece contrastante con le ragioni dell’etica, non deve comunque essere posto in essere, perché l’etica sopravanza il diritto. Questi sono pilastri ancora validissimi in un’epoca nella quale il diritto non può e non riesce a codificare tutto, perché l’economia è più veloce del
diritto. Conseguentemente, l’etica deve supportare il diritto nelle sue lacune, per evitare il rischio della speculazione amorale. Il secondo pilastro di questo breve ragionamento riguarda l’etica. Di quale etica parliamo? Veniamo da due secoli di forte conflitto fra l’etica laica risorgimentale e post risorgimentale e l’etica cattolica. Lasciando fermi i presupposti di Mazzini e Minghetti bisogna riconoscere che la dottrina sociale della Chiesa ha compiuto nel tempo significativi passi avanti, dal momento che l’etica dei tempi di Minghetti e Mazzini non si presentava rispettosa del binomio doveri-diritti, ma imperniata soprattutto sui doveri, all’opposto di oggi. La codificazione della dottrina sociale della Chiesa, maturata lentamente, ma lungamente nei decenni successivi al Vaticano II, giunge con le ultime encicliche a degli essenziali punti di convergenza rispetto alle intuizioni prerisorgimentali di Minghetti e Mazzini, dissolvendo l’antico conflitto stridente fra l’etica laica e quella cattolica. Prevalgono i momenti di convergenza, in particolare nella convinzione che l’etica debba prevalere sul diritto. Un’etica non di parte, da definirsi senza aggettivi. In una civiltà moderna, l’etica deve fare necessariamente riferimento ai principi del costituzionalismo. Senza il costituzionalismo, infatti, c’è anarchia o dittatura. D’altronde il costituzionalismo è tuttora la frontiera più avanzata dell’ umanesimo civile: quando si vuole mettere ordine nell’anarchia di Internet si fa riferimento a determinate codificazioni, in nome di un costituzionalismo che non sapeva assolutamente che cosa potesse essere Internet, ma sapeva dipanare doveri, diritti, libertà civili, religiose, economiche e umane. Una delle cose più importanti di cui Antonio Casu si occupa è il tema della legalità, che da decenni è ormai oggetto di numerosi equivoci. E’ bene chiarire che la legalità necessita di una precisa aggettivazione, senza la quale il rischio è quello di tornare a tempi antecedenti
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addirittura alle formulazioni di Beccaria. L’essenza costituzionale: questa è la premessa indispensabile della legalità, tant’è che il ragionamento di Casu giunge fino all’estremo dell’aberrazione novecentesca, sostenendo che lì dove si applica una mera legalità senza fare riferimento ai principi dell’etica e del costituzionalismo, si può tranquillamente arrivare ad applicare doverosamente le scelte giuridiche di un regime come quello hitleriano (come dimostra la grande questione esplosa con il processo ad Eichmann). A questo proposito Mazzini, Minghetti e l’etica sociale della Chiesa ci sono di grande aiuto. In sostanza, l’etica viene prima del diritto e se esso codifica un’ aberrazione conflittuale con l’etica da un lato e con i principi di costituzionalismo liberaldemocratico dall’altro, ci deve essere una ribellione che non sia rivoluzione eversiva, ma netto rifiuto morale. E’ questo un ragionamento importante, soprattutto in una fase storica in cui la legalità viene sì invocata, ma in maniera sussuntoria. Dobbiamo applicare la legalità costituzionale sempre, ovunque e senza eccezioni. Già la variazione delle sanzioni per le violazioni delle norme articola il livello diversificato della gravità dell’illegalità, cioè della gravità dei reati. Ma non possiamo giustificare un sistema in cui molti si arrogano il diritto di discernere le regole che devono essere applicate da quelle che possono essere trascurate. Questo vale innanzitutto nella quotidianità della fiscalità, dove il reato morale va sradicato fin dalla quotidianità della non immissione del ticket per il caffè. Questo volume molto concettoso e denso di citazioni, non proprio nello stile di questi anni, non è realizzato sull’onda del populismo e della divulgazione, o della ricerca del profitto sensazionale di vendita. È esattamente l’opposto: è una testimonianza implicita di consapevolezza. E anche un po’ di sofferenza di vita.
