N. 463-465 luglio-settembre 2019
euro 15,00
TEMPO PRESENTE
COMUNICAZIONE GLOBALE * L’AVVOCATO DI MATTEOTTI * BLACKFACE * ANALFABETISMO FUNZIONALE * ARMANDO GNISCI * I CANTI DELLA PATRIA * UNA BIOGRAFIA DI PAOLO TREVES * FILOSOFIA DELL’ARTE * KIERKEGAARD * ROTTAMAZIONE * SEMI DI CONSOLAZIONE * FRANCO CARTIA * AUTONOMIA DELL’ARTE
a. blasioli g. brescia e. capuzzo m. cartia a. casu r. catanoso r. deidier m. grasso s. nasti v. pavoncello l. romussi a. g. sabatini
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TEMPO PRESENTE
Rivista mensile di cultura N. 463-465 luglio-settembre 2019 PRIMA PAGINA ANGELO G. SABATINI, Comunicazione globale, p. 3 UOMINI E IDEE
ALESSANDRO BLASIOLI, L’avvocato di Matteotti, p. 6 VITTORIO PAVONCELLO, Blackface, p. 11 ROSARIA CATANOSO, Analfabetismo funzionale e politica, p. 16 MONICA CARTIA, Ricordo di Armando Gnisci, p. 20 ESTER CAPUZZO, I canti della Patria, p. 22 MIRKO GRASSO, Una biografia di Paolo Treves, p. 26 ROBERTO DEIDIER, La filosofia dell’arte di Fabio Vander, p. 30 LUCREZIA ROMUSSI, Kierkegaard il filosofo dell’impossibile possibile, p. 33 MARGINALIA ANTONIO CASU, Parole chiave: Rottamazione, p. 35 FRAMMENTI ANGELO G. SABATINI, ... di semi di consolazione, p. 37 LE MASCHERE DELL’ARTE SALVATORE NASTI, L’artista Franco Cartia e la sua Sicilia, p. 38 GIUSEPPE BRESCIA, Autonomia dell’arte, tempo e senso del celeste, dal barocco alla modernità: il posto di Schopenhauer, p. 41
PRIMA PAGINA
Angelo G. Sabatini
Comunicazione globale Il tema di questa riflessione, così come viene formulato, può apparire ad alcuni certamente ambizioso, ad altri alquanto obsoleto. Hanno ragione gli uni e gli altri. Di comunicazione globale si è parlato ormai in abbondanza e volerne oggi indicare gli aspetti e gli elementi di varia natura che concorrono a rendere la comunicazione un fatto di interesse globale e di funzione globalizzante si rischierebbe di fare il catalogo delle infinite considerazioni di cui la sociologia, l’economia, la linguistica e la fisica ci hanno fatto dono in questi ultimi tempi. Dire invece che sia un tema già chiarito completamente e come tale da archiviare come un evento di civiltà storicamente acquisito e trasformato in un motore del progresso dalle linee ben disegnate equivarrebbe a dimenticare il carattere di innovazione consistente e permanente che la comunicazione ha nell’organizzazione degli strumenti concettuali e operativi della civiltà che molti chiamano post-industriale. La questione posta in questi termini rischia di diventare oziosa e poco utile per capire ciò che si sta attuando nell’ambito della comunicazione configurata e trasmessa per via telematica. E poiché il fatto nuovo nell’universo della comunicazione è rappresentato dalla sua trasformazione nel contesto della rivoluzione telematica in atto e del
suo coinvolgimento nella dimensione del mercato dell’informazione credo che, a voler restringere le molteplici sollecitazioni di riflessione sul nostro tema in alcuni momenti ben definite, possiamo porre la nostra attenzione su tre precisi punti: 1. il carattere specifico della transizione in atto dalla società industriale, basata su una determinata tecnologia, a quella della comunicazione e dell’informazione; 2. le rilevanze della trasformazione nel campo dell’informazione cosiddetta dei mezzi di informazione di massa; 3. infine, il ruolo che il marketing è portato a svolgere quando l’informazione si trasforma, al pari di altri prodotti, in bene di consumo, in bene economico.
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La trasformazione dalla società industriale a quella dell’informazione Pariamo la valanga delle osservazioni che ci travolgono entrando in questo campo fermandoci a ricordare che è un dato acquisito pressoché da tutti che l’informazione si prospetta sempre più come l’energia del futuro, il nuovo motore dello sviluppo. E che pertanto l’economia e la stessa organizzazione della vita individuale e sociale ne subiscono la presenza. Ciò significa che il concetto stesso di bene economico viene riconsiderato in funzione dell’ espansione della comunicazione e
Angelo G. Sabatini
dell’insieme dei mezzi che la promanano. La transizione dalla società tipicamente industriale classica in quella postindustriale, dominata prevalentemente dall’informazione, è riconducibile a un processo in cui la tecnologia viene applicata non solo alla nazionalizzazione dei processi produttivi tipici delle attività industriali, ma anche alle attività di servizio. Ciò genera come effetto indotto anche una crescita rapidissima di tali attività di “servizio” rispetto all’attività economica predominante. Le nuove attività economiche basate sulle tecnologie emergenti finiscono col costituire progressivamente un vero e proprio polo del nuovo ciclo di sviluppo economico e sociale che si affianca alle attività economiche tipiche dei cicli precedenti, mantenute ai massimi livelli di produttività possibile mediante l’adozione delle tecnologie via via emergenti. Il processo di sviluppo delle nuove tecnologie vede emergere e porsi come basilare la microelettronica che fa superare dal punto di vista industriale la tipica compartimentazione del settore elettronico (componentistica, informatica, telecomunicazioni, automazione, elettronica civile) e configura un settore tecnologico e industriale ad alta integrazione: il settore telematico, visto come industria produttrice di sistemi hardware/software. La nuova attività economica che va consolidandosi e configurandosi come attività produttiva tipica del futuro ciclo di equilibrio è quella che opera sull’informazione. Nello schema di società postindustriale descritto, con grande chiaroveggenza, da Daniel Bell, le risorse intellettuali si avviano a sostituire il
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primato di quelle materiali; la regalità economica passa dalla produzione industriale a quella dei servizi e del cosiddetto “terziario avanzato”, con la conseguente nascita di nuove figure (di nuova expertise) e la decadenza di altre (dall’operaio-massa anch’esso in via di terziarizzazione alle mansioni meno qualificate del lavoro burocratico). “La ricchezza delle nazioni – è stato scritto che nei suoi stadi agricolo e industriale dipendeva da terra lavoro e capitale – dipendeva cioè dalle risorse naturali, dall’accumulazione di moneta e perfino dagli armamenti – passerà a dipendere da informazione, conoscenza e intelligenza”. In tutto l’Occidente sviluppato (e anche in quell’Occidente asiatico che è il Giappone) lo sviluppo delle telecomunicazioni e dell’informatica sta configurando un mutamento che trova un equivalente storico solo nella rivoluzione industriale. L’informazione si trova al centro di questo mutamento. E richiede interventi progettuali e programmatici, nonché investimenti piuttosto consistenti. La rivoluzione elettronica o microelettronica non promette solo vantaggi e frutti prelibati, richiede sacrifici, mutamenti nell’organizzazione del lavoro, gestione degli effetti economici e sulle politiche pubbliche, nonché indirizzi nuovi nella formazione degli operatori ai vari livelli della vita privata e pubblica. E comporta anche un ampio approfondimento dei significati più generali che la nuova tecnologia rappresenta per l’uomo, come soggetto attivo e culturale nei processi di crescita antropologica. Strumenti, sistemi, organizzazioni, tecnologie sono mezzi che non possono
Comunicazione globale
esso stesso un “sistema” e come tale necessita di “comunicare”: comunicare significa trasmettere conoscenza o acquisire conoscenza. La necessità dell’uomo moderno sta nell’assimilare e trasmettere informazioni nel modo più rapido ed efficace possibile. Il vero valore della telematica sta proprio in questo: offrire all’uomo, o al “sistema organizzato” delle relazioni tra gli uomini, il modo migliore, più rapido ed efficace per l’acquisizione e la distribuzione dell’informazione. A risolvere tale problema è servita indubbiamente la telematica. Essa rappresenta l’acceleratore nel processo di comunicazione e di scambio tra i vari sistemi. Il nodo della società dell’informazione e della comunicazione, della società post-industriale, si configura come individuazione della possibilità di acquisire quanta più conoscenza possibile in tempi sempre più brevi e usarla in quantità infinita in un processo di produzione e di consumo altamente razionalizzato. La modalità di acquisizione della nuova materia prima (l’informazione), di produzione e di distribuzione del prodotto si è venuta configurando sempre più con un sistema informatico ad alta tecnologia. Che cosa possa significare il processo di transizione in atto non sempre è interamente visibile. Tuttavia è chiaro che la progressione dell’applicazione informatica all’attività umana configura un futuro che, governato dalla tecnologia della comunicazione, si prospetta molto problematico con esiti imprevedibili e non sempre favorevoli al progresso morale dell’uomo. Staremo a vedere.
essere considerati neutri rispetto a chi li usa e ai fini che si vogliono perseguire. È stato giustamente osservato che “se il nucleo generatore del mutamento è rappresentato dallo sviluppo dell’elettronica e dal processo incessante delle tecniche di miniaturizzazione che ha accompagnato il costituirsi della microelettronica come un ramo relativamente autonomo della fisica delle particelle, esso ha però manifestato una pervasività che lo rende, almeno in linea di principio, potenzialmente universale. Rapidità nel ritmo di sviluppo, diffusione in senso verticale (all’interno dell’impresa) e in senso orizzontale (tra le imprese e tra i diversi settori produttivi), portata delle conseguenze economiche e sociali osservabili o prevedibili, sono tutte caratteristiche che sembrano contraddistinguere il fenomeno rispetto ai tempi e ai modi ‘normali’ di sviluppo della società industriale nei decenni precedenti” (Pietro Rossi, Quale rivoluzione?, in A. Ruberti (a cura di), Tecnologia domani, Laterza, Bari 1985). Se in tempi non molto lontani l’informatica e la telematica potevano essere immaginate come una delle tante tecniche di trasferimento dell’informazione, con il trascorrere degli anni questo concetto si è perfezionato conferendo un nuovo valore e un nuovo significato sia all’informatica che alla telematica; la rapidissima e inarrestabile evoluzione sia dell’hardware che del software hanno consentito alle nuove tecnologie di divenire un riferimento fondamentale in tutti i sistemi regolati nella loro attività da un continuo scambio di informazioni con il mondo esterno. L’uomo, quale utente e generatore di informazione, rappresenta
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UOMINI E IDEE
Alessandro Blasioli
L’avvocato di Matteotti O, almeno, se dramma deve essere, che sia drammatizzato!
Chieti, Abruzzo, 16 marzo del secondo anno di dominazione fascist… voglio dire 1926, ore 7.30 del mattino. Un uomo è in piedi, davanti allo specchio. In mano un rasoio affilato. Lo porta alla gola, la lama si poggia sulla pelle, preme leggermente. Gli occhi marroni color della terra a malapena riescono a mettere a fuoco la sua figura riflessa… a malapena distingue la riga dei capelli, che gli divide a metà quella chiazza nera sopra il viso tondo. La miopia è una brutta bestia… ma non è la sola, e non è quella che fa più paura, oggi. Oggi, 16 marzo 1926, è un giorno particolare, speciale, assurdo. Pasquale Galliano Magno, avvocato 30enne abruzzese, mai si sarebbe immaginato una fine del genere. Che il giorno arrivasse, e che lo trovasse così, in mutande e vestaglia, davanti allo specchio, con un rasoio in mano e tanto dolore dentro, senza fiducia nel futuro, senza più la voglia di lottare, con la Chanson de l’adieu di Francesco Paolo Tosti che risuona dal suo vecchio grammofono, che pure quella non è che metta proprio allegria! Il giorno della resa dei conti. Dopo quasi due anni… Il giorno della resa dei conti.
Zan zan zan!
Rasatura completa come si confà all’uso e costume dell’epoca, facendo attenzione a non toccare il mascolino baffetto. Il barbiere sarebbe meglio, ma oggi non è decisamente giornata! Or se ascoltar mi state canto il delitto di quei galeotti Che con gran rabbia vollero trucidare Il deputato Giacomo Matteotti
La musica è sempre stata cantastorie per eccellenza, racconta gli avvenimenti, le emozioni di un popolo, unisce le persone in un unico coro; all’avvocato Magno piace cantare soprattutto per questo e, per questo, alcune canzoni devono essere cantate piano! Erano tanti, Viola, Rossi e Dumìn Il capo della banda: Benito Mussolin… AH!
La miopia - forte, 7/10 ad entrambi gli occhi - non è daltonismo: il colore del sangue si vede eccome: rosso vivido, che spunta dal niente e macchia la pelle … Non s’è fatto niente … Magno sorride Inspira profondamente. beffardo; anche i rasoi sono fascisti, di Ma basta co ‘sta tragedia. Un po’ di questi tempi! La matrice fondante del Fascismo sta positività! 6
L’avvocato di Matteotti
interventista quale era, l’avvocato Magno diventa … socialista. La sinergia è stata immediata. Matteotti, come lui, aveva subito purghe e vessazioni. Come lui, era stato esiliato dalla sua città d’origine. Magno s’è dovuto trasferire a Chieti da Orsogna, soprattutto per proteggere la famiglia, ma come Matteotti non s’è mai piegato alla prepotenza fascista, subendo, certo, ma a testa alta, primo fra i primi a comprendere la pericolosità di quello che è poi effettivamente stato: la dittatura.
tutta lì, è nel sangue, è la violenza: così come l’uomo tiene in mano un rasoio e lo maneggia con cura, così il parlamento, la monarchia, la borghesia hanno creduto di saper maneggiare lo strumento, il fascismo, di poterlo controllare a proprio vantaggio, per una rasatura liscia e perfetta, una tabula rasa di tutti i pelacchi ribelli – gli scioperi proletari – che minano l’armonia d’un viso pulito; quelli che governano, i ricchi, si sono affidati al fascismo credendo di poter star tranquilli e invece, silenziosamente, i fascisti affondano colpi allo stato di diritto, dissanguandolo a poco a poco: l’olio di ricino già dal 1919 sgorga a fiotti e non risparmia nessuno, a suon di dannunziani eia eia alalà … ma le canzonette a ritmo di marcia, Magno, non le vuole più ascoltare da 4 anni a questa parte! Preferisce il “cantautorato”!
In mezzo a un bosco, fu trasportato là E quei vili aguzzini gli disser con furor Perché tu il fascismo hai sempre odiato Ora dovrai morir qui sull’istante E dopo averlo a lungo bastonato Di pugnalate gliene dieder tante Così per mano di quei vili traditor Moriva Matteotti, capo dei lavorator.
Un dì che Matteotti avea scovato affari di petrolio e altre tresche venne su d’una macchina caricato da quei vigliacchi delle bande nere
A pensare che d’Annunzio in persona è stato fautore di tutto questo, dei motti, dei canti degli arditi prima e dei fascisti poi! Abruzzese come lui, interventista, com’era lui, Pasquale… ma, a Magno, è bastato incontrare una sola volta il giovane deputato socialista, il 2 maggio 1920, durante la sua visita in Abruzzo in occasione delle elezioni del 21, per rimanerne estasiato… il suo amico Matteotti, il suo “Giacomino”. Quel giovane alto e asciutto, così energico nei suoi comizi, con una capacità oratoria immensa, aveva stregato in un sol giorno l’interventista Magno, completamente catturato dalle sue parole. E da
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Il 10 giugno del 1924, sul lungotevere Arnaldo da Brescia a Roma, il deputato socialista Giacomo Matteotti, 39 anni, è rapito da una squadraccia di almeno 5 persone. Colpito alla testa, con difficoltà è trascinato in una Lambda nera mentre continua a dimenarsi. Sarà probabilmente pugnalato con un oggetto contundente da Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo. Mandante? Qualcuno molto in alto, tra i vertici del Fascismo. Questa è la verità. E Pasquale Galliano Magno, l’avvocato, lo sa bene. È un pensiero fisso, da due anni a questa parte, e anche oggi, soprattutto oggi, mentre si prepara di buona lena per
Alessandro Blasioli
pure lui, le cose non si risolvono con le arrrringhe, ma con il rrricino, l’olio di ricino. Per lui l’unica legge che conta è quella del manganello ed è uguale per tutti, nel senso che colpisce senza distinzione di sorta. Ironia della sorte, anche lui degli Abruzzi e Molise, di Isernia… un avvocato corregionale che più diverso da Magno non poteva essere!
uscire di casa e andare a lavorare, non riesce a non pensare a quel maledetto 10 giugno, a tutte le vicende che sono accadute dopo l’omicidio del deputato socialista, l’unico vero strenuo oppositore del Fascismo e di Mussolini. Pasquale Galliano Magno sa che gli autori materiali sono stati trovati, hanno confessato almeno il sequestro, ci sono, e le prove pure: Cesare Rossi, Cesarino, amico fraterno del Duce e capo dell’Ufficio stampa del Partito nazionale Fascista, uno dei piani alti, ha lasciato un memoriale pieno di rivelazioni scottanti sul partito e su Mussolini, visto che l’amico Benito l’ha mandato in pasto all’opinione pubblica per salvare sé stesso ed il Governo dallo sdegno provocato dall’uccisione in pieno giorno di uno dei segretari di opposizione. Gli antifascisti chiedono a gran voce le dimissioni di un Governo che, dopo essersi preso il parlamento con violenze e minacce, è evidentemente colluso.
