TEMPO PRESENTE
Supplemento al N. 421-423 gennaio-marzo 2016
PER GLI OTTANTA ANNI DI FABIO GRASSI ORSINI
contributi di a.aghemo, e. capuzzo, a. casu, a.g. sabatini con un saggio inedito di f. grassi orsini
Spedizione in abbonamento postale: comma 20, lett.B, art.2 legge 23 dicembre 1996, numero 662, Filiale di ROMA
DIRETTORE RESPONSABILE
Angelo G. SABATINI
COMITATO EDITORIALE
Alberto AGhEMO - Angelo AIRAGhI - Giuseppe CANTARANO Antonio CASu - Girolamo COTRONEO - Elio D’AuRIA - Teresa EMANuELE Alessandro FERRARA - Gaetano PECORA - Luciano PELLICANI Angelo G. SABATINI - Attilio SCARPELLINI - Sergio VENDITTI CONSIGLIO DEI GARANTI
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Salvatore NASTI
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TEMPO PRESENTE
PER GLI OTTANTA ANNI DI FABIO GRASSI ORSINI ANGELO G. SABATINI, L’intellettuale gentiluomo, p. 3 ESTER CAPUZZO, Maestro e Amico, p. 5
ANTONIO CASU, Fabio Grassi Orsini storico e saggista, p. 6 ALBERTO AGHEMO, Il diplomatico, lo storico, l’uomo di cultura, p. 8
FABIO GRASSI ORSINI, La neutralità in Puglia alla vigilia della Grande Guerra, p. 12
Supplemento al N. 421-423 gennaio-marzo 2016
Questo supplemento di TEMPO PRESENTE raccoglie scritti in onore di Fabio Grassi Orsini in occasione del suo ottantesimo compleanno e vuole essere un tributo e un omaggio degli amici della Rivista e della Fondazione Giacomo Matteotti. Nei contributi di Angelo G. Sabatini, Ester Capuzzo, Antonio Casu e Alberto Aghemo viene tratteggiata la multiforme personalità di Fabio Grassi Orsini, uomo di cultura, diplomatico, accademico, storico, saggista, instancabile organizzatore di eventi scientifici e culturali.
Il fascicolo si arricchisce di un inedito dello stesso Fabio Grassi Orsini, dedicato ad una rigorosa ed originale analisi della neutralità in Puglia alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. Il saggio fa parte di un più ampio affresco storico dedicato alla storia della Puglia nell’età giolittiana, in corso di stesura.
Realizzazione grafica ed editoriale
SALVATORE NASTI
Angelo G. Sabatini
L’intellettuale gentiluomo
Ottant’anni: un tempo era l’età magnificata come una meta di longevità, un miraggio che non sempre si riusciva a raggiungere: aspirazione di chi la pensava “età del compimento”, regalo della natura volutata prodiga di vitalità respingendo lontano il tocco d’una campana ammonitrice: partenza per l’Ade. Oggi è l’età di un gioco, dove la vita, scandita a tappe, può non solo promettere l’andare oltre ma anche sognare di spostare il traguardo verso una stazione collocata ai bordi dell’orizzonte. Gli ottant’anni sono una sosta concessa al fruire del tempo nella coscienza del mortale di essere ancora pellegrino viandante verso il santuario dell’eternità. Sosta ristoratrice dove la schiera festante degli osservatori inneggia all’atleta che marcia verso il traguardo ancora lontano. Fabio Grassi Orsini, che festeggiamo tra la folla dei parenti ridondanti d’affetto e degli amici più cari, lo vedo atleta che non molla, ostinato nell’andare oltre l’età del rischio che permea l’esistenza di una vita, anche se operosa, incerta e soggetta al cieco volere del caso. Oggi Fabio lo pensiamo gioioso nel saluto che gli inviamo augurandogli ulteriore energia per poter continuare a donarci i frutti di quella intelligente e viva fucina di sapere che ha costellato il corso della sua formazione intellettuale riversata con successo nella vita di autorevole funzionario dello Stato, prima quale brillante diplomatico e dopo quale docente universitario nell’insegnamento di storia contemporanea, storia dei partiti politici e dei sistemi politici europei e, non ultimo, quale esperto e attento operatore culturale, organizzando incontri e favorendo iniziative editoriali. Basta citare, per tutte, la pubblicazione del Dizionario del liberalismo italiano, voll. 1 e 2; un’opera il cui obiettivo è riassumere il mondo delle idee e degli uomini che hanno collaborato a fare dell’Italia uno Stato moderno e civile e a superare le traversie della sua vita nel Novecento. Gli amici che con me hanno voluto manifestare pubblicamente l’alta considerazione che nutriamo verso l’attività diplomatica e culturale del festeggiato, riassumendone sommariamente la ricchezza della poliedrica attività, mi concedono di riferire in quale grado di considerazione e stima annovero l’intellettuale Fabio Grassi Orsini. E non è marginale rilevare che la stima è nata e cresciuta nelle sale e nei corridoi della Biblioteca della Camera dei Deputati. Qui la stima generatami dalla funzione di lettore nell’ambito della cultura universitaria si è rafforzata e solidificata nel clima di una amicizia di sostanza. La biblioteca è assurta a luogo di confronto con altri amici dando luogo ad una piccola ma non indegna Agorà: laboratorio di idee e di progetti per comprendere il disagio della politica e il cattivo uso che oggi se ne fa. Il tutto nello spirito dell’esercizio della ricerca storica, non per essere laudator temporis acti ma per cercare di trovare nei pensieri che hanno nutrito le nostre convinzioni e le nostre partecipazioni nella vita politica del dopoguerra qualche messaggio utile per il tempo di crisi che ci attanaglia. La biblioteca è stata per noi il luogo privilegiato per conoscere la ricchezza del passato e per divinare il futuro, luogo di dialogo e non di cicaliccio saporifico o spesso rumoroso di coloro
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che alla ricerca e alla meditazione preferiscono il chiacchiericcio della comunicazione mediatica e il dilettantismo del narrare sine ira et studio. Parlare ma anche dibattere con Fabio Grassi Orsini è dare corpo ad un dialogo fruttuoso all’insegna della moderazione perché, erede vivo della tradizione liberale, per presentare la forza delle sue convinzioni no alza la voce né irrompe rumoroso nella contesa, ama confessare la verità affidandosi ad essa e si aspetta che l’interlocutore faccia lo stesso. Un metodo salutare che purifica la via d’accesso al vero e rafforza lo spirito consolatorio della vittoria o della sconfitta, consapevoli che il contendere ha regole che lo investono eticamente. Una regola che adorna il parlare e il contendere di Fabio attraverso uno stile di vita che immagino guidato da sapienza stoica non disgiunta da forza d’animo nella consapevolezza di avere finora agito con coerenza ai principi di una società civile organica nonostante la lacerazione etica che l’attuale classe politica genera del suo tessuto connettivo. Da quando ho avuto la ventura di conoscere di persona il diplomatico storico Fabio Grassi Orsini ho percepito in lui una serenità commista a saggezza e, se prova a immaginarlo preso da momenti di contrarietà esistenziali, faccio fatica a pensarlo irato e scontroso con voce alterata con qualunque interlocutore apostrofandolo con tono teso, perché, così, tradirebbe il suo applombe di saggio illuminato e stoico che gestisce l’auto controllo tramite una forza interiore capace di tradurre il gioco del destino, quale che esso sia, in una partita sinora vincente. Un vincitore che oggi, nell’ora della festa, riceve il plauso di noi tutti che alzando il calice brindiamo all’ottantenne “intellettuale gentiluomo”.