Antonio Casu Desidero innanzitutto rivolgere un sentito ringraziamento agli organizzatori, la Fondazione Matteotti e l’ISLE, per aver promosso la presentazione del libro; ai relatori, per l’autorevolezza che hanno conferito all’evento e l’amicizia con la quale hanno accolto l’invito; e ai voi tutti, ancora così numerosi a quest’ora tarda. Questo libro, si è detto, non è un trattato, infatti è un ragionamento. La premessa è che la crisi della democrazia, non solo in Italia ma in tutto l’Occidente, è da molti conclamata, eppure tra le molte cause e con-cause alle quali la crisi è ascritta non viene quasi mai indicata la dimensione etica. Il motivo addotto nel libro è quello che ho deìfinito “il paradosso etico della democrazia”; in base al quale per evitare il rischio dello Stato etico, si è gradualmente rimossa la necessità di un ancoraggio etico della democrazia, in particolare con riferimento all’etica pubblica. Ma si tratta di un errore e insieme di un alibi, dal quale procede il disallineamento tra etica e politica. La tesi del libro è che senza un’etica pubblica condivisa e accettata, di indole convenzionale e pattizia, senza cioè un ethos condiviso, la società è destinata inevitabilmente a sfaldarsi, e la democrazia a contrarsi in un ambito sempre più ristretto e procedurale. E che per invertire questa tendenza occorre uno sforzo comune, un processo costituente, della stessa portata di quello che all’indomani del fascismo e della guerra consentì a forze realmente distanti tra loro di concordare un quadrante di regole nel quale tutti potevano riconoscersi. Nel libro, sostengo che il paradosso etico della democrazia si supera con un processo che non può non partire dal recupero del senso del limite, insieme presupposto etico e fondamento democratico, che presuppone ma anche induce il reciproco risconoscimento, che a sua volta attiva la responsabilità individuale come quella collettiva,
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generando fiducia nelle istituzioni. La sua assenza, al contrario, ingenera disincanto, e quel processo di sfiducia e conseguentemente di delegittimazione della rappresentanza che è stato anche oggi ampiamente ricordato. Senza una cornice di valori condivisi, si ricade inevitabilmente in un neocorporativismo non dichiarato e rinchiuso all’interno di una logica di gruppo che concepisce l’altro come hostis e non come ingrediente necessario della dialettica democratica, che isterilisce le comunità intermedie, ed accelera la disgregazione della società civile, attuando una vera e propria ellisse della democrazia, cioè compiendo a ritroso quel cammino di unità delle istituzioni politiche che ha impiegato secoli per inverarsi dopo la stagione di lacerazione sociale e politica delle guerre civili di religione. Il libro delinea quindi alcuni percorsi interrotti (i citati holzwege) da riprendere anche concretamente sul piano della traduzione normativa di ogni intervento
politico: oltre al recupero del senso del limite, la riaffermazione del principio di responsabilità; del principio di legalità; del principio di trasparenza; il rilancio del sistema di formazione; il rispetto delle regole; un’etica dei diritti correlata a quella dei doveri; una seria lotta all’esclusione sociale; la valorizzazione delle competenze contro la mistica del merito. Tanti percorsi per provare a ricostituire “una concezione comunitaria dei beni pubblici, ovvero una concezione dei beni pubblici come beni comuni”. Non si tratta di utopia, ma di stato di necessità. Ed occorre riacquistare la fiducia di potercela fare. La nostra storia ci ricorda che abbiamo già dimostrato di potercela fare. Quando Pandora aprì il suo vaso, ne uscirono tutti i mali, che si diffusero rapidamente nel mondo. E quando il vaso fu richiuso, vi rimase imprigionata solo la speranza. Ecco, penso che ora dobbiamo riaprire il vaso e fare uscire la speranza. Ed operare di conseguenza. Grazie a tutti.
(...) la crisi etica dello Stato è anche una crisi di partecipazione democratica, presupposto indefettibile del confronto e della conseguente individuazione di soluzioni comuni, della condivisione di un progetto di società.