Sembrava si fosse arrivati ad un punto di svolta, col memoriale Rossi e il suo j’accuse pubblicato il 27 dicembre del ‘24, ed effettivamente così è stato, ma in peggio: il Re, l’unica “arma bianca”, non violenta, a disposizione degli antifascisti non si muove e la riunione del consiglio dei ministri del 31 dicembre del ‘24, a maggioranza fascista, accresce il potere della censura, proprio mentre Mussolini riceve un aut-aut dagli squadristi: o con noi o senza di te. Sono minacce levate in prima linea da quel fuoco da estinguere che è Farinacci, il segretario del PNF, il partito nazionale fascista… sui perché Roberto Farinacci sia da estinguere, leggenda vuole che ci si impiegherebbe giorni ad elencarli tutti. Per L’ONOREVOLE Farinacci, avvocato
Farinacci e gli altri squadristi scalpitano per l’ultimazione della prima rivoluzione, quella dell’ottobre ‘22, la marcia su Roma, quando quel figlio di fabbro che è Mussolini ha messo sotto scacco la monarchia prendendosi il Governo. E il comandante, il duce, come lo chiama la folla nelle sue esibizioni propagandistiche dai balconi, da animale istintivo qual è, agisce e prende parola alla camera il 3 gennaio 1925:
Signori! – ha rimbrottato Sono io, o signori, che levo in quest’Aula l’accusa contro me stesso. Si è detto che io avrei fondato una Ceka. Dove? Quando? In qual modo? Nessuno potrebbe dirlo. si grida: «Il Fascismo è un’orda di barbari accampati nella Nazione, di banditi e di predoni» e s’inscena, o signori, la questione morale! E noi conosciamo bene la triste istoria delle questioni morali in Italia. Ebbene, io dichiaro qui al cospetto di questa assemblea e di tutto il popolo italiano che assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se il Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello e non invece una superba passione della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il Fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere. 8
L’avvocato di Matteotti
Le parole forti, inequivocabili, di una dittatura appena nata. Magno le ha apprese dalla Gazzetta Ufficiale, nel suo appartamento a Palazzo Tella, a Chieti, in quei primi giorni del Gennaio del 1925. Non ha nemmeno potuto urlare lo sdegno. Ora capiva il perché Mussolini non lo avesse degnato di una risposta, quando lo invitò a scongiurare delle rappresaglie fasciste nella sua Orsogna. Magno era certo che da qualche parte in quell’uomo fosse rimasto nascosto un briciolo di socialismo, ma niente. Taglia fascista sulla sua testa, esilio e “disonore”, che Pasquale Galliano Magno porta come una medaglia, sul petto, come Giacomo. È anche per questo che segue l’avvicendarsi del procedimento sul rapimento ed omicidio del deputato suo amico sin dall’inizio delle indagini, dal 12 Giugno del ’24. Le sue condoglianze sono state fra le prime ad essere consegnate alla vedova, Velia Matteotti, che evidentemente non ha dimenticato questa vicinanza ed ha per questo inviato una lettera al presidente della Corte per chiedere di non presenziare ad un processo che, a suo dire, processo non è più. L’avvocato Pasquale Galliano Magno, compagno di sventura e amico di Matteotti, prenderà la difesa della famiglia, su richiesta della vedova. Avvocati difensori degli assassini? Uno fra tutti Farinacci, il segretario del PNF, “L’Onorevole manganello”.
Sono accadute talmente tante cose da quel 10 giugno che Magno, a pensarle si ritrova pronto e vestito, senza quasi accorgersene. Fiore rosso all’occhiello, cappotto e via, per le fredde strade ventose di Chieti. La primavera è alle porte, ma sembra abbia
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paura a comparire, vista la mala parata. C’è ancora un po’ di neve a terra, che Magno mette a fuoco a fatica, vista la miopia e i vetri degli occhiali appannati per l’escursione termica. Risalita via De Lollis, l’avvocato arriva sul Corso cittadino, Corso Marrucino. La città gli si spanna davanti e pare a lutto: ovunque sventolano appesi dalle finestre e dai balconi drappi neri, che danno a Chieti un aspetto funebre. Ma la gente non è triste, no, anzi! Il nero va di moda! Fa tanto “gusto dell’orrido” vedere una nazione intera che inneggia bandiere nere, aquile affamate, mannaie e teschi, ma questo è il vento del cambiamento. E a Chieti lo si respira a pieni polmoni, le bandiere fasciste, i gagliardetti sventolano orgogliosamente, la città è in festa: quest’oggi, 16 marzo del ‘26, a quasi 2 anni dall’omicidio inizierà il processo contro gli assassini di Matteotti, nel lattiginoso Palazzo di Giustizia di Chieti, sovrastante una valle e arroccato in un silenzioso torpore; la città clericale, burocratica e militare di Chieti, la città della camomilla, come hanno scritto qualche giorno fa su alcuni giornali è stata scelta da Mussolini in persona perché perfetta per far sì che la giustizia faccia il suo corso… e che la fase finale di questo terribile fastidio che è l’omicidio Matteotti termini senza troppi clamori. Qui il processo si sarebbe svolto nel massimo del rigore e della disciplina. L’ordine è categorico: nessuna manifestazione, di nessun tipo! Ma è difficile di questi tempi che il popolo la pensi diversamente: molti sono i palazzi costruiti e in costruzione in questi anni dal neonato Regime, la città è in perfetto ordine, le forze di polizia più che raddoppiate, in vista del Processo e della presenza in città delle
Alessandro Blasioli
celebrità fasciste, come Farinacci, donne di Chieti. È chiaro chi sarà il appunto… Tutto deve filare liscio … vincitore e chi il vinto, tra i due. Ma Pasquale Galliano Magno, come l’olio. “matteottianamente”, a testa alta si cava Risalita via Chiarini, il Palazzo di il cappello, saluta il barbaro avvocato Giustizia di Chieti, color salmone chiaro, squadrista e varca la soglia del Palazzo di con il suo grande portale, si staglia di Giustizia. fronte all’avvocato Magno; Farinacci, Manca poco meno di un’ora all’inizio quasi lo stesse aspettando, è davanti del processo farsa dell’evento che ha all’ingresso con già indosso la toga portato il fascismo a scoprire le proprie amorevolmente confezionatagli dalle carte e instaurare la dittatura.
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Vittorio Pavoncello
Blackface
Acte poétique, celle-ci me fut sans doute imposée par une exigence intérieure, mode de mon propre drame que je tentais de diriger vers une fine extérieure à moi.
Jean Genet, L’art est le Refuge
Con queste parole Jean Genet esponeva la genesi della sua pièce sul tema delle discriminazioni razziali, Les negres. E ancora delle “esigenze interiori” hanno spinto il soprano Tamara Wilson a compiere un gesto che ha scioccato l’Arena di Verona il 26 luglio 2019, rifiutando di dipingersi di nero il volto e il corpo per interpretare Aida. «Mi aspetto che in tanti non condivideranno la mia presa di posizione, ma devo vivere con me stessa fino alla fine dei miei giorni – ha spiegato l’artista sui social –. Ho parlato con alcuni colleghi, che non credono che rappresentare Aida in questo modo sia razzista. Pensano che presentarla bianca voglia dire cancellare un forte personaggio femminile di colore e capisco perfettamente», ha scritto su Instagram. «Ma conosco anche colleghi che non vogliono che la loro pelle diventi parte del costume perché questo non aiuta la nostra industria ad abbracciare la diversità. Non c’è un giusto o sbagliato perché è una visione personale».
Finalmente qualcosa è accaduto. Sebbene non possiamo chiederci come mai non sia avvenuto prima. Per gli Europei e per gli “italiani bravi gente” la notizia sarà sembrata il capriccio “impegnato” di una star dell’opera lirica
ma ad un approfondimento si può comprendere come il gesto della cantante americana abbia dei fondamenti nella storia del razzismo ed in particolare di quello americano. Il blackface è stata la pratica dei bianchi americani di dipingersi di nero per interpretare in maniera ridicola o caratterizzante i neri, che fra l’altro erano ancora loro schiavi. Il genere teatrale, minstrel show, molto di moda a partire dall’inizio dell’Ottocento, era composto
da sketch, numeri di varietà, canzoni e danza. I neri apparivano stereotipati e può essere anche facile immaginare come si potessero fare delle battute e ridere sui difetti loro attribuiti o sulle storpiature del linguaggio con forme di “primitivismo” nell’espressione. Chi non ricorda il doppiaggio italiano della parlata della Mommy in Via col vento? Il blackface fu anche l’ingresso del sonoro nel cinema (1927). Al Jolson appariva in pieno stile blackface nel film Il cantante di Jazz, il viso dipinto di nero,
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Vittorio Pavoncello
grandi labbroni bianchi e guanti bianchi per nascondere le mani. Il cantante di Jazz aveva però una trama alquanto singolare poiché a mettersi la blackface era un giovane cantore ebreo. Figlio di un rabbino, il cantore di sinagoga si rifiuta di seguire la tradizione del padre perché è troppo appassionato del jazz. Quindi, fugge di casa e dipinge di nero il viso per diventare una star della musica.
Il film ebbe un successo strepitoso e anche Jerry Lewis, a distanza di parecchi anni, fece una sua versione del film. Il genere teatrale del minstrel, invece, iniziò a perdere pubblico quando l’America prese coscienza del problema della integrazione, della parità, e del razzismo ancora operante in tutti gli Stati, sebbene la schiavitù era stata abolita già dal 1865. Ma questo può non sorprendere se si pensa che alcuni intellettuali avevano affermato che liberare gli schiavi, senza dare un giusto indennizzo economico ai loro proprietari, era ledere i diritti della
proprietà privata. Per capire quale significato e conseguenze potrà avere il problema sollevato dal soprano Wilson può essere ancora utile la didascalia che Genet antepose al già citato Les negres. Questa commedia scritta da un bianco, è destinata a un pubblico di bianchi. Nello sfortunato caso in cui venga rappresentata di fronte a un pubblico di neri, una persona bianca (maschio o femmina) dovrà ad ogni rappresentazione sedere in prima fila, vestito in maniera formale, in abito da cerimonia: gli attori reciteranno per questa persona. Un occhio di bue dovrà essere costantemente acceso su questo simbolico bianco. Se nessun bianco accetta di rivestire questo ruolo, all’ingresso saranno distribuite maschere da bianco a tutti gli spettatori neri. E se tutti i neri rifiutano di indossarla, si ricorrerà a un manichino.
Quindi, il rapporto attrice/cantante/ pubblico, del chi vede e del cosa si dà a vedere, non è così infondato, astruso o mero vezzo divistico. Se Tamara Wilson, come artista, rifiuta di travestirsi da nero, come se il nero fosse una alterità discorde da una umanità bianca, il gesto della Wilson è pari ai tanti gesti compiuti da star del rock o del pop quando si dicono e dimostrano impegnati. La trama de Les negres ci dice anche di più: un gruppo di neri indossa una maschera che li farà apparire bianchi, mentre uno di loro resterà nero, e sarà accusato e processato per l’omicidio di una bianca. A parte un luogo comune che vuole il nero stupratore e omicida di donne bianche, come se il contrario non sia mai avvenuto oppure si sia svolto con la benedizione di un Dio bianco, l’episodio ci rimanda all’Otello (ambito personaggio del quale gli attori amano dipingersi) del quale tratteremo in seguito.
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Blackface
Appare, invece, evidente che c’è una singolare differenza fra indossare una maschera o dipingersi di nero per sembrare un nero. La maschera presuppone sempre una persona dietro la maschera il cui colore della pelle non è rilevante poiché la maschera ci pone sempre di fronte ad una finzione. I neri nella realtà non sono mascherati da “negri” né sono verniciati di nero. La verità e la realtà nella maschera è in chi la agita, la muove, conferisce parola alla maschera, la maschera è già una finzione dichiarata. Truccarsi di nero dipingersi di nero è un altro modo di assumere l’alterità. Il makeup lascia integro il movimento del volto, non lo fissa come la maschera. E quindi, è ancora più umano, resta umano. Ci si traveste da un altro essere umano, ma può anche succedere che lo si faccia per non farlo essere più umano. La maschera è finzione è mimesis, il trucco è specchio, è l’immagine riflessa. Nel caso del dipingersi di nero il volto è un narcisismo corrotto, spezzato, infranto, negato. È un Narciso sgomento e infuriato che il proprio riflesso non gli somigli. La tirannia del sé non trova in sé stesso il primo seguace e servo. Ogni tiranno tirannizza in primis se stesso per essere come vorrebbe apparire. Il razzismo è in prima istanza la rabbia che al mondo ci sia qualcosa, un’immagine, una cultura che non riproietti l’immagine ideale che si ha di sé nel mondo. Per rimanere sempre in ambito operistico, e per dare un ulteriore esempio della differenza fra trucco e maschera prendiamo Butterfly di Puccini. La cantante bianca che interpreta Butterfly non farà altro che trasportare sul suo volto il trucco che si dà una geisha, magari allungando e ovalizzando
il contorno degli occhi per orientalizzarsi, ma si truccherà già come si trucca con il make-up una geisha, non userà la maschera della geisha. Non ha bisogno di accentuare con il colore giallo quello che nella geisha è bianco. Una geisha nell’esercizio delle sue funzioni, qualunque queste siano, ha il volto e il collo bianchi. Un trucco si dà per quello che è e come tale è vero, la maschera, invece, cela, nasconde. E su questo si deve riflettere quando ci si tinge di nero per essere Aida oppure Otello. Aida sebbene per motivi di guerra è ridotta alla schiavitù e vive come schiava/ancella di Amneris, figlia del Faraone d’Egitto, la quale ha il potere di vita e di morte su di lei; la volontà o i sentimenti della principessa egizia decidono della sorte di Aida. Alcune foto delle diverse cantanti che hanno interpretato Amneris ci rimandano sempre la figlia di un Faraone bianca, in contrasto con Aida che è nera. Eppure, l’Egitto non è un paese scandinavo! Certamente l’opera di Verdi e del librettista Antonio Ghislanzoni non ha avuto intenzioni razziste ma sulle varie interpretazioni o tradizioni teatrali che vogliono Aida dipinta di nero avere qualche dubbio potrebbe essere legittimo. Ci sono meno dubbi, invece, su Otello che molta critica e interpretazione tenta di giustificare o discolpare. Chi è: l’“uomo” Otello o il “negro” Otello che ucciderà Desdemona? Se pure si volesse discolpare Otello, (dell’omicidio rituale della donna bianca attribuito dai bianchi ai “negri”, e ai quali l’incivilito Otello nello sconvolgimento primitivo delle passioni farà ritorno,
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Vittorio Pavoncello
come prova della sua irriducibile e brutale appartenenza razziale) rimarrebbe nei suoi confronti una ben poco difendibile accusa di femminicidio, qualunque sia il colore di pelle dell’uomo omicida. Insomma, per difendere Shakespeare dall’accusa di razzismo si rischia di trovare ben più intollerabili giustificazioni all’omicidio di una donna, come l’accecante gelosia che muove Otello e che lo rende umano, non più bianco e non più nero, e quindi uomo tra gli uomini che hanno sempre dei motivi, più o meno buoni più o meno condivisibili, per uccidere una donna. Insomma, Otello più ignara vittima di un raggiro che consapevole omicida. Parlare di femminicidio sarebbe stato assurdo ai tempi di Shakespeare o durante le varie interpretazioni che i mattatori ne hanno fatto con il trucco nero e indemoniato più dell’inferno e da cui Otello sembra scaturire. Oggi, però, è questo che si dovrebbe analizzare: che ne sarebbe di Otello se non fosse più un “negro”?1 Se fosse un bianco, sarebbe un uomo tradito, ferito, che si vendica dando la morte alla sua amata come avviene ancora in tante famiglie e coppie delle cronache, si giudicherebbe il femminicida ma non l’essere umano dalla pelle nera. Se Otello non fosse piu “negro” come giustificare allora tutte quelle battute che alludono al colore della pelle? Dobbiamo quindi, chiederci: con quali occhi dobbiamo vedere il teatro, l’opera e il cinema? Con quelli che hanno bisogno di occhiali o con quelli dei sentimenti, della mente e dell’intelletto? Abbiamo ancora bisogno di tutta quella tradizione di orpelli naturalistici quando
si allestisce un’opera contrabbandandoli come tradizione teatrale, come convenzione teatrale? Oppure dovremmo iniziare a pensare che proprio per il cambiamento in atto nei costumi e nelle coscienze attuali quegli spettacoli teatrali ed operistici ci appaiono non così universali come ci viene proposto, e potrebbe cadere in disuso proprio come è accaduto per il genere del Blackface? Benedetto Marcello nel Teatro alla moda invitava a dare quel tanto di convenzione di cui il teatro ha bisogno, ma qual è il limite da non oltrepassare, oggi, perché tradizione e convenzione non diventino propaganda e ideologia? Così è con quel misto di accomodante convenzione che si è riusciti a mandare in scena la Wilson, non dipinta di un nero cupo come era da regia, ma appena accennato, come se la negritudine di Aida fosse una sfumatura molto prossima al bianco. Una eroina, Aida, che si affranca dalla negritudine rozza e primitiva dei sentimenti per assurgere al sacrificio di sé per amore dell’amato, come solo una eroina bianca sa fare. Perché al fondo del razzismo c’è che l’amore lo provano solo i bianchi e i neri ne sono privi poiché non civili e immersi nel caos della natura e degli istinti. Come dirà Otello di Desdemona nella terza scena del terzo atto. Straordinaria creatura! Ch’io sia dannato se non ti amo; e quando più non ti amerò sarà di nuovo il caos.