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Ester Capuzzo
Maestro e Amico Non so collocare in modo preciso il momento in cui conobbi Fabio Grassi Orsini, probabilmente il periodo a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, ma ricordo nitidamente il luogo: gli austeri corridoi del Ministero degli Affari Esteri, dove mi ero recata per consultare delle carte d’archivio. Giovane studiosa ero allora piena di timore reverenziale nei confronti di un professore assai noto, di cui avevo tanto sentito parlare da Carlo Ghisalberti, e che si era, tra l’altro, occupato di storia coloniale, in particolare delle vicende della presenza italiana in Libia, tema al centro in quel momento dei miei studi. Dopo quel giorno ci incontrammo sporadicamente in convegni o seminari legati alla storia contemporanea e delle relazioni internazionali. Un ambiente in cui ero entrata da poco per via del mio percorso accademico e in cui Fabio Grassi Orsini, come altri studiosi e amici di Carlo Ghisalberti, mi avevano accolto con affabilità. Una nuova occasione ci fu offerta dalla formazione di un gruppo di studio sul liberalismo, di cui Fabio Orsini era magna pars, e al quale fui chiamata anch’io a collaborare. Fu quella un’occasione per conoscere meglio e da vicino, non soltanto quindi attraverso i suoi lavori, uno studioso di grande spessore e profondità, un Maestro, come si diceva un tempo, da cui apprendere molto (mentre scrivo so già che lui si schernirà) e che non ha mai mancato di condividere la propria esperienza di studi, di offrire spunti e suggerimenti, di dare incitamento e sostegno con grande semplicità ma al contempo anche con grande rigore a colleghi, giovani studiosi, studenti. E’ a lui che devo l’avvicinamento alla galassia del liberalismo, a me non molto consueta per la mia iniziale formazione storico-giuridica di taglio medievistico, offrendomi la possibilità di affrontare temi, problemi, personaggi da me sino ad allora non molto scandagliati. Così fu per la mia partecipazione al convegno organizzato da Fabio Grassi Orsini e da Gerardo Nicolosi a Siena nell’ottobre del 2006, dove presentai una relazione su Eugenio Artom che mi consentì di ripercorrere il rapporto tra liberalismo ed ebraismo, tra liberali ed ebrei, che trovava Fabio Grassi Orsini sulla mia stessa lunghezza d’onda. Il tema, come emergeva anche da qualche nostro scambio idee in proposito era importante e non secondario nella storia dello Stato liberale che era stato veramente “la casa di tutti” e probabilmente fu questo il motivo per cui mi venne affidata, qualche anno più tardi, la redazione della voce Ebrei nel Dizionario del Liberalismo, la grande opera da lui voluta e realizzata con la collaborazione di molti altri studiosi. Negli anni successivi nuove occasioni di studio hanno permesso la nostra frequentazione e, soprattutto, mi hanno dato la possibilità non soltanto di continuare a imparare da Fabio Grassi Orsini ma di apprezzarne le qualità umane, la signorilità, l’affabilità, l’amicizia. Doti assai rare si direbbe oggi. Sì davvero rare, ed è anche perciò che poter festeggiare insieme con Lui, ben augurando, questo bel momento è per me un grande regalo. 5
Antonio Casu
Fabio Grassi Orsini storico e saggista
1. Se una persona si qualifica per le sue opere, uno studioso si definisce per i suoi scritti. Gli scritti non descrivono solo l'itinerario personale e professionale di un autore, rivelano anche l'orizzonte dei suoi interessi e dei suoi valori. Così, leggendo, si finisce per conoscere una persona più di in profondità di quanto non si possa comprenderla nelle occasioni d'incontro, nella frequentazione lavorativa o sociale. Solo quando si è amici si può arrivare più in profondità, fino a sovrapporre la trama della conoscenza personale a quella esperita mediante la lettura degli scritti. È il segreto della scrittura: chi scrive si apre alla vera conoscenza di sé, accetta il giudizio degli altri, si espone e si dichiara. Il carattere autentico della conoscenza acquisita mediante la lettura del pensiero di un autore, non importa di quale disciplina, consente di superare le differenze di spazio e di tempo, e le distinzioni politiche o culturali. Così che si possa essere amici, realmente amici, di qualcuno vissuto altrove e in un altro tempo, e che parlava forse un'altra lingua. Oggi come ieri, chi scrive affida agli altri un messaggio nella bottiglia, un compito importante quanto quello di colui che scrive: leggere significa infatti interpretare, appropriarsi, rielaborare. Chi legge, dunque, completa l'opera di chi scrive. E trova talora, nei casi più felici, conferme. 2. Così anch’io ho trovato conferme. Una prima conferma attiene alla costante attenzione riservata da Fabio al pensiero politico. Innanzitutto gli studi sul pensiero politico liberale. Vasta e articolata ne è la testimonianza, di cui i due tomi del Dizionario del liberalismo italiano segnano il coronamento e la necessità sistematica. Studi sui protagonisti e sui processi storici. L’attenzione sui protagonisti è ricorrente, dai saggi su Benedetto Croce politico (2008) agli studi su Croce ed Einaudi (2011); dalla biografia di Vittorio Emanuele Orlando (1992, 2002) ai saggi sui suoi discorsi parlamentari (2002, 2005) ed extraparlamentari di (2012); dagli studi sul diario romano di Umberto Zanotti Bianco (2011) a quelli su Salvemini (1986, 1993), all’attenzione rivolta a Tommaso Fiore (1999) e a Giovanni Giolitti, e in particolare alla transizione da Giolitti a Mussolini (1971) e al tramonto dell’età giolittiana nel Salento (1973). Ed anche del pensiero laico, come attestano, da differente angolo di visuale, il contributo su Bobbio del 1990, e le note scritte sul rapporto tra cultura laica e impegno civile, celebrando i quarant’anni di attività dell’editore Piero Lacaita (1990). Ricorrente è anche l’attenzione ai processi storici, di dimensione nazionale ma anche locale, come il contributo sui liberali italiani dall’antifascismo alla Repubblica, curato con Gerardo Nicolosi (2008); il saggio sul pregiudizio antipartitico e la cultura moderata (2009), le sue note sulla formazione della democrazia italiana tra il 1861 ed il 1915 (1989), o ancora la sua relazione introduttiva al convegno di studi sul Risorgimento in Puglia del 1990. O anche gli scritti su temi più circoscritti, quali la storia dell’amministrazione provinciale di Cuneo dall’Unità al Fascismo (1972) e le fonti archivistiche sull’occupazione giovanile come strumento per una storia del Mezzogiorno nell’età moderna e contemporanea (1981). 6
Antonio Casu
