IMPORTANTI DIPINTI DI ANTICHI MAESTRI PROVENIENTI DA DUE COLLEZIONI VENETE

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VENEZIA 8 NOVEMBRE 2009 PALAZZO GIOVANELLI

IMPORTANTI DIPINTI DI ANTICHI MAESTRI PROVENIENTI DA DUE RACCOLTE VENETE



IMPORTANTI DIPINTI DI ANTICHI MAESTRI PROVENIENTI DA DUE RACCOLTE VENETE

SEDUTA UNICA DOMENICA 8 NOVEMBRE 2009, ORE 15.30 DAL LOTTO 1 AL LOTTO 56

ESPOSIZIONE DA SABATO 31 OTTOBRE A SABATO 7 NOVEMBRE 2009 ORARIO 10.00 - 19.00 DOMENICA 8 NOVEMBRE 2009 ORARIO 10.00 - 13.00

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SEDUTA UNICA DOMENICA 8 NOVEMBRE 2009 ORE 15.30 DAL LOTTO 1 AL LOTTO 56

Tutti i lotti presentati in questa vendita sono sottoposti alle condizioni e commissioni d’asta pubblicate alla fine del catalogo. La partecipazione all’asta presuppone l’integrale accettazione delle stesse. San Marco Casa d’Aste dà l’opportunità a tutti i clienti stranieri di pagare e ritirare i beni presentati in asta, a condizione che questi ottengano il permesso di esportazione. Nel caso lo Stato italiano ponga il veto all’esportazione, la vendita sarà ritenuta nulla.

San Marco Auction House gives the opportunity to all its foreign customers to pay for and collect the goods presented during the auction, provided that the said objects obtain the export permission. If Italy should put a veto on the exportation, the sale will be considered void. All the lots presented in this sale are subjected to the auction conditions and commissions published at the end of the catalogue. The participation in the auction implies their full acceptance.



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VICTORIA SUSANNA COLKETT Norwich 1840 – doc. fino al 1893

CLARE COLLEGE E KINGS COLLEGE acquerello su carta, cm 35x50 firma e data in basso a destra: Victoria Colkett 1861 € 3.000-4.500

Si tratta, con ogni probabilità, del disegno preparatorio del dipinto su tavola di analogo soggetto realizzato dalla pittrice inglese nel 1864 e già in collezione Sir John Plumb (Cheffins, 14 maggio 2002, l. 17). La Colkett, figlia d’arte formatosi accanto al padre Samuel David e dedita alla pittura di paesaggistico, alle vedute architettoniche e alla pratica incisoria, nel trasporre il disegno su tavola rimase molto fedele alla prima idea, avvalendosi soltanto di minime varianti, come la diversa composizione e le differenti pose del gruppo di armenti al centro della scena, sullo sfondo del Clare College e del Kings College a Cambridge visti dalla parte posteriore.


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PITTORE DEGLI INIZI DEL XIX SECOLO FATTORIA CON CAVALIERE AL GALOPPO olio su tela, cm 69x99,5 € 6.000-7.000

Si tratta di una fedele copia ottocentesca della Fattoria con cavaliere al galoppo di Marco Ricci in collezione privata a Padova (tempera su pelle di capretto, cm 28,6x41,1). Nel dipinto è immortalata l’irruzione di cavalieri al galoppo sul tranquillo sentiero presso l’aia di una fattoria, episodio ripetutamente affrontato dal veneto Marco Ricci, come nel caso del Villaggio con cavaliere al galoppo della Fondazione Querini Stampalia di Venezia e nella tempera da essa derivata già in collezione George Proctor. Qui viene reso onore alla straordinaria vitalità del pittore settecentesco, noto per aver colto la realtà naturale e quotidiana nei motivi più umili e consueti e già punto di riferimento per i pittori coevi e della generazione seguente; fra questi ultimi Giovanni Volpato, a cui si deve la trascrizione incisoria della Fattoria con cavaliere al galoppo.


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PITTORE DEGLI INIZI DEL XIX SECOLO PAESAGGIO CON GUADO olio su tela, cm 72,5x95 € 4.000-5.000

Si tratta di una copia ottocentesca del noto Paesaggio con guado di Domenichino conservato alla Galleria Doria Panphilj di Roma (1605-07; olio su tela, cm 47x59,5). La composizione del dipinto propone grandi quinte arboree fra le quali un fiume popolato di imbarcazioni serpeggia verso il fondo caratterizzato da un antico borgo e figure di pastori. Il modello si rifà chiaramente alla Fuga in Egitto di una delle lunette Aldobrandini, ove ugualmente, si ritrova una analoga composizione scenica e si calca il genere del paesaggio ideale, genere che lo Zampieri abbandonerà ben presto in favore di più dotte costruzioni archeologiche e della pittura di storia.


4

4

PITTORE GENOVESE DEL XVII SECOLO MARINA IN TEMPESTA olio su tela, cm 52x65 € 2.500-3.000

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PITTORE TOSCANO DEL XVII SECOLO MADDALENA PENITENTE

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olio su tela ovale, cm 42x34 Entro cornice in legno intagliato e dorato a fasce con diverse teorie di foglie. € 2.000-3.000


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PITTORE VENETO DEL XVIII SECOLO PROFEZIA DELLA NASCITA DI SANSONE olio su tela, cm 42,5x38,5 € 4.000-5.000

La teletta devozionale offerta, ascrivibile ad un pittore veneto del Settecento, raffigura una scena religiosa di non chiara lettura ma che per il rogo ardente, la presenza dell’angelo e di una parte del gregge farebbe pensare alla vicenda narrata nel Libro dei Giudici (13) relativa alla profezia della nascita di Sansone. Secondo la tradizione, infatti, la futura madre del giudice dell’Antico Testamento ricevette l’apparizione dell’arcangelo Gabriele che le annunciò che questi avrebbe liberato il popolo di Israele dai Filistei; allora il padre Manoe sacrificò un capretto al Signore e l’angelo salì al cielo fra le fiamme del fuoco sacrificale. Nella raffigurazione, ove l’arcangelo si libra in volo sul primo piano, al di sopra di un gruppo di pecore, mancano tuttavia Manoe e la sua sposa che, secondo la tradizionale iconografia, caddero in ginocchio ai piedi dell’altare qui sullo sfondo, avvolto dalle fiamme.


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PITTORE DELLA CERCHIA DI CLAUDE-JOSEPH VERNET Francia, fine del XVII secolo

PAESAGGIO FLUVIALE CON BARCA E VIANDANTI olio su tela, cm 150x136 € 25.000-40.000

La tela in esame raffigura un gradevolissimo paesaggio lacustre connotato dal grande albero dal tronco ricurvo al centro della composizione e, sulla riva, da tre figurine di passanti ferme ad osservare una barca che sta per attraccare a riva. Sulla sinistra fanno da quinte sceniche altri alberi nel cortile di una abitazione mentre dalla parte opposta, sull’altra sponda, si intravede un paesello. Sembra possibile ricondurre la tela alla mano di un pittore francese che opera sulla scia di Claude-Joseph Vernet, allievo ad Aix di Vialy e a Roma di Fergioni e Manglard ma soprattutto influenzato dall’arte di Claude Lorraine, che gli consentì di cogliere dal vero i valori atmosferici e luministici del paesaggio romano (Castel Sant’Angelo, Parigi, Louvre). Presente nella Città dei Papi dal 1733 al 1753, fu amico e seguace di Salvator Rosa e, assieme ad Hubert Robert, fu tra i massimi ispiratori e interpreti del genere del paesaggistico drammatico ed emotivo. Tornato in Francia nel 1751 fu dapprima a Marsiglia, dove dipinse celebri marine, e poi a Parigi dal 1753, ove ricevette da Luigi XV l’incarico di dipingere una serie di vedutine di porti della Francia.



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PITTORE DELLA CERCHIA DI NICOLAS POUSSIN Francia, XVII secolo

SCENA DI CACCIA olio su tela, cm 122x193 € 18.000-20.000

Il dipinto che qui si presenta, di sicuro intento decorativo, è ascrivibile ad un pittore di scuola francese attivo nel Seicento sulla scia di Nicolas Poussin, classicista presente a Roma dal 1624 e dal quale sembra influenzato, in particolar modo, nella trattazione del paesaggio. Il maestro francese, infatti, nella sua nostalgia del mondo antico aveva raggiunto una sintesi sublime di natura e storia, di natura e mito, celebrata con assoluta chiarezza del telaio prospettico. In questo caso l’anonimo autore ambienta in un lussureggiante paesaggio boschivo una scena di caccia al cinghiale cui prendono parte un cavaliere e una dama, entrambi sul proprio destriero. Accerchiato dai cani, il facocero sta per essere trafitto dalla lancia del giovane col cappello piumato mentre poco distante altri cacciatori si dirigono in direzione della coppia che attraversa una radura, sotto le fronde di una grande albero. Sullo sfondo, che trascolora in toni azzurrati e di verde tenue, svetta un castello, con ogni probabilità uno dei feudi in località Roccalvecce, nei pressi di Viterbo.


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PITTORE CARAVAGGESCO ATTIVO NEL XVII SECOLO PAGGIO CON SPAGHETTI olio su tela, cm 94x69 â‚Ź 12.000-18.000

Si tratta di una tipica scena di genere di un pittore caravaggesco influenzato dal naturalismo romano di inizio Seicento e dai modelli di analogo soggetto del Merisi e del suo seguito. Il paggio dal cappello piumato veste una preziosa giubba dal corpetto damascato a racemi fogliacei giallo oro, con profili e bottoni neri e dalle ampie maniche purpuree; in vita reca una fusciacca bianca annodata sul fianco ed indossa pantaloni color olio. Visto in tralice, egli, con un gesto irriverente che sembra stridere con la compostezza della sua figura e con l’eleganza del suo abbigliamento, immerge la mano sinistra in un piatto si spaghetti, quasi a volerne afferrare una manciata. Alla sua destra un compagno calato nella penombra, con un simile gesto sfrontato, beve del vino direttamente da un fiasco.


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PITTORE LOMBARDO DEL XVIII SECOLO ANATRA CON DUE ANATROCCOLI olio su tela, cm 38x47 € 2.500-3.500


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PITTORE TOSCANO DEL XVIII SECOLO COPPIA DI NATURE MORTE DI FIORI olio su tela, cm 76x51 ciascuno € 8.000-9.000


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PITTORE DELLA SCUOLA DI GIUSEPPE ARCIMBOLDO Lombardia, inizi del XVII secolo

MANGIATORE DI UVA olio su tela, cm 65x55 € 5.000-6.000

Si tratta di una tipica composizione arcimboldesca secondo la quale la sembianza umana di un giovane dal capo coronato da tralci vite che si accinge a mordere un succoso grappolo d’uva viene realizzata mediante frutti autunnali come mele, uva, melegrane e mandarini secondo una pittura illusionistica, insieme fantastica e maliziosa, legata al manierismo e all’allegorismo tardo-cinquecentesco. Sembra di poter ricondurre l’opera ad un pittore che agli inizi del Seicento si pone sulla scia di Giuseppe Arcimboldo, artista milanese eclettico, celebre per i suoi ritratti caricaturali e per le sue figure allegoriche ottenute dall’assemblaggio di fiori, ortaggi, frutti, animali, parti del corpo umano. Nonostante la fama internazionale presto raggiunta (era stato chiamato nel 1562 alla corte di Praga, dove divenne il pittore prediletto dell’imperatore Massimiliano e, più tardi, di Rodolfo II) il catalogo delle opere di Arcimboldo a noi pervenuto è piuttosto scarno. Esso si incentra in larga misura sulle famose teste composte, fisionomie grottesche ottenute attraverso bizzarre combinazioni di una straordinaria varietà di cose o di forme viventi. La fortuna goduta dal pittore milanese fu enorme e si perpetrò fino al Novecento quando la sua opera fu vista come una singolare anticipazione di certi aspetti di surrealismo.



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ELISABETTA MARCHIONI ATTIVA A ROVIGO NELLA SECONDA metà del XVII secolo

NATURA MORTA DI FIORI CON DUE PUTTI olio su tela, cm 98x123 € 18.000-25.000

Il dipinto recava una vecchia errata attribuzione allo Spadino ed è stato giustamente restituito di recente da Ugo Ruggeri alla fiorante rodigina Elisabetta Marchioni (comunicazione scritta). A confermare l’attribuzione alla pittrice che anticipò con il suo stile le ariose e lucenti ‘fantasie’ floreali veneziane riferibili all’ambito di Francesco Guardi, il confronto con la cifra stilistica e la condotta pittorica di alcune opere certe quali la Natura morta di fiori della collezione Alverà di Venezia (Finarte, Milano 29 novembre 1990, n. 143), già assegnata a Francesco Guardi da Fiocco (Francesco Guardi pittore di fiori, in “Arte Veneta”, 1950, p. 83, tav. 85), e con quelle simili in collezione privata a Bologna e alla Banca Agricola Mantovana (Bocchi, op. cit., figg. 354-356). Come nota Ruggeri, numerose sono le analogie anche con i dipinti repertoriati da Gianluca e Ulisse Bocchi (Naturaliter.

Nuovi contributi alla natura morta settentrionale e toscana tra XVII e XVIII secolo, Casalmaggiore 1998, pp. 417-434) e con le due nature morte di fiori del Museo del Castello del Buonconsiglio di Trento (Bocchi, op. cit., figg. 543-544), dipinti “nei quali l’artista adotta un simile sistema compositivo a maglie larghe, un poco arruffato, introducendovi vasi e recipienti di svelta e quasi impressionistica modellazione, ed utilizzando la mestica rossastra del fondo quale base tonale per il concerto cromatico”. A sostegno dell’attribuzione anche l’inserto di putti che richiama quello della Natura morta di fiori con l’ostensione del calice dell’Eucarestia della Pinacoteca dell’Accademia dei Concordi di Rovigo, già paliotto d’altare donato dalla pittrice stessa alla locale chiesa dei Cappuccini e, assieme al nostro, altra rara testimonianza dell’attività di pittrice di figura della Marchioni.



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GIOVANNI PAOLO CASTELLI DETTO SPADINO Roma 1659 – 1730 c.a

NATURA MORTA CON FRUTTA, FIORI E ZUCCA IN UN GIARDINO olio su tela, cm 73,5x93,5 € 60.000-80.000

Sul piano ravvicinato di questa bellissima natura morta ambientata in un elegante giardino con fontana si dispone disordinatamente una colorata mostra di frutti e verdure di fragrante maturazione: una zucca spaccata, tralci di vite da cui pendono succosi grappoli d’uva nera, pesche appena colte, ciliege e fichi. Poco distante, sulla destra, un vaso in vetro incolore contiene un composto bouquet fiorito. Come sottolineato da Lino Moretti (comunicazione scritta), si tratta di una delle più pregevoli prove di Giovanni Paolo Castelli, meglio noto come lo Spadino, attribuibile al maestro romano anche su base di un calzante confronto con l’opera pubblicata da Luigi Salerno in La natura morta italiana 15601805, Roma 1984, p. 265. Sulla scia dei naturamortisti stranieri e di Cristoforo Munari il Castelli contribuì alla diffusione di una formula figurativa di grande successo, fondata sull’esposizione di imponenti cascate di frutta e fiori posti su piani sfalsati. Il tipo di composizione ambientata all’aperto, in un giardino, si rifà a quelle di Abraham Brueghel, che si è pensato potesse essere stato il primo maestro dello Spadino prima di recarsi a Napoli nel 1675; ma gli elementi compositivi qui presenti fanno pensare

soprattutto a un interesse per l’opera del fiammingo Berenz, pittore amburghese attivo a Roma prevalentemente per il marchese Pallavicini, di David De Koninck e di Franz Werner Tamm, rispettivamente presenti a Roma dal 1672 al 1694 e dal 1685 circa al 1700. Se i fiamminghi, nelle loro eleganti nature morte ambientate in giardini monumentali si concentrano, Berenz soprattutto, sulle forme capricciose delle cristallerie e sul gioco dei riflessi luminosi sul vetro e sulle superfici metalliche, che eseguono con una sorta di pennellata analitica, lo Spadino presenta una pennellata più spessa e un interesse per l’effetto cromatico talora prevaricante sul naturalismo e sulla precisione nella definizione dei dettagli. Lo si evince dal nostro dipinto e da opere come la tela firmata e datata 1703 della Pinacoteca Capitolina di Roma, ove ottiene risultati su vetri e cristalli assai diversi rispetto al pittore amburghese. La materia qui si fa vibrante ed esuberante cromaticamente e sottolinea velocemente, secondo una volontà più evocativa che descrittiva, le superfici e i passaggi cromatici e luministici, talvolta addensandosi per indicare improvvisi fasci di luce.



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PITTORE DELLA CERCHIA DI BARTOLOMEO ARBOTORI Emilia, prima metà del XVII secolo

NATURA MORTA CON CARDI, CIPOLLE, CAVOLO E VERZA olio su tela, cm 69x122 € 25.000-35.000

Si tratta di una natura morta collocabile nell’ambiente figurativo emiliano del medio Seicento che, nello specifico, si pone sulla scia del pittore piacentino Bartolomeo Arbotori, straordinario interprete di questo genere la cui rivalutazione critica si deve alle due magniloquenti tele dipinte in pendant, conservate nella Galleria Nazionale di Parma e firmate entrambe ARBOTOR. Esse costituiscono certamente una delle prove più alte della produzione di questo enigmatico artista, sicuramente maestro del conterraneo Felice Boselli e uno degli iniziatori, assieme a Paolo Antonio Barbieri, della natura morta emiliana del Seicento. La produzione dell’Arbotori non è ancora del tutto definita a causa della presenza di diversi imitatori, nonostante negli ultimi anni il suo percorso artistico sia stato notevolmente approfondito; come messo in evidenza dalla critica, la sua produzione si concentra soprattutto nell’esecuzione di interni di cucine, con variate esposizioni di animali, frutti e verdure trattati con inusitata perizia descrittiva che rinvia ai modelli fiamminghi (Adrian van Utrecht). In questo caso la composizione dell’anonimo pittore è ambientata all’aperto ove, sullo sfondo boschivo livido e brunastro, si stagliano, disposti su più piani sfalsati di appoggio, ortaggi freschi appena raccolti: fra questi cardi, zucchine, verze, cavoli e cipolle, tutti valorizzati da una notevole capacità nell’impiego della luce, dosata con perentori contrasti tonali giocati spesso attraverso precise accentuazioni delle ombre. Ne consegue, sulla scia del maestro Arbotoni, una formula figurativa e una condotta pittorica decisamente nuova per il periodo in cui l’artista operò, che per alcuni aspetti di gusto retrò non trovava precedenti nella produzione di altri pittori coevi. Una parte della critica ha giustamente fatto riferimento a una sorta di continuità ideale fra la produzione arbotoriana e quella arcaica di Vincenzo Campi.



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ANDREA BELVEDERE Napoli 1652 c.a – 1732

FONTANA CON COMPOSIZIONI DI FIORI, PUTTI E CAPRE olio su tela, cm 198x254 € 120.000-180.000

La bellissima tela proposta rappresenta un ampio giardino ornato da una zampillante fontana, al centro, su cui è appoggiato un grande uccello. Poco distante compare una alzata marmorea che, a mo’ di fioriera, è stata riempita con una composizione floreale di andamento piramidale mentre sulla sinistra una rigogliosa cascata di fiori sembra scaturire dalla stessa fontana. Sul primo piano due putti giocosi si divertono adornando due capre dal manto bianco e nero con ghirlande e festoni floreali che, bizzarramente, appuntano, fissandoli con degli spaghi, alle corna degli animali. Sembra di poter confermare la tradizionale attribuzione ad Andrea Belvedere, pittore napoletano formatosi sul più ‘caravaggesco’ dei fioranti napoletani, Paolo Porpora, da cui ereditò la capacità di riprodurre con notevole precisione i diversi aspetti della realtà naturale. Negli anni della maturità, a cui va con ogni probabilità ricondotta la tela in esame, egli riuscì, da acuto osservatore quale era, a combinare le istanze del primo naturalismo napoletano con esempi più moderni e raffinati desunti dal repertorio dei naturamortisti francesi e tedeschi attivi a Roma negli ultimi decenni del secolo, arrivando ad anticipare gli sviluppi della cultura figurativa settecentesca. Egli trasferisce la pittura di genere dalla solida corposità della migliore tradizione partenopea ad una sensibilità nuova, ad una leggerezza rocaille fatta di sottigliezze visive e di vibrante naturalezza. I saldi riferimenti del Belvedere, che cerca di eguagliare e superare, sono Jean Baptiste Monnoyer, Franz Werner Von Tamm e Karel Von Vogelaer, gli ultimi due più conosciuti come «Monsù Duprait» e «Carlo dei fiori», che il Belvedere traduce in spiritosa parlata locale con accenti personalissimi. Su questo continuo confronto con i pittori forestieri il De Dominici ebbe a dire: «sicché datosi a far nuove fatiche sul naturale dei fiori, e massimamente sulle fresche rose, che arrivò a dipingere con un’incomparabile tenerezza, pastosità di colore, e sottigliezza di fronde, che rivoltate fra loro, e con la brina al di sopra, dimostra non essere dipinte ma vere, e così gli altri fiori tutti, che son mirabili nel gioco delle foglie; e nell’intreccio semplice, ma pittoresco dell’insieme dove essi sono situati; accompagnati poi con pochi lumi, o con un accordo meraviglioso». In questo contesto si inseriscono opere di nuove sonorità barocche che nascono anche dal confronto con Abraham Brueghel e Giovanni Battista Ruoppolo come le Boules de neige di Capodimonte, i Fiori con conca di rame del Museo Stibbert di Firenze e la tela raffigurante Putti con ghirlande di fiori del Museo di San Sebastian in Spagna, tutte tele di intonazione ‘aulica’ con le quali possono essere istituiti i confronti più calzanti a sostegno dell’attribuzione a favore di Andrea Belvedere.





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JUAN VAN DER HAMEN Y LEON Madrid 1596 – 1631

NATURA MORTA CON AGRUMI, PERE, PESCHE E MELOGRANI olio su tela, cm 44x51 € 150.000-250.000

L’opera reca la giusta attribuzione a Juan Van der Hamen y Leon, di recente confermata da Maurizio Marini e Filippo Pedrocco (comunicazioni scritte). Discendente da una nobile famiglia di origini fiamminghe stabilitasi a Madrid, Juan Van der Hamen fu, come il padre e il nonno, membro della Guardia de los Archeros, un corpo di élite preposto a protezione personale del re a palazzo e nelle apparizioni pubbliche. Specialista in nature morte, fu pittore eclettico che introdusse in Spagna nuovi generi nati col Barocco: il paesaggio, la pittura di genere, di fiori, di animali, le decorazioni floreali e immagini religiose. Fu poi il ritrattista più in voga della sua generazione e quando, nel 1626, il cardinale Francesco Barberini, legato pontificio, rifiutò il ritratto che per lui aveva eseguito Velásquez, Van der Hamen fu incaricato di sostituirlo. Sulla scia del suo probabile primo maestro, Sanchez Cotàn (i cui modelli aveva rinnovato in senso barocco), era giunto a conoscere le opere degli specialisti italiani, quali Giovan Battista Crescenzi e Paolo Bonzi, pittori post-caravaggeschi le cui opere sono conservate presso i maggiori collezionisti iberici. Null’altro si conosce della formazione artistica del pittore, ma è noto che, già prima di intraprendere la carriera militare, all’età di ventitré anni ricevette la commissione di dipingere una Natura morta di cacciagione e frutta, poi andata perduta, per El Pardo, il palazzo reale di Filippo III. Ben presto divenne il pittore preferito dei più importanti collezionisti di corte e, a quanto scrisse J. Pérez Montalván (1633), “el mayor Español que huviera avido de su Arte”. La bella tela in esame è avvicinabile, per emergenze stilistiche e coloristiche del tutto analoghe, a varie altre opere note del maestro spagnolo, quali, ad esempio, la Natura morta con dolciumi della National Gallery di Washington o quella di collezione privata raffigurante una Tavola imbandita (riprodotta in: W.B. Jordan, P. Cherry, Spanish Still Life from Velàsquez to Goya, London 1995, fig. 34). Tipico del suo fare pittorico è la descrizione attenta degli elementi naturali, disposti in ordine assai rigoroso; i volumi sono esaltati dal gioco raffinato della luce e delle ombre che danno risalto ai frutti emergenti dal fondo scuro. Questi ultimi, in particolare uno in primo piano a sinistra e la piccola arancia amara al centro, assumono forme diverse, talvolta allusive a organi genitali maschili e femminili, come nota Marini. Da questo dato si evince il valore iconologico di vanitas vanitatum che il dipinto intende suggerire con la chiara allusione dei pomi e delle pere al peccato originale, così come il melograno rinsecchito, il ‘frutto del Paradiso’, esprime valenze neglette dal peccato. Come suggerisce ancora Marini, è possibile che la tela fosse in relazione con un pendant il cui significato alludesse alla ‘mensa eucaristica’, secondo un abbinamento piuttosto frequente nella pittura spagnola.



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BICCI DI LORENZO (ATTR.) Firenze 1373 – Arezzo 1452

SANTA LUCIA E UN SANTO DIACONO (LORENZO?) tempera e oro su tavola, cm 26x34

SANTO VESCOVO E UNA SANTA MARTIRE tempera e oro su tavola, cm 26x34 € 30.000-40.000

Le due tavolette presentate, con ogni probabilità elementi di predella di un più vasto complesso, sono da ricondursi alla mano del pittore fiorentino Bicci di Lorenzo. Esse raffigurano le mezze figure di santa Lucia, con i tradizionali attributi della palma e della lanterna, per la connessione del suo nome con la luce, un giovane santo diacono, probabilmente Lorenzo, un santo vescovo con mitra e pastorale e una santa con la palma del martirio e il libro, probabilmente identificabile in santa Caterina d’Alessandria per la corona sul capo, possibile allusione al suo sangue regale.

Fortemente arcaizzanti, le nostre tavolette mancano di quelle influenze che, a partire dagli anni Trenta, giunsero a Bicci di Lorenzo dalla cultura tardogotica di Lorenzo Monaco e Gentile da Fabriano di cui, da ritardatario, fu interprete nelle opere della maturità; si tratta, quindi, di un prodotto giovanile del pittore fiorentino, da ascriversi ad un momento non lontano dal periodo di stretta collaborazione col padre cui risale il tabernacolo del Madonnone (oggi nella chiesa di San Salvi), quello di via Centostelle e il trittico di San Lorenzo a Porcino del 1414, prima sua opera datata.



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FRANCESCO DI ANTONIO DA ANCONA Ancona, documentato tra il 1383 e il 1393

IMAGO PIETATIS TRA SAN PIETRO, SAN DOMENICO, LA VERGINE DOLENTE, SAN GIOVANNI EVANGELISTA, SAN FRANCESCO E SAN PAOLO tempera e oro su tavola, cm 40x216 € 70.000-100.000

Questa predella, con figure a mezzo busto scompartite da arcate polilobate decorate con rilievi in pastiglia, era ascritta alla scuola di Maiorca del secolo XIV, ma, come ci suggerisce gentilmente il prof. Andrea De Marchi, può essere ricondotta al pittore anconetano Francesco di Antonio, firmatario nel 1393 di un polittico che si trova al Museo Puskin di Mosca (cfr. V. Lasareff, Un nuovo maestro del Trecento, in “Commentari”, I, 1971, pp. 12-23). I modelli orvietani, che fanno di questo pittore, attivo pure nel 1383 in Santa Maria a Vallo di Nera a fianco del camerte Cola di Pietro (R. Cordella, Pittori del ‘400 in Valnerina e rapporti


con le Marche, in I da Varano e le arti, atti del convegno a cura di A. De Marchi e P. L. Falaschi, Ripatransone 2003, II, pp. 664667), una sorta di analogo del Maestro della Dormitio di Terni, vi sono contaminati con quelli della scuola di Fabriano, di Allegretto Nuzi e di Francescuccio Ghissi, nelle ampie sagome delle figure, nei profili netti dei volti, ad esempio in quello del san Giovanni evangelista, che si compara perfettamente con quello dell’arcangelo Gabriele in una cuspide del polittico del 1393.


19A PITTORE CASTIGLIANO DELLA FINE DEL XV SECOLO SAN PIETRO E LA VERGINE tempera su tavola, cm 50x83 € 25.000-35.000

Si tratta di una tavoletta ascrivibile alla cultura figurativa castigliana della fine del Quattrocento per il tipico attardarsi sulla tradizione tardo-gotica che sfavorì, più che altrove, la conversione della pittura locale al nuovo linguaggio rinascimentale, nonché per la compresenza di alcuni influssi italianeggianti del Trecento e del Quattrocento toscano e alcune ‘durezze’ derivate dalla pittura fiamminga che incontrò in Castiglia grande favore perché considerata una logica e coerente evoluzione del Gotico. Tali elementi si evincono dalle due figurine di sacre presentate, ciascuna racchiusa nell’arcata goticheggiante della cornice in

legno dorato. La Vergine, ammantata nel panneggio blu scuro connotato da pieghe rigide e ricadenti a sacco, nonché da una posa che è tipica dell’iconografia dell’Annunciata, con le enormi e sproporzionate mani incrociate al petto, fa stranamente coppia non con l’Arcangelo annunciante, bensì con un san Pietro dall’aspetto mesto e dagli occhi languidi riconoscibile dalla grande chiave che stringe con la destra. Entrambi si stagliano sul parapetto in pietra del fondo, al di sopra del quale compaiono, ad intervalli regolari, arboscelli dalle chiome rade, secondo una soluzione altamente originale.



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JACOPO DI ARCANGELO DI JACOPO DETTO JACOPO DEL SELLAIO Firenze 1441/42 - 1493

VIR DOLORUM olio su tavola, cm 66x46,5 € 180.000-250.000

Jacopo del Sellaio, allievo di Botticelli, al pari del maestro risentì fortemente del clima religioso instauratosi a Firenze verso il 1490, nel pieno della predicazione del Savonarola, e in quel tempo si impegnò in una serie nutrita di varianti sul tema del Cristo doloroso, studiate come immagini sofisticate della devotio moderna, capaci di coinvolgere a fondo e colpire emotivamente il fedele. Il Cristo vivo, ma piagato mortalmente, è atteggiato in posa di inconsolabile mestizia, lo sguardo perso nel vuoto, ed esibisce alcuni strumenti della sua Passione, in alcuni casi la croce stessa (Londra, Sotheby’s, 8 luglio 1987, lotto 186), la lancia (Bergamo, Accademia Carrara) o la corona di spine (Firenze, Sotheby’s, 23 giugno 1988; Birmingham Museum of Art; Lucerna, vendita Fischer, 17 giugno 1972; Locko Park, collezione Drury Lowe), qui un chiodo (mentre gli altri due sono posti sul davanzale, insieme alla punta della lancia con cui fu trafitto il costato). Il calice in primo piano, su cui è miracolosamente sospesa l’ostia, condensa in una sola immagine il valore simbolico ed eucaristico del Sacrificio di Cristo: il valore di ostensione del Corpus Domini è sottolineato dall’allinearsi a fianco delle mani aperte con le stimmate (in un dipinto del Musée du Petit Palais di Avignone uno stretto allievo di Jacopo del Sellaio, il Maestro del tondo Miller, forse identificabile col figlio Arcangelo, elimina ogni ambientazione e si limita alla figura di Cristo che mostra le ferite sui palmi delle mani). La mozione pietosa degli affetti è sottolineata anche da dettagli come le ferite sanguinolente della corona di spine sulla fronte, e i rivoli di sangue che colano fin sul collo,

da entrambi i lati. Le pareti del fondo mostrano l’angolo di una camera, aperta in maniera asimmetrica da due finestre, che come in un flashback mostrano due episodi salienti della Passione, l’Orazione nell’Orto e l’Andata al Calvario. La pittura, giocata su toni lividi e cangianti, è in linea col dominante tono patetico. “Qui le eleganti cadenze botticelliane che caratterizzano in generale l’arte di questo pittore passano in secondo piano in favore di una figurazione più austera, dal chiaroscuro forte e risentito, come per escludere ogni decorativismo e ogni aspetto troppo seducente da un soggetto così patetico e religiosamente impegnato” (L. Bellosi, in Moretti. Pittori attivi in Toscana dal Trecento al Settecento, Firenze 2001, p. 86). Di questa versione esiste un altro esemplare, con minime varianti, recentemente presentato dall’antiquario Moretti di Firenze (cfr. L. Bellosi, op. cit., pp. 8689). Provenienza: Londra, Sotheby’s, 17 novembre 1982, lotto 32. Bibliografia: N. Pons, Jacopo del Sellaio e le confraternite, in La Toscana al tempo di Lorenzo il Magnifico, atti del convegno (1992), Pisa 1996, p. 292 L. Bellosi, in Moretti. Pittori attivi in Toscana dal Trecento al Settecento, Firenze 2001, pp. 86-89.



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GIOVANNI BARBAGELATA Attivo in Liguria dal 1484 al 1508

SAN GIROLAMO E SAN GREGORIO PAPA tempera su tavola, cm 58,5x46 € 50.000-80.000

La tavola in esame, come suggerisce Carlo Volpe (comunicazione scritta), è riferibile al pittore ligure Giovanni Barbagelata, la cui ricostruzione è basata su un’opera documentata, il Polittico dell’Annunciazione della chiesa di Calvi, in Corsica (1497-98), e su tre altre tavole firmate e datate fra il ’98 e il 1500. Non a caso già riferita da Mina Gregori ad un ignoto pittore lombardo della seconda metà del Quattrocento in rapporto con Vincenzo Foppa, con il Maestro della Pala Sforzesca e con Benedetto Bembo (comunicazione scritta), e attribuita proprio al Bembo “o a qualcuno a lui molto vicino” da Ferdinando Arisi (comunicazione scritta), che vi notava un particolare “gusto grafico”, l’opera si collega agli esempi del Mazone nella tendenza ad una accentuata plasticità, soprattutto per mezzo di un tratto nitido e incisivo, e a quelli di Carlo Braccesco, cui tradizionalmente veniva data. Qui come in tutte le opere certe del Barbagelata le figure sembrano modellate a colpi di accetta, i panni hanno aspetti metallici nell’andamento delle pieghe rigide e parallele, negli orli taglienti e nel colore quasi di smalto. In certa tensione si immobilizza l’espressione dei volti severi, quasi di derivazione popolare, per una marcata caratterizzazione, certo derivata dagli esempi nordici e più dappresso dal Braccesco stesso e da Ludovico Brea, col quale Giovanni aveva lavorato in società

e nella cui cultura figurativa si mescolavano influssi fiamminghi ad apporti provenzali e catalani; tuttavia, si riscontra anche una sensibile venatura lombarda, la stessa che aveva indotto la Gregori a pensare all’ambito Foppa, presente a Genova in quegli anni. Tipica del pittore genovese anche la composizione serrata sul primo piano, ove le due rudi e schiette figure di padri della Chiesa si stagliano su un piacevole sfondo paesaggistico. Sulla sinistra Gregorio Magno raffigurato sbarbato, secondo la tradizionale iconografia, e in veste di pontefice con la tiara e il pastorale. Reca l’usuale attributo della colomba dello Spirito Santo, qui minuscola, librata in volo accanto al suo orecchio perché allusione all’ispirazione divina dei suoi scritti. A destra san Girolamo, raffigurato anziano con barba e capelli canuti secondo la tipologia dell’erudito, in veste cardinalizia, infila l’indice della sinistra nel libro, suo attributo e allusione alla Vulgata, la sua fondamentale traduzione in lingua volgare della Bibbia. A sostegno dell’attribuzione le puntuali consonanze con opere certe del pittore genovese e, in particolare, in riferimento alla figura del santo dalmata, la stringente somiglianza con col santo omonimo del Polittico di sant’Ambrogio della Parrocchiale di Varazze (1500).



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FRANCESCO BISSOLO Treviso? 1470 ca. – Venezia 1554

MADONNA COL BAMBINO, SAN PIETRO, UN ALTRO SANTO (GIROLAMO?) E IL COMMITTENTE olio su tavola, cm 57,3x87,5 firma sul cartiglio in basso a sinistra: frac(esco) - bissolo € 130.000-180.000

L’importante tavola presentata può a ragione essere inclusa nel catalogo del veneto Francesco Bissolo, allievo di Girolamo da Treviso e, in un secondo momento, di Giovanni Bellini, poi convertito alla maniera giorgionesca (Sacra conversazione, Venezia, Gallerie dell’Accademia) non senza influenze dal Carpaccio (Sant’Eufemia e santi, Treviso, duomo) e da Palma il Vecchio (Madonna col Bambino e santi, Treviso, San Floriano in Campagna). Molto frequente nell’opera dell’artista è la ripetizione di modi e schemi belliniani, come dimostra l’intonazione assorta della rappresentazione del gruppo sacro e l’intimo rapporto emozionale che sembra legare le figure allo sfondo paesaggistico illuminato da bagliori dorati e dominato da un religioso silenzio. Della classica e solenne composizione, caratterizzata da ricchezza cromatica e fusione dei toni, lo schema della Madonna col Bambino al centro è tratto dalla tavola in collezione privata bergamasca recante l’iscrizione IOANNES BELLINUS; verosimilmente realizzata dal Giambellino nell’ultimo decennio del Quattrocento, fu replicata più volte anche dai suoi allievi, fra cui Bartolomeo Veneto che la ripeté nel dipinto conservato all’Accademia Carrara di Bergamo. Questo stesso schema compositivo venne preso in prestito dal maestro veneziano da parte del Bissolo in altre occasioni, come nella Madonna col Bambino e una santa martire apparsa sul mercato antiquario fiorentino nel 1977 e nella nota Madonna col Bambino con santi e committenti della National Gallery di Londra (inv. NG 3083), opera con la quale possono essere riscontrate significative analogie per formato, composizione e tavolozza. Il gruppo centrale, praticamente sovrapponibile, differisce dalla versione di Londra per la sola mancanza del drappo spiegato alle spalle di Maria. Sulla sinistra Pietro è riconoscibile dal mazzo di chiavi che stringe con la destra, dal quale pende il cartiglio con iscritta la firma del pittore appeso ad un filo. Alla destra un santo con mantello con cappuccio rosso squillante a contrastare con la tunica viola in un ardito accostamento cromatico, non è facilmente riconoscibile per la mancanza di attributi specifici ma il libro, possibile allusione alla Vulgata, e la veste rosso ‘cardinalizio’ possono far pensare a san Girolamo. Su di lui, in basso a destra, il committente inginocchiato e orante si staglia perfettamente di profilo e rivolge lo sguardo al Bambino. La derivazione fedele dal modello di Giovanni Bellini e la cifra stilistica ‘belliniana’ dell’opera autografa che qui si presenta, ancora fortemente debitrice ai modi del caposcuola veneziano nella tipica gracilità dei tipi e dalla morbidezza dei toni, indirizzano ad un momento giovanile del percorso artistico del pittore trevigiano che nel 1490 si era trasferito nella bottega di Bellini, collaborando con lui, di lì poco, ai lavori al Palazzo Ducale a Venezia, nella sala del Maggior Consiglio.


22 part.


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GIROLAMO DEL PACCHIA Siena 1477 -1530 c.a

MADONNA COL BAMBINO E SAN GIOVANNINO; STIMMATE DI SAN FRANCESCO. tondo, olio su tavola, diametro cm 88,7 € 200.000-300.000

Questo dipinto era stato attribuito al pittore senese peruginesco Bernardino Fungai in un’expertise di Giuliano Briganti del 12 dicembre 1973 e in un’altra di Rodolfo Pallucchini, subito seguente. Come ci suggerisce gentilmente il prof. Andrea De Marchi, che ringraziamo, l’attribuzione va senz’altro corretta, anche se è fondato l’orientamento verso Siena, ma in un contesto culturale meno tradizionalista, ormai di primissimo Cinquecento, timidamente presago degli imminenti svolgimenti della maniera moderna, tra Girolamo Genga, Sodoma e il giovanissimo Beccafumi. L’autore andrebbe ravvisato nel giovane Girolamo del Pacchia, in un momento precedente all’Ascensione della chiesa del Carmine a Siena, dipinta verso il 1510, quando il pittore, menzionato nel testamento di Neroccio del novembre 1500, aveva già trentatre anni. Questo tondo, di stretta aderenza peruginesca, in particolare nella dolcezza pastosa del volto di Maria, è però percorso da umori più inquieti e moderni, nell’amplificazione dei panneggi e nell’increspatura degli orli, nella direzione para-raffaellesca e fin proto-manierista, che si palesa fin dal “manto a criniera” di Cristo, nella citata Ascensione, come lo descriveva Adolfo Venturi (per un inquadramento del pittore si

veda in particolare A. Angelini, in Domenico Beccafumi e il suo tempo, catalogo della mostra di Siena, Milano 1990, pp. 276289). E’ un’opera, anzi, di particolare importanza, perché aiuta a colmare la fase dei primordi dell’artista, nel primo decennio del secolo, in una chiara distinzione dal più tradizionalista Giacomo Pacchiarotti, con cui pure potrebbe essersi educato ed avvicinato al mondo di Perugino, in quegli anni attivo a Siena, per i Chigi in Sant’Agostino (1502-03) e per i Vieri in San Francesco (1510). Tipico già del Pacchia è il modo di dipingere il paesaggio, con stacchi improvvisi tra luce ed ombra, tenui sfumature dai toni cretosi a quelli verdi dei prati, rocce franose. Notevole, nel paesaggio, è il brano con le Stimmate di San Francesco alla Verna, con le figure in precarie pose mistiche e un intenso sprazzo di luce. Una conferma per l’attribuzione può venire dai singolari edifici dipinti al fondo, un palazzo chiuso e una torre in mezzo all’acqua, allusivi alla verginità di Maria, che presentano forti rassomiglianze con le costruzioni dipinte al fondo dell’Incoronazione della Vergine di Santo Spirito a Siena, databile verso il 1513 (vedi Angelini, op.cit., riproduzione a p. 283).



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ANTONIO CICOGNARA Cremona, documentato tra il 1480 e il 1503

DUE DI COPPE tempera su carta in più strati sovrapposti, mm 170x87

IL SOLE tempera su carta in più strati sovrapposti, mm 172x87 € 25.000-35.000

Appartenenti allo stesso mazzo, come si evince dalle simili dimensioni e dal tipo di colore, le carte presentate raffigurano il Sole e il Due di Coppe. Nel primo caso un putto in posizione dinamica, librato su di una nuvoletta sospesa sul paesaggio sottostante, solleva le braccia sopra la testa e regge fra le mani la testa raggiata del Sole. Egli indossa una collanina di corallo in riferimento al caldo secco solare, in base alla teoria degli umori, ed è raffigurato con le nudità scoperte proprio perché il sole, per le sue qualità e virtù, da vita a tutte le cose del mondo. Il ricco fondale è dorato e punzonaato a formare motivi geometrici romboidali. Una preziosa punzonatura caratterizza anche il sostegno, la bocca e le fasce dorate sul corpo bombato delle due coppe della seconda carta; sovrapposte, esse si dispongono sul fondale neutro arricchito da racemi fioriti che tradisce un gusto decorativo ancora tardogotico, come si evince pure dal filatterio con il motto “amor meo” che allude al significato onirico della carta: l’unione, l’innamoramento, l’inizio di una storia d’amore fra due soggetti. Per comprendere l’aggiunto valore araldico della carta del Sole bisogna ricordare come questo fosse uno degli emblemi dei Visconti-Sforza, famiglia che aveva ordinato, tra il 1450 e i 1452, “carte da triumpho per zugare de belle quanto più sarà possibile pincte ed ornate con le armi ducali e le insegne nostre”, realizzate dai maggiori artisti del tempo come Bonifacio Bembo, Francesco Zavattari e Michelino da Besozzo. Sia per la concezione che per le raffigurazioni dunque, queste carte vanno inserite nel contesto culturale della corte principesca degli Sforza e, nello specifico, come sottolineato nella relazione storico artistica della Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici per le Province di Verona, Vicenza e Rovigo, l’esame stilistico, in special modo della carta del Sole, farebbe pensare alla paternità del pittore e miniatore Antonio Cicognara. Personalità ancora incerta e variamente valutata dalla critica, di cui scarse sono le notizie, è probabile che si sia formato presso la bottega del Gadio, attiva presso lo scriptorium del Duomo di Cremona, città nella quale la sua permanenza sembra suggerita dalla tavola raffigurante la Madonna col Bambino e due santi martiri del 1490 (già a Busto Arsizio, coll. Ferrario). La confidenza con la pratica miniatoria si riflette in particolar modo sulla carta del Sole che, benché non sia collegabile ad un mazzo, si rivela come un esempio della produzione del Cicognara degli anni Ottanta per le strette

affinità con la decorazione degli Antifonari del Duomo di Cremona (cod. IV-V, Museo Civico di Cremona), documentata dai pagamenti degli anni 1482-83, e del Breviarium Romanum della Biblioteca Trivulziana di Milano (cod. 394) pressappoco dello stesso torno di anni. Della produzione a carattere profano del pittore, destinata ad una committenza laica e raffinata, sono note altre sei carte da tarocchi, tre conservate all’Accademia Carrara di Bergamo (la Stella, la Luna, il Mondo) e tre alla Pierpont Morgan Library di New York (la Temperanza, la Fortezza, il Sole). In esse si riscontra il medesimo linguaggio stilistico classicheggiante dato dalle forme regolari e dal cadenzare delle vesti di ascendenza veneta, nonché il tipico repertorio figurativo dell’artista: il paesaggio dello sfondo con collinette lumeggiate, città turrite, alberelli a palla, lo stesso modo di trattare il terreno roccioso. Si tratta, con ogni evidenza, di carte destinate a sostituire tarocchi deteriorati o andati perduti di un mazzo, databili intorno alla metà del secolo. La fusione di caratteri lombardi e ferraresi vi è stata ravvisata dalla critica e di recente Maria Cristina Passoni (Cicognara Antonio, in Dizionario Biografico dei miniatori italiani, a cura di M. Bollati, Milano 2004, pp. 151159) vi vede più stringenti legami con l’Agosto di Palazzo Schifanoia a Ferrara. A sostegno dell’attribuzione, le convincenti corrispondenze stilistiche con l’esemplare newyorkese raffigurante il Sole della Pierpont Morgan Library e con il Mondo dell’Accademia Carrara di Bergamo, sia nella decorazione del fondo, sia nella resa plastica che nella maniera di ombreggiare l’anatomia del putto. Bibliografia: G. Berti, P. Marsilli, La diffusione dei tarocchi fra i secc. XVXIX, in Tarocchi. Le carte del destino, Fusignano, s.d., p. 20, fig. a p. 26 G. Berti, P. Marsilli, La diffusione dei tarocchi fra i secc. XVXIX, in Tarocchi. Arte e magia, Fusignano, 1994, p. 20, fig. a p. 26 G. Berti, A. Vitali (a cura di), La vite e il vino. Carte da gioco e giochi di carta, catalogo della mostra di Torgiano, Roma 1999, p. 42, cat. 1, figg. in copertina G. Berti, A. Vitali (a cura di), Le carte di corte. I tarocchi, gioco e magia alla corte degli Estensi, catalogo della mostra di Ferrara, Bologna 1987, cat. 7, figg. p. 23



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BONIFACIO BEMBO (BOTTEGA) Brescia 1420 c.a – notizie fino al 1477

CINQUE DI DENARI tempera su carta in più strati sovrapposti, mm 170x87

GLI AMANTI tempera su carta in più strati sovrapposti, mm 172x87 € 40.000-55.000

La coppia di carte da gioco proposta è una significativa testimonianza della produzione miniatoria di carattere profano della fine del XV secolo, legata alla produzione di carte da gioco peculiare della scuola lombarda. La tipologia e l’impianto compositivo delle due carte, una numerale e l’altra figurata, derivano infatti senza incertezze dal mazzo eseguito per Francesco Sforza posteriormente al 1450 (Bergamo, Accademia Carrara; New York, Pierpont Morgan Library; collezione Colleoni) e pertanto decretano l’indubbia appartenenza delle stesse alla tradizione figurativa dei tarocchi milanesi. La piccola serie cui appartengono le due carte presentate, formata anche dai due tarocchi al lotto precedente e dalla carta del Fante di Spade, tutte della medesima collezione privata di appartenenza, non ha tuttavia caratteristiche omogenee, ma sembra piuttosto composta da carte appartenute in origine a mazzi distinti. Le tre carte figurate, in particolare, presentano significative differenze nella resa esecutiva delle immagini e nei motivi ornamentali impressi a punzone; le losanghe e le rosette del bordo, infatti, appaiono di volta in volta leggermente mutate, con una più sensibile variante per quanto riguarda la carta degli Amanti qui presentata, ove una coppia si stringe ritualmente la mano (dextrarum iuntio) ai piedi di una colonnina sulla quale si erge un Cupido bendato. La figura con cui più evidente si rivela il rapporto con i tarocchi di Francesco Sforza sembra quella del Fante di Spade, le cui somiglianze con il prototipo bembesco sono tanto puntuali da far pensare a una vera e propria replica eseguita all’interno della bottega di Bonifacio Bembo. Se le due carte posteriori del Sole e del Due di Coppe (lotto 24) sono riferibili al pittore ferrarese Antonio Cicognara, quella gli Amanti si discosta, sia a livello esecutivo che a livello decorativo, dalle carte del Fante di Spade e del Sole. La disposizione delle rosette e delle losanghe del fondo e la caratterizzazione delle figure sembrano trovare corrispondenza anche con le cosiddette “carte Tozzi”, alle quali la nostra carta può essere accostata anche per alcune affinità della condotta pittorica. Come ipotizzato in occasione

della mostra di Ferrara a cavallo fra il 1987-88, potrebbe anche trattarsi di una carta appartenente ad una serie diversa di cui non si conoscono altri elementi ma, in ogni caso, si tratta di esempi di carta numerata e di Trionfo milanese che dovettero appartenere a uno dei preziosi mazzi realizzati per Francesco Sforza da abilissimi miniatori della bottega del Bembo nei decenni successivi alla morte del duca di Milano, avvenuta nel 1466, e sulla scia del famoso ‘Tarocco dei Visconti Sforza’, l’anello centrale della tradizione figurativa milanese dei tarocchi. La dipendenza dal modello offerto da Francesco Sforza risulta infatti assai chiara per la carta dei Cinque di denari in esame; si possono solo sottolineare alcune differenze rispetto alle corrispondenti carte del mazzo sforzesco come una più elaborata struttura dei cartigli e la sostituzione del profilo dentato blu attorno alle monete con un più semplice bordo rosso. Le carte sono dipinte su uno spesso cartone ricoperto da una lamina d’oro per la figura e d’argento per la carta numerale, ove sono usati solo due colori, l’oro e il verde. Il bordo è costituito da una filettatura verde; il colore è limpido e teneramente rosato nelle carni, grasso e pastoso nelle vesti. L’effetto è in entrambi i casi di grande eleganza , aumentata ulteriormente dai raffinati disegni e dall’ottenimento dei denari con l’impronta del fiorino d’oro di Filippo Maria Visconti. Bibliografia: G. Berti, P. Marsilli, La diffusione dei tarocchi fra i secc. XVXIX, in Tarocchi. Le carte del destino, Fusignano, s.d., p. 20, fig. a p. 26 G. Berti, P. Marsilli, La diffusione dei tarocchi fra i secc. XVXIX, in Tarocchi. Arte e magia, Fusignano, 1994, p. 20, fig. a p. 26 G. Berti, A. Vitali (a cura di), La vite e il vino. Carte da gioco e giochi di carta, catalogo della mostra di Torgiano, Roma 1999, p. 42, cat. 1, fig. a p. 22 G. Berti, A. Vitali (a cura di), Le carte di corte. I tarocchi, gioco e magia alla corte degli Estensi, catalogo della mostra di Ferrara, Bologna 1987, cat. 7, figg. p. 23



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PITTORE DELLA CERCHIA DI GIOVANNI CANAVESIO Liguria, fine del XV secolo

SAN PIETRO tempera su tavola, cm 70,5x24

SAN PAOLO tempera su tavola, cm 71,4x24

ANGELO ANNUNCIANTE tempera su tavola, cm 34x24

VERGINE ANNUNCIATA tempera su tavola, cm 33x24

CRISTO BENEDICENTE tempera su tavola, cm 31,5x48,5

SANTISSIMA TRINITÀ tempera su tavola, cm 80x50 € 50.000-60.000

Si tratta di una serie di scomparti da polittico riferibili all’ambiente del tardogotico dell’estremo Ponente ligure che, sul piano culturale, è caratterizzato dall’assimilazione di motivi transalpini, francesi e nordici. Nello specifico, l’autore va ricercato in un pittore ligure della scuola di Giovanni Canavesio, il più autorevole rappresentante di questa corrente. Di lui si hanno notizie dal 1472 al 1500, periodo in cui è attivo sovente a fianco del fratello Giacomo. Del 1482 sono gli affreschi della Cappella di San Bernardo a Pigna e la decorazione della sala capitolare di Taggia mentre risale al 1491 il polittico con Madonna e santi della Galleria Sabauda di Torino. Altre opere significative di questo caposcuola sono da considerarsi il polittico per la Parrocchiale di Pornassio (1499) e il Polittico di san Michele e santi della Parrocchiale di Pigna. Allo stesso modo del Canavesio, il nostro pittore carica i modi ed elabora tipi ed espressioni fino al grottesco avvalendosi di un disegno marcato conchiudente zone campite con colori semplici, contrastanti e vivacissimi. Lo si evince in particolar modo dalle schiette figure dei santi Pietro e Paolo, ciascuno con i soliti attributi delle chiavi e della spada, stanti sul pavimento a piastrelle ottagonali e stagliati contro una balaustra in pietra. Ammantati, sono ricoperti dei panni dalle pieghe secche e cartacee della stessa tipologia di quelle che qualificano gli abiti del Cristo benedicente col globo, allusione alla sua funzione di Salvator Mundi, dello ieratico Dio Padre nella raffigurazione della Santissima Trinità e dei protagonisti dell’Annunciazione, scenetta di grazia ancora ‘cortese’: la bionda Vergine colta nella lettura e l’arcangelo che la addita mentre sorregge il vessillo a cui si attorciglia, in modo del tutto innaturale, un filatterio.



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MARCO MELONI Carpi, documentato dal 1498 al 1541

ANDATA AL CALVARIO olio su tavola, cm 115,5x135 € 150.000-250.000

Comparsa ad una vendita all’asta veneziana (Semenzato, 25-26 aprile 1981, lotto 419) come opera di un artista prossimo ad Amico Aspertini, la tavola in esame è stata più di recente ricondotta da Daniele Benati (1990) al catalogo del pittore carpigiano Marco Meloni, documentato nella natia Carpi dal 1498 fino al 1511, quando viene diseredato dal padre. Nel 1504 gli viene affidata la pala con Madonna e Santi per la chiesa di San Bernardino, ora nella Galleria Estense a Modena, opera in stretto contatto con il San Girolamo già Malmussi (poi depositato all’Estense nel 1894), ove ricorre un paesaggio di analogo gusto fiammingo. Proprio gli innegabili collegamenti con il San Girolamo sopracitato per i panneggi così singolarmente accartocciati, i tipi fisici dei personaggi e la morfologia nordicizzante dello sfondo paesaggistico vengono portati da Benati a sostegno dell’attribuzione, assieme alle consonanze con la paletta della Banca Popolare dell’Emilia dallo stesso studioso già accostata ad una del tutto analoga nel Palazzo Ducale di Mantova (cfr. D. Benati, in Dipinti antichi della Banca Popolare dell’Emilia, a cura di D. Benati e L. Peruzzi, Modena 1987, pp. 32-35). Si tratta di dipinti realizzati verosimilmente dall’artista tra il secondo e il terzo decennio del secolo, in un momento dunque posteriore ai modi pedissequamente perugineschi della sua attività giovanile, l’unica della quale ci resti un segno sicuro, che egli aveva sfoggiato nella pala di San Bernardino a Carpi e nel San Sebastiano del Museo Davia-Bragellini di Bologna, datato 1500 e ricalcato su un cartone più volte impiegato dallo stesso Vannucci. Trasferitosi in età avanzata a Modena, ove è documentato per la prima volta solo dal 1517, è da supporre che almeno fino al 1541 l’attività prevalente del Meloni fosse quella ben remunerata di ‘mascherero’, ovvero di apparatore di decorazioni effimere per feste e celebrazioni. E a giudicare dalla

sua produzione superstite di quel periodo, essa è tale da assecondare (a volte stancamente) le esigenze del suo patrono, Alberto III Pio, promotore a Carpi di un breve ma intenso momento di splendore, in aperto antagonismo con la Ferrara degli Estensi, piuttosto che interpretare in modo originale gli stimoli della cultura ‘moderna’ con cui era venuto in contatto negli anni giovanili. All’interno del gruppo piuttosto omogeneo di opere della produzione mediana del Meloni, fa eccezione la nostra Salita al Calvario, palesemente tratta dalla scena corrispondente della serie della Grande Passione di Dürer, edita nel 1511. L’acceso colorito, quasi predisposto sui repertori cromatici del ‘mascherero’, il ritmo un po’ impacciato ma piacevole con cui si articola il racconto della Salita verso il Calvario, durante la quale Veronica porse a Cristo il famoso panno per tergersi il volto, nonché “le espressioni zuccherose e i panneggi di cartapesta” (si vedano, ad esempio, quelle delle pie donne che seguono il Redentore) sono tutti elementi che, in fieri già dalla pala di San Bernardino e nel San Girolamo ex Malmussi, qui si palesano più fortemente e ricorreranno in opere posteriori del pittore. In queste si assiste al progressivo svilimento della vena artistica del Meloni negli ultimi anni, come si evince, ad esempio, dalla Madonna col Bambino, Le sante Caterina e Maria Maddalena e san Giovannino già Massari e ora nelle collezioni della Cassa di Risparmio di Ferrara, depositate presso la Pinacoteca, dal Redentore fanciullo di Palazzo d’Arco a Mantova, dalle due Adorazioni del Bambino nella Pinacoteca Nazionale di Bologna e già in collezione Villa a Genova. Bibliografia: D. Benati, Francesco Bianchi Ferrari e la pittura a Modena fra ‘400 e ‘500, Modena 1990, fig. 16 a p. 35, pp. 33, 40 n. 34





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GIROLAMO GALIZZI DA SANTACROCE Santacroce 1500 c.a – 1556

SACRA FAMIGLIA olio su tela, cm 65x77 € 40.000-50.000

Sullo sfondo di un aperto paesaggio che trascolora verso toni azzurrati la Madonna sorregge sulle ginocchia il Bambino che, ignudo, si protende verso san Giuseppe per donargli il rosario. L’opera, come riconosciuto da Rodolfo Pallucchini (comunicazione scritta), può essere ricondotta alla prima maturità del pittore veneto Girolamo Galizzi da Santacroce che nel corso della sua lunga attività “parafrasò” - come ebbe a dire il Berenson - la maniera dei maggiori pittori del tempo, da Bonifacio de’ Pitati a Vincenzo Catena, da Tiziano a Paris Bordon.

Nello specifico, l’opera in oggetto è ben confrontabile con il San Pietro che raccomanda un donatore alla Vergine (riprodotto in: B. Berenson, Picture of the Renaissance. Venetian School, Londra 1957, I, fig. 576), databile tra il secondo e il terzo decennio del secolo e infarcito di influssi tizianeschi. Siamo prossimi ad un momento, quindi, in cui il pittore, dopo essersi formato con ogni probabilità presso la bottega di Giovanni Bellini, realizza opere come la tavola d’altare per la chiesa di San Silvestro con I santi Tommaso e Giovanni Battista (1520) e la Carità di san Martino per la parrocchiale di Luvigliano, presso Padova (1527).



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FRANCESCO RIZZO DA SANTACROCE Attivo in Veneto nella prima metà del XVI secolo

MADONNA COL BAMBINO FRA I SANTI ROCCO E SEBASTIANO olio su tavola, cm 49x67 € 50.000-70.000

Il pregevole dipinto raffigurante la Madonna col Bambino fra i santi antipestiferi per eccellenza, Rocco e Sebastiano, è facilmente riferibile alla mano del pittore Francesco Rizzo di Bernardo, originario di Santa Croce. Da questo minuscolo borgo - una frazione che sulle pendici collinose al di là del Brembo, fronteggia San Pellegrino Terme - emigrano a Venezia a partire dai primi anni del XVI secolo una folta schiera di pittori, tra cui il nostro, documentato per la prima volta nel 1505. Egli fu erede e continuatore di Francesco di Simone, seguace di Giovanni Bellini, che nel 1508 gli lascia per testamento tutto il materiale della sua bottega di pittore per sollecitarlo a continuarne l’opera. Tra il 1517 ed il 1518 esegue un pregevole trittico (ancora esistente, seppur smembrato) per la chiesa di Santa Maria della Serina. L’ultima notizia su Francesco risale poi al 16 settembre del 1545. L’iconografia della nostra tavola è stata trattata dal pittore in un dipinto in collezione privata a Roma, di diversa costruzione scenica e con i due santi laterali a figura intera. Qui la composizione orizzontale della scena, che si svolge dinnanzi ad uno splendido paesaggio abitato dal sapore giorgionesco (tipico della produzione del Rizzo), appare derivata da prototipi di Giovanni Bellini ed Andrea Mantegna, ai quali l’artista di

Santacroce attinge più volte per le sue pacate Sacre Conversazioni, anch’esse ben accostabili alla nostra. Basti osservare il gruppo centrale della Vergine col Bambino per comprendere come esso sia derivato in toto da quello della tavola di Giovanni Bellini della chiesa di San Francesco della Vigna a Venezia. Al centro della composizione, stagliata su drappo verde teso alle sue spalle, è collocata la Vergine che, assisa, sorregge il Bambino ignudo, stante e benedicente; sulla destra, san Sebastiano legato per i polsi all’albero e trafitto dalle frecce (ritenute comunemente veicolo di diffusione del morbo della peste) e sulla sinistra san Rocco, con il solito attributo del bastone da pellegrino, allusione ai suoi viaggi per l’Europa in occasione dei quali si dedicò alla cura degli appestati. Da notare il gusto assai raffinato nelle scelte coloristiche vivaci e raffinate (si noti l’accostamento del rosso col blu notte del manto della Madonna), caratteristica che dimostra un contatto costante con le correnti della pittura veneziana di tradizione arcaica. A sostegno dell’attribuzione, le strette consonanze del piccolo Gesù e del san Rocco con le figure corrispondenti della tavola dell’Accademia Carrara di Bergamo (inv. 385).



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FRANCESCO ALBANI Bologna 1578 - 1660

PUNIZIONE DI CUPIDO (O L’INVERNO) olio su tela, d. cm 138 € 80.000-100.000

Ancora racchiuso nella bella cornice originale in legno parzialmente laccato verde, dorato e finemente intagliato, il dipinto, su suggerimento di Emilio Negro, può essere confermato al bolognese Francesco Albani, allievo di Calvaert e condiscepolo di Guido Reni, entrato nel 1595 nella bottega dei Carracci in quanto attratto dal classicismo idealizzato di Annibale che egli avrebbe poi interpretato con un timbro di affettuosa intimità, traducendo le favole antiche in chiave idillica. Si tratta di una nuova versione del dipinto di analogo soggetto della serie di quattro tondi dedicata al tema dell’Amore, e precisamente alla rivalità Fra Diana e Venere, rispettivamente il simbolo della Castità e dell’Amore, conservati alla Galleria Borghese di Roma. L’insolita compresenza delle due divinità nel ciclo rimanda al poemetto di Giambattista Marino, Adone, uscito a stampa nel 1620, ma i cui versi già circolavano in forma manoscritta qualche anno prima. Commissionati all’Albani da Scipione Borghese, per essere collocati in una camera da letto al piano superiore della villa, tre dei quattro dipinti romani sono documentati nella raccolta nel 1622, quando figura un conto presentato dal donatore Annibale Durante per “tre cornici tonde fatte a festoni intagliati a frutta quali servono alli tre quadri dell’Albano”. Al soggetto mitico la critica ha recentemente affiancato il tema delle Quattro Stagioni, probabilmente suggerito dall’artista da Giovanni Battista Agucchi secondo l’idea di inserire il soggetto mitico in una visione ciclica della natura e della vita che consente all’Albani di realizzare quattro scene con paesaggi variamente caratterizzati. I tondi romani rappresentano, infatti, il primo ciclo di paesaggi mitologici del pittore che non dipinse mai paesaggi ‘puri’; rispetto al paesaggio ideale del maestro

Annibale Carracci, dal quale derivano la semplificazione della natura e l’equilibrio di piani e masse, l’Albani elabora una personale visione idilliaca con contorni sfumati e una prospettiva più profonda, come si evince anche dalla teletta in esame in cui si raffigura il trionfo di Diana che disarma Cupido addormentato; bersaglio delle sue ninfe, guardiane delle castità, gli vengono sottratte e bruciate le frecce approfittando del sonno. Probabilmente anch’essa fu eseguita in serie con altre tre di cui a oggi si sono perdute le tracce ma che, come le telette romane, dovevano raffigurare la toletta della dea dell’Amore attorniata da ancelle e amorini che giocano lanciando il pomo che da inizio alla gara (La Primavera), Venere che tenta di sedurre Adone (L’Autunno) e infine Venere, accompagnata amorini e ninfe, nella fucina di Vulcano, ove si era recata con Cupido che vi forgia le sue frecce (L’Estate). Di fatto questa serie ha procurato al pittore grande fortuna, come attestano le altre commissioni analoghe. Fra queste quella dipinta fra il 1625 e il 1628 per il cardinale Maurizio di Savoia che era rimasto affascinato dalle Storie di Venere e Diana realizzate dall’Albani per Scipione Borghese e quella per il duca Ferdinando Gonzaga (poi portata a termine per Giovan Carlo de’ Medici), eseguita quando Francesco Albani era stato invitato a Mantova fra il 1621 e il 1622 assieme a Lucio Massari, proprio al servizio del duca Federico. L’impegno prevedeva una decorazione all’interno della Villa Favorita, dove rimase sei mesi perdendo tempo “in ciarlare e fare i cartoni” e concludendo poco, come narra il Malvasia, e per questo le Storie di Venere e Diana, oggi al Louvre, presero la via per Firenze, e presso quella corte Albani le ultimò ben molto tempo dopo, nel 1633.



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GIOVANNI FRANCESCO GESSI Bologna 1588 – 1649

LA CATTURA DI CRISTO olio su tela, cm 85x62 € 60.000-80.000

Opera certa di Giovanni Francesco Gessi, come riconosciuto da Daniele Benati (comunicazione scritta), la tela illustra il momento in cui Giuda, baciando Cristo, ne rivela l’identità ai soldati sopraggiunti per arrestarlo. Come notato dallo studioso, “la morbidezza delle pennellate e la brillantezza della gamma cromatica conduce alla tradizione reniana, di cui è autorevole interprete Giovanni Francesco Gessi, pittore dal carattere irrequieto formatosi inizialmente nella bottega del pittore fiammingo, naturalizzato a Bologna, Denijs Calvaert, da dove fu cacciato a causa dell’indole inquieta; passò poi nell’atelier di Giovan Battista Cremonini da dove fu allontanato per la stessa ragione. Ancora in età da apprendista trovò ospitalità tra gli scalmanati collaboratori di Leonello Spada impegnati nell’esecuzione degli affreschi di Palazzo Albergati, a Bologna, dove più che a dipingere ci si dedicava al “chiasso ed il bagordo, le partite e le facezie” (Malvasia, ante 1678, c.206 v.). Il suo temperamento ribelle, tutto “genio e sregolatezza”, si acquietò solo con la frequentazione della prestigiosa bottega di Guido Reni, ove rimase per un decennio, dal 1614 al 1624 e ove lavorò a fianco del poco più anziano Giovan Giacomo Sementi. Qui iniziò così a dipingere, su sollecitazione del maestro, quadri sui suoi

modelli: opere così ben riuscite da meravigliare lo stesso Guido, il quale riconobbe che fino ad allora non aveva visto nessuno in grado di imitare con così tanta perizia il suo stile. Da vero e proprio “reniano in libertà”, come l’ebbe a definire Renato Roli, qui il Gessi si esprime con un moderato naturalismo nel modellare i visi di Giuda, dei soldati e del Redentore che sfoggia “una forma ovoidale di lontana ascendenza manierista” (Benati). A conferma dell’attribuzione sarà utile confrontare questa Cattura con altre prove certe del pittore: si veda, ad esempio, il Cristo con un fanciullo di collezione privata modenese (riprodotto in E. Negro, M. Pirondini, La scuola di Guido Reni, Modena 1992, fig. 253), in cui Gesù presenta fattezze del tutto simili, o il Martirio di santa Caterina dipinto per l’omonima chiesa di Strada Maggiore a Bologna nel 1637 (ibidem, fig. 258), ove ritorna una analoga gamma cromatica vivida, qui esaltata dalla scena in notturno. Anche in virtù di questi confronti, la tela in oggetto è databile intorno alla metà del quarto decennio del secolo, quando il pittore dotato di una sensibilità vivace non priva di anticonformismo, probabilmente anche ispirata al Lanfranco, si è ormai svincolato dalla dipendenza dal celebre maestro bolognese.



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CESARE DANDINI (ATTR.) Firenze 1596 - 1657

IL CARRO DI APOLLO CON LE STAGIONI olio su tela, cm 210x300 € 25.000-35.000

La grande tela presentata raffigura Apollo col capo coronato di alloro assiso sul carro del Sole. Attorno a lui, secondo l’uso antico in voga fin dal Rinascimento di rappresentare le stagioni attraverso le divinità pagane, Flora, sulla sinistra, è la Primavera e, col capo inghirlandato, siede fra i fiori e sorregge un bouquet; Borea, in alto al centro, è la personificazione dell’Inverno ed è rappresentato, secondo l’usuale iconografia, mentre ammantato si allontana in volo; Bacco, sul primo piano a destra, è l’Autunno ed è riconoscibile dal tralcio di vite che gli cinge il capo e dal grappolo d’uva che sorregge con la sinistra; Cerere, alle spalle del dio della fertilità e del vino, rappresenta l’Estate in quanto dea dell’agricoltura, con particolare riferimento al grano. In questo caso ella tiene una torcia accesa, allusione alla ricerca della figlia Proserpina rapita da Plutone e portata nell’Oltretomba. Tutt’intono più amorini si librano nel cielo nebuloso o giocano con i frutti sparsi a terra. La cifra stilistica rimanda alla cultura figurativa toscana e, nello specifico, a Cesare Dandini in un momento antecedente alla cosiddetta maniera ‘chiara e smaltata’ alla quale è essenzialmente affidata l’immagine del pittore toscano. Sperimentatore di effetti di luminismo naturalistico, sulla scia del caravaggismo, il Dandini a questo tempo elabora prodotti come il San Luca delle Gallerie fiorentine, le due redazioni di San Girolamo, una nella Galleria Corsini a Firenze, l’altra, in ottagono, nella collezione Drury Lowe a Locko Parck, tutte opere piuttosto inconsuete per città natale.



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PITTORE DELLA CERCHIA DI CLAUDIO RIDOLFI Marche, inizi del XVII Secolo

MOSÈ CON LE TAVOLE DELLA LEGGE olio su tela, cm 135x111 € 25.000-35.000

La tela raffigura il noto episodio veterotestamentario narrato nel libro dell’Esodo secondo cui Mosè, salito sul monte Sinai ricevette da Dio due tavole di pietra recanti i Dieci Comandamenti. Raffigurato al centro della composizione, sullo sfondo dell’accampamento, egli sorregge le due lastre e sembra indicare i passi del Decalogo agli astanti, alcuni rappresentanti del popolo ebraico che liberò dalla cattività in Egitto. Non è raffigurato, come abitualmente accade, nel tipo patriarcale, con barba e capelli lunghi e canuti, ma si presenta qui nel tipo giovanile e reca sul capo, secondo l’usuale iconografia, due piccoli raggi di luce, simili a corna; questa tradizione derivava dall’uso del termine cornatum nella Vulgata per descrivere il volto di Mosè quando ridiscese per la seconda volta dal monte Sinai con le Tavole della Legge perché nella lingua latina di quel periodo la parola significava anche ‘splendente di raggi di luce’ o ‘recante un alone di luce’. Si tratta di un’opera da ricondurre alla cultura figurativa marchigiana degli inizi del Seicento e, nello specifico, all’ambito di Claudio Ridolfi, pittore veronese che elesse le Marche a seconda patria e presso la bottega urbinate del quale completò la propria formazione Simone Cantarini. Col Ridolfi si diffonde in questa regione un gusto diffuso per i moduli veneti e per un fare neoveronesiano caratterizzato da una materia pastosa del colore e temperato da un semplificato realismo. Egli incarna, infatti, un legame che era sempre stato vivissimo con la cultura veneta e Venezia, in particolare; nel Cinquecento il rapporto con la pittura lagunare diventa quasi esclusivo nella committenza di Guidobaldo II, che giunge a possedere una delle più ricche collezioni allora esistenti di opere di Tiziano. Tra gli altri veneti presenti nelle collezioni ducali, il Ridolfi vi è in contatto personalmente ed è documentato nel Pesarese ove, tuttavia, le sue opere hanno scarsissima diffusione, mentre sono richiestissime nell’Urbinate, dove forma una propria discendenza, di cui uno dei rappresentanti più significativi è Girolamo Cialdieri. Tipici della maniera del pittore veronese, da cui il nostro anonimo autore si ispirava, sono le tipologie dei personaggi e i loro atteggiamenti, nonché le scelte cromatiche e lo sfondo svirgolato da bianchi gessosi e grigi azzurrini che esaltano la freschezza dei toni sgargianti delle vesti dei personaggi collocati sul primo piano.



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PIETRO VECCHIA Vicenza (?) 1603 – Venezia 1678

SACRA FAMIGLIA CON SAN GIOVANNINO E SANT’ANNA olio su tela, cm 116x90 € 50.000-80.000

Chiamato Pietro Muttoni per un fraintendimento creato dal Lanzi nella sua Storia pittorica della Italia ove confondeva il nome dell’artista con quello della collezione Muttoni, fra i cui pezzi aveva visto uno dei suoi quadri, Piero della Vecchia si forma a Vicenza, probabilmente a fianco del Padovanino, alla bottega del quale era attivo intorno al 1625-26, dopo un probabile soggiorno a Roma che spiegherebbe alcune influenze caravaggesche. Restauratore, mercante, consulente e anche falsario, dal 1629 l’eclettico artista risulta iscritto alla fraglia dei pittori veneziani e di lì a poco fonda un’accademia molto frequentata dove si impartivano lezioni di anatomia, disegno, prospettiva e ottica. Partecipe, a partire dagli anni Cinquanta del Seicento, al clima culturale della Serenissima, egli si dedicò alla nota produzione ‘giorgionesca’ di teste di carattere, di soldati, paggi e bravi esemplati sui modelli del pittore di Castelfranco. Notevole anche la serie nutrita di quadri ‘concettosi’, basati su soggetti enigmatici e fortemente allegorici che si pone in linea con la coltivazione del genere grottesco da parte di pittori locali quali Francesco Maffei, Giulio Carpioni e Sebastiano Mazzoni. A modelli cinquecenteschi toscani e veneti (in particolare Palma il Vecchio e Tiziano) si rifà anche la sua produzione a carattere religioso nell’ambito della quale va riferita la nostra

tela raffigurante una Sacra Famiglia, soggetto trattato solo poche altre volte dal Vecchia come, ad esempio, nel noto dipinto dei Musei Civici di Padova, di ascendenza bellinianamantegnesca. Influenzato in parte da Bernardo Strozzi, da cui attinse ”impalcature formali, la grandiosità un po’ vacua delle figure, certi tocchi densi di pennello, una tonalità rosata delle carni e d’alcuni tipi fisionomici” (Gambarin) e sul cui esempio giunse ad una formulazione neotonale del colore sulla base del colorismo veneto del XVI secolo, il pittore interpreta anche in questo caso il tema religioso con spirito leggero, tra l’ironico e l’arguto, secondo peculiarità tipiche dei suoi soggetti laici. Come ebbe a dire Pallucchini, infatti, “questa prolungata eccitazione, questo groppo tra retorico e drammatico, non permette mai al Vecchia un momento di distensione, di ripensamento, di serenità lirica”. Gli stessi personaggi, in particolar modo il san Giuseppe e la sant’Anna calati nella penombra, hanno una caratterizzazione realistica che li avvicinano ai personaggi popolari messi in scena da Monsù Bernardo e da Antonio Carneo. Si ipotizza una datazione tarda, intorno all’ottavo decennio del Seicento, quando il Vecchia realizza alcune importanti opere sacre a carattere pubblico per Pordenone, Belluno, Venezia.



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JOHANN CARL LOTH Monaco di Baviera 1632 – Venezia 1698

MARTIRIO DI SAN BARTOLOMEO olio su tela, cm 149x132 € 120.000-180.000

Si tratta, come ha confermato Ugo Ruggeri (comunicazione scritta), di “uno straordinario autografo” di Johann Carl Loth, il più importante protagonista, assieme al Langetti, del rinnovamento della pittura veneziana della seconda metà del Seicento in chiave ‘tenebrosa’. Come sottolinea lo studioso, il dipinto mostra numerose analogie tipologiche e stilistiche con altre opere certe dell’artista bavarese come l’Abramo e gli angeli della Shipley Art Gallery di Gateshead, opera databile alla piena maturità per le consonanze con il noto Martirio di sant’Erasmo della Peterskirche di Monaco e con l’estasi di sant’Andrea Avellino della Theatinerkirche, capolavoro, quest’ultimo, datato 1677. Per quanto più compatto, nell’articolarsi della composizione, il dipinto in oggetto è avvicinabile anche al Martirio di san Gerardo della Basilica di Santa Giustina a Padova, documentato al 1677-78 (cfr. G. Ewald, Carl Loth 1632-1698, Amsterdam 1965, p. 26) e di cui esiste una versione di formato minore al Musée des Beaux-Arts di Strasburgo già riferita a Pietro da Cortona, consentendo così una datazione dell’opera alla fine dell’ottavo decennio del secolo, e cioè in un momento in cui la cultura artistica del pittore, pur ancora legata ai modi del Ribera e del giovane Luca Giordano, dai quali trae le proprie radici naturalistiche, si converte ad barocchismo romano cortonesco, accettando anche suggestioni verso effetti

più idealizzanti alla Maratta. E’ probabile che per tale evoluzione sia stato decisivo un viaggio a Roma ma ciò che è certo è che in quegli anni nella chiesa di San Daniele a Venezia andava in opera la pala del Berrettini (1663-64), unico suo lavoro pubblico veneziano ed esempio fondamentale del suo stile nella città lagunare, e, congiuntamente, arrivavano fra le lagune due suoi seguaci, Giovanni Coli e Filippo Gherardi, che innestavano il gusto del maestro sulla tradizione veronesiana. Sintomatica, dunque, del mutamento di gusto del Loth dal naturalismo tenebroso alla Langetti verso la leziosità del Cortona e del Maratta, la nostra tela segna un passo più in là in questa ricerca di effusività patetica, intonata su colori smaltati in una plastica risentita ed articolata con gusto barocco, favorita anche dal soggetto rappresentato: l’apostolo Bartolomeo assistito da un angelo, legato e trascinato davanti alle autorità per aver rifiutato di adorare gli idoli prima di essere scorticato vivo. Una conferma a sostegno dell’attribuzione si ha anche dal confronto con la tela di analogo soggetto di Palazzo Baglioni da Mosto a Venezia che condivide con la nostra lo stesso assetto strutturale, anche se rovesciato. E’ probabile, come sottolinea Ruggeri, che questo Martirio di san Bartolomeo sia il prototipo del dipinto in collezione Baglioni “e che certo le sia superiore per la qualità, che è qui veramente eccezionale per la ricchezza della conduzione pittorica e la magistrale condotta stilistica, che connota l’opera come un’importante aggiunta al catalogo dell’artista, ed anzi come uno dei suoi capolavori”.



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JOHANN CARL LOTH Monaco di Baviera 1632 – Venezia 1698

APOLLO E MARSIA olio su tela, cm 116x123 € 100.000-130.000

L’opera proposta è da scrivere alla prima fase del Loth, figlio del pittore Johann Ulrich, artista di scarsa fama già discepolo di Carlo Saraceni, quest’ultimo noto come il maggiore esponente del caravaggismo in terra veneta. Giunto a Venezia poco dopo il 1655, Carl prese i contatti con la cultura figurativa locale in un momento in cui prendeva piede la pittura naturalista e ‘tenebrosa’, importata dal primo Luca Giordano riberesco e dal Langetti e poi subito riecheggiata dallo Zanchi. Tali suggestioni si evincono dalla composizione sapientemente strutturata sull’incrocio ideale di diverse direttrici di movimento, basate sul rapporto delle posizioni delle braccia e delle gambe dei due personaggi principali, Marsia che ascolta Apollo mentre suona la cetra. Secondo il racconto ovidiano (Metamorfosi, VI, 382-400; Fasti, VI, 703-708), l’orgoglio di Marsia, un satiro del corteo di Bacco che suonava eccellentemente il flauto, irritò a tal punto Apollo che lo sfidò in una gara musicale in cui il vincitore avrebbe avuto il diritto di imporre all’altro qualsiasi punizione. Decretata la vittoria di Apollo da parte delle Muse, a Marsia fu inflitta la crudele punizione di essere scorticato vivo. Si tratta di un gustosissimo brano di pittura che, evidentemente legato ai modi del Giordano e ancor più del Langetti, rivela schiariture di colore particolari nel fondo che fanno pensare a certi effetti di luce di Wilhelm Dorst, rembrandtiano probabilmente di passaggio a Venezia o forse conosciuto dal Loth in un non documentato soggiorno a Roma. Come in altre opere del periodo veneziano del pittore (Ritrovamento di Mosé, Collezioni statali di Monaco), l’interesse si concentra sul vigoroso corpo maschile sul primo piano, modellato con una insistenza di ombra e luci che piovono sugli incarnati rendendo i tratti anatomici con spavalda vitalità. Un confronto con un noto capolavoro di Loth come il Mercurio ed Argo della National Gallery di Londra conferma l’autografia dell’opera e la possibile datazione all’ottavo decennio del Seicento, in un momento a cui sembra possibile far risalire opere quali il San Romualdo delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, il San Girolamo di collezione privata a Stranberg, l’Infanzia di Giove dello Statens Museum for kunst di Copenhagen. Per questi prodotti giovanili del Loth, la Deposizione di Luca Giordano per la chiesa di Santa Maria del Pianto a Venezia sembra il riferimento più diretto: il miniatore nordico, che si era esercitato alla pittura copiando Veronese e Tiziano, “viene realizzando una sua personalità con modi bruschi e violentemente chiaroscurali accostandosi al naturalismo post-caravaggesco, di marca riberesca, imposto a Venezia, come già detto, dal Giordano e dal Langetti. Ma si direbbe che questa posizione oltranzista del Loth non oltrepassi il 1760: la sua pittura sembra poi andare normalizzandosi in una ricerca di espressione patetica e drammatica sempre sostenuta, ma realizzata con un naturalismo più gradevole, con modi pittorici meno frantumati, d’una tenuta più liscia.



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GIAMBATTISTA VOLPATO Bassano 1633 – 1706

ADORAZIONE DEI MAGI olio su tela, cm 107x145 € 10.000-12.000

Già riferita a Jacopo da Ponte, la tela che qui si presenta sembra piuttosto riconducibile - come suggerito da Giuliana Ericani in via privata al proprietario - al catalogo di un altro pittore originario di Bassano, Giambattista Volpato. Erede della tradizione bassanesca locale nella seconda metà del Seicento, egli non ha tuttavia un approccio meramente imitativo come quello dei seguaci diretti; come egli stesso racconta nei suoi dialoghi n parte ancora manoscritti (La Natura Pittrice e la Verità pittoresca) dove interviene nella figura di Ottavio, lasciò da giovane l’abito religioso impostogli dal padre per dedicarsi alla pittura, arte alla quale si dedicò da autodidatta copiando le opere di Jacopo Bassano, puntando, come ebbe a dire Pallucchini, al suo momento ‘manieristico’ della prima maturità caratterizzato dall’incontro con il raffinato formalismo di Parmigianino. Se la Natività nella parrocchiale di Campese non è altro che la copia di quella detta di San Giuseppe di Jacopo, ora al Museo di Bassano, anche le sue creazioni originali come il gruppo delle quattro tele con l’Annunciazione, la Nascita di Gesù, l’Adorazione dei Magi e l’Ultima Cena per la Cappella del Santissimo nel duomo di Feltre si avvalgono di un linguaggio schiettamente bassanesco, fuori dal tempo se paragonato alle coeve rappresentazioni dello Zanchi e del Loth per la medesima chiesa. Lo stesso si dica per l’Adorazione dei Pastori eseguita per la chiesa di Santa Maria del Giglio a Venezia, opera con la quale è possibile stabilire calzanti confronti a supporto dell’attribuzione.



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PIETRO MULIER DETTO IL CAVALIER TEMPESTA Haarlem 1637 – Milano 1701

IL BATTESIMO DI CRISTO olio su tela, cm 136,5x111 € 30.000-40.000

L’episodio evangelico del Battesimo di Cristo calato in un lussureggiante paesaggio è stato riferito da Dario Succi (comunicazione scritta) a Pietro Mulier, meglio noto come Cavalier Tempesta per la sua abilità nel dipingere marine in burrasca. Si tratta di un prodotto della maturità dell’artista fiammingo che, dopo aver lasciato le Fiandre alla volta di Roma (dove operò fino al 1668) e Genova (ove è documentato fin al 1684), nell’ultimo quarto del Seicento svolse un ruolo primario nella cultura figurativa dell’Italia settentrionale (è presente a Milano nel biennio 1685-87 e a Venezia fra il 1687 e il 1690), ispirandosi al classicismo prearcadico di Gaspard Dughet e alla visione drammatica della natura di Salvator Rosa. Come nota Succi, la tela in esame si accosta ai numerosi paesaggi pastorali eseguiti sul finire degli anni Ottanta per la fiabesca residenza dei Borromeo a Isola Bella, quando, indotto dalla committenza lombarda ad abbandonare le forzature barocche delle concitate tempeste che lo avevano reso famoso, il Mulier sviluppa tematiche di intonazione classicheggiante e di gusto prearcadico.

Databile fra il 1685 e il 1690, la grandiosa tela ha come protagonista assoluto il paesaggio maestoso e reso vibrante da straordinari effetti atmosferici; esso si compone di numerosi piani scaglionati in profondità con bellissime macchie arboree secolari che protendono le rigogliose chiome verso un cielo nebuloso mentre fasci di luce dorata fanno emergere le figure dalla cupezza brunita del terreno. Dalla vivida macchia rossa della veste del Battista, in alto sulla roccia a sinistra, in primo piano, il racconto si snoda attraverso le figure dei due apostoli sul terrapieno sottostante, e dei pastori in riposo sulla sponda opposta del fiume, per terminare, al centro, con la figura aureolata del Cristo.



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PITTORE DELLA CERCHIA DI JAN DE MOMPER Fiandre, fine del XVII - inizi del XVIII secolo

TEMPESTA olio su tela, cm 128x211 € 14.000-18.000

Si tratta di un dipinto che appartiene a pieno titolo alle cosiddette ‘tempeste di mare’ o fortune di mare’, secondo la definizione data a questo tipo di rappresentazioni negli inventari secenteschi. Alcuni occupanti delle navi in balia di una agitato mare in burrasca cercano di scampare al naufragio a bordo di una scialuppa mentre alcuni spettatori stanno osservando l’accaduto dalla costa rocciosa ove un frate da l’estrema unzione a un marinaio ripescato dalle acque. Le nuvole scure, ammassate nel cielo al centro lasciano passare alcuni raggi di sole che, piovendo da sinistra, illuminano le onde di bagliori azzurrati e i castelli turriti sulla riva di calde tonalità brune e rosate. La cifra stilistica dell’opera rimanda alla cultura fiamminga della fine del Seicento che contemplò diversi coltivatori di questo genere, come Monsù Montagna, vissuto in Italia tra il 1635 e il 1645, attivo a Firenze per Lorenzo de’ Medici e presente in diverse collezioni private veneziane; egli fu un modello per numerosi artisti come Pietro Mulier detto Cavalier Tempesta, soprannome derivato proprio dalle drammatiche scene di tempeste di mare per cui divenne noto e ricercato. La cifra stilistica dell’opera, tuttavia, rimanda all’ambito di Jan de Momper, pittore nato ad Anversa ma attivo anche a Roma, dove morì nel 1688 e dove fu apprezzato per i suoi dipinti di genere e per i paesaggi animati da committenti del calibro del cardinale Flavio Ghigi e della famiglia Doria Panphili.



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ANTONIO CALZA Verona 1653 – 1729

BATTAGLIA EQUESTRE olio su tela, cm 96x120 € 35.000-45.000

Questa tela può essere riferita ad Antonio Calza per la sua estrinsecazione delle più peculiari doti di questo attivissimo specialista del genere della battaglia e degli episodi ad essa correlate. Si tratta infatti di una scena di fitto e dinamico intreccio compositivo, stesa con digradante progressione figurativa e realizzata col suo acceso e ardito pittoricismo, a vivide macchie cromatiche, caratteristico della cifra stilistica del pittore che godette di una vasta popolarità presso il collezionismo privato del tempo ma il cui recupero è solo recente, visto che fu praticamente tralasciato dalla critica moderna fino alla riconsiderazione di L. Magagnato nel 1978 (La pittura a Verona fra Sei e Settecento, pp. 143-149) e, più recentemente, di Sestieri (I pittori di battaglie. Maestri italiani e stranieri del XVII e XVIII secolo, Roma 1999, pp. 60-67, 228-257). Vero e proprio caposcuola del genere battaglista in Italia settentrionale, il pittore concentrò gran parte della sua attività nella città natale, ove forgiò diversi allievi, e a Venezia, dove operò a lungo; fu anche in Emilia, avendo studiato giovanissimo a Bologna presso il Cignani, e fu poi tenuto in grande considerazione dagli storici locali che hanno tramandato importanti notizie sulla sua attività, esplicata pure in Lombardia e in Austria, spesso al servizio del principe Eugenio di Savoia. Il presente dipinto, specialmente nelle figure del primo piano, denuncia una prima ispirazione dal Borgognone, punto di riferimento primario per chi all’epoca si approcciava a questo genere affermatosi con grande successo anche in Italia nella seconda metà del Seicento. Sullo sfondo compaiono gli elementi tipici di contorno e ambientazione come l’aperta campagna, il torrione e il cielo tempestoso, steso a larghe pennellate, che consentono di stabilire svariati raffronti pittorici con numerose sue analoghe opere certe.



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PIER ILARIO SPOLVERINI Parma 1657 - Piacenza 1734

BATTAGLIA NEI PRESSI DI UN PONTE olio su tela, cm 67x137

BATTAGLIA CAMPESTRE olio su tela, cm 67x137 € 50.000-60.000

Le tele presentate, evidentemente eseguite in pendant visto l’analogo soggetto e le medesime dimensioni, possono essere riferite a Pier Ilario Spolverini, pittore parmense di cui presentano i caratteri peculiari e che, particolarmente apprezzato dai suoi contemporanei, ricevette commissioni importanti come la memorabile serie purtroppo perduta in cui raffigurava le imprese del doge Francesco Morosini e quella dei Fasti Farnesiani, le tele dipinte in occasione delle nozze di Elisabetta Farnese con Filippo V di Spagna, in cui giungerà a proporre esiti di garbato neo-manierismo, che lo pongono a buon diritto sulla strada del gusto rococò. La pennellata inquieta e vibrante, gli effetti di luce sulle armature e sul manto dei cavalli rappresentano l'aspetto più carat-


teristico del pittore specializzatosi in quadri di battaglie (due di questi alla Galleria Nazionale di Parma) sulla scia di Salvator Rosa e del Borgognone, interpretando il genere con notevole capacità narrativa e descrittiva. Lo si evince dalla puntuale descrizione dei combattenti (in un caso nei pressi di un fiume, dalle cui sponde risalgono in massa per unirsi alla concitata battaglia, nell’altro in una aperta campagna) e dei cavalieri che si scontrano in groppa ai loro destrieri o disarcionati, nonchÊ dalla descrizione dei paesaggi sul fondo polveroso ove si innalzano colonne di fumo che, trascolorando verso toni azzurrati, si connotano rispettivamente per un ponte a quattro arcate che sembra ricordare quello di Valeggio sul Mincio e per un torrione e una evanescente ed offuscata cittadina fortificata.


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TOMMASO PORTA Brescia 1686 - Verona 1766

PAESAGGIO BOSCHIVO CON GIOVANI CHE GIOCANO A PALLA olio su tela, cm 105x143 € 25.000-35.000

Questa piacevole tela di formato verticale è incentrata sulla narrazione di un episodio di vita quotidiana che vede un gruppetto di giovani che giocano nella radura di un bosco. Uno, sulla sinistra, sta lanciando una palla al compagno che si prepara a riceverla; all’intorno altri ragazzi assistono alla scena e si divertono a rincorrere i cani e altri animali selvatici. La natura rigogliosa con grandi alberi dalle folte chiome e la fitta vegetazione riflettono un’idea di natura aspra e selvaggia che conduce ad assegnare la tela a Tommaso Porta, il maggior rappresentante del vedutismo veronese nella seconda metà del Settecento, prima che questa corrente evolvesse, anche per mano del figlio Andrea, in direzione di una sensibilità più idillica che sembra aggiornata sui principi dell’Arcadia, in consonanza con l’opera letteraria dei poeti didascalici veronesi. L’attribuzione pare del tutto certa, per confronto con le sue realizzazioni mature, nelle quali il pittore mostra, come nel caso della pittura in esame, di conoscere a fondo la lezione dello Zais e dello Zuccarelli, tradotta sulle tele con grande vivacità e notevole senso narrativo. In questo caso, infatti, Tommaso mostra di far ricorso a tutti gli elementi già sperimentati nel suo repertorio, riscattati da ampi tagli vedutistici, dalla resa delle fronde a piccoli tocchi di pennello e dalla gamma cromatica, tutta giocata sui toni dell’azzurro e del verde.



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FEDERICO CERVELLI Milano 1638 - documentato a Venezia fino al 1698

BACCO E ARIANNA olio su tela, cm 100x129 € 120.000-160.000

Il dipinto in oggetto può agevolmente essere ricondotto al catalogo di Federico Cervelli per alcune estremamente significative consonanze con opere certe del pittore lombardo, come sottolinea Ugo Ruggeri (comunicazione scritta). Fra queste l’Orfeo e Euridice della Fondazione Querini Stampalia di Venezia (riprodotto in R. Pallucchini, La pittura veneziana del Seicento, Milano 1981, II, fig. 1010), al quale il nostro dipinto è particolarmente vicino per la modellazione della figura femminile elegantemente in contrapposto, in una posa replicata nel Ratto di Elena della stessa collezione, già in passato attribuita al Bellucci (cfr. U. Ruggeri, Opere giovanili di Simone Brentana, in “Studi Barocchi”, 2, 1982, p. 164, fig. 4), nonché l’Apoteosi di Adone e la Morte di Adone, sempre in collezione Querini Stampalia (R. Pallucchini, op. cit., figg. 1008, 1009), la Comunione di san Luigi Gonzaga del Santuario di Santa Maria delle Grazie ad Este e Venere con Adone morente in Palazzo Conti a Padova (vedi U. Ruggeri, Nuove opere di Federico Cervelli, in “Studi di Storia dell’Arte”, 12, 2001, figg. 11, 12) per la stessa tipologia di putto. Per gli analoghi richiami al “barocchetto vivo e frizzante, di tono già presettecentesco” che Pallucchini sottolineava riguardo alle tele della raccolta Querini Stampalia, alle quali la nostra tela è molto vicina anche stilisticamente, e per le

influenza al contempo derivate dall’opera di Pietro Liberi, Ruggeri data il dipinto in esame ad un periodo tardo dell’attività del Cervelli, quando egli cominciò ad interessare il giovane Sebastiano Ricci, suo scolaro prima del trasferimento in Emilia e a Roma, che certo anche attraverso di lui si staccò dal clima dei ‘tenebrosi’ allora in auge a Venezia. Per lo stile estremamente accattivante, assai dinamico e sensuale, connotato da un naturalismo estremamente intenso, Pallucchini lo aveva definito “un Liberi più mosso e capriccioso, con effetti di chiaroscuro pittorico più vivace”; lo studioso aveva inoltre notato come nelle sue tarde realizzazioni di maggior qualità “lo pseudoclassicismo alla Liberi è rinsanguato dal naturalismo giordanesco, ma con una vivacità che tiene al Mazzoni”. Come nella serie veneziana, infatti, anche in questo caso il pittore (probabilmente sulla scia di echi poussiniani che si riflettono sul classicismo dei suoi soggetti mitologici) si va emancipando dalla dipendenza dal Liberi per un movimento nuovo e un tremolio della pennellata sciolta che gli fecero guadagnare la definizione di “Sebastiano Ricci ante litteram” da parte di Pallucchini e l’appellativo di “frivolo” da parte di Fiocco.





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GIOVANNI ANTONIO PELLEGRINI Venezia 1675 -1741

CARITÀ ROMANA olio su tela, cm 71x86 € 140.000-180.000

Come da consolidata tradizione iconografica, la Carità romana viene raffigurata come una giovane donna che offre il suo seno per nutrire un vecchio; per il suo contenuto allusivo ad una virtù morale e per l’intrigante caratterizzazione a cui si presta la raffigurazione di una giovane donna col seno scoperto accanto ad un vecchio, questa immagine ha ottenuto grande successo, soprattutto nel Seicento e nel primo Settecento. Giovanni Antonio Pellegrini, cui è possibile ricondurre la tela in oggetto (Bettagno 1998), affronta più volte questo tema, riportandolo ad un formato e ad un taglio compositivo sul primo piano che gli sono consueti, come pure le stesse tipologie delle figure connotate, soprattutto quelle femminili che richiamano le eroine e le effigiate di molte altre sue tele, da una carica notevole di sensualità. Rispetto alle altre versioni note (si veda, ad esempio, le due messe all'incanto presso San Marco Casa d'Aste nel marzo 2008, lotto 130, e nel luglio dello stesso anno, lotto 19) la tela che qui si presenta, come nota Bettagno, “rivela ancora un senso formale risentito specie nella figura del vecchio protagonista, e a motivo soprattutto di una intensa intonazione chiaroscurale. Tuttavia anche qui la materia cromatica talvolta si alleggerisce diventando vaporosa, come nella resa del volto incorniciato da barba e capelli canuti o nella definizione più sciolta del personaggio femminile”.

Ascrivibile al periodo inglese del pittore, la tela mostra infatti elementi tipici del fare pittorico maturo del Pellegrini come la qualità chiarissima e luminosissima del colore, quasi da pastello, in linea con le realizzazioni messe a segno durante gli anni trascorsi in Inghilterra (1708-13) e in Germania, nel secondo e nel terzo decennio del secolo. Durante la permanenza in Inghilterra egli realizzò opere importanti in almeno due grandi residenze di campagna, a Castle Kimbolton nello Huntingdonshire, in tre prestigiose case londinesi dell’epoca, Burlington House a Piccadilly, Montagu House in Arlington Street e Portland House in St. James Square, ma eseguì anche molte altre opere minori da ‘cavalletto’. Fra queste il Ritratto delle sorelle Howard nella collezione omonima, la Magnanimità di Scipione del Kunsthistorisches Museum di Vienna, Jefte viene accolto dalla figlia al ritorno dalla battaglia in collezione Denis Mahon, tutti dipinti eseguiti, come il nostro, nel tipico ‘stile inglese’ del Pellegrini, cioè con un impianto scenografico ormai aderente alla poetica del rococò per l’armoniosa e languida contrapposizione delle figure che hanno superato la drammaticità del barocco, risolvendosi nella dolcezza di un racconto esaltata da delicate tonalità cromatiche. Bibliografia: A. Bettagno, Antonio Pellegrini. Il maestro veneto del Rococò alle corti d’Europa, catalogo della mostra, Venezia 1998, pp. 145-145, cat. 19



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JACOPO AMIGONI Venezia 1682/85 – Madrid 1752

ADORAZIONE DEI MAGI olio su tela, cm 94x130 € 50.000-70.000

La gradevolissima tela proposta è agevolmente riconducibile al pittore veneziano Amigoni, a lungo attivo in Baviera, in Inghilterra e in Spagna, dove giunse come “pintor de camera” presso a corte di re Ferdinando VI e dove raffinò la propria arte sui gusti delle più alte committenze, come mostrano le sue elegantissime opere a soggetto mitologico o storico le cui sensuali eroine o divinità femminili si svelano in tutta la loro bellezza. Questo tipo di produzione non fu mai abbandonata dal pittore neppure quando, durante il soggiorno veneziano fra il 1739 e il 1747, elabora le più importanti opere a carattere religioso e dipinge soggetti biblici, producendo ad esempio una decina di tele per il mercante tedesco Sigmund Streit, una parte delle quali è ora agli Staatliche Museen di Berlino. A questa produzione si rifà la nostra tela che mostra nel colore, nelle fisionomie dei personaggi e nella struttura compositiva ancora balestriana straordinarie coincidenze con il dipinto di analogo soggetto conservato alla Bayerische Staatgemaldesammlungen di Monaco e proveniente, dopo vari passaggi, dal convento di Weihemsthepan a Freising, dove è documentato agli inizi dell’Ottocento. Il dipinto ora a Monaco risale indubbiamente al soggiorno bavarese dell’Amigoni, che si colloca tra il 1715-16 e il 1728. Come notato da Pedrocco, che pubblicò il dipinto nell’ambito di un più vasto studio sui pittori figurativi veneziani fra Sei e Settecento, il dipinto tedesco, ed ugualmente quello che qui si presenta, vanno riferiti agli inizi di tale soggiorno per “la qualità della pittura, dove non pare ancora completamente compiuto il percorso verso lo straordinario e raffinatissimo decorativismo che caratterizzerà la produzione matura di Jacopo”. Bibliografia: F. Pedrocco, Dipinti di pittori veneziani di figura tra Sei e Settecento, in “Fimantiquari. Arte Viva”, nn. 12-13, 1997, p. 61, fig. 7



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GIUSEPPE BAZZANI Mantova 1690 – 1769

CRISTO PIANTO DAGLI ANGELI olio su tela, cm 110x63 € 60.000-80.000

Nell’ambito della sua feconda produzione, diretta in larga parte a chiese e conventi, il Bazzani ha trattato spesse volte il tema del Cristo deposto dalla croce, nelle varianti della Pietà e della Deposizione nel sepolcro, di cui quattro esempi ne offre solo il Museo Diocesano di Mantova ed una nota Deposizione è oggi conservata a Lipsia. Fra quelle del Museo Diocesano esemplare è la Deposizione proveniente dal Duomo di Mantova, dipinto di notevole forza drammatica che costituisce il prototipo di una serie di posteriori variazioni sullo stesso tema; databile tra il quinto decennio del Settecento, tra la pala di Goito, la sua prima opera documentata del 1739, e le tele di Santa Maria della Carità, il dipinto evoca analoghe soluzioni stilistiche da Rubens al Veronese, al Fetti mentre il modello della composizione sviluppata in diagonale, secondo un ritmo ascendente, appare chiaramente riferibile, pur con delle varianti, ad una tavola di Anton Van Dyck, datata 1634 e conservata all'Alte Pinakothek di Monaco, probabilmente nota al Bazzani da un'incisione, come dimostrerebbe il rovesciamento dell'opera mantovana rispetto al prototipo fiammingo. A questi modelli si rifà il nostro Cristo deposto il cui il corpo, ugualmente qualificato dalle carni sfatte e dalle linee spezzate degli arti esanimi, appare in tutta l’evidenza della morte ed è investito dalla luce, di cui nel cielo è indicata la fonte nei due cherubini dalle chiome bionde e ricciute, in alto al centro. Un luminismo drammatico, favorito anche dall'utilizzo della cenere nella preparazione dell'impasto pittorico che consentiva l'oscuramento delle tinte cromatiche, concorre alla volontà di disgregazione della materia e mette in evidenza il torace scarno del Redentore appena deposto dalla croce e adagiato sul sudario, ritratto in posizione non molto dissimile dal Cristo

della Deposizione di Mantova, opera di cui, come ipotizzò Caroli, la nostra tela poteva essere “una specie di prova generale”. Come sottolinea lo stesso studioso, nel caso del dipinto qui presentato, si tratta di “una stupenda invenzione bazzaniana” da situare in anni relativamente giovanili: il riassunto quasi geometrizzato della forma e il progressivo schiarimento della tavolozza spingono ad una datazione in prossimità della pala di Goito del 1739, probabilmente con un leggero anticipo su di essa. Opera tipica, dunque, di Giuseppe Bazzani, allievo del parmigiano Giovanni Canti, dal 1767 direttore dell'Accademia di Belle Arti di Mantova e uno dei più genuini interpreti del locale rococò, la nostra tela si pone cronologicamente vicino ad opere come il Battesimo di Gesù nella parrocchiale di San Giovanni del Dosso, presso Mantova, già ultimato nel 1737, e al San Giuseppe della parrocchiale di Vasto di Goito, di poco antecedente al 1736; con esse, condivide infatti gli influssi dal Balestra, dal Fetti, da Van Dyck e da Rubens (“distillato e paganizzato, adorato nei putti rubicondi e piumacchiosi, nella generosità del recitativo, nella luce bionda e frollata, perfino nelle sensualità già tutte settecentesche…”), nonché la cifra stilistica caratterizzata da un simile uso della luce che corrode i piani scabri, gli effetti plastici essenziali e una fattura rapida. Sono tutti elementi, questi ultimi, che suggeriscono la misura dell'influenza che il Bazzani dovette esercitare sul Guardi e la pittura veneziana del Settecento, nonché sul Maulpertsch e il viennese Benesch. Bibliografia: F. Caroli, Giuseppe Bazzani. L’opera completa, Milano 1988, p. 90, n. 74



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GIUSEPPE MARIA CRESPI Bologna 1665 - 1747

ALCUNI AMORINI DERUBANO E DERIDONO LE NINFE DORMIENTI olio su tela, cm 68,5x155 € 250.000-350.000

Il dipinto è noto in letteratura per essere stato pubblicato nella monografia sul pittore bolognese di Mira Pajes Merriman che, ammettendo con correttezza di conoscere la tela da una sola fotografia, lo riferiva ad un momento prossimo al 1730 e lo inseriva nel catalogo delle opere autografe del Crespi “con riserva”, riserva che avrebbe potuto sciogliere solo esaminando de visu il dipinto. La certa attribuzione al pittore bolognese venne di recente confermata dall’autorità di Carlo Volpe, Francesco Arcangeli e Filippo Pedrocco, studiosi che si premurarono di chiarire come l’incertezza espressa dalla Pajes Merriman si scontrasse con la qualità eccellente della pittura, tipica della fase matura della produzione del Crespi e che quindi l’opera si inserisse perfettamente nel nutrito gruppo, già individuato dallo Gnudi nel 1935, costituito dalle molte versioni sul tema dei giochi e degli scherzi tra amorini e ninfe prodotte dal pittore nel corso della sua lunga attività, a partire dalla fine del Seicento fino al 1730 circa. Tra queste varianti sullo stesso tema l’opera più celebre è forse il rame raffigurante Amorini e ninfe dormienti conservato alla National Gallery di Washington, già in collezione Contini Bonacossi e poi Kress, che in letteratura è noto per essere il pendant di Alcuni amorini dormienti disarmati dalle ninfe del Museo Puskin di Mosca. Secondo la testimonianza dello Zanotti (Storia dell’Accademia Clementina, 1739), che li descrive come “Amore disarmato dalle ninfe di Diana e le ninfe stesse che fanno scherni ad Amore”, si tratta dei dipinti inviati dal pittore bolognese ad un nobiluomo inglese, Milord Cucc;

tuttavia, come nota giustamente la Pajes Merriman, i due rami non raffigurano esattamente i soggetti indicati dallo Zanotti, non sono perfettamente uguali per dimensioni e, soprattutto, sembrano databili a momenti diversi visto che è possibile riferire all’incirca al 1730 quello di Mosca e alla fine del Seicento quello di Washington. Arcangeli e Volpe sospettano allora che l’opera destinata al gentiluomo inglese Cucc possa essere la tela in oggetto che, comunque, proprio con quest’ultimo rame giovanile mostra numerose consonanze stilistiche ed iconografiche. Crespi ne riprende, infatti, la struttura compositiva, modificandola però in molti particolari, nel numero delle figure delle ninfe dormienti e degli amorini alati, nella minore ampiezza conferita allo sfondo paesaggistico e nella presenza di un inserto di natura morta di selvaggina in basso al centro, al posto del cane che invece appare nel rame della National Gallery di Washington, e che riprende quella dipinta nel Cacciatore della Pinacoteca di Bologna, risalente al 1730 circa. Si tratta dunque, di un’opera in cui il pittore ha recuperato un’idea giovanile, modificandola però in modo sostanziale, rendendo questo dipinto indipendente e del tutto originale rispetto a quello americano. Nonostante Volpe avesse confermato la datazione già proposta per il rame Kress fra il 1695 e il 1700 Arcangeli propende per una datazione “assai più tarda” rispetto al rame, verso il 172530: il primitivo modello sembra infatti stato condotto “ad un esito più vastamente orchestrato e patetico” e “alla fattura florida e ‘modellata’, tipicamente giovanile del rame, s’è qui sostituita una più semplice e sobria stesura, una tavolozza di affascinante pallore che da al sonno delle ninfe un rilassamento più grave, abbandonato”. Bibliografia: M. Pajes Merriman, Giuseppe Maria Crespi, Milano 1980, n. 174





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GIUSEPPE NOGARI Venezia 1699 – 1763

SANTO VESCOVO SCRIVENTE olio su tela, cm 74x56 € 30.000-40.000

“Opera bellissima di Giuseppe Nogari”, come ebbe a dire Egidio Martini (comunicazione scritta), la tela in esame fu approfonditamente studiata anche da Dario Succi (comunicazione scritta), che ne rileva l’impronta piazzettesca coniugata ad una tipologia neerlandese. Il pittore predilesse sempre le teste ‘di carattere’ nelle quali, come sottolineò nel 1736 il conte Tessin, consigliere artistico di Cristina di Svezia, si dimostrò “veramente ammirevole, scrupoloso, imitando la Natura come un fiammingo”. Fu infatti noto essenzialmente per le eleganti e realistiche mezze figure di popolani, spesso ispirate ai modelli di Rembrandt, in omaggio ad una moda particolarmente diffusa a Venezia agli inizi degli anni Quaranta, cui avevano aderito, fra gli altri, Giambattista Piazzetta, Giambattista Tiepolo e Bartolomeo Nazari. Anche in questo caso la conoscenza delle stampe di Rembrandt da parte di Nogari trapela dall’espressività del ritrattato, un anziano vescovo identificabile per la mitra che compare alle sue spalle e raffigurato con grande pathos emotivo mentre si attinge a scrivere le pagine di un volume. Databile alla prima metà del quinto decennio del Settecento, lo caratterizza una pittura a tonalità calde, impreziosita da grande sottigliezza di passaggi e sfumature rese con una pennellata morbida che conferisce alla materia la consistenza del pastello. Simili espedienti stilistici si riscontrano nella tela raffigurante San Pietro della Gemäldegalerie di Dresda, acquistata da Algarotti a Venezia per conto di Augusto III.



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GIUSEPPE NOGARI Venezia 1699 - 1763

TESTA DI UOMO BARBATO olio su tela, cm 49,2x38 € 15.000-20.000

L’attribuzione del dipinto al veneziano Giuseppe Nogari è stata proposta da Ugo Ruggeri (comunicazione scritta) che ne rileva stringenti affinità morfologiche e di stile con sue analoghe ‘teste di carattere’ quali l’Uomo anziano con libro del Nationamuseum di Stoccolma e l’Avaro della Gemäldegalerie di Dresda (cfr. R. Pallucchini, La pittura nel Veneto. Il Settecento, I, Milano 1995, fig. 941, 949), e ancora con un Ritratto di uomo con pipa apparso in un’asta Finarte (Milano, 21 aprile 1988, l. 18) e con due simili Busti virili del Museo Nazionale di Pisa curiosamente attribuiti a Ribera. L’opera si inserisce nella produzione di “teste di genere” di derivazione rembrandtiana, un genere pittorico, questo, che ebbe enorme successo nella Venezia del Settecento, contando tra i suoi principali interpreti, oltre al Nogari, artisti del calibro del Piazzetta e del bergamasco Bartolomeo Nazari e che trovò terreno fertile grazie alla diffusione delle incisioni del maestro olandese integralmente acquistate dal grande collezionista e conoscitore Anton Maria Zanetti il Vecchio durante il suo viaggio nei Paesi Bassi. “Si tratta di un dipinto di qualità assai fine”, datato da Ruggeri alla piena maturità dell’artista, presumibilmente nel quinto o nel sesto decennio del Settecento.



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GIUSEPPE NOGARI Venezia 1699 - 1763

GIUNONE olio su tela, cm 97x79 € 40.000-60.000

La gradevolissima tela in oggetto raffigura Giunone, regina degli dei, come una giovane fanciulla dal capo coronato, con lo scettro regale nella mano sinistra e appoggiata ad uno sprone roccioso. Con la destra sorregge un occhio, allusione ad uno dei cento occhi di Argo, il gigante da lei messo a guardia di Io, la fanciulla amata da Giove e da lui trasformata in giovenca per nasconderla dall’ira della moglie tradita. Gli occhi di Argo, ucciso da Mercurio per liberare la giovinetta, verranno utilizzati da Giunone per adornare la coda del suo uccello preferito, il pavone, che qui compare a destra sullo sfondo. La cintola che le cinge la vita, invece, è quella che le era stata prestata da Venere per attirare a se lo sposo notoriamente poco fedele. L’opera è stata ricondotta da Egidio Martini (comunicazione scritta) al catalogo di Giuseppe Nogari, pittore che pur dipinse anche numerose pale d’altare e opere di carattere storico e allegorico ma la cui notorietà è sostanzialmente affidata alla sua numerosissima produzione di “teste di soggetto” di deriva-

zione rembrandtiana, un genere pittorico, questo, che ebbe enorme successo nella Venezia del Settecento, trovando tra i suoi principali interpreti, oltre al Nogari, artisti del calibro del Piazzetta e di Giambattista e Giandomenico Tiepolo. Alla serie assai copiosa di queste opere dipinte dal Nogari si deve indubbiamente aggiungere questa veristica immagine di dea il cui fare sfatto e delicato ricorda i modi dell’Amigoni, pittore al quale certamente Nogari avrà guardato. A sostegno dell’attribuzione, le consonanze con altre opere certe del pittore quali l’Innocenza della Pinacoteca dei Concordi di Rovigo (inv. n. 370), l’Allegoria della Musica già in collezione Rovelli (riprodotta in E. Martini, Pittura del Settecento veneto, Udine 1982, fig. 721) e le due Allegorie della Villa Pisani a Stra, nonché le quattro del Museo di Berlino (cfr. E. Martini, op. cit., figg. 718, 719), tutte opere databili all’ultimo periodo di Nogari.



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GIAMBETTINO CIGNAROLI Verona 1706 – 1770

SACRIFICIO DI ISACCO olio su tela, cm 124x99 € 80.000 - 120.000

La restituzione di questa “opera splendida” a Giambettino Cignaroli si deve ad Egidio Martini, la cui giusta intuizione venne in seguito confermata al proprietario anche da George Knox (comunicazioni scritte). Entrambi gli studiosi sottolineano come la tela, per il soggetto rappresentato, il movimento e la maestria nel chiaroscuro, possa essere ben confrontata con il Martirio di san Mattia conservato nella Cappella Colleoni a Bergamo, opera risalente al 1745 e, rispetto alla nostra tela, di minor lucentezza e delicatezza di tinte. Proprio la tavolozza chiara e luminosa contribuisce, inoltre, a far perdere al tema biblico quasi ogni aspetto di drammaticità “per esprimerne uno più sereno creato dalla bellezza formale, che tocca il suo punto più alto nell’alata e splendida figura dell’angelo”. L’intervento del messo divino con le ali spiegate a fermare Abramo, trattenendogli la mano armata di coltello e ad indicare l’ariete quale vittima sacrificale, si manifesta nell’imminenza dell’estremo gesto che il vecchio padre sta per compiere sul figlio Isacco, adagiato su di un improvvisato altare sacrificale in pietra. Il groviglio dei corpi, disposti in una composizione di andamento piramidale, è animato dal sapiente gioco di sguardi fra i tre protagonisti della scena (Isacco rivolge gli occhi sbarrati di paura al patriarca che, a sua volta, si volge a guardare l’angelo), sottolineato dal gesticolare contrastante delle mani, salvifica quella dell’angelo, assassina quella di Abramo. Come nota Martini, “il pittore dipinge in pieno tutte le sue

migliori qualità compositive, e dove la modellazione dei corpi, pulita e ben definita, ha una purezza formale straordinaria, emanante nobiltà e una forte carica spirituale”. Proprio per queste sue qualità stilistiche, Cignaroli rappresenta una delle personalità più interessanti nell’ambito della cultura figurativa veronese del secondo Settecento, spiccando tra i pittori della sua generazione per la fama di cui godette presso i contemporanei e presso i critici della generazione successiva: l’imperatore Giuseppe I, in visita a Verona nel 1769, lo definì “il miglior pittore d’Europa”, mentre il Lanzi lo diceva “dotto pittore”, indicandone in tal modo l’orientamento accademico e classicistico, di un classicismo consapevole e colto che ne fece, sulla scia del suo maestro Balestra, un parallelo veronese di Carlo Maratta. Dal punto di vista formale, tuttavia, se la nostra tela mostra un classicismo di fondo che le infonde grazia e compostezza, risulta rinnovata da una leggerezza di tocco e da una libertà compositiva pienamente settecentesca che, accompagnata da una ricchezza di colore che richiama quella di Tiepolo e Piazzetta con cui Cignaroli fu in contatto negli anni del soggiorno nella Serenissima, la pone pienamente in linea con la grande tradizione decorativa veneta. E’ probabile che il disegno di analogo soggetto di Giambettino Cignaroli in uno dei tre album conservati all’Ambrosiana di Milano possa essere preparatorio per questo dipinto.



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ANTONIO DIZIANI Venezia 1737 – Venezia 1797

PAESAGGIO CON PONTE SUL FIUME E UN PAESE ARROCCATO olio su tela, cm 94x133

PAESAGGIO BOSCHIVO CON RUSCELLO E VIANDANTI olio su tela, cm 94x133 € 40.000-60.000

La coppia di paesaggi presentata è agevolmente riconducibile alla mano di Antonio Diziani, detto lo Zoppo, seguace dei modi di Marco Ricci e Giuseppe Zais, oltre che del padre Gaspare. La sua opera, risultato di molte esperienze, risulta qui suggestionata, in special modo, dalla maniera di Pietro Mulier, anche noto come Cavalier Tempesta, l’olandese celebre per i suoi paesaggi improntati ad un pacato classicismo cui non è estranea l’influenza del francese Gaspard Dughet. Soprattutto l’impostazione spaziale estremamente slargata del secondo paesaggio, caratterizzato dalla presenza del paesetto arroccato sullo sprone roccioso che domina sulla vallata attraversata da un ponte di pietra sul ruscello, ripete la tipologia di numerosi altre simili immagini unanimemente ammesse dalla critica


“Un colore caldo e piacevole e una esecuzione spontanea”, a cui Martini tuttavia rimproverava una troppa insistenza descrittiva dei particolari che lo spinge a delineare ogni singola foglia e filo d’erba, sono elementi riscontrabili nei nostri dipinti ed unitamente, a sostegno dell’attribuzione, in altre opere certe come il Paesaggio del Museo Civico di Padova, nel quale ritornano simili i motivi degli alberi, la conduzione delle macchiette e una analoga concezione della natura quasi romantica secondo una sorta di presentimento del gusto ottocentesco.


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JOHANN ANTON EISMANN Salisburgo 1613/1622 – Venezia 1700 c.a

VEDUTA MARINA CON PORTO FORTIFICATO E GALEONI ALL'APPRODO olio su tela, cm 98x150 € 25.000-35.000

La piacevole veduta di porto presentata può con ogni probabilità essere ricondotta a Johan Anton Eismann, maestro austriaco eclettico e di viva originalità, attivo a Venezia dagli anni Sessanta del XVIII secolo ma formatosi a Roma accanto a Michelangelo Cerquozzi, Salvator Rosa e, soprattutto, il Borgognone, celebre “battaglista” dal quale Eismann desunse il gusto impaginativo e la generale animazione figurativa, assieme ad alcune costanti espressive. La tela, per la quale può essere istituito un utile raffronto con la veduta di porto conservata presso i Musei Civici di Padova (inv. 964), è un esempio delle vere e proprie ‘vedute ideate’ di porti frutto di realtà e ammirevole fantasia compositiva, secondo l’uso nordico, che resero celebre il pittore. In essa confluiscono elementi ambientali desunti dai pittori neerlandesi italianizzati come Breenbergh e Poelemburg, altri tesi a vitalizzare in senso popolaresco la macchietta ispirata ai Bamboccianti, infine la visione dei vascelli secondo l’uso fiammingo. Con un grande spirito di osservazione è narrata la vita del porto dal gusto ‘esotico’, ove si affaccendano numerose figurine vestite alla turca, alcune sulla riva, altre sulle imbarcazioni. Caratteristica l’impronta cromatico-luministica e il pittoricismo fluido e prevalentemente bruno, ma animato da vivi inserti cromatici più chiari e accesi e da sintetici tocchi di luce.



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LUCA CARLEVARIJS Udine 1663 – Venezia 1730

VEDUTA DI UN PORTO olio su tela, cm 103x135 siglato sulla botte sinistra trasportata da uno dei cavalli: LC € 200.000-300.000

Come nota Giuliano Briganti (comunicazione scritta), si tratta di un’opera tipica di Luca Carlevarijs, la cui autografia è inconfutabilmente confermata anche dalla sigla LC, utilizzata dal pittore in svariate altre occasioni e che compare sulla botte sinistra trasportata da uno dei due cavalli, sulla destra alle spalle del gruppetto di tre figure virili con cane, che voltati si avviano verso il fondo. Lo studioso sottolinea che la bellissima tela appartiene a quel gruppo di vedute ideate che l’artista dipinse subito dopo le sue giovanili esperienze romane (1685-1690 c.a) sotto l’influenza dei pittori nordici italianizzati che andavano realizzando analoghi soggetti. Nonostante la critica non abbia ancora raggiunto una posizione unanimemente condivisa sul soggiorno romano del Carlevarijs, non sembra sufficiente, per spiegare l’evidenza con cui traspaiono nei suoi dipinti di invenzione i modelli della pittura paesaggistica romana, l’esistenza nelle collezioni private veneziane delle pur numerose opere di paesaggisti nordici o la presenza a Venezia di molti altri pittori di scuola nordica - e segnatamente Pieter Mulier detto il Cavalier Tempesta, Johann Anton Eismann e Gaspa van Wittel - che effettivamente contribuirono a far conoscere in tutta l’Italia settentrionale la concezione paesistica in voga a Roma. Se è noto che vedute ideate di questo tipo appartengono per lo più al periodo giovanile del pittore, è probabile che egli ritornò anche in anni più avanzati su tali tematiche alternando esempi di quella produzione ai più noti scorci veneziani che, dall’inizio del nuovo secolo, gli venivano continuamente richiesti anche da committenti stranieri. In entrambi i casi si tratta di opere realizzate in uno stile che risente del pittoricismo tipico della tradizione veneziana e se la resa delle architetture risulta sostanzialmente assai precisa, il loro sfumare spesso in una nebbia rosata che le avvolge e ne ammorbidisce i contorni, soprattutto negli sfondi, è un espediente di cui il friulano si avvale puntualmente anche nelle sue vedute di fantasia. Fra queste la nostra che, “di bellissima qualità” (Briganti), si avvicina molto per stile ai due paesaggi marini con porti

pubblicati nella monografia di Aldo Rizzi (Luca Carlevarijs, Venezia 1967, tavv. 75-77), ascritti giustamente ad un periodo maturo di Luca e ove, come nella nostra tela, si respira un’atmosfera tipicamente legata al mondo del Bamboccianti romani. Una maggiore luminosità complessiva e un gusto meno intenso e drammatico nella resa delle figure, qui colte evidentemente dal vero, per lo più impegnate nei lavori di carico e scarico delle merci che vengono trasportate a terra con delle barche dai vascelli alla fonda nel porto, suggeriscono una datazione più avanzata rispetto alle tele giovanili realizzate in un momento assai prossimo al presunto soggiorno nell’Urbe come, ad esempio, le note grandi vedute ideate del portego del palazzo dominicale ai Carmini realizzate fra il 1682 e il 1686 su commissione della nobile famiglia veneziana degli Zenobio, i suoi primi protettori veneziani. Nello specifico, circa la datazione della tela in oggetto, occorre sottolineare come gli elementi linguistici che la caratterizzano siano affini ad altre opere di simile soggetto degli inizi del Settecento, come il Paesaggio di mare in collezione Sorlini a Brescia (già collezione Ettore Viancini, Venezia; riprodotto in: F. Pedrocco (a cura di), Da Bellini a Tiepolo. La grande pittura veneta della Fondazione Sorlini, catalogo della mostra, Venezia 2005, pp. 80-81, cat. 22), databile alla metà del primo decennio del secolo, e la Marina con porto dell’Accademia Carrara di Bergamo, datata 1706. Strettissime sono infatti le analogie riscontrabili nella tipologia delle vivacissime ed brulicanti macchiette, alcune riprese da vicino sul primo piano, nella resa degli elementi paesaggistici segnati dalla costa rocciosa in penombra e dalla prospettiva della marina, nonché delle architetture che, soprattutto nel dipinto bergamasco, trovano precise corrispondenze nella veduta di città dominata da una antica torre merlata svettante contro il cielo vaporoso e rosato. Si tratta dunque di un’opera molto interessante, per la qualità pittorica e l’ottimo stato di conservazione, oltre che per la sicura autografia.





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FRANCESCO GUARDI Venezia 1712 – 1793

CANAL GRANDE CON SAN SIMON PICCOLO, SANTA LUCIA E LA CHIESA DEGLI SCALZI olio su tela, cm 59x94 € A RICHIESTA

Come confermato da Egidio Martini (comunicazione scritta), quella presentata è una preziosissima aggiunta al catalogo del veneziano Francesco Guardi, il maggiore fra i vedutisti attivi in Laguna nel Settecento. La tela raffigura il tratto finale del Canal Grande e lo sbocco della laguna verso Mestre con a sinistra la chiesa di San Simeone con l’annesso Palazzo Adoldo, a destra quelle di Santa Lucia e degli Scalzi e sul fondo Santa Chiara (l’attuale Piazzale Roma), uno dei luoghi più tranquilli ed intatti della città ai tempi del pittore, secondo un taglio compositivo ispirato alla relativa incisione del Marieschi pubblicata nella serie di ventuno vedute veneziane del 1741 e conservata al Museo Correr a Venezia. Quest’ultima incisione deriva dai due dipinti del Marieschi di analogo soggetto in collezione privata a Milano e al Philadelphia Museum of Art (inv. n. 22687; entrambi riprodotti in: R. Toledano, Michele Marieschi, l’opera completa, Milano 1988, cat. V.19.1, V.19.2) e riprende con esattezza, a sua volta, il taglio vedutistico di un’opera di Canaletto conservata nelle collezioni reali inglesi a Windsor Castle (vedi W.G. Constable, Canaletto, Oxford 1962, n. 258) ed incisa tra il 1731 e il 1735 da Visentini (I, XI). Come si può osservare, vari edifici già nel ristretto arco di tempo che si svolge fra l’invenzione canalettiana e la marieschiana hanno cambiato aspetto: la scalinata della chiesa di San Simeone Piccolo è stata completata nel 1738 da Giovanni Scalfarotto, a destra il Palazzo Rezzonico è sorto là dove c’erano tre case mentre, per fantasia, Marieschi aveva aggiunto le statue sul frontone di San Simeone. La chiesa di Santa Chiara, in fondo sulla destra, come tutte le case fino alla chiesa degli Scalzi (tra cui il Palazzo Rezzonico) sono state poi cancellate dal progetto dell’odierna stazione ferroviaria. Non v’è dubbio, tuttavia, che Francesco Guardi abbia ristudiato questa