La pedagogia alla luce del paradigma della complessità

Capitolo

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La pedagogia alla luce del paradigma ecologico-sistemico Salvatore Colazzo

La pedagogia nel corso del Novecento ha conosciuto una profonda revisione della sua architettura ontologica e del suo impianto epistemologico, liberandosi faticosamente dall’ipoteca idealistica imposta dall’eredità gentiliana. L’avvicinamento al pensiero sistemico ha contribuito alla problematizzazione dei suoi costrutti, a ridefinire i suoi traguardi, i suoi modelli scientifico-operativi. È intenzione di questo contributo portare alla luce il valore del dialogo che la pedagogia ha instaurato con le intuizioni sistemiche, per comprendere come essa le abbia elaborate al suo interno per rivitalizzare la propria configurazione disciplinare.

Il primo contatto è avvenuto per la suggestione, operata dalla cibernetica, della nozione proposta da Wiener, a metà degli anni Quaranta del secolo scorso, di feedback1. Il meccanismo del feedback sostiene che la differenza fra il modello di una data azione e l’azione effettivamente svolta è un’informazione che può essere utilizzata come un nuovo segnale nel controllo dell’azione stessa.

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Wiener aveva sviluppato la nozione di feedback mentre lavorava a un progetto bellico per il tiro automatico. Il suo sistema era basato su un radar che forniva informazioni a un calcolatore sull’errore commesso dal sistema di puntamento, nel tentativo di abbattere, coi suoi tiri, l’aereo nemico. Il fatto che dopo ogni colpo, il radar poteva correggersi grazie alle informazioni in merito all’entità dell’errore, costituisce propriamente il meccanismo di feedback.

Questa idea di recuperare alcune informazioni derivanti dall’azione, per migliorare l’efficacia dell’azione stessa, era un’idea del tutto nuova. Un esempio tipico di come funzioni il feedback è quello del termostato del boiler. Quando il termometro indica che la temperatura desiderata è stata raggiunta si attiva un interruttore che spegne la resistenza che procura calore; quando la temperatura scende, si riattiva la resistenza. L’esistenza di un sistema di controllo garantisce che la temperatura nel serbatoio venga mantenuta costante. Wiener viene considerato un importantissimo precursore dell’Intelligenza Artificiale.

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In Cybernetic or control and communication in the animal and the machine (1948), Wiener prende in esame la Teoria dell’informazione di Shannon e Weaver (1949) e ne mostra il limite nel fatto che considera la comunicazione in termini di una simmetria tra codifica e decodifica di un segnale che ha un emittente, da una parte dell’atto comunicativo, e un ricevente dall’altra.

In effetti - dice Wiener - se io esamino che cosa succede quando due esseri umani comunicano, constato che la dimensione interattiva è fondamentale: emittente e ricevente, comunicando, si rovesciano continuamente le parti e il messaggio rimbalza dall’uno all’altro equilibrandosi, a seguito - diremmo noi oggi - di un processo di negoziazione di significati. Ciò perché gli interlocutori hanno “un accesso solo parziale al significato dell’informazione in circolazione nella comunicazione” (Numerico, 2010, p. 535). Quindi, verrebbe da dire, si abilita a pieno titolo la prospettiva ermeneutica nei processi comunicativi.

Wiener invitava a concepire il processo comunicativo a partire dal fatto che nell’interazione si verifica una “perdita di capacità espressiva del linguaggio” (Numerico, 2010, p. 536) nella transizione da emittente a ricevente. Egli era interessato a valutare, dell’informazione immessa in un canale comunicativo, quella quantità che si mostra capace - per dirla con le sue parole - di “penetrare in un apparato di comunicazione e immagazzinamento abbastanza da servire come innesco per l’azione” (Wiener, 1950, p. 94, cit. da Numerico, 2010, p. 536).

Questo discorso ci porta a dover considerare, nella comunicazione, la nozione di feedback e in particolar modo quella di feedback negativo, che ha a che fare con la capacità di saper regolare la risposta futura rispetto a una sollecitazione ambientale sulle prestazioni passate.

Da ciò discende una idea di apprendimento estremamente interessante. L’apprendimento corrisponde propriamente, nella prospettiva di Wiener, “all’acquisizione di un nuovo sistema di regole per l’interazione proficua con l’ambiente” (Numerico, 2010, p. 537).

Quest’idea presenta singolari assonanze col concetto batesoniano di deuteroapprendimento e con il concetto piagetiano di accomodamento. È possibile che una situazione in cui si moltiplichi il numero di interazioni (e quindi di feedback) faciliti i processi di apprendimento di schemi nuovi per risolvere problemi? Detto in altri termini: situazioni di interazioni in gruppo aiutano i processi di apprendimento?

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A questa domanda due autori di ispirazione wieneriana, i quali hanno dato un decisivo contributo alla nascita di Arpanet, e quindi degli attuali sviluppi delle tecnologie della comunicazione, Licklieder e Taylor, rispondono affermativamente (vedi Licklieder, Taylor, 1968). Quando molte menti interagiscono - essi dicono - l’interazione fra di esse e i feedback che si creano riescono non solo a trovare le adeguate risposte a un dato problema, ma anche a rinvenire insieme le regole per risolvere problemi. Esiste insomma un’intelligenza strettamente legata all’interazione, è probabilmente quella particolare forma di intelligenza che Derrick de Kerckhove ha chiamato intelligenza connettiva (vedi de Kerckhove, 1998).