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DISCUSSIONI
Francesco Pezzuto
“La Buona Scuola” del governo Renzi
Affrontare il tema della riforma della scuola in Italia include la ineludibilità di un punto di partenza: la riforma Gentile del 1923. La ragione dell’inevitabilità di siffatto confronto non sta tanto nel fatto che la quasi totalità degli addetti ai lavori, anche di coloro che hanno mostrato e mostrano un atteggiamento ostile a quella impostazione proviene da un percorso scolastico liceale, quanto nell’importanza civile e culturale di quella riforma. La scuola gentiliana presuppone, infatti, una precisa idea della storia dell’Italia moderna, di quell’Italia scaturita dalla vicenda risorgimentale e dalla cultura filosoficoletteraria, civile, etica e politica che l’aveva caratterizzata. Il livello così alto della formazione secondaria della scuola in Italia, almeno fino a qualche decennio addietro, è stato il risultato più avanzato di quella storia durata circa un secolo. Tutti i tentativi di rifondazione della scuola italiana, a parte i parziali e spesso inevitabili ritocchi (vedi la scuola media unica del 1963 o l’introduzione di nuove discipline attinenti alla realtà empirica come l’informatica), sono falliti clamorosamente perché ispirati a principi astrattamente ideologici, spesso in contrasto con la sensibilità dei ceti emergenti costantemente alla ricerca di una specifica identità culturale. Nella sua ricerca filosofico-pedagogica ispirata all’idea dello spirito che si fa prassi e che non può ignorare, nel suo attualizzarsi, il percorso già tracciato, Gentile aveva esattamente capito che senza la formazione dell’individuo che scava dentro di sé la profonda umanità rigorosamente connessa con la tradizione storico-umanistica non si forma il cittadino che si intrinseca con lo
Stato e che è in grado di percepire la giusta connessione con le esigenze sociali della collettività, superando con l’aristocrazia del sapere l’ingiustizia e le differenze sociali. Non è un caso che le grandi menti politiche della seconda metà del Novecento e oltre e i grandi capitani dell’industria italiana provengano da percorsi di quel che resta della scuola gentiliana. In tema della riforma scolastica in Italia un problema fondamentale è quello relativo all’orientamento, in particolare all’orientamento sociale, nella scelta degli studi superiori, dove si registrano impressionanti squilibri nella distribuzione delle percentuali di preferenza, con la persistenza di elevati livelli di scelta verso i licei e scarsa opzione verso il circuito dell’istruzione e della formazione tecnica e professionale. Il riferimento più recente è quello relativo alle iscrizioni dell’a.s. 2014/15, che confermano la tendenza dell’ultimo decennio: ai licei risulta iscritto il 49,8% degli studenti con un ulteriore incremento dello 0,9% rispetto all’anno precedente, mentre agli istituti tecnici si è iscritto il 30,8%, con un decremento dello 0,4% e agli istituti professionali il 19,4% con un decremento dello 0,5%. Particolare importanza assume la scelta orientata verso indirizzi con la presenza del latino e della filosofia, discipline proprie della tradizione culturale italiana: in sostanza, di quel 49,8% il 35,3%, che contiene anche la scelta del liceo classico in misura del 6%, sceglie i licei scientifici, linguistici e delle scienze umane, mentre soltanto il restante 14,5% sceglie gli altri indirizzi senza il latino e la filosofia (compreso il liceo scientifico delle scienze applicate).
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Se questi dati vengono confrontati con quelli degli anni precedenti, si registra una tendenza sistematica delle scelte degli studenti e delle famiglie verso studi culturalmente più significativi sotto il profilo psicologico e sociologico e anche sotto il profilo della promozione sociale. La differenza con i Paesi dell’Ocse e dell’Europa in genere è impressionante, se si considera che in tali Paesi la media degli studenti che frequentano l’istruzione professionale è più del doppio di quella che frequenta la stessa tipologia di scuole in Italia. Tutto ciò dimostra come le correzioni del sistema scolastico italiano tendenti ad incrementare le scuole tecnico-professionali, a cominciare dalla riforma Bottai (riforma approvata con la legge 899 del 1940 e che, accanto alle scuole di avviamento al lavoro sopravvissute fino al 1963, istituiva la scuola media unica dalla quale prendevamo avvio i licei, gli istituti tecnici e l’istituto magistrale, con l’obiettivo dichiarato di una forte mobilità sociale) fino ai processi di sperimentazione degli anni Novanta (vedi i piani di studio e i programmi per il triennio della scuola secondaria di 2° grado proposti dalla Commissione Brocca) e alla forte distinzione fra licei, istituti tecnici e istruzione professionale della riforma Gelmini, non abbiano avuto grande successo. Un altro problema che riguarda la riforma della scuola italiana è quello relativo al rapporto fra numero docenti e numero studenti e ai conseguenti livelli di qualità, visto che i risultati dei test Ocse-Pisa dimostrano l’esistenza di livelli di qualità inferiori rispetto ai paesi dell’Ocse. In Italia si è scelta, soprattutto dagli anni Ottanta in poi, la linea della dilatazione dell’impiego pubblico nella scuola, impegnando consistenti risorse a scapito della qualità dell’insegnamento e della valutazione del merito. Fin dagli anni Ottanta, infatti, il rapporto docentistudenti nella scuola italiana rispetto ai paesi dell’Ocse è stato sempre molto più elevato: negli anni Novanta, dopo