Ma antico e profondo si rivela anche l’interesse per le dinamiche e i percorsi del movimento socialista. Ne fanno fede gli scritti sui modelli e le strutture del socialismo italiano (1990), sul PSI ed il sistema politico nel Mezzogiorno (1992), sulla rappresentanza politica e le strutture organizzative nel movimento socialista alla fine dell’Ottocento (1993), sul ruolo dei socialisti nel Mezzogiorno e sulle lotte politico sociali in Puglia nell’età giolittiana (1982); sul movimento socialista e popolare in Puglia dalle origini alla Costituzione (1985) e perfino sugli emigranti italiani nei movimenti operai dei paesi d’adozione tra il 1880 e il 1940 (1983). Attenzione costante è riservata alle istituzioni politiche e parlamentari, in particolare il Senato. Si ricordano il suo “incontro ravvicinato” con il Senato in età liberale (2010), ma anche il saggio introduttivo al repertorio biografico dei senatori dell’Italia liberale, curato con Emilia Campochiaro (2005, 2010), e il volume sul partito politico dalla Grande Guerra al fascismo, che analizza la crisi della rappresentanza e la riforma dello Stato nell’età dei sistemi politici di massa, curato con Gaetano Quagliariello (1996). Un ulteriore campo di interessi, memoria della sua personale esperienza, è la politica estera e la diplomazia: dagli studi sul Ministero degli Affari esteri (1990) a quelli sulla diplomazia nel regime fascista (1995, 1998); dal saggio sui diplomatici nel quadro delle élites dell’Italia unitaria, curato da Guido Melis (2003) allo studio sul rapporto tra Crispi e la diplomazia (1990) alla riflessione sulla politica estera italiana ai primi del Novecento, (2004); dal contributo sul mito dell’ONU nella politica italiana (2005) alla sua introduzione ad un volume sulla difficile pace tra Italia e Francia, e sul ruolo di Giuseppe Saragat nei confronti della diplomazia internazionale (1945-1946); dal saggio sulle sfide della politica estera e le parole della diplomazia (2006) al commento al diario dell’ambasciatore Imperiali (2006), agli appunti per una storia degli Istituti di cultura (1978). Ma anche gli studi sull’inventario del fondo della “Commissione centrale arbitrale per l’emigrazione tra il 1915 e il 1929 (1986) e sulla struttura e il funzionamento degli organi preposti all’emigrazione negli anni 1901-1919 (1986); e i contributi sull’industria tessile e l’imperialismo italiano in Somalia tra il 1896 e il 1911 (1973), nonché sul rapporto tra nazionalismo, guerriglia ed imperialismo italiano nella Somalia del Nord nel periodo 1899-1905 (1977). Certo, in queste poche righe non si può ridurre lo studioso, né tantomeno l’uomo. E tuttavia in questi percorsi di ricerca, in questo orizzonte di interessi e di sensibilità, nell’attenzione alla cultura politica che si rivela nei grandi processi ma anche nelle vicende personali, ed allo stesso tempo nello stile che pervade i suoi scritti, profondo quanto equilibrato, possiamo intuire la cifra distintiva dello studioso, e il segno della personalità dell’uomo. E dell’amico, del membro di quella silenziosa comunità di studiosi che, come ricorda anche Angelo Sabatini, si riunisce nella Biblioteca della Camera per coltivare contro ogni evidenza l’utopia del comprendere, come esercizio della propria responsabilità politica e sociale.
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Alberto Aghemo
Il diplomatico, lo storico, l’uomo di cultura
Diplomatico, accademico, storico, Fabio Grassi Orsini è soprattutto uomo di cultura. Sotto il segno della cultura - ovvero di una ricerca costante, attenta e metico-losa non meno che raffinata e idealmente consapevole - si sono infatti caratterizzate tutte le molteplici attività che hanno scandito i suoi primi ottanta anni, che oggi su queste colonne ricordiamo. E li ricordiamo con riconoscente apprezzamento, senza alcuna pretesa di esaustività, come si conviene allorché ci si confronti con l’opera di un personaggio ancora ben presente ed attivo nel migliore milieu intellettuale nazionale. Senza dunque la speranza di poter dare compiutamente conto della mole amplissima di interessi, attività, incarichi, studi, iniziative e testimonianze che hanno scandito, dalla metà dello scorso secolo, l’attività di Fabio Grassi Orsini, tentiamo di ripercorrere alcuni dei momenti che meglio connotano la sua personalità di vivace e infaticabile intellettuale e di acuto organizzatore cultuale, la cui opera ha lasciato negli anni una traccia ancora fortemente presente e incisiva. Nato a Roma da nobile famiglia salentina, Fabio Grassi Orsini Apostolico Ducas si laurea in Giurisprudenza a ventidue anni. Dopo la laurea cura l’azienda familiare e inizia ad occuparsi attivamente di politica: nel 1956 è eletto segretario provinciale della Gli, la Gioventù liberale italiana, e viene nominato membro della giunta nazionale dei nuovi agricoltori e della direzione dell’Agi, l’Associazione giovanile italiana. Promuove la ricostruzione del Pli nel Salento e collabora al periodico liberale “La Tribuna”. Prosegue intanto gli studi per perfezionarsi, già nel 1969, in Diritto internazionale presso l’Institut del Hautes Etudes Internationales di Ginevra e presso la London School of Economics and Political Science di Londra. La vocazione diplomatica, segnata tanto dalla passione per il diritto internazionale quanto dal brillante curriculum degli studi, è ben evidente e Grassi Orsini inizia la carriera diplomatica già nel 1960, a ventiquattro anni, presso la direzione generale degli Affari politici della Farnesina. Segue una serie di incarichi all’estero: presso l’ambasciata in Costa d’Avorio dal 1961 al 1963, a Neuchâtel nel biennio successivo e a Canberra dal 1966 al ’69. A Neuchâtel, in particolare, riapre il Vice Consolato, chiuso dalla fine della guerra, crea una rete di associazioni italiane ed istituisce corsi di italiano nelle scuole svizzere. Si impegna anche a favorire la regolarizzazione dei lavoratori clandestini e dei minori. Tornato in sede, nel 1972 è coordinatore della commissione Fornari per la riforma del MAE; l’anno successivo è nella segreteria particolare del sottosegretario di Stato. E’ quindi alle dirette dipendenze del direttore generale della Cooperazione culturale, scientifica e tecnica del Ministero degli Affari esteri. Negli anni successivi, sempre alla Farnesina, è alla direzione degli affari politici, Ufficio Africa subsahariana, subito dopo l’indipendenza dei paesi dell’Africa occidentale, quando non vi era una rete di rappresentanza italiana. In tale ruolo svolge una rilevante azione di informazione sulla situazione dei paesi africani, grazie alla conoscenza accumulata nel suo lavoro di giornalista, che è stato di supporto ai dirigenti politici del ministero. A capo dell’Ufficio delle relazioni con l’estero, Grassi Orsini rivitalizza il servizio ed affina le sue doti di organizzatore di eventi culturali: a lui si deve la realizzazione di una serie di grandi mostre tra le quali quella dei Macchiaioli al Louvre, che ha 8
Alberto Aghemo