Facilitando e moltiplicando, anche con la mediazione di macchine, le occasioni di interazione fra persone, si possono generare soluzioni creative altrimenti inaccessibili alla singola persona. È fondato in questa convinzione sia lo studio delle basi comunicative della democrazia sia la valorizzazione, in campo educativo, di metodi di insegnamento/apprendimento di tipo cooperativo, sia la nascita di costrutti quali quello di apprendimento organizzativo ovvero quello di comunità di pratiche, che rinviano a una nozione molare di apprendimento.

IL FEEDBACK CIBERNETICO IN PEDAGOGIA Ricaviamo qualche conseguenza sul piano pedagogico. Il modello ingegneristico della comunicazione si presenta idoneo a descrivere il setting del modello trasmissivo dell’insegnamento, che vede un docente (emittente) che elabora un messaggio che trasmette a un discente (ricevente), al quale è chiesto di decodificarlo esattamente, sicché alla fine del processo ciò che è nella mente del docente si trasferisce nella mente del discente.

La proposta di Wiener consente di superare questo modello.

Supposto, infatti, che la situazione pedagogica sia quella in cui si verifica apprendimento come conseguenza di un’azione di insegnamento, il feedback consente di veramente relare le due azioni, cioè di stabilire un’interazione efficace tra le due polarità della relazione educativa: docente e discente2. Infatti l’insegnamento, avendo posto

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La relazione educativa è un’interazione finalizzata di tipo costruttivo tra due soggetti, normalmente definiti educatore ed educando, che si realizza attivando una transazione di tipo simmetrico o bi-direzionale.

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come perseguibili alcuni obiettivi di apprendimento, modifica costantemente il suo agire, calibrandolo sulle risposte fornite da chi è destinato ad apprendere, rendendo con ciò produttivo l’errore, che diviene in grado di fornire informazioni utili a realizzare il processo formativo. Il feedback, da questo punto di vista, diventa un importante dispositivo didattico, che consente di qualificare l’attività di insegnamento-apprendimento come attività sperimentale, fondata sulla progettazione (previsione degli esiti) e valutazione (verifica degli esiti), quest’ultima da intendersi, in virtù del feedback, come congegno che esplicantesi in itinere del processo formativo, ne consente il controllo in vista dei risultati finali. L’assunzione cibernetica in pedagogia sposta l’asse dell’azione di insegnamento sull’allievo: questi, ricevendo degli input da parte degli insegnanti finalizzati a realizzare in lui apprendimento, offre delle risposte, che, analizzate dal docente, consentono di rivedere l’insegnamento. In tal modo il docente diventa strumento del processo pedagogico, la cui azione varia in funzione delle risposte offerte dagli allievi; la valutazione cambia di segno in quanto non è l’accertamento notarile, a fine processo, di un eventuale mancato apprendimento con addebito integrale della responsabilità all’allievo, ma costituisce lo strumento per poter effettivamente controllare l’apprendimento e istituire, in tal modo, propriamente un setting formativo3.

Recentemente ricerche di tipo neurobiologico hanno confermato come l’apprendimento dall’errore per ricalibrazione del sistema cognitivo abbia un correlato cerebrale4.

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Il setting è l’insieme degli elementi strutturali e cognitivi che caratterizzano un ambiente di apprendimento. Sono pertanto considerati set distintivi di un ambiente sia gli elementi che architettonicamente lo compongono sia i modelli didattici e comportamentali attivati dal formatore. Solitamente i setting formativi si differenziano in due classi: minimalista e ricco.

La ricchezza del setting formativo dipende però, oltre che dagli accorgimenti strutturali in grado di migliorare le performance apprenditive, essenzialmente dalle capacità professionali del docente. Tra queste la capacità di gestire il feedback.

4 Nel cervello esiste un’area dedicata alla valutazione degli errori commessi e all’elaborazione di strategie ‘ad hoc’ per non ripeterli. Si tratta di una porzione profonda chiamata “cingolato dorsale anteriore”, identificata dai ricercatori dell’Harvard Medical School di Boston coordinati da Emad Eskandar. Asportando quella porzione i soggetti tendono a ripetere i loro errori, non riuscendo a trarre alcun indizio da essi per modificare il loro comportamento.

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LE STRUTTURE COGNITIVE, DIDATTICHE, OGGETTUALI Un secondo costrutto che porta la pedagogia ad avvicinarsi all’approccio sistemico è quello di struttura. Ogni disciplina può essere descritta, dal punto di vista dell’epistemologia strutturalista, come una serie di concetti opportunamente organizzati che, in virtù delle relazioni logiche che stabiliscono fra di loro, costituiscono un’impalcatura molto coesa. Conoscere è propriamente appropriarsi di questa struttura trasferendola nella propria testa, in modo che si realizzi progressivamente, in virtù dello studio, un omeomorfismo tra struttura cognitiva del soggetto e logica dell’oggetto studiato. E il curricolo, a sua volta, deve essere in grado di riprodurre (in modo coerentemente semplificato) la struttura del sistema culturale umano.