l’introduzione del modulo nella scuola primaria in Italia il rapporto è di un insegnante ogni 9,8 alunni, mentre per esempio nel Regno unito c’è un insegnante ogni 21,4 alunni. Il quadro è ancora più evidente se si considera che nel 2005, circa dieci anni dopo il fallito tentativo del ministro Berlinguer di introdurre timidi elementi di valutazione del merito del corpo docente, si registra la presenza di 9,4 docenti ogni 100 alunni nella scuola secondaria e 9,2 nella scuola primaria, a fronte della media Ocse di 7,6 docenti nella secondaria e 6,1 nella primaria, e della media europea di 8,5 nella secondaria e 6,8 nella primaria. Se si considera il basso livello della qualità dell’istruzione in Italia (nonostante i recenti timidi miglioramenti registrati sempre dai test Ocse - Pisa 2014 gli studenti italiani restano deboli in italiano e matematica) risulta evidente che la qualità dell’istruzione in Italia dipende da una molteplicità di fattori, a partire dalla scarsa motivazione in un gran numero di docenti, spesso diventati tali per ripiego, dal clima sindacale (la difesa acritica del lavoratore tout-court, che solo poche associazioni sindacali non intraprendono), dalla insufficiente preparazione conseguita nell’iter universitario, nonché dalla mortificazione del merito; tutti motivi che concorrono, fra l’altro, alla formazione di una immagine sociale della classe docente non sempre positiva. Tutto ciò ha contribuito negli ultimi decenni ad abbassare il livello di partecipazione di molti docenti al miglioramento della scuola italiana ed anche il livello di preparazione degli alunni; anzi, il più alto numero dei docenti rispetto agli altri Paesi europei non ha contribuito a migliorare i risultati. In questo quadro in cui giuocano un ruolo molto significativo le condizioni fin qui analizzate, che hanno un peso fondamentale in fatto di riforma della scuola (ripetiamo: resistenza del nucleo
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culturale della riforma Gentile, scelta da parte degli studenti e delle famiglie orientata verso i licei, pletora del numero degli insegnanti nonostante la riduzione verificatasi negli ultimi anni dal ministero Gelmini in poi e scarsi risultati in fatto di miglioramento della qualità dell’istruzione, come confermato dal rapporto Ocse 2014) il 3 settembre scorso ha fatto irruzione nel panorama politico italiano il progetto governativo denominato “La buona scuola”, costituito da dodici punti, con il dichiarato obiettivo di svecchiare la scuola italiana. Ad una lettura attenta, tuttavia, nonostante le buone intenzioni di coloro che hanno lavorato alla compilazione del progetto e l’altisonanza della comunicazione tipica del Presidente del Consiglio dei Ministri, non sfuggono i nodi e le difficoltà. Innanzitutto è subito rilevabile come il progetto non intacchi minimamente l’attuale sistema ordinamentale complessivo della scuola italiana delineatosi nel lavoro legislativo durato un decennio e conclusosi durante l’ultimo governo Berlusconi con i DD.PP.RR. nn. 87-88-89 del 15/03/2010, con i quali venne definito l’assetto della scuola superiore, degli istituti professionali, degli istituti tecnici e dei licei, che, entrato in vigore nell’a.s. 2010/11, si concluderà nel corrente a.s. 2014/15. D’altro canto il testo del progetto Renzi–Giannini recita chiaramente “il sistema d’istruzione italiano non va assolutamente stravolto” e punta con decisione sui margini di autonomia delle singole scuole che consentono di gestire ragionevoli spazi di flessibilità. E’ da sottolineare a questo proposito che l’assetto ordinamentale che vede i licei, gli istituti tecnici e gli istituti professionali distinti e di competenza statale è frutto della elaborazione successiva alla riforma Moratti del 2003, che aveva fatto scivolare l’istruzione tecnico-professionale nella competenza delle regioni, rivelatesi del tutto impreparate, in omaggio alla riforma del
titolo V della Costituzione oggi universalmente ritenuta fonte di tutti i guai nazionali. Dal cacciavite del ministro Fioroni al lavoro di risistemazione del ministro Gelmini è stata recuperata la distinzione ed è stata superata la proposta Berlinguer della licealizzazione dei tre indirizzi e del biennio unico. Nel progetto Renzi-Giannini non c’è, quindi, traccia di un’ipotesi di smantellamento dell’attuale sistema e ciò potrebbe consentire una vera pratica dell’alternanza scuola-lavoro, che avvicini la scuola tecnico-professionale italiana alle Technische Schulen tedesche (pur mantenendo naturalmente la peculiarità del sistema italiano nel quale l’ambiente scuola prevale sull’ambiente lavoro, a differenza di quanto accade nei Laender tedeschi dove l’ambiente lavoro prevale sull’ambiente scuola), ed incidere positivamente sulla scelta della scuola superiore da parte degli studenti e delle famiglie. Se si fa eccezione, infatti, per l’intenzione dei piccoli ritocchi concernenti l’incremento della musica e dello sport nelle scuole primarie e della geografia e della storia dell’arte nella scuola secondaria, non è rilevabile altro cambiamento ordinamentale. Per il resto il progetto governativo Renzi-Giannini ha l’ambizione di azzerare i vizi atavici della scuola italiana, a partire dalla volontà di vincere le difficoltà pratiche che a tutt’oggi hanno reso difficile l’organizzazione della didattica. Ben vengano il superamento dell’annosa piaga del precariato e il reclutamento soltanto attraverso regolare concorso (sempre che, una volta svuotate le graduatorie ad esaurimento e assorbito tutto il precariato negli anni previsti dal progetto, restino posti da mettere a concorso), ma bisognerà comunque attendere le disposizioni attuative e la loro operatività, altrimenti tutto si fermerà nella politica degli annunci. Vale la pena, tuttavia, di analizzare alcuni tra i punti più qualificanti del progetto, due riguardanti i docenti ed uno riguardante gli studenti:
