TEMPO PRESENTE - Segni e significati di una crisi - Estratto

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Estratti 2013-2014

TEMPO PRESENTE

Estratto SEGNI E SIGNIFICATI DI UNA CRISI

Spedizione in abbonamento postale: comma 20, lett.B, art.2 legge 23 dicembre 1996, numero 662, Filiale di ROMA


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Angelo G. SABATINI

COMITATO EDITORIALE

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TEMPO PRESENTE

Rivista mensile di cultura

Segni e significati di una crisi Estratto

385-388 gennaio-aprile 2013 ANTONIO CASU, La crisi della democrazia, p. 3 ANGELO G. SABATINI, Di alcuni fattori critici della democrazia in Italia, p. 9 LUCIANO PELLICANI, Per una democrazia governante, p. 14 GIUSEPPE CANTARANO, Una democrazia oltre i partiti?, p. 17 389-391 maggio-luglio 2013 ANTONIO CASU, Il limite come presupposto etico e fondamento democratico, p. 2 ROCCO PEZZIMENTI, Verso l’iperdemocrazia? Crisi dei limiti, p. 7 GIROLAMO COTRONEO, Democrazia adieu?, p. 10 ANGELO AIRAGHI, Siamo alla fine della democrazia?, p. 14 394-396 ottobre-dicembre 2013 VALERIO ZANONE, La crisi della democrazia è sociale prima che politica, p. 3 ANTONIO CASU, I rischi della democrazia corporativa, p. 5 LAURA BAZZICALUPO, Democrazia e neoliberalismo, p. 10 GIORGIO PACIFICI, Democrazia! Democrazia!, p. 14 FRANCESCO PEZZUTO, Democrazia senza etica?, p. 19 397-399 gennaio-marzo 2014 ANGELO G. SABATINI, Il rischio della democrazia nell’utopia nella Rete?, p. 3 G IUSEPPE C ANTARANO , Norberto Bobbio, p. 5 405-406 settembre-ottobre 2014 ROBERTO SPERANZA, Post-democrazia, p. 3 ALESSANDRO FERRARA, Crisi della democrazia nell’era della democrazia come orizzonte?, p. 5


R af f aello Sanzio , La Scuola di Atene - Musei Vaticani Par ticolar e : Platone e Aristotele


PRiMA PAGiNA

segni e significati di una crisi Antonio Casu, Angelo G. Sabatini, Luciano Pellicani, Giuseppe Cantarano

Antonio Casu L a cr i si del l a democr a z i a

1. Etica e politica - uno dei convincimenti attualmente più ricorrenti e insidiosi è quello secondo cui vi sarebbe una cesura necessaria tra etica e politica. tale affermazione si basa, nella migliore delle ipotesi, sulla considerazione che, da una parte, la politica è l'arte del possibile, del compromesso, e dunque per sua natura tende a privilegiare ciò che accomuna e non ciò che separa, mentre dall'altra l'etica, in quanto derivante da convincimenti di natura pervasiva, religiosi o ideologici, risulterebbe necessariamente divisiva, e in ogni caso farebbe emergere le differenze profonde e irriducibili tra le parti. Di qui le espressioni di superiorità venata da cinismo che talvolta i custodi degli arcana imperii riservano a coloro che lamentano la divaricazione tra politica ed etica. Questo convincimento è, si diceva un tempo, falso e tendenzioso. in realtà, la politica disancorata dall'etica non è necessariamente mediazione degli interessi contrapposti. o lo è solo quando essi si pongono in sostanziale equilibrio tra loro. Ma quando uno tra essi si pone in condizione di netta supremazia rispetto agli altri, che può fare la politica come mediazione? Per quanti sforzi possano essere prodigati in tal senso, non potrà che riconoscere la legge del più forte, e nella peggiore delle ipotesi, situazione molto diffusa nella realtà, il negoziato politico non sarà volto al riequilibrio delle parti, ma a trarre vantaggio dalla legittimazione di chi si trova nella situazione de facto più forte. in sostanza, la politica senza un autentico ancoraggio etico si riduce ad oliare gli ingranaggi del potere. La resistenza a

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questa condizione è stata condotta, in passato, sopratutto da due forze di rilevante capacità di coagulazione e orientamento: la religione e l'ideologia. Ciascuna possedeva un corpus strutturato di principi e criteri direttivi, e due formidabili canali di formazione dei quadri, in particolare delle giovani generazioni: le parrocchie e le sezioni. Nella società attuale questi centri di orientamento sono in gran parte venuti meno, come le sezioni, o sono fortemente ridimensionati, come le parrocchie, a causa della contrazione del numero dei praticanti. Hanno perso gran parte della loro capacità di attrazione, e sembrano rassegnati a rivolgersi, nelle odierne rispettive configurazioni, a minoranze ben determinate, più che, come un tempo, a tutti. secondo molti, hanno in qualche modo perso la loro aspettativa universalistica, a causa della crisi della religione e della "morte delle ideologie". Ma questo dato non sposta i termini di fondo, anzi in certa misura li conferma. solo dei principi forti possono limitare il potere. il potere può essere arginato solo da un quadro di valori di riferimento dotato di autorevolezza tale da risultare incontestabile, o difficilmente contestabile, persino dal potere. oggi quale fonte può essere così autorevole per tutti da legittimare una resistenza credibile al potere? e sopratutto, in un contesto pluralistico e relativistico come quello attuale, nel quale nessuna parte intende cedere la propria autonomia ad altre, come si può trovare un compromesso non a livello di gestione del potere ma di valori di riferimento? ecco il punto: la politica non solo non può essere separata dall'etica, ma ha bisogno di una cornice di regole etiche di riferimento, con la precisazione che, per


Antonio Casu

essere accettate, devono essere condivise. e dunque, occorre accettare la logica del confronto sui valori etici per individuare quelli comuni. L'etica diventa così un potente, anzi, insostituibile, fattore unificante del corpo sociale e conseguentemente delle sue istituzioni politiche. Diviene un fattore fondante della comunità nazionale, basata sulla reciproca legittimazione, e dunque un fattore dirimente nella costruzione di un'identità nazionale. Nulla di diverso significa il processo costituente: parti differenti e anche lontane tra loro privilegiano i valori comuni, in un quadro di riconoscimento reciproco. Così è nata la nostra costituzione repubblicana, con il contributo di cattolici e laici, di democristiani e comunisti, di socialisti e liberali. Né si può oggi pensare che il collante sia solo quello nazionale, o peggio etnico, in un mondo ormai definitivamente multietnico e correlato dalla rete, dalla comunicazione, dalla libertà di movimento.

2. Formazione e informazione - e’ evidente che questo processo ha i suoi nemici. e tuttavia, in qualunque forma si manifesti, il nemico è in realtà uno solo: il potere. il quale da tempo ha scelto di non manifestare il suo "volto demoniaco" – con buona pace di Gerhard Ritter – ma anzi ha scelto la strada meno rischiosa e più redditizia di orientare le masse, mediante i canali privilegiati della formazione e dell'informazione. Per la verità, la strada scelta negli ultimi decenni è stata molto diversa da quella tradizionale. in società sufficientemente coese, come quelle liberali e inizialmente quelle democratiche, il potere ha sempre cercato di conquistare il primato nella formazione delle classi dirigenti, e i diversi poteri si sono confrontati e scontrati su questo crinale. si pensi al conflitto tra la nuova classe dirigente liberale e la Chiesa a proposito del ruolo dei gesuiti, che portò allo scioglimento, per alcuni anni, della compagnia. Ma attualmente, a fronte della disintegrazione sociale e all'estinzione delle classi tradizionali, segno distintivo di una

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modernità o post-modernità liquida (bauman) o in polvere (Appadurai), la via preferita è stata quella della dequalificazione dell'istruzione e dell'insegnamento, sopratutto di quello universitario. Le classi di marxiana memoria, superate dalla storia, ricompaiono così in una versione nuova e radicalizzata, che segna la progressiva espulsione della borghesia, afflitta dalla crisi economica e sociale, dall'istruzione e dalla formazione di rango elevato, che diviene così appannaggio di una classe dominante sempre più ristretta e internazionalizzata. Non diversamente avviene per l'informazione, che da almeno due decenni ha abdicato a quella funzione nazionalpopolare di istruzione delle masse che ha caratterizzato, e cementato, i primi decenni di vita repubblicana e democratica, unificando il paese, e le sue diverse realtà territoriali, attraverso un uso sapiente della rivisitazione storica, in particolare grazie a sceneggiati e documentari di elevata qualità, e un'attenzione significativa alla lingua italiana, insegnata a vaste aree di analfabetismo ma soprattutto correttamente pronunciata in video. il presente, al contrario, è sotto gli occhi di tutti. La ricerca dello share ha fatto proliferare i programmi spazzatura, e oggi invece di rievocare le vicende che hanno costruito l'italia, si pensi allo sceneggiato su Cavour, alle produzioni tratte ai romanzi di bo e bacchelli, ecc., l'homo televisivus preconizzato, anzi paventato, da Popper forma la sua in-coscienza assistendo a versioni televisive dei fotoromanzi e all'ostentazione dei pettegolezzi e dei litigi familiari. Per non parlare delle ingiurie alla lingua italiana, che la dicono lunga sui canali di accesso ai microfoni o alle telecamere. Al riguardo propongo la costituzione di un'autorità di vigilanza sul corretto uso della lingua nazionale sui mezzi di comunicazione di massa. sono fiducioso che nel nostro Paese, che guarda con crescente favore alle authorities, questo appello non rimarrà inascoltato. Altra cosa, evidentemente, è che dia i risultati sperati.


La crisi della democrazia

3. Bene comune - uno dei terreni privilegiati di verifica di quanto si sostiene è la teoria della democrazia, a partire dai suoi fondamenti. Per lungo tempo la teoria democratica poggiava le sue basi sul concetto di bene comune. in effetti, a ben vedere, fin dalla classicità, gli antichi invocavano il bene "comune" in quanto non lo si voleva riservato solo ed esclusivamente ai detentori del potere costituito, che lo avevano acquisito o per diritto di nascita o con la forza. La democrazia è in realtà un obiettivo progressivo, mai perfettamente compiuto, perché, estrinsecandosi nel governo della maggioranza che si esercita mediante deliberazioni, viene sottoposto a verifiche continue, a continue oscillazioni di consenso e dunque di maggioranza. Ma questo regime di verifica attiene al modo di esercizio della democrazia, non alla sua ragione ultima, che è appunto la condivisione del potere. Così anche nei principali esponenti della teoria classica della democrazia (a partire da Rousseau), nei quali una cosa è la sostanza della democrazia, altro il modo di realizzarla, e tuttavia la sostanza e la forma devono essere in rapporto costante e funzionale, pena la democrazia imbelle, e successive derive autoritarie. Ma la teoria classica della democrazia ha avuto i suoi detrattori, e i suoi colpi di maglio. si pensi a Mandeville, alla sua Favola delle api che descrive la concorrenza come motore del progresso, come unica premessa di prosperità, costi quel che costi, anzi proprio grazie ai costi spesso terribili che infligge ai più deboli, e che dunque non fa altro che legittimare la legge naturale del più forte. Mandeville irride l'etica sociale come quella individuale, e in realtà disarticola e delegittima la stessa necessità dell'etica. Persino Hobbes, che per regolamentare le tempestose relazioni interstatali del tempo aveva de-teleogizzato la politica e conferito al Leviatano il monopolio pubblico della forza, come unica condizione per evitare la retrocessione del genere

umano alla condizione ferina, accettava la condivisione come presupposto dell' edificazione dello stato. Lo scambio libertà individuale-sicurezza collettiva era imperniato sull’accettazione degli individui, oltre che del corpo sociale, e presupponeva una larga, anzi maggioritaria, adesione. ed effettivamente, nell'espressione "bene comune", cioè nel connubio tra il concetto di "bene", ciò che è ritenuto meglio/giusto/preferibile/conveniente, e la qualificazione di "comune", che implica la scelta della condivisione rispetto al godimento esclusivo o di gruppi ristretti, è insito il fondamento etico della teoria classica della democrazia. Per i credenti, il fondamento etico della democrazia è situato in un territorio prepolitico e pre-normativo, quello proprio di verità pre-esistenti e assolute. Per i non credenti, rectius: per i laici, il fondamento etico è immanente, ed è proprio la condivisione, la più ampia possibile, dei valori e dei criteri che sorreggono il funzionamento della coesistenza umana, e più oltre della res publica. Nella condivisione, nella ricerca dell'inclusione del maggior numero di persone nella decisione politica, che riverbera i suoi effetti proprio sull'esistenza degli stessi soggetti che vi partecipano, come di quelli che malauguratamente ne restano esclusi, vi è la testimonianza attendibile della valenza etica della democrazia. e la sua cifra distintiva rispetto ad altri sistemi politici fondati sul principio del governo di pochi o di uno.

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4. La crisi della democrazia - Ma la crisi della teoria classica della democrazia si manifesta in modo preclaro negli anni trenta e Quaranta del Novecento. e non solo sul piano politico, come si potrebbe essere indotti a credere in relazione agli eventi di quel periodo, ma proprio sul piano teorico. il momento fondamentale è la pubblicazione del libro Capitalismo socialismo democrazia di Joseph Alois schumpeter.


Antonio Casu

Certo, quando ci si trova di fronte ad una svolta, l'indicazione di una decorrenza precisa è sempre una scelta in qualche misura arbitraria, che mette in ombra i prodromi, spesso rilevanti, come i seguiti, talvolta anch'essi non meno rilevanti. e così è anche in questa scelta. e tuttavia, nel panorama dei contributi intellettuali di quel torno di tempo, di quella stagione tormentata ma ricca di fermenti, il pensiero di schumpeter costituisce una chiave di volta. Mi riferisco evidentemente alla sua "teoria della leadership concorrenziale", che individua il contenuto tipico della democrazia nella competizione tra gruppi di interesse per la conquista del governo di un paese, nel rispetto delle regole di una competizione elettorale e nel quadro della democrazia rappresentativa. La teoria politica di schumpeter annichilisce ogni esigenza di fondamenta etiche del vivere sociale, e riduce la democrazia a mera procedura. L'ambito della condivisione si riduce dunque alla mera accettazione dei meccanismi rappresentativi ed elettorali, senza valori di riferimento. È l'applicazione del relativismo alla teoria democratica. in questo schumpeter precorre i tempi. e per questo il suo è un percorso distinto da quello che, parallelamente, compiono Kelsen sul piano giuridico e Keynes sul piano economico. schumpeter preconizza la democrazia procedurale in un quadro complessivo nel quale recepisce di fatto la teoria marxiana del crollo del capitalismo. Le cose non sono poi andate precisamente in quel modo. Kelsen e Keynes rappresentano invece la risposta del capitalismo alla sfida del sistema politico antagonista, il socialismo reale. il capitalismo delle origini era certo il più grande sistema economico sul piano della creazione della ricchezza, il più grande della storia, come ebbe a riconoscere lo stesso Marx nelle Forme economiche precapitalistiche. Ma il suo originario contenuto di sfruttamento selvaggio della risorsa lavoro, a carico di donne, bambini, classi subalterne, aveva favorito la diffu-

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sione del verbo rivoluzionario comunista. La risposta del capitalismo, che richiese decenni per maturare, fu lo stato sociale, di cui i presupposti teorici furono proprio la dottrina pura del diritto e dello stato di Kelsen e la teoria economica di Keynes, in particolare per quanto riguarda il ruolo statale nel finanziamento dei lavori pubblici e nella distribuzione delle risorse. Non è un caso che l'affermazione dello stato sociale sia stata la causa principale del crescente consenso dei sistemi capitalistici tra i paesi occidentali. Lo stato sociale è l’utopia positiva interna al capitalismo, nella versione liberale temperata, cioè non selvaggiamente liberista: il capitalismo dal volto umano. Ma l’occidente partorisce nello stesso tempo anche un’utopia speculare nel campo socialista, la socialdemocrazia. si pensi non solo alle democrazie scandinave, ad esempio al piano Meidner degli anni settanta, che prevedeva la compartecipazione tra capitale e lavoro, che in qualche misura rappresenta la soluzione più avanzata; ma sopratutto al cosiddetto "capitalismo renano", cioè a quell'esperienza di capitalismo continentale, in particolare franco-tedesco, che considera il fattore umano, quindi il lavoro, come variabile interna e indispensabile del successo economico. in ciò distinguendosi dal modello anglosassone, più marcatamente liberista. Lo stato sociale e la socialdemocrazia sono le due risposte dell’occidente, rispettivamente nel campo liberale e in quello socialista, alla sfida posta dal modello comunista di organizzazione della società e dello stato, alla divisione dei poteri contro l’unità del potere, all’ economia di mercato contro la pianificazione dirigista. Da questo punto di vista, entrambe le risposte chiaramente inaccettabili per l’ortodossia comunista, la socialdemocrazia – il “social fascismo” – non meno dello stato sociale. Stato sociale e socialdemocrazia sono le grandi speranze della società liberale europea della seconda metà del Novecento. Due proposte politiche e


La crisi della democrazia

anche due miti, la cui sopravvivenza era consustanziale al permanere della dialettica est-ovest. Le due parole che rischiano di perdersi nel breve volgere di questa stagione internazionale, globalizzata e priva di riferimenti certi. oggettivamente, le due utopie recuperano e valorizzano contenuti solidaristici insiti in una terza utopia dimenticata, che viene più da lontano, dall’eredità della Rivoluzione del 1789. i secoli successivi si sono aggrappati alle utopie costruttivistiche della libertà e dell’eguaglianza. i percorsi teorici e i processi politici hanno dato corpo alle due parole d’ordine. Non a caso, nella conduzione delle nazioni è rimasta esclusa la fraternità, che in precedenza trovava precipua ragion d’essere nel messaggio religioso di matrice cristiana. ecco dunque che, deflagrato nel 1989 – a distanza esatta di due secoli dalla presa della bastiglia – il modello comunista, sotto il peso delle sue contraddizioni interne e internazionali, il capitalismo non aveva più necessità dello stato sociale, non aveva più bisogno di un vasto consenso politico per evitare l’insorgenza di stati comunisti nell'occidente, nel quale vi erano peraltro, specie nel cuore dell'europa, partiti comunisti di grande peso e tradizione. Non vi era più bisogno, cioè, di stornare ingenti capitali pubblici per stabilizzare la situazione sociale oltre un certo limite di auspicabilità, una soglia destinata ad abbassarsi sensibilmente in assenza di pericoli imminenti. e per di più questa possibilità di liberare risorse diventava maggiormente appetibile nel quadro della transizione da un' economia industriale a una finanziaria. La crisi attuale è la manifestazione di una guerra finanziaria (Gallino), anzi della prima guerra finanziaria mondiale. Mentre Kelsen e Keynes vanno collocati dentro le coordinate teoriche dello stato sociale, schumpeter è in qualche modo un profeta del tempo presente, della crisi in atto nella democrazia occidentale. una democrazia sempre più formale, sempre più attenta alle soluzioni ingegneristiche, come l'esperienza delle

tentate riforme istituzionali insegna, e che in sostanza si limita a individuare le rotte più favorevoli di un percorso già tracciato, spesso abdicando a risolvere, e persino ad affrontare, i problemi sostanziali sottostanti: economici, sociali, etici.

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5. La crisi della partecipazione democratica - La percezione che si avverte con sempre maggiore nitidezza è che dalla crisi non si esce perché non si guarda alle sue ragioni profonde, perché il campo d'azione della politica sembra limitarsi agli aggiustamenti. e che ciò avvenga perché spostare l'attenzione sulle cause ultime può mettere a repentaglio interessi fondamentali. in particolare non si indagano le ragioni etiche della crisi, forse proprio perché le relative conclusioni sarebbero inconciliabili con lo statu quo. eppure, per molti versi, la crisi dello stato è una crisi etica. È anche il portato di una mancanza di legittimazione reciproca, che non può naturalmente essere limitata al riconoscimento incrociato delle opposte parti politiche, condizione necessaria ma non sufficiente, e che anzi se ritenuta esaustiva si può tradurre paradossalmente in un aggravamento della crisi, in un ulteriore fattore di separazione tra società civile e istituzioni politiche. La legittimazione reciproca diventa invece un fattore di crescita democratica se espressione della capacità di ascolto della politica nei confronti della cittadinanza, se i suoi canali di intermediazione e rappresentanza – in primo luogo i partiti – non sono mere cinghie di trasmissione di decisioni assunte in alto loco, ma recuperano la loro funzione di cerniera tra esigenze reali e strumenti politici. La crisi etica dello stato è anche e sopratutto una crisi di partecipazione democratica, perché la partecipazione è il presupposto indefettibile del confronto e della conseguente individuazione delle soluzioni comuni, della condivisione di un progetto di società. un progetto per tutti o per la grande maggioranza dei cittadini non può scaturire da una deriva


Antonio Casu

oligarchica, né dalla sua manifestazione estrema, la deriva plebiscitaria. inoltre, senza l’individuazione di un minimo comune denominatore etico, comune e condiviso, non si può avere legittimazione reciproca delle rispettive priorità, vissute da ciascuna parte come estranee o peggio come dannose. L’insuccesso dei reiterati e sterili tentativi di varare riforme costituzionali o riforme strutturali dell’economia è il prodotto inevitabile della mancanza di riconoscimento incrociato. senza la relazione fondamentale – giuridica ma anche etica, dunque pre-giuridica – del reciproco riconoscimento, non si potrà individuare alcun orizzonte definito cui indirizzare impegni di governo ed azione politica, e si potrà solo navigare a vista, bruciando risorse e alimentando di fatto il disagio sociale. in definitiva, non ci si può mettere d’accordo sulle misure economiche e sociali, in sostanza non si possono individuare le priorità dell’azione politica, senza una cornice di valori comuni di riferimento e senza la legittimazione dei soggetti che in quella cornice si riconoscono. e dunque, la crisi della democrazia non è solo una questione di metodo. La sola, per quanto imprescindibile, esigenza del consenso sui valori fondamentali mette in ombra la sostanza del problema e attiva quei percorsi di formazione e induzione del consenso che hanno prodotto le degenerazioni cui sopra si accennava. o, in alternativa, determina una riluttanza nei confronti del consenso stesso, con l’adozione di governi tecnici la cui azione politica non sia condizionata dalle oscillazioni del corpo elettorale. La cultura politica elitistica, in particolare quella americana, già da alcuni decenni ha compiuto la sostituzione del soggetto centrale della tesi schumpeteriana, le élites politiche, con il sistema produttivo prima e con il sistema bancario-assicurativo dopo. si ricordino al riguardo le elaborazioni concernenti il “mercato politico”, la “antropomorfica volontà dei mercati in economia” (Dogliani). La rea-

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zione allo stato sociale si esprime nella “teoria della scelta razionale” che individua il pluralismo come un ostacolo al razionale dispiegamento del mercato, e restituisce centralità all’individuo uti singulus, non in quanto parte di una comunità. Di qui l’attacco alle comunità intermedie, indebolite e delegittimate in modo progressivo. Così per partiti, sindacati, associazioni. Così anche per la famiglia. Questa teorizzazione è specularmente contraria a quella del pluralismo giuridico che, ad esempio, si ritrova nella Costituzione italiana del 1948 che, all’art. 2, “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale." Questa fondamentale disposizione, che non a caso rappresenta uno dei punti più qualificanti dell’incontro tra le principali componenti ideali e politiche del panorama italiano dell’epoca – cattolici, liberali e social comunisti – si rivela più in profondità come il punto d’incontro tra giusnaturalismo e giuspositivismo, tra personalismo e pluralismo, tra tutela dei diritti individuali e ruolo garantista dello stato. Risuonano così profetiche le parole di Giorgio La Pira il quale, nel dibattito nella Prima sottocommissione dell’ Assemblea Costituente, sosteneva le ragioni del solidarismo, in base alla quale i diritti della persona non possono essere tutelati pienamente se non si tutelano anche le comunità nelle quali la persona si realizza. La tutela di tali diritti era a suo avviso l’unica premessa di un effettivo riconoscimento dei diritti imprescrittibili dell'uomo” (seduta del 9 settembre 1946, p. 15). una posizione che trova significativo riscontro nelle tesi di Lelio basso, secondo il quale la persona non può essere giuridicamente considerata se non in funzione delle molteplici relazioni, non soltanto materiali ma anche spirituali” (10 settembre 1946, pp. 24-25). una concordanza rafforzata poi dalla convergenza di togliatti sull’ordine del giorno


La crisi della democrazia

Dossetti, che dette origine all’attuale formulazione dell’art. 2, nel quale vengono sanciti ed armonizzati tre principi fondamentali: il personalistmo, che riconosce l’anteriorità della persona rispetto allo stato; il pluralismo, che riconosce l’anteriorità delle comunità rispetto allo stato; il solidarismo, che riconosce la socialità della persona come fondamento della solidarietà sociale e dunque della convivenza sociale. Ma questo era nel 1948. La teoria critica del pluralismo individua l’espressione più alta della libertà personale nel mercato, capace di esaltare la capacità di scelta razionale dell’individuo. il mercato è il luogo privilegiato della sua libertà di espressione. il presente è figlio di Mandeville, non di Rousseau, ma neanche più di schumpeter. il rapporto è tra individuo e mercato, il rapporto tra società civile e istituzioni politiche, di derivazione hegeliana, è da considerarsi archiviato. Le istituzioni politiche sono dunque considerate un peso sociale, da cui emanciparsi, al pari delle religioni, almeno nella loro pretesa di richiamarsi a valori universali. oggi, il luogo di aggregazione e riconoscimento comunitario, delle famiglie come delle amicizie, il luogo dove trascorrere il tempo libero (residuo) non sono più le cattedrali, ma i centri commerciali. si approda così alla post-democrazia (Crouch). La forma della democrazia può essere mantenuta, il problema diventa la partecipazione democratica. il favore va dunque alle tecnocrazie, specie sovrannazionali e transnazionali, a quelle politiche e intergovernative come a quelle economico-finanziarie. un processo accompagnato da un uso funzionale dei mass media, volto ad alimentare la disaffezione politica e il riflusso nel privato, oscurando le ragioni del disagio sociale ma enfatizzandone la cronaca, che a sua volta alimenta insicurezza diffusa e richiesta di protezione. Questo processo di atomizzazione sociale, controbilanciato funzionalmente

da potenti fattori di riaggregazione soprattutto nel campo dell’informazione, trova riscontro nella creazione di un sistema di valori che delegittima in radice l’impianto su cui si è eretta la civiltà europea e poi quella occidentale, non fondando il merito sulle virtù, la cui utilità è sostanzialmente rigettata, ma sulle aspettative individuali, che incontrano il pieno riconoscimento giuridico. i tradizionali fattori di coesione sociale – solidarietà, volontariato ecc – sono tollerati nella misura sufficiente a stabilizzare il mercato. Non la virtù, ma il desiderio è non solo la molla che determina lo sviluppo, ma anche la misura della legittimazione comunitaria. Le virtù tradizionali sono delegittimate anche mediante un processo di sostituzione lessicale: si dice buonuomo per indicare colui che è privo di determinazione o di mordente, onesto funzionario per chi è privo di carattere e non sa imporsi, la qualifica di furbo si attaglia a persone che riscuotono ammirazione, e via dicendo. Per la stessa ragione, all’opposto, i difetti del passato divengono i pregi del presente, in particolare la competitività. Appunto, una caratteristica fondata sulla concorrenza, sul conflitto interpersonale, l’antitesi della condivisione, della solidarietà. in questa erosione etica della democrazia affondano le radici della sua crisi, il suo indebolimento interno e strutturale, la sua difficoltà di risolvere i problemi sociali di masse sempre più vaste e impoverite. La post-democrazia rischia di risolversi in una sostanziale oligarchia sovrannazionale, che segnerebbe la sua fine. La partecipazione democratica, il recupero di ruolo delle comunità intermedie, il ripristino di una rigorosa selezione delle classi dirigenti, nuove forme di responsabilità sociale diffusa sono gli antidoti per un risanamento necessario, per una democrazia autorevole, sostenibile, efficace.