La didattica diventa pratica di sostegno dello sforzo cognitivo del soggetto proteso a impossessarsi dei principi organizzatori delle discipline scientifiche, attraverso una rigorosa modellizzazione delle stesse e una studiata organizzazione del loro peso all’interno dei percorsi formativi. La disciplina scolastica è un modello della disciplina scientifica. Secondo l’impostazione strutturalista, il modello è una rappresentazione semplificata della realtà, coerente, e dal punto di vista logico e dal punto di vista psicologico. Un modello, in altri termini, consente di riprodurre correttamente entità, proprietà e relazioni tra le entità, e implementa, altresì, un metodo esaustivo per trarre inferenze deduttive.

In quest’impostazione, il sistemico rischia di proporsi come risultato dello spirito sistematico, procurando un raffreddamento di quel fervore di intuizioni e riducendo quella conflittualità, quell’antagonsimo, quel confronto di forze di cui è fatta la scienza in quanto pratica sociale realmente esperita.

Costruire un curricolo significa, dalla prospettiva strutturalista, stabilire le strutture e organizzarne l’insegnamento, seguendo alcuni fondamentali criteri che il Bruner degli anni Sessanta del secolo scorso enuncia grosso modo in questi termini: insegnare una disciplina è aiutare il processo per il quale l’allievo arriva a: – –

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comprenderne i principi; riportare le particolarità all’interno di “modelli strutturati” (riuscire a ricondurre enunciati particolari agli enunciati fondamentali comprendendo il tipo di legame logico tra gli uni e gli altri); esercitare opportunamente le proprie abilità riuscendo a consolidare i principi e le idee fondamentali della disciplina; 223

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arricchire nel tempo la quantità di elementi e nessi, differenziando e integrando via via la struttura, che acquista, così, ricchezza e compattezza (vedi Bruner 1967a, b).

Un insegnamento efficace, quindi, arriverà a dire Grandstaff, è quello che riesce a produrre un perfetto allineamento tra le strutture presenti nella mente del discente e le strutture dell’oggetto di apprendimento. Ciò significa che tutti i concetti presenti nella testa delle persone possono essere ricondotti a strutture logico-matematiche (mappa cognitiva), e che le discipline possono essere rappresentate in forma di algoritmo ovvero di mappa concettuale (vedi le osservazioni di K. Frey 1977, alle pp. 125-131).

L’EPISTEMOLOGIA GENETICA COME APPROCCIO SISTEMICO Jean Piaget propone allo strutturalismo, del quale pure si sente parte, di non ridursi a una visione descrittiva, statica, della struttura, ma di voler considerare che ogni struttura è il risultato di un processo generativo, è il risultato di una riconfigurazione che deriva dall’esplicarsi di un’energia. Le strutture hanno carattere dinamico, si evolvono in strutture più complesse; l’evoluzione è regolata da una legge, quella dell’integrazione, per la quale la struttura derivata ingloba in qualche modo, subordinando a sé la struttura originaria, o, quanto meno, le funzioni a essa proprie.

L’epistemologia strutturalista, perciò, in Piaget diventa epistemologia genetica.

Le discipline scientifiche hanno un carattere sistematico, sono concetti organizzati in forme di teorie, ossia concetti regolati da precise relazioni tra di loro.

Le interazioni fra i concetti determinano una preminenza del tutto sulle parti, le quali non valgono per sé, ma per il sistema delle relazioni che le lega, che determina con ciò la forma del tutto. Questo significa che in ogni struttura è come se ci fosse una teleologia interna (autoregolazione) che conduce le parti a subordinarsi all’esigenza di dar luogo a un tutto ordinato. In ogni struttura può leggersi una forza formatrice che la fa consistere, un principio organizzatore, un centro propulsore.

La forza formatrice delle discipline scientifiche è evidentemente l’uomo e la sua capacità di modellizzare il mondo, la sua capacità di 224

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costruire complesse strutture cognitive attraverso cui comprende la realtà e la agisce efficacemente.

Le discipline, che pure hanno un carattere sistematico e possono essere proposte come una concatenazione logica di concetti, tuttavia hanno una loro storia, esse emergono progressivamente attraverso il tentativo che l’uomo compie di modellizzare il reale e accompagnano il suo, per così dire, divenire soggetto, cioè la progressiva conquista di strutture cognitive (leggi: capacità di trattare i dati cognitivi), più complesse, che, liberandosi da un iniziale egocentrismo, progressivamente si universalizzano pervenendo alla capacità di anticipare gli eventi e di regolarli, avendone compreso la logica di funzionamento.

Nel ricostruire la genesi delle discipline scientifiche scopriamo come ciò consenta di ripercorrere i principali stadi di sviluppo della mente umana, che faticosamente ha conquistato la capacità di pervenire a un approccio scientifico al reale. Gli stadi sono ripercorsi nello sviluppo che portano il bambino a diventare adulto, appropriandosi infine di quell’attitudine a trattare oggettivamente, con spirito scientifico, i fenomeni.