C’è da aggiungere ed è stato un vero peccato, che il dibattito generato dal gesto della Wilson non sia proseguito oltre e si sia fermato alle ragioni economiche dello spettacolo già
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Blackface
venduto e annunciato o ai probabili, larvati ricatti, fatti al soprano di sostituirlo senza perdere troppo tempo. E si può bene immaginare che alla Wilson la produzione avrebbe anche richiesto i danni o il risarcimento delle spese ulteriori. Comunque il primo passo è compiuto ed il cammino sarà ancora lungo. Significativa, invece, sulle tematiche agitate dalla Wilson la performance che creò il mimo, da poco scomparso, Romano Ro’ Rocchi, in uno degli eventi che organizzai alla Casa del Jazz nel 2011 in occasione di un Giorno della Memoria e che vedeva i neri ricordare insieme agli ebrei lo sterminio razzista fatto dal nazismo. Il titolo della performance era “Variazioni su Al Johnson” con Ro’ Rocchi mimo e alle percussioni Alpha
Dieme. Ro’ Rocchi era in scena con il volto e il corpo completamente dipinti di nero e con lui, nel foyer, Alpha Dieme il percussionista africano nero, completamente dipinto di bianco. Ro’ Rocchi danzava sulla musica di Dieme e durante la performance i due iniziavano a rimuovere con le mani e con le dita, i rispettivi colori, spalmandoli sul corpo dell’altro. Ro’ Rocchi bianco ma dipinto di nero si trovava impastato con manate e ditate del bianco Alpha Dieme, e Alpha Dieme nero ma dipinto di bianco si trovava impastato con manate e ditate del nero Ro’ Rocchi. Alla fine del mimoconcerto i due artisti completamente stanchi, sudati, e pieni di ditate morbide ma anche feroci sui corpi, apparivano per ciò che erano: un insieme di umanità, stanca e confusa di fronte alla vita.
1. Fra i coraggiosi registi fuori dalla tradizione che hanno scelto per un Otello non annerito c’è stato Nekrosius. Lo spettacolo arrivato in Italia nel 2001 aveva un Otello molto massiccio quanto bravo. La regia era piena di fascino facendo interagire elementi primi come acqua, fuoco, aria, sebbene la sintesi drammaturgica si
appesantisse da una copiosa letteratura di immagini. Il problema però rimane nel giustificare la fedeltà ad un testo che continua a chiamare Moro un attore che non lo è e quindi non si riesce a capire che significato si dovrebbe dare alla parola: Moro.
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Rosaria Catanoso
Analfabetismo funzionale e politica
In poco tempo, siamo passati dai timori per le armi di distruzione di massa alle preoccupazioni per la diffusione di massa. È così azzardato ritenere che il pericolo prodotto dalla diffusione di massa di notizie, di informazioni, di propaganda possa essere paragonato a quello che l’umanità corre per via delle bombe atomiche? Ritenendo che tanto azzardato non sia, di seguito vogliamo motivare da cosa sorga un tale timore. Giunti ormai in piena era digitale. In un tempo in cui il discrimine tra virtuale e reale si presenta sempre più labile, in un momento in cui a fruire dei social network non sono solo i giovani, diventa sempre più cogente chiedersi come internet abbia cambiato le nostre relazioni. E se la politica, seguendo la lezione di Hannah Arendt, è possibile solo e soltanto mettendo in comune, dialogando, relazionandoci, ne consegue che i cambiamenti provocati dai mezzi di diffusione di massa ne hanno mutato il volto. Sembra scontato e prevedibile. Del resto, è stato così sin dai tempi della propaganda di stampo nazifascista. Ma, innanzi all’irrompere di social, dei tweet, dell’immediatezza dei messaggi, delle dirette siamo talmente impreparati, che qualsiasi analisi soprattutto sociologica non rischia d’essere superflua1. Cosa sconvolge? Cosa preoccupa? A quale rischio siamo esposti? L’analfabetismo funzionale è tra i problemi più allarmanti del nostro tempo.
L’UNESCO ha fornito questa definizione: ‹‹una persona è funzionalmente alfabetizzata se può essere coinvolta in tutte quelle attività nelle quali l’alfabetizzazione è richiesta per il buon funzionamento del suo gruppo e della sua comunità e per permetterle di continuare a usare la lettura, la scrittura e la computazione per lo sviluppo proprio e della sua comunità››2. Di contro, l’analfabetismo rappresenta l’incapacità dell’individuo di decifrare l’ambiente e partecipare alla società in cui vive, incapacità di usare abilità in modo funzionale in attività tipiche della vita quotidiana. Per analfabeti funzionali si intendono coloro che non sono in grado di comprendere informazioni a cui sono esposti; sanno leggere, scrivere e fare i calcoli. Ma non sanno comprendere e interpretare la realtà che li circonda. Non riescono a capire un articolo di giornale, pur riuscendo a leggerne le parole. Non sono in grado di compilare una domanda di lavoro. Inoltre, nonostante usino il pc e lo smartphone, non sanno interagire con strumenti e tecnologie digitali e comunicative. Ma quel che appare più grave è l’abitudine nel rimandare ogni informazione alla propria esperienza diretta. L’analfabetismo funzionale – diverso da quello strutturale, dovuto al non sapere leggere e scrivere – è un fenomeno sempre più pervasivo. E così
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Analfabetismo funzionale e politica
ci troviamo innanzi soggetti, pur scolarizzati, che non comprendono un contratto, che non sono in grado di interpretare un testo, di sintetizzare una tesi letta o ascoltata. Questi individui leggono articoli condivisi sui social network, rivelandosi terreno fertile per la diffusione incontrollata di notizie false. Condivise infinite volte, senza riflessione. C’è uno stretto legame tra analfabetismo funzionale e pensiero acritico. Un analfabeta funzionale è più incline a credere a tutto quello che legge, non riuscendo a comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità3. Lo Human development report 2009, un indice calcolato tra i paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) rivela che in Italia gli analfabeti funzionali si aggirano tra il 47 per cento4. Ormai il binomio analfabetismo funzionale-social network è sotto gli occhi di tutti, dal momento che tutti hanno lo stesso spazio per potersi esprimere. Già Umberto Eco, in tempi non molto lontani, aveva constatato come internet avesse dato diritto di parola a legioni di imbecilli. E questi imbecilli sono tuttologi affermati, persone che ritengono d’avere conoscenze e competenze in tutti i campi dello scibile umano e persino in quelli in cui la scienza, per ora, sospende il giudizio. Combattono muniti di arroganza e presunzione. La loro trincea preferita è la sezione commenti sulla quale si sbizzarriscono, sviluppando quasi una dipendenza compulsiva da
tastiera. Non sventolano una bandiera politica precisa, né sono accomunati da uno specifico grado di istruzione. Spopolano ovunque e animano ogni dibattito. Il loro è un atteggiamento che manca di senso critico, guidato dall’emozione: ha una natura magnetica. Infatti, facendo leva sul sentimento, riesce ad attirare una grande quantità di persone che vogliono sfogare le loro frustrazioni5. Ma tutto questo cosa avrà a che fare con la politica? Nell’era dell’1 vale 1, un individuo un voto, un tale analfabetismo funzionale è preoccupante, oltre che sconvolgente6. Il rischio è di travolgere il paese nel baratro più totale. Altro che nucleare. A distruggere la democrazia ci pensa l’inconsistenza del pensiero. Rimpiangiamo il sapere aude di kantiana ed illuministica memoria. E ci ritroviamo, in krisis innanzi a cotante possibilità di distruggere diritti acquisiti e dati per scontati. E così, con buona pace del suffragio universale, bisognerebbe prima paradossalmente verificare che ci siano nell’elettorato le condizioni per discriminare, per giudicare, per comprendere. Fuor di retorica, è chiaro il perché un programma politico serio debba partire dalla formazione umanistica di ragazzi ed adulti. Del resto, ‹‹i somari si curano con i libri››7. E quindi, il sistema non investendo sulla cultura in modo serio e mirato ha con sé l’intenzione di assuefare la mente? Orwell lo aveva già profetizzato. E noi, comodamente adagiati innanzi al flusso costante di messaggi, rischiamo di perdere quelle libertà, quelle possibilità espressive per le quali in molti, non troppi anni fa hanno lottato ed operato un’atroce resistenza. Diritto di dissentire, diritto di
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Rosaria Catanoso
rivendicare altro dal contingente8. Una levata comune è possibile solo e soltanto se corroborata dal riconoscimento dei pericoli nei quali siamo immersi. La mobilitazione totale, ben descritta da Junger, dovrebbe cambiare figura sostituendo all’operaio, il pensatore. Mai come ora, i tempi sembrano essere maturi per il riproporre un Manifesto degli intellettuali, mai come ora serve un’intelighentia che risollevi un sentire comune ed una società civile. Ecco perché molti intellettuali ed accademici – in particolare Cacciari, Berti, Ciliberto, De Giovanni, Gregotti, Manzoni, Marramao, Paladino, Pollini, Sciarrino – poco meno di un anno fa hanno pubblicato un Manifesto per l’Europa. Già allora la situazione dell’Italia si stava avviando in una spirale distruttiva: ‹‹L’alleanza di governo diffonde linguaggi e valori lontani dalla cultura – europea e occidentale – dell’Italia. Le politiche progettate sono lontane da qualsivoglia realismo e gravemente demagogiche. Nella mancanza di una seria opposizione, i linguaggi e le pratiche dei partiti di governo stanno configurando una sorta di pensiero unico, intriso di rancore e risentimento. Il popolo è contrapposto alla casta, con una apologia della Rete e della democrazia diretta che si risolve, come è sempre accaduto, nel potere incontrollato dei pochi, dei capi. L’ossessione per il problema dei migranti, ingigantito oltre ogni limite, gestito con inaccettabile disumanità, acuisce in modi drammatici una crisi dell’Unione europea che potrebbe essere senza ritorno. L’Europa è sull’orlo di una drammatica disgregazione, alla quale l’Italia sta dando un pesante contributo, contrario ai suoi stessi interessi.
Visegrad nel cuore del Mediterraneo: ogni uomo è un’isola, ed è ormai una drammatica prospettiva la fine della libera circolazione delle persone e la crisi del mercato comune. È diventata perciò urgentissima e indispensabile un’iniziativa che contribuisca a una discussione su questi nodi strategici. In Italia esiste ancora un ampio spettro di opinione pubblica, di interessi sociali, di aree culturali disponibile a discutere questi problemi e a prendere iniziative ormai necessarie. Perché ciò accada è indispensabile individuare, tempestivamente, nuovi strumenti in grado di ridare la parola ai cittadini che la crisi dei partiti e la virulenza del nuovo discorso pubblico ha confinato nella zona grigia del disincanto e della sfiducia, ammutolendoli. Per avviare questo lavoro – né semplice né breve – è indispensabile chiudere con il passato ed aprire nuove strade all’altezza della nuova situazione, con una netta ed evidente discontinuità: rovesciando l’ideologia della società liquida, ponendo al centro la necessità di una nuova strategia per l’Europa, denunciando il pericolo mortale per tutti i paesi di una deriva sovranista, che, in parte, è anche il risultato delle politiche europee fin qui condotte››9. Le politiche sovraniste ed antiimmigrati possono essere combattute solo e soltanto con iniziative che contribuiscano a creare dibattito nell’opinione pubblica. Non possiamo arrenderci. Ed abbiamo il dovere di continuare a discutere, a dar eco ad una società civile che non si ritrova nelle forme demagogiche e millantatrici dei politicanti postmoderni. Costoro, di certo, non avranno mai letto Weber. Ma noi non possiamo dimenticare come: ‹‹la politica consiste in un lento e tenace
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Analfabetismo funzionale e politica
superamento di difficoltà, da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. È perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile. Ma colui il quale può accingersi a quest’impresa deve essere un capo, non solo, ma anche – in un senso molto sobrio della parola – un eroe. E anche chi non sia l’uno né ‘altro, deve foggiarsi quella tempra d’animo tale da poter reggere anche al crollo di
tutte le speranze, e fin da ora, altrimenti non sarà nemmeno in grado di portare a compimento quel poco che oggi è possibile. Solo chi è sicuro di non venir meno anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuol offrirgli, e di poter ancora dire di fronte a tutto ciò: ‹‹Non importa, continuiamo!››, solo un uomo siffatto ha la ‹‹vocazione›› (Beruf) per la politica››. Mai come ora abbiamo bisogno di pensatori così. Di cittadini con la vocazione per la politica10.
I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli. Umberto Eco
1. M. Vegetti, L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria, Einaudi, Torino 2017. 2. L’otto settembre è la giornata internazionale per l’alfabetizzazione, istituita il 17 settembre del 1965, al fine di rafforzare il valore dell’ alfabetizzazione nella battaglia in favore dei diritti umani promossa dalla comunità internazionale. Nella Dichiarazione di Persepoli, adottata dall’UNESCO nel 1975, l’alfabetizzazione è proposta come un “contributo alla liberazione dell’essere umano e al suo pieno sviluppo” e in quanto tale rappresenta un diritto per tutti. 3. A. Sgobba, Il paradosso dell’ignoranza da Socrate a Google, il Saggiatore, Milano 2017. 4. V. Gallina (a cura di), La competenza alfabetica in
Italia. Una ricerca sulla cultura della popolazione, Franco Angeli, Milano 2001. 5. N. Carr, Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011. 6. G. Ziccardi, Tecnologie per il potere. Come usare i social network in politica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019. 7 R. Burioni, La congiura dei somari. Perché la scienza non può essere democratica, Rizzoli, Milano 2017. 8. T. Serra, Dissenso e democrazia. La disobbedienza civile, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2010. 9. M. Cacciari, Prepariamoci alle elezioni europee, la Repubblica, 2 agosto 2018. 10. M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1966, pp. 120-121.