richiesto difficili trattive diplomatiche ai massimi livelli e che ha suscitato forte impressione sulla critica e sull’opinione pubblica francesi. Ha inoltre organizzato settimane del cinema straniero - cubano e russo - in Italia e rassegne internazionali di grandi registi italiani, da Visconti a Bolognini. Di rilevo, tra le iniziative culturali da lui promosse, le numerose esposizioni del libro, tra le quali meritano una particolare menzione quelle di Barcellona e Madrid, organizzate subito dopo la morte di Franco per portare in Spagna i libri italiani che durante la dittatura non avevano avuto libera circolazione nel paese iberico. A coronamento di questa intensa attività, Fabio Grassi Orsini viene quindi nominato sovraintendente dell’Archivio Storico Diplomatico del MAE, incarico che ricopre dal 1979 al 1982. Promosso Ministro plenipotenziario, lascia la Farnesina per abbracciare la carriera universitaria, ma conserva l’incarico di consulente archivistico del MAE dal 1983 al 1994, continuando proficuamente l’opera avviata nel ’79. Un’attività quanto mai efficace, che merita di essere - sia pure sinteticamente ricordata. L’esperienza maturata presso l’Archivio Storico Diplomatico si rivela infatti, a nostro avviso, particolarmente interessante in quanto consente a Fabio Grassi Orsini di forgiare e affinare quelle doti di organizzatore culturale e quel metodo di lavoro - appassionato quanto scientificamente rigoroso - che caratterizzano tutta la sua successiva attività intellettuale. Quando gli viene affidato, l’Archivio è totalmente carente di personale scientifico e riesce a mala pena ad assicurare il servizio di “Sala Studio”. Grassi Orsini avvia immediatamente una radicale riforma che per un verso mira ad incrementare l’organico con personale qualificato, anche con l’innesto di funzionari provenienti da altre amministrazioni, per altro verso punta a costruire una stretta rete di rapporti con le università, con gli Archivi di Stato, con gli istituti di cultura e con le organizzazioni nazionali ed internazionali che possono contribuire a rendere più efficiente l’Archivio e più fruibile il suo patrimonio documentale. Sotto la sua guida, già all’inizio degli anni Ottanta si assiste ad un significativo potenziamento della struttura: un risultato apprezzabile sia sul piano operativo interno, sia nella qualità del servizio offerto al pubblico. Nel 1983 la Sala Studio dell’Archivio della Farnesina viene completante rinnovata e - con una cerimonia alla quale prendono parte, oltre a Grassi Orsini, l’Ambasciatore Romano e Rosario Romeo - intitolata alla memoria di Ruggero Moscati. L’operazione di rilancio dell’Archivio Storico Diplomatico porta con sé un significativo rinnovamento metodologico ed una accresciuta capacità operativa ma, soprattutto, trasforma la struttura, sotto la guida di Grassi Orsini, da luogo principalmente deputato alla conservazione della memoria a laboratorio di ricerca. Grazie a lui si perfezionano accordi di ricerca con l’Università di Lecce e con altri istituti universitari, con gli Archivi di Stato e, soprattutto, si avvia lo studio e il riordinamento dell’Archivio (la cosiddetta “Serie D”) con l’intento programmatico di acquisire una piena e approfondita conoscenza della storia dell’Archivio della Farnesina, dei fondi che lo compongono, degli interventi effettuati nel tempo e di quelli da programmare. Grassi Orsini ha da poco lasciato la carriera diplomatica per dedicarsi a quella accademica ma, come abbiamo ricordato, continua, in qualità di consulente, a seguire i numerosi progetti di ordinamento e di ricerca già avviati. Tra questi merita una particolare menzione la realizzazione di un inventario topografico dell’Archivio Storico che, avviato in forma cartacea secondo la tradizione archivistica, fu poi 9
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traferito su supporto informatico grazie all’utilizzo di un programma realizzato ad hoc: per l’epoca una grande novità, anche rispetto al processo di generale informatizzazione del MAE. Tra le numerose tracce lasciate da Grassi Orsini alla Farnesina e destinate a permanere nel tempo ci piace ricordare il grande progetto di ricerca sulla storia della diplomazia italiana che, da lui ideato e avviato con la collaborazione di storici quali De Felice, Pastorelli e Di Nolfo, è proseguito per anni anche dopo che ebbe lasciato l’incarico presso l’Archivio Storico per dedicarsi interamente all’attività accademica. Nella prima fase del progetto furono realizzate le schede biografiche dei diplomatici italiani del periodo post-unitario, raccogliendo ed ordinando oltre 400.000 informazioni che costituiscono un repertorio di fondamentale importanza per l’amministrazione, oltre che per gli studiosi. I dati complessivi sono stati in seguito elaborati e sistematizzati per ricostruire una “biografia di gruppo” della diplomazia italiana dell’età liberale. Il risultato di questo capillare lavoro è confluito in due volumi realizzati dall’Università di Lecce: La formazione della diplomazia nazionale (1861-1915), Roma, 1986, e La formazione della diplomazia nazionale. Repertorio biobibliografico dei funzionati del Ministero degli Affari Esteri, Roma, 1987. Sul tema è stato anche organizzato un convegno nazionale tenutosi a Lecce nel febbraio del 1987 i cui atti, con il titolo La formazione della diplomazia nazionale italiana 1961-1915, sono stati pubblicati, nel 1989, a cura di Laura Pilotti e dello stesso Grassi Orsini. Anche la carriera accademica di Fabio Grassi Orsini è rapida e brillante. Prende avvio all’Università di Lecce dove già nel 1974 aveva iniziato a insegnare Storia contemporanea e dove diverrà direttore dell’Istituto di Scienze storiche. In seguito alla nomina a professore ordinario insegna, dal 1991 al 2006, Storia dei partiti politici, Storia della Diplomazia e Storia dell’Africa presso l’Università di Siena. Sempre nell’ateneo senese diviene preside della Facoltà di Scienze Politiche. E’ quindi docente di Storia dei sistemi politici europei presso la Luiss-Guido Carli di Roma. E’ inoltre attivamente presente in numerose istituzioni culturali, tra le quali la Fondazione Magna Carta, ma il suo nome è particolarmente legato all’Ispli, l’Istituto Storico per il pensiero liberale, del quale è direttore scientifico oltre che mentore ed ispiratore di prestigiose iniziative convegnistiche ed editoriali. La sua produzione saggistica - prevalentemente orientata alla storia contemporanea e alla diplomazia - è estremamente vasta. Tra i numerosi titoli ci limitiamo a ricordare alcuni dei più recenti (per una esame più sistematico ed approfondito vale il contributo di Antonio Casu, nelle pagine precedenti): la “Relazione introduttiva” al 7° Convegno di studi sul Risorgimento in Puglia, Bari 1990; “Il Ministero degli Affari Esteri: Crispi e la diplomazia”, in Crispi e le riforme crispine, Isap, Vol. I, Milano 1990; “Modelli e strutture del socialismo italiano”, in Il partito nella bella époque, Bologna 1990; “Bobbio, testimone dell’Italia civile”, in Cultura laica e impegno civile, Manduria 1990; Il PSI ed il sistema politico nel Mezzogiorno, Bari 1992; “Rappresentanza politica e strutture organizzative nel movimento socialista alla fine dell’Ottocento”, in Verso l’Italia dei partiti, a cura di M. Degl’Innocenti, Milano 1993; “Salvemini, i gruppi «unitari», la «Lega Democratica per il rinnovamento della politica» ed il federalismo sociale”, in La costruzione dello Stato in Italia e Germania, Manduria 1993; “La diplomazia”, in Il regime fascista a cura di A. Del Boca, Bari 1995; “Diplomazia e regime”, in Amministrazione centrale e diplomazia, Atti del Convegno di Certosa di Pontignano del 26-27 aprile 1995, a cura di V. Pellegrini, Roma 1998; “Vittorio 10