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1. La carriera dei docenti fondata sulla qualità; 2. La valutazione e il merito; 3. L’alternanza scuola-lavoro. Per quanto attiene alla carriera dei docenti fondata sulla qualità, sarà utile osservare che dopo l’esperienza dei concorsi, spesso a zero posti, banditi nel 1999 ed espletati nel 2000 con il risultato di generare un numero impressionante di docenti idonei e di docenti abilitati e quindi di incrementare nel tempo il fenomeno del precariato, la legge delega n.53 del 2003 aveva attribuito alle Università il compito della formazione dei docenti attraverso la laurea specialistica e la selezione del numero dei partecipanti in base alle esigenze del sistema scolastico. Se si vuole essere obiettivi, inoltre, si deve riconoscere che la legge delega n.53/2003 è l’unica legge che ha dedicato una particolare attenzione alla formazione degli insegnanti, stabilendo all’art.5 tutti i passaggi necessari per conseguire il risultato di formare insegnanti preparati, compreso il tirocinio nella scuola. Non è detto che il concorso in sé, ripristinato nel 2012, sia il canale più adatto a garantire la qualità dei docenti se non viene attivata quella serie di passaggi propedeutici già di per sé atti a preparare all’insegnamento, a partire dalla conoscenza dei contenuti delle discipline da insegnare, che è di fondamento per il conseguimento delle necessarie competenze; è necessario, infatti, garantire la qualità ab origine, quella qualità che si fonde con la scelta sentita e meditata nonché con l’impegno ad acquisire una preparazione combinata con la vocazione, senza sminuire o persino deridere chi ancora oggi considera l’attività docente come una missione. Su questo fondamento ben selezionato può essere ideato un percorso di carriera che sia un combinato di anzianità e di attiva partecipazione, senza trascurare il fatto che, se l’anzianità in sé non significa merito tout-court, essa comporta comun-
que un patrimonio di esperienza che incide positivamente sull’attività didattica. Pertanto la qualità del docente come fondamento della carriera non può non essere costituita da tre elementi imprescindibili: la severa formazione iniziale, l’anzianità intesa come patrimonio di esperienza e la partecipazione attiva ai processi di miglioramento della vita scolastica. In questo quadro un problema molto delicato è quello della valutazione, che non può che privilegiare il merito e che dovrà essere affrontato tenendo presente da una parte la normativa già esistente e dall’altra il clima e il comportamento di larghe fasce di insegnanti ostili alla pratica della valutazione Anche qui bisogna ricordare che sempre la legge n. 53/2003 all’art. 3 pone a chiare lettere la necessità di norme generali per la “valutazione degli apprendimenti e della qualità del sistema educativo di istruzione e formazione” e che con il conseguente D.Lgs. n. 286/04 si mette un punto chiaro attraverso l’istituzione dell’Invalsi, Istituto al quale il Miur nella Direttiva n.74 del 15 settembre 2008 chiede di affrontare il problema della valutazione degli insegnanti “ai fini premiali di carriera e retribuzione”. Il compito dell’Invalsi era quello di studiare le normative internazionali concernenti la valutazione del personale scolastico perché, come ha osservato di recente anche Giorgio Israel, il problema è delicato e non lo si può risolvere premiando gli insegnanti che aderiscono alle attività extrascolastiche o coloro che propongono i progetti (a volte i più strampalati) sottraendo spesso energie e risorse a scapito dei fondamentali apprendimenti curriculari. Né il merito potrà essere misurato con la partecipazione a corsi di specializzazione che, come ha affermato di recente nel merito della proposta Renzi-Giannini Roger Abravanel, esperto fra i più quotati e sostenitore della meritocrazia, sono di dubbia utilità formativa. Non è un caso
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che Abravanel si sia dichiarato decisamente avverso alla proposta di autovalutazione delle scuole prevista da “La buona scuola”. Egli infatti ritiene che il tratto distintivo della qualità dei docenti sia costituito dalla selezione all’ingresso e dalla vera formazione, quella fatta in classe da professori esperti e non attraverso la partecipazione a corsi di aggiornamento spesso rivelatisi del tutto inutili. Allo stato attuale, sostiene Abravanel, le scuole e gli insegnanti dovrebbero essere valutati attraverso i test Invalsi, proprio attraverso quei test verso i quali molti insegnanti hanno mostrato la loro ostilità. Naturalmente, aggiungiamo noi, con indicatori diversi, integrati dalle variabili di contesto relative alla classe e alla scuola (intese anche come team docente nelle sue interrelazioni), ivi compresa, nello sviluppo temporale della diagnosi, una particolare attenzione alla presenza /assenza di progressi in itinere. Infine, il problema