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Monica Cartia
Ricordo di Armando Gnisci Il 17 giugno 2019 Armando Gnisci ci ha lasciato. Critico letterario e accademico, ha insegnato per molti anni come Professore associato presso la Facoltà di Lettere e filosofia all’Università La Sapienza di Roma. È stato uno dei più importanti comparatisti in Europa, ha scritto 50 libri tradotti in rumeno, francese, ungherese, slovacco, spagnolo (Spagna e Cuba), inglese, cinese mandarino, arabo (Egitto), macedone, serbo e portoghese. Ha tenuto lezioni e conferenze nelle Università e in Istituti di cultura di tutto il mondo, in Europa, Asia, America, Africa. Dal 1° novembre 2010 si era dimesso da docente della Sapienza spiegando i motivi della sua coraggiosa scelta. “Mi sono dimesso dall’Università perché ho dato troppo (…) in un luogo che è diventato sempre di più, a mio avviso, malato e inadeguato”. Continua poi sottolineando che “la malattia fondamentale sta nell’arretratezza culturale e morale della classe politica italiana. (…) L’università e la ricerca sono sempre più tagliabili, dimenticabili e trascurabili (…) Com’è possibile tagliare le arti nel paese delle arti, in Italia, nazione che ha costruito ville e palazzi e scritto musica per il mondo intero? I teatri sono costretti ad auto-finanziarsi ospitando matrimoni. I valori di una repubblica vera sono il welfare, lavoro e dignità per i giovani e le donne, coscienza e conoscenza”. Alla domanda su che ricordi nutra nei confronti della sua docenza presso la Facoltà di Lettere, il Prof. Gnisci risponde “Non ho nessun bel ricordo, ho sempre vissuto con rabbia e lottando contro” riferendosi ai suoi colleghi e alla baronia universitaria come un “muro di chiusura” simile a quello tra israeliani e palestinesi in cui ognuno rivendica solo il suo territorio”. L’unica soddisfazione in un mondo universitario che tanto rispecchia la crisi della nostra Repubblica e delle nostre istituzioni, sembrano essere i giovani. “Vi saluto assicurandovi che l’unica parte dell’università dalla quale non mi sono dimesso è la vostra” scrive rivolgendosi ai suoi studenti ma anche a coloro che non l’hanno mai incontrato e che rappresentano le generazioni future ammettendo “per anni ho sentito voi come i miei veri colleghi”. Lo scopo di Armando Gnisci è stato, in tanti anni di insegnamento, quello di infondere nei suoi studenti una conoscenza basata sul sapere comparativo. “Guardando all’indietro il cammino intellettuale che ho percorso, posso dire che il mio destino di comparatista letterario si è mosso e si è spostato da un sapere letterario verso un sapere di sapere vitale, e cioè, percorrendo letterariamente la via della mia vita, o interpretando la vita come una via”, (scrive in Decolonizzare l’Italia) una via capace di portarci verso nuove aperture, spostando il proprio io presso l’altro per uscirne “alterati” e più saggi.
Sono stata alunna di Armando Gnisci nel senso più nobile del termine, ossia come colei che desidera essere alimentata. E così fu con lui, il mio Maestro più grande. Oltre ad essere stato il fondatore della cattedra di Letterature Comparate all’Università La Sapienza di Roma, Armando Gnisci era IL professore e la Guida. Lo era dei suoi amati studenti che quell’amore ricambiavano appassionatamente e senza limiti affollando l’aula 3 al piano terra della facoltà di Lettere e filosofia di mattina presto, consapevoli
che non avrebbero assistito ad una lezione universitaria canonica ma che sarebbero andati ad un appuntamento fatale. Un appuntamento con la letteratura, con i poeti e le loro voci (oltre che con la Sua, profonda e sensuale, indimenticabile), con quello che Lui definiva “il dire della letteratura”. Con lui gli studenti pensavano insieme al testo in un disegno di interrelazioni e di sensi che solo un grande comparatista come Lui sapeva tessere. Nelle pagine di Spighe (il mio volume le ha ormai consunte) amore e
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Ricordo di Armando Gnisci
letteratura diventavano un unicum, in quelle di Appuntamenti temi letterari e filosofici si proponevano come “appuntamenti” di un percorso ermeneutico in cui tutto si legava e si interrelava in un mosaico di connessioni infinite. Con Armando Gnisci ho rivoluzionato me stessa abbracciando i poeti, sentendo fremere in me la voce di Eminescu e Montale, di Gongora ed Eliot, di Salinas ed Ady per dirne solo alcuni dei tanti. Non erano lezioni le Sue, erano amplessi con il testo letterario e le sue corrispondenze ed in quegli amplessi trascinava gli studenti, ogni volta, sempre di più. Studiare e laurearsi con Armando Gnisci ha significato comprendere pienamente e totalmente il valore della letteratura, ha significato iniziare a mondializzare la mente – secondo una definizione a Lui cara – in quei già lontani primi anni Novanta, anni in cui egli invitava alla decolonizzazione mentale, a superare le barriere nazionali nel nome di una letteratura di respiro transculturale. In quegli anni scrisse testi come Noi altri europei, saggi di letteratura comparata sul concetto di identità europea, mentre nella rivista Kumà proponeva l’idea di un meticciato culturale. Armando Gnisci ha lasciato un vuoto gigantesco. Non solo perché abbiamo
perso un vero critico militante ed uno studioso emerito di fama mondiale, ma perché avevamo ancora tanto bisogno di Lui. Ai suoi studenti ha lasciato un messaggio importante, una specie di investitura dall’inestimabile valore: “Vi chiedo, in ultimo, di non perdere speranza, in voi stessi e nella comune repubblica, che sembra tramontare sull’orizzonte civile degli italiani, invece che venirci incontro come “il sole dell'avvenire”. Sappiate che solo voi potete – ogni volta che lo vogliate – far risorgere il desiderio e il fervore di un “brave new world”, come scrive Shakespeare ne La Tempesta. L’utopia di un “meraviglioso mondo nuovo”, al quale tutti abbiamo diritto. E per il quale serviamo noi letterati: e tradurre. E per indicarlo come il valore finale di una educazione che non può finire mai, come ci hanno insegnato i nostri antenati latini.” “Com’è possibile tagliare le arti nel paese delle arti, in Italia, nazione che ha costruito ville e palazzi e scritto musica per il mondo intero? I teatri sono costretti ad auto-finanziarsi ospitando matrimoni. I valori di una repubblica vera sono il welfare, lavoro e dignità per i giovani e le donne, coscienza e conoscenza”. In quel Mondo nuovo, io credo e sempre crederò, mio amato e caro Prof.
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Ester Capuzzo
I canti della Patria Carlo Pigliocci, Memorie storiche d’Italia nei canti della Patria. 120 anni di spartiti illustrati dal Risorgimento alla Grande Guerra, Palombi, Roma 2018.
Una delle tante eredità che una guerra lascia ai posteri è quella della musica. Da sempre la musica ha fatto parte della vita dei soldati nei campi di battaglia o nelle retrovie, ne ha ritmato le marce, sostenuto le battaglie, allietato le ore di riposo, ha scandito il tempo della guerra. La musica e il suo stretto legame che si stringe con le vicende nazionali tra l’età del Risorgimento e la Prima guerra mondiale permette di penetrare nella mentalità patriottica, non mediante la consueta analisi della realtà fattuale bensì attraverso la ricostruzione delle rappresentazioni, delle percezioni, degli stimoli lanciati dalla musica per scandagliare il mondo interiore degli attori e ripercorrerne le motivazioni del loro agire. Si tratta di un percorso che si snoda tra le sonorità musicali che accompagnarono le imprese risorgimentali, centrato su tre aspetti in particolare: la lirica, la canzone popolare, che assumeva connotati patriottici, e gli inni. Del resto, come scrive Carlo Pagliucci, che in questo libro ci offre un’ampia collezione di spartiti, il fulcro di quest’opera è costituito da un trinomio composto da musica, parole e immagini. Come più in generale e come per tanti altri settori, la Prima guerra mondiale si pone come un irreversibile tornante di
svolta che innesca dei mutamenti profondi anche nei diversi campi musicali, producendo interscambi culturali tra ambienti e provenienze territoriali differenti. E l’Italia della Grande Guerra vanta una ricca e ampia varietà di espressioni canoro-musicali (scuola napoletana, canti degli alpini e futurismo musicale) che fanno del caso italiano un unicum nel panorama dei paesi coinvolti nel conflitto, ancorché continuino le diverse attività musicali e le fruizioni di differenti generi musicali tanto tra i combattenti che nel c.d. fronte interno mentre la diffusione di nuovi generi popolari e ballabili, in particolare del tango e del jazz, è favorita dall’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1917, anno di nascita de La Cumparsita. La musica e il canto avevano svolto sin dagli anni del triennio rivoluzionario un’importante funzione patriottica contribuendo a diffondere le idee di libertà e di nazione tra gli ambienti borghesi ma non solo come attestato sin dall’Inno della repubblica partenopea Inno patriottico del cittadino Luigi Rossi per lo bruciamento delle immagini dei tiranni composto nel 1799 da Domenico Cimarosa ed eseguito nel corso della festa dell’Albero della libertà il 30 fiorile. Questo rapporto tra musica, canto e risorgimento che si sviluppava sin dalle scaturigini di questo movimento prosegue oltre il periodo delle repubbliche giacobine, oltrepassa l’età
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I canti della Patria
napoleonica e si attestava appieno nel periodo della Restaurazione attraverso gli apporti delle opere di musicisti come Donizetti, Rossini, Mercadante, autore quest’ultimo dell’opera Donna Caritea, il cui coro (Chi per la patria muor, vissuto è assai) veniva adottato nel 1831 come inno dal Governo delle Province Unite sorto a Bologna, capitale delle Legazioni Pontificie, dopo l’insurrezione della città contro il Papa-Re, e intonato – anche se non vi è piena certezza – dai mazziniani fratelli Bandiera di fronte al plotone d’esecuzione, protagonisti nel 1844 del fallito tentativo di sollevare la popolazione calabrese contro il governo di Ferdinando II di Borbone. Il richiamo a Mazzini non può non ricordarci come l’Apostolo del Risorgimento in un saggio del 1836 intitolato La filosofia della musica avesse attribuito alla musica un ruolo civile e sociale che nella sua alternanza tra fasi di adesione e fasi di un certo disimpegno veniva ripresa da colui che è considerato «la colonna portante del Risorgimento» cioè Giuseppe Verdi. Il carattere patriottico del melodramma che rappresenta un modo di narrare il processo di creazione dell’identità nazionale italiana – messo bene in luce dal lavoro di Carlotta Sorba Il melodramma della nazione –, si individua anche nel fatto che molte opere e arie anche di Rossini e di Verdi vennero adattate o mutarono titolo e parole a causa della censura che si faceva sempre più severa nella consapevolezza del ruolo che le opere svolgevano nel destare le coscienze degli italiani. La funzione culturale e civile espressa dall’opera può essere compresa considerando anche la presenza degli spazi teatrali e l’importanza che essi
acquisivano nei centri piccoli, medi e grandi degli Stati preunitari, attestata dal censimento delle sale teatrali che il ministero dell’Agricoltura, industrie e commercio effettuava negli anni successivi all’Unità. Agli Inni nazionali composti nel periodo immediatamente precedente al 1848 – come l’Inno nazionale sardo di G. Gonella (1843) al Sono italiano di autore anonimo, ai canti patriottici di Magazzari e di tanti altri autori dedicati alle figure iconiche delle istanze libertarie di questi anni Pio IX e Carlo Alberto, alle opere di Novaro e al Canto degli Italiani di Mameli – si affiancavano i canti legati alle guerre d’indipendenza da Addio mio bella addio di Bosi del 1848 a La bandiera dei tre colori (tricolore nato a Reggio Emilia nella Repubblica Cispadana) a La bella Gigogin (1859) all’inno commissionato da Mazzini a Mameli e a quello di Verdi Suona la tromba o Inno di guerra, destinato, però, a non avere successo. È sempre in questo periodo che veniva composta La marcia reale da un capomusica militare Gabetti (1831) che, utilizzata in veste non ufficiale come inno nazionale, sarebbe stata con l’avvento della Repubblica scalzata definitivamente da Fratelli d’Italia. Non soltanto ai re sabaudi, talora ritratti negli spartiti, ma anche ai padri del Risorgimento, a quelli che Alberto Banti definisce le figure profonde, cioè Cavour, Mazzini, Garibaldi (oltre naturalmente a Vittorio Emanuele II) vengono dedicati inni commemorativi, anche se indubbiamente il più celebrato è Garibaldi sia nei titoli che negli spartiti con l’Inno di Garibaldi, diffusosi anche negli USA e cantato durante la Grande Guerra, e la Camicia Rossa. L’uso politico dell’Inno di Garibaldi nel periodo fascista, durante la
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Ester Capuzzo
Resistenza e poi nell’Italia repubblicana attesta la vitalità del mito dell’Eroe dei due mondi. Nella fase postunitaria gli eventi che si susseguivano erano ancora una volta scanditi da inni patriottici e popolari con riferimento alla sconfitta di Custoza che il 24 giugno 1866 dava inizio alle ostilità della III guerra d’indipendenza, alla sconfitta garibaldina di Mentana (1867). In questa ricostruzione a tutto tondo non mancano le composizioni e gli spartiti creati in connessione con i fenomeni di carattere politico-sociale che contrassegnavano la vita dello Stato liberale come quelli legati alle questioni del mondo del lavoro e ai disagi sociali che sfoceranno nella crisi di fine secolo. Naturalmente in questo caso il richiamo, sul piano europeo, è a L’Internazionale (1871), in ambito italiano all’Inno dei lavoratori di Galli e Turati e alla notissima Bandiera rossa, divenuti simboli della sinistra socialista e comunista italiana. A ciò si affianca il richiamo ai canti della protesta e politica di rivoluzionari o anarchici che si sentivano traditi dall’Italia come in Addio Lugano di Pietro Gori, accusato di essere stato l’ispiratore dell’omicidio del presidente francese Sadi Carnot nel 1894, musicata su un’aria popolare toscana e riproposta negli anni Sessanta in una riuscita interpretazione di Gaber, Jannacci, Profazio e Pisu. Negli ultimi decenni dell’800 quando l’Italia era percorsa dal fenomeno migratorio che toccava alla vigilia della prima guerra mondiale nel 1913 le sue punte massime ancora una volta musica, parole e immagini esprimevano tutta quella gamma di sentimenti che albergano nel cuore di quanto lasciano la loro terra, nascendo anche in questo caso dall’adattamento di ballate precedenti
come in Mamma mia dammi cento lire. Ma non sono soltanto le migrazioni transoceaniche a produrre canti e spartiti, anche le stagionali migrazioni interne che vedevano lavoratori italiani convergere verso la pianura padana, nelle risaie come in Amore mio non piangere o nelle zone malariche toscane come in Maremma amara o ancora nelle zone delle bonifiche romagnole di fine ‘800 come ne Gli scariolanti. Si trattava di canti scritti da autori anonimi, su musica preesistente e diffusi oralmente da cantastorie in diverse versioni, talora rielaborati e riutilizzati per scopi politici. Cronologicamente il volume si conclude con la Grande Guerra che chiude la parabola risorgimentale nel suo significato ideale di quarta guerra d’indipendenza e rappresenta l’evento che più di tutti ha prodotto un articolato e complesso corpus di musiche, parole in musica, spartiti. Se la guerra svolgeva una funzione unificatrice, tuttavia scorrendo le lista delle tematiche musicali ci si rende conto di come la musica seguisse da presso gli sviluppi politici e militari dai canti dedicati alle città irredente di Trento e Trieste per la cui liberazione l’Italia scenderà in guerra, alle canzoni e alle ninne nanne neutraliste e pacifiste che riflettevano un sentire molto più diffuso di quanto si è sempre creduto, come messo in evidenza da un recente volume dedicato alle piazze neutraliste, ai canti patriottici e di guerra, agli inni di corpi militari, permeati di retorica patriottica e bellicistica si mescolavano in un’osmosi canora con canzoni, canzonette, stornelli, i cui testi spaziavano dall’italiano colto a forme dialettali come quelli del famoso cantautore dialettale romanesco Sor Capanna.