Comprendere una disciplina è propriamente riuscire a ricostruirne la genetica, cioè scoprire la legge di costruzione evolutiva che determina il suo carattere attuale. Comprendere quindi profondamente una disciplina è riuscire a “ricostruirla” nella sua evoluzione. Gli inciampi che la mente incontra nel suo tentativo di produrre spiegazioni credibili del mondo verranno superati attraverso il modificarsi della mente e delle sue strutture, che viene sollecitata dal fallimento della spiegazione, a conquistare altre configurazioni strutturali.

L’epistemologia genetica propone anche una sua specifica lettura della questione dibattuta in ambito strutturalista in merito alla natura delle strutture individuate dalle discipline scientifiche. Le strutture – si chiede Piaget – costituiscono “semplici ‘modelli’ funzionali alle esigenze di studio dei teorici” o sono invece “da considerare inerenti alla realtà studiata”? (Piaget 1983a, p. 246). Appartengono alla logica dell’osservatore o riguardano l’oggetto osservato? In altri termini: “La struttura coglie realmente, al di sotto dei fenomeni, il principio che li giustifica?” (Piaget, 1983a, p. 246).

La struttura nasce come modello matematico, ossia un tentativo di indovinare l’architettura profonda di una realtà indagata, ma poi, grazie alla sua messa alla prova, col metodo sperimentale, che impone delle modifiche per renderlo compatibile con le evidenze fat225

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tuali, assume le caratteristiche di tendenziale isomorfismo con la struttura reale5. Anche se, probabilmente, l’incompiutezza di qualsivoglia spiegazione va dato come elemento ineliminabile del conoscere, essendo l’epistemologia – come dirà Bateson – strettamente collegata all’ontologia, ciò e come noi conosciamo dipende da come noi siamo configurati: cosa ben nota questa a Piaget, avendo egli studiato come a ogni stadio di sviluppo delle strutture cognitive del soggetto corrispondano alcune possibilità operative e non altre, che diventano accessibili solo quando si verifica un processo di maturazione.

Questo processo di progressivo incremento dell’affidabilità del modello è più evidente nel campo delle scienze hard, assai meno in quello delle scienze umane, in cui il processo di matematizzazione è molto più blando. Nelle scienze umane - osserva Piaget - le strutture si collocano “a metà strada tra lo schema teorico, in parte relativo alle decisioni dell’osservatore, e l’organizzazione effettiva dei comportamenti da spiegare” (Piaget, 1983a, pp. 246-247). Tuttavia è proprio nelle scienze umane che si assiste alla disponibilità a spiegare la realtà in termini di interdipendenza, di non linearità del rapporto causa-effetto, mentre in altri campi prevale ancora l’atteggiamento riduzionista, che tuttavia tende a essere revocato col progresso dello studio, in quanto proprio esso mette in evidenza una serie di fatti che non possono che essere spiegati attraverso l’assunzione di una prospettiva sistemica.

Per Piaget lo strutturalismo è essenzialmente un metodo e, perciò, rifugge dal proporsi come modello esclusivo di spiegazione del reale, altri approcci sono possibili, anzi si può dire che la conoscenza scientifica si accresca attraverso il dialogo e il tentativo di integrare le diverse prospettive facendole interagire (vedi Moravia, 1975, p.

175).

Una concezione così eterodossa dello strutturalismo porta Piaget a poter essere annoverato tra i pensatori del pensiero sistemico. Tant’è vero che egli chiarisce in termini che potremmo dire già vareliani il rapporto fra chiusura e apertura del sistema, quando si tratti

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Così concepito, il modello avvicina molto Piaget a Wiener, autore, assieme a Rosenblueth di un articolo: The role of models in sciences, Philosophy of science, n. 12/1945, pp. 316-321, tradotto in italiano circa mezzo secolo dopo col titolo Il ruolo dei modelli nella scienza, in Somenzi, Cordeschi (1994), La filosofia degli automi, Bollati Boringhieri, Torino, 1994, pp. 8692. Wiener, probabilmente, vi aggiunge la portata della simulazione, ossia della creazione di artefatti in grado di implementare la teoria, mostrandone, col loro funzionamento, l’efficacia.

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di sistema vivente, pervenendo alla nozione di autorganizzazione come risultato del rapporto con l’ambiente, che non determina il sistema ma lo stimola a conseguire forme nuove di adattamento per conservare la propria identità, innescando un meccanismo di feedback ricorsivi che modifica e il sistema e l’ambiente. Piaget ricorre, per spiegare ciò, al concetto di “anticipazione”. L’organismo vivente mantiene integro se stesso nel tempo divenendo secondo le direttrici consentite dalle sue stesse strutture6.

Nella serie continua di eventi che trasformano il vivente pur mantenendone l’unità, ogni passo avviene sempre in alcune direzioni tra le tante possibili e letali. Questa capacità è stata chiamata “anticipazione”, in quanto il vivente è in grado di prevedere il proprio futuro immediato e di provvedere.

Questa capacità accomuna tutto il vivente, come riconosceva Piaget, il quale, in forme piuttosto simili a quelle del biologo Jacob (1970), sottolineava: “La funzione di anticipare è una delle più generali della vita organica, come pure dei meccanismi cognitivi” (Piaget, 1983), Tanto in Piaget che in Jacob, il processo di anticipazione è pensato come una funzione necessaria ormai memorizzata nelle strutture biologiche, e selezionata a questo fine dalla sopravvivenza.