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Angelo G. Sabatini

menti in gioco, che possono svilupparsi Angelo G. Sabatini Di alcuni fattori critici della a favore dell’interesse personale o di gruppo e/o a favore del bene comune. democrazia in Italia Molti sono i fattori di crisi che inquinano la vita politica italiana e incidono persino sui principi di base del sistema democratico. e non occorrono molti sforzi per rendersene conto. sono sotto gli occhi di tutti. La saggistica politica se ne nutre in abbondanza e i mezzi di informazione ne fanno uso quotidiano. Fattori che emergono alcuni in forma evidente ed altri vanno fatti emergere e posti alla superficie della nostra attenzione individuandone il ruolo non secondario nella configurazione delle funzioni che essi svolgono nella percezione della gravità della crisi. Non è difficile rendersi conto che a turbare il processo di crescita della transizione del Paese verso una democrazia matura intervengono certamente a) il solco che separa la teoria critica di una visione politica con fondamento democratico e l’uso improprio che ne fanno i designati dal corpo sociale a realizzarla; b) la difficoltà a gestire correttamente il principio della maggioranza in rapporto collaborativo con i diritti della minoranza; c) la condizione ormai conflittuale del rapporto della giustizia con il cittadino e con i politici. tre motivi di una più vasta rassegna su cui occorrerebbe porre attenzione prima ancora di poter immaginare una terapia di risanamento di una società politica “malata”.

a) Il distacco tra teoria e prassi - Nella lunga esperienza di docente di filosofia morale, prima, e di filosofia politica, dopo, mi si è offerta spesso l’occasione di poter iniziare le conversazioni con gli studenti con due affermazioni di sapore apodittico: la riflessione che il filosofo presenta ai giovani interlocutori è di tale natura teorica da legittimare l’aspirazione “utopica” ad uno stato perfetto, dove l’organizzazione del potere segue il principio della razionalizzazione degli ele-

un tale assioma molto spesso sovrasta la attualità dell’azione politica fino a tradursi, in momenti di crisi, in strumento di legittimazione del “bene individuale”. una teoria del potere che voglia salvaguardare lo schema democratico della sua organizzazione fattuale deve poter far coincidere il bene comune con quello individuale. La storia delle teorie politiche ispirate a tale principio è dominata da una constatazione: tra teoria e prassi c’è un divario ricorrente motivato dal fatto che la sintesi non è automatica, come la teoria o la speranza potrebbe portarci a credere. il tassello di congiunzione è nell’uso che gli uomini fanno di quell’istanza sapendo costruire mezzi e strumenti adeguati al progetto di una società così desiderata. una capacità che si coltiva solo sul terreno della conoscenza (cultura) surrogata dalla coscienza (etica). se questo assioma si trasforma in uno strumento di analisi della condizione della vita politica del nostro Paese il risultato è la constatazione che all’origine della crisi c’è una deficienza di cultura e di eticità. Di qui il ritornello di saggisti politici e di comunicatori pubblici nel sentenziare il vulnus prevalente nella crisi della politica. essi assommano in un’unica ragione della crisi, ormai endemica, della società politica l’instabilità economica con deficienza di cultura politica, che in questo caso si identifica con l’insufficienza di cultura economica, non nel senso di mancanza di sapere economico bensì nel senso di valutare l’azione politica dell’economia al di qua o al di là delle ragioni che presiedono al valore dell’azione economica rispetto al progetto politico che dovrebbe guidare l’azione di governo. e’ in gioco, certamente, l’idea che l’ economia sia un corpo di principi formali che operano nel cuore dell’azione economica in autonomia rispetto al progetto politico. e’ di fatto su questa

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convinzione che nasce e si afferma l’ economia liberista: una teoria che trova opposizione in una teoria sociale dell’ economia che all’azione economica collega l’accortezza di un riferimento politico e/o progettuale che solo la cultura politica, la politica, può offrire. La cultura senza politica è vuota, la politica senza cultura è cieca, un aforisma che può essere integrato con quest’altro, non diverso ma connesso: l’economia senza politica è cieca, la politica senza economia è vuota. La traduzione dell’istanza di congiunzione in efficienza è opera della preminenza su di esse della cultura, che non è astrazione ma concretezza sociologica e antropologica. Questa istanza ove è disattesa rende sterile la politica, la priva di un sostegno etico nei fini e nei mezzi. Connesso con il tema della mancanza di una cultura politica quale origine della crisi c’è l’altro paradosso che concerne una teoria democratica dello stato sia nella forma “diretta” che in quella “rappresentativa”.

b) La dittatura della maggioranza La democrazia nella sua funzionalità è numero, vale a dire che funziona partendo dal risultato di un gioco numerico dove il diritto di governare è conseguente ad un risultato di un confronto espresso in valore di numero, dove 2 vale più di 1, un 2 che, in quanto tale, acquisisce il diritto di governare assumendo per sé i benefici di rappresentare una maggioranza di fronte all’1 che subisce il ruolo di minoranza. tutto ciò che segue in un sistema di governo democratico è la traduzione in prassi di governo dell’assioma fondante il sistema. sancita formalmente la diade maggioranza-minoranza nessuno può disconoscerne la legittimità; la critica può funzionare e incidere sulla struttura diadica dell’atto costitutivo del sistema democratico prima del confronto tra i contendenti che, nella gara a posizionarsi nella condizione del vincitore (2),

lavora sul consenso dei partecipanti. A risultato testato resta per 1 il rammarico di non essere riuscito a convogliare il consenso di uno del 2 per avere così la maggioranza. Ai fini della validità del risultato conta poco se i 2 sono poco coscienti del voto che esprimono mentre l’1 ha un grado di cultura politica particolarmente sviluppata. e’ evidente che in una maggioranza nata da un consenso carente di coscienza politica la gestione del potere è sottoposta a rischio: per esempio, uno dei rischi più pericolosi per la vita del Parlamento è la “tirannide della maggioranza” di tocquevilliana memoria che agirebbe a favore del 2 con il disconoscimento dei diritti dell’1 (minoranza). un fenomeno che noi riscontriamo in modo subdolo nel potere dell’ultimo governo della maggioranza di destra. si è imposta una forma di gestione del mandato parlamentare governato da una maggioranza, con programmi lesivi del ruolo della minoranza, facendo con ciò perdere alla nozione di maggioranza parlamentare il suo significato storico gettando alla deriva la democrazia (stefano Rodotà, 18 aprile 2011). La domanda che dobbiamo però concretamente porci è: fin dove una maggioranza può spingere il diritto di legiferare, conquistatosi con il consenso popolare? Quali sono i diritti che la minoranza può avanzare con una efficacia tale da limitare la tirannide della maggioranza? Domande complesse su cui la scienza politica si esercita quotidianamente e ancor più oggi che la democrazia, come sistema di governo, dà segni evidenti di crisi e la sua gestione rivela una evidente incapacità di salvaguardia dei principi basilari di un sistema democratico. trattasi di una questione che può trovare una risposta sintetica ed efficace facendo ricorso al buonsenso: occorre che a governare sia una maggioranza sana, eticamente alimentata e culturalmente forgiata; e ciò è possibile se i 2, la fonte della formazione di una maggio-

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ranza, hanno una cultura politica adeguata alla funzione che essi dovrebbero esercitare nel sistema democratico. Certo si tratta di un processo di formazione culturale lento non attuabile nell’occasionalità di un appuntamento elettorale, realizzabile invece con i focolai di cultura che la scuola e i mezzi di comunicazione (vecchi e nuovi) offrono al cittadino. se questo suggerimento serve poco nel presente immediato aiuta però a cogliere la natura della crisi della democrazia italiana. una deficienza di cultura politica aleggia come ragione della crisi assieme ad un altro sintomo preoccupante: il conflitto ormai permanente tra giustizia (magistratura) e politica (politici).

c) La giustizia in una società politica “malata” - L’atteggiamento che oggi si assume di fronte ai problemi dell’amministrazione della giustizia è più frutto di un “sentimento” politico piuttosto che uno stimolo a razionalizzare la funzione del diritto nei confronti del cittadino imputabile di atti ritenuti illegali valutati alla luce delle norme ritenute elementi regolatori del vivere civile. C’è in atto la tendenza a guardare il valore e l’azione della norma giuridica in funzione del soggetto cui va applicata e non nella funzione che essa esercita come elemento regolatore del giudizio. si dimentica che il valore del diritto, e conseguentemente dell’azione giudiziaria, è efficace in quanto rappresenta la salvaguardia della convivenza civile e determina la sanzione (amministrativa o penale) in funzione del capo di imputazione cui viene sottoposto a seguito di un’azione ritenuta imputabile. e’ un meccanismo procedurale che non suscita curiosità o reazione scomposta allorché l’imputazione è riferita a un individuo di scarsa notorietà. in questo caso il comportamento della magistratura non viene sottoposto a valutazione di dissenso radicale intriso di vittimismo o di persecuzione giudiziaria, fatta salva la tendenza psicologica dell’imputato a

ritenere la legge troppo severa o le decisioni del giudice ispirate ad una severità eccessiva allorché sceglie la sanzione col massimo della pena. Non è un caso che l’interesse dell’opinione pubblica, rispetto al comportamento della giustizia, è pressoché nullo e i mezzi di comunicazione non ritengono degno di attenzione l’evento in gioco. Quando invece l’imputazione è rivolta a un soggetto-attore della scena pubblica cresce l’interesse e gli elementi in gioco si caricano di significati di forte rilievo e le componenti della scena vengono enfatizzate: l’imputato, nel tentativo di sfuggire alla pena e di salvare la propria immagine, mette in gioco le conseguenze che l’atto giudiziario determinerebbe per la propria vita e con ciò tende inevitabilmente a rovesciare l’ordine di valore esistente tra giudice e imputato e il valore della legge viene determinato più in funzione delle conseguenze sull’imputato e sulla sua esistenza, sull’ambiente di cui è un esponente di spicco, che non in funzione del necessario rigore richiesto al giudice nell’applicare la legge. Dal punto di vista delle conseguenze psicologiche che si riversano sull’imputato sottoposto a giudizio si crea un clima di tensione alta che spesso si configura come valutazione negativa dell’azione del giudice, considerata carica di subdola decisione di una volontà indirizzata alla ricerca di rigore e neutralità, quasi indifferenza, nei confronti delle conseguenze che un verdetto severo opera sull’imputato specialmente quando è un personaggio rappresentativo di una comunità sociale. va comunque ribadito che la giustizia, posta di fronte a due imputati, diversi per ceto sociale e rappresentativi di due distinti ambienti, non può nel riferimento alle leggi e nella sua applicazione assumere diversa determinazione, né può essere influenzata da poteri diversi dall’unico cui deve attenersi: il potere della legge che per essere efficace deve procedere garantito dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, la

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cui funzione è quella di assicurare due principi fondamentali: principio di uguaglianza e principio di legalità. il primo può essere riassunto in quel distico che campeggia nelle aule di giustizia “La legge è uguale per tutti” cui possiamo aggiungere “sia che l’imputato è un semplice cittadino e sia che porti il nome di un personaggio influente nella vita sociale”. il secondo, il principio di legalità, ci ricorda che può essere soltanto la legge (e chi l’applica) a determinare chi debba essere punito e chi debba andare esente da pena, non può dipendere da una scelta economica o politica. il luogo dove si determina la legalità dell’applicazione dell’obbligatorietà dell’azione penale è nei tribunali e non nelle rappresentazioni teatrali di processi gestiti da anchormen con ospiti che spesso sono lontano dai codici e vicini agli imputati o nelle pagine di giornali dove i processi sono pasto di giornalisti famelici alla ricerca di notizie da offrire in pasto all’opinione pubblica che confonde l’arena della giustizia (i tribunali) con quella dello sport (stadi). All’opinione pubblica va fornita l’immagine della giustizia come quella di una macchina razionale alla cui funzionalità contribuisce la lunga messa a punto che il legislatore opera per renderla adeguata alle variabili del tempo, e non per relativizzarla ma per renderla più edotta sui nuovi metodi di indagine e sulle forme nuove che il crimine assume. un processo utile all’operatore giudiziario, il quale non può indirizzare in nessun caso il suo giudicare a favore dell’imputato, ove sussiste una responsabilità evidente nel suo operato. il meccanismo strutturale della dimensione culturale chiamata giustizia non consente alcuna deroga all’obbligo di valutare il comportamento del cittadino sospettato di un’azione penalmente perseguibile. Non si richiede grande cultura giuridica per capire tutto questo. Del resto a ricordarcelo c’è il titolo iv (La Magistratura) della Costituzione della

Repubblica italiana che nell’art. 104 richiama espressamente l’autonomia e indipendenza da ogni altro potere. inoltre all’art. 111 viene assicurata al cittadino la regolarità del processo attraverso comportamenti del magistrato a favore della formazione della prova pro o contro l’imputato. Contro coloro che parlano di accanimento giudiziario verso personaggi esposti socialmente e danneggiati nella considerazione degli altri cittadini o di fronte alle istituzioni c’è l’art. 3 della Costituzione: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. in questo senso ogni azione tesa a creare un distinguo ai fini dell’applicazione dell’”immunità” è a rigore opinabile anche se costituzionalmente, in caso di parlamentare, legittima. una chiave utile per capire bene il gioco ricorrente di contrasto tra giustizia (magistratura) e politica (politici), che invade il dibattito politico odierno è proprio questo articolo che ci spinge ad avere chiara la necessità di non valutare l’azione della giustizia come dovere di una maggiore apertura verso le ragioni di un politico rispetto ad un cittadino qualunque. se nell’aula di un tribunale siedono il sig. Rossi (cittadino qualunque) e il sig. berlusconi (politico di spicco) nessuno potrà sollecitare il collegio giudicante ad un comportamento diseguale. La struttura dell’azione giudiziaria, così come la Costituzione la designa, è una garanzia per la giustizia e per l’imputato. Del resto il diritto concesso a qualsiasi imputato di richiedere un più approfondito ricorso ad un grado di giudizio superiore rappresenta la volontà della giustizia di pervenire ad un giudizio esaustivo di fronte al quale nessun imputato possa sentirsi danneggiato nella dignità della propria persona anche quando è sua convinzione che il verdetto risulti ingiusto e punitivo.

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Nonostante la chiarezza procedurale definita dalla Costituzione e dalle leggi attuative che il Parlamento emana per una maggiore aderenza dell’azione giudiziaria ai tempi storici, l’immagine che della giustizia oggi alimenta l’opinione pubblica è confusa. si assiste a un crescente atteggiamento di insoddisfazione nei confronti del sistema giudiziario con una magistratura che travalicherebbe il terreno della propria competenza per sconfinare nel limitrofo infido spazio della politica spingendo qualche critico disavveduto a parlare di “giustizia giustizialista”. e ciò in conseguenza di un conflitto ormai permanente grazie alla rete di relazioni sempre più critiche tra la magistratura e il comportamento da parte della classe politica non sempre ispirato alla difesa del bene comune. La frequenza con cui la magistratura nel rispetto del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale è sollecitata ad intervenire su fatti penalmente perseguibili, connessi alla vita di politici e istituzioni pubbliche, ha favorito l’immagine di una magistratura superesposta al giudizio del pubblico e fatta bersaglio della classe politica. Questa, chiamata in causa nel sospetto di comportamenti illegali, erge una barriera di difesa in nome di una prerogativa, dal sapore incerto, assunta come strumento di difesa del diritto di esercizio dell’immunità. un diritto che pone in difficoltà la giustizia allorché il privilegio di cui un cittadino “particolare” gode non le consente di esercitare pienamente in autonomia la sua funzione. il disagio in cui la giustizia viene a trovarsi di fronte alla situazione di privilegio di un gruppo di potere porta la magistratura ad agire con maggiore determinazione per evitare che quel privilegio possa creare ombra di comportamento scorretto. Del resto quanto più il contrasto è acuto tanto più è in pericolo il principio fondante di un sistema democratico: la divisione e l’autonomia dei poteri, creando così un

motivo di sicura crisi del sistema democratico. e’ evidente che di tutti i fattori che concorrono alla crisi politica della democrazia italiana il rapporto critico, oggi conflittuale, tra magistratura e politica è uno dei fattori più incisivi. Dietro di esso si collocano il problema della moralità pubblica, la sfiducia dei cittadini verso le istituzioni, il problema di un ordine pubblico incerto, l’autodisconoscimento da parte del cittadino del diritto di essere artefice della designazione del proprio rappresentante in Parlamento, non ultimo l’aumento progressivo dell’astensionismo elettorale. L’italia è collocata in una evidente situazione di deficienza di democrazia che alla pressione di una crisi materiale, economica e sociale, nazionale e internazionale, aggiunge fattori culturali e di etica pubblica. si parla molto di società civile, riponendo in essa la speranza di un cambiamento di rotta per correggere l’attuale società politica. Ma dove sono i frutti di questa attesa e quale incidenza hanno i movimenti e le poche azioni portate avanti in nome della società civile? i fatti dimostrano che ad una società politica fortemente in crisi non se ne sostituisce un’altra, foriera di progresso civile. occorre che i portatori di questa istanza di novità lavorino a restituire all’uomo lo spirito del progresso che l’avvento di una cultura senza coscienza etica ha mortificato nel compiacimento ormai diffuso di vedere spente le ideologie propositive e progettuali, favorendo con ciò una società edonistica imbevuta di falso relativismo, persino ormai nella cultura giuridica. se il compito della politica è quello che la società occidentale ha faticosamente cercato e definito come democrazia dei diritti e dei doveri nel compito di dare forma e sostanza ad una società “felice”, occorre che il presente, distratto dalla corsa in avanti, non perda il contatto con quell’idea positiva di azione politica che negli ultimi tempi ha subìto attacchi pressanti e che, nonostante tutti, resta ancora il faro di una società democratica.

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Per una democrazia governante

Luciano Pellicani Per una democrazia governante

La Repubblica continua ad essere una tipica democrazia assembleare, caratterizzata, come tutte le democrazie assembleari, dalla cronica incapacità di avere solidi governi di legislatura. tanto vero che l’età media dei governi del periodo 1994-2012 è risultata essere quasi la stessa dei decenni precedenti. e’ accaduto che l’ultima legge elettorale, che, secondo i suoi sostenitori, avrebbe dovuto porre fine al gioco delle crisi parlamentari a catena, pur producendo una spinta al bipolarismo, non ha dato quello di cui la Repubblica ha urgentemente bisogno: governi stabili ed efficaci. oggi sembra che l’ordine del giorno della politica, in materia, lo si voglia ristretto alla sola questione elettorale. Ma bisogna convincersi che non è sufficiente cambiare legge elettorale per sbarcare a Westminster. il bipartitismo non lo si improvvisa: nasce – quando nasce -- dai tempi lunghi della storia, attraverso la formazione e il consolidamento di aggregazioni di fedeltà nell’opinione pubblica e nell’elettorato. Ma se si vuole interpretare e concretizzare una esigenza espressa dall’elettorato, occorre muoversi verso una riforma costituzionale che modifichi la logica sintattica del sistema, di modo che cessi di essere una democrazia assembleare frammentata, permanentemente alle prese con il problema della governabilità, e diventi una democrazia governante. vale a dire una democrazia con un esecutivo dotato di quei poteri decisionali che sono necessari per governare una società attraversata da parte a parte dalla rivoluzione permanente generata dalla sinergia fra il mercato, la scienza e la tecnologia. Molti sono stati, nel corso degli ultimi decenni, i modelli di riforma di governo proposti, per lo più traendo ispirazione da quelli vigenti in altri Paesi. Nessuno di essi, però, – anche a prescindere dalla loro concreta applicabilità e dai diversi

effetti che essi possono produrre in contesti diversi da quelli nei quali hanno già trovato applicazione – risulta essere soddisfacente ai fini dei risultati che nella situazione italiana si vogliono ottenere e che mirano, prima di tutto, a superare lo stallo nelle capacità di decisione democratica consentite dal sistema e a offrire all’esecutivo tempi e poteri sufficienti alla realizzazione di un programma politico. Non è soddisfacente il modello presidenzialistico americano, che alcuni vorrebbero trapiantare nel nostro Paese. e ciò per almeno due ragioni. La prima, è che il sistema americano risulta essere efficace solo se lo si guarda dall’esterno, cioè solo se si prendono in considerazione le decisioni di politica estera, sulle quali le divergenze fra il Presidente e il Congresso sono, di regola, rare o comunque di modesta rilevanza. Ma, una volta che si esamini il presidenzialismo americano dall’interno, è difficile non convenire con Lester thurow quando lo definì un “sistema a somma zero”. un solo dato è sufficiente per toccare con mano la natura semi-paralitica del sistema politico americano: negli ultimi decenni, solo la metà dei provvedimenti dell’esecutivo sono stati approvati dal Congresso. La seconda ragione che milita contro il presidenzialismo alla americana è che esso potrebbe portare alla paralisi totale, una volta che fosse calato in un contesto politico come il nostro, caratterizzato dalla presenza di partiti fortemente strutturati e disciplinati. infatti, mentre negli stati uniti, dove è praticamente sconosciuta la disciplina di partito, il Presidente ha la possibilità di “passare” il Congresso convincendo i singoli parlamentari ad approvare i suoi provvedimenti, ciò non è neanche immaginabile nei Paesi della unione europea. in italia, poi, ove ciò accadesse, sarebbe ferocemente criticato come bieco “trasformismo”. Da noi un Presidente-Capo dell’esecutivo potrebbe governare solo a condizione di godere di una solida e

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Luciano Pellicani

compatta maggioranza; solo a condizione, cioè, che il Presidente e la Maggioranza parlamentare fossero espressione delle stesse forze politiche. il fatto è che ciò che caratterizza in maniera forte le democrazie moderne è che in esse esiste uno stretto nesso fra il Legislativo e l’esecutivo. L’esecutivo governa traducendo gran parte delle sue decisioni in leggi. il che significa che un esecutivo governante è impensabile senza il consenso del Parlamento e che, di conseguenza, quando tale consenso viene a mancare, il risultato inevitabile è la paralisi decisionale. Per questo il modello americano è improponibile in un Paese, come il nostro, nel quale le principali forze politiche sono regolate da una rigida disciplina di partito, del tutto sconosciuta negli stati uniti. Più adatto al contesto politico europeo sembra essere il sistema semi-presidenziale, il cui prototipo è il sistema francese. e’, questo, come si sa, un sistema misto, basato sulla compresenza di alcuni elementi tipici del presidenzialismo con altri tipici del parlamentarismo. in Francia questo sistema ha dato, finora, buoni risultati e, proprio per questo, molti in italia guardano ad esso come un modello da imitare o comunque da tenere presente nell’opera di ristrutturazione dell’assetto istituzionale della Repubblica. Giovanni sartori lo ha autorevolmente difeso con energia, ma non senza sottolineare il fatto che il semi-presidenzialismo lascia sul tappeto problemi non risolti e che può palesarsi una certa fragilità. essendo un sistema diarchico, nel quale sono previste due “teste”, esso può sfociare in un paralizzante conflitto di autorità. Comunque, il fatto che il semi-presidenzialismo abbia portato la Francia fuori dalle secche della Quarta Repubblica, considerata dalla dottrina la più tipica delle democrazie assembleari, dà torto a coloro che pensano che ogni progetto riformatore sia destinato all’insuccesso, essendo i vizi della vita politica italiana espressione insopprimibile del carattere nazionale.

La Quinta Repubblica sta lì a testimoniare che l’ingegneria istituzionale, se utilizzata con intelligenza, può essere in grado di modificare efficacemente la logica sintattica di un sistema politico. il che dovrebbe essere più che sufficiente per convincere anche gli scettici che, modificando i congegni istituzionali, si può trasformare la nostra democrazia assembleare in una democrazia governante. A questo punto occorre contrastare con la massima energia un dogma che nessuno osa discutere, e cioè che l’attuale legge elettorale – non a caso battezzata Porcellum – è la causa della crisi nella quale è scivolata la vita politica nazionale. segue come un’ombra un secondo dogma: che si potrà uscire dall’impasse in cui si trova la nostra democrazia solo a condizione di abolire il Porcellum. Questi due dogmi sono stati recentemente ribaditi da stefano Passigli sulle colonne del “Corriere della sera” e così argomentati: “il Porcellum non dà nessuna certezza che consenta almeno una sicura governabilità. in ben 3 elezioni (2006, 2008 e 2013) solo in un caso il voto per la Camera e senato ha espresso la stessa maggioranza politica”. Ma siamo proprio sicuri che l’assenza di una sicura governabilità dipende dall’attuale legge elettorale? Non è forse più logico pensare che il “difetto” stia altrove? e precisamente nel sistema bicamerale “strabico” adottato dal Costituente? Quale legge elettorale potrà impedire la paralisi istituzionale, se, per la formazione di un governo, occorre la duplice fiducia da parte di due assemblee elette su basi diverse? L’articolo 57 della Costituzione dispone che, per il senato, i seggi vanno assegnati “a base regionale“. A ciò si deve aggiungere che il corpo elettorale delle due assemblee è differenziato in base all’età: per esercitare il diritto di voto occorre aver compiuto 18 anni per la Camera, 25 anni per il senato. stando così le cose, non è certo sorprendente che si produca il fenomeno della doppia maggioranza, con l’ ine-

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Una democrazia senza partiti?

vitabile conseguenza che sia impossibile formare un governo. il “difetto” – non lo si ripeterà mai abbastanza – sta nel bicameralismo “strabico”, non già nella legge elettorale. Prova ne sia che, qualora non fosse stata necessaria la doppia fiducia, noi oggi avremmo – proprio grazie al vituperato Porcellum – una maggioranza di governo alla Camera. ora, se effettivamente il rischio della paralisi istituzionale dipende dal bicameralismo “strabico”, allora è imperativo manomettere i dispositivi costituzionali con un preciso obbiettivo: eliminare la doppia fiducia. si tratta di differenziare e le funzioni e i poteri dei due rami del Parlamento. Ciò potrebbe ottenersi in modi diversi. Per esempio, il senato potrebbe essere trasformato in una Camera delle Regioni, eletta, per l’appunto, su basi regionali e con poteri specifici e limitati. oppure – prendendo a modello il sistema britannico e quello spagnolo – il senato potrebbe essere trasformato in una ”camera di riflessione”, dotata solo di potere di veto sospensivo, ma non di potere legislativo. in tal modo, non solo verrebbe scongiurato il rischio di un Legislativo a doppia maggioranza e quindi paralizzato e paralizzante, ma tutto il processo di produzione delle leggi risulterebbe molto più rapido. sparirebbe, infatti, quel fenomeno – il continuo ed estenuante andirivieni delle leggi fra i due rami del Parlamento – che ha afflitto, sin dalla sua nascita, la Repubblica.

Giuseppe Cantarano Una democrazia senza partiti?

i partiti costituiscono un sorprendente meccanismo “in virtù del quale – scriveva simone Weil in un libro pubblicato nel 1950, sette anni dopo la sua morte – in tutta l’estensione di un Paese, non uno spirito dedica la sua attenzione allo sforzo di discernere, negli affari pubblici, il bene, la giustizia, la verità. Ne risulta che

– eccezion fatta per un piccolo numero di coincidenze fortuite – vengono decise e intraprese soltanto misure contrarie al bene pubblico, alla giustizia e alla verità. se si affidasse al diavolo – proseguiva simone Weil – l’organizzazione della vita pubblica, non saprebbe immaginare nulla di più ingegnoso. se la realtà è stata un po’ meno cupa, questo è accaduto perché i partiti non avevano ancora divorato ogni cosa” (Manifesto per la soppressione dei partiti politici, Castelvecchi 2008, p. 24). No, i partiti non sono stati soltanto così come li dipinge simone Weil. Hanno socializzato la politica. Hanno “culturalizzato” le masse. Favorendo il loro ingresso nello stato. i partiti sono stati strumenti formidabili di liberazione, di emancipazione. Di lotta contro le disuguaglianze. e le ricorrenti ingiustizie. Guai a dimenticarlo. Ma oggi hanno cessato di essere – e di fare – tutte queste cose. sono perlopiù dei gusci vuoti. A corto di consenso. Delegittimati moralmente. Con una classe dirigente mediocre. spesso incline alla corruzione. o quantomeno, all’irresponsabilità. Che il partito politico sia oggi in crisi, è un fatto. e contro i fatti – come recita l’adagio – è stupido polemizzare. Come spesso sembrano stupidamente polemizzare i leader dei nostri partiti. Diventati, improvvisamente, tutti nichilisticamente nietzscheani. tutti, cioè, fermamente – e “filosoficamente” – pronti a negare la prosaica, aspra realtà dei fatti. Al posto dei quali vi sarebbero soltanto ed esclusivamente verbose interpretazioni, come diceva il filosofo tedesco. i fatti, invece, ci sono eccome. e bisogna cercare di comprenderli. studiandone i vari aspetti. Le implicazioni. e quello della crisi dei partiti politici è un fatto. Di cui bisogna prendere finalmente – e serenamente – atto. Non si tratta – diciamolo subito, per evitare equivoci – di una crisi episodica. Contingente. Legata alla specifica congiuntura italiana. Alla sua cosiddetta “transizione”, come si dice ormai stucchevolmente da un ventennio. La verità

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Giuseppe Cantarano

è che il sistema dei partiti politici vacilla e si sgretola un po’ in tutta europa. Dove più dove meno. Più in italia, a dire il vero. Dove il novantacinque per cento delle persone – secondo un recente sondaggio – non mostra nessun fiducia nei partiti politici. Percepiti come chiuse, autoreferenziali oligarchie. Caste - come ormai si dice - che vivono di privilegi. Arroccate dentro il Palazzo, come diceva Pasolini. Lontane e separate dai cittadini. La crisi dei partiti politici sembrerebbe essere, innanzitutto, una crisi di consenso elettorale. Crisi di fiducia, in altri termini. un fenomeno fisiologico nelle democrazie cosiddette mature. L’astensionismo – anche in italia, ormai, dove tradizionalmente è stata sempre altissima la partecipazione al voto – non solo tende progressivamente a crescere. Ma è diventato ormai il “partito” maggiore. Lo abbiamo visto nelle recenti elezioni amministrative e politiche. i partiti politici, insomma, non sono più in grado di intercettare il consenso. e se smettono di intercettarlo non potranno, evidentemente, indirizzarlo, veicolarlo nelle istituzioni. Come recita la nostra Costituzione. Fisiologica crisi di consenso, dunque. e non ci sono dubbi. Ma la fisiologica crisi di consenso – ecco il punto – non è circoscrivibile semplicemente all’inadeguato dispositivo elettorale (porcellum, mattarellum ecc… ). Come si affrettano – semplificando – a sostenere non solo i leader politici. e si capisce perfettamente perché. si capisce francamente meno che a sostenerlo siano politologi di vaglia, diciamo pure così. e costituzionalisti trasformatisi ormai tutti in ingegneri istituzionali. Coloro, cioè, che la studiano, la politica. Per rendercene meno oscure le dinamiche. Maggiormente comprensibili le logiche. La fisiologica crisi di consenso, invece, non può che comportare una ineludibile e patologica crisi di legittimazione democratica. Non può che estroflettersi, insomma, sulle stesse istituzioni. Mettendone a repentaglio la rappresen-

tanza. soprattutto nelle democrazie parlamentari. Come la nostra: quale sovranità e legittimazione - potrà avere un parlamento, espressione diretta di un sistema di partiti che non riscuote più alcuna fiducia dai cittadini? soggetti pressoché unici della legittimazione politica – come osserva Marco Revelli – i partiti politici “non riescono più a trattenere stabilmente i propri “mandanti” – a garantire la delega, a strutturarne con continuità l’appartenenza – trasferendo in misura preoccupante la propria crisi alle stesse istituzioni che dovrebbero, appunto, legittimare” (Finale di partito, einaudi 2013, p. iX). e mentre il consenso si può sempre populisticamente inseguire e in qualche modo riacciuffare, la crisi di legittimazione democratica può decretare davvero la fine, l’estinzione dei partiti politici. Diciamolo con altre parole: mentre la fisiologica crisi di consenso si può curare facendo ricorso a dispositivi autoimmunitari – leggi elettorali, autoriforma dei partiti, effettiva trasparenza dei loro bilanci, maggiore democrazia interna –, alla patologica crisi di legittimazione democratica nessuna strategia terapeutica è in grado, francamente, di porre rimedio. Che i partiti politici possano – o siano destinati a – finire, è nell’ordine delle cose di questo mondo. identificatisi strettamente con la storia del Novecento, perché mai dovrebbero sopravvivere, se non è sopravvissuta la novecentesca fabbrica fordista? se non è sopravvissuto il novecentesco lavoro operaio di massa? Non è forse vero che la crisi dell’organizzazione produttiva fordista di massa ha comportato nuove articolazioni organizzative meno centralizzate e – come direbbe Zygmunt bauman – più “liquide”? Non è forse vero che gli impetuosi processi di globalizzazione – economici, finanziari, culturali, scientifici – rendono ormai inadeguata la cosiddetta democrazia dei partiti? Che si è storicamente configurata all’interno degli stati-nazione? Con le loro

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Una democrazia senza partiti?

pervasive e massicce burocrazie pubbliche? Come si può francamente credere che nell’ epoca del “finanzcapitalismo” (Luciano Gallino), del “turbo-capitalismo” (edward Luttwak), possa resistere una forma politica che ha il baricentro su un modello di partito del Novecento? e tuttavia, se tutto questo è vero, è pur vero che – per parafrasare Norberto bobbio – una democrazia oltre i partiti facciamo ancora fatica a immaginarla compiutamente. sebbene non sia del tutto impossibile tratteggiarne il profilo. Del resto, negli ultimi vent’anni in italia si sono succeduti ben quattro governi cosiddetti “tecnici” – Ciampi, Dini, Amato, Monti – che di fatto hanno sostituito la funzione politica. tradizionalmente svolta dai partiti. e l’hanno sostituita – si badi bene – nei più acuti momenti di crisi. Di fronte ai quali i partiti – diciamolo pure: pavidamente – arretrano, si mostrano inadeguati. e invocano il soccorso dei tecnici. Ai quali cedono consapevolmente e volentieri lo scettro. insomma, non è la tecnica che pervicacemente, autoritariamente impone il proprio dominio sulla politica, come si sente ripetere. Ma è la politica – l’ esausto sistema dei partiti – a delegare il suo potere alla tecnica: è fisiologico questo comportamento in una democrazia moderna? e’ fisiologico che in una democrazia i partiti rinuncino – si badi bene: volentieri e consapevolmente – al monopolio del processo di rappresentanza politica? ben quattro esperienze di governo dei tecnici – oltre i partiti nel giro di un ventennio: chi, senza sprofondare nel ridicolo, può ragionevolmente parlare di fisiologici intervalli, di fisiologiche e brevi parentesi? ormai, a ripetere un po’ noiosamente, come in una filastrocca, che senza i partiti non c’è democrazia, guarda caso, sono rimasti solo i leader dei partiti. evidentemente. tutti fermamente concordi – dal centrodestra al centrosinistra – nel rivendicare la centralità tolemaica dei partiti. ignorando – o facendo finta di ignorare – che c’è stata la “rivoluzione copernicana”. Che ha decentrato la tradizionale funzione politica dei partiti. Non solo. Ma la vecchia

cantilena, volta a identificare la democrazia con il sistema dei partiti, non tiene conto che la democrazia moderna si costituisce – idealmente e politicamente – molto tempo prima della nascita dei partiti di massa. e del loro monopolio della rappresentanza politica. Chissà, potranno forse continuare sopravvivere, i partiti. o meglio: le macchine elettorali a cui oggi sono ormai ridotti. A patto che prendano serenamente atto che quel loro monopolio si è ormai definitivamente consumato. Concluso. e’ ormai alle nostre spalle. e che dovranno condividere la funzione della rappresentanza – e la formazione del consenso e della partecipazione – con altri soggetti sociali, culturali, scientifici, economici. Nel momento in cui si registra l’allentamento del loro radicamento sociale. e l’indebolimento della loro identità politicoculturale. Avviene – né più né meno – quello che è avvenuto nel modello produttivo capitalistico. Nel suo passaggio dal fordismo al postfordismo. Da una forma concentrata e territorializzata di produzione – che aveva nella grande fabbrica e nello stato-nazione i due perni di rotazione –, ad una forma di produzione dissipativa e molecolare. Alla quale corrispondono nuove forme “ di rappresentanza degli interessi e delle culture, reti più o meno lunghe di partecipazione parallela o alternativa, culture, soggettività, aggregazioni che hanno complicato il ‘gioco’. Moltiplicando gli attori. Relativizzando i poteri. e’ da tempo – da un paio di decenni almeno – che il partito politico – precisa Revelli - ha smesso di svolgere nei nostri sistemi istituzionali cosiddetti avanzati il proprio ruolo storico. e che la nostra democrazia rappresentativa ha mutato natura e logica di funzionamento” ( p. 104). in un articolo comparso su “La Repubblica” del 27 febbraio 2012 dal titolo “C’è democrazia senza partiti?”, ilvo Diamanti ha scritto: “in questo Paese: dove i partiti – privi di credito – contano molto meno dei leader. e dove i leader dei partiti dispongono di un livello di fiducia molto scarso. La questione vera è se sia possibile una democrazia rappresentativa senza partiti“. sarà questa la cruciale domanda politica dei prossimi anni.