Alberto Aghemo
Emanuele Orlando, una biografia”, nel Catalogo della mostra documentaria allestita a Roma, a Palazzo Giustiniani, nel dicembre del 1992, Soveria Mannelli 1992; “I diplomatici”, in Le élites nella storia dell’Italia unita, a cura di G. Melis, Napoli 2003; “La politica estera dell’Italia ai primi del Novecento”, in Verso la svolta delle alleanze, a cura di M. Petricioli, Venezia 2004; Il mito dell’Onu. Un’istituzione discussa in un’Italia divisa, Liberal, 2005; “Le sfide della politica estera e le parole della diplomazia”, in Parole e meditazione, a cura di F. D’Almeida e A. Riosa, Milano 2006; Incontro ravvicinato con il Senato del Regno in età liberale, Napoli 2010. Tra i volumi da lui curati si segnalano: Il partito politico dalla Grande Guerra al fascismo. Crisi della rappresentanza e riforma dello Stato nell’età dei sistemi politici di massa (1918-1925), curato con Gaetano Quagliariello, Bologna 1996; i Discorsi parlamentari di Vittorio E. Orlando, Bologna 2005; il Repertorio biografico dei Senatori dell’Italia liberale. Il Senato subalpino, con E. Campochiaro, Napoli 2005: il Repertorio biografico dei Senatori dell’Italia liberale, con E. Campochiaro, Napoli 2009; il Diario dell’ambasciatore Imperiali, Soveria Mannelli, 2006; I liberali italiani dall’antifascismo alla Repubblica, con Gerardo Nicolosi, Soveria Mannelli 2008; Umberto Zanotti Bianco, La mia Roma. Diario 1943-1944, Manduria 2011. Va da ultimo sottolineato come a Fabio Grassi Orsini si debbano i due ponderosi volumi del Dizionario del liberalismo italiano, usciti per i tipi di Rubbettino rispettivamente nel 2011 e nel 2015: un’opera di larghissimo respiro che ha colmato una grande e grave lacuna nella storiografia italiana contemporanea. Il Dizionario costituisce un’iniziativa scientifica, culturale ed editoriale ambiziosa quanto fondamentale, che Grassi Orsini ha fortemente voluto, che ha personalmente curato e per la quale ha redatto diverse voci, quali, per il primo volume, Parlamentarismoantiparlamentarismo, Senato, Rappresentanza. Le numerose voci da lui redatte per il secondo volume danno conto ampiamente della vastità del progetto e della molteplicità dei suoi interessi di storico e di appassionato cultore della tradizione liberale. Ha infatti firmato i profili biografici di: Corrado Alvaro, famiglia Baccelli, Riccardo Bacchelli, Carlo Cadorna, Gino Cervi, Giacomo Durando, Luigi Facta, Alfredo Frassati, Giovanni Giolitti, Raffaele Guariglia, Guglielmo Imperiali, Angelo Majorana Calatabiano, Cristoforo Negri, Carlo Felice Nicolis di Robilant, Vittorio Emanuele Orlando, Sergio Pininfarina, Giuseppe Pisanelli, Alfredo e Giuseppe Codacci Pisanelli, Giovanni Porzio, Eugenio Rosasco, Giovanni Maria Visconti Venosta, Domenico Zanichelli, Umberto Zanotti Bianco. Un ultimo aspetto della multiforme personalità di Fabio Grassi Orsini era ignoto ai più e la circostanza del suo ottantesimo compleanno è valsa, felicemente, a svelarlo: alla vasta letteratura scientifica del Nostro sappiamo oggi di poter affiancare una produzione letteraria diversa, quella di narratore. Con la recente raccolta dei racconti - intimi e personali nello stile quanto nell’intreccio - Fabio Grassi Orsini ci regala, oltre che un’amabile e profonda lettura, una nuova immagine di sé. E propone al lettore, nelle pieghe di una prosa a volte lieve ed evocatrice, a volte drammaticamente vibrante, un inaspettato mondo di ricordi, di affetti e di sentimenti - espressi o taciuti, provati o soltanto immaginati - nei quali la memoria si mescola al rimpianto, la storia all’invenzione, la nostalgia al distacco. Grazie, dunque, Fabio Grassi Orsini. E auguri. 11
Fabio Grassi Orsini
La neutralità in Puglia alla vigilia della Grande Guerra
In Puglia la scelta della neutralità trovò classi dirigenti e masse popolari formalmente concordi, con l'eccezione dei gruppi nazionalistici che non avevano tranne che in Taranto e in Bari - una qualche forza ed organizzazione. "Il Nazionalista" di Taranto che fu, tra l'altro, l'unico giornale appartenente a quel movimento a prendere sin dall'inizio posizione contro austriaci e tedeschi (mentre la stampa nazionalista a livello nazionale auspicava l'intervento accanto agli imperi centrali) sosteneva sin dall'agosto 14, che l'Italia non poteva disinteressarsi agli avvenimenti che minacciavano l'Europa: "La guerra va accettata come una necessità e come un dovere per mantenere ed accrescere la civiltà che rappresentiamo". Ma si trattò di una delle poche voci dissonanti: l'organo demo-liberale della stessa città, "La Libera Parola" affermava che "lasciando al Governo la responsabilità suprema del grave momento, i cittadini devono sentire un solo unico dovere quello di mantenersi compatti nell'attesa delle risoluzioni che il governo stesso sarà per prendere". Dal canto suo, "La Voce del Popolo" lodava la dichiarazione di neutralità scrivendo che il "governo è stato questa volta illuminato e con la più felice delle intuizioni, ha guidato l'opinione pubblica e ne ha saputo cogliere il sentimento più intimo". Non diversi erano i commenti delle varie testate in cui si articolava la stampa pugliese, unanime nei confronti della neutralità, pur potendosi notare tre differenti impostazioni che corrispondono a tre diversi orientamenti ideologici: favorevoli alla neutralità relativa e a fiducia nel governo, gli organi della destra liberale; favorevoli alla neutralità senza riserve, quelli demo-liberali, che rispecchiavano il pensiero della parte giolittiana; ed infine quelli radicali in favore della neutralità, tra i quali anche "L'Ordine" che rappresentava la posizione delle gerarchie cattoliche.
Pro-neutralisti ovviamente i socialisti che trovavano seguito nella loro campagna anti-militarista nelle masse operaie, mentre i contadini rimanevano assenti: non si muoveranno nemmeno durante le "radiose giornate". Non c'era da aspettarsi che si riproducesse tra di loro lo stesso entusiasmo che caratterizzò l'inizio della guerra di Libia, il sogno di trovare l'America sulla "quarta sponda" naufragata a Tripoli non li rendeva fiduciosi verso le avventure guerresche.