La limitazione nel numero delle scelte possibili operata dalla anticipazione è quella di escludere gli eventi letali e di permettere così la conservazione. D’altra parte questa limitazione è proprio la condizione contenuta nella nozione di processo. Il comportamento del vivente mostra una limitazione nelle scelte del suo divenire restringendole alle poche non letali. Il vivente si “salva” dalla degradazione inevitabile dei processi fisici perché nella sua stessa natura è già presente la capacità di dirigere il proprio futuro immediato7.

6 È da ritenere che la profonda conoscenza che Piaget aveva della biologia lo abbia sostanzialmente indotto a distanziarsi dalle forme più integraliste dello strutturalismo. È nella tradizione dello studio biologico la sua vocazione sistemica, come giustamente osserva Paparella (2011): “In una prospettiva di tipo sistemico, non possiamo non riconoscere la presenza e l’azione di quello che C. Bernard definiva come ambiente interno. La sua complessità e il suo tendere permanentemente all’equilibrio, come molto più tardi dimostrerà W. Cannon, permettono alla persona di controllare e di gestire un’ampia gamma di variazioni esterne che vengono costantemente compensate ed equilibrate, con una serie di circuiti a feed-back, fra loro correlati (l’omeostasi, di cui parla W. Cannon), secondo una regola che è data non tanto dalla stabilità, quanto dalla permanente tendenza verso l’obiettivo della stabilità”.

7 Si legga il seguente passo per apprezzare la straordinaria capacità di Piaget di comprendere la dinamica di apertura/chiusura che caratterizza i sistemi viventi: “…non c’è per la biologia una forma organica rigidamente portatrice di processi vitali, ma un flusso di processi che si manifestano sotto la specie di forme apparentemente preesistenti […]. L’apertura è

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Se chiamiamo questa facoltà del vivente di anticipazione “dominio cognitivo” il passo per pervenire al costrutto di autopoiesi è breve8.

Per il principio autopoietico il vivente è quel sistema organizzato in modo tale da assicurare il mantenimento della sua stessa organizzazione. In pratica un sistema autopoietico è un sistema che ridefinisce continuamente sé stesso e al proprio interno si sostiene e si riproduce. Un sistema autopoietico può quindi essere rappresentato come una rete di processi di creazione e trasformazione di componenti che, interagendo fra loro, sostengono e rigenerano in continuazione lo stesso sistema (vedi Maturana, Varela, 1985).

Piaget, in ambito pedagogico, ha avuto una grande fortuna, almeno in Italia, e quantomeno per un certo periodo. C’è chi ha ricavato dalla lezione di Piaget una criteriologia di didattica costruzionista, rendendola in tal modo concretamente operativa nell’agire educativo.

A noi, nel quadro dell’economia del presente contributo, interessa soprattutto rilevare i principi pedagogici più fecondi desumibili dalla sua lezione.

Se è fondamentale comprendere come le strutture si generano, le discipline, che sicuramente sono delle strutture, vanno spiegate ricostruendo i processi che hanno condotto alla loro costituzione. I saperi scolastici quindi sono delle ricostruzioni dei saperi scientifici da una prospettiva genetica. Conoscere è in qualche modo riscoprire, dal punto di vista del soggetto, il sapere. Pertanto le conoscenze non possono essere semplicemente trasmesse, installate, per così dire, già bell’e confezionate, ma debbono essere presentate sotto forma di idonei problemi. Dicendo “idonei problemi” diciamo che devono essere tali da poter essere risolti dai discenti al livello dello sviluppo delle loro strutture cognitive.

Lo sviluppo cognitivo del soggetto è un processo di autorganizzazione delle strutture che acquisiscono, nel tempo, nuove potenzialità di funzionamento. È opportuno pertanto che l’azione didattica proponga agli allievi gli stimoli che possono effettivamente interagire con le loro strutture e stimolarle a evolvere. Detto in altri termini: le conoscenze vanno presentate agli allievi in modo che essi che possano effettivamente apprenderle. Il che implica che il docente debba

dunque il sistema degli scambi con l’ambiente, ma ciò non esclude affatto la chiusura nel senso di un ordine ciclico e non lineare” (Piaget, 1983, p. 17).

8 Dominio cognitivo è “il dominio delle interazioni in cui il sistema può entrare senza la perdita della sua chiusura, cioè senza la perdita della sua identità, poiché la perdita della chiusura caratterizzerebbe la disintegrazione del sistema” (Ceruti, 1990, p. 37).

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avere una doppia competenza, dal punto di vista di Piaget: deve innanzitutto conoscere l’epistemologia delle discipline, cioè i processi attraverso cui le discipline hanno conseguito la loro maturità scientifica e, una volta conseguitala, come fanno a produrre conoscenze valide; deve, inoltre, conoscere la psicologia dello sviluppo, sapere cioè comprendere i meccanismi di funzionamento della mente dei formandi, per potere effettivamente interagire con essi e contribuire a fornire gli strumenti per pensare, ossia per produrre conoscenze valide, ma anche nuove, quindi per pensare creativamente.