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I canti della Patria
Canti e canzoni erano composti per aumentare il senso di appartenenza ad un gruppo, per sollevare gli animi oppure per esorcizzare la paura della morte sempre in agguato, per ridare forza e coraggio al morale delle truppe come nel caso de La leggenda del Piave di E.A. Mario (Ermete Giovanni Gaeta), di Monte Canino, de La tradotta. Altre invece narravano di amori lontani, di speranze, di lontananza da casa e dall’affetto materno o glorificavano le gesta eroiche esaltandone il coraggio e il sacrificio. Tuttavia ai canti per la guerra e per la patria si contrapponevano i canti della protesta contro la guerra come nel caso di Gorizia tu sei maledetta, creati o cantati da soldati anonimi e senza spartiti che narravano i lati oscuri come l’autolesionismo, la malattia provocata e simulata, la diserzione, l’imboscamento, le fucilazioni, il ribellismo, la follia nelle trincee vera o presunta, considerata come un’utile escamotage per sfuggire alla guerra che ci presentano un modello di mascolinità non guerriera. Ampio anche il reperto dei canti degli Alpini e della montagna (La montanara), canti di trincea e di montagna senza spartiti e anonimi.
Il ventaglio delle tematiche musicali segnalate si volge anche ai canti Per la Croce Rossa Italiana e a quelli dedicati alle sue infermiere come Crocerossina di E. A. Mario, al quale si deve ascrivere il titolo Soldato Sammy in onore dei combattenti americani e la raccolta Strenna Azzurra Stellata. L’attenzione del volume va oltre la guerra e la sua conclusione, ricordando con le canzoni, entrambe di E. A. Mario, Tarantella di Versaglia le delusioni ricevute dall’Italia al tavolo della pace in ordine al confine orientale, e Il Soldato Ignoto (1921), il simbolo commemorativo della guerra. La musica era praticata anche in molti campi di prigionia per ufficiali e soldati italiani, nelle esperienze concentrazionarie dopo la sconfitta di Caporetto nell’ottobre 1917, anche se a Mathausen militari italiani fatti prigionieri prima di quella tragica sconfitta avevano avuto esperienze musicali singole o collettive favorite dai comandi austriaci come raccontava Stefano Pirandello al padre in una lettera della primavera del 1916, descrivendo “i Canti di una primavera lontana”, suonati da un’orchestrina di sottoufficiali.
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Mirko Grasso
Una biografia di Paolo Treves
L’ampia e documentata biografia di Paolo Treves (1908-1958) scritta da Andrea Ricciardi (Paolo Treves. Biografia di un socialista diffidente, FrancoAngeli, Milano 2018, pp. 395) centra due importanti obiettivi: analizza la parabola umana e politica di una figura significativa del nostro socialismo prima d’ora relegata ancora ingiustamente in ombra, ricolloca al centro del dibattito storiografico la tradizione riformista italiana, chiarendone i legami con gli scenari europei e il suo dispiegarsi in momenti cruciali e difficili della storia continentale e mondiale: la lotta al fascismo, il dopoguerra, la guerra fredda. Figlio di Claudio e Olga Trevi, legato ai fratelli Rosselli e ai Gerbi, Paolo attraversa con il suo tormentato spirito cinquant’anni di storia continentale restando sempre fedele a quegli ideali di emancipazione democratica dei quali profondamente si nutre da subito: egli infatti, assieme al magistero paterno, cresce a contatto dei grandi rappresentanti del socialismo italiano, in particolare Turati, dai quali apprende la necessità di orientare le riforme al fine dell’emancipazione democratica delle classi popolari, con una moderna idea di riformismo che guarda all’Europa. La sua parabola umana e politica è segnata dal carcere fascista nel 1929, dall’abbandono dell’Italia a seguito delle leggi razziali perché ebreo, dal carcere a Londra e poi dal suo impiego alla BBC come speaker,
dal ruolo di consulente del primo ambasciatore italiano a Parigi dopo il fascismo. Treves ha esercitato con specchiata moralità e competenza la sua attività come costituente, come deputato socialdemocratico, ma anche da uomo di cultura sia da docente di storia delle dottrine politiche, sia come giornalista e pubblicista. La breve ma pur complessa vita di Treves viene indagata, ordinata e interpretata da Ricciardi in tre lunghi blocchi i quali, tendendosi insieme e proponendo quasi la trama di un affascinante romanzo, toccano i punti della vita del politico socialista intrecciando questi, con un uso ampio di fonti e inediti materiali provenienti da archivi anche internazionali, alle vicende di una parte rilevante del socialismo italiano e dell’antifascismo militante anche europeo. Il primo capitolo (Gli anni della formazione: 1924-1932. Socialismo e antifascismo come scelte naturali) incornicia Paolo nel suo quadro famigliare e sociale, quadro all’interno del quale egli in maniera spontanea e naturale matura la strada dell’antifascismo. Oltre al legame con il padre, gioca un ruolo fondamentale per il maturare delle sue idee politiche la stretta vicinanza con Filippo Turati (ne sarà anche segretario) e Anna Kuliscioff. Fortemente legato anche a quest’ultima, Paolo prova un primo e sincero dolore per la sua scomparsa: la morte di Anna e i suoi
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Una biografia di Paolo Treves
funerali vengono dissacrati dagli insulti fascisti e ciò porta Paolo ad un ulteriore rafforzamento della sua fede politica. L’unione tra fede politica e legami umani era stata già da lui sentita con l’uccisione di Matteotti (che come ben dice l’autore lo obbliga a diventare grande), e poi con quella di Gobetti e Amendola. Stringendo a Milano i legami con Carlo Rosselli, e poi con Nello, Paolo ampia anche i suoi orizzonti culturali che sarebbero stati poi immensamente arricchiti dalla vicinanza con Croce. Egli, infatti, dopo il trasferimento della famiglia a Torino per cercare di sfuggire alla tenaglia fascista, al pari di suoi coetanei Mila, Antonicelli, Geymonat, sente profondamente il fascino della lezione di Croce, e ciò non solo è un dato culturale della sua biografia, ma rappresenta uno snodo fondamentale del suo tragitto politico. Sottoscrive il manifesto antifascista e rivela proprio a Croce i suoi sentimenti in una lettera che gli costerà il carcere nel 1929: «guardiamo a Voi, come al solo che abbia levato la sua voce in nome di quella coscienza morale, la quale continua ora unicamente a volere la dolorosa conquista della libertà» (p. 54). Dalle prigioni fasciste, anche grazie all’intervento dell’amico del padre e docente di medicina legale Mario Carrara, che con una perizia “di parte” in verità esaspera i tratti della sua sofferenza piscologica, viene trasferito in una casa di cura torinese, da dove per motivi di salute sarà poi rinviato a casa. Dalla fine del 1929 all’anno successivo la famiglia di Paolo, sempre per motivi politici, vive tra Milano, Roma e poi Parigi (Paolo ci arriverà nel 1933, dopo aver finalmente ottenuto il passaporto). Tenta vanamente la strada della docenza universitaria, ma la morte di Turati nel 1932, oltre al fosco
quadro italiano dopo i Patti Lateranensi e le sempre più gravi restrizioni alle libertà anche personali, lo spingono alla carta dell’emigrazione: prima tenta la via statunitense, poi sceglie quella per lui più fattibile della Gran Bretagna. Il secondo capitolo (Tra Italia e Gran Bretagna: 1933-1944. Dalla guerra personale alla guerra mondiale) è dedicato dall’autore alla ricostruzione del sempre più veloce ritmo che assume la vita di Paolo dalla morte del padre (nel 1933). È il momento in cui il giovane socialista, infatti, oltre alla risoluzione di impellenti bisogni economici della famiglia caduta in ristrettezze, dà avvio con più sistematicità alla sua produzione scientifica curvando i suoi interessi anche verso l’approfondimento di fasi più recenti della storia delle relazioni internazionali che per lui parlavano ancora al presente (interessante ancora oggi il suo lavoro sull’incidente di Fascioda), si avvicina anche grazie a Croce all’editore Laterza presso il quale pubblica alcune opere. Vive quindi la lotta politica in maniera più fredda, allora ancora incerto sui passi da compiere per la progettazione della propria esistenza, così come sente distanti i complessi dibattiti sulle prospettive rivoluzionarie dei socialisti alimentate dalle ben note posizioni di Carlo Rosselli e tutto il mondo del nostro fuoriuscitismo in Francia. Tuttavia la speranza della caduta del regime in lui rimane ben viva. Le leggi razziali gli impongono per forza un cambio di passo: si apre per lui la via dell’emigrazione in Inghilterra, con qualche sosta prima in altre località europee pur sperando di trovare sponde negli Stati Uniti. Lavora nella BBC quando Mussolini dichiara la guerra a Francia e Inghilterra: viene quindi
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Mirko Grasso
arrestato, ma poi rientra come speaker di Radio Londra. Ricciardi chiarisce i motivi per i quali viene tradotto in carcere, motivi che approfonditi per altri casi di studio aprirebbero piste di ricerca ancora inedite, e cioè perché “gli italiani in quanto tali, di fronte al tradimento di Mussolini, vengono considerati nemici. Gli antifascisti sono associati ai simpatizzanti fascisti e alle potenziali spie del regime, soprattutto guardando ad alcune categorie di emigrati” (p. 179). La sua interessante attività per Radio Londra per la preparazione dei notiziari quotidiani per l’Italia è accompagnata dall’ attività pubblicista in giornali di area fabiana, pagine con le quali Paolo riflette su problemi contemporanei (l’essenza del fascismo, i rapporti Stato e Chiesa, il ruolo del monarca nell’ascesa di Mussolini, il ruolo di Badoglio). Le parole usate in radio da Paolo sono spesso un “vero richiamo ai patrioti antifascisti” per mettere in luce “la separazione tra la parte sana del paese (con cui è necessario stabilire un legame sempre più stretto) e il regime fascista” (p. 205). La caduta del fascismo, poi, lo spinge a rafforzare dai microfoni inglesi la battaglia per la democrazia in Italia, segue e commenta dalla sua angolatura le vicende italiane, e dopo la svolta di Salerno matura la decisione di tornare in patria. Nel frattempo con la sua attività culturale rinsalda i legami tra socialisti italiani e laburisti, si distingue per le sue lucide analisi sulla situazione italiana e ben capisce che la ripresa dell’attività politica in patria è la partita che deve giocare in nome dei suoi ideali. Riesce a rientrare in Italia all’inizio del 1945. La terza parte del libro (Il ritorno in Italia: 1945-1948. Liberazione, Repubblica, socialdemocrazia e anticomunismo)
mette a fuoco l’ultima e più proficua fase dell’esperienza di Paolo. Egli, infatti, si stabilisce a Roma e succede a Corrado Alvaro per un breve periodo alla direzione del Giornale radio della Rai, scrive sul giornale socialista “Avanti!”: le due attività lo riportano nel sentiero della politica attiva, allorquando si pone il particolare problema della riorganizzazione del partito e dell’Internazionale socialista. Nel marzo del 1945 segue Saragat a Parigi come consulente politico, da lì osserva con forte partecipazione emotiva il culmine e le fasi finali della Resistenza (in una pagina di diario scrive: “Musso forse ucciso dai patrioti. Crollo. Fine di un’epoca e di un mito”, p. 266). Non ripone particolari speranze sulla durata del governo di Parri, profeticamente ne coglie il tramonto e il cambio dello scenario politico. Viene eletto all’Assemblea Costituente, all’interno della quale si occupa principalmente dei rapporti tra l’Italia e gli stati europei, dando un importante contributo per quelli che saranno gli articoli 10 e 33 della Costituzione. Dal rientro in Italia (nel 1946) segue maggiormente le vicende del PSIUP, per il quale individua pur con qualche incertezza o approssimazione una via autonoma rispetto al Partito Comunista. Per questo, dopo la sua elezione a deputato, guarda con attenzione alla proposta della Terza forza elaborata da Parri. Grazie all’interessamento del vecchio amico Max Ascoli riesce a recarsi presso l’Institute of International Education di New York, dove tiene alcune conferenze sulle prospettive dei legami tra USA e Italia. Il 20 luglio del 1949 alla Camera sostiene il Patto Atlantico e nel Consiglio d’Europa a Strasburgo vede, in maniera allora troppo illusoria, una possibile e
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Una biografia di Paolo Treves
veloce strada per la nascita di una Unione Europea per la quale egli, dopo aver distinto le responsabilità tra nazismo e popolo tedesco, ritiene fondamentale la presenza della Germania. Segue con poco slancio il dibattito delle varie correnti del suo partito, quando nel 1950 in maniera inaspettata riesce a vincere il concorso di professore di Storia delle dottrine politiche presso la facoltà di Scienze sociali e politiche Cesare Alfieri dell’Università di Firenze. La carriera universitaria è parallela a quella parlamentare e governativa: fino al governo presieduto da Segni sarà sottosegretario al Commercio estero. Così, tra un grande attivismo nel recupero della memoria di Turati, del padre, e dei grandi del socialismo italiano, si consuma la sua ultimissima stagione politica, parallelamente alle liti all’interno del PSDI e la mancata rielezione nelle politiche del 1958. Morirà il 4 agosto dello stesso anno. Il libro di Ricciardi qui rievocato nei suoi snodi essenziali, in conclusione, propone una linea interpretativa ben riconoscibile che sollecita diverse riflessioni, di contenuto e di metodo. Senza dubbio il merito fondamentale del volume è quello di aver incorniciato la
vicenda di Paolo Treves nel più ampio quadro della politica italiana e internazionale, a partire dalle molteplici sollecitazioni politiche che egli seppe cogliere dal socialismo e dal liberalismo europeo. Emerge in questo modo, e in maniera organica, il tratto caratterizzante della sua esperienza: il ruolo dei maestri (Turati, Croce in particolare), il nesso tra politica e rigore morale, l’impegno per la lotta alla democrazia non solo in Italia, i continui dubbi e interrogativi sulle possibilità o necessità di un rinnovamento della sinistra e della sua tradizione riformista. Per questo intreccio di fatti, personalità, circostanze, luoghi, saggiamente l’autore si orienta verso il genere biografico, per ciò che attiene quindi al metodo, genere che solo in questi ultimi anni in Italia trova grande accoglienza in un certo filone storiografico attento alla rivalutazione delle singole esperienze, pur all’interno di ampi quadri storici, politici, sociali (magistrale, ad esempio, la biografia di Cavour scritta da Luciano Cafagna). È questa una chiave ricostruttiva e una modalità di indagine solida che riesce ad intercettare anche un pubblico non specialista. Cosa che uno storico dovrebbe fare.