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Ma se la scelta di non belligeranza aveva suscitato polemiche: le conseguenze economiche della neutralità, che avevano appesantito la situazione sociale, causarono non poche preoccupazioni. Già ai primi di agosto del 1914 cominciarono a giungere a Salandra proteste per il rincaro dei viveri e per la mancanza dei generi di prima necessità, primo fra tutti il grano. Salvemini attirava l'attenzione sui "Dolori delle Puglie" e V. Le Femine segnalava in toni drammatici la "gravità" del problema pugliese". La situazione si aggravò ulteriormente agli inizi dell'inverno. Il 5 dicembre il presidente della Camera di commercio di Lecce telegrafò al capo del governo per attirare la sua attenzione sui gravi problemi alimentari. Per timore di non avere una risposta, si rivolse a tutti i deputati di maggioranza e di opposizione. A seguito di ciò l'on. Fumarola, radicale, si rivolgeva a Salandra per chiedere un suo intervento. A lui si unirono tutti gli altri deputati. La risposta di Salandra secondo cui l'iniziativa del governo non poteva che essere integrativa di quella degli enti locali e delle associazioni private fu giudicata insoddisfacente dai sindaci della provincia, che in una loro riunione chiedevano misure urgenti. Dinanzi a queste prese di posizione, il ministro dell'Agricoltura invitava il prefetto a farsi promotore di un consorzio tra Camera di commercio, provincia ed enti locali cui governo avrebbe fornito la sua collaborazione per l'acquisto di partite di grano e di farina. Bastarono questi affidamenti per suscitare gli entusiasmi ufficiali. Per quanto riguarda la provincia di Foggia, già nel gennaio del ‘14, E. Azimonti aveva lanciato un grido di allarme, prendendo lo spunto dal sanguinoso sciopero di Cerignola, sul cattivo andamento della cultura nel Tavoliere: "A colmare tanti vuoti nella produzione non è bastata la buona o diciamo la ottima produzione del 1913 ed ecco il fatto che determina l'inasprimento, la eccessiva tensione degli animi - si annuncia per il 1914 un'annata triste senza piogge". Lo stesso Azimonti, alla fine della primavera dello stesso anno, ci fa un quadro desolante della situazione sociale che si stava determinando nel Tavoliere dove la prospettiva di una scarsa produzione, che avrebbe inciso sui profitti delle imprese e sui capitali di scorta, aveva già effetti sui livelli dei salari e sul tasso di occupazione. Ma le conseguenze andavano molto aldilà dell'ambito locale. Dalla produzione del Tavoliere era fortemente tributaria la Provincia di Bari ed anche la Provincia di Lecce, che prima dello scoppio della guerra si approvvigionava parzialmente all'estero. La Provincia di Bari, in particolare, produceva in media 800.000 quintali di grano e ne consumava quasi il doppio, mentre la Capitanata ne produceva un 1.700.000 e ne consumava la metà. La situazione della Provincia di Bari si era aggravata se "Humanitas" dedicò una serie di articoli alla crisi granaria, a partire da un intervento del socialista riformista A. Lauricella, che chiedeva che lo Stato "monopolizzasse la vendita del grano in mano dei consorzi agrari" eliminando così la speculazione privata e consentendo dei risparmi sui noli. Anche Azimonti, esprimendo preoccupazione per i "grossi centri abitati delle Puglie, dove sono grandi le masse della popolazione che vivono del pane comprato col contante del salario", consigliava di organizzare ammassi locali, in modo da impedire grandi concentrazioni nelle mani di speculatori. G. Luzzatto indicava il pericolo che gli egoismi locali potessero rompere la complementarietà a livello regionale ed incrinare la solidarietà a livello regionale ed minare la solidarietà sociale. Benché non mancassero riserve su misure che inevitabilmente avrebbero 13
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portato ad introdurre nuovi vincoli e contrariamente alle intenzioni di chi chiedeva queste misure anche nuove e maggiori speculazioni private, in una situazione di monopolio, fu giocoforza ricorrere alla formazione di consorzi. Ma anche con la costituzione dei consorzi il problema era tutt'altro che risolto; la carestia si faceva sempre più allarmante, mentre lo spettro della disoccupazione si faceva sempre più reale e minaccioso a mano a mano che ci si addentrava in quel primo inverno di neutralità. Al governo ci si rivolgeva per chiedere, come sempre, l'effettuazione di lavori pubblici straordinari ed in questo veniva nuovamente risollevata la questione del doppio binario della linea adriatica. Nel dicembre del 1914 riprendevano le dimostrazioni ed i comizi contro la disoccupazione ed il caro-viveri ed i contadini tornarono ad agitarsi; il ricordo del 1898 e dei moti del primo Novecento dovette far scorrere un brivido di paura attraverso le schiene delle classi dirigenti. Gravi incidenti si verificarono in provincia di Lecce, tumulti scoppiarono anche a Barletta, Spinazzola e Minervino Murge. Le agitazioni assunsero un carattere diverso da quelle cui si era abituati perché non si rivolgevano solo contro le autorità ma anche contro i proprietari. Dinanzi al pericolo di una rivolta agraria di straordinaria ampiezza, le classi dirigenti cominciarono a rivedere il loro atteggiamento nei riguardi della neutralità che aveva indubbiamente aggravato la crisi perché aveva creato nuove difficoltà e vincoli ai commerci internazionali. Il disagio si andava diffondendo dalle campagne alle città essendo risentito dagli operai a tutti gli altri settori della popolazione in quanto la crisi non era un fenomeno agricolo. Si ebbero, infatti, agitazioni tra le tabacchine della Manifattura di Lecce, tra i bottai ed i portuali di Gallipoli. Verso la metà di febbraio del 1915, la Camera del Lavoro di Taranto votò un ordine del giorno per attirare l'attenzione del consiglio comunale sulle gravi condizioni delle classi lavoratrici, nel quale si metteva in luce il disagio dei disoccupati ed il vorticoso aumento degli affitti e si invitava l'amministrazione a prendere provvedimenti rivolti ad "abbassare il costo dei generi alimentari e alleviare la disoccupazione". Contro la disoccupazione si tenne nel giugno una riunione dei comitati centrali delle Camere del Lavoro di Terra di Bari e dinanzi alle agitazioni in Puglia - che attirarono l'allarmata attenzione del l'"Avanti!" - si agitò la minaccia dello sciopero generale. Nel gennaio del 1915, A. De Viti De Marco scriveva, riflettendo il pensiero della maggioranza della borghesia pugliese: "Se la guerra dovesse durare tre anni e l'Italia dovesse essere neutrale ed armata, in fondo non vedo che la liquidazione economica delle Puglie". Da un'analisi della stampa, nel periodo che va dalla dichiarazione di neutralità all'intervento, si può trarre la conferma della graduale modificazione dell'opinione pubblica che passa da un diversificato neutralismo della prima ora ad un atteggiamento di generale, anche se differenziato, filointerventismo. Tra i primi organi di stampa a prendere una posizione interventista fu "Il Corriere delle Puglie", che, facendosi portavoce dei ceti medi mercantili ed industriali baresi, condusse una campagna a favore dell'espansione in Albania, nei Balcani e nell'Adriatico. Non meno importante fu l'opera dell'altro giornale barese, "Il Quotidiano", che sotto la spinta di Violante si impegnò in una battaglia a favore degli "interessi pugliesi" e favorì il passaggio di intellettuali democratico-radicali e repubblicani dalle vecchie posizioni irredentiste a nuovi approdi imperialistici. A questo riguardo particolarmente importanti furono le prese di posizione dei giornali 14