Agli allievi va trasmessa, potremmo dire, una competenza epistemologica, poiché solo essa è realmente generativa di ulteriore sapere, che si iscrive cioè coerentemente nello sviluppo delle discipline (e della mente umana).

Infine: se il soggetto è dinamismo autorganizzante, la relazione educativa si prospetta come un atto di libertà, il confronto fra due mondi che scoprono, attraverso il dialogo, la possibilità di modificare se stessi, conseguendo livelli di organizzazione psichica via via più efficiente che genera un processo di funzionale adattamento all’ambiente.

LA COMPLESSITÀ IN PEDAGOGIA Il terzo costrutto che ha avuto influenze decisive per il maturare di una concezione pedagogica postmoderna è quello di complessità.

Esso consente la determinazione di un punto di non ritorno nell’epistemologia contemporanea. Dar spazio alla complessità nell’esplorazione scientifica significa essenzialmente quattro cose: a) liberarsi dall’idea che le leggi abbiano carattere deterministico, esprimano cioè la necessità stringente del reale. Le leggi piuttosto esprimono i vincoli delle forme del reale. L’esistenza sopravanza la logica, nel senso che essa è apertura al possibile. Perciò può ben dirsi che “lo studio delle potenzialità evolutive di un sistema non si accompagna con una capacità di previsione del suo futuro certa ed esaustiva, e i limiti incontrati dalle nostre capacità di previsione sono rivelatori di meccanismi profondi della natura e della storia” (Ceruti, 1990, p. 30). Ossia dobbiamo rassegnarci a pensare che la nostra mente non può abbracciare la totalità, della quale noi siamo una parte. Questo apre alla necessità evidenziata da Bateson del senso del limite e apre alla possibilità di intende229

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re il sacro come la percezione di un tutto che ci sopravanza e ci ricomprende (Bateson, 1977, 1984).

“Le leggi scientifiche”, nelle odierne concezioni epistemologiche, esprimono “gli insiemi delle possibilità entro i quali, di volta in volta, hanno luogo i processi effettivi. Il decorso degli eventi non è mai dato in anticipo. Le leggi sono simili alle regole di un gioco che stabiliscono un universo di discorso, una gamma di possibilità in cui si ritagliano gli effettivi decorsi spazio-temporali, dovuti in parte al caso e in parte alle abilità o alle deficienze dei giocatori (cioè alle caratteristiche specifiche dei sistemi in interazione, ad esempio l’organismo e l’ambiente” (Ceruti, 1990, p. 30).

Proprio l’evoluzione delle specie rende conto del vincolo. Le condizioni di ordine fisico che preesistono agli organismi costituiscono dei vincoli in ordine alle forme e alle dimensioni che essi possono assumere, ma sono anche delle opportunità. I diversi organismi, nella loro varietà, mostrano proprio l’inventiva di soluzioni rinvenute, la ricchezza del possibile, a cui quei vincoli conducono. L’evoluzione è in fondo la somma dei processi di fissazione delle possibilità che, fungendo, a loro volta, da vincolo riescono a procurare la produzione di nuove, inedite soluzioni.

“Le scienze evolutive contemporanee mostrano l’esistenza di una storia di coproduzione reciproca fra necessità e vincoli, di una stratificazione e gerarchia di possibilità, di una stratificazione e gerarchia di vincoli” (Ceruti, 1990, p. 31). b) L’osservatore è sempre co-implicato nelle descrizioni degli oggetti che studia. Un sistema è una pluralità molto elevata di relazioni, con una pluralità multipla di feedback, tanto che rapidamente ci si ritrova a doversi misurare con l’impossibilità di computare il sistema delle relazioni e della reciprocità dei loro effetti. Questo fa sì che ogni sguardo gettato sul sistema sia necessariamente parziale (e questo a conferma di quanto detto nel punto precedente).

Pertanto, “non esistono confini ‘naturali’ fra sistemi e ambiente, come del resto non esistono gerarchie ‘naturali’ di sistemi, sottosistemi, sovrasistemi. I confini e le gerarchie sono sempre stabiliti da un osservatore, le cui operazioni e le cui decisioni intervengono a più livelli nel processo di costruzione di un sistema” (Ceruti, 1990, p. 32). Il medesimo osservatore in circostanze diverse e mosso da istanze diverse darà del sistema raffigurazioni differenti, osservatori differenti, in ragione del loro essere la singolare espressione dell’incontro fra necessità e caso, daranno spiegazioni differenti. I punti di vista sono irriducibili l’uno 230

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all’altro, non sono sovrapponibili, ogni sistema ne tollera una straordinaria molteplicità. La descrizione di un sistema esprime sempre la relazione che il soggetto osservante assume rispetto all’oggetto osservato. Non esiste, di conseguenza un metapunto di vista, che costituisca il punto di osservazione onnicomprensivo, esterno, capace di conciliare definitivamente la pluralità dei punti di vista. c) L’ignoranza progredisce con la conoscenza poiché la conoscenza è un atto di un corpo vivente che conosce da dentro il limite della propria ontologia. Noi conosciamo grazie al nostro sistema nervoso, il mondo che conosciamo è per così dire creato da noi nel momento in cui rigeneriamo continuamente l’essere che siamo.