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Segni e significati di una crisi (2)

Antonio Casu, Rocco Pezzimenti, Girolamo Cotroneo, Angelo Airaghi

Antonio Casu Il limite come presupposto etico e fondamento democratico.

1. Nel numero precedente di questa rivista ho cercato di indagare alcuni aspetti dell’erosione etica della democrazia, nella quale affondano le radici più profonde della sua crisi. La crisi etica dello Stato priva progressivamente la democrazia di una cornice di valori condivisi di riferimento, indebolisce il senso di appartenenza alla comunità statuale e, in definitiva, isterilisce il contenuto partecipativo comune della democrazia stessa. Tale evoluzione, o meglio involuzione, che contrae gli spazi di effettiva rappresentanza politica della società civile, e che mette apertamente in discussione il consenso come fattore determinante per la guida delle nazioni. Una prospettiva, questa, che, lungi dal risolvere le difficoltà alle quali pretende di dare risposta, ne aggrava la portata e le conseguenze. La tesi che ho sostenuto è che per affrontare la crisi occorre recuperare proprio la sostanza partecipativa della democrazia, che si nutre di dialogo e di legittimazione reciproca, e quindi, in ultima analisi, si rende improcrastinabile la riscoperta del limite al soddisfacimento di quello che Hegel definiva il sistema individuale dei bisogni, da contemperare con le esigenze primarie degli altri soggetti, e quindi della società nel suo complesso. L’estensione al versante etico del crinale diritto-politica costituisce un tema sempre più avvertito nella riflessione di giuristi, filosofi, politici. Le risposte date sono evidentemente molto diverse tra loro, anche se riconducibili ad

alcuni grandi filoni di pensiero, e naturalmente a differenti percorsi di interpretazione delle ragioni ultime della crisi. La recente pubblicazione sui mezzi d’informazione di alcuni autorevoli contributi consente di estendere la riflessione ai diversi approcci, e alle relative argomentazioni.

2. Un primo approccio è quello di Guido Rossi il quale, soffermandosi di recente sulle pagine di un quotidiano, ci espone una riflessione sulla crisi della democrazia1. Rossi sostiene che "un punto fermo definitivo del liberalismo può essere individuato nella negazione di ogni usurpazione della libertà e nella conseguente sua vocazione democratica, rappresentata sopratutto dai governi costituzionali moderni". A questa accezione del liberalismo - di tipo anglosassone, quello di Locke, di Mill, fino a Rawls - associa un concetto positivo della responsabilità individuale ("nel bene"), contrapposta "allo Stato etico e autoritario, in sé distruttivo della personalità morale degli individui e della vita della società civile", una concezione "di tipo tedesco-hegeliano, dove è la libertà che presuppone lo Stato e non viceversa. Responsabilità, questa, nel male". In tal modo, Rossi ribadisce il ruolo della libertà come fondamento della democrazia. La libertà, non l'eguaglianza. Rossi richiama al riguardo la critica di Stuart Mill al principio liberale dell'eguaglianza come fondamento della democrazia, anche sulla scorta della lettura di Toqueville, che presagiva la deriva individualistica del capitalismo e l'atomizzazione della società civile. In sostanza, alla corrispondenza tra libertà e democrazia

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Il limite come presupposto critico e fondamento democratico

corrisponde un disallineamento, anzi un conflitto, tra capitalismo individualista e libertà. Il punto di rottura si situa nel primato della società concorrenziale, basata sull'impresa, alla stregua dell'esperienza nord-americana. Ma l'autosufficienza del mercato si è rivelata un miraggio, e anzi ha prodotto profonde diseguaglianze a livello globalizzato. Alla sovranità dello Stato si è sostituito il predominio del mercato finanziario, il nuovo Leviatano. Amaramente Rossi prende atto che il "mito degli uguali" è stato sopraffatto dall' "ordine dell'egoismo", e in sostanza dalla legge del più forte, che della libertà generale costituisce la negazione. Dal diritto alla libertà invocato da Kant si passa alla libertà che cancella il diritto. E questo non può non inficiare la stessa democrazia, avviata verso forme illiberali, che della democrazia, effettiva e partecipativa, rappresentano solo il simulacro. Dunque, un ritorno alle origini della rivoluzione industriale, un’ellissi che riporta indietro di tre secoli una società ormai post-industriale, che sembra aver esaurito la sua spinta democratica e riformatrice. La soluzione proposta da Rossi sembra poi, con il richiamo ad Amartya Sen, il "passaggio dalla priorità dei doveri dei sudditi di tutte le multiformi sovranità dei mercati alla priorità dei diritti dei cittadini", da un'etica dei doveri a una dei diritti, verso un'affermazione dei diritti sui beni pubblici e sui beni comuni, tramite un’irrinunciabile e indifferibile globalizzazione giuridica. Rossi esprime autorevolmente, in forma necessariamente sintetica, un filone di pensiero che interpreta il configurarsi attuale del rapporto autorità-libertà come superamento dello “Stato etico” e affermazione della responsabilità individuale, riconosciuta e legittimata sia a livello etico (l”etica dei diritti“) sia a livello giuridico, con riferimento all’ordinamento sia interno sia internazionale. Certo, resta aperto il dibattito sulla perfetta corrispondenza

tra liberalesimo e democrazia politica, di cui il costituzionalismo moderno diviene l’architrave portante. E resta anche da declinare la differenza tra “Stato etico” e fondamenta etiche della società civile, che dello Stato costituisce al contempo il presupposto e il beneficiario. E Rossi tuttavia richiama temi che si ricollegano alla cornice etica: il prevalere dell’ordine dell’egoismo, la libertà che cancella il diritto, il diritto di tutti e di ciascuno sui beni pubblici e comuni, inquadrandoli in una prospettiva di riconoscimento giuridico idonea a ridare slancio e sostanza partecipativa alla democrazia.

3. Un secondo approccio è quello che delinea Gillo Dorfles2, il quale, pur trattando un argomento diverso, ci fornisce elementi di riflessione che finiscono per intersecarsi con il ragionamento di Rossi. Dorfles infatti rivaluta l'invidia come virtù "quando sprona alla emulazione del prossimo e alla equiparazione con coloro che sono oggetto di invidia", rivelandosi secondo la tesi di Simmel - una manifestazione del "principio di equiparazione e imitazione". In sostanza l'invidia, nella sua fase iniziale, sospinge al conformismo, ma la sua evoluzione naturale determina un esigenza di differenziazione, tesa a fare emerge le peculiarità insite in ciascuno, il tratto irripetibile della personalità. Dorfles denuncia i limiti dell'invidia, ma nel contempo ne ammette il valore di promozione personale e sociale: "non siamo soddisfatti finché non siamo riusciti a emulare il prossimo, finché l'invidia per quello che questo prossimo compie, per quello che ha e per quello che non possiede, non ci ha portati al suo livello, non ci ha equiparati". Mentre Rossi interviene sul crinale del rapporto tra etica, diritto e politica, Dorfles si sofferma sul piano dei presupposti etici. Di fatto, pur prendendone personalmente le distanze, finisce per aderire a un impianto teorico che viene da lontano. Le radici di questa

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Antonio Casu

concezione, della tesi secondo cui i vizi, o peccati come Dorfles definisce l'invidia, risalgono alle origini stesse del liberismo. Non però in Montesquieu, ma in Mandeville, il quale, nella sua "favola delle api", descrive e teorizza proprio questo: una società retta dalle virtù è giusta ma povera, il progresso è figlio della liberazione delle capacità individuali, nasce dalla rottura del primato dell'etica sulla convenienza individuale che diventa opportunità sociale. Una concezione antesignana di un liberismo senza limiti, non casualmente rivalutato oggi da quei teorici del liberalismo che criticano Croce proprio per la sua nota distinzione tra liberismo e liberalismo, e sopratutto per il favore accordato al secondo.

4. Un terzo filone interpretativo orienta il ragionamento direttamente sul funzionamento della democrazia3. Se ne rende portavoce Romano Prodi, il quale interpreta l’attuale e sempre più frequente tendenza al rinvio delle decisioni più delicate non meramente come il ricorso ad una, peraltro inveterata, attitudine politica alla prudenza e all’adattamento al possibile, ma come manifestazione di una mutazione in atto: la rinuncia alla decisione, in sostanza all’esercizio del potere, da parte degli organi a ciò titolati dall’ordinamento. Una tendenza che si manifesta non solo nei regimi parlamentari nei quali si registra una storica difficoltà ad aggregare maggioranze unitarie e stabili, come l’Italia, ma anche nei paesi a regime presidenziale o semipresidenziale, come Stati uniti e Francia, che da tali difficoltà sembravano esenti. E questo non solo in politica interna, ma anche in politica estera. La spiegazione di Prodi non è una ritrovata centralità del parlamento – e d’altronde, aggiungo, è sufficiente ricordare, tra gli altri indicatori, la schiacciante superiorità dell’esecutivo con riferimento all’iniziativa delle leggi

effettivamente approvate –, ma il mutamento dei rapporti tra potere politico e opinione pubblica. A suo avviso, la continuativa e pervasiva irruzione delle indagini demoscopiche sul terreno delle decisioni politiche ha trasformato i leaders in followers, snaturandone la funzione, e rendendo le decisioni politiche eccessivamente dipendenti dalle oscillazioni emotive della pubblica opinione. Quella che definisce “democrazia barometrica”. Il ragionamento di Prodi richiama dunque quel rapporto tra potere politico e opinione pubblica che trova un suo elemento discorsivo nell’uso strumentale dei mezzi di comunicazione di massa, che realizza un potere moderno in forme sempre nuove, e che, a differenza di altri poteri, non è ancora soggetto ad un adeguato sistema di controlli, contrappesi e garanzie, specie in relazione ed a causa della sua portata trans-nazionale. E d’altronde, è proprio in questo crocevia che si alimentano populismo e derive plebiscitarie. La tradizionale separazione dei poteri, evidentemente superata con riferimento ai poteri classici, si rivela ormai deficitaria anche dal lato dei nuovi commensali alla mensa del potere.

5. Da un angolo di visuale complementare, quello dell’opinione pubblica, Remo Bodei4 perviene a considerazioni analoghe, allorché afferma che nella società attuale, in relazione alle questioni etiche fondamentali e bioetiche in particolare, il peso dei sentimenti e delle passioni condiziona pesantemente le scelte. “Sulla ponderazione dei pro e dei contro – sostiene – prevalgono le paure, trasformando la soluzione dei problemi bioetici in un ripetuto referendum. Al quale il cittadino si presenta immancabilmente in uno stato di solitudine e oggettiva incompetenza”. La sua spiegazione è che ciò dipende dal fatto che, a differenza di quanto è avvenuto per millenni, l’autorità non

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Il limite come presupposto critico e fondamento democratico

viene più dall’alto (nell’equilibrio tra potere politico e potere religioso, tra imperium e sacerdotium) ma dal basso, dal popolo. Ma poiché quest’ultima è “costitutivamente debole”, deve appoggiarsi “a stampelle offerte da altre agenzie formative, essenzialmente la tradizione religiosa e la morale”. Per contro, il venire meno del ruolo educativo svolto da autorità riconosciute verso modelli comportamentali consolidati, sulla base di valori riconosciuti, determina la legittimazione dei bisogni individuali tanto da configurare una “democrazia anemica, sin troppo benevola verso le debolezze del cittadino”, nella quale “la mancanza di autorità favorisce la licenza”. Nel ragionamento di Bodei si evidenzia un corto circuito: l’erosione dell’autorità favorisce la legittimazione dei diritti ma anche la frammentazione etica che diviene disaggregazione sociale, e ciò induce al ricorso alle istituzioni che sono portatrici di una morale consolidata, a cominciare da quelle religiose. Un ragionamento, questo, che evoca le considerazioni di Romano Guardini circa l’esito infausto di un processo di divaricazione progressiva della libertà dall’autorità che, culminando nella delegittimazione di quest’ultima, isola l’individuo dalle comunità intermedie, da quelle più estese fino a quelle a lui più prossime, alla famiglia, fino a lasciarlo “indifeso contro il male, come un neonato senza madre, come una nube che si dissolve”. Una condizione che lo consegna alla tragica illusione di un condottiero che lo salvi e lo riscatti5.

6. Questo concomitante confronto di opinioni, ci riporta ad un passaggio fondamentale: per troppo tempo infatti la presa di distanze dallo Stato etico si è risolta nel rifiuto sostanziale, anche se non sempre dichiarato, di riconoscere che ogni Stato si erige necessariamente su fondamenta etiche, che cioè senza una cornice di valori etici condivisi non può esservi alcun collante sociale. E’ questo quell’ethos comune che

costituisce il presupposto etico-sociale di ogni Stato, il suo stesso ‘ principio di sostentamento’ di cui parlava Böckenförde6. E qui è appunto il fattore-chiave. Non può esservi Stato senza fondamenta etiche, ma neppure può sussistere uno Stato senza una condivisione sociale dei valori etici di riferimento. E' vero che la condivisione esclude l'imposizione, il predominio di un complesso di valori etici, o di un sistema etico, sugli altri. Tuttavia il rifiuto del predominio non può essere radicalizzato nel suo opposto, ed escludere la logica della condivisione. Al contrario, senza la ricerca della condivisione o si tenta di sostituire un sistema etico a un altro, e lo stesso rifiuto dello Stato etico si riduce ad un alibi, oppure si finisce per imporre un'assenza di etica che mina alla radice la sopravvivenza stessa dello Stato, perché ne recide le radici comuni alle sue diverse componenti. Inoltre, uno Stato che impone una pulizia etnica dei valori, o che assume il principio che i valori legittimi sono quelli vincenti, o imposti dal potere, relegando gli altri in qualche ghetto culturale, e poi inevitabilmente giuridico, non è più realmente democratico, dato che limita la democrazia alle sue procedure di funzionamento ed esclude ogni sostanza partecipativa. Ma senza partecipazione non c'è neppure il presupposto della condivisione, del riconoscimento di quei valori e beni comuni che si dovrebbero tutelare, e tramandare. Al contempo, senza un reciproco riconoscimento tra le parti sociali, e i principali orientamenti culturali, non c'è possibilità di riforma, al di là dei tentativi di ingegneria costituzionale, e dunque neppure la condivisione delle regole del gioco. E senza regole la democrazia diviene il teatro della guerra di posizione tra le corporazioni e le lobbies, rinunciando a qualsiasi progetto comune di società. Senza partecipazione e senza regole, la democrazia gradualmente si riduce ad un'ombra, ad una maschera sempre più minacciosa, e talvolta

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Antonio Casu

grottesca. Si avvera così una nuova mutazione nella sostanza della democrazia. Dopo il passaggio dalla democrazia partecipativa alla democrazia procedurale, si rischia in realtà di scivolare inavvertitamente nella democrazia corporativa. Un sistema retto sul riconoscimento giuridico e politico di spazi di rappresentanza interna a opera di corporazioni autoreferenziali, tendenzialmente inter-classiste. Tali corporazioni non ricercano un denominatore comune, ma enfatizzano la distinzione come categoria fondamentale del riconoscimento e della legittimazione da parte del potere pubblico, e proprio nella distinzione allentano i propri vincoli di apparentamento con le altre componenti interne allo Stato, vissute non più come essenziali alla dialettica democratica, ma come un freno e un limite al libero dispiegamento della propria potenzialità, e dunque interpretate non come diverse e complementari ma come ostili. Uno Stato concepito come mera sommatoria di minoranze in conflitto tra loro non può reggere alla sfida della globalizzazione, almeno per due motivazioni principali. Innanzitutto perché affrontare la globalizzazione richiede la determinazione di una massa critica, di un peso specifico elevato, capace di affrontare la concorrenza planetaria, e induce in sostanza alla concentrazione; mentre la frammen-tazione comporta debolezza e vulnerabilità. La seconda motivazione è che non si può illudersi che i problemi di coesione sociale vengano risolti fuori dai confini nazionali o al di sopra degli stessi, perché nel mondo globalizzato la concorrenza è diventata immensamente maggiore, ed esige proprio tassi di coesione sociale molto superiori al passato. La sfida della democrazia, la sua stessa sopravvivenza, dipende in ultima analisi dalla nostra capacità di riconoscere l'altro non come hostis, e neppure come un limite, ma come componente necessario alla sopravvivenza di una

comunità. E’ questo il presupposto indefettibile per la democrazia, descritta ancora da Böckenförde come “forma organizzativa della cooperazione degli uomini e delle donne nella legittimazione nell’esercizio del dominio politico”. Ed è la percezione di tale presupposto che consente di accettare un limite funzionale alle rivendicazioni di natura corporativa, possibilmente senza limitare questo approccio solo a taluni ambiti, evidentemente per conseguire vantaggi immediati in termini di consenso. Infatti, proprio l’assenza di un limite generale - e prima ancora dell’accettazione diffusa della necessità indefettibile che tale limite debba sussistere, e che sia utile per tutti - consente la proliferazione delle rivendicazioni corporative, come spesso avviene persino in danno di componenti culturali e ideali solidamente radicate sul territorio nazionale, ciò che determina una crescente divaricazione etica e conseguentemente un aggravamento della frammentazione sociale.

7. Il limite va interpretato dunque non come un ostacolo o un freno, ma come assunzione di responsabilità. Una responsabilità personale, ma anche, più in generale, sociale, intesa come manifestazione di una percezione finalmente matura della complessità del reale, della inattingibilità di ogni ipotesi di dominio personale della realtà nella quale siamo inseriti, e anche della totale assenza di legittimità di siffatto dominio. Una realtà con la quale inevitabilmente dobbiamo interagire, ma che in ultima analisi non abbiamo titolo a dominare, non solo perché tale titolo non sussiste ab origine, ma anche perché quando si è storicamente inverato, sia nelle nostre storie personali sia nella storia comune, è stato solo a seguito di un atto di volontà, e dunque di una scelta con conseguente manifestazione di forza, al fine del soddisfacimento del sistema dei bisogni individuali e collettivi.

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Verso l’iperdemocrazia? Crisi dei limiti

E tuttavia, la stessa individuazione e focalizzazione di tali bisogni è per sua stessa natura il frutto di una percezione relativa e parziale della realtà, per cui il portato delle scelte che ne conseguono, apparentemente consequenziale, in un quadro più generale che tenga conto di tutti i fattori che esulano dalla disponibilità personale, può rivelarsi distorto e fuorviante. In generale, ciò che non è attingibile al singolo può non esserlo neanche per la comunità, la quale in ogni caso incontra limiti alla comprensione del reale, su un piano più vasto. E tuttavia la percezione del limite, riferita alla comunità, produce un risultato certo: la delegittimazione di qualsiasi decisione assunta nel disprezzo delle esigenze degli altri. Infatti se non si può comunque pervenire alla comprensione totale del reale - e non si può, perché la nostra conoscenza è graduale e progressiva, e comunque condizionata ai limiti connessi con i nostri sensi e mezzi umani, anche potenziati dalla loro proiezione tecnologica - si può e si deve minimizzare l'errore, associando le percezioni e contemperando le esigenze, per il conseguimento di una migliore condizione esistenziale di tutti. Da tale angolo di visuale, la condivisione risulta necessaria, il confronto e la concertazione fattori insopprimibili della dialettica sociale. È evidente che l'eccesso di confronto può paralizzare le decisioni, ma questo avviene in ogni sistema politico e sociale, e d'altronde non è la patologia di un sistema che può costituire la base attendibile per giudicarlo. Il limite è dunque il presupposto positivo imprescindibile della dimensione sociale e comunitaria, e schiude alla relazione con l'altro. Da questo punto di vista, costituisce anche il presupposto della ricerca di fondamenta etiche comuni, la fonte della legittimazione reciproca, la negazione di ogni esclusione sociale.

1 Corriere della Sera, ll mercato che uccide la democrazia è il nuovo Leviatano degli egoisti, 9 agosto 2013, p.30. 2 Corriere della sera, Il peccato d'invidia e' conformista, 9 agosto 2013, p. 31. 3 Il Messaggero, Democrazia e scelte. L'esercizio del potere e l'offensiva del rinvio, 4 settembre 2013, pp. 1 e 14. 4 la Repubblica, Noi poveri postumani schiavi delle nuove libertà, intervista a F. Marcoaldi, 6 settembre 2013, p. 41. 5 Romano Guardini, La rosa bianca, a cura di Michele Nicoletti, appendice di Paolo Ghezzi, Morcelliana, Brescia 2005 (2a), in particolare pp.15 e 16 dell’Introduzione di M. Nicoletti. 6 Ernst-Wolfgang Böckenförde, Stato, costituzione, democrazia. Studi di teoria della costituzione e di diritto costituzionale, a cura di Michele Nicoletti e Omar Brino, Giuffrè editore, Milano 2006, p. XXXIII-XXXIV.

Rocco Pezzimenti V erso l’iperdemocrazia? Crisi dei limiti

Anche a un osservatore superficiale della storia, non sfuggirà certo un fatto: la democrazia non è una costante nelle vicende storiche dei popoli ma, purtroppo, un’eccezione. Certo, questo non vuol dire che dobbiamo rassegnarci a perderla, al contrario dobbiamo cercare di difenderla perché è intrinsecamente fragile. La sua debolezza dipende dal fatto che, come sanno bene i piloti di aerei, essa presenta quel fatidico punto di non ritorno, non sempre, però, facile da individuare. Un filosofo esistenzialista del XX secolo, Jaspers, sosteneva che il paradosso della libertà è quello che essa, a volte, può perdersi per colpa di se stessa. Credo dicesse: la libertà può essere perduta dalla libertà. La libertà, pur se non sempre, non è capace di proteggere se stessa, forse perché finisce per ignorare il senso del limite che dovrebbe caratterizzarla, mirando così ad assolutizzarsi. Non può essere questo anche il rischio della democrazia? Forse dovremmo riflettere sul fatto che le forme istituzionali che la storia ci ha

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Rocco Pezzimenti

presentato, e che più si avvicinano alla democrazia, sono durate perché quel senso del limite che le tutelava è stato difeso con forza e decisione.

1. Uno sguardo retrospettivo. Se prendiamo come esempi la repubblica romana, il Commonwealth britannico e la democrazia americana, vediamo che la reciproca divisione e limitazione dei poteri – che oggi come ho già detto andrebbe aggiornata e ampliata – ha sempre impedito, anche al potere del popolo, meglio dei suoi rappresentanti, di prendere il sopravvento sulle altre forme di potere. In poche parole, la vera democrazia ha sempre rifiutato una gestione diretta da parte del popolo. Alcuni sostengono che, in passato, simili proposte potevano apparire troppo fantasiose mentre oggi, grazie alle attuali prospettive della tecnologia informatica, quello che prima appariva utopia, può divenire realtà. Non è il caso di mostrare come, anche oggi, la democrazia diretta costituisca un’utopia che, visti gli strumenti a disposizione, potrebbe essere ancora più pericolosa. Ma se repubblica romana, Commonwealth britannico e democrazia americana oggi possono, proprio sulla divisione dei poteri, sembrare carenti visto gli accresciuti centri di forza operanti, pur se non sempre controllati e controllabili, in una moderna società, hanno al contrario ancora qualcosa da dirci proprio nei meccanismi che hanno saputo mettere in moto per evitare le derive populiste. La formula Senatus Populusque Romanus indica assai bene il ruolo fondamentale del popolo che, chiamato a votare attraverso i comitia e guidato dai suoi tribuni, poteva accedere persino al consolato. Rappresentava, per così dire, il partito democratico, populares, ma era temperato e limitato dal partito aristocratico dei patres presenti nel Senato. Come avvertirono acutamente gli storici politici italiani del Rinascimento, è proprio questa vivacità di contrasti che

determinò il progresso della repubblica. Il partito democratico, populares, tendeva, infatti, di per sé, a indicare cambiamenti repentini in quanto il popolo, mai contento dei risultati conseguiti, ha una smania di cambiamento quasi rivoluzionario, precisato da reali bisogni, che genera, però, una continua instabilità. Al contrario il partito aristocratico dei patres, pago della propria posizione e del benessere conseguito, tende a cristallizzare la società addormentandola in un ottuso sistema reazionario. Il concorso delle due parti e l’alternarsi al governo – i consoli non potevano essere mai rieletti – garantirono il miracolo repubblicano che si può definire di cambiamento nella continuità. L’organismo politico era, insomma, limitato da un equilibrio che imponeva a ogni potere il senso del limite. Questo garantì il miracolo della lunga vita della repubblica sorretta da magistrature ordinarie e straordinarie – si pensi ai consoli che dirigevano in due l’esecutivo o alla figura a tempo del dictator – mai più attuate. La Repubblica andò in crisi nel momento in cui, prima i populares e poi i patres, presero il sopravvento e schiacciarono la controparte. A dominare non fu più il senso del limite, ma o la logica dei numeri per i populares o la logica della forza per i patres. Il tentativo di una iperdemocrazia voluto dai primi fu spento dalle paure dei secondi. A ben vedere altri due esempi moderni, che per durata possono gareggiare con l’antica repubblica, hanno attuato e difeso quel senso del limite che ha fatto la loro grandezza. Si tratta del Commonwealth britannico e del federalismo americano. Più che parlare del primo, i cui raffronti col sistema romano sono numerosissimi, converrà parlare del secondo ed evidenziare come, pur essendo una democrazia, ha evitato, finora, di scivolare nella iperdemocrazia. Lo ha fatto proprio eludendo quella pericolosa logica dei

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Verso l’iperdemocrazia? Crisi dei limiti

numeri tanto cara ai populares ed evitando, così, quasi sempre di ricorrere alla logica della forza violenta e al di fuori della legge. Gli americani, pur non avendo un’aristocrazia collaudata dalla storia, cercarono di dar vita all’antico confronto tra i populares e i patres. Sappiamo tutti che crearono due camere distinte e che una di queste, non a caso, si chiama Senato. Questa, i cui poteri sono davvero notevoli, non rappresenta il popolo americano che, nella sua totalità, si sente rappresentato dall’altra Camera. Il Senato sembra proprio non tener conto della regola elementare delle democrazia: quella dei numeri. Il Senato rappresenta, infatti, l’Unione degli Stati, ma li rappresenta non in modo proporzionale, come vorrebbe la logica dei numeri, ma ponendoli su un piano di assoluta parità. Uno stato di 30 milioni di elettori ha gli stessi rappresentanti di uno che ne conta appena 500.000. Per far questo, gli USA rispolverarono, in modo moderno, un’antica istituzione: il federalismo. Si tratta di un patto, come dice la parola, che costituisce un limite invalicabile capace di tenere a freno le derive populiste vero pericolo di ogni democrazia. Il federalismo, infatti, costituisce un limite al degenerare della democrazia solo se pone le diverse parti su un piano di effettiva parità, altrimenti è un secessionismo mascherato, presupposto, più o meno palese, di un’unità democratica destinata alla crisi. Che le parti debbano essere poste su un piano di parità significa, in un ipotetico federalismo italiano o europeo, che in Italia, per buona pace di qualcuno, i rappresentanti della Lombardia e della Sicilia siano e contino quanto quelli del Molise e della Valle d’Aosta e che, in Europa, quelli della Germania e della Francia contino quanto quelli della Slovenia e del Belgio. Forse, solo allora, parole come solidarietà e sussidiarietà potrebbero cominciare ad avere senso.