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salentini vicini ad esponenti radicali, come il "Corriere Meridionale" e la "Provincia di Lecce". Già nell'ottobre del 1914, "Il Corriere" in un suo fondo ("Mentre maturano gli avvenimenti") lasciava intravedere un cambiamento di rotta, facendo esplicito riferimento alla riunificazione di Trento e Trieste "per forza delle armi". In un altro suo articolo, intitolato "Imperialismo e irredentismo" scriveva: "Quando si tratta della Russia, e noi potremmo aggiungere dell'Inghilterra, della Francia e degli imperi centrali, la guerra dovrebbe importare un cambiamento imperialistico, trattandosi dell'intervento dell'Italia, dovrà essere limitato alla realizzazione delle aspirazioni nazionali. (...) Ora se realmente dobbiamo portare il nostro contributo, abbiamo il diritto di assiderci al banchetto imperialistico. (...) La politica irredentistica è poca cosa nell'ora attuale. (...) Il conflitto attuale è un conflitto di egemonia; l'imperialismo non è e non può essere basato esclusivamente sul principio di nazionalità". Verso la metà di marzo del 1915, l'abbandono del passato atteggiamento filo-neutralista non potrebbe essere più totale: "Ormai la controversia tra neutralisti ed interventisti ha fatto il suo tempo ed oggi non v'è, non vi deve essere che un partito della patria, un grido: Italia". Non diverso itinerario segue l'altro periodico radicale leccese, "La Provincia di Lecce", che fino all'ottobre del ‘14, si era mantenuto entro gli schemi della più rigida neutralità. In un articolo di quello stesso mese lasciò affiorare le sue preoccupazioni per le conseguenze economiche della neutralità e iniziò la discussione sui vantaggi che un nuovo assetto dell'Adriatico ivi inclusa la creazione di uno stato slavo avrebbe potuto comportare per le Puglie: "La Libera Serbia certamente aprirà con gioia le sue porte ai prodotti italiani e noi pugliesi, se con la nostra attività sapremo conquistare il nuovo e vasto campo commerciale balcanico, saremo figli di quella "terza Italia", che rinnovata moralmente attende la grandezza economica". In questa affermazione sta la chiave per decifrare le ragioni di questa conversione all'interventismo della borghesia radicale che non stava più tanto nell'irredentismo vecchia maniera quanto nell'emergente "nazionalismo regionale". In un articolo del marzo del 1915 su "La guerra e la nostra Provincia" si esaminavano gli interessi del Salento nonché i problemi della difesa civile e militare e si insisteva - riecheggiando le polemiche sui lavori pubblici straordinari - sulla necessità della costruzione delle ferrovie strategiche. Ma se gli interessi "provinciali" e "regionali" sembravano prevalenti nel determinare la confluenza dei radicali nelle file dell'interventismo, non si deve sottovalutare l'influenza che ebbe su questo atteggiamento la decisione in favore dell'ingresso in guerra che la Direzione del partito radicale aveva adottato. Uno dei personaggi chiave di questa operazione il cui programma ambiva a rappresentare una sintesi degli "interessi regionali", inserito in una vasta visione della politica interna ed internazionale era l'on. De Viti De Marco. Il parlamentare salentino nel suo discorso agli elettori gallipolini del marzo del ‘15, metteva chiaramente l'accento su quello che riteneva il nesso tra "interessi pugliesi" e "rivendicazioni nazionali": "Questa può dirsi per alcuni aspetti, la guerra delle Puglie". Il conflitto europeo doveva decidere - secondo il deputato radicale - se agli stati balcanici sarebbe stata lasciata la possibilità di una vita nazionale indipendente, o se sarebbero stati assoggettati all'influenza politica e commerciale dell'Austria che avrebbe tagliato loro lo sbocco al mare, obbligandoli ad accettare un asse ferroviario
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Nord-Sud da Vienna a Salonicco. De Viti De Marco concludeva che: "È specialmente per le Puglie interesse evidente che il blocco austro-tedesco sia sconfitto, che le nazionalità balcaniche facciano tramontare per sempre la politica dell'inorietamento dell'Austria, che tra noi e gli stati balcanici si stringano vincoli di amicizia che aprano la via della penetrazione economica dell'Italia nel Vicino oriente". Per De Viti De Marco vi erano "per connessione indissolubile, due fini supremi della nostra guerra: a) liberare la nostra vita pubblica interna dalla corruzione del governo giolittiano; b) abbattere la tirannide del militarismo tedesco". Grande influenza sugli intellettuali pugliesi ebbe la rivista di Salvemini che amplificava i discorsi di De Viti e sulla cui linea influivano esponenti "unitari" del gruppo pugliese come Maranelli e Luzzatto. Non meno attiva fu, infine, "Humanitas" che dal marzo del ‘14 svolse un'organica campagna anti-tedesca e antiaustriaca tendente a mettere in luce non solo il contenzioso territoriale ma il contrasto di interessi, sia regionali che nazionali, con le potenze della Triplice nei Balcani e in Adriatico, denunziando l'egemonia tedesca nella cultura italiana nonché la connivenza tra la finanza germanica e il sistema di potere giolittiano. Su questa piattaforma era riuscito a P.D. Pesce di unificare esponenti repubblicani, radicali, socialriformisti, "giovani ribelli" che contestavano ai partiti estremi il diritto di guidare le masse e nello stesso tempo erano critici verso il nazionalismo. Sia il fronte dell'interventismo democratico che i nazionalisti già dal febbraio del ‘15 si dimostrarono attivissimi: conferenze, meeting, tournées dei più noti esponenti politici si alternarono, ma si tenevano nei teatri e in sale private senza coinvolgere grossi pubblici e senza grandi risonanze. I prefetti che, aldilà delle leggere increspature di superficie cercarono di indagare i movimenti profondi dell'opinione pubblica, dovevano constatare ancora verso la metà di aprile la sostanziale passività delle masse. Il Prefetto di Foggia riferiva che: "Tenuto conto delle condizioni economiche depresse, pel mancato raccolto dell'anno precedente; della persistente crisi; dell'affettività familiare, che predomina nelle provincie meridionali, si spererebbe di più che l'Italia possa uscire dalla presente conflagrazione europea, senza ricorrere alle armi". Da Bari il Prefetto Facciolati faceva conoscere che: "Lo spirito pubblico in questa Provincia generalmente non è favorevole alla guerra per se stessa, essendo il maggior elemento di commercianti, industriali o operai ed i primi vedono con la guerra danneggiati i loro interessi e gli altri dissestate le proprie famiglie". Per quanto concerneva la provincia di Lecce, il prefetto Gallotti constatava che: "La classe dei lavoratori della terra, e quella di tutti gli altri operai sono preoccupate, generalmente, soprattutto del caro viveri, e della mancanza di lavoro, con tendenza contraria a partecipazione alla guerra, dovuta più che altro all'assoluta mancanza di cognizioni degli interessi nazionali". I rappresentanti del governo erano, tuttavia, convinti che, una volta che il governo avesse preso la sua decisione, le popolazioni avrebbero seguito per "patriottismo" e "per necessità d'interesse nazionale" le direttive del governo. I prefetti riferivano della modestia e scarsa incidenza delle manifestazioni interventiste sul complesso dell'opinione pubblica specialmente per quanto riguardava Bari, il che era stato più volte notato dal cronista di "Humanitas" il quale lamentava che "né attende né spera la grande ora: essa è eternamente la grande assente". Indubbiamente se ci sono 16