Ciò può essere espresso pure dicendo: esiste un ineliminabile inconscio cognitivo.

Il rapporto fra conscio e inconscio cognitivi si costruisce in maniera ricorrente e vicariante: a ogni presa di coscienza corrisponde sia una nuova conoscenza delle matrici costruttive di una conoscenza acquisita precedentemente, sia la produzione di nuovo inconscio cognitivo corrispondente alla non visibilità delle matrici e dei meccanismi che hanno presieduto al processo di presa di coscienza. (Ceruti, 1990, p. 33)

d) Ogni atto di conoscenza è un processo di adattamento, quindi determina una co-evoluzione di organismo e ambiente. Ambiente e sistema agiscono come fonti reciproche di perturbazioni, provocando continui cambiamenti reciproci. Ciò significa che conoscere è cercare un equilibrio, che modificando le condizioni dell’equilibrio stesso, modifica di continuo l’orizzonte. Ogni sistema cognitivo, per la sua stessa natura, è destinato a uno sviluppo inconcluso.

Questi quattro elementi testimoniano il passaggio da una epistemologia della rappresentazione - quella a cui Rorty ha dedicato il suo La filosofia e lo specchio della natura (1986) - a un’epistemologia della costruzione. Questa concepisce l’attività scientifica come situata. Con quest’aggettivo vogliamo dire che nasce da alcune circostanze, vede alcune cose e non altre. La situazione è uno specifico punto di vista, che circoscrive i limiti di validità di un’affermazione scientifica. L’attività scientifica non esprime una razionalità oggettiva, astorica, sovradeterminata, ma è piuttosto il risultato di una razionalità storica, concretamente in atto, impegnata a risolvere i 231

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problemi che la situazione storica le propone, una razionalità quindi che si ridefinisce in continuazione nel processo di costruzione del sapere.

I modi attraverso cui leggiamo il reale, essendo situati, sono incommensurabili. Tuttavia l’esigenza di coordinare i punti di vista, di porli in dialogo è un’esigenza irrinunciabile. Sono incommensurabili, ma ha senso il tentativo di provare a tradurli. Non si tratta di dimostrare la verità di uno la falsità dell’altro, ma si tratta di impegnarsi a comprendere la differenza. Lo si può fare istituendo una comunità di discorso, provando a conoscere la conoscenza (Morin, 2007), promuovendo dialogo, incrementando la competenza a leggere l’alterità, ossia la disponibilità a concepire l’altro come altro da sé, attraverso un’operazione che potremmo dire di trans-codifica: tentare, all’interno del proprio linguaggio, di farsi un’idea della mente dell’altro, evitando di assimilarlo, cercando cioè di salvaguardare la sua alterità, riproducendola nel nostro sistema di idee, divenuto disponibile a rappresentarsi la differenza.

Questo vale per il singolo, ma vale anche per le differenti comunità scientifiche che si raccolgono attorno alle discipline che possono dar luogo a un’autentica interdisciplinarità se, pur nella loro chiusura organizzazionale, compiono lo sforzo di rappresentarsi le istanze generative di altri modi di leggere e spiegare la realtà. Anche le discipline si sono costituite a seguito di processi determinati da circostanze storiche particolari e molteplici che le hanno vincolate nel loro essere, facendole produttivamente elaborare le perturbazioni ambientali.

Perciò non è pensabile che vi sia una metadisciplina che porti le diverse discipline ad annullare le loro differenze nel riconoscimento di una verità che le ricomprende e con ciò le assimila, ma è invece credibile il principio del dialogo. Proprio per questo non può darsi il paradigma della complessità, ma può esistere la complessità concretamente in atto.

“Una mappa del sapere non è data dall’alto, non è data in anticipo, non si può sorvolare neppure per un momento, a volo di uccello, il territorio della conoscenza nella sua totalità. Siamo inevitabilmente e costitutivamente all’interno del territorio, e dall’interno apriamo e percorriamo sentieri, disfiamo e nuovamente disegniamo le nostre mappe” (Ceruti, 1990, p. 43).

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IL PROGETTO EDUCATIVO NELL’ERA DELLA COMPLESSITÀ La domanda a questo punto che, da una prospettiva strettamente pedagogica, è indispensabile porsi è la seguente: “quale progetto educativo è possibile disegnare nell’era della complessità per promuovere una cultura della complessità?”. Un progetto educativo che sappia autoleggersi secondo una logica della regolazione sistemica.

Una buona traccia in questa direzione può essere costituita sia dalle riflessioni contenute nel volume monografico della rivista “Sentieri della formazione” (AA. VV., 2007) dedicato alla declinazione in termini pedagogici delle teorie di Morin da parte di rappresentanti autorevoli del mondo della pedagogia italiana, sia dalle ricerche raccolte nel volume Il progetto educativo (Paparella, 2009). A ogni buon conto, al di là delle considerazioni che qui sviluppo, necessariamente circoscritte a causa della natura di questo scritto, rinvio per un approfondimento al mio Abbozzo di un’ontologia pedagogica (2007).