2. Elogio della rappresentanza. Il federalismo, così inteso, costituisce un limite alla pura e semplice legge dei numeri, criterio fondante per i fautori delle diverse forme di democrazia diretta. Questa non presenta solo rischi di natura tecnica, che possono essere di varia natura, ma presenta anche il rischio di annullare la democrazia stessa. I rischi di varia natura vanno dalla difficoltà di controllare l’effettiva libertà di chi formula il giudizio e il numero di quanti affettivamente lo formulano. Tutto ciò non basta, perché occorre tenere presente che, i giudizi sono spesso dettati dall’umore momentaneo. In questo caso, la politica, com’è facilmente intuibile, si ridurrebbe a vicenda umorale col rischio che, più che ascoltare l’opinione pubblica, si trasformerebbe in macchina per influenzarla e trasformarla. I giudizi momentanei, per loro natura, impedirebbero quella continuità politica che è il sicuro alveo all’interno del quale si dovrebbe muovere una democrazia veramente riformista. C’è, però, un rischio più grave: quello di annullare la democrazia stessa. Sottoporre tutto alla diretta volontà del popolo, finirebbe per annullare una delle più grandi conquiste dell’Occidente: la distinzione tra sfera pubblica e sfera privata. Il rischio di ricondurre tutto ciò che riguarda la seconda nella prima, può generare l’incognita di rendere tutto pubblico, tutto politico, in una parola di ritornare alla tentazione di una democrazia totalitaria i cui guasti sono davanti gli occhi di tutti. La democrazia rappresentativa è nata proprio come limite al pericoloso degenerare della democrazia diretta. Se quest’ultima strada è oggi in crisi, va ripensata, non certo abbandonata. Inoltre, la rappresentanza dovrebbe rispondere anche a un criterio di competenza. Si delegano alcuni perché si occupino di questioni specifiche dato che, altri, si dedicano ad altre attività. Questi ultimi, in una democrazia diretta, sarebbero di continuo distolti dalle loro

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Girolamo Cotroneo

occupazioni per occuparsi di politica a tempo pieno. Visto che dovrebbero rappresentare se stessi o essere comunque competenti per dare responsi su tematiche assai diverse, ne verrebbe sicuramente a soffrire la loro fondamentale occupazione con il duplice rischio di determinare, prima o poi, o un disamore verso la politica, divenuta troppo ingombrante, o una superficialità della stessa. Si capisce perché, allora, solo la riscoperta della “delega”, combatterebbe la rinascita del populismo, che ancora illude di rispettare le regole della democrazia, o, peggio, dietro questo populismo, il mascherato accaparramento della direzione politica e del consenso da parte di altri poteri che, oggi, sono divenuti indefinibili e, per questo, non facilmente limitabili. Girolamo Cotroneo Democrazia “adieu”?

Nel 1958, uno dei grandi filosofi europei del secolo scorso, Karl Jaspers, in un volume dal titolo La bomba atomica e il destino dell’uomo, ricordava le parole di Winston Churchill, secondo cui «la democrazia è la forma di stato peggiore, se si eccettuano tutte le rimanenti». Alcuni anni prima, precisamente nel 1943, inaugurando il suo opus maius, il celebre La società aperta e i suoi nemici, Karl Popper si era spinto ancora più in là, scrivendo che l’affermazione secondo cui «la democrazia non è destinata a durare per sempre, equivale in realtà all’affermazione che la ragione umana non è destinata a durare per sempre». Molti anni dopo, precisamente nel 1992, Francis Fukuyama nel suo – sopravvalutato, ma soprattutto contestato – La fine della storia e l’ultimo uomo, sosteneva che, dopo la crisi dei regimi totalitari nell’ultimo quarto del Novecento, la “democrazia liberale” era rimasta «la sola aspirazione coerente per regioni e culture diverse dell’intero pianeta».

Questi tre punti di vista hanno in comune il convincimento che la “democrazia” sia una forma di governo insuperabile; cosa su cui, al momento, non è difficile convenire, anche se non significa che sia priva di difetti e di rischi. Può, ad esempio, trasformarsi in quella “tirannia della maggioranza”, già paventata nel suo capolavoro, La democrazia in America, da Alexis de Tocqueville, il quale scriveva di considerare «empia e detestabile» la massima secondo cui «in materia di governo la maggioranza di un popolo ha il diritto di far tutto»; anche se aggiungeva che «nella volontà della maggioranza» si trova «l’origine di tutti i poteri». Dopo essersi chiesto se con queste parole non si fosse posto in contraddizione con se stesso, così concludeva: «Una maggioranza è come una giuria incaricata di rappresentare tutta la società e applicare la giustizia che è la sua legge»; ma se questa giuria «rappresenta la società, deve essa avere più potenza della società stessa cui applica le leggi?». A dire il vero la “tirannia della maggioranza” non è un regime autoritario: la democrazia, infatti, si capovolge nel suo opposto, la tirannia, soltanto quando viene soppresso lo strumento che fa di essa un regime diverso – e migliore – di tutti gli altri. Uno strumento che Popper indicava con queste parole: «Vi sono soltanto due tipi fondamentali di istituzioni di governo: quelle che consentono un mutamento del governo senza spargimento di sangue, e quelle che non lo consentono […] Si può scegliere il nome che si vuole per i due tipi di governi indicati. Personalmente preferisco chiamare “democrazia” il tipo di reggimento politico che può essere sostituito senza l’uso della violenza, e “tirannide” l’altro». Sul piano formale, nulla quaestio: soltanto i regimi liberaldemocratici consentono a un paese di sbarazzarsi attraverso le elezioni generali periodiche dei governanti inetti, incapaci e, vorrei

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Democrazia “adieu”?

aggiungere, corrotti, sperando di trovarne di migliori. Ma è davvero così? è questa una certezza, la garanzia che possiamo fidarci della “democrazia”? Non voglio certo entrare nella polemica politica immediata: ma riflettendo sulla situazione del nostro paese, sulle vicende di quella che impropriamente chiamiamo la Seconda Repubblica, non possiamo non constatare che la medesima classe dirigente – a volte come maggioranza a volte come opposizione, ma senza in nessun caso mutamento di uomini e di dottrine – ha guidato per circa vent’anni il paese. E nonostante non si possa certo dire che lo ha fatto con grande successo, nessuna delle elezioni generali tenute in questo periodo ha potuto liquidarla. Questo ci fa comprendere che la democrazia liberale, quale è appunto la nostra, diversamente da quanto diceva – e credeva – Popper, non garantisce il cambio della classe dirigente, anche ove questa abbia dato cattiva – o pessima – prova di sé. Ma a questa tesi Popper ne aggiungeva un’altra: quella secondo cui «le istituzioni democratiche non possono migliorare se stesse. Il problema del loro miglioramento è sempre un problema che riguarda le persone non le istituzioni». Poiché questo è senz’altro vero – ma ritornerò sul tema – credo occorra chiedersi che cosa c’è di negativo nei comportamenti delle persone – vulgo: dei politici – che inducono a dubitare della democrazia e dei suoi metodi. Diceva Giambattista Vico che a spingere gli uomini verso la politica è l’”ambizione”: e poiché la politica, alla

resa dei conti, è lotta per la conquista del potere, magari con le migliori intenzioni, una volta raggiunto questo, è assai difficile, dolo-roso, lasciarlo. Senza per questo mettere in discussione il princi-pio fondamentale della democrazia liberale, sarebbe a dire l’alternanza dei governi, accade che chi lo detiene, pure se su mandato temporaneo dei cittadini, cerca i modi più efficaci per conservarlo, senza violare, anche se non sempre, le regole e le istituzioni. Se osserviamo i comportamenti della nostra classe politica – e non escludo che, forse in misura diversa, siano quelli di tutte le classi dirigenti dei paesi a democrazia liberale – non è difficile giungere alla conclusione che ogni proposta di legge viene avanzata con il retropensiero, non se sia utile al paese, ma al partito che la propone o concorre alla sua approvazione, se fa crescere o perdere consenso, cioè voti alle elezioni. Questo fa pensare che spesso la classe politica, per mantenere il proprio potere, trasforma l’antica “ragion di Stato” – il sacrificio dei cittadini per il bene, la salvezza dello Stato – in “ragion di partito”. Ritengo sia anche questo, insieme ovviamente ad altri, uno dei motivi che inducono certi settori della cultura occidentale a indicare la democrazia come “il dio che è fallito”. Questa espressione – usata per la prima volta come titolo di un volume collettivo, apparso nel 1950, tra i cui autori apparivano i nomi di Arthur Koestler e di Ignazio Silone, per definire il comunismo – è oggi, con una piccola variante, il titolo di un volume, Democrazia: il dio che ha fallito, apparso

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nel nostro paese nel 2005, di cui è autore un filosofo politico tedesco, HansHermann Hopper; un libro che rientra tra quelli di una scuola di pensiero – il “libertarismo”, i cui testi più importanti sono apparsi a Macerata presso le edizioni “liberilibri” – i cui fondamenti si possono conoscere attraverso il volume dello scrittore statu-nitense David Boaz, dal titolo, appunto, Libertarismo, apparso nel 2007. Questa scuola di pensiero, ancora poco diffusa in Europa, tende a dimostrare che il liberalismo classico si sia ormai tanto “contaminato” con la democrazia, da trasformarsi in una dottrina – o in una “prassi” – che non considera più lo Stato, come il vecchio liberalismo, una sorta di “male necessario”, ma ne fa il centro positivo della vita sociale. Come ha scritto un altro filosofo politico appartenente alla medesima tendenza, il neozelandese Kenneth Minogue, in un volume dal titolo La mente liberal, apparso in Italia nel 2011, l’ultimo periodo storico avrebbe visto «una dottrina nata per esprimere la nostra libertà», il liberalismo, appunto, convertirsi in «un programma per ”rendere perfetta” la società»; un programma che non poteva non comportare un sempre maggiore estendersi dello Stato a danno della società civile. Siamo qui di fronte a una dottrina politica, il libertarismo appunto, che ritiene la democrazia liberale destinata a trasformarsi, o già trasformata, in “socialdemocrazia”, ponendo, sulla scia del “vecchio” socialismo, al centro della vita economica e sociale lo Stato, il “grande nemico” dell’ideologia libertaria, che rifiuta sia lo “Stato guardiano notturno” del liberalismo tradizionale, che lo “stato ultraminimo” di Robert Nozick. Così sentiamo un altro scrittore “libertario”, Charles Murray, sostenere, in un volume dal titolo Cosa significa essere un libertario, che «è possibile ritenere che meno governo c’è meglio è»; e che «una società che proceda su principî di governo limitato

sarebbe in grado di promuovere la felicità umana». Un argomento che inevitabilmente coinvolge la democrazia, essendo quest’ultima una “forma di governo”, quindi un concetto empirico, non una “concezione metapolitica” come il liberalismo: il quale ha bisogno di una forma di governo che lo assecondi; e questa può essere soltanto, nel bene e nel male, la “democrazia”, con la quale si è unito in “diade indissolubile”, come ha scritto Benedetto Croce, fin dalla metà dell’Ottocento. Non intendo certo enfatizzare questa corrente estrema di pensiero, peraltro affatto minoritaria. Lontana da me anche l’idea che il “male” di cui la democrazia stessa soffre, stia nei partiti, per cui un loro indebolimento la rafforzerebbe. Ha scritto uno dei maggiori teorici della democrazia, Hans Kelsen, che quest’ultima «può esistere soltanto se gli individui si raggruppano secondo le loro affinità politiche, allo scopo di indirizzare la volontà generale verso i loro fini politici, cosicché tra l’individuo e lo Stato, si inseriscono quelle formazioni collettive che, come partiti politici, riassumono le uguali volontà dei singoli individui». Non credo, però – nonostante i convincenti argomenti di Kelsen – si possa facilmente confutare il già ricordato Hans-Herman Hopper, quando scrive che negli attuali regimi democratici chi governa «non possiede il paese», come accade nei regimi totalitari, «ma finché è in carica gli è permesso di “usarlo” per il proprio vantaggio e a vantaggio dei suoi protetti». Ma non gli è “permesso” da nessuno: lo fa per sua scelta, per mantenersi al potere; lo fa perché usa a proprio vantaggio gli spazi, i molti spazi, di libertà che la democrazia liberale gli consente. Questa è certamente la più pesante conseguenza del ruolo assunto dai partiti politici, intenti ognuno soltanto al suo “particulare”, per dirla con Guicciardini. Le conseguenze negative di tutto questo sono molte: ma credo che la più grave sia che i partiti,

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Democrazia “adieu”?

oltre ad avere “occupato” lo Stato, hanno invaso anche la “società civile”, il luogo – secondo la definizione di Nicola Matteucci – «in cui operano le Chiese, secondo il principio di libertà religiosa, in cui agiscono le istituzioni culturali (giornali, Università), in base alla libertà di manifestare il proprio pensiero, in cui si formano e si muovono partiti e associazioni»; istituzioni queste oggi praticamente tutte in mano, in maniera aperta o nascosta, ai partiti politici. Questo è accaduto perché la “società civile”, oggi spesso enfatizzata e chiamata in causa a sproposito, si è lasciata invadere dalla politica senza opporre grandi resistenze. Abbiamo quindi visto – e vediamo – l’etica pubblica precipitare ai livelli minimi, e l’interesse generale, di cui avrebbe dovuto essere custode la classe politica, sostituito da un diffuso utilitarismo – che è altro dall’utilità –, dal perseguimento del vantaggio privato; e tanto altro ancora si potrebbe dire. Nei Frammenti di etica, apparsi per la prima volta nel 1922, Benedetto Croce iniziava un capitolo dal titolo “La nausea per la politica”, con queste parole: «”La politica è una cosa sudicia”: ecco un detto che s’ode di frequente sulle labbra della gente»; e si chiedeva come mai soltanto alla politica che, diceva, «è un’attività fondamentale dell’uomo, una perpetua forma dello spirito umano», toccasse poi «l’omaggio di quel detto poco rispettoso»; un omaggio che peraltro non riteneva del tutto immeritato. Non starò qui a riferire le ragioni del poco rispetto per la politica segnalate da Croce: ma basta dire che, dopo avere indicato, come abbiamo visto, la politica come una “forma dello spirito”, indirizzava ai politici che la degradavano accuse pesanti, come ad esempio quella di coprire azioni poco corrette «con sofismi, con lustre e con espedienti oratorii di varia forma». Alexis de Tocqueville ha scritto una volta che «non c’è democrazia senza un

po’ di corruzione». Ma il limite fisiologico consentito, sembra ormai largamente superato, visto il frequente riferimento alla classe politica come “vaso di ogni nequizia”, come responsabile della crisi, soprattutto morale, che stiamo attraversando, e che sembra confermare queste parole di Popper: «Le istituzioni sono come le fortezze: raggiungono lo scopo solo se è buona la guarnigione», ossia le persone addette a gestirle. Ma questo forse non è del tutto vero: che cosa può, infatti, la più valorosa delle guarnigioni se la fortezza è vecchia e cadente? Questo ci riporta al problema di fondo: la democrazia “in sé”, è ancora una fortezza? una garanzia di buon governo? Difficile rispondere in maniera netta, o liquidare la questione, attribuendo tutte le colpe alla classe politica, come abbiamo sentito dire a Croce, e non soltanto a lui. Assistiamo quasi con indifferenza, senza darci ragione del danno che arreca alle istituzioni democratiche, alla polverizzazione dei centri decisionali, che provoca la nascita di un numero illimitato di organizzazioni fornite di poteri contrattuali che praticano una politica corporativa e che non guardano oltre gli interessi, o i privilegi, di coloro che le compongono: e cercare di guadagnare il loro favore indebolisce l’azione di governo e la allontana dagli interessi generali. A questo si può – si deve – aggiungere il peso sempre crescente dell’opinione pubblica, l’insofferenza individuale verso ogni tipo di proibizione, anche ove opportuno e necessario, un’insofferenza che sembra riproporre l’antica convinzione di Jeremy Bentham – che però riguardava soltanto la proprietà privata – secondo cui “ogni legge è limitazione di libertà”. Tutto ciò non può certo generare ottimismo sul futuro della democrazia e forse dello stesso liberalismo. Ma pensando a tutte le loro traversie, ai colpi loro inferti dai nemici “esterni”, colpi ai quali sono sempre sopravvissuti, si può

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Angelo Airaghi

– si deve – sperare che come la mitica “araba fenice” la democrazia liberale riesca ancora una volta a riemergere dalle sue ceneri. Lo dobbiamo sperare perché la perdita della democrazia implicherebbe non soltanto la perdita della “politica”, ma anche della libertà, dal momento che – ha detto una volta Hannah Arendt – «la libertà esiste solo nel particolare infra della politica»; e nessuno finora ha potuto dimostrare il contrario. Angelo Airaghi Siamo alla fine della democrazia?

Stiamo assistendo alla fine della democrazia, almeno nel nostro paese? Probabilmente (e sperabilmente) no, ma la sua più tipica forma (la democrazia rappresentativa) presenta rilevanti segni di logoramento. Il discredito generalizzato di cui godono i “politici” e l’assenteismo crescente nei recenti turni elettorali ne sono i sintomi. Nella democrazia rappresentativa gli elettori, detentori del potere ultimo, delegano a loro rappresentanti il potere di decidere per loro conto .Il punto delicato sta nel meccanismo di espressione di tale delega. Fino alla metà degli anni ’80 il sistema adottato, almeno per la Camera, è stato essenzialmente proporzionale con preferenze. Poi sono subentrate due tendenze che, combinate, hanno fortemente compromesso il sistema: - la crisi dei partiti tradizionali, a forte radicamento territoriale e basati su semplici (o semplicistici) messaggi politico ideologici: DC e PCI; - il tentativo di puntellarne il ruolo assegnando loro segreterie pesi sempre crescenti nella designazione dei candidati, fino all’estremo rappresentato dall’attuale “porcellum”. Supponendo che le condizioni al contorno, politiche, economiche e sociali fossero simili a quelle di venti o trenta anni fa, si potrebbero immaginare due soluzioni limite per rimettere in funzione un accettabile sistema di

democrazia rappresentativa: a) Puntare al rafforzamento del rapporto elettore/eletto, con l’adozione di piccoli collegi uninominali ed elezione ad un solo turno magari precedute da primarie per le scelta dei candidati. L’eletto, senza vincolo di mandato, risponderebbe del suo operato e delle sue scelte ai suoi elettori con i quali dovrebbe mantenere, giocoforza, un rapporto costante e attivo. In tal caso i partiti potrebbero rimanere come strutture leggere, portatori di valori di fondo destinati a caratterizzare a grandi linee i loro candidati ed eletti. I candidati, per avere successo, dovrebbero possedere caratteristiche personali e professionali riconoscibili e valutabili positivamente dagli elettori. E le loro azioni individuali, una volta eletti, verrebbero giudicate direttamente e individualmente. E’, in sostanza, la ricetta inglese, figlia di una mai rinnegata tradizione liberale; b) Ritornare a partiti a struttura forte, in grado di fungere da centri di elaborazione politico/strategico/ideologica e di servizio ai propri rappresentanti. In tal caso sistemi elettorali basati sul doppio turno e con vincolo di mandato sarebbero forse preferibili. I candidati verrebbero selezionati dai partiti, tenendo conto di mix di competenze e di esperienze, anche politico/amministrative. Gli elettori, più che le persone, sceglierebbero linee politiche condividendone le visioni e le scelte strategiche. E’, in linea di massima, la soluzione europeo-continentale. Ma la premessa di similarità delle condizioni al contorno è falsa, e quindi le soluzioni per ripristinare un ragionevole sistema di democrazia rappresentativa vanno ridefinite in tale nuovo contesto che va, almeno nelle sue grandi linee, descritto. L’economia sta ancora tentando di assorbire gli effetti della globalizzazione e della finanziarizzazione; le ideologie e le grandi categorie (destra/sinistra, conservatori/progressisti) sono sempre

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Siamo alla fine della democrazia?

meno definite; il multiculturalismo pone sfide crescenti alla convivenza civile. Il quadro internazionale ha riferimenti assai più incerti che nel passato: il bipolarismo USA/URSS non è stato rimpiazzato dall’egemonia americana ma da una quantità di stimoli emergenti che non danno ancora un’indicazione chiara di tendenza. L’Europa, a sua volta, sta attraversando una grave crisi di identità con forti spinte nazionalistiche, a loro volta contestate, all’interno dei singoli paesi, da tensioni localistiche. Inoltre, le sfide poste dallo sviluppo economico alle risorse planetarie in termini di ambiente, energia, acqua e suolo sono tutt’altro che risolte e il loro potenziale deflagrante rimane come una grave minaccia alla stabilità complessiva. La tecnologia, con la nascita e l’affermazione prepotente ed invasiva della “società dell’informazione” contribuisce ad aumentare l’incertezza complessiva del quadro di riferimento. Le libertà individuali sono minacciate da un controllo esterno in grado di conoscere , sindacare e sfruttare le azioni dei singoli; tutti i dati necessari a prendere decisioni individuali e collettive sono facilmente accessibili in rete ma la loro veridicità o attendibilità è difficilissima da verificare; i sistemi informatici, sempre più complessi e integrati, rischiano in caso di grave guasto o sabotaggio di creare situazioni disastrose. Persino le guerre stanno cambiando aspetto, almeno nella parte più ricca del globo: utilizzando droni sempre più piccoli e micidiali, controllati a distanza da centri protetti, i militari del ventunesimo secolo uccidono e distruggono senza esporsi ad alcun rischio e, finito il loro turno di lavoro, se ne tornano in auto alle loro case e famiglie. Per non parlare delle implicazioni potenzialmente sconvolgenti della post-genomica e degli sviluppi delle neuroscienze. Di conseguenza, i prossimi anni e decenni saranno, probabilmente, caratterizzati da un contesto assai incerto e per certi versi imprevedibile

dove molte delle decisioni politicoeconomiche dovranno misurarsi con le grandi sfide di cui si è prima fatto cenno. In queste condizioni il vecchio detto di Luigi Einaudi “conoscere per deliberare” può costituire, a molti decenni dalla sua formulazione, uno spunto interessante per immaginare un ridisegno del nostro sistema di governo della “cosa pubblica”. Conoscere vuol dire, in questo caso, avere la capacità di raccogliere, validare e ordinare le notizie relative ad una singola situazione ed elaborarle in modo coerente fino a trarre un quadro diagnostico il più possibile corretto (dal punto di vista metodologico) ed esauriente. Questi quadri, poi, devono essere resi disponibili al decisore perché li usi per svolgere il suo compito precipuo: prendere, appunto, decisioni informate. Vi è chi sostiene che la responsabilità di compiere queste sintesi, visto che la gran parte delle notizie è facilmente disponibile in rete, può oggi ricadere sul singolo cittadino-elettore che dovrebbe però essere in grado di interpretarle correttamente , di valutarne le implicazioni a breve e lungo termine e di indicare direttamente al potere esecutivo il cammino da intraprendere. Si potrebbe, così, abbandonare la via della democrazia rappresentativa a favore di una forma di democrazia diretta basata su una specie di referendum permanente on-line. Credo che questo orientamento non tenga conto di due aspetti: la capacità di discernere tra il vero e il falso e la complessità di molti dei temi sui quali si è chiamati a decidere. Il rischio, quindi, è che i referendum diano esiti impraticabili o dannosi, ponendo i decisori di fronte al dilemma se seguire la volontà popolare fingendo di non accorgersi dei danni potenziali ovvero disattenderli venendo meno a un presupposto fondante della forma di governo prescelta. Accantonando quindi l’ipotesi di ricorso alla democrazia diretta e tornando al nostro ragionamento iniziale, si danno

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ancora due alternative estreme: a) I partiti si dotano di complesse strutture di analisi ed elaborazione in grado di supportare i loto eletti nell’assumere le decisioni necessarie. In parte era quello che succedeva durante la “prima repubblica”: i partiti avevano consistenti segreterie tecniche e uffici studi che “istruivano” le decisioni da prendere. Oggi questa strada appare difficile: richiederebbe cospicui finanziamenti pubblici ai partiti, proprio in un momento in cui si sta parlando di abolirli. Inoltre, analisi e diagnosi condotte separatamente su argomenti incerti e controversi potrebbero rendere più complesse le possibili mediazioni (l’attuale dibattito sull’IMU ne è, ove fosse necessario, una controprova). b) All’opposto, i partiti si organizzano in strutture leggere operanti sulla base di una legge elettorale uninominale , senza finanziamenti pubblici e accettando un robusto controllo sociale diretto sugli eletti. Ciò contribuirebbe a dare l’impressione di una politica meno ingorda e più disponibile ad una verifica continua del suo operato. Questa formula però, non garantirebbe la realizzazione di un mix di professionalità ed esperienza tra gli eletti in grado di assumere decisioni difficili nei complessi contesti descritti in precedenza. Essi quindi rischierebbe di dover dipendere (e già oggi è largamente così) dai funzionari parlamentari e dalle tecnostrutture rappresentate dai magistrati amministrativi (Consiglio di Stato e Corte dei Conti), categorie queste sottratte a qualsiasi controllo pubblico. c) Un correttivo a quest’ultima alternativa potrebbe consistere nel dare vita ad una struttura indipendente di elaborazione e diagnosi sul modello

dello statunitense OTA (Office of Technological Assessment) in grado di fornire su richiesta, ma anche di propria iniziativa, rapporti previsionali sugli argomenti in discussione che le parti potrebbero utilizzare nella elaborazione delle loro posizioni politiche. Questa struttura, di servizio al parlamento, al governo e alle forze politiche, dovrebbe operare in autonomi ama anche in totale trasparenza. Ai politici rimarrebbe il delicato e cruciale compito di scegliere, fra le varie opzioni possibili la soluzione giudicata più ragionevole e coerente con l’ideologia e la strategia premiate dall’elettorato. Ogni proposta ha in sé qualche rischio, e un eventuale OTA all’italiana ne possiede alcuni: il primo è che contribuisca all’ulteriore delegittimazione delle forze politiche diffondendo il falso mito della tecnocrazia. Il secondo è che le forze politiche possano considerare i rapporti di un tale organismo come un ostacolo o una inaccettabile limitazione al loro agire. D’altronde questo è quello che è successo negli Stati Uniti quando, all’inizio del primo mandato di Bill Clinton in una controversia con il Congresso sul bilancio federale, l’OTA venne soppresso e i suoi oltre 800 qualificatissimi dipendenti licenziati. Concludendo, l’attuale sistema italiano di gestione della cosa pubblica è in grave crisi e non sembra possibile ripristinarne un accettabile livello di funzionamento con interventi correttivi semplici e puntiformi; e neppure esistono soluzioni senza rischi. Ma il non fare nulla sperando che le “forze della natura “ da sole possano guarire il malato rischiano di portarlo alla morte.