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Roberto Deidier
La filosofia dell’arte di Fabio Vander
Fabio Vander ci presenta un «saggio di filosofia dell’arte» che è, di fatto, un trattato di estetica. Lo è su due versanti: perché ripercorre un ampio arco storico, quello della tradizione e del pensiero occidentali, da Platone alle avanguardie novecentesche, Boccioni e Kandinskj e oltre, riconoscendo l’autentico movimento della creazione, della poiesi, nella dialettica; lo è, ancora, perché, nell’ottica di una Kunstkritik, di una critica dell’arte, considera la modernità come un polo di tensioni dialettiche, facendo, di questo atteggiamento, una vera e propria chiave di lettura e di definizione del moderno. Non sono pochi i problemi che deve affrontare e che, a sua volta, genera o suggerisce. Intanto perché l’oggetto del suo studio è naturalmente dialettico, ma nel senso di una reciprocità. Dove finisce davvero l’antico e dove comincia il moderno? È evidente che le due categorie si pongono in una reciproca relatività, l’una non esiste e non si definisce senza l’altra; per questo è sempre necessario ripartire da lontano. C’è poi una questione più intima, direi: quando affrontiamo il concetto stesso di Kunstkritik, almeno come lo ha inteso Walter Benjamin, e come hanno voluto intenderlo i suoi interpreti, ci ritroviamo inevitabilmente di fronte a una modernità prismatica. Ovvero: più proviamo a definire e a restringere il nostro campo di studio e di osservazione, più questo si
renderà problematico e sfuggente, rifrangendosi in una molteplicità sempre più complessa da riconoscere, definire, attraversare. Quello di Vander, dunque, è anche un grande azzardo. Kunstkritik, nel lessico di Benjamin, si riferisce soprattutto alla letteratura, al massimo al modo in cui la letteratura ha espresso un pensiero estetico nei confronti delle arti; ma l’oggetto, per l’appunto, è sempre l’opera letteraria. Vander sceglie la soluzione opposta: affronta il concetto in una modalità più ampia, parlando di arte e includendovi alcune necessarie escursioni nel poetico. Un poetico pensante, però, un «pensiero poetante». Dunque Hölderlin, dunque Leopardi. E il primo riletto da Heidegger, del quale si confuta la prospettiva squisitamente ontologica, per riportare il discorso nella prospettiva dialettica che muove tutto il libro e di cui rappresenta l’asse portante. Non so, però, quanto Leopardi possa davvero essere considerato un «sistema», termine caro a Vander, in termini strettamente leopardiani. Per quanto la sua posizione possa apparire culturalmente dialettica (era, ricordiamo, un classicista illuminista), è anche vero che una certa componente nichilistica si affaccia, per esempio, in alcune immagini dei suoi versi come un ospite inquietante, e che il movimento che porta dall’Infinito al Canto notturno, dove il nostro destino è appunto
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La filosofia dell’arte di Fabio Vander
il nulla, quindi alla Ginestra, segna una decisa presa di posizione «antivirtuistica» nei confronti del moderno, ovvero del romantico. Continuo insomma a pensare anche a un Leopardi ontologico, per quanto Vander mi induca al contrario. Se vogliamo intendere la modernità, o almeno provarci, dovremo partire dall’assunto che il suo carattere multiforme e contraddittorio ha anche una ragione storica e culturale. Se guardo, per esempio, ai tanti neo (neoclassicismo, neoilluminismo ecc.) che hanno segnato il moderno, la prima riflessione è che questa sia l’età di un dopo, ma non nel significato di un crudo epigonismo. Peggio: è l’età che viene dopo la poesia, dopo i poeti. I quali, non essendo più in una condizione di consustanzialità, non possono che cantare in negativo, atteggiarsi, appunto, in maniera «antivirtuistica». Il loro è più un controcanto, che li fa voltare verso il passato come si osserva con preoccupazione una ferita che non si rimargina. Così guarda Leopardi, e così guardano Hölderlin e Keats, e alla boa del mezzo secolo, ancora Baudelaire. Leggiamo L’Arcipelago, leggiamo Sonno e poesia, o La vita anteriore. Questa è la modernità che prende le distanze dal moderno, dunque da se stessa. Una modernità che esercita, nella letteratura e nell’arte, una posizione critica, «antivirtuistica», verso le sorti «magnifiche e progressive» del XIX secolo. Quel secolo da cui, con una felice immagine di Benjamin, Baudelaire resta scioccato. Insomma, il moderno più che dialettico mi appare contraddittorio. È un progresso che si nega. Gli manca, infatti, il momento cruciale, definitivo, di ogni dialettica, quello della sintesi, che fatico a trovare nelle pagine dei poeti, degli
scrittori e nelle opere d’arte. E gli manca perché la sua ossatura è, storicamente, un’ossatura borghese. È questo, credo, il termine polemico che ho a lungo cercato nelle pagine di Vander, per ritrovarlo infine nelle sue conclusioni. Non se ne poteva fare a meno. E riparto dalla celebre definizione di Hegel, il quale giustamente occupa molto della riflessione di Vander, a proposito del romanzo: la «moderna epopea borghese». Cosa c’è di epico, nel romanzo a cui guardava Hegel? Di cosa parla, quel romanzo, se non di una conflittualità di classe, o di ascesa attraverso le classi che si conclude spesso con la rovina del protagonista e della sua casa? Sono questi i poli di tensione (conflitto e ascesa) di una borghesia che troppo presto, dai fasti celebrativi del Robinson Crusoe, si è affrettata a criticarsi, a esporsi in negativo. Hugo, Balzac, Flaubert, Dickens e Butler oltremanica e più tardi il nostro verismo continuano a parlare di questo. Storicizzano, quindi “secolarizzano” quanto in Leopardi e nei suoi vicini era una questione ontologica, invece che la ricerca di un’identità sociale. Il romanzo assume su di sé le tensioni della poesia per portarle su un piano naturalistico. E gli artisti? Nel cuore del futurismo continua a pulsare l’antico, come ci insegna l’esperienza di «Lacerba» e come Vander legge Boccioni. Così come nella notte di Mondrian o Van Gogh, per rievocare il discorso cromatico sul bianco e sul nero da cui il libro prende le mosse, luci e ombre sono così compresenti da far slittare la percezione dell’osservatore verso un deciso antirealismo. Ma è proprio così? Sto semplificando, ma cerco di restare ancorato al mio assunto: ovvero che, se vogliamo concordare con Vander e con le sue posizioni assai ben
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Roberto Deidier
documentate, quella dialettica è destinata a restare aperta. Il sangue che pulsa nelle avanguardie è un sangue piccolo-borghese. E più che un alito di sovversivismo piccoloborghese soffia su quelle esperienze, a partire dagli Scapigliati. Allora, è davvero dialettico, nel senso tradizionale, hegeliano, un futurismo che dirazza e insegue il moderno, ne asseconda – o ne rifonda – le fragili mitologie? Il suo momentaneo virtuismo, per nulla in linea con l’eredità artistica e letteraria del secolo XIX, quanto ha di artificiale, di volontaristico, insomma di disperato? Di reattivo, più che di rivoluzionario? Si trattava di museificare e distruggere anche il passato recente, per disporsi lungo la modernità della techne, celebrando macchine e velocità. Eppure proprio quella techne aveva da poco contribuito, e in maniera direi importante, a ridefinire all’insegna della complessità ogni nostro parametro esistenziale, a cominciare dalle categorie di spazio e di tempo. Nell’era in cui ogni poetica normativa cessa di imporsi, in favore di liberi percorsi individuali, i futuristi tornano a presentarsi con i loro manifesti. E vogliono uccidere il chiaro di luna, vogliono fare la guerra. Il loro «dinamismo» è la percezione di una modernità chiusa nei suoi miti autoriproducentisi. Per questo le punte di quelle esperienze dovevano necessariamente porsi in un rapporto più aperto e produttivo con la tradizione. E se
all’inizio, come giustamente ricorda Vander, Boccioni voleva suonarle a Soffici, sappiamo poi che è andata ben diversamente. Ma è davvero una questione di dialettica o piuttosto di misura, nel senso più ampio? Faccio un passo indietro. Vander ricorda senza nominarla, a proposito di Leopardi, quella che il poeta chiamava «ultrafilosofia», e che contemperava le sue posizioni di poetica. La «fredda ragione» da una parte, la naturalezza del «cuore» dall’altra. Tesi e antitesi. Ma, nella ricetta di Leopardi, non c’è autentica sintesi. Tra pensiero analitico e immaginazione passa un fluire analogico e il problema torna a essere piuttosto di misura: «fingere», etimologicamente, vuol dire per Leopardi agire un racconto del pensiero, nel pensiero. Vuol dire, cioè, «temperare», dosare quei due ingredienti formidabili che continuano ad agire in parallelo. Se ci trovassimo di fronte a una vera sintesi, anche i nostri approcci ermeneutici ne uscirebbero ben limitati nella loro portata. Allora, una modernità all’insegna della Kunstkritik riconosce sì al proprio interno delle verità dialettiche (anche sul concetto di verità Leopardi relativizza, come farà Pascoli riprendendo l’immagine dell’abisso: qualcosa a cui si può sempre tendere, ma mai raggiungere); ma restano per l’appunto delle verità aperte, delle ipotesi di lavoro. Il moderno è stato un grande cantiere dai cui rumori, temo, non ci siamo ancora ripresi.
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Lucrezia Romussi
Kierkegaard il filosofo dell’impossibile possibile
Søren Aabye Kierkegaard, la sintesi tra filosofia e teologia, l’unione tra universale e individuale, la fusione tra Assoluto filosofico (la Sapienza) e Assoluto teologico (Dio), il focus tra dialettica qualitativa e quantitativa, l’unificazione tra morale ed estetica, l’armonia tra ideale e apparente, l’intesa tra paradossale e ragionevole, la coesione tra destino e volontà. Kierkegaard, il filosofo dell’impossibile possibile. Il pensatore danese, durante la sua esistenza, titanicamente, ha cercato di trasformare la dicotomia insita nel rapporto tra l’infinito e il finito in un legame evoluzionistico che individua il telos principale nell’uomo inteso come essere divenuto e diveniente, in grado di concepire una realtà metafisica principiando dalla conoscenza fisica, concretizzazione di un Universale celato nel particolare. L’eristico contenzioso tra Fede e Filosofia si palesa nelle figure di Cristo (Indbyderen) e di Socrate, profeti probi di una Verità Assoluta che scopre nella contraddizione il fulcro concettuale. La Fede non è etica, il peccato è redenzione, il pregare è filosofare, la possibilità è scelta, l’individuo è totum universum. Il Salvatore del Mondo Cristiano e il Vate della Filosofia trovano, nella potenza dell’Essere Umano, una completa forma di combinazione essenzialistica e indicano l’autocoscienza come mezzo per
giungere alla più perfetta forma di conoscenza. La consapevolezza interiore diviene il prodotto del pensiero sorto dalla skepsis capace di insignire l’anima di Valore Assoluto e di conferire al singolo il cardine del molteplice. Kierkegaard, dunque, individuando il parallelismo tra Cristo e Socrate sintetizza Fede e Filosofia in un’unica dialettica qualitativa fondata sul dialogo tra essere e coscienza e sulla comunicazione tra essere e conoscenza. Il Biblico Abramo ne è esemplificazione. Il patriarca, infatti, credendo fedelmente a Dio è pronto a trasformarsi in un tragico figlicida al solo fine di contemplare l’esperienza del sublime poiché, come sostiene il filosofo di Copenaghen, “La fede comincia là dove la religione finisce”. Il relativismo etico e dogmatico è superato dal salto (Aufhebung) nella fides, perfetta rappresentazione dell’autocoscienza personale, trascendentale ed esistenziale, concretizzazione dell’Universale. La possibilità è tramutata in flusso diveniente palesato attraverso la percezione dell’angoscia, colta come stato dell’essere, necessario per liberare la personalità dalla ricerca straziante del piacere illusorio e permetterle di giungere alla più Ideale ed elevata forma di godimento assoluto: la Sapienza, intesa come obbiettivo teoretico e pratico di ogni individuo pensante. Pertanto, attraverso le intuizioni di Søren
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Lucrezia Romussi
Kierkegaard, l’inquietudine si trasforma da mero strumento impiegato solo nella scienza speculativa, a puro medium pratico che permette di giungere al Concetto e percepire il valore dell’individuo secondo l’entità dello sforzo compiuto nell’ affrontare l’indagine filosofica. In Kierkegaard, non solo, l’uomo è custode della Verità, ma è anche fornito degli appositi mezzi per giungervi. Emerge, quindi, una nuova forma di autarchia recepita come modello di autosufficienza, monolite spirituale che si erge dall’autocoscienza personale. Il filosofare, in conseguenza, risulta una qualità primaria insita in ogni essere capace di oltrepassare, attraverso la fiducia nell’Assoluto, il mondo apparente e giungere alla purezza della Sapienza. La libertà pare, dunque, esistenzializzata in senso astruso e concretizzata nelle
opportunità che si presentano all’Essere inteso etimologicamente come materia di rivoluzione, pertanto, fenomeno destinato a ritornare e a durare nei secoli. La libertà diviene, così, circostanza vitale in assenza della quale l’individuo precipita in una condizione di ignorante nichilismo a cui si rende necessario opporre una disamina dell’esistenza, con l’eccelsa intenzione, di individuare il relativismo di quella che Robert M. Pirsig definisce ‘’Manciata di sabbia dal panorama infinito delle percezioni’’ (Virkelighed), metodo per ottenere la pura conoscenza dell’eternità. Søren Aabye Kierkegaard si mostra, in conclusione, un vero filosofo dell’ impossibile possibile poiché come egli stesso sosteneva: “Osare è perdere momentaneamente l’equilibrio. Non osare è perdersi”.
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MARGINALIA
Antonio Casu
Parole chiave: Rottamazione
Dicesi rottamazione, soprattutto nell’accezione politica corrente, la sostituzione della classe dirigente con una più giovane. Un cambio generazionale, in estrema sintesi. Un risultato in sé positivo, si direbbe, soprattutto in un paese caratterizzato da gerontocrazia e burocratismo, insomma da un immobilismo diffuso che frena il rinnovamento e la crescita. Almeno così si dice, nella vulgata oggi imperante. Tuttavia, è evidente che porre l’accento sull’età significa, allo stesso tempo, ridurre la portata, o addirittura escludere, altri criteri di selezione della classe dirigente. Ad esempio il merito, la competenza o l’esperienza. Ma è tutto oro quello che luccica? Certo del merito si parla sempre meno. Infatti se si vuole portare avanti una nuova dirigenza – in politica, nelle pubbliche amministrazioni, nel settore privato –, anche solo parlare del merito potrebbe rivelarsi controproducente. Molti dei nuovi attori della scena hanno ancora tutto, o molto, da dimostrare. E lo stesso vale per il secondo criterio di selezione, la competenza. La competenza infatti presuppone un percorso di affinamento e approfondimento delle conoscenze specialistiche, fondato sia sulla teoria (studi, specializzazioni, master, stage, e quant’altro) sia sulla pratica (un solido curriculum professionale). E un giovane spesso non possiede, o non possiede ancora, né l’uno né l’altro requisito. Quanto al riconoscimento del valore dell’esperienza, infine, meglio stendere un velo pietoso. In altri paesi costituisce
un titolo di merito. Un antico proverbio masai ricorda che “i giovani corrono veloci, ma gli anziani conoscono la strada”. Ma se in Oriente e in Africa l’anziano è rispettato in quanto depositario della memoria e custode della saggezza, da noi è ritenuto quasi un parassita che assorbe le risorse necessarie alle giovani generazioni. In realtà, i tre requisiti andrebbero armonizzati, non resi alternativi. Anche perché è indubbio che il progresso tecnologico e le forme della comunicazione sono compresi e gestiti meglio dai giovani, se meritevoli e competenti. Ed allora perché accantonare il merito, la competenza e l’esperienza, a vantaggio esclusivo dell’età? Per trovare la risposta, dobbiamo andare alle cause ultime. E in particolare alla difficoltà della classe dirigente di perpetuarsi in situazioni di crisi di legittimazione. Ciò che accade periodicamente, e anche oggi. La risposta del ceto dirigente che sente traballare la sua stabilità è trovare, o almeno cercare, una soluzione per resistere, presentandosi al proprio sostrato sociale, ed anche all’elettorato, con volti nuovi, che ispirino fiducia, che manifestino la volontà ed anche il segno di un rinnovamento. Ma, ovviamente, che consentano a chi comanda davvero di continuare a farlo. Attenzione però. I tornanti della storia non sono sempre semplici e panoramici. Le cose possono andare anche in modi costosi, sul piano politico, economico e sociale. La storia è piena di esempi di questa natura. Anche nel secolo appena concluso, come nel recente passato, e
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MARGINALIA
perfino nel presente, in molti tasselli dello scacchiere internazionale, le svolte hanno manifestato il loro volto più duro, e spesso cruento. “Quando il gruppo sociale dominante esaurisce la sua funzione – scriveva Antonio Gramsci, nelle pagine dedicate al Risorgimento –, allora il blocco ideologico tende a sgretolarsi, ed alla spontaneità può sostituirsi la costrizione, in forme sempre meno larvate e indirette, fino alle misure vere e proprie di polizia e ai colpi di stato”. Da questo angolo di visuale, la rottamazione è un processo certamente molto meno pervasivo e traumatico di
Antonio Casu
riposizionamento della classe dominante. Ma la sostanza è quella di sempre. Cambiare tutto perché niente cambi. Contrariamente a quel che si dice, non è quello che sosteneva il Gattopardo. Qui non è questione di Gattopardi, ma di camaleonti. La simbologia è sempre animale, ma il senso è ben diverso. In questo scenario, non è un saggio che presagisce la decadenza e nobilmente si fa da parte. Al contrario, è un convitato di pietra che cambia maschera per continuare a comandare. Non un saggio, ma un grande vecchio. Una maschera, appunto.