dell’alternanza scuola-lavoro, pratica che, se attuata correttamente, contribuirà all’allineamento degli studenti italiani a quelli degli altri Paesi europei, nei quali l’alternanza scuola-lavoro viene praticata con molto rigore. Il problema sta nell’intendersi sul fatto che l’alternanza scuola-lavoro, che, secondo quanto sancito nel progetto, riguarda tutti gli studenti della “scuola secondaria di secondo grado”, dovrebbe essere attribuita alle scuole calibrandola sugli specifici indirizzi, sia per quanto riguarda la durata e la distribuzione settimanale o mensile sia per quanto riguarda la tipologia, senza scandalizzarsi dell’attribuzione prevalente ai giovani che hanno scelto l’istruzione tecnica e professionale. Se così fosse si darebbe conferma a quel sistema binario tante volte annunciato, a partire dalla riforma Bottai fino a quella della Moratti, che pone specificamente l’accento sul
principio dell’alternanza scuola-lavoro, fino all’assetto Gelmini, nel quale viene espressamente stabilito che i percorsi degli istituti professionali e degli istituti tecnici debbono essere strutturati in modo da favorire il collegamento organico con il mondo del lavoro e delle professioni attraverso stage, tirocini e alternanza scuola-lavoro. Se il principio dell’alternanza scuola-lavoro verrà applicato correttamente e severamente, forse il sistema scolastico italiano potrà attrarre la scelta degli studenti e delle famiglie verso l’istruzione tecnicoprofessionale più di quanto non sia avvenuto in questi ultimi anni. Se così avvenisse si incrementerebbe anche la scelta dell’istruzione superiore a carattere tecnico-professionale in parallelo con l’istruzione superiore di tipo universitario, come avviene nei Paesi europei, come Germania, Austria, Paesi Bassi, nei quali il modello binario è già da tempo affermato. In conclusione si può affermare che la normativa di fondo per realizzare quanto sostenuto nel progetto in materia di alternanza scuola-lavoro già esiste, ma l’ampliamento dovrà essere chiarito e forse confermato attraverso ulteriori normative, essendo la via amministrativa facilmente aggredibile da quanti hanno interessi diversi, a partire dalle organizzazioni sindacali, come è avvenuto di recente in occasione della sentenza del TAR del Lazio, che ha bocciato la sperimentazione della durata quadriennale in quattro istituti superiori. Detto ciò, bisognerà essere inoltre molto attenti a non castigare con un eccesso di spazi dedicati alla pratica e/o con una errata specificità di tali spazi quelle scuole con vocazione generalista rientranti nel nocciolo duro giustamente ancora resistente della riforma Gentile, come già indicato nelle premesse della presente digressione.
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LETTURE
Graziella Pagliano Andreina De Clementi, L’assalto al cielo, Donne e uomini nell’emigrazione italiana, Donzelli editore, 2014
Pur raccogliendo saggi pubblicati in varie sedi fra 1994 e 2011, questo volume offre un percorso organico dell’emigrazione italiana nel mondo – Stati Uniti, America latina, Europa, Canada, Australia – nelle varie epoche, dal primo Ottocento al secondo dopoguerra. Costituisce pertanto un valido contributo mettendo a confronto le peculiarità delle varie ondate migratorie sia per la destinazione, sia per la provenienza – Nord, Centro, Sud d’Italia, sia per la prevalente costi-
tuzione, maschile o di coppie, giovani o adulti, sia per le differenze fra emigrazione assistita dagli Stati, oppure individuale o clandestina. Altro elemento rilevante di queste ricerche è la costante attenzione alla
contemporanea situazione economica italiana, come crisi dell’agricoltura o di determinate produzioni, stagnazione industriale etc. Inoltre l’autrice ha svolto particolari ricerche di corrispondenze presso familiari ed eredi per ricostruire come venisse vissuta la situazione all’estero, le relazioni con connazionali emigrati, con il paese ospitante, con i familiari lontani, situazioni tutte non agevoli né prive di tensioni, che sovente portavano a modifiche dei ruoli genitoriali o coniugali. Non mancano ovviamente le precisazioni sulle legislazioni vigenti nei vari paesi e nei diversi periodi, restrittive dopo il primo periodo. Interessante l’analisi dell’emigrazione temporanea, in genere maschile, seguita da rientri e di quella permanente, seguita da una definitiva residenza estera dove anche le donne, soprattutto di seconda generazione iniziavano a lavorare nell’agricoltura, nell’industria o nei servizi. La solidarietà fra emigrati svolgeva un ampio ruolo ma l’apprendimento linguistico e l’acculturazione risultano in genere lenti. Omettendo di citare qui cifre e dati, ricordiamo però che le cospicue rimesse spesso erano destinate all’acquisto di case o piccole proprietà contadine. Emerge dunque dal volume non solo l’inquadramento italiano ed estero, economico e sociale del fenomeno ma il vissuto individuale, anche di genere, nel susseguirsi delle generazioni. E’ forse superfluo aggiungere che la ricostruzione di queste vicende può aiutarci a comprendere le attuali ondate immigratorie, nuova fase del lungo rapporto ambivalente verso lo straniero, vicino e lontano (v. l’utile L. Perrone, Da straniero a clandestino, Lo straniero nel pensiero sociologico occidentale, 2005); a comprendere potrebbero aiutare anche i racconti dei migranti nel nostro paese (cfr. U. Fracassa, Patria e lettere, Per una critica della letteratura postcoloniale e migrante in Italia, 2012).