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segni e significati di una crisi (3) Valerio Zanone, Antonio Casu, Laura Bazzicalupo, Giorgio Pacifici, Francesco Pezzuto

Valerio Zanone democrazia ha dimostrato di essere la La crisi della democrazia è sociale tecnologia del potere meglio idonea al prima che politica governo delle società complesse. prima di inoltrarsi nelle crisi attuali Dovunque in occidente, ed a maggior della democrazia, ancora una ragione in italia, si scrivono libri e precisazione è d’obbligo. il potere che la indicono convegni sulla crisi della democrazia attribuisce ai suoi destinatari democrazia. sul significato del termine non è illimitato. la democrazia che si è occorre intendersi. se si attribuisce al formata attraverso alla periodizzazione termine “crisi” un significato simile a dei diritti è la democrazia liberale, dove quello classico, qualcosa che fa pensare l’aggettivo inserisce nel codice genetico ad una apertura di giudizio, si potrebbe del sostantivo i limiti oltre i quali il dire che la crisi è un connotato potere di maggioranza non può intrinseco alla democrazia, non neces- procedere. Con la separazione dei poteri sariamente negativo: anzi la democrazia e la loro sottomissione al patto è raccomandabile, in quel senso, come la costituzionale, la democrazia riconosce tecnologia del potere più idonea a agli individui una sfera di libertà inrestare sempre aperta alle crisi ed a violabili, l’armatura dei diritti rinnovarsi superandole, come quelle fondamentali. febbri infantili da cui si usciva cresciuti l’area della democrazia liberale si può di statura. tracciare in alto a sinistra del quadrante peraltro per duemila anni il termine di Nolan, un incrocio di assi cartesiani stesso di democrazia è stato usato dalla che in orizzontale segna dal meno al più dottrina politica con accezioni quasi la libertà di mercato ed in verticale segna sempre negative. la sua fortuna dal meno al più i diritti civili. l’angolo decorre in sostanza soltanto dalla sto- inferiore a sinistra (libertà economiche ria moderna, con la periodizzazione dei e civili al minimo) è dei totalitari. l’andiritti: i diritti civili del settecento, i golo opposto, superiore a destra (libertà diritti politici dell’ottocento, i diritti economiche e civili al massimo) è dei sociali del Novecento, oggi i nuovi libertari. l’angolo inferiore a destra (il diritti insorgenti dalle nuove tecnologie. massimo di mercato e il minimo di diritti Dunque la democrazia è una civili) è dei conservatori. Resta l’angolo invenzione della modernità, che superiore a sinistra, dove il massimo di contiene nel nome la propria promessa: diritti civili si combina con il mercato la promessa di affidare il potere ai suoi aperto ma regolato dalle leggi, e la destinatari. ma poiché per definizione la libertà di iniziativa privata si acdemocrazia è sempre aperta alle crisi, compagna con scelte pubbliche di anche l’attuazione della promessa è redistribuzione a favore degli individui e sempre esposta a rilievi critici. Norberto gruppi svantaggiati. politicamente, abiBobbio usava osservare che la maggior tano da quelle parti le famiglie storiche parte degli studi sulla democrazia della democrazia occidentale; liberaltrattano delle sue promesse non democratici, socialdemocratici, cristiamantenute. e peraltro, per la capacità di no-democratici. rinnovarsi attraverso le crisi, la la democrazia sin qui descritta 3


Valerio Zanone

presenta un insieme di connotazioni liberali. ha in sé un connotato relativistico, in quanto l’armatura dei diritti individuali comporta il pluralismo dei valori e quindi la legittimazione del compromesso kelseniano. ha in sé anche un connotato procedurale in cui è fondamentale la libertà di discussione. Nella democrazia che negli anni settanta si definiva partecipativa ed oggi si definisce deliberativa, la procedura fondamentale è nel momento della discussione prima che in quello della decisione. ancora, e qui ci avviciniamo all’analisi sulla crisi della democrazia in termini globali, la democrazia liberale ha fra i connotati costitutivi il rapporto fra la democrazia come scambio fra le idee ed il mercato come scambio fra gli interessi. all’origine il rapporto fra democrazia e mercato ha una radice storica comune. il regime rappresentativo è il portato delle rivoluzioni contro le gerarchie tradizionali condotte dalla borghesia produttiva e commerciale. libertà basali quali la libertà di iniziativa, di circolazione, di competizione, sono princìpi fondativi tanto del mercato quanto della democrazia. ma dagli ultimi anni del Novecento in poi, la globalizzazione ha divaricato l’asimmetria fra i mercati, rapidamente diventati globali, e le democrazie, ancora legate al formato nazionale. i mercati globali sono debolmente regolati da istituzioni globali. il potere della democrazia è soverchiato dal potere della finanza. la dimensione globale della crisi democratica consiste nello squilibrio crescente fra i poteri della rappresentanza politica ed i poteri della finanza e delle comunicazioni. la profezia kantiana del governo cosmopolitico rimane lontana sull’ orizzonte. Nell’ordine internazionale la tappa di avvicinamento più rilevante nella seconda metà del novecento rimane l’unione europea, che però segna il passo appunto per deficit democratico. la crisi della democrazia può essere

descritta per cerchi concentrici; il cerchio globale dell’asimmetria fra mercati ed istituzioni, poi il cerchio europeo dell’ancora incompiuta cittadinanza comune. adesso conviene stringere il cerchio sugli aspetti specifici del caso italiano. la crisi della democrazia si manifesta oggi in italia con intensità più grave rispetto ad altre parti d’europa. in tutta l’europa la democrazia oggi è scossa da uno sciame sismico che in italia è aggravato dalla fragilità delle istituzioni, e la fragilità delle istituzioni è insieme causa ed effetto dal discredito verso la politica. Nella graduatoria del discredito verso la politica, la posizione di fondo (cinque per cento appena di consensi), è occupata dai partiti. la democrazia non può funzionare senza soggetti che spartiscano il popolo sovrano e lo ricompongano in parti dotate di una voce, ossia la democrazia non può funzionare senza partiti. Nella società della comunicazione di massa, dove il messaggio politico si trasmette essenzialmente attraverso la televisione, la natura associativa dei partiti tende ad indebolirsi a vantaggio dell’identificazione spettacolare con la persona del leader; il vincolo di partito passa dalla membership alla leadership. l’indebolimento dell’identità associativa apre spazio all’antipolitica e favorisce l’idea che le scelte pubbliche disattese dal sistema rappresentativo vadano affidate al capo dell’esecutivo. sulla forma di governo una pluralità di varianti dal parlamentarismo al presidenzialismo può rivendicare la legittimazione democratica. ma nello stato presente della democrazia in italia, c’è qualcosa di malsano nell’idea che invece di mobilitare per le scelte pubbliche le responsabilità di tutti, si affidi a uno solo il carico di risolverle. Con le elezioni nazionali del 25 febbraio 2013, sono stati smantellati gli ultimi residui del sistema partitico di origine ciellenistica, durato mezzo se-

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La crisi della domocrazia è sociale prima che politica

colo e crollato nel 1994. il crollo dei partiti storici diede inizio nel 1994 ad un bipolarismo montato al rovescio, senza reciproca legittimazione fra i due poli e quindi tendenzialmente centrifugo. il veemente contrasto fra i due poli si è tradotto in sfiducia verso le istituzioni, la crisi della politica è degenerata in crisi della democrazia. Dopo vent’anni di esercizio, nel 2013 i due poli hanno perduto rispetto alle elezioni precedenti dieci milioni di voti, sei a destra e quattro a sinistra: e l’87 per cento di quei dieci milioni perduti dai due poli è andato al movimento di protesta Cinquestelle, ossia alla politica dell’antipolitica. tuttavia la crisi dei partiti e i malfunzionamenti del sistema pubblico spiegano solo in parte la crisi della democrazia. il cuore del problema ha essenzialmente carattere sociale. le democrazie liberali funzionano in sistemi sociali di benessere diffuso, sul tempo lungo nessuna democrazia liberale sopravvive all’impoverimento dei ceti medi. Vero è che per la ragione pubblica deve considerarsi motivo di scandalo il crescere della povertà e non il crescere della ricchezza: ma anche il crescere della diseguaglianza diventa motivo di scandalo sociale. Ciò accade in italia. la forbice delle diseguaglianze nei redditi si allarga al premere della recessione. l’economia italiana perde capacità di competizione sui mercati globali per un insieme di fattori che si potrebbero definire le 7 piaghe d’italia: il cuneo troppo largo nel costo del lavoro, il costo dell’energia industriale, il deficit di infrastrutture soprattutto al sud, la pressione fiscale squilibrata e complessivamente eccessiva, i tempi della giustizia, l’ipertrofia burocratica, gli inquinamenti malavitosi. tutti quei fattori risalgono a responsabilità politiche annose e plurime, cui deve aggiungersi la responsabilità di aver consumato negli ultimi decenni più di quanto il paese era capace di produrre, mettendo il costo a carico

dei posteri; e di aver utilizzato il debito non in investimenti per il futuro, ma per indulgere a politiche assistenziali non estensibili alle nuove generazioni. l’avvio del rientro sarebbe stato possibile dieci anni fa grazie alla riduzione degli interessi sul debito portata in dote dall’unione monetaria, ma l’opportunità non è stata raccolta anche per la gelata dell’economia occidentale. l’impoverimento dei ceti medi; l’iniquità delle diseguaglianze nelle condizioni di vita; la perdita di competitività sui mercati globali; il degrado del sistema pubblico; l’umiliazione del capitale umano formato dalla nuova generazione; sono essenzialmente questi nell’italia d’oggi i fattori che mettono a rischio la democrazia. la crisi è sociale prima che politica.

Antonio Casu I rischi della democrazia corporativa

uno dei fondamenti dell’accezione liberale della democrazia è, per dirla con Kelsen, che la democrazia è intrinsecamente relativa, e che tale connotato, che viene solitamente opposto alle critiche di relativismo che alla cultura contemporanea provengono in particolare dal pensiero religioso e specialmente dalla Chiesa cattolica, è imprescindibile, perché la democrazia si realizza proprio nel contemperamento dei diritti di tutti e di ciascuno e dunque si sostenta nell’equilibrio dei rispettivi valori, nella misura in cui sono riconosciuti dall’ordinamento, con forme e modalità garantite dall’assetto politicoistituzionale che le è proprio, e in modo specifico dal costituzionalismo moderno. Da questo angolo di visuale, la democrazia non può riconoscersi in una etica, senza avviarsi su quel piano inclinato che, come altre volte in passato, la porterebbe verso una crisi irrimediabile e aprirebbe la prospettiva

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Antonio Casu

di uno stato etico, e comunque di uno stato totalitario. Da un versante diverso, ma complementare, a partire da popper fino ad oggi, si precisa che solo tutelando i diritti civili e politici di ciascuno, e quindi di tutti, la democrazia può riuscire a tutelare effettivamente le minoranze, evitando così di incorrere in quella “dittatura della maggioranza” che, dall’apologo di pericle in poi, costituisce l’infausta nemesi paventata da ogni sincero democratico. in questo ragionamento vi è, al fondo, una cesura del continuum tra etica e democrazia, e più in profondità, in alcuni autori, perfino tra etica e politica. eppure, al di là delle intenzioni, evidentemente e meritoriamente finalizzate a mettere al riparo la casa comune della democrazia dal rischio dell’ evanescenza e della mancanza di legittimazione, questo ragionamento incorre in un’aporia fondamentale, un vero e proprio paradosso etico della democrazia, perché una cosa è lo stato etico, altra l’assenza o il rifiuto di una cornice di valori etici condivisi. infatti la democrazia è e rimane, sia pure nelle varie definizioni che le sono state attribuite, il sistema politicoistituzionale maggiormente vocato a dare voce e spazi di rappresentanza alla società civile. Quando la coesione sociale si allenta e la conflittualità interna si innalza, la stessa possibilità di operare della democrazia è messa a repentaglio, perché essa è sottoposta a richieste di rappresentanza degli interessi sempre più pervasive da parte dei gruppi di pressione meglio organizzati, che da una parte riducono oggettivamente gli spazi di mediazione del potere pubblico, e dall’altra comprimono diritti e interessi dei singoli e dei gruppi che non sono in grado di organizzarsi efficacemente ovvero la cui capacità di auto-tutela risulta di minore efficacia. Certo, è vero che la democrazia moderna è continuamente sottoposta alle tensioni derivanti da molte spinte

centrifughe, sia dall’alto (dimensione sovrannazionale e trans-nazionale) che dal basso (rivendicazioni autonomistiche e separatistiche), e si trova oggi a fronteggiare la sfida più pericolosa: la sua stessa capacità – in uno scenario globalizzato dai contorni nuovi e in parte ignoti - di tutelare i più deboli dalle forzature valoriali e giuridiche dei più forti. si dirà che così è sempre stato, che il diritto è in ultima analisi la formalizzazione dei rapporti di forza. e tuttavia assistiamo oggi ad una fase ulteriore, consistente in un processo di giuridicizzazione delle istanze di gruppi sociali che non si limitano ad esigere maggiori tutele dall’ordinamento, ma richiedono la delegittimazione del diritto di critica, quando si rivolge contro i loro interessi. si instaura così un processo di disaggregazione sociale, che si articola in alcune fasi successive: la delegittimazione dell’altro, inteso come ostile e non come parte del processo democratico; la conseguente richiesta di una sanzione giuridica, sempre più di indole penalistica, delle posizioni di critica espresse a danno della propria identità di gruppo; la limitazione, e dunque in realtà la frantumazione, del diritto costituzionale alla libertà di opinione. in tal modo, la tutela costituzionale dei diritti, anche quando univoca e solenne come nel caso della Costituzione italiana, sembra non essere più sufficiente. o meglio, viene percepita come una sorta di tutela residuale, per i cittadini e i gruppi che non dispongono di strumenti più idonei per tutelarsi. le categorie forti, al contrario, esigono una sorta di “tutela rafforzata”, che ne legittimi pubblicamente il ruolo sociale acquisito. ed ecco che il processo di giuridicizzazione dei diritti, se non sottoposto ad un quadro di riferimento generale e organico, che ne assicuri le compatibilità interne, rischia di contribuire alla rottura della coesione

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I rischi della democrazia corporativa

sociale, che si fonda proprio sull’equilibrio dei diritti, non sulla preminenza di alcuni, nonché sulla tolleranza delle opinioni espresse, anche quando (o forse proprio quando) opposte e critiche, e non sulla loro criminalizzazione. su questa strada, il rischio è che in luogo della temuta nemesi della democrazia imbelle, si inveri una differente nemesi, la strisciante e inavvertita apparizione, invece che del monopolio statale dell’etica, di una nuova democrazia a più livelli di legittimazione etica, e dunque a diseguali livelli di piena legittimazione democratica. Con il risultato che l’articolo 3 della Costituzione sarebbe di fatto ridimensionato a poco più di una petizione di principio, con ciò realizzando una vera e propria deriva democratica. la democrazia rappresentativa, passata da tempo dalla sua dimensione partecipativa a quella procedurale, sembra avviarsi ad una nuova fase: la democrazia corporativa, risultante dall’equilibrio, intrinsecamente precario, tra i suoi azionisti di maggioranza, con il conseguente progressivo ampliamento della fascia di esclusione sociale e politica. si tratta evidentemente di un corporativismo differente da quello che si è storicamente inverato, apertamente codificato e rivendicato. la tutela degli interessi settoriali, privilegiati rispetto a quelli comunitari, non viene apertamente declinata, ma al contrario si realizza e si espande al di sotto della soglia della trasparenza democratica, grazie all’allentamento del telaio istituzionale e rappresentativo, laddove prevalgono spinte e indirizzi spesso provenienti da gruppi di interesse opachi e non rappresentativi di corpi organizzati. occorre chiedersi quali siano le ragioni di questo processo. la causa principale, a mio avviso, è proprio il fatto che questo processo affonda le sue radici in una profonda crisi di riconoscimento della comunità e delle comunità in un quadro di valori etici condivisi. una

società che sembra aver perso la capacità di legittimare quanto di buono sussiste nelle tesi di chi la pensa diversamente, e di arricchirsi della diversità, si dirige ineluttabilmente verso la disgregazione interna, perde competitività a livello globale, diventa pressoché solo un mercato disponibile per società più coese e determinate. l’esperienza del processo costituente seguito alla seconda guerra mondiale ci ricorda una regola aurea: non è necessario pensarla allo stesso modo per avvertire il valore e la necessità di regole di convivenza condivise, riconosciute come fondamentali per il funzionamento della casa comune. anzi, proprio quando le parti sono molto distanti si avverte maggiormente la necessità di un percorso comune. la distinzione è il presupposto dell’intesa. ma la distinzione non può spingersi fino alla disgregazione. infatti, la regola aurea è sempre il frutto della definizione di priorità condivise, e il segno della percezione dell’esistenza di un limite ad ogni rivendicazione, che deriva dalla condivisione di un progetto per la società. se non ci si sente parte del progetto, le componenti sociali si allontanano progressivamente e si frantumano, e la società rischia di percorrere a ritroso quel cammino che portò all’edificazione dello stato moderno, per sopperire alla conflittualità sociale (homo homini lupus) e per ristabilire valori di riferimento, e limiti all’agire, dopo la tragica esperienza delle guerre civili di religione. Questo processo confluisce e si salda con un processo più generale che investe i rapporti tra sistema economicofinanziario e rappresentanza politica. infatti l'auto-rappresentazione degli interessi tende a by-passare i livelli della rappresentanza. Questo fenomeno non si è forse mai avvertito come ora, nel tempo della democrazia moderna. tre sono a mio avviso i fattori principali, che si correlano tra loro in un rapporto reciproco di causa-effetto, e in un complesso sistema di relazioni.

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Antonio Casu

il primo è la fine della contrapposizione politico-militare tra modelli politici alternativi, conseguita all’implosione dell’impero sovietico, che ha dirottato sul piano della concorrenza economica insita nel capitalismo le energie e le risorse prima destinate alla confrontation ovest-est, tanto che oggi le grandi superpotenze del Nuovo mondo - innanzitutto stati uniti, Cina e Russia - competono e anche cooperano tra loro sul piano economico-finanziario senza ripercussioni, se non limitate e sporadiche, sul piano politico, in ogni caso senza sconfinare sul piano di una minaccia militare reciproca. il secondo fattore è lo sviluppo esponenziale e sempre più rapido della ricerca scientifica e della tecnologia, orientate in misura perfino maggiore che nel tempo della Guerra fredda verso i nuovi settori strategici, in particolare energia e comunicazioni, con preminente finalizzazione sul versante della produzione e del commercio. oggi l’occupazione militare dei paesi satelliti ha ceduto il passo al controllo del debito sovrano. il terzo fattore è la globalizzazione, che ha vanificato le rendite di posizione politica sia a livello di stati sia a livello di individui, consegnati ormai alla loro reale capacità di sopravvivere nel mercato globale. Così, le medie potenze regionali come l’italia devono confrontarsi con potenze emergenti di quello che con sussiego è stato per lungo tempo definito il “terzo mondo”, sul piano della competitività del sistema economico e sul piano dell’adeguatezza del sistema politico a sostenerlo, senza accampare motivazioni di schieramento politico internazionale, che peraltro in quel precedente contesto di relazioni internazionali erano senza dubbio fondate, ma oggi non sono più riutilizzabili. il combinato disposto di questi tre fattori determina una pressante richiesta di flessibilità del mercato, del lavoro e del tessuto produttivo. Questa esigenza è nota, e largamente condivisa. ma in questa sede occorre considerare che la

richiesta di flessibilità del mercato e nel mercato, ormai globale, presuppone una richiesta di flessibilità dell'individuo. un requisito di competitività che diviene un obiettivo politico. osservando il processo da questo angolo di visuale, si comprende la ragione ultima del favore accordato dai paesi più sviluppati alle legislazioni che comportano di fatto l’allentamento o perfino la rimozione dei vincoli che l'individuo contrae nella sua dimensione sociale, dalla famiglia al sindacato, dal partito politico alla religione organizzata. e tuttavia, la rimozione dei vincoli non comporta a sua volta - come spesso si crede - l'affermazione dei diritti, ma la loro contrazione, e talvolta il loro svuotamento. Non a caso ad essere legittimati sono prevalentemente i diritti civili, che vengono imputati all'individuo uti singulus, ma non quelli sociali ed economici, frequentemente conculcati e perfino delegittimati. i diritti civili diventano così il terreno di raccordo tra le nuove fisionomie sociali, in cerca di legittimazione, e il potere politico, che non riesce a incidere sul terreno economico e sociale. la saldatura tra questi fattori produce il fenomeno sopra accennato, cioè la propensione degli interessi costituiti a by-passare il livello della rappresentanza. Ciò avviene in forme diverse. Da una parte si ridimensiona il ricorso a politici “tradizionali”, provenienti dai partiti, selezionati nell’agone politico e dipendenti in modo preminente dal consenso popolare. per altro verso si assiste all'elezione al parlamento di rappresentanti diretti di aziende, gruppi e corporazioni. tale scelta, se non equilibrata e controbilanciata, può determinare una sostanziale diseguaglianza di accesso alla fonte della decisione politica, e favorire la costituzione o il consolidamento di oligarchie economiche e finanziarie. Ribaltando l’interpretazione più diffusa, possono essere dunque lette in questa chiave le ricorrenti rimostranze nei confronti dell'invasiva prossimità dei

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lobbisti alle sedi degli organi legislativi, assemblee e Commissioni, e ai parlamentari stessi. il principale antidoto non può che essere l’instaurazione di un regime di trasparenza, come avviene attraverso l'istituzione del registro delle lobbies, ad esempio negli stati uniti. Questo stato di cose mette in gioco, dunque, il ruolo non della sola istituzione parlamentare, ma della rappresentanza politica in quanto tale, in ognuno dei livelli nei quali si articola. le conseguenze sono molteplici e tra loro strettamente collegate: la crisi del parlamento come sede privilegiata del contemperamento degli interessi della comunità; la ricorrente critica di quel fondamentale principio democratico che è il consenso popolare, inteso come ostacolo all’assunzione di decisioni ritenute tanto necessarie quanto radicali di ristrutturazione dello stato e dell’ economia; la crisi della legge come strumento generale di regolazione normativa degli interessi, in favore di provvedimenti di indole regolamentare, tanto specifici quanto eterogenei; l’accentramento di funzioni in capo all’esecutivo e, in questo ambito, il crescente ricorso a premier, governi e ministri “tecnici”. l’auto-rappresentazione degli interessi percorre ormai itinerari paralleli, utilizza intensivamente le competenze specialistiche, i mezzi di comunicazione di massa, la rete. Da questo angolo di visuale vi è chi ritiene, come Danilo Zolo (Russian Journal, 2010), che oggi “[l]a volontà del potere esecutivo si sostituisce di fatto alla volontà, puramente presunta, del "popolo sovrano" e alla dottrina della "sovranità popolare" non resta che il ruolo di una ‘maschera totemica’, come lo stesso Kelsen ha sostenuto”. a mio avviso, tuttavia, il governo può assumere una simile fisionomia solo a date condizioni e in alcuni contesti nazionali, dove il sistema economico è più forte e il rapporto economia-politica, e soprattutto finanza-politica, più sbilanciato. Non si tratta infatti di un modello uniforme, almeno in occidente,

quanto probabilmente di un processo disomogeneo, nel quale in alcuni paesi il governo non adempie effettivamente questa funzione, esprimendo piuttosto una difficoltà a mediare tra spinte incrociate e contraddittorie. la globalizzazione configura uno scenario contraddistinto dalla preminenza degli interessi economicofinanziari, ormai attestati su una dimensione trans-nazionale, e di una corrispondente leadership politicoeconomica. Valori etici e principi democratici, pubblicamente proclamati, sono sempre più spesso in realtà utilizzati (quando non solo tollerati) come simulacri dell’ordine sociale, benché (o purché) svuotati di effettività. analogo destino è assegnato alle comunità intermedie, vero pilastro della democrazia partecipativa. a un simile scenario finisce per corrispondere una difficoltà “esistenziale” della rappresentanza politica, percepita sempre più negativamente dalle popolazioni per la sua crescente difficoltà a trovare risposte adeguate e tempestive ai bisogni sociali. i rischi, stando così le cose, sono principalmente due. il primo è quello di rincorrere gli umori della base, limitando il processo di riforma alla sfera della politica e dunque riducendo ulteriormente gli spazi della mediazione politica. Non a caso si parla sempre più insistentemente di riduzione dei parlamentari, di monocameralismo, di soppressione di livelli intermedi di rappresentanza, e via dicendo. il secondo è quello di richiudersi - spesso inconsapevolmente, per una peculiare sindrome di accerchiamento - in una sorta di ghetto auto-referenziale, che di fatto acuisce la distanza tra istituzioni politiche e società civile, in una spirale progressiva che indebolisce il tessuto democratico. in questo contesto, la teoria democratica, anche quella qualificata come “realista”, attraversa una crisi epocale. Nessuno possiede la certezza delle risposte giuste. si può tuttavia ipotizzare almeno una direzione di marcia. infatti,

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l’analisi che precede delinea uno scenario nel quale le sole risposte istituzionali, sia pure necessarie, non sono sufficienti. la riforma dei meccanismi di funzionamento della decisione politica può certo, anzi dovrebbe, rendere una decisione più tempestiva, e più efficace. ma una simile riforma, per non rimanere isolata e dunque velleitaria, deve essere necessariamente accompagnata, anzi preceduta, da altri fattori. almeno tre. il recupero del senso del limite, come fondamento etico e presupposto democratico, come riscoperta del valore dell’altro-dasé e conseguentemente del rispetto, anzi dell’interazione necessaria con l’uomo e con la natura nel suo complesso. un quadro di riferimento di valori condivisi, una vera carta fondamentale dell’etica sociale non disgiunta da quella individuale, ma anzi ad essa omogenea. la concreta riaffermazione del principio di trasparenza nella sfera pubblica, manifestazione del principio inderogabile di responsabilità, individuale e comunitaria. Laura Bazzicalupo Democrazia e neoliberalismo

Un necessario punto di partenza: la razionalità neoliberale e’ diventato un luogo comune l’affermazione che la democrazia è in crisi. sono passati già diversi anni dal libro di Crouch che con il termine postdemocrazia definiva un tempo nel quale la forma di governo rappresentativo che l’occidente a lungo ha fatto coincidere con l’antico termine greco, è diventata post, è passata, senza peraltro esserlo davvero: il senso del post è infatti un tramonto che muove dalla persistenza delle forme dell’organizzazione politica democratica. Non so francamente se il termine sia appropriato. Certo assistiamo, oggi più che mai, ad una violenta crisi di fiducia nelle modalità di organizzazione politica democratica che a loro volta si inceppano continuamente, si smentiscono, si svuotano; una crisi

tanto violenta da farci sospettare che la categoria di democrazia sia ancora adeguata a pensare la convivenza umana oggi. Dobbiamo fare qualche premessa prima di analizzare questa realtà. innanzitutto l’approccio della teoria alla politica, la relazione ambigua tra filosofia e politica: da parte mia ritengo irrilevante e pericoloso assumere la prospettiva normativa o quella tecnica: né consiglieri del principe, né detentori di un sapere o di una verità che può illuminare o suggerire ricette. la filosofia, ovvero il pensiero (che non è un sapere) ha il compito di problematizzare la scena politica così come viene rappresentata e vissuta: deve accogliere l’urto della realtà e analizzarla perché le posizioni siano assunte in modo responsabile, e, se ne è in grado, deve forgiare concetti che permettano di afferrarne gli aspetti inediti e le possibilità latenti. Da questo punto di vista i tempi sono inquietanti. Nonostante la democrazia ‘trionfi’ in quasi tutti gli stati del globo, la tecnica o razionalità politica che organizza trasversalmente – al di là dei confini nazionali tradizionalmente cruciali per la democrazia, l’intero globo – a governare le nostre vite è, ormai da più di un trentennio, la razionalità neoliberale, che si presenta come una decisa spoliticizzazione. il primo punto che dobbiamo affrontare è esattamente questo: come può sopravvivere una democrazia pensata e costruita attorno allo stato nazione e organizzata sulla sintesi politica dei differenti poteri sociali (soprattutto economici), quando la razionalità di governo diventa, con il neoliberalismo, ostile alla sintesi ideologico- (o filosofico-) politica e ostile all’artificiale costruzione politica della forma che unifica le differenze? Questa tecnica/cultura neoliberale che foucault ha definito col termine governamentalità – sottolineando il legame semantico tra dispositivi di governo e mentalità, modi di pensare – si presenta infatti come una forma di vita, un modo di vivere la coesistenza

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dei poteri sociali sul piano della loro totale immanenza: un modo nel quale i vettori di potere avvertono come un tradimento e un sopruso il trascendimento in nome dell’interesse comune, del noi democratico. il “non esiste la società, ma solo gli individui” di margaret thatcher smentisce la forma democratica pur coesistendo con essa. peraltro, anche se si presenta come una spoliticizzazione, una neutralizzazione dell’ingerenza politica, questa razionalità governamentale è in realtà una precisa e potente forma politica che organizza i plures, i poteri sociali attraverso la logica economica. e’ un modus di governare le differenze e le potenze immanenti al tessuto sociale che segna una profonda distanza dall’opera democratica della costruzione politica. la sua specificità che le giova l’appellativo ormai diffuso di bioeconomia sta nella pervasività della sua logica in tutti gli ambiti del vivente e nel fatto che governa attraverso i modi del pensare, incidendo direttamente sui processi di soggettivazione. e’ necessario, per intendere la crisi della democrazia oggi, soffermarsi attentamente su questo governo produttivo di soggetti perché l’istanza democratica deve fare i conti con questa realtà e questa logica diversa da quella democratica, ma che pure sviluppa in modo enfatizzato uno dei suoi input maggiori: la spinta all’autogoverno e alla auto-responsabilizzazione. Questa ambigua coesistenza incide sul procedimento democratico e soprattutto sulla rappresentazione del demos come trascendimento rispetto alle pluralità. Quando, più che allo stato e alla amministrazione pubblica, la cultura neoliberale riferisce la sua tecnica di governo all’autoresponsabilizzazione privata, al selfcontrol, all’organizzazione strategica della famiglia e del piano di vita personale, al management della anima, dei desideri (quindi all’arco di tecnologie che vanno dal governo di sé al governo esperto, tecnocratico degli altri), si rende evidente che la sua vocazione egemonica punta a inaridire la possibilità stessa

di una posizione critica situata al suo esterno. semplicemente una esteriorità – necessaria per la critica, ma anche indispensabile per sussumere le differenze in una rappresentazione democratica del comune - è giudicata ontologicamente inammissibile: ogni tipo di alterità o di opposizione a questa «pragmatica generale» sarebbe priva di aggancio alla realtà, sarebbe contraria alla logica economica che si presume interna al vivente: forma autoregolativa della vita e del suo flessibile adattamento alle circostanze ambientali (nella fattispecie, il mercato). proprio la immanenza di questa logica economica priva di alternative rende possibile un governo delle vite sistematico e capillare che passa attraverso discorsi sulla libertà individuale e sul suo potenziamento piuttosto che sul bene comune, attraverso forme giuridiche negoziali e contrattuali piuttosto che leggi democratiche e universali erga omnes, attraverso governances aperte a partecipazioni settoriali degli stakeholders piuttosto che mediate dalla rappresentanza democratica. il controllo – la cui necessità si accresce quando si sono stimolate le libertà individuali e i poteri sociali in una perpetua reciproca concorrenza – si compie attraverso mediazioni di tipo amministrativo o privatistico e interventi emergenziali che sospendono i diritti. ma soprattutto, le pratiche di governo dell’individuo si esercitano tramite la valutazione, l’autovalutazione e, oggi, il crescente indebitamento in relazione al sistema concorrenziale del mercato. si inducono così soggettività che si autovalutano e sono valutate in base all’adeguamento alle variabili e imprevedibili esigenze del sistema di scambi: dunque flessibili, capaci di destituzione dell’identità, di disponibilità dell’intera vita nel processo produttivo e consumistico. proprio al contrario delle ‘virtù’ di lealtà identitaria o ideologica che sostanziavano il demos democratico. Naturalmente – ed è questa una caratteristica primaria di questa razionalità politica governamentale – le forme

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Laura Bazzicalupo

della democrazia persistono, così come persistono le classiche forme giuridiche imperniate sulla sanzione o le moderne procedure istituzionali: la compatibilità dell’eterogeneo è – ripeto – uno dei tratti che rende più difficile la definizione del conflitto e del dissenso, che dovrebbero essere l’anima della democrazia stessa. persistono dunque le forme liberaldemocratiche ma con una torsione perversa che minaccia di svuotarle ab imis. innanzitutto la forma di democrazia che, al di là della retorica, si afferma globalmente è quella aggregativa, schumpeteriana, che omologa lo spazio democratico sul modello del mercato, dove le parti - i partiti o i gruppi o le lobbies - si contendono il voto, le scelte degli elettori, con tecniche di marketing, secondo la dinamica di domanda e offerta: promettendo beni e diritti in cambio di potere da gestire. tramontato come un ferro vecchio e un residuo del passato il concetto stesso di bene comune che si polverizza nella anarchia dei singoli piani di vita stimolati dal sistema e regolati, in modo immanente, soltanto dalla logica strategica e competitiva ‘naturale’ del vivente. D’altro canto una così cruda e cinica rinuncia al ‘mito’ democratico (quell’eccedenza di senso/valore che ha avuto un ruolo cruciale del processo democratico) determina la insorgenza del populismo, altra faccia del proceduralismo asfittico di una democrazia rappresentativa e mercantile, erosa da corruzione, arroganza ed inefficienza. il populismo gestisce il portato libidico (l’eccedenza di senso, il mito) indebitamente trascurato dalla gestione economica del potere e raccoglie lo scontento, il risentimento, il malessere senza elaborarlo in una proposta politica che dividerebbe gli interessi: lasciandolo alla sua violenza e raccogliendo le domande inevase del sociale lungo una linea di equivalenza, per poi annodarle attorno a quello che laclau chiama un significante vuoto, un nodo retorico – contro la casta e i governanti ladri, per esempio - in grado

di aggregare l’antagonismo. Con l’effetto paradossale di una realtà che da una parte è governata dalla ratio economica, che sposta tutti i vecchi conflitti partigiani sulla valutazione (e autovalutazione) economica gerarchizzante che impedisce ogni aggregazione in un fronte politico, e dall’altra è scossa dalla violenza verbale e emotiva in cui si riversa la scontentezza e il disagio senza che questa violenza mediatica sia capace di incidere nel profondo delle soggettività e trasformarsi in progetto: il populismo di oggi è una frenetica danza immobile che non affonda la sua lotta nei posizionamenti materiali e ‘reali’ del sociale e che si attesta sul risentimento senza aprirsi ad un vero programma politico.