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settori della società più propensi alla guerra essi vanno ricercati nella borghesia urbana e nell'intellettualità. Sola eccezione - a stare ai giudizi dei prefetti - doveva essere il Salento dove le classi dirigenti favorevoli all'intervento si erano mosse in anticipo, come si poteva desumere già dagli indirizzi della stampa. Il Prefetto Gallotti riferiva, infatti, nel suo rapporto del 20 aprile 1915 che: "A Lecce, invece, la maggioranza delle classi dirigenti, sebbene con molta calma, senza manifestazioni, è piuttosto favorevole alla guerra e così a Taranto a Brindisi". Nel complesso i prefetti si dimostrarono tranquilli per quanto riguardava la gestione dell'ordine pubblico in caso di intervento giudicando che "qualche manifestazione di ostilità e di malcontento" poteva venire da "qualche centro [del Foggiano] dove predominava l'elemento agricolo operaio socialista", da Bari dove "i tentativi di manifestazioni contrarie (...) non potranno avere importanza e potrebbero essere facilmente represse" e da Taranto e Brindisi" dove vi è un piccolo nucleo di socialisti che sono contrari alla entrata in campagna, ma non esplicano azione alcuna". Non si può dire quanto le antenne dei prefetti fossero sensibili in un momento in cui gli equilibri e gli stessi umori della gente stavano per cambiare. Era naturale che gli occhi e le orecchie dei prefetti fossero gli organi di polizia e che questi ultimi formassero le loro opinioni sondando le intenzioni dell'establishment che rimaneva legato a Giolitti ed era ancora attaccato alla speranza che le aspirazioni dell'Italia potessero essere soddisfatte per via diplomatica. La maggioranza degli "ascari" e dei notabili giolittiani non erano per una neutralità assoluta ma avevano preso una posizione attendista, aspettando qualche segno dall'alto e confidando nella saggezza del vecchio "dittatore", anche se erano fortemente preoccupati per l'inasprirsi della situazione economica ed in definitiva rassegnati all'eventualità di una guerra che avrebbe almeno rinviato lo scontro sociale ed in questo loro fatalismo non intendevano creare difficoltà al governo né tantomeno mettersi in disparte. Ciò spiega perché essi partecipassero in maniera diretta e con ruoli direttivi alla formazione e alla vita dei "Comitati di preparazione
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civile" che sorgevano nelle maggiori città, su impulso del governo, e che si pensava dovessero assumere un ruolo nell'orientamento dell'opinione pubblica e nel controllo dell'economia durante il periodo della guerra, indipendentemente da quella che sarebbe stata la decisione di partecipare o meno al conflitto. Circostanza che comportò polemiche e tensioni all'interno di questi comitati ed i primi scontri tra interventisti democratici e vecchi notabili giolittiani. Situazione esemplare di questa situazione fu lo scontro tra T. Fiore e l'on. Caso, oggetto di due lettere del giovane direttore alla "Voce Politica", allora diretta da De Viti De Marco. Lo stesso Salvemini, con diversa autorità, aveva pubblicato in quei giorni sulla "Voce" una sua "Inchiesta su i comitati di assistenza civile in alcuni comuni pugliesi", rivendicando a questi organismi funzioni più ampie di controllo dell'economia di guerra. Questi comitati non si dovevano occupare soltanto di una puntuale distribuzione dei sussidi alle famiglie dei richiamati che "costituivano una vera e propria classe economica privilegiata nella massa proletaria", ma soprattutto preoccuparsi del problema dei disoccupati preparando "un programma organico di lavori per ciascun comune". Salvemini auspicava che si desse particolare attenzione alla nuova situazione in cui si venivano a trovare le donne lavoratrici che dovevano
sostituire i richiamati nei lavori dei campi. Nella visione di Salvemini, e di tutti gli interventisti democratici, questi comitati dovevano dimostrare di essere capaci di assicurare una gestione alternativa rispetto a quella dei comuni infeudati ai grandi notabili giolittiani e in caso di guerra di sorreggere lo sforzo bellico del fronte interno preoccupandosi dei bisogni e della psicologia delle masse. Il che era un'intuizione corretta che se non fosse stata disattesa avrebbe evitato lo scoppio di quelle agitazioni che si produssero a cavallo di Caporetto, in molte parti del paese, ma con particolare gravità in Puglia. Ma l'illusione che la guerra, o soltanto l'ipotesi di un coinvolgimento nel conflitto, sarebbe bastata per produrre un rinnovamento morale ed un ricambio di classe politica non permetteva di considerare il permanere del contesto clientelare e delle abitudini trasformistiche di tanta parte del notabilato pugliese e della realtà degli apparati periferici dello Stato non facilmente permeabili ai cambiamenti dell'opinione pubblica. 18
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Anche P.D. Pesce, nel marzo del 1915, aveva intravisto come la composizione dei comitati potesse trasformarsi in una "turlupinatura" di irredentisti e di interventisti ad opera di quei gruppi che si "adoperavano a scongiurare la guerra e a trattenere l'Italia schiava in eterno di una germanofila neutralità". Era naturale che questi enti, che erano potenzialmente anche per la loro capillarità e formale apoliticità gli unici strumenti di formazione del consenso, fossero posti sotto il controllo istituzionale e vi concorressero personalità di tutte le correnti, ivi compresi coloro che avevano appoggiato l'on. Giolitti. Non ci si poteva, quindi, aspettare che questi comitati potessero divenire lo scenario entro il quale disegnare una "rivoluzione antigiolittiana". Tutt'al contrario gli esponenti giolittiani potevano entrarci senza necessariamente fare atto di abiura nei confronti del loro capo. In realtà questi ultimi se si astennero ufficialmente di prendere parte attiva al movimento interventista, si astennero anche dal dar luogo a marcate manifestazioni di simpatia nei riguardi di Giolitti con l'eccezione di Di Palma e Dentice di Frasso che ai primi di maggio, dopo il ritorno di Giolitti a Roma, depositarono il loro biglietto da visita al suo domicilio, come atto di solidarietà. Se si esaminano i comportamenti dei parlamentari giolittiani pugliesi nei mesi precedenti l'intervento, si può dire che, salvo qualche eccezione, si dovrà aspettare la crisi del ministero Salandra ed in molti casi le manifestazioni del 13 e 14 maggio per assistere ad un passaggio di campo; pochi gli rimarranno fedeli. Fino a quella data, le manifestazioni a favore della guerra furono molto rare e del resto, per comprensibili ragioni diplomatiche, Salandra - come osserva Vigezzi "ancora a fine marzo - metà aprile represse con durezza le dimostrazioni interventiste". L'8 aprile, a seguito di una manifestazione di studenti nazionalisti che il giorno prima avevano tentato di raggiungere il consolato austriaco lanciando sassi e furono caricati dalla polizia, Salandra telegrafò al prefetto di Bari, invitandolo "a provvedere affinché consimili dimostrazioni non abbiano più a rinnovarsi per qualsiasi ragione". Nelle giornate del 21-22 aprile gli studenti liceali dettero vita a tumultuose manifestazioni che portarono ad alcuni arresti, con un tragico epilogo: il suicidio di un giovane fermato. Avvenimento che causò molta emozione in città e che avrebbe portato a più gravi conseguenze se i parlamentari interventisti non fossero riusciti a
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calmare gli animi. A Lucera alcuni studenti medi approfittarono di una proiezione cinematografica per distribuire manifestini inneggianti a Trento e Trieste italiane e contro l'Austria e si mossero in corteo verso la Piazza del Duomo scontrandosi con la polizia. Non potevano mancare le proteste della stampa interventista. P.D. Pesce scriveva in quei giorni su "Humanitas": "Con Salandra al Governo, i metodi di repressione poliziesca si sono esacerbati. In questi ultimi giorni, cresciuto lo scontento della piazza, da Milano a Lecce, sono anche cresciuti gli effetti criminosi dei metodi su deplorati. Milano e Lecce, in un empito unanime di solidarietĂ cittadina, hanno lasciato la loro commossa protesta".
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