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FRAMMENTI
Angelo G. Sabatini
... di semi di consolazione
Privilegiare frammenti di vita come fondamenti dell’esistenza non significa non cercare un ordine dell’esistenza, individuare i segni più consoni alla vita. Percorrere itinerari rappresentativi della vita racchiudendo le sue articolazioni temporali nella varietà degli eventi che le rappresentano non significa donare il proprio sentire in pasto alla pretesa di possedere il tutto a discapito dei suoi frammenti di vita. Il tutto è imprendibile anche se esprime la volontà del singolo di tuffarsi nella sicurezza gratificante del tutto abbracciante. Mi è tornato fra le mani un vecchio libro dal titolo accattivante Semi di consolazione. Brani sulla felicità, il dolore, la speranza di autori d'ogni tempo e d'ogni paese, curato da Giovanni Pastorino, Ed. Il Seme, Genova 1963, primo di tre volumi, che esplora l’orizzonte esistenziale nella sua ricchezza attraverso massime la cui funzione mira a dare un riferimento di stabilità all’esistenza che ingloba in sé le ragioni della necessità di essere vivente e protetto dalla dissoluzione. La tendenza ontologica a fornire alla vita una regola di direzione verso una certezza esistenziale spinge il soggetto al superamento della tendenza verso la nullificazione dell’ esistenza che viene spinta verso una condizione di opacità nella organizzazione della vita quotidiana verso un nichilismo assoluto, tutto a discapito del vivere attivo e operante. La lettura di Semi di consolazione è un ottimo strumento di approfondimento di una vita proiettata in se stessa o verso un mondo “altro”. Un soggetto attivo governato dall’ansia di sapere e di conoscere ha il privilegio di essere scelto dalla sorte per essere un soggetto che supera la condizione di fragilità per la
ricerca di un’ancora di salvezza nel mare tempestoso della vita. All’ansia di sapere perché si nasce se si muore e perché si muore dopo esser nato la lettura del primo dei tre volumi può fornire materiale utile a rendere meno tragica la vita invasa dal nichilismo assoluto e mortificante l’esistenza riducendo l’individuo a una canna sbattuta dal vento tempestoso del nulla. Di fronte a tale inevitabile possibile destino l’essere umano è prigioniero di se stesso e di fronte alle molte alternative rimane prigioniero della non decisione in attesa che la vita si autoconsumi fino alla nientificazione assoluta. Di fronte a questo smarrimento della via verso una scelta, il soggetto atrofizza la spinta all’azione e si colloca di fronte al dilemma: atrofizzare la spinta all’azione o andare incontro al nulla facendosi abbracciare dalla nientificazione chiamata “follia”? È l’alimento di cui può nutrirsi un problematicista radicale. Un alimento esso stesso problematicizzato di fronte a cui il soggetto dominato dalla follia si chiede quanto di una siffatta condizione è forza corroboante col pensiero che si interroga? O non è piuttosto esso stesso un inganno dell’esistenza che si interroga? Non è la follia di un modo di essere gratificante di un valore positivo scelto come farmaco di un malessere? Il problema, che nel settore di una considerazione di un sapere (astratto) scientifico è strumento operativo utile, trasferito nella dimensione della domanda teoretica e pratica sull’esistenza è una finzione della coscienza, una perenne tautologia, malattia dello spirito, incapace di recuperare il beneficio di una guarigione salvifica.
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LE MASCHERE DELL’ARTE
Salvatore Nasti
L’artista Franco Cartia e la sua Sicilia
Il 29 luglio 2018 Franco Cartia, pittore siciliano, ci ha lasciati. Più che “amico personale” di noi di “Tempo Presente” era un “fratello acquisito” dell’autore di questa intervista con la quale desideriamo ricordarlo a un anno dalla Sua scomparsa. Più che raccontare in prima persona chi fosse, abbiamo scelto di chiederlo a Monica Cartia che ha avuto il privilegio non solo di essere la sua figlia primogenita ma soprattutto ha avuto quello di veder nascere le sue opere, momento dopo momento, seguendo gli umori e i sentimenti di un uomo innamorato della propria terra natia.
Che genere di artista era Franco Cartia? Mio padre è “nato” artista. L’arte lo abitava fin da quando piccolissimo in Sicilia si divertiva a disegnare su tovaglioli, su pezzi di carta, su strofinacci rubati a mia nonna Maria, la quale raccontava sempre questi episodi con malcelata nostalgia. È stato un autodidatta, non ha frequentato scuole di disegno, è nato con il pennello in mano e di pennelli e di colori si è nutrito.
le vicende del suo commissario Montalbano. La luce bruciante di quel lembo estremo di Sicilia, i suoi profumi, gli azzurri intensi del mare africano, le atmosfere di una classicità che ancora si respira nell’aria, sono tutti nei suoi quadri.
Raccontami della sua pittura. Mio padre non amava le definizioni, gli incasellamenti in categorie. Se proprio doveva, preferiva la definizione di “neoinformale”. Considerava suo Vangelo Che rapporto aveva con la sua natia Sicilia? un libro di Carlo Belli, intitolato Kn dove Un rapporto carnale forte e decisivo. K sta per colore ed n per forma. Possiedo Sotto il solleone di Sicilia, in particolare e custodisco gelosamente la copia di quel quello della magnifica Scicli, aveva trascorso tutte le sue estati, dopo che i suoi genitori si erano trasferiti a Roma nel dopoguerra. In quei vicoli stretti ed in mezzo agli amati carrubi si era “riconosciuto”, per dirla con Ungaretti. Quella Scicli straordinariamente bella con i suoi maestosi edifici barocchi nella tipica pietra bianca che ricorda i paesi arabi, quella Scicli della quale si innamorarono Elio Vittorini e Pier Paolo Pasolini, Gesualdo Bufalino e Andrea Camilleri che ne ha fatto lo scenario per
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L’artista Franco Cartia e la sua Sicilia
suo libro (difficilmente oggi reperibile), pieno di suoi appunti e segni a margine. Tra tutti ce ne sono alcuni che chiariscono il suo modo di pensare e vivere l’arte: “L’arte non è in alcun modo un fatto umano” “Cercate di immaginare la pittura come Bach immaginava la musica” “Creare un’opera d’arte consiste nel fare uno sforzo di intuizione. Diventare forsennati, ossia uscire da se stessi”. Ecco, io ho visto spesso mio padre “uscire da se stesso” mentre dipingeva. Era un darsi totalmente, senza limiti,
testa e cuore; le sue dita volavano sulla tela, i colori parevano miscelarsi da soli sulla tavolozza e rivivere in una essenza nuova sulla tela. Lui diceva che la tela bianca tentava di dominarlo, ogni volta, e che alla fine vinceva lui, sopraffacendola. Era un andare oltre, quasi a voler trascendere la realtà, rendendo poi la percezione di chi osservava quei quadri profondamente incerta (a tratti disorientata) e coinvolta.
Quali sono stati gli incontri che hanno segnato la sua carriera di artista? Ha sempre avuto un atteggiamento molto selettivo con le persone e non si è mai lasciato convincere o trascinare da mode o facili promesse di chicchessia. Era un uomo che dell’onestà ha fatto la sua bandiera per tutta la vita, che detestava i compromessi e le mezze misure. Alcune persone, però, hanno sicuramente inciso su di lui come artista. Per primo Sebastiano Carta, grande artista tra i firmatari del Manifesto del futurismo di Marinetti. Si incontrarono negli anni ’70 in una Roma dove il fermento artistico e culturale ribolliva ed erano anni di condivisione, libertà creativa, dialogo e comunicazione. Mio padre esponeva presso la Galleria Brunetti, Carta entrò ed ammirò i suoi quadri. Li volle poi vedere tutti a casa nostra. Lo ricordo, anziano e barbuto, malvestito, capelli molto lunghi, dotato di una personalità straordinaria. Negli anni seguenti fu un susseguirsi di incontri con critici d’arte di fama, furono gli anni delle tante mostre personali a Roma ed in tutta Italia e poi, negli anni Ottanta e Novanta i tanti premi e riconoscimenti ricevuti in Italia e all’estero.
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Salvatore Nasti
So che la musica ha avuto un ruolo molto importante nella vita di Franco, per me sono e resteranno indimenticabili i nostri incontri “musicali”: ogni giorno vedo sopra il mio piano un suo disegno, a me dedicato, intitolato “Al ritmo con Erroll”. Papà dipingeva ascoltando musica, spaziava da George Gershwin ad Erroll Garner, da Burt Bacharach a Frank Sinatra a Barry White. Il pennello volava sulle note musicali e i colori prendevano vita sulle melodie che amava. Musica e pittura sono perennemente connesse nel suo universo artistico-emozionale. Condivideva pienamente la riflessione espressa da Vassily Kandinsky: “Se è vero che i suoni toccano l’anima, perché non dovrebbe essere vero lo stesso per i colori?”.
L’umore di tuo padre cambiava quando dipingeva? Dipingere era per lui un’attività totalizzante. Ricordo i suoi momenti creativi come una sorta di estraniamento dalla realtà, era un corpo a corpo con la tela, un dialogo appassionato dal quale tutti erano esclusi e solo quando aveva completato l’opera si rasserenava ritrovandosi. Una domanda finale per far conoscere l’uomo oltre al pittore. Nell’introduzione di questo incontro ho descritto Franco Cartia come un “fratello acquisito”. Che tipo di padre e poi di nonno è stato? Questa è la domanda più difficile alla quale non so se riuscirò a rispondere come vorrei e soprattutto come Lui vorrebbe. È stato il padre delle risposte, del dialogo, della riflessione a tutti i costi, su tutto. È stato la guida onnipresente, il depositario di valori intoccabili ed incrollabili, ma è stato anche un grande coltivatore di dubbi nel senso più nobile del termine. Con i suoi adorati nipoti non si è comportato da nonno classico, anzi. Manteneva il suo ruolo di educatore, di guida che dispensava consigli e regole di vita, con una dose di dolcezza maggiore, quella che ogni nonno regala ai suoi nipoti. Ma nonno Franco era davvero unico. Nessuno di noi, purtroppo, ha ereditato il suo genio artistico. Di questo si dispiaceva ma poi ci scherzavamo su. L’ironia era una delle sue innumerevoli doti.
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Giuseppe Brescia
Autonomia dell’arte, tempo e senso del celeste, dal barocco alla modernità: il posto di Schopenhauer
“Noi altri Dipintori habbiamo da parlare con le mani”, afferma nettamente Annibale Carracci (Bologna 1560-Roma 1609), a proposito del fratello Agostino (Bologna 1557-Pisa 1602), autore di una lezione in Roma sul gruppo ellenistico del Laocoonte, sancendo il valore formante e autonomo dell’“opera”, canone dell’ estetica moderna, e la critica dell’ allegorismo in arte, assiomi che si affermano sino al Croce e ai dialoghi della ‘Biblioteca’ in Ulysses o ai saggi su Proust e Dante... Bruno. Vico. Joyce, delineati dal Beckett. Certo, dotto è anche Annibale Carracci, conoscendo Tibaldi e Federico Barocci, il Correggio e i lombardi e veneti, i maestri della ‘Rinascenza’ e i ripetitori della ‘maniera’. “Non potei stare di non andare sùbito a vedere la gran cupola” (di Correggio nel Duomo di Parma), scrive al cugino Ludovico, il 18 aprile 1580. Caravaggio rimase colpito dalla Santa Margherita del 1599, nella Chiesa di Santa Caterina dei Funari, esclamando ‘esserci almeno un pittore in Roma’, come ricorda il Bellori nelle Vite de’ pittori scultori e architetti moderni (Roma 1672, pp. 201215). Ma quel che è sfuggito – sinora – è la singolare acquisizione che della querelle compie Arthur Schopenhauer al paragrafo 50 del Libro terzo. Il mondo come
rappresentazione de Il mondo come volontà e rappresentazione (1818, 1844 e 1859, per la terza e più fortunata edizione), dispiegando la diretta e approfondita conoscenza non solo dell’arte e della critica d’arte italiana e europea, ma anche del rapporto di distinzione tra ‘allegoria’ e ‘poesia’ da una parte, e tra ‘allegoria’, ‘simbolo’ ed ‘emblema’ dall’altra. Benedetto Croce stesso non se ne avvalse nella Poesia di Dante del 1921, né (credo) nel successivo corso ermeneutico. I letterati ed eruditi “puri”, né quelli “impegnati” (di qualunque orientamento ideologico o sensibilità, cattolici come Papini, laici come Russo, Barbi, Parodi, Sansone, Binni), nulla ne sanno, pur restando immessi e coinvolti nella tenace querelle dei rapporti tra poesia e struttura nella Commedia. L’attenzione specifica dedicata dallo Schopenhauer al tema riveste un ruolo ed ufficio centrale in estetica, tra l’età barocca e la modernità. L’importante passo schopenhauriano si apre a ventaglio sulle prospettive dell’arte barocca, il senso del celeste, la ‘luce’ o Licht nel rapporto con le arti figurative, oltre che sulle categorie di allegoria simbolo emblema. “Un’allegoria è un’opera d’arte, la quale significa alcunché di diverso da quel che rappresenta. Ma ciò che è intuitivo, e quindi anche l’idea, si esprime da sé in modo diretto e compiuto, né ha bisogno
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di altro intermediario, dal quale esso venga significato velatamente. Quel che in tal modo viene adunque significato e rappresentato mediante alcunché di affatto diverso, non potendo esso medesimo venire offerto all’intuizione, è sempre un concetto. Con l’allegoria viene quindi ognora significato un concetto, e per conseguenza la mente dello spettatore è condotta lungi dall’offertale rappresentazione intuitiva verso un’arte astratta, non intuitiva, che sta tutta fuori dell’opera d’arte: così il quadro o la statua devono compiere quel che compie, solo in modo più completo, la scrittura. Quel che per noi è il fine dell’arte – rappresentazione dell’idea percepibile solo intuitivamente – non è quivi più il fine. Per la mira, a cui nell’allegoria si tende, non è neppur necessaria una gran perfezione dell’opera d’arte: basta che si vegga che cosa sia l’oggetto; perché, una volta trovato questo, lo scopo è raggiunto, e lo spirito è condotto verso una rappresentazione di tutt’altra natura, verso un concetto astratto che era appunto il fine proposto. Allegorie nell’arte figurativa non sono perciò altro che geroglifici: il pregio artistico, che d’altronde possono avere come rappresentazioni intuitive, non appartiene loro in quanto sono allegorie, ma per un altro verso. Che la Notte del Correggio, il Genio della Fama di Annibale Carracci, le Ore del Poussin siano bellissime pitture, è cosa affatto indipendente dall’essere allegorie. Come allegorie non dicono più di un’iscrizione – anzi piuttosto meno. Siamo qui richiamati alla distinzione, fatta più sopra, tra il senso reale e il nominale d’un quadro. Il nominale è qui appunto l’allegorico, come, per esempio, il Genio della Fama; il reale è ciò che in effetti vien rappresentato: nel caso presente, un bel
giovane alato, con bei fanciulli intorno. Questo esprime un’idea: ma cotal senso reale agisce solo fin che sia posto in oblio il senso nominale, allegorico; basta pensarvi, perché l’intuizione si allontani e un concetto astratto occupi lo spirito: ora il passaggio dall’idea al concetto è sempre una caduta. Sì, quel senso nominale, quell’intenzione allegorica fa spesso danno al senso reale alla verità intuitiva: come, per esempio, l’innaturale luce nella Notte del Correggio, la quale, per quanto ben dipinta, tuttavia è motivata solo dall’allegoria, ed in realtà impossibile. Se quindi un quadro allegorico ha pregio d’arte, questo è del tutto separato e indipendente dall’ufficio dell’allegoria: un’opera siffatta serve insieme a due scopi , ossia all’espressione d’un concetto e all’espressione di un’idea, ma esclusivamente il secondo può essere un fine dell’arte, mentre l’altro è uno scopo estraneo; è la piacevolezza