Nuovi soggetti sono tempi inquietanti questi per la democrazia, ma anche ‘interessanti’. il disagio verso le forme democratiche tradizionali si è spinto a un tale livello che si cercano, sperimentalmente, pragmaticamente piuttosto che teoreticamente, nuovi modi di essere democratici (letteralmente, nuovi modi di autogovernarsi) muovendo proprio dalla sconfessione della rappresentazione unitaria del popolo che era propria della tradizione democratica. muovendo dunque dalla trasformazione antirappresentativa ormai consolidata delle soggettività, che la razionalità e la tecnica di governo neoliberale hanno indotto. movimenti, poteri sociali, pratiche di autogoverno rovesciano il tavolo della rappresentazione del demos: si spostano sul livello dell’ontologia sociale prodotta dalla governamentalità neoliberale, rifiutano ogni trascendimento, per riscrivere le relazioni tra uomini e le pratiche del comune su quello stesso piano di consistenza che dichiarano essere in potenza immediatamente democratico. lo sfaldamento neoliberale del costrutto rappresentativo e la valorizzazione della rete microfisica dei poteri sociali può diventare, nell’ottica di questi agenti sociali nuovi, la chance di una condizione democratica (piuttosto

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Democrazia e neoliberismo

che di un regime democratico) che non passa attraverso la rappresentanza ma si esercita nelle pratiche di partecipazione diretta. Nelle esperienze di autogoverno territoriale o nei movimenti, quelle che oggi si definiscono moltitudini sperimentano forme di democrazia diretta con identificazioni politiche mobili, di tipo strategico, istantanee come le performances o i flashmobbing che mettono in scena. anche le sperimentazioni di autogestione di beni comuni, dall’incerto statuto tra pubblico e privato, evidenziano forme di soggettivazione politica anomala, ‘dal basso’. la dimensione concreta, empirica e pragmatica di queste forme di agency è una ‘interessante’ re-interpretazione dell’autogoverno democratico, che valorizza la spinta della cultura neoliberale all’auto-governo e si attaglia dunque al tipo di soggetti che quella cultura ha prodotto e con i quali dobbiamo comunque fare i conti. Con molti dubbi e perplessità però. manca a queste pratiche una concreta sedimentazione di obiettivi, una stabilizzazione e una riconoscibilità che sola ne garantirebbe l’efficacia politica; manca una organizzazione (che sia trasversale, plurale, a rete, e non reductio ad unum verticale, ma comunque necessaria per la persistenza e l’identificazione degli obiettivi) e, ad essa connessa, manca la capacità di generalizzare gli obiettivi nel comune. manca infine, l’uguaglianza e la simmetria dei poteri in gioco, in quanto la partecipazione diretta non segue alcuna procedura legittimata democraticamente: la richiesta energica dal basso, che è sollecitata da un immaginario di autogoverno proprio della cultura neoliberale, porta con sé diseguaglianze anche molto marcate. soprattutto di fronte al prezzo doloroso della crisi economica, l’urgenza di strutturare le rivendicazioni e di essere politicamente identificabili, si fa evidente in tutte le pratiche ‘dal basso’ e nei movimenti stessi. il momento organizzativo della democrazia eccede

infatti la dimensione tecnica e si rivela una dimensione strutturale della democrazia che viene implicata nell’impegno contingente e incessante di interpretare e storicizzare quel nucleo di senso e di passione per uguaglianza e libertà, che è il suo portato storico. la democrazia vive della incessante tensione tra questi due poli: organizzazione e senso/valore che ne traina il cambiamento. i movimenti e le sperimentazioni di autogoverno hanno rivendicato la vitalità delle forme pre- o non politiche della moltitudine rispetto al popolo democratico e alle sue aporie; questi agenti, agevolati dalla orizzontalità e dalla disinibizione della rete, si sono così sottratti all’eterno impotente gioco democratico-rappresentativo; lo hanno provocato per destrutturarlo tramite lo spostamento nelle piazze, la sottrazione, il micro-scontro: ebbene, oggi, sono proprio queste esperienze di democrazia diretta a interrogarsi sulla funzione politico-democratica della organizzazione, per sondare modalità di espressione politica che non tradiscano quell’incessante oscillare tra forma e movimento che è la democrazia. Va sottolineato, peraltro, che queste forme di risposta alla crisi della rappresentazione democratica in nome di una affermazione diretta delle singolarità e dei poteri sociali libertariamente svincolati dal costrutto artificiale della politica, rinvia pericolosamente proprio alle tecniche governamentali neoliberali cui abbiamo prima accennato, che peraltro dichiarano di voler combattere.

Delineare i termini di una proposta la questione oggi è cogliere i segnali che vengono dalle rapide trasformazioni dello scenario politico. sul fronte della democrazia rappresentativa, come abbiamo detto, emergono forme di populismo solo verbalmente antagonistiche, che mescolano pulsioni regressive e un conformismo passivo: il popolo che viene evocato ha una pretesa

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Giorgio Pacifici

di totalizzazione che esclude e azzera il dissenso, il conflitto delle parti del quale la democrazia si nutre. il fronte antirappresentativo dei movimenti e delle esperienze di democrazia partecipativa, a sua volta, spinto dalla durezza della crisi economica, cerca oggi con un lessico e un immaginario ‘universali’, e dunque ancora una volta popolari e democratici. Che fare? Certamente occorre prendere sul serio la logica governamentale che ha prodotto soggettività nuove al di là delle identificazioni giuridiche e politiche moderne nel cittadino. sono proprio queste soggettività d’altra parte che subiscono lo slittamento attuale dell’immaginario che oggi evoca piuttosto che il capitale umano, l’imprenditore di se stesso - la mortificante responsabilità del debito che colpevolizza e de-classa (l’arma è sempre quella della valutazione che include tutti differenziandone la posizione e l’accesso alle risorse) singoli, gruppi e popolazioni ‘irresponsabili’. a questa destrutturazione crudele e disegualitaria, non possono rispondere solo pratiche informali e protestatarie. troppo poco, a fronte di una diseguaglianza promossa e incentivata. innanzitutto bisogna che - per un necessario ripensamento della democrazia - il nucleo ‘appassionante’ della democrazia, quella che Balibar chiama egaliberté in quanto portato storico della inscindibilità dei due termini chiave della democrazia, non si configuri come un’utopia, un’impossibile idea regolativa della democrazia, ma paradossalmente come il dato da cui muove ogni rivendicazione. solo essendo liberi e uguali è possibile la rivendicazione contro una messa-in-scena democratica - una organizzazione - che nasconde, spettralizza, non fa apparire quel dato stesso. e’ necessario poi ripensare la forma organizzativa democratica nella sua dimensione unitaria in modo tale che essa articoli il pluralismo sociale senza che venga sacrificata la voce dei singoli,

e la loro istanza di autogoverno il più ampio possibile. organizzazione e senso/valore: una organizzazione che mantenga sempre aperta la contesa tra i plures sulla definizione (o interpretazione) del senso, cioè dei significanti vuoti di libertà e uguaglianza, di giustizia sociale e di partecipazione: parole la cui concretizzazione storica resta sospesa ad un lavoro politico di incessante attualizzazione. la democrazia è dunque in atto, disvela, appare ed è già, ma è anche sempre a venire, luogo del prender forma e rinnovarsi di quel nodo di senso.

Giorgio Pacifici Democrazia! Democrazia!

Negli ultimi anni, non solo nel nostro paese, si sono moltiplicati gli avvenimenti negativi relativi ad esponenti della classe politica; molti di loro, spesso personaggi minimi, hanno abusato della propria posizione per realizzare un illecito arricchimento personale e hanno favorito uno spreco ingente di risorse pubbliche. Questi fatti, i cosiddetti “scandali della politica”, sono stati ampiamente riportati dai mezzi di informazione e hanno contribuito a peggiorare il clima di sospetto e di sfiducia pressoché generalizzata nell’opinione pubblica. il risultato è stato un insieme di sillogismi, evidentemente arbitrari, ma capaci di esercitare una notevole presa: “alcuni politici sono corrotti dunque la classe politica è corrotta”; “la classe politica è stata eletta nel quadro della democrazia rappresentativa dunque la democrazia rappresentativa favorisce la corruzione, è di per sé corrotta”. “Dunque è preferibile un totale cambiamento della classe politica”, al quale solitamente viene dato il nome augurale di “rinnovamento”; oppure più radicalmente si auspica l’uscita dalla democrazia e l’affidamento del potere politico ad un gruppo ristretto, oppure ad un solo individuo.

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Questi due ultimi sistemi, di uscita dalla democrazia e di sostituzione con regimi totalitari (la junta e la dittatura personale), prima nei totalitarismi europei del ‘900 e poi asia e nell’america latina (basti pensare a cosa ha significato per l’argentina il “proceso de Reorganizacion Nacional” o il “socialismo agrario” per la Cambogia). “sperimentazioni” di forme diverse che hanno portato immensi danni al corpo sociale, provocando guerre, massacri, rilevanti sacrifici economici.

Democrazia rappresentativa e forma partito poiché la democrazia rappresentativa occidentale è basata sulla competizione elettorale di un insieme di partiti, e nel nostro paese la Costituzione la sancisce in termini formali e progressivi, ma ad essa hanno fatto seguito derive di occupazione della cosa pubblica, la crisi del sistema democratico è stata attribuita in massima parte all’insieme dei partiti. in modo che la “forma partito” e il sistema dei partiti sono diventati i bersagli favoriti dei mezzi di informazione, e di un certo numero di politologi. in realtà il sistema democratico rappresentativo, come è stato spesso rilevato, pur non costituendo in astratto “la” soluzione ottimale, appare difficilmente sostituibile con altre forme politiche. e la stessa “forma partito” pur con tutte le sue imperfezioni non sembra trovare validi sostituti nei movimenti e raggruppamenti politici finalizzati ad uno specifico obiettivo. sembra quindi di poter suggerire soprattutto la messa in atto a tutti i livelli di adeguati ed efficaci sistemi di controllo sui partiti e sui loro statuti. esistono è vero le magistrature contabili e il controllo che esse esercitano è diventato nel corso degli anni meno formale e più stringente, ma gran parte del denaro che è devoluto al funzionamento di organi elettivi si sottrae ancora a questi controlli. sono ancora ben impressi nell’opinione

pubblica i titoli dei giornali riguardanti acquisti personali compiuti da rappresentanti eletti di diverse forze politiche, con fondi che avrebbero dovuto essere utilizzati per il funzionamento dei gruppi consiliari. Non si può non sottolineare che il vulnus arrecato alla immagine della democrazia rappresentativa è stato in questi casi di gran lunga superiore al danno economico subito dalla cosa pubblica.

Provare con i costi standard per esempio un sistema efficace di controllo preventivo potrebbe essere quello di ricorrere anche per gli organi elettivi ad un sistema di “costi standard”. occorrerebbe per esempio compiere una analisi accurata dei costi delle assemblee elettive nei diversi paesi europei, applicare alcuni fattori di ponderazione, e poi stabilire che i costi delle assemblee del nostro paese (anche di quelli delle regioni a statuto speciale), dei singoli rappresentanti e dei gruppi consiliari, non possono essere superiori a quelli medi delle altre assemblee dell’unione europea. Criteri di questo genere potrebbero essere applicati anche alle burocrazie, i cui emolumenti dovrebbero essere ricondotti alle medie europee. Contemporaneamente le categorie di spese addebitabili all’ente pubblico nel suo complesso, ai dirigenti, ai funzionari dovrebbero essere espresse dettagliatamente. l’insieme di misure di questo genere non avrebbe quasi sicuramente effetti troppo rilevanti sul bilancio statale, ma permetterebbe di ridare al cittadino medio una certa fiducia nella democrazia, che è appunto l’oggetto principale di questo breve intervento. lo stesso discorso vale necessariamente per i partiti. se nella democrazia rappresentativa i partiti sono indispensabili, il dibattito tra i partiti deve sfociare necessariamente in competizioni elettorali con modalità il più possibile certe e stabili.

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e questo processo elettorale, che è già di per sé costoso non può che terminare nella elezione di parlamenti, il cui funzionamento è anche necessariamente costoso. assumendo in questa generale categoria dei “costi” della democrazia non solo i costi economici, sui quali è certo possibile fare dei conti, ma anche quelli politici, morali e intellettuali per i quali i sistemi di contabilità non offrono parametri certi e uscite di sicurezza. per questo non sembra razionale andare a ingrossare le fila di coloro che plaudono alla cancellazione del finanziamento pubblico dei partiti. senza finanziamento pubblico e molto probabilmente con una nuova legge elettorale che riapra al sistema delle preferenze individuali, il modello italiano ha molte probabilità di avviarsi ad un ritorno alla situazione che contrassegnava la vita della prima repubblica: totale mancanza di trasparenza nelle modalità di finanziamento delle forze politiche; lotta senza esclusione di colpi tra i candidati per assicurarsi la preferenza, con l’esborso di incredibili somme di denaro: ricerca spasmodica di questo denaro praticamente ovunque e comunque. si deve ritenere che neppure nei loro sogni più rosei i “tesorieri” dei partiti (ma come suona ironica e vecchia oggi questa espressione!) pensino a dei singoli individui molto benestanti che per puro convincimento ideale si apprestino a fare delle oblazioni ai partiti, e che queste donazioni siano in grado di sostituire per ampiezza il contributo pubblico. ma anche le entrate derivanti dal tesseramento degli iscritti sono costantemente decrescenti presso la maggior parte delle forze politiche. senza dimenticare che nel nostro paese già nel 1978 i cittadini si sono espressi attraverso un referendum abrogativo per l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti. e occorrerebbe pertanto stabilire norme efficaci, trasparenti, e modalità innovative.

Lobby forti e partiti senza manca d’altra parte ancora nel nostro paese una efficace legislazione sui gruppi di pressione, che sono l’unica possibile fonte di finanziamento dei partiti in un epoca di crisi economica come quella che stiamo attraversando. Con un notevole peggioramento peraltro rispetto alla situazione anteriore al 1992: le lobbies infatti sono diventate molto più potenti, aggressive, globalizzate, tecnologiche, in grado di “ricattare” la democrazia in modi che a quell’epoca non erano neppure immaginabili. i “grandi elemosinieri globali” hanno oggi obiettivi estremamente precisi, non negoziabili, e precostituiscono dossier elettronici in grado di essere diffusi in frazioni di secondo in tutto il mondo. Di fronte a questi gruppi di pressione estremamente forti, dei partiti a struttura leggera, quasi volatile (dei “partiti senza”: senza elaborazione di pensiero, senza sezioni sul territorio, senza funzionari, senza risorse economiche, senza mezzi propri di comunicazione), offrono poche capacità di resistenza e dunque scarse garanzie per il futuro della democrazia. i controlli sui flussi economici che intercorrono tra i diversi soggetti del sistema socio-economico-politico, i controlli sulle entrate e sulle spese di questi soggetti, imponendo il minimo di regole e il massimo di trasparenza sarebbero certamente stati più utili per la democrazia, di tutte le norme abolizioniste, anche se meno rispondenti alle pulsioni della opinione pubblica. C’è una piccola eredità di sangue delle tricoteuses in ciascuno di noi, ma per evitare che essa abbia il sopravvento e crei un danno irreparabile alla democrazia i controlli non avrebbero dovuto essere soltanto formali e leggeri. e’ inutile oggi accusare i media per gli articoli e i servizi tv diffusi nel corso di decenni. Basta rileggere i pezzi pubblicati sin dagli anni ’80 per rendersi conto che la derisione e lo scherno sui sistemi di controllo erano pienamente meritati.

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Trasmissione di valori, ma quali? ma democrazia non è soltanto trasparenza e controlli. la democrazia, e in particolare la democrazia rappresentativa, è un modo intellettuale, culturale e spirituale di pensare i rapporti tra i cittadini e le istituzioni, un modo decisamente più impegnativo di tutti gli altri sotto il profilo assiologico. Democrazia è anche formazione di una classe politica degna di questo nome, ricambio di questa classe politica quando essa non appare più adeguata, formulazione di criteri di validazione di questa classe dirigente sufficientemente chiari. ma la formazione di una classe politica dovrebbe essere legata alla trasmissione di valori, e oggi pochissimi appartenenti alla classe politica sembrano avere dei valori di qualsiasi tipo da trasmettere. mancano quasi completamente le organizzazioni politiche giovanili, qualsiasi scuola di partito, qualsiasi corso di formazione alla politica è scomparso dai programmi del “partito leggero” (il “partito senza”) così aderente alla prassi (ma quale?), ai talk show, ai reality. D’altra parte è necessario constatare che, anche nell’universo dei valori, i valori democratici sembrano oggi avere assai meno appeal dei valori del “radicamento alla tradizione”, quelli che heidegger nei suoi taccuini neri chiamava “boden”, e che poi erano gli stessi valori dei famigerati gruppi volkisch alla fine dell’ottocento e nei primi decenni del Novecento, e che oggi sono quelli dei fondamentalisti islamici. senza una adeguata formazione della classe politica, che non sia soltanto tecnica ma anche culturale e valoriale, il corpo sociale continuerà a sentire il distacco tra se stesso e la classe politica. e’ difficile dal punto di vista della democrazia, cioè di una cultura che esige legittimazioni, comprendere quali siano i criteri di validazione della nuova classe dirigente; a 70 anni di distanza non sembra neppure il caso di rilevare che è storicamente esaurita quella legittimazione che i partiti e la maggior parte dei politici del dopoguerra aveva ricevuto

dalla partecipazione alla Resistenza (e la minoranza dalla fedeltà al fascismo morente). Dunque oggi è per lo meno improbabile giustificare razionalmente l’appartenenza alla classe politica: non sono stati adottati trasparenti criteri meritocratici per la cooptazione, la “militanza” appare come qualcosa di sempre più fumoso e indefinibile, e alla fine, in assenza di una qualsiasi vocazione ideale, soltanto la fedeltà ad un leader rappresenta l’ancoraggio certo alla politica. in questa situazione di totale assenza di trasparenza è difficile per l’opinione pubblica rendersi conto di come siano scelti i componenti degli organi dirigenti di partito, i candidati alle elezioni, gli esperti che verranno designati a ricoprire cariche pubbliche o a diventare membri di consigli d’amministrazione. il ricambio della classe politica assume quindi paradossali contorni anagrafici: la sostituzione di una vecchia dirigenza con una connotata quasi esclusivamente come più giovane, legittimata solo dall’età. anche dove il dibattito c’è stato è stato frustrante, modellato su format televisivi di basso livello. il problema del ricambio generazionale è diventato quindi quello dell’estromissione dal potere di una dirigenza invecchiata sui seggi parlamentari, e solo per questo rappresenta l’asse centrale del dibattito politico. ma il problema di una reale leadership non può essere disgiunto da quello della formazione della classe dirigente.

Ingegneria elettorale e/o ingegneria costituz ionale un’altra parte del dibattito sulla crisi della democrazia è stata dedicata ai temi della legge elettorale e dell’ingegneria costituzionale. la legislazione elettorale, come insegnano per esempio le tecniche di gerrymandering (rimaneggiamento dei collegi elettorali) può forse risolvere - e non necessariamente secondo il metodo democratico - problemi di stabilità parlamentare e governativa di inizio legislatura. ma è sufficiente una scissione in una forza politica che pure aveva otte-

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nuto la maggioranza assoluta per sconvolgere gli equilibri parlamentari e rendere necessaria la formazione di nuove maggioranze, o il ricorso a nuove elezioni. Con le soluzioni di ingegneria costituzionale occorrerebbe tener conto dei nuovi poteri dello stato che si sono formati al di là della classica (e ormai solo scolastica) tripartizione e dei nuovi rapporti che si sono instaurati tra i diversi poteri. Non c’è dubbio per esempio che, sull’ onda di circostanze anomale, la presidenza della Repubblica ha acquistato lo spazio di un autonomo potere; che la magistratura è ormai un potere sovraordinato al legislativo e all’esecutivo e insieme l’unico potere dello stato provvisto di una reale autodichia; che il cluster informatico-finanziario globalizzato non è soggetto alle leggi dello stato e neppure può essere soggetto a un qualsiasi controllo pubblico, neppure a livello europeo. può essere forse erroneo sotto un profilo giuridico formale definirlo un potere, ma certo sotto un profilo socio-economico esso si configura come un superpotere. Continuare a ripetere che la nostra Costituzione è la più bella del mondo sembra quindi più un apprezzamento di natura storico estetica che una valutazione di natura politica capace di aiutare la difesa della democrazia. Non sembri illecito il paragone con il campionato italiano di calcio, che si continua a definire come il più bel campionato del mondo, mentre si guardano in televisione le partite della liga e della premier league.

Democrazia e tecnologia attraverso la tecnologia digitale si rilancia come una forma di “democrazia diretta” in qualche modo alternativa alla democrazia rappresentativa, la democrazia online o “democrazia liquida”. e’ inutile riassumere qui tutte le critiche alla democrazia diretta. fino al 1968 si poteva affermare che la democrazia diretta, non applicabile alle grandi comunità politiche, poteva essere co-

munque valida all’interno di microgruppi sociali nei quali ciascuno avrebbe potuto far valere la propria opinione. Dopo la cosiddetta “contestazione”, la democrazia diretta ha dimostrato di essere uno strumento inutilizzabile anche all’interno di piccole assemblee studentesche e operaie. piccoli gruppi di individui, forniti di buona capacità vocale e capaci di utilizzare al meglio gli strumenti della retorica, sono riusciti a egemonizzare intere assemblee e a far prevalere decisioni che non erano quelle della maggioranza. ma già molti anni prima lazarsfield aveva sottolineato l’importanza del fattore influenza personale nelle comunicazioni di massa. la “democrazia online” che alcuni gruppi politici sostengono di praticare, ha tutti gli aspetti negativi della democrazia diretta, ma in più tende ad escludere dalla partecipazione al processo decisionale, tutti coloro che non sono in grado di muoversi agilmente sulla rete. si tratti di persone anziane, di persone non particolarmente acculturate sotto il profilo tecnologico, oppure semplicemente di individui con un livello intellettuale non elevato, o di persone che per motivi economici non possono permettersi l’accesso ai mezzi informatici; insomma per tutti coloro che per i motivi più diversi subiscono il digital divide, la discussione - che avviene sulle “piattaforme” e riguarda i diversi argomenti suddivisi per aree tematiche selezionati in base a precisi ordini del giorno - è come se non avvenisse in quanto non hanno la possibilità di esprimersi online. la democrazia online è quindi oggi per sua natura elitaria, un po’ come la democrazia di alcune città-stato dell’ antica Grecia in cui tutti erano uguali eccetto le donne, i meteci, gli schiavi… anche per la questa cosiddetta democrazia online poi, valgono alcune considerazioni critiche che sono state espresse con tanto vigore per la democrazia rappresentativa, l’amministrazione della piattaforma sulla quale avvengono

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le scelte può essere equiparata al famigerato controllo dei media (canali tv, quotidiani), in grado com’è di influenzare la formazione delle opinioni e la formazione dei valori, le decisioni finali. Non possono essere degli organi tecnici con i loro suggerimenti e il loro apparente essere super partes a risolvere la crisi della politica: gli interessi contrastanti di gruppi economici e sociali possono trovare una soluzione soltanto attraverso la politica, oggi la democrazia rappresentativa, domani chissà. Coloro che si ostinano a considerare la politica esclusivamente sotto il profilo dei costi economici, senza ricordare che la politica deve produrre benessere e felicità, come scriveva molti anni fa il commissario europeo sicco mansholt, sono stranamente simili a quanti valutano le entità sanitarie in quanto strutture economiche che devono avere bilanci in pareggio e non in quanto enti destinati a produrre quel bene fondamentale che è la salute dei cittadini. la democrazia è nemica del male? tendenzialmente si potrebbe dire di sì, ma il male può inserirsi anche nei sistemi democratici sotto la spinta di una propaganda forte e ben organizzata. Francesco Pezzuto Democrazia senza etica?

La Storia per capire: la Prima Repubblica il maestro di giornalismo indro montanelli a proposito del passato affermava: "un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente" e ancora: "un popolo senza il proprio ieri non ha un proprio domani". Non è improprio ricercare i segni della crisi di democrazia in corso in italia nella scarsa conoscenza che gli italiani hanno del proprio passato e nel modo di porsi di fronte ad esso: scarseggia, specialmente nei giovani, la conoscenza delle culture politiche e delle vicende che hanno accompagnato il Risorgimento italiano, di coloro che hanno fatto

l'italia, dei personaggi che sono stati protagonisti delle vicende politiche dell’italia, dalla monarchia alla repubblica, compresa la fase del ventennio fascista. Da siffatta condizione deriva spesso la cultura dell'esclusione, che induce a considerare l'avversario politico piuttosto come nemico che come portatore di una diversa visione delle dinamiche della società, con il quale confrontarsi nella ricerca di soluzioni inclusive che rispondano alle necessità del bene comune. in particolare i sondaggi rivelano nei giovani e nei meno giovani l'ignoranza delle vicende politiche e sociali che, pur nelle fisiologiche divisioni, hanno portato l'italia e gli italiani a risollevarsi dalle difficoltà economiche e sociali degli anni successivi alla seconda guerra mondiale; poco sanno i giovani e i meno giovani dei sacrifici degli italiani negli anni Cinquanta e sessanta e del miracolo economico, quando, superando la logica della guerra civile che aveva caratterizzato l'italia dalla fine del 1943 al 1945, si agiva, mettendo a frutto tutto il sapere e il vissuto dei decenni precedenti, in una visione collettiva che rispecchiava un elementare sentimento di appartenenza. si potrebbe paradossalmente affermare che in quegli anni, che pur precedevano la riforma che rese obbligatoria la frequenza della scuola media unica fino a 14 anni per elevare il sapere e, quindi, la consapevolezza della cittadinanza, vi fosse una maggiore sensibilità verso i diritti e i doveri e un elementare sentimento dell'entità nazionale vista come fondamento dell'individuo, nonostante scarseggiasse la conoscenza dei principi fondamentali iscritti nella Costituzione entrata in vigore dieci anni prima o poco più. in tale fase della storia d'italia, i partiti politici, dal pci al msi, attraverso la Dc e gli altri partiti minori, pur nelle loro spesso aspre divisioni, erano in sostanziale sintonia con il sentire del popolo italiano, ne interpretavano le esigenze, costruendo una

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democrazia alimentata dal senso di appartenenza. Negli anni successivi è invece prevalsa, nella cultura dominante e negli apparati dei partiti, l'ideologia dei diritti in dispregio dei doveri, prevalendo l'individualismo sul senso delle radici comuni: negli anni settanta e ottanta, a causa dello sradicamento dell'individuo in nome di un malinteso processo di 'liberazione', nei partiti si sono affermate le correnti e i personalismi. Contemporaneamente è avanzata la tendenza ad occupare i gangli vitali dello stato, delle grandi strutture produttive a partecipazione statale, della burocrazia; persino nella magistratura si formavano le correnti. in poche parole, i partiti, da associazioni atte ad interpretare visioni politiche da veicolare, attraverso la dialettica parlamentare, in processi legislativi, diventavano essi stessi potere, al quale i cittadini hanno finito per rivolgersi per ottenere vantaggi e promozioni di carriera. la partitocrazia finiva per opprimere il merito e per spingere sempre più la società italiana verso la decadenza morale e politica.