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LETTURE
Maurizio Di Michele Pierpaolo Romani, Calcio criminale, Rubettino Editore, Soveria Mannelli 2012, pag.270
Il mondo del calcio è molto più complesso di quanto si possa immaginare:girano tanti soldi e tanti interessi. Non si pensi solo al gioco in campo. Prima di una partita ci sono molte cose che si muovono dentro quel mondo o negli immediati paraggi: controllo delle scuole di calcio e dei vivai;estorsioni mascherate da sponsorizzazioni; minacce a giocatori, allenatori e dirigenti; utilizzo delle tifoserie (i c.d. ultras tristemente famosi) per scopi poco nobili; bagarinaggio; controllo dei parcheggi, dei bar, della sicurezza e di altri "servizi" gravitanti intorno agli stadi; frequentazioni di calciatori famosi; presenza agli allenamenti e alle trasferte delle squadre; dediche di vittorie a boss arrestati e momenti di silenzio in onore di boss defunti; inserimento negli appalti per la costruzione di nuovi stadi, con annessi centri commerciali; partite truccate e gestione delle scommesse lecite ed illecite, anche al fine di riciclare denaro "sporco". Sono queste tra le principali azioni messe "in campo" da un sistema criminal-sportivo che l’autore descrive e definisce Calcio criminale. Tale sistema comprende sia le "nostre" Mafie (Cosa Nostra, Camorra, 'Ndrangheta e Sacra Corona Unita) sia quelle estere, soprattutto dell'Est e asiatiche (come è emerso da alcune recenti indagini sul calcio-scommesse). Il libro di Pierpaolo Romani si occupa di calcio e mafie, della loro attrazione reciproca, di interessi di potere, di uomimi che appaiono grandi, ma sono meschini, perché si vendono le partite e tradiscono i loro tifosi, perché fanno accordi con i mafiosi e rendono le mafie più forti e rispettabili, più presentabili agli occhi di giovani che adorano il calcio e i calciatori. L’autore nel suo libro (che ha una bella prefazione di Damiano
Tommasi, Presidente dell'Associazione Italiana Calciatori), partendo da atti e documenti delle indagini della Magistratura in diverse Regioni italiane (Basilicata, Calabria, Campania, Lazio, Liguria, Lombardia, Puglia e Sicilia) si sofferma sui legami tra il calcio e la Camorra (ad esempio i casi della Mandragonese, della Juve Stabia, del Sorrento, della Paganese, senza trascurare la gestione delle scommesse ed i tentacoli sui campionati dell'Europa e del Sud America), Cosa Nostra (ad esempio le vicende che hanno interessato direttamente ed indirettamente il Palermo e quelle dell'Akragas, del Mazara e del Trapani), la 'ndrangheta (ad esempio i fatti del Rosarno e del Cosenza), Sacra Corona Unita (ad esempio le vicende del Galatina, dello Squinzano, della Tricase, del Taranto e del Bari), le Mafie in Liguria (caso della Sanremese), Basilicata (caso del Potenza), Lazio (episodio della autobomba non esplosa fuori dello Stadio Olimpico di Roma il 23.1.1994, le
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LETTURE
vicende relative all'ex giocatore della Lazio Giorgio Chinaglia ed al tentativo di conquista della Lazio Calcio da parte del clan camorristico dei Casalesi), le Mafie fuori dal campo (ad esempio incontri, foto, video con calciatori famosi, presunti rapporti della camorra con Maradona, i rapporti di Cutolo con l'Avellino, la "passeggiata" di Mario Balotelli a Scampia, il caso del giocatore argentino del Napoli Lavezzi, gli strani furti in casa di calciatori, specialmente del Napoli), le scommesse (in particolare la nuova "scommessopoli" portata alla luce dalle inchieste recenti delle Procure di Cremona, Napoli e Bari). Da esse è emerso che ci sono stati interi campionati falsati, milioni di tifosi presi in giro, migliaia di scommettitori imbrogliati, calciatori e dirigenti che, in barba al divieto, scommettevano anche contro le loro squadre, alla ricerca di facili guadagni. In "campo" sono scese le "nostre" mafie, ma anche quelle dell'Asia e di alcune parti dell'Europa. Uno scandalo ......... mondiale! A conclusione del suo libro l'Autore conferma che quello del pallone è un mondo complesso, variegato e dalle molteplici facce. Vi è un pezzo del calcio che si è rassegnato a convivere con le mafie, subendo le loro violenze, le loro intimidazioni, i loro ricatti. Un altro pezzo, invece, vuole convivere con le mafie, servirsi dei loro capitali, della loro