Nessun progetto educativo può essere assunto come un dispositivo oggettivo e asettico, nessun metodo didattico può esser fatto valere a prescindere dalla situazione, dagli attori e dai loro effettivi bisogni.

Da questa prospettiva, il progetto va inteso come una sorta di “perimetro entro cui contenere le iniziative, a volte una specie di contenitore simbolico o anche, nei casi più felici, un orizzonte di senso, cui riferirsi per conferire significato alle opzioni operative che si vanno a compiere, e non anche l’insieme delle risorse cui attingere per indirizzare i processi che conducono all’organizzazione dell’esperienza personale” (Paparella, 2009, p. 145). Il progetto educativo deve sapersi misurare con la “capacità generativa, propria della persona, che nasce dalla organizzazione di conoscenze, di schemi operativi, di modelli comportamentali, di stili d’azione” per “orientare le abilità in termini di efficienza ed efficacia” (ibidem, p. 147).

Ciò comporta che per la buona riuscita dell’azione progettuale vale più “la flessibilità della gestione didattica” che non “la struttura organizzativa del progetto”; più “la prospettiva futura” che non “gli obiettivi prestabiliti”, più la capacità di rendere opportunità educative “le perturbazioni ambientali”, più la “rappresentazione delle attese” che non la “rigida valutazione delle competenze e delle abilità agite” (Paparella, 2007, p. 154, passim).

L’azione educativa rinuncia quindi a istruire i soggetti e pretende di educarli, cioè di contribuire a far scoprire in se stessi le risorse 233

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dell’autoapprendimento, che è tanto più efficace in quanto trova un ambiente stimolante, cioè capace di indurre occasioni di sviluppo. Il docente diventa una sponda relazionale per consentire all’allievo la possibilità di conseguire forme di scambio produttivo con il contesto.

La pedagogia, conquistando lo sguardo sistemico, è indotta a considerare la relazione educativa non più come l’astratto rapporto (asimmetrico) tra un io (che deve imparare) e un tu (a cui spetta il compito/responsabilità di insegnare), ma piuttosto a vederla alla luce della constatazione che l’essere umano è costantemente teso a dar senso alla realtà, che appartiene a diversi sistemi, ognuno con i propri vincoli, le proprie regole di funzionamento, interrelati tra loro e quindi in grado di influenzarsi reciprocamente seguendo le regole (complesse) di una grammatica non-lineare di causa-effetto.

Quando l’essere umano viene al mondo si trova immediatamente iscritto in una relazione privilegiata, quella con la madre, che media la relazione del sistema madre-bambino con il più ampio sistema familiare, a sua volta in relazione con il sistema sociale, all’interno del quale sono individuabili una serie di sottosistemi in reciproca relazione.

Il rapporto madre-figlio, esplicantesi nel contesto familiare, è il luogo primario degli apprendimenti, la cui natura è in gran parte di tipo informale e non-formale. Il bambino, grazie alla relazione col suo ambiente familiare impara gli elementi di base per sopravvivere, crea il suo sistema emozionale a partire dai propri bisogni primari e in relazione agli stati emotivi della madre.

La Teoria della mente illustra l’importanza degli stati emotivi della madre, che costituiscono feedback, che elaborati dal bambino gli suggeriscono la risposta atta a influenzarli a suo favore (Camaioni, 2004). Vi sono evidenze sperimentali, riconducibili al cosiddetto “paradigma still-face” (Montirosso et al., 2007), che dimostrano come i bambini già nei primissimi mesi di vita sanno modulare le loro risposte emotive sulla base delle manifestazioni emotive materne.

La relazione madre-figlio è, alla luce di ciò, una relazione sistemica, nel senso descritto dalla pedagogista austriaca Gerda Verden Zöller, che, in un testo scritto assieme a Maturana (Maturana, Zöller, 2000), sottolinea come tale relazione costituisca una rete chiusa di conversazioni che strutturano le emozioni che circolano nella relazione, con una capacità di influenzare lo sviluppo della personalità del bambino.

Il bambino, preso in consegna dall’istituzione scolastica, altro am234

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biente caratterizzato da una sua chiusura, progressivamente acquisisce gli strumenti per esprimere una sua capacità di partecipare attivamente alla vita sociale. È una chiusura, quella della scuola, tuttavia, funzionalizzata a rendere realmente fruibile al soggetto il più ampio contesto relazionale della comunità, delle istituzioni, della cultura, perciò lavora sulla linea della continuità tra apprendimento formale e apprendimento informale e della collaborazione interistituzionale. La scuola, sottosistema all’interno del sistema sociale, si assume inoltre il compito non solo di rielaborare iuxta propria principia i valori e le spinte che la società elabora, ma di essere fonte di perturbazioni in grado di influenzare per quanto possibile lo strutturarsi della società, da qui l’inevitabile spinta eterotopica che caratterizza – come viene sottolineato da parte dei pedagogisti più avvertiti (vedi Colazzo, 2010) – la pedagogia, che lavora sì per rendere adattato il soggetto al suo ambiente, ma soprattutto per renderlo capace di progettualità, mediante la quale lavorare per adattare il suo ambiente a sé, ai suoi bisogni, ai suoi desideri, alla sua immaginazione.

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