Dalla Prima alla Seconda Repubblica il passaggio da quella che ormai la storiografia ha definito la prima Repubblica (1946-1993) alla cosiddetta seconda ha fatto registrare il dissolversi delle forze politiche che avevano caratterizzato quella prima fase della vita repubblicana: la Dc e il psi, che avevano governato più a lungo e con maggiori responsabilità l'italia, sono definitivamente scomparsi, il pci si è trasformato prima nel pds e successivamente nel pd, il msi si è evoluto in an e i partiti satelliti come il psdi, il pli e il pri non esistono più. in effetti gli anni tra il 1989 (caduta del muro di Berlino) e il 1993 marcarono l'incolmabile disaffezione del corpo elettorale nei confronti dei partiti tradizionali, che avevano occupato la scena politica italiana e avevano governato l'italia o ne avevano condizionato il governo, come il pci: si salvava il msi che,

escluso dal cosiddetto 'arco costituzionale', non aveva mai esercitato potere di governo e non era stato toccato dal fenomeno della corruzione, come dimostrano i suoi successi elettorali fra il 1993 e il 1994. paradossalmente, la crisi politicoistituzionale dell'italia si era acuita in una fase, quella della fine degli anni ottanta, di forte trasformazione economica, che doveva portare l'italia a diventare la quinta potenza industriale e a veleggiare fra le prime potenze industriali d'europa. a fronte dello spettacolare avanzamento della piccola e media industria, in particolare di quella manifatturiera, che chiedeva la cessazione degli aiuti di stato alla grande industria e le riforme strutturali per il contenimento della spesa pubblica, ormai già fuori controllo, si registrava, alla fine degli anni ottanta, un'invasione oppressiva dei partiti nel settore dell'industria di stato che, in ultima istanza, finì per incrementare fino all'inverosimile il cancro del finanziamento illecito ai partiti politici; prassi questa del resto risalente alla prima fase dell'epoca repubblicana, che aveva visto i partiti a vocazione occidentale ricevere i finanziamenti dagli usa e dall'industria di stato e il pci finanziato prevalentemente dall'urss, oltre che dalle Coop. la nuova borghesia chiedeva a gran voce la fine dell'oppressione burocratica, il rafforzamento delle infrastrutture per agevolare la produzione e la distribuzione, il contenimento dell'economia partecipata dallo stato e il superamento dell'assistenzialismo pervaso dal clientelismo partitocratico. in buona sostanza si registrava in italia nuovamente il fenomeno delle classi emergenti che chiedevano un cambiamento: ciò che Renzo De felice aveva osservato nella genesi e nell' affermazione del fascismo, quando gli strati emergenti della piccola e media borghesia, affermatisi negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale, avevano appoggiato mussolini

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nella sua scalata al potere, in quanto novità assoluta nel panorama politico del dopoguerra. Con la crisi della prima Repubblica si verifica sostanzialmente lo stesso fenomeno: i nuovi ceti sociali, emersi fuori dagli schemi della grande industria e della classe operaia, ormai démodée dopo il disastro dell'estremismo politico extraparlamentare, culminato nel martirio di aldo moro, si rivolgevano all'uomo nuovo del momento, silvio Berlusconi, che agli occhi del grande elettorato impersonava i sogni degli italiani che inseguivano il cambiamento. in entrambi i casi si esce fuori dagli argini della democrazia dei partiti; nel secondo caso si tratta della possibilità del superamento del sistema partitocratico. in entrambi i casi, sempre mutatis mutandis, perché la storia non si ripete mai, il filtro dei partiti è ingolfato e si verifica lo scambio diretto fra il leader e il popolo: con la discesa in campo di Berlusconi nelle elezioni politiche del 1994 e con l'esito inaspettato, si passa alla democrazia populistica, che vede il popolo affidarsi nelle mani dell'uomo che è fuori dagli schemi della partitocrazia.

La crisi della Seconda Repubblica: soltanto un problema di modifica della Costituzione? in questi ultimi anni ricorre sempre più insistentemente il tema del passaggio alla terza Repubblica, dopo che la seconda, caratterizzata dall'impronta populistica di silvio Berlusconi, non ha realizzato la promessa rivoluzione liberale. Da più parti si sostiene che anche la seconda repubblica che avrebbe dovuto semplificare il rapporto fra lo stato e i cittadini è in crisi perché non è stata in grado di garantire la regola dell’alternanza e che c’è bisogno di riforme costituzionali e di una riforma elettorale per normalizzare la vita politica e risolvere i grandi problemi che affliggono il panorama politico italiano. Non ci si rende conto del fatto che non c’è riforma che possa concorrere alla soluzione dei grossi problemi sul tappeto se non si ricrea quello stretto

rapporto fra etica e politica, che fa sì che una popolazione divenga popolo e comunità, specialmente in tempi in cui la politica riguarda le scelte economiche e sociali e deve trovare i rimedi di fronte all’offensiva dell’alta finanza. Quel legame va ricercato nella sostanza delle comuni vicende storiche, quelle che parlano di nazione, di appartenenza, in definitiva di patria, quelle che portano alla riscoperta di un Pantheon comune. Nessuna scissione o distinzione fra politica e economia da una parte ed etica dall’altra. peraltro, quando qualcuno richiama la necessità di riformare la Costituzione, si alza sempre in piedi qualcun altro che brandisce il mito della “Costituzione più bella del mondo”, che sarà pure una verità se riferito ai dodici principi fondamentali e se si fa salva la difficoltà nel renderli operativi: basti pensare quanto sia difficile in tempi di crisi economica attuare l’art. 4 relativo al “diritto al lavoro”. inoltre, quando si affronta il problema della riforma costituzionale, basterebbe conoscerne un po’ la storia per rendersi conto di quanto esso sia complicato. sembrerebbe infatti che la Costituzione italiana non sia stata mai modificata e, invece, se si escludono i principi fondamentali di cui si è detto, dal 1948 ad oggi sono state varate ben trentaquattro leggi costituzionali, approvate quasi tutte con la maggioranza parlamentare richiesta dei due terzi delle due Camere: fa eccezione la legge costituzionale n. 3 del 2001 riguardante la modifica del titolo V della seconda parte della Costituzione, approvata a maggioranza semplice dal governo di centrosinistra e sottoposta a referendum confermativo. e’ il caso di ricordare a questo proposito che la legge costituzionale del 2005 concernente l’intera parte seconda della Costituzione, anch’ essa varata a maggioranza dal governo di centrodestra, non superò lo scoglio del referendum confermativo, in quanto il corpo elettorale, scarsamente motivato alla partecipazione (votò il 52,30% degli elettori), la respinse con il 61,32% di risposte negative.

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se è consentito un giudizio sereno, non è possibile non constatare che con le modifiche del titolo V si è proceduto ad un decentramento che non è stato certamente d’aiuto all’emergenza di contenere la spesa pubblica, né a rendere più responsabile il processo di partecipazione alla gestione democratica; al contrario, negli ultimi dieci anni abbiamo assistito alla moltiplicazione dei centri di spesa e all’acuirsi della corruzione, di quella corruzione spicciola e volgare che ha visto numerosi consiglieri e assessori degli enti locali finire sotto processo per appropriazione indebita. le stesse forze politiche che avevano approvato e fatto approvare quelle norme oggi chiedono a gran voce, per esempio, l’abolizione delle province, che negli ultimi dieci anni si sono andate moltiplicando proprio sotto la spinta della pseudocultura del decentramento. molti costituzionalisti e politologi, come Valerio onida, Gianni ferrara, leopoldo elia, si sono, invece, scagliati contro la legge costituzionale varata dal centrodestra nel 2005 e bocciata dal referendum nel 2006, in particolare contro quelle parti che istituiscono il senato federale con competenze specifiche e il premierato, per lo squilibrio dei poteri che la figura del premier avrebbe determinato. in questi ultimi anni e specialmente in questi ultimi mesi ci si è accorti che la progressività della spesa pubblica è imputabile in buona parte alla moltiplicazione dei centri di spesa in conseguenza delle modifiche del tit. V varate dal centrosinistra e che l’impaludamento dell’iter legislativo è dovuto in buona misura alla farraginosità del bicameralismo perfetto e all’impotenza del Governo nel gestire il processo, che le summenzionate varianti del testo di centrodestra avrebbero corretto; e, quindi, si è ripreso a parlare di abolizione delle province e abolizione del senato. Bisogna tuttavia rilevare che se non interviene un nuovo impegno culturale che pervada sia le classi dirigenti (quella politica, quella economica e finanziaria e quella culturale e della comunicazione)

sia quello che si preferisce chiamare il paese o peggio ancora la gente, ma che è preferibile chiamare con il sostantivo che merita, il popolo, visto nel processo storico in cui si è venuto formando (un impegno che permetta al popolo di riconoscere il proprio processo storico, attraverso la sintesi delle divisioni, anche quelle più radicali); se non interviene, dicevamo, tale mutamento, difficilmente si potranno affrontare, pur nella sovranità dimezzata della moneta unica e dell’unione europea, i grandi problemi connessi con la crisi attuale. l’italia non ha un problema di architettura costituzionale, di ingegneria di sistema elettorale, ma l’urgenza culturale di recuperare il senso dell’unità nel quale si riconoscano sia coloro che di volta in volta costituiscono la maggioranza, sia coloro che di volta in volta costituiscono la minoranza; tale dimensione culturale restituirebbe alla politica la dignità perduta e consentirebbe il formarsi di una maggioranza governante e di una minoranza di opposizione costruttiva. in un sistema politico alimentato dal sentimento della comune appartenenza non potrebbero esistere le storture sociali come per esempio le cosiddette pensioni d’oro o gli stipendi d’oro, perché esse sarebbero contro l’etica comune, cioè contro quell’ethos di cui si sostanzia lo stato, che a sua volta pervade della stessa sostanza le forze politiche che lo esprimono. Quanto si sia stati lontani da questa dimensione culturale è dimostrato dai comportamenti messi in atto in occasione dell’esito delle elezioni politiche del 2006 (49,8% per l’unione di centrosinistra, 49,7% per la Casa delle libertà), quando il buon senso e il sentimento del bene comune avrebbe dovuto suggerire un accordo come quello intercorso in Germania un anno prima fra angela merkel e Gerhard schröder. Nemmeno il fatto che il Centrosinistra e il Centrodestra avevano governato cinque anni ciascuno dal 1996 al 2006 senza riuscire a risolvere i problemi più scottanti degli italiani

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induceva a superare i contrasti e le divisioni “in nome degli interessi generali del paese che aveva invece urgente bisogno di scelte condivise in grado di assicurargli una rotta tra le acque agitate del nuovo mondo globale”, come osservano simona Colarizzi e marco Gervasoni in La tela di Penelope, Storia della seconda Repubblica, laterza 2012. e, invece, fu data vita a un governo

pletorico con il conseguente dilatarsi dell’esercito della classe politica a cominciare dal centro (102 fra ministri, sottosegretari e viceministri) fino alla periferia, dove si arrivò progressivamente a duecentomila cariche elettive, alle quali si aggiungeva la schiera dei dirigenti nominati dai partiti a tutti i livelli istituzionali con le rispettive clientele, come evidenzia l. Ricolfi in Le tre società.

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Segni e significati di una crisi (4) Angelo G. Sabatini - Giuseppe Cantarano

ngelo G. Sabatini Di più: se è vero che le grandi Il rischio della democrazia nell’utopia concentrazioni spingono per loro natura nella Rete? all'omogenizzazione dei processi e al conformismo dei comportamenti, le Il XXI secolo, grazie alla pervasiva mani sulla rete tenderanno naturalmente irruzione della multimedialità e della rete a comprimere gli spazi di diversità, anche nei rapporti sociali, sembra indipendenza e creatività, accelerando piuttosto destinato, a dispetto della sua l'evoluzione (involuzione) verso una promessa futura, a ruotare intorno ad un società tecnologicamente avanzata, conflitto antico. Un conflitto come sommersa da flussi informativi, ma sempre politico, come sempre sostanzialmente illiberali. economico e come mai prima nella Ma Chomsky non è solo nell'illustrare i storia “culturale” (almeno in senso rischi del nuovo oligopolio. Robert antropologico): il conflitto tra “chi sa”, Samuelson, accreditato columnist oggi minoranza, e “chi non sa”, finanziario americano, non esita a maggioranza. Con in più un forte definire l'accordo Aol-Time Warner elemento di novità: se fino a ieri il potere «inquietante per l'informazione»: un politico si basava sul possesso di beni business che ha una sua logica ferrea, nella materiali, ivi comprese le “macchine quale la posta in gioco è l'accesso ai dell’informazione”, già oggi il potere si consumatori di informazione e di fonda sul possesso e sul controllo di intrattenimento, «la chiave per entrare beni prevalentemente “immateriali”: nelle case degli utenti» attraverso il come conoscenza, come la rete stessa. matrimonio tra carta stampata, L’operazione di fusione e acquisizione nei cinema, cable tv e Internet. settori dell’informazione e di internet rappresentano un ulteriore forma di *** convergenza tecnologica non meno che Una società complessa come quella che finanziaria che rischia di infrangere il ci troviamo a vivere tra le sue plurime mito della rete democratica e diffusa, po- colonne di sostegno ad occupare ormai licentrica e multiaccesso che ha segnato il posto di un architrave, ci sono la l’origine alternativa e liberal del web. comunicazione e il suo moderno Non è un caso che il punto di svolta si supporto tecnologico. Quale che sia la sia verificato proprio all'inizio del sua configurazione nei capitoli che millennio, conferendo un sapore illustrano il grande libro della società è «epocale» a un evento già di per sé difficile disconoscerne il ruolo, con i rilevante. Allorché si è verificata la suoi benefici e i suoi pericoli. Consinascita di Aol-Time Warner, (ha derata all’inizio come una forma di affermato Noam Chomsky coerente- trasmissione di segni e segnali atti a mente alla sua prospettiva radical) si acce- stabilire un rapporto tra soggetti in lerò bruscamente la colonizzazione di relazione, ha finito col trasferirsi nella Internet da parte delle corporation ameri- dimensione della composizione tecnicocane e rende più incisivo il processo di formale in senso strumentale, utilizzata egemonizzazione culturale già da non solo come una ragnatela di decenni in atto da parte degli Stati Uniti. connessioni del linguaggio ma nel tempo 3


Angelo G. Sabatini

come strumento di costituzione di un (fondativi) è la radice della morte della agorà, un luogo tecnico cui tutti politica e, quindi, del sistema organizpossono partecipare in connessione zativo di una società chiamata inter-attiva, al di là dello spazio fisico per “democratica”. essere agente di messaggi in competi- Il nemico peggiore, in assoluto, della zione. Il possesso dello status di politica è il paradosso in cui vive la partecipazione riem-pie la scorza comunicazione allorché favorisce la formale del comunicare per diventare partecipazione di tutti ai benefici del sostanza di un messaggio portatore di messaggio politico e nello stesso tempo istanze e valori messi in gioco nell’ li gestisce in forma eterodiretta. Del economia di un dialogo proiettato verso resto l’espansione del terreno della la soddisfazione di bisogni articolati di comunicazione tecnologica dando vita a volta in volta come nuove vie della Definizioni di l’ottenimento di concomunicazione, attraquiste di cui beneverso l’attivazione di Internet ficiare. In questo caso siti web e blog fino allo il comunicare è una sviluppo dei social forza mirante al media per eccellenza - rete delle reti successo come supe(Facebook, Twitter, ramento di forze - federazione o insieme delle reti YouTube) favorisce differenti e spesso una gestione del contrastanti: diventa mezzo affidandolo a cioè il teatro della - in molti ne possiedono una parte soggetti non sempre competizione, che per senza che nessuno possa possederla capaci di tenerlo nel non tradursi in un binario di una corretta tutta canto di vittoria destina-zione muscolare, perniciosa formativa. Certo, per la convivenza - prolungamento all’esterno del negarne l’uso nella nostro cervello umana, assume la libertà delle scelte tecnica comunicativa individuali si rischia di - cervello collettivo dialogica garantita da stabilire una “dittatu-ra un intesa di reciproca della comunicazio-ne”, garanzia. La comunima nello stesso tempo cazione come luogo la libertà assoluta ne del patto di coesistenza diventa negherebbe la funzio-ne formativa di “politica” e assume un ruolo fondante in una coscienza sociale. Il gioco per un quella forma di organizzazione della uso corretto della comunicazione in una comunità che chiamiamo “democrazia“. società democratica è in una fede Nella diade “comunicazione e politica” ponderata verso una società utopica la forma di collaborazione più stretta, dove cultura, sapere e saggezza quasi identitaria, viene offerta dalla riempiono di speranza gli uomini del traduzione dell’istanza politica in nuovo Millennio. democrazia. Una comunicazione disar- Sino a qualche anno or sono, ticolata da un progetto di società ragionando di politica ovvero di armonica è puro strumento di dominio, comunicazione, alla rete del futuro si diventa artificio spesso occulto, mezzo attribuivano, rispetto ai media tradidi manipolazione, negazione della fede zionali, possibilità utopistiche. La liberatrice e di progresso intellettuale, potenza emancipatrice della Grande anticamera di una anarchia velleitaria e Rete sembrava fuori discussione, perdente. La perdita di equilibrio tra depositaria di una nuova verità tecnica (della comunicazione) e valori finalmente disponibile a tutti, senza 4


Il rischio della democrazia nell’utopia nella Rete?

filtri, senza censure, senza ritardi. I contorni mobili di Internet coincidevano con gli spazi di un auspicio di progresso e democrazia su cui oggi sarebbero disposti a giurare - come ha notato Hans Magnus Enzensberger «solo gli evan-gelisti del capitalismo digitale». Questi pronostici, tuttavia, almeno su un punto si sono rivelati esatti: la distinzione tra i media «pilotati da un centro» e quelli concepiti per una gestione decentrata. L'importanza politica di questa differenza è sottolineata dallo stesso Erzensberger: agli estremi della scala delle possibili modalità di comunicazione abbiamo, da un lato, l'editto, il messaggio dell'autorità che presuppone un rapporto diseguale tra il potere e i suoi sudditi, tra la fonte e i destinatari; dall'altro, la rete con i suoi rapporti di parità, almeno potenziale, tra i partecipanti, liberi dai condizionamenti propri del discorso autoritario. In questo senso la rete è effettivamente un'invenzione utopistica, dato che ha abolito la differenza tra emittente e ricevente, non esistendo più, nonostante i fenomeni di concentrazione dei grandi operatori del settore, alcuna istanza centrale in grado di controllarla. Pur parzialmente colonizzato dalle corporation dell'infotainment, Internet vanta in effetti risorse pressoché infinite: non c'è nicchia, microambiente o minoranza che non trovi accoglienza e amplificazione sul web. La rete diviene così a un tempo il luogo della celebrazione del conformismo e del consumo, non meno che della trasgressione: terra (smisurata) di conquista sia dell' establishment che di hackers, truffatori, terroristi, sessuomani, squilibrati. La terra di nessuno della grande paranoia della comunicazione, che alimenta rigetti sistemici e fideistiche adesioni, senza tuttavia perdere la sua polimorfa neutralità: giacché Internet resta un medium interattivo di comunicazione in sé né maledetto né salvifico - destinato semplicemente a riflettere lo status

(economico, politico, mentale) dei suoi partecipanti. È un magma dalle straordinarie potenzialità, che tuttavia genera l'overdose informativa che già ci tormenta e, con essa, la pericolosa confusione tra l’enormità dei dati e degli input disponibili e la qualità dell’ informazione realmente dotata di significato. Ma la sua immaterialità non sempre leggera, impalpabile come il bene immateriale per eccellenza, il software. Il capitalismo digitale di cui la rete è espressione e veicolo, infatti, reca in sé la promessa della democrazia digitale, ma non le sue premesse: gli esclusi sono ancora oggi maggioranza e la rete resta per loro il miraggio dell' integrazione nel ciclo economico, politico e culturale globale, oppure il segno di una distanza che rischia di divenire incolmabile. È solo parzialmente vero, infatti, che la rete avvolge l'intero pianeta e tutti gli esseri umani che lo abitano, dettando i paradigmi della nuova polis globale. E una verità solo potenziale può divenire una menzogna reale. In una realtà globale nella quale, secondo un Rapporto dell'Unesco, la cultura è cultura della comunicazione ma circa due miliardi di esseri umani non hanno mai fatto una telefonata nell'arco di una vita, Internet rischia di rappresentare una minaccia più che un'opportunità. Il corollario politico che discende da tale osservazione è inquietante se si fa attenzione a ciò che si verifica nel mercato delle reti. Se si considera il bene immateriale rappresentato dal controllo della rete come contendibile o comunque acquisibile sul mercato non possono non preoccupare le megaconcentrazioni che sul mercato portano alla costituzione di nuovi conglomerati destinati ad esercitare un quasi-monopolio su Internet. Se, di contro, si enfatizza il senso «immateriale ma non mercantile» della conoscenza che nasce e si diffonde dalla rete, allora si dovrà riconoscere che la nuova conoscenza non è scambiabile sul mercato, così

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Giuseppe Cantarano

come il potere che ne deriva. Il potere, in sostanza, risulterà determinato da molteplici risorse, non soltanto finanziarie, ma anche culturali e sociali, oggi assai diversamente distribuite. «Chi non sa» è destinato a rimanere escluso dal processo di apprendimento non meno che dalle scelte politiche, relegato ai margini della rete dalla indisponibilità dei mezzi per accedervi e, ancor più, per gestirla, col rischio di vedersi relegato nella zona d’ombra della eterogestione della propria libertà. Il che può rappresentare, come alcuni hanno paventato (Ostellino), la fine stessa della democrazia liberale così come sinora l'abbiamo conosciuta o, forse, la fine della stessa politica come contrapposizione e competizione tra differenti sistemi di valori e diversi modelli di organizzazione sociale. Internet si rivelerà un'opportunità solo a condizione che si facciano ancora molti investimenti nello sviluppo dei processi di apprendimento, nella traducibilità dei linguaggi della comunicazione, nella reciproca riconoscibilità della pluralità di identità che popolano la rete: a condizione che si sia immessi in un processo di formazione e preparazione “culturale” adeguata al “mezzo” che si deve utilizzare. Internet è lo strumento e l'occasione perché ciò avvenga, ma presenta due limiti di cui dobbiamo essere consapevoli: il primo è che, in quanto medium, non ha in sé la soluzione del problema, anche politico, del suo utilizzo; il secondo è che, in quanto realtà policentrica e diffusa, non esiste un solo centro decisore, una sola autorità in grado di orientare il «corretto» uso del web. Perché questo possa infine divenire compiutamente il millennio della comunicazione - e di una comunicazione politicamente corretta – la disponibilità delle tecnologie non basta. Devono svilupparsi di conserva le capacità d'uso, le conoscenze e le disposizioni soggettive. Devono crearsi le condizioni per pensare la comunicazione come un agire umano finalizzato all'inclusione,

all'accoglienza, al discorso comune, al confronto per la gestione consapevole di sistemi sociali condivisi, e pure aperti alla pluralità e alla diversità. Solo così internet, con la complessa configurazione che lo sorregge, riesce in politica a non restare lo strumento di una vaga utopia scarsamente utile per l’instaurazione di una società concretamente “democratica”, ma diventa la via obbligata per ogni progetto politico che voglia oggi rendere la democrazia più partecipativa al processo di modernizzazione della società in accelerata trasformazione. In questo modo si crea un terreno di equilibrio fertile tra tecnica comunicativa avanzata e sistemi di valori, utili quest’ultimi per evitare la deriva già in atto della politica verso le due forme più perniciose del suo attuale cammino: populismo e antipolitica.

Giuseppe Cantarano Norberto Bobbio

Sono trascorsi dieci anni dalla scomparsa di Norberto Bobbio. E in questi dieci anni ne abbiamo sentito davvero la mancanza. E’ mancato alla cultura – non solo - italiana. E alla politica. Ci è mancato – e ci manca – il suo razionalismo tagliente. Acuminato, come quel celebre rasoio di Ockam. Un razionalismo che, tuttavia, ha sempre saputo stare alla larga dal “fanatismo del disincanto”. Proprio di certe versioni ideologiche dell’Illuminismo. A lui molto caro. Ci è mancata – e ci manca – la sua passione civile. Ci è mancato – e ci manca – il “tormento” del suo dubbio. Sebbene egli abbia serenamente confessato – nell’Autobiografia del 1997 curata da Alberto Papuzzi – che le opinioni dell’intellettuale non esercitano nessuna influenza sull’agire politico. La politica – egli ammetteva, forse un po’ rassegnato e amareggiato – la fanno i politici di professione. Non gli intellettuali. Poiché i politici hanno il dovere della “scelta”. Della “decisione”.

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Norberto Bobbio

Mentre il mestiere degli intellettuali è quello di alimentare, fomentare il “dubbio”. Come suona il titolo di un suo libro del 1993 Il dubbio e la scelta dedicato agli intellettuali. E al loro rapporto con la politica. Un libro che non ha avuto quella risonanza che avreb-be, invece, meritato. Perché era un libro dove, il filosofo tori-nese, traeva un po’ il bilancio della sua vita. Intellettuale e politica. Ma ascoltiamolo, il passaggio cruciale del suo ragionamento: «La discussione sui rapporti fra politica e cultura – egli osser-vava – negli anni Cinquanta, con Galvano Della Volpe e con lo stesso Togliatti, produsse forse qualche effetto nella battaglia delle idee. Ma si tratta di dimensioni del tutto diverse: una cosa è la storia delle idee, una cosa è la politica reale. Sono due mondi diversi – precisava – che non si sovrappongono né si incrociano, ma procedono l’uno accanto all’altro, senza quasi mai incontrarsi. Di una cosa sono assolutamente certo - conclu-deva - : il potere ideo-logico, l’unico potere che hanno gli intellettuali, conta molto meno del potere che possono esercitare ed esercitano di fatto coloro che partecipano in maniera diretta alla vita politica». Credo che debba essere collocata in questa “impietosa” riflessione autobiografica la celebre - e “scomoda” intervista che Bobbio rilasciò, nel novembre del 1999, a Pietrangelo Buttafuoco del “Foglio”. Davvero illuminante. E a suo modo esemplificativa. Per farci capire il “rapporto-non rapporto” - diciamo pure così - tra cultura, tra intellettuali e politica. Intervista che allora suscitò un vespaio di reazioni. E di polemiche roventi.

Perché in quella sorprendente, imbarazzante - e del tutto inattesa intervista l’azionista Bobbio ammise le proprie responsabilità, circa il “suo” giovanile fascismo. Ammise la propria “debolezza” intellettuale. E la propria “doppiezza” politica. In quanto dichiarò di essere stato «fascista con i fascisti e antifascista con gli antifascisti». E il fatto che in quella fase tutti, o quasi tutti, gli intellettuali italiani avessero condiviso quella “sua” doppiezza, non poteva costituire certo nessuna attenuante giustificativa, egli severamente osservava. Perché vi fu - come il suo maestro Gioele Solari – chi ebbe coraggio. E non si arrese, non si piegò vilmente al fascismo. Una verità scomoda, quella che allora Bobbio avvertì il bisogno di “denunciare”. E solo un grande intellettuale con il “gusto della verità” - come lui avrebbe potuto fare quella pubblica confessione. Che certamente è rivelatrice della “grigia” biografia di una nazione, come è stato pur detto. Ma è altrettanto rivelatrice della distanza incolma-bile che separa la cultura dalla politica. E’ altrettanto rivelatrice – come ammet-teva Bobbio – dell’intraducibilità dei due diversi linguaggi. Che non sono sovrapponibili. E quando nella storia – piò o meno recente – tali linguaggi hanno tentato sciaguratamente di intrecciarsi, non è emerso nulla di buono. Anzi. Penso al rapporto controverso dell’attualismo gentiliano con il fascismo, ad esempio. O al rapporto ancora più controverso, se vogliamo - tra Heidegger e il nazismo. Ciò vuol dire che tra cultura e politica non debbano gettarsi ponti? Niente affatto. Al contrario. E Bobbio non

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Giuseppe Cantarano

intendeva affermare questo. Ciò che Perché la nostra vera casa è quella del invece intendeva asserire – con Padre. La nostra vera casa è quella – nel disincantato realismo, avrebbe detto sobrio, prosaico lessico del laico Bobbio Max Weber - è che la prassi politica non – di un mondo migliore. Di una società, in è mai l’esito, quasi fisiologico, della altri termini, meno diseguale. Come riflessione teorica. Lo ribadisce in De ricordò alla “sua” sinistra. In quel Senectude. Mai l’idea può pretendere di prezioso libro Destra e sinistra. Ragioni e tradursi meccanicamente – e intera- significati di una distinzione politica – che mente – in prassi politica. E questo è stato recentemente riedito con una “assioma” – diciamo così – è tanto più “aggiornata” prefazione di Matteo Renzi. evidente e cogente nel pluralismo dei Al di là delle affrettate quanto ingenue regimi democratici. Studiati e analizzati a liquidazioni postmoderne e postfondo – e per tutta la vita – dal filosofo politiche, in quel libro Bobbio ribadiva – torinese. Il ricorrente – e un po’ stucche- con la lucidità analitica che lo ha sempre vole – “disagio degli contraddistinto – le intellettuali” non è ragioni, direi quasi forse dovuto alla prima E’ chiaro che l’ideale esistenziali, registrazione ancora che politicosistematica di questa della totale libertà non culturali – di una dicoimpossibile intradu- esiste in nessuna società. tomia. Di una distincibilità? Di questa zione capitale. Che la Insomma, ci sono irrealizzabile convernostra sinistra – postsione? Non fosse altro ideologica, come si dice maggiori e minori perché il momento ne– non dovrebbe mai cessario della prassi è approssimazioni a questa dimenticare. E cioè, contenuto già in ogni che «l’uomo di sinistra riflessione teorica. Così idea della società libera. è colui che considera come il respiro teorico ciò che gli uomini è già sempre presente Norberto Bobbio hanno in comune fra in ogni agire pratico. Ce loro piuttosto che lo ha insegnato una volta per tutte quello che li divide, e, per l’uomo di Aristo-tele. Ce lo ha ripetuto destra, al contrario, ciò che differenzia Machiavelli. E ce lo ha ricordato Bobbio. un uomo dall’altro è anche politiEcco perché Bobbio ci manca davvero camente più rilevante di quello che li tanto. Ci manca soprattutto nella unisce, la differenza fra destra e sinistra convulsa fase politica e culturale che si rivela in ciò che per la prima stiamo vivendo. Oggi il suo pensiero - il l’eguaglianza è la regola e la tormento del suo appassionato e, nello diseguaglianza l’eccezione. Ne consegue stesso tempo, disincantato dubbio - che qualsiasi forma di diseguaglianza sarebbe davvero “inattuale”. Perché in deve essere in qualche modo giustificata, una società dove sembra essersi persa mentre per l’uomo di destra vale definitivamente la ragionevole capacità esattamente il contrario, ossia che la di distinguere, il suo pensiero critico diseguaglianza è la regola e, se un sarebbe stato in esilio. Quel sentirsi in rapporto di eguaglianza fra diversi deve esilio in patria, di cui parlava san Paolo, essere accolto, deve essere giustificato». riferendosi ai cristiani, per capirci. Caro Professore, non smettere di Essere, stare nel mondo. In questo ricordarci – di ricordare soprattutto alla secolo. Vivere nell’età del Figlio. Ma “tua” sinistra – la passione ideale per perfettamente consapevoli che noi non poter continuare a lottare politicamente apparteniamo a questo mondo. Non ci – e culturalmente – per una società sentiamo a nostro agio in questa casa. migliore. 8


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Segni e significati di una crisi (5) Roberto Speranza - Alessandro Ferrara

Roberto Speranza Post-democrazia

“Post-democrazia”: così Jürgen Habermas chiama la realtà che a suo avviso si è venuta a creare in Europa in questi ultimi tempi. È un’espressione forte, che il grande filosofo e politologo tedesco usa per descrivere in che modo l’essenza stessa della democrazia sia andata evolvendosi sotto la pressione della crisi che da qualche anno colpisce duramente le nostre economie e le nostre società. Per Habermas il problema è semplice e complesso al tempo stesso: il potere è scivolato dalle mani dei popoli ed è andato a finire in quelle di istituzioni di dubbia legittimità democratica e comunque percepite dai cittadini come distanti, poco o per nulla attente ai loro bisogni e alle loro aspettative. Si può essere liberi di credere che sia esattamente così o ritenere che questa sia una provocazione intellettuale o poco più. Sta di fatto che appare difficile, a guardare le istituzioni europee e lo stato di salute di tanti Paesi del “vecchio Continente”, pensare di potere andare avanti così. Pare invece obbligatorio cambiare rotta, pena il naufragio del progetto europeo e la crisi irreversibile delle nostre democrazie. “A un certo punto, dopo il 2008”, ha detto lo stesso Habermas, “ho capito che il processo di espansione, integrazione e democratizzazione non avanza automaticamente, ma è reversibile, e che per la prima volta nella storia dell’Ue stiamo assistendo allo smantellamento della democrazia. Non credevo che una cosa del genere fosse possibile. Siamo arrivati a un bivio”. Non credo, purtroppo, che ci sia esagerazione ed eccessivo pessimismo, in queste parole. È questa la posta in gioco.