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scherzosa, di far che un quadro serva in pari tempo come un’iscrizione, un geroglifico: piacevolezza inventata a vantaggio di coloro per cui è muta l’essenza vera dell’arte. Gli è allora come se un’opera d’arte fosse in pari tempo un arnese d’utilità pratica, nel qual caso anche serve a due scopi: per esempio una statua, che sia insieme candelabro o cariatide, o un bassorilievo, che sia contemporaneamente scudo d’Achille. Sinceri amici dell’arte non gusteranno né l’una né l’altro. È vero, che un’immagine allegorica può appunto in questa sua qualità produrre un vivo effetto sull’animo: ma l’effetto medesimo produrrebbe, in circostanze eguali, anche un’iscrizione. Così, per esempio, se nell’animo d’un uomo sia fermamente e fortemente radicata la brama della gloria, ed egli guardi alla gloria come a sua legittima proprietà, a lui negata sol finché ei non abbia prodotto i titoli del suo possesso; e quest’uomo venga davanti al
Genio della Fama coronato d’alloro; tutto il suo animo ne sarà infervorato, e la sua energia spronata all’azione. Ma non accadrebbe altrimenti, se d’un tratto e’ leggesse grande e chiara sulla parete la parola ‘gloria’. Oppure, se un uomo abbia svelata una verità, la quale sia importante o come regola per la vita pratica, o come cognizione per la scienza, ma non trovi fede; agirà profondamente su di lui un’immagine allegorica del Tempo, che alzi il velo e scopra la verità nuda. Ma non altrimenti agirebbe il motto: ‘Le Temps découvre la vérité’. Imperocché ciò che quivi propriamente agisce è sempre il solo pensiero astratto, e non la cosa intuita. Ora se, come abbiamo visto, l’allegoria nell’arte figurativa è una tendenza viziosa, asservita ad un fine, che all’arte è affatto estraneo, codesta tendenza diviene addirittura insopportabile, se è spinta a tal segno che la rappresentazione di sottigliezze forzate e introdotte arbitrariamente venga a cader nell’insulso. Di tal fatta è, per esempio, una testuggine, che voglia indicar la ritrosia femminile; la Nemesi, che si guardi in seno dentro al vestito, per significar ch’ella vede anche l’ascoso la dichiarazione del Bellori, che Annibale Carracci abbia vestito di giallo la voluttà, per esprimere che le sue gioie tosto appassiscono e si fanno gialle come paglia. Se adunque tra la cosa rappresentata e il concetto, per suo mezzo significato, non è alcun legame che abbia per base la sussunzione sotto quel soggetto e l’associazione delle idee; ma segno e cosa significata stanno in connessione tutta convenzionale, mediante un ravvicinamento postivo e provocato a caso: allora io chiamo simbolo questa varietà dell’allegoria. Così la rosa è simbolo della discrezione, l’alloro simbolo della gloria, la palma
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simbolo della vittoria, la conchiglia simbolo del pellegrinaggio, la croce simbolo della religione cristiana: e qui vengono anche tutte le significazioni dirette attribuite ai semplici colori, per esempio, il giallo come colore della falsità, l’azzurro della fedeltà. Cotali simboli possono sovente giovar nella vita, ma all’arte il lor pregio è straniero: sono da considerare in tutto come geroglifici, o addirittura come caratteri cinesi, ed appartengono in realtà alla stessa categoria degli stemmi, della frasca posta a insegna di un’osteria, delle chiavi da cui si riconoscono i ciambellani, o del cuoio da cui si conoscono i minatori. Quando infine certi personaggi storici o mitici, oppure certi personificati concetti vengono fatti conoscere mediante simboli convenuti una volta per sempre, forse dovrebbero questi chiamarsi propriamente emblemi: tali sono le bestie degli Evangelisti, la civetta di Minerva, il pomo di Paride, l’àncora della Speranza, e così via. Ma solitamente si dà il nome d’emblemi a quelle immagini parlanti, semplici, e illustrate da un motto, che servono a raffigurare una verità morale, e di cui si hanno grandi raccolte per opera di J. Camerarius, Alciatus e altri: esse formano il trapasso verso l’allegoria poetica, della quale sarà trattato in seguito. La scultura greca si rivolge all’intuizione, e però ella è estetica; l’indostana si rivolge al concetto, e però è solamente simbolica” (trad. it. di Paolo Savj-Lopez e Giuseppe De Lorenzo, anche se datata al 1914-1916, UL, Bari 1986, con Introduzione di Cesare Vasoli, alle pp. 320-327: ora in nuova edizione per le cure di Sossio Giametta, Milano 2006). Di tale tema mi sono occupato in sede di ermeneutica filosofica, con il Croce e
Schopenhauer. De Sanctis e Leopardi. “Volontà di vivere” e “vitalità”, organicamente immesso ne I conti con il male. Ontologia e gnoseologia del male (Laterza, Bari 2015, pp. 93-192 della Parte prima); e, per il celebre parallelo con Leopardi instaurato dal De Sanctis, in Le “guise della prudenza”.Vita e morte delle nazioni da Vico a noi (Laterza, Bari 2017, “Come fermar il declino delle nazioni”, anche nella ricorrenza del bicentenario della nascita del critico irpino, per ‘Lectio magistralis’ alla Biblioteca “Bovio” di Trani del 19 gennaio e 3 febbraio 2017). Ora, la profonda conoscenza dell’Italia, in cui il filosofo tedesco viaggiò, a pochi passi dalla Napoli di Leopardi e nella Roma fastosa d’arte barocca, impone di commentare le fonti artistiche pregiate dallo Schopenhauer, in tutte le direzioni metodiche. Non a caso, l’autore de Il Mondo si rifà a tre opere ‘emblematiche’ di Correggio, Annibale Carracci e Poussin, proprio perché parlanti nel loro linguaggio ed anche esemplari per la modularità allegorica, che l’autore ‘osa’ confutare in sede propriamente filosofica. E sceglie Il Genio della Gloria, di Annibale Carracci: dove la critica dell’allegorismo è più facile ed immediata, dal momento che campeggia – in tale opera – il nudo maestoso del giovane, centralmente innalzantesi in volo tra i puttini, con tale imponenza da far passar sùbito in secondo, o infimo piano, il riferimento concettuale, ‘nominale’ (come dice Schopenhauer), o ‘allotrio’ (direbbe poi il Croce), alla “Fama”. Quindi, lo Schopenhauer sceglie il Nicolas Poussin delle Ore, propriamente dette Il ballo della vita umana al suono del tempo, dove la confutazione delle pretese allegorizzanti in arte è sicuramente più difficile, visto che il celebre olio del 1640,
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custodito oggi alla “Wallace Collection” di Londra, scopertamente “disegna” la vita umana, come effigiata nel ballo di quattro donne (la Povertà, la Fatica, la Ricchezza e il Lusso), ruotanti le ultime due dal primo piano in tondo; mentre alle spalle si notano Povertà, in abito mesto con il capo cinto di fronde secche, e la Fatica con spalle e braccia nude, indurite dagli stenti. D’altra parte, anche al margine basso del dipinto, il vecchio Padre “Tempo” (direbbe il Panokskj) suona la cetra, mentre ai suoi piedi un fanciullo tiene in mano una clessidra, come lo strumento che evidenzia il fluire delle “ore”, e, con esse, della “vita”. Dall’altro lato, sotto la statua di Giano, la divinità bifronte che esprime il rapporto non solo – estensivamente – tra guerra e pace ma anche – intensivamente – di passato e futuro, un altro putto soffia una cannella di bolle di sapone, che, volando via e presto disperdendosi, rappresentano la vanità della vita umana. Pure, di fronte a tale ‘summa’ di riferimenti allegorici, il filosofo dice: “No”, – si badi – in senso metodologico e teoretico. Questo è il punto. Per ciò, le “pitture son tutte bellissime” – dice lo Schopenhauer –, anche se è diverso il grado della loro ‘nominalità’, il quanto qualitativo del rinvio allegorico, che può andare dal meno (Il Genio della Fama, ove l’immagine del bel giovane si sovrappone con prepotenza al ‘concetto’ della Gloria) al più (La Danza delle Ore, di Poussin, quando i rimandi al significato delle età ed alla labilità del tempo sono schiaccianti). Invece, nella Notte, che è poi la Natività, del Correggio, la “luce”, essendo di natura “mistica”, risulta per ciò stesso “innaturale”, provenendo – come da una torcia e lampada interna – dal Gesù bambino, e colpendo con tal violenza gli
astanti e pastori, che questi se ne ritraggono sorpresi. Qui, insiste il senso “allegorico” che sovrasta la forza rappresentativa, formante, ‘intuitiva’ dell’opera d’arte (mentre, dall’alto, un’altra fonte luminosa sporge, separatamente, negli angeli). L’analisi fornisce alla Schopenhauer la leva per interpretare il ruolo della Licht, la ‘Luce’, nell’opera d’arte. Proseguendo il percorso ermeneutico, al paragrafo 43 della stessa opera, infatti, lo Schopenhauer si sofferma sul rapporto tra architettura e luce, in prossimità del senso del celeste. “Una specialissima relazione hanno poi ancora le opere di architettura con la luce: in pieno spendore di sole, col cielo azzurro nello sfondo, sono due volte più belle; e tutt’altro effetto producono inoltre nello spendore lunare. Perciò anche nella costruzione di una bell’opera architettonica si ha particolare riguardo agli effetti di luce e alle “regioni del cielo” (op. cit., p. 295). Tanto si invera nell’opera di Annibale Carracci, la Santa Margherita che influenzò Caravaggio alla fine del sedicesimo secolo, o ne La fuga in Egitto (1604), nella Cappella del Palazzo Aldobrandini: dove “protagonista è il paesaggio vasto e maestoso, ricco di verdi intonati all’azzurro del cielo percorso da luci chiare, mosso e animato da elementi umani e naturali” (come ben scrive Piero Adorno, L’arte italiana, Vol. 2° - Tomo secondo, Firenze 1986, pp. 1056-1060). Nella Santa Margherita, con il dito destro rivolto al cielo dentro un bellissimo squarcio prospettico e la scritta “Sursum Corda” sottostante, si segna la ‘svolta’ dell’arte moderna. Dopo di lei, Caravaggio cambia registro (in San Luigi dei Francesi; Santa Maria del Popolo; dal 1599 al 1601-1602, in Roma). Perciò –
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Giuseppe Brescia
dice il Bellori: “E s’inoltrò tanto in questo suo modo d’operare che non faceva mai uscire all’aperto del sole alcuna delle sue figure, ma trovò una maniera di campirle entro l’aria bruna d’una camera rinchiusa, pigliando un lume alto che scendeva a piombo o sopra la parte principale del corpo e lasciando il rimanente in ombra a fine di recar forza con veemenza di charo ed oscuro” (op. cit., 1672, pp. 201-215). ‘Lume’, dunque, tutt’al contrario della “innaturale” derivazione ‘mistica’ nell’opera pur pregevole di Correggio, quella Natività, cui Schopenhauer toglie il riferimento nominale e allegorico, per restituirle – semplicemente – il ‘naturale’ Notte. Ma, per il plesso “luce”-“senso del celeste”, all’interno della più vasta accezione della “volontà di vivere”, Schopenhauer non manca di citare probantemente Lord Byron (al § 34, pp. 251-252 della citata edizione del Mondo). “Egli trae adunque dentro a sé la natura, sì da sentirla solo come un accidente dell’esser suo. In questo senso dice Byron: ‘Are not the mountains, waves and skies, a part / Of me and my soul, as I of them?’“ - ‘Non sono i monti, le acque e le regioni del cielo una parte / Di me e della mia anima, così come io lo son di loro?’ (mia traduzione, adattata al nuovo contesto ermeneutico). Paradigma del nuovo concetto di ‘vitalità’ è, peraltro, al § 51: “Nel giovane, ogni percezione produce dapprima sentimento e stato d’animo; e molto bene è ciò espresso da Byron: ‘I live not in myself, but I become / Portion of that around me; and to me / High mountains are a feeling’ “ (op. cit., pp. 338-339: “Io non vivo in me stesso, ma divento / Parte di ciò che è intorno a me; e in me / L’alte montagne sono un sentimento”). Più d’un secolo dopo, Martin Heidegger tematizza la dimensione della Lichtung, da
Licht, o ‘luce’, come la “mezza luce” della contrada, che ci “metta nel bel mezzo della verità” (avrebbe detto poi Montale), che non è del tutto rada né del tutto impraticabile o folta, ma relazione dialettica di finito e infinito, aperto e chiuso, chiaro ed oscuro (Holzwege, del 1950, “Sentieri interrotti”, a cura di Pietro Chiodi, Firenze 1969, pp. 246-297; già in Perché i poeti?, conferenza del 1926 in onore di Rainer Maria Rilke e L’origine dell’opera d’arte, del 1936; poi interpretati da Gianni Vattimo, La fine della modernità, Milano 1985, p. 134 e Leonardo Amoroso, La ‘Lichtung’ in Il pensiero debole, Milano 1983 e 1987, pp. 137-163). In Schopenhauer si forma, o ri-forma, anche il senso del celeste come “appartenenza” e “risorsa” etica (“una parte di me della mia anima, come io lo sono di loro”). Ed è il “sursum corda” di Annibale Carracci, il dito puntato dalla Santa Margherita coronata di perle verso il cielo: non più il dito della “elongazione” che il Mercurio della botticelliana Primavera indirizza fuori del dipinto e in alto, per effetto della influenza astronomica del senso celeste ancora dominante (vedasi il ciclo dei mesi a Schifanoia in Ferrara); ma già il moderno acquisto del celeste come “risorsa etica”, in questo caso “cristiana”, e che si protende per altre vie da Leopardi a Tolstoj e Arthur Koestler, e da Baudelaire e Proust a Joyce e Calvino. In effetti, per quanto riguarda il ‘classico’ precedente botticelliano, indubbiamente noto al Carracci, si è potuto accertare: “Nel sistema del mito Mercurio deve raggiungere Apollo perché solo con il parere del fratello può scegliere la sposa; nella realtà della scienza il consiglio di ricercare il dio indica il momento in cui il pianeta, esaurito il moto di retro-
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Autonomia dell’arte, tempo e senso del celeste, dal barocco alla modernità
gradazione, inizia il moto diretto di avanzamento verso il Sole da cui si è trovato in elongazione”; e il “dito alzato” indica – in iconologia – “una realtà che trascende il sensibile” (cfr. Walter Fontanella, Mercurio alla ricerca di ApolloSole. La teoria eliocentrica di Eraclide Pontico nel ‘De Nuptiis Philologiae et Mercurii’ di Marziano Capella, “Atti dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti”, 135, 1986-1977, pp. 308-312 e Giovanni Reale, Botticelli, Milano 1984, pp. 242245). Invece, il paradigma intimo e raccolto del cielo “parte di me e della mia anima” fatto proprio dallo Schopenhauer, ben ricorda il “tutto questo è mio, solo mio” del Pierre Bezuchov in Guerra e pace che tanto piaceva a Italo Calvino (cfr. i miei I princìpi vichiani e il senso del celeste in
James Joyce, “Filosofia e nuovi senteri”, novembre 2014 e Italo Calvino e Andria. Variazioni del senso del celeste, Matarrese, Andria 2016). Mentre il caso dello “spettatore”, “condotto fuori dell’opera d’arte” in virtù dell’allegoria, e perciò messo in comunicazione di una “scrittura” – come dice Schopenhauer nel fondamentale passo recuperato – corrisponde perfettamente alla tematizzazione di “Percorso” (artistico) e “Discorso” (trascrittivo), elaborata da Carlo Ludovico Ragghianti (nelle Arti della visione. III. Il linguaggio artistico. ‘Tempo sul Tempo’, Torino 1979), cui idealmente il presente saggio è dedicato a trent’anni dalla morte (Lucca 19101987).
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Alcune
pubblicazioni della
Fondazione
Giacomo Matteotti
Collana Studi di Storia e politica (6) A cura di Ester Capuzzo – Antonio Casu – Angelo G. Sabatini Premessa di Angelo G. Sabatini Saggi di Alberto Aghemo, Giorgio benvenuto, Francesco bonini, Ester Capuzzo, Andrea Ciampani, Tommaso Frosini, Francesco Margiotta broglio, Guido Melis, Michela Minesso, Paolo Passaniti, Antonio Patuelli, Mario Pendinelli, Rocco Pezzimenti, Cesare Salvi, Giancarlo Vallone Il volume espone, in una dimensione interdisciplinare, i contributi di autorevoli studiosi di diversa formazione – storici, giuristi, filosofi ed economisti – sui principi fondativi della Carta costituzionale italiana nell’intento di verificarne, in alcuni settori specifici, il grado di attuazione a settant’anni dalla sua entrata in vigore. La pubblicazione è stata realizzata con il contributo del Mibact Stampato in Italia nel mese di maggio 2019 da Rubbettino Print per conto di Rubbettino Editore srl - 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro) www.rubbettinoprint.it ISbN 978-88-498-5907-2