protezione e della loro capacità di intimidazione. È un calcio fatto di violenze, connivenze, riciclaggio, omertà, corruzione e complicità. Questo lato oscuro del pallone ha possibilità di attecchire laddove vi è una illegalità diffusa, dove le mafie hanno un forte controllo del territorio, dove i padrini e i boss godono di un vasto consenso sociale, oltre che di molte ricchezze (di origine illecita). Il calcio criminale, se non verrà fermato in fretta, afferma sconsolato l'Autore, rischia di espandersi sempre di più. Quanto sta emergendo dalle inchieste di Cremona, Napoli e Bari è un campanello di allarme. Fortunatamente non tutto il calcio è così. Vi è un pezzo rilevante di quel mondo che vuole battersi concretamente con il malaffare e mettere le mafie... fuori gioco! Ma prima di tutto dovremo cambiare noi la nostra mentalità, il nostro modo di comportarci, di essere cittadini, sportivi, tifosi, allenatori, calciatori, arbitri, dirigenti. La società e il calcio non cambieranno mai se rivolgiamo la nostra attenzione soltanto verso il Codice Penale. Il cambiamento vero avverrà solo se cambieremo noi, se ci impegneremo di più ad essere dei buoni cittadini, prima che buoni sportivi e a conoscere e praticare i principi e i valori della nostra Costituzione, insieme a quelli dello sport: Lealtà, Correttezza, Probità.
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E’ uscito Giuseppe Verdi e il Risorgimento, terzo volume della Collana “Studi di storia e politica” della Fondazione Giacomo Matteotti Onlus curata da Ester Capuzzo, Antonio Casu e Angelo G. Sabatini, per i tipi di Rubbettino Editore. Il volume comprende gli Atti del Convegno “Il contributo di Giuseppe Verdi alla creazione del mito del Risorgimento” tenutosi, su iniziativa della Fondazione Giacomo Matteotti Onlus, in occasione del bicentenario della nascita del Maestro, l’11 ottobre 2013 presso la Sala del Refettorio della Biblioteca della Camera dei Deputati. A completamento degli interventi svolti durante il Convegno, presieduto da Carlo Ghisalberti, si è ritenuto di aggiungerne altri in arricchimento e in sintonia con il tema della ricorrenza. La Presidenza della Camera dei Deputati ha concesso il patrocinio allo svolgimento del Convegno al quale hanno partecipato numerosi studenti dei Licei “Talete” e “Visconti” di Roma e “Peano” di Monterotondo. Franco Salvatori, Giuseppe Verdi nell’identità territoriale italiana Angelo G. Sabatini, Il contributo di Verdi alla formazione del mito del Risorgimento Antonio Rostagno, Verdi fra Gioberti e Manin. Dal liberalismo moderato alla Società nazionale italiana Carlo Romano, Mazzini visto da Verdi: da modello venerato di patriottismo a profeta esecrato Claudia Colombati, Il soggetto storico e il mito verdiano del Risorgimento nel pensiero poetico-musicale dell’Ottocento Gianni Long, Verdi, laicità, minoranze Ester Capuzzo, Verdi e Clara Maffei Antonio Casu, Verdi e il Parlamento Inserto iconografico Alicja Paleta, Il mito verdiano e il Risorgimento degli altri. La Polonia Krisztina Boldizsár, Giuseppe Verdi e Ferenc Erkel: il melodramma italiano e ungherese nel segno del Risorgimento Stefano Tabacchi, Gli studi verdiani tra tradizione risorgimentale e fascismo: Annibale Alberti e il carteggio Verdi-Arrivabene
AA.VV., Giuseppe Verdi e il Risorgimento, a cura di E. Capuzzo, A. Casu, A.G. Sabatini, Collana “Studi di storia e politica” della Fondazione Giacomo Matteotti Onlus, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014 (ISBN 978-88-498-4159-6)
La pubblicazione del volume è stata realizzata con il contributo erogato dal MIBACT – Direzione generale per le biblioteche, gli istituti culturali ed il diritto d’autore.
Copertina del n. 1-1980 di TEMPO PRESENTE diretto da Angelo G. Sabatini