Quella che stiamo vivendo si può davvero considerare un’epoca in cui torna di straordinaria attualità una vera e propria “questione democratica”. Non può che essere così, se si pone attenzione al progressivo svuotamento dei poteri delle nazioni in tanti e diversi ambiti, al sentimento di crescente insicurezza che attraversa le nostre società, a come i cittadini sentono più incerti i loro diritti, alle terribili difficoltà che i giovani incontrano nella ricerca di un lavoro che consenta loro di mettere a frutto il proprio talento o anche solo di realizzare i propri piani di vita in modo soddisfacente e dignitoso, a quanto la politica e le istituzioni appaiono deboli e inadeguate di fronte a tutto questo. E poi sì, c’è il nodo delicatissimo dello spostamento di troppi poteri, decisioni e risorse da istituzioni legittimate dai cittadini – “democratiche”, appunto – a luoghi e sedi extraistituzionali, e c’è l’avanzare preoccupante di concezioni populistiche e plebiscitarie della politica e del ruolo della leadership. Di quest’ultimo aspetto, in particolare, molti osservatori hanno cominciato ad interessarsi all’indomani delle recenti elezioni europee, anche se in realtà il fenomeno del “populismo”, o se si preferisce del “nazional-populismo”, ha origini molto meno recenti. A contraddistinguerlo, oggi, sono elementi che contrastano apertamente con il regolare funzionamento di una moderna democrazia: c’è la sfiducia nei confronti dei governi eletti e la valorizzazione del popolo come unico depositario della responsabilità delle decisioni pubbliche, c’è la difesa – quasi sempre demagogica – degli interessi della massa dei “piccoli” contro i “grandi”, c’è la chiusura delle comunità nazionali o locali contro “altri”

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Roberto Speranza

– immigrati, stranieri, minoranze etniche, fedeli di altre religioni – verso i quali l’unico atteggiamento possibile è quello della diffidenza o meglio ancora del rifiuto; e c’è, a tenere insieme tutto, il principio del rapporto diretto, emotivo piuttosto che razionale, tra popolo e leadership carismatica. Alberto Martinelli ha scritto recentemente un bel saggio su questi temi. I “nazional-populisti”, che fanno dell’antieuropeismo la loro bandiera più visibile, sbagliano secondo lui diagnosi, perché non si può sostenere che recessione e disoccupazione siano causate dall’euro, anzi: la moneta comune ha evitato che la crisi globale avesse conseguenze peggiori. In più è sbagliata la terapia, perché non è ritirandosi all’interno dei propri confini che si possono affrontare le sfide mondiali, regolare la finanza e competere con le grandi potenze. Nonostante sbaglino così tanto, i “nazional-populisti” hanno però un indubbio successo, scrive Martinelli, perché sfruttano la paura, il disagio sociale, la sfiducia verso la politica tradizionale e perché offrono risposte semplici a problemi complessi: basta uscire dall’euro e i problemi economici spariranno, basta contrastare l’immigrazione, eliminare la moneta comune e abbattere le élites tecnocratiche e tutto andrà per il meglio. Un messaggio solo negativo, risposte che sono solo “contro”, rifiutando la complessità delle situazioni e criticando la democrazia rappresentativa, spesso insistendo su non ben definite forme di democrazia diretta. Unendo alle tendenze populiste l’altro fenomeno, quello delle derive oligarchiche di cui in qualche modo Habermas sottolinea la pericolosità, ecco che la “questione democratica” precisa i suoi contorni e si delinea come un grande ed attuale problema. Ad affacciarsi nel dibattito pubblico è addirittura un allarmante quesito: se la democrazia non rischi di essere o di apparire un regime politico non adatto a governare processi complessi come quelli di una economia globale in crisi. I nodi da sciogliere sono molti e sono

complicati, questo è certo. Basti pensare, per tornare alle parole di Habermas, ai gravi difetti che ha avuto ed ha il processo di costruzione dell’Europa unita, alla necessità di sostituire la politica dell’austerità con una politica più flessibile sui vincoli e sui tempi del risanamento, per far imboccare alla politica economica europea la strada della crescita e del lavoro e per avvicinare le istituzioni comuni ai cittadini dei Paesi dell’Unione. Oppure basti pensare, per restare a casa nostra, al delicato e decisivo tema dell’equilibrio tra rappresentanza e governabilità, su cui si regge ogni democrazia sana e funzionante. Una democrazia si indebolisce e può morire per l’eccesso di mediazioni e l’incapacità di decidere. Ma anche le democrazie che decidono si reggono sul rispetto degli avversari e delle regole del gioco, sul bilanciamento dei poteri, sull’indipendenza dell’informazione e in ultima analisi sulla capacità di correggersi profondamente senza scardinare i pilastri su cui poggiano le istituzioni e la stessa convivenza civile. La sfida da affrontare e da vincere è dunque quella di un rafforzamento contestuale degli istituti della democrazia della rappresentanza, a cominciare ovviamente dal Parlamento, e di quelli di una democrazia che sia efficiente e “governante”. È per questo che quella attuale deve diventare una legislatura in cui finalmente si portano a termine le riforme che il nostro Paese aspetta da anni. Alternativa temo non ci sia: o la politica dimostra che sa fare questo, che sa rinnovare se stessa e le istituzioni per corrispondere meglio alle domande e alle esigenze dei cittadini, o si finirà per dare un vantaggio troppo sostanzioso alle forze che pensano che le istituzioni democratiche debbano essere abbattute o almeno lasciate morire per consunzione. La riforma del Senato e una nuova legge elettorale sono due pilastri portanti di questo disegno di rinnovamento. Si tratta di dare al Paese istituzioni più efficienti e meno costose, con il superamento dell’attuale bicameralismo, la revisione del Titolo V della

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Crisi della democrazia nell’era della democrazia come orizzonte?

Costituzione, l’attuazione di un federalismo funzionale e solidale. Per quanto riguarda il cosiddetto “Italicum” approvato alla Camera, c’è la possibilità di migliorarlo a Palazzo Madama, dopo di che spazio per i bluff non ce n’è più: è tempo di giocare, tutti, a carte scoperte, perché la posta in gioco non riguarda il destino dei singoli ma la tenuta delle istituzioni, perché l’obiettivo è fondamentale ed imprescindibile, ed è quello di affrontare l’attuale “questione democratica” e rendere più forte la nostra democrazia. Alessandro Ferrara Crisi della democrazia nell’era della democrazia come orizzonte?

E’ dai tempi in cui ero studente che sento parlare di “crisi della democrazia”, un’espressione che mi ha sempre insospettito. Infatti la democrazia a quel tempo non c’era neanche in tutta l’Europa, ad esempio non c’era in Grecia, in Spagna e in Portogallo. Non c’era in tutta l’Europa ad Est di Berlino. Non c’era in America Latina, e quando si affacciava pacificamente, nel Cile di Allende, veniva affogata nel sangue. Non parliamo poi dei regimi che predominavano in Medio Oriente e nel Nord Africa. Adesso in tutti questi paesi la democrazia è diventata un orizzonte indiscusso, dove “orizzonte indiscusso” significa che la democrazia non è più, come è stata per 24 secoli, una fra le varie forme di governo possibili, ma la forma di governo legittima per eccellenza, rispetto alla quale le altre rappresentano gradi diversi per gravità dell’arbitrio istituzionalizzato. Nessuno pensa che la Norvegia, la Svezia, la Danimarca, l’Olanda, la Spagna o il Regno Unito non siano democrazie solo perchè il capo dello Stato è un re o una regina. Questa ovvietà non è solo un’ovvietà: è la prova di come la democrazia sia passata dall’essere un regime alternativo ad altri all’essere un orizzonte imprescindibile, la forma di governo legittima per

antonomasia. E tutto questo mentre sempre si continua a parlare di crisi della democrazia sui giornali, nei convegni, e in televisione. Quindi inizierò con un’affermazione forte: la tesi della “crisi della democrazia” è fuorviante. Non solo sbatte di peso contro l’evidenza di milioni e milioni di persone che in tutto il mondo hanno rischiato e rischiano la vita per averla, la democrazia, ma soprattutto dirige la nostra attenzione nel punto sbagliato. Machiavelli e Montesquieu hanno entrambi insistito sul fatto che una repubblica o una democrazia non può fiorire né durare nel tempo se impiantata in contesti dove non si è usi al “vivere civile” ovvero dove i cittadini non tengano in considerazione e non posseggano la “virtù” ovvero, tradotto, non posseggano una cultura civica dell'anteporre il bene comune a quello particolare. Una pianta ha bisogno, per attecchire, di suolo e condizioni accoglienti. La stessa pianta, a parità di dotazione genetica, crescerà rigogliosa in un terreno fertile e appassirà se trapiantata in un terreno arido e inospitale. La tesi della “crisi della democrazia” contiene un elemento potenzialmente fuorviante se ci induce a cercare qualcosa di storto nella pianta democratica e non nel terreno sociale, storico, culturale, economico, in cui è chiamata a crescere o nei modi in cui questo terreno è andato cambiando negli ultimi decenni. Per questo motivo preferisco parlare di “condizioni inospitali” in cui oggi, nelle società del XXI secolo, la democrazia come regime politico è chiamata ad operare – condizioni che già erano inospitali nella seconda metà del XX secolo e lo sono divenute ancora di più oggi. E più che di crisi preferisco parlare di trasformazioni che la democrazia subisce, ad opera del divenire sempre più inospitale del terreno socio-economico e culturale che la ospita, e di autotrasformazioni che la democrazia può porre in essere per rispondere a queste nuove sollecitazioni.

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Alessandro Ferrara

1. Condizioni inospitali, vecchie e nuove, per la democrazia Cominciamo con le prime, le trasformazioni del terreno in cui la pianta democratica si trova a vivere. Una delle più sintetiche ma accurate ricostruzioni delle “condizioni inospitali” in cui si trova ad operare un regime democratico inserito in società complesse come le nostre è stata fornita dal costituzionalista americano Frank Michelman, il quale in un suo saggio del 1997 dal titolo How Can the People Ever Make the Laws? A Critique of Deliberative Democracy, le ha così riassunte: 1) la immensa estensione del corpo politico nelle società moderne, con elettorati di decine e talvolta centinaia di milioni di votanti -- una massa che per la sua imponenza nullifica l’ “importanza percepita” della propria partecipazione e incoraggia quella che è stata chiamata da James Fishkin “ignoranza razionale”; 2) la complessità dell'articolazione istituzionale, che rende difficile cogliere tutte le connessioni fra agire politico, conseguenze del proprio voto ed effetti reali; 3) la anonimità dei processi di forazione della volontà politica, sempre meno mediati da interazione “in presenza” e sempre più catalizzati dai media generalisti prima e ora dalle nuove possibilità del web 2.0; 4) l'irriducibilità del pluralismo culturale, che fenomeni di migrazione di massa e di radicalizzazione religiosa portano ad accentuare, facendo sì che una “politica dell’identità” spesso conflittuale soppianti la relativamente maggiore omogeneità culturale che stava sullo sfondo dei “conflitti distributivi” di gran parte del secolo passato; 5) completerei il quadro di queste condizioni inospitali "storiche" con una quinta, la quale concettualmente appar-tiene al quadro teorico che aveva in mente Michelman, ovvero la crescente selettività e differenziazione della cittadinanza su scala domestica: gli stessi processi migratori che radicalizzano il pluralismo portano le nostre democrazie ad allontanarsi sempre più dalla fictio di un coestensività del corpo politico con la

totalità dei cittadini “liberi ed eguali” che vivono stabilmente entro un certo territorio e le rendono sempre più simili a quelle antiche, in cui i cittadini optimo jure decidevano democraticamente del destino dei tanti non cittadini. A queste condizioni avverse che la democrazia si trova da decenni ad affrontare sul terreno delle società stesse in cui è nata, se ne possono aggiungere altre, non così evidenti negli anni ‘80 e ‘90. Ne nomino alcune, per poi soffermarmici brevemente: 6) la finanziarizzazione dell'economia capitalista; 7) l'accelerazione del tempo su scala societaria e globale; 8) la spinta alla aggregazione sovranazionale che viene dalla globalizzazione; 9) la trasformazione della sfera pubblica per indebolimento dei media tradizionali; 10) l'utilizzo su ampia scala dei sondaggi e il loro riflesso sulla legittimità degli esecutivi. Sulla finanziarizzazione: la democrazia ha sempre avuto un rapporto ambivalente e intriso di tensioni con l'organizzazione capitalistica dell'economia, ma è un fatto innegabile che la moderna democrazia rappresentativa non si sia potuta stabilizzare se non in combinazione con un'economia capitalista. Il capitalismo degli ultimi tre decenni, però, ha dei tratti profondamente diversi anche da quello postfordista. Il valore del lavoro diminuisce costantemente da mezzo secolo a questa parte in Occidente e questa trasformazione, dovuta a fattori per un verso di razionalizzazione tecnica e per l'altro geopolitici (il mercato globale del lavoro), ha un impatto che va ben al di là delle relazioni capitale-lavoro e della stessa sfera economica. Assistiamo al tramonto del lavoro dipendente come generatore di ricchezza e di prestigio sociale, anche nel terziario, e al tramonto della grande industria fordista: per Detroit il nemico più insidioso non è stato il sindacato, ma Wall Street. Inoltre, la finanziarizzazione dell'economia squilibra ogni rapporto di forza a favore

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del capitale e della rendita e ridimensiona implacabilmente i redditi, la ricchezza relativa, il potere di acquisto e conseguentemente anche l'influenza politica dei ceti medi che ruotano attorno al lavoro dipendente. Il lavoro dipendente si fa precario, flessibile, sempre meno retribuito, viene appaltato all'esterno, si desindacalizza, perde capacità di coagulare consenso attorno a sé. Inoltre la finanza appare più in grado di generare ricchezza che non la produzione e i suoi strumenti si fanno sempre più "virtuali" e sganciati da ogni riferimento reale. Un'azienda vale quanto valgono le sue quotazioni in borsa, e le sue quotazioni in borsa sono funzione delle attese di guadagno "a breve", non più tanto dei cosiddetti “fondamentali”: (le azioni Fiat hanno oscillato fra 14 e 5 e di nuovo 14 euro nell’epoca pre-Marchionne, e oggi sono di nuovo ai minimi, in funzione dell'ipotesi di fusione con Chrysler). Wall Street detta legge alla economia "reale": sua creazione sono le bolle e i loro scoppi, prima quella delle dot.com, poi quella immobiliare, poi quella dei mutui subprime. Non è difficile scorgere qui una condizione quanto mai inospitale per la democrazia, che già aveva difficoltà ad arginare le dinamiche capitalistiche classiche e soltanto con il New Deal aveva iniziato a farlo. Inoltre, l'accelerazione del tempo societario preme nella direzione di una verticalizzazione dei rapporti sociali e politici. C'è sempre meno tempo, in tutti gli ambiti, per la collegialità, la deliberazione, la consultazione. Un partito contemporaneo, un'azienda del XXI secolo, ma anche una ONG che voglia stare al passo ed essere riconoscibile nella sfera pubblica, una redazione di giornale che voglia non restare indietro, deve prendere posizione, pronunciarsi, vendere e investire, cogliere un'occasione di visibilità, uscire con una notizia prima dei concorrenti e in un mondo in cui il tempo è il "tempo reale" di Internet. Questa necessità profila in modo più pronunciato la riconoscibilità, la discrezionalità e in ultima analisi il

potere del leader politico, del CEO, del responsabile, del direttore di testata - al di là degli sforzi organizzativi e delle culture politiche, aziendali, deliberative che li esprimono. La democrazia non potrà rallentare il tempo della vita sociale nell'epoca di Internet e della connettività globale in tempo reale, però dovrà misurarsi con la sfida di neutralizzarne l'impatto verticalizzante. Un'ottava condizione inospitale è data dal fatto che la crescente incapacità dello Stato nazione "medio" di misurarsi con le sfide globali - i flussi migratori, la criminalità organizzata, il terrorismo, il mutamento climatico, la sicurezza internazionale - costituiscono una spinta potente all'aggregazione sovranazionale. L'Unione Europea è spesso citata come il battistrada di questo processo, che trova repliche sotto i nomi di ASEAN, Mercosur, Ecowas, ecc. Questo processo in realtà pone la democrazia di fronte alla necessità di sopravvivere, in forme che rimangono da indagare, alla dissoluzione di quel nesso di nazione, apparato statale, mercato nazionale, cultura, lingua e memorie comuni a cui era collegato il suo fiorire nel moderno sistema degli Statinazione. Governance, in contrapposizione a “governo”, soft-law e best practices e benchmarking e moral suasion sono le parole chiave che acquistano centralità rispetto al classico binomio normazione-sanzione, ma è tutt’altro che chiaro quali nuove forme assumerà l’autorialità legislativa dei cittadini (l’obbedire a leggi che si è contribuito a fare), e come si possa distinguere fra governance democratica e governance tecnocratica. Ancora, la sfera pubblica delle società democratiche sta subendo una nuova trasformazione a pochi decenni di distanza da quel "mutamento strutturale" descritto da Habermas in Storia e critica dell'opinione pubblica. Da un lato l'audience atomizzata dei grandi media generalisti conosce inizi di riaggregazione sotto l'effetto dei social media - Facebook, Twitter, i blog, etc. - e la comunicazione si indirizza ora alle decine, al massimo centinaia di persone messe in rete dai social media.

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Queste reti non sono composte da atomi, ma da molecole sociali costituite da individui che si conoscono. Ritornano gli opinion leader che filtrano la comunicazione e ne orientano la decodifica. Il grande squilibrio fra emittenti concentrate, ad alta intensità di capitale, e riceventi dispersi e passivi, comincia ad appianarsi. Dall'altro lato, però, la disponibilità di notizie e informazioni nella rete sta generando una crisi strutturale del giornalismo di qualità affidato alla carta stampata. Il giornale vende notizie già note che si possono ottenere prima e gratuitamente sulla rete. In risposta a questa difficoltà i giornali si settimanalizzano e offrono commenti qualificati a notizie già diffuse nella rete. Tuttavia la domanda rivolta a "commenti autorevoli" è molto più ridotta rispetto alla domanda di notizie fresche, e da qui il declino delle vendite dei quotidiani e la loro minore appetibilità per il mercato pubblicitario. Quindi la democrazia del futuro dovrà fare i conti con una sfera pubblica influenzata da queste trasformazioni. Infine, un capitolo a parte è rappresentato dall'utilizzo sempre più esteso dei sondaggi a campione per misurare il consenso rispetto agli indirizzi politici adottati dal governo. Perchè questo sarebbe un fattore di potenziale alterazione degli equilibri democratici? Si consideri la percezione della legittimità di un capo di governo, presidente o primo ministro che sia, prima dell'uso massiccio dei sondaggi. La legittimità "percepita" era collegata fondamentalmente all'ultimo risultato elettorale. Le sue variazioni nell'intervallo fra due elezioni erano oggetto di mera supposizione e di polemica fra opposti campi politici. Con l'utilizzo regolare dei sondaggi, invece, la "legittimità percepita" assume l'andamento altalenante del mercato azionario: sale o scende in funzione di variabili diverse, esibisce trend ascendenti o discendenti, cadute e "rimbalzi". Queste oscillazioni "in tempo reale" conferiscono forza e credibilità diversa alle azioni dell'esecutivo e soprattutto, nel

quadro della divisione dei poteri, inducono gli altri poteri a reagire diversamente, e dunque a modificare i checks and balances, nei confronti di iniziative dell'esecutivo collocate ai margini della legalità e dei confini giurisdizionali. Una cosa è l'agire di un governo ai limiti della propria sfera giurisdizionale, e la risposta degli altri poteri a questa assertività quando l'esecutivo goda, per ipotesi, del 65% dei consensi, e tutt'altra la loro risposta quando i sondaggi mostrano un calo dei consensi sotto il 50%, il tutto sempre rimanendo per definizione immutato l'ultimo risultato elettorale. Soprattutto, questa nuova condizione assume una problematicità ancora più pronunciata se, considerata la accelerazione del tempo societario, pensiamo che gli esecutivi sono incentivati ad impegnarsi in indirizzi politici che diano risultati non nel lungo periodo, non entro le prossime elezioni, ma nei sondaggi della prossima settimana.

2. La trasformazione del liberalismo e la sopravvivenza della democrazia Se questo è il quadro delle condizioni sociali e storiche con cui la democrazia deve misurarsi, quali mosse adattive può essa mettere in campo? La democrazia non ha solo "subìto" trasformazioni ma da 30 anni a questa parte si è anche autoriformata, nella visione che il cosiddetto liberalismo politico, a partire dall’opera di John Rawls e Bruce Ackerman fra altri, è venuto elaborando. Non posso entrare qui nei dettagli, ma scelgo di concentrarmi su una sola operazione di autotrasformazione che il pensiero liberal-democratico ha compiuto dagli anni ‘90 in poi e che a mio avviso rappresenta la chiave di volta per capire come la democrazia può sopravvivere a condizioni divenute tanto inospitali. Questa chiave di volta ha a che fare con il problema di ripensare la legittimità democratica nel nuovo contesto. Per legittimità democratica intendo un sinonimo di “giustificazione politica”, ovvero la risposta che possiamo dare oggi

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alla domanda con cui è iniziata 24 secoli fa in Occidente la conversazione intorno al governo legittimo, con la sfida di Trasimaco a Socrate, "non vedi tu che la giustizia è l'utile del più forte?". Riformulata, la domanda che da sempre è oggetto di attenzione da parte di chi si occupa di filosofia politica da un punto di vista normativo suona così: Che cosa distingue l'uso legittimo del potere dall'uso arbitrario della forza? Ascoltiamo la risposta che John Rawls offre a questa domanda nel 1993. Afferma Rawls: “Noi esercitiamo il potere politico in modo pienamente corretto solo quando lo esercitiamo in armonia con una costituzione tale che ci si possa ragionevolmente aspettare che tutti i cittadini, in quanto liberi ed eguali, ne accolgano, alla luce di principi e ideali accettabili per la loro comune ragione umana, gli elementi essenziali” (J. Rawls, Liberalismo politico, nuova edizione ampliata, Einaudi, Torino 2012, p. 126). Come tutte le definizioni, questa formulazione così complessa ci parla attraverso il non-detto. L'apparentemente innocua frase "in armonia con una costituzione" contrasta con "in armonia con il volere dell'ultima maggioranza espressa da regolari elezioni", con "in armonia con ciò che il Paese desidera, così come attestato da sondaggi attendibili", con "in armonia con le nostre tradizioni politiche", con "in armonia con la Bibbia, il Corano o un altro testo sacro", con "in armonia con il nostro destino storico", con "in armonia con la nostra idea di moralità", "in armonia con le nostre possibilità di affermazione vitale", non dice nulla di tutto questo che è stato pur detto. Dice "in armonia con una costituzione", che dunque - scritta o non scritta nella forma canonica, come è il caso del Regno Unito - deve esistere. E in armonia con una costituzione tale che ci si possa ragionevolmente aspettare che riceva il consenso di tutti i cittadini - non solo di quelli credenti, di quelli abbienti, di quelli di una certa etnia, di un certo genere, o di un certo orientamento politico - ma di

tutti i cittadini, e non de facto, in stile plebiscitario da adunata in piazza Venezia, ma di tutti i cittadini in quanto liberi ed eguali. Ovvero, la costituzione, nei suoi elementi essenziali, e non in tutti i suoi dettagli, deve ricevere - per fungere da parametro della legittimità dell'azione di governo - il consenso di tutti i cittadini in una situazione in cui nessuno è più libero o eguale di altri, e nessuno può premere sui recalcitranti, incentivarli, dissuaderli dal dissentire, ecc. Infine, questo consenso nei confronti degli elementi essenziali della costituzione deve essere dato da tutti i cittadini alla luce di principi ed ideali accettabili alla loro comune ragione umana. Anche qui la definizione parla attraverso il non-detto. Il consenso deve essere dato per ragioni di principio, etiche, non per ragioni prudenziali, ovvero alla luce del timore delle conseguenze politiche di un mancato accordo o di un consenso negato. Una costituzione accettata per timore della guerra civile che potrebbe seguire dalla sua mancata promulgazione può legittimare un modus vivendi, una tregua, un cessate il fuoco, un armistizio con le armi sotterrate in attesa della venuta di qualcuno, ma non l'esercizio stabile e duraturo del potere in un quadro temporalmente esteso. Questo è il nucleo normativo essenziale del liberalismo politico, oltre al richiamo a concetti come la ragione pubblica, il ragionevole, gli oneri del giudizio e molti altri, su cui non posso qui soffermarmi. Il punto interessante è che questa definizione del potere legittimo, formulata nel 1993, può essere intesa come una risposta auto-trasformativa, da parte della democrazia, alle condizioni inospitali di cui abbiamo parlato. Due implicazioni sono a mio avviso essenziali. Primo, Rawls accoglie la proposta ackermaniana di una concezione dualistica della democrazia. L'insieme di condizioni sociali, economiche e storiche sopra elencate fanno sì che sia pressoché impensabile valutare la “rispondenza a giustizia” o legittimità di un ordinamento

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politico prendendo come metro la possibilità che ogni sua istanza, ogni suo segmento possa godere di una giustificazione esauriente che incontri il consenso di tutti i cittadini. La definizione di Rawls contiene l'implicazione che nelle condizioni della società contemporanea sopra descritte dobbiamo accontentarci di molto meno: non possiamo pensare che ogni delibera di un qualsiasi consiglio comunale debba rispondere alla nostra idea complessa di una società giusta. Ci saranno sempre, in altri termini, aspetti dell'azione di governo, dell'operato dei magistrati o dell'attività legislativa del parlamento che un singolo cittadino esperirà come coercitivi e ingiusti nei confronti della sua persona, della sua parte politica o della sua categoria sociale. Al posto di una illusoria versione del lockeano "consenso dei governati" ne subentra una più sobria che prospetta il costituzionalismo democratico come un doppio livello di giustificazione. Subentra cioè l'idea, tipica della riflessione liberale proposta in We the People da Bruce Ackerman, pienamente accolta da Rawls in Liberalismo politico, che il misurare la rispondenza a giustizia di un ordinamento politico sulla base del suo essere giustificabile di fronte a ogni cittadino ha senso, nel contesto divenuto sempre più "inospitale" delle società complesse, solo per un livello "alto" del diritto e del sistema politico - il livello che coincide con la costituzione, neanche presa nella sua interezza, ma solo nei suoi aspetti principali - mentre per tutti gli atti legislativi, amministrativi e giudiziari di livello "ordinario" la giustificazione consiste nella mera conformità al quadro costituzionale (in un quadro, ovviamente, in cui sono all’opera meccanismi di judicial review o controllo costituzionale). Il che ci conduce all'altra implicazione di questo modello liberale. Non esiste più la centralità del parlamento come luogo

privilegiato in quanto presuntamente più prossimo al popolo-sovrano. La branca legislativa, nel suo operare ordinario, è solo una fra tre e non dotata di un particolare valore: la sovranità popolare si esprime in egual misura anche nelle altre. O meglio, la politica “normale” come puzzle-solving dell’intreccio degli interessi, come crocevia di lobby particolariste, può non essere demonizzata perché in essa il “popolo”, inteso tecnicamente come "il titolare della sovranità", è silente, non già attivo come nell’immaginario giacobino. Il titolare della sovranità non si cura di emendamenti alla legge di stabilità o di leggine ad hoc. Si pronuncia solo sulle revisioni o gli emendamenti alla Costituzione, in sistemi come quello statunitense in cui la ratifica è prevista sempre e il Congresso soltanto propone un emendamento alla Costituzione. Riassumendo: alle condizioni sempre più inospitali a cui è chiamata ad operare, la democrazia può rispondere rivedendo in direzione dualistico-costituzionalista la sua nozione di legittimità democratica ed aprendo quindi la strada ad una tutela anche giuridica dei suoi cardini fondamentali, i diritti, rispetto allo strapotere di maggioranze elettorali divenute più permeabili alla influenza del denaro e dei media e può rispondere rendendosi capace di funzionare meglio anche su quella scala sovranazionale ove più si esercita la pressione delle nuove condizioni inospitali. Chiudo quindi con una nota di fiducia. Non si sono mai viste condizioni tanto inospitali per la democrazia come oggi, nelle società complesse, ma la capacità autoriformatrice della democrazia - che è sopravvissuta al passaggio dall’essere tipica delle piccole città-Stato ai grandi stati-nazione della modernità - è più versatile di quella di qualunque altro regime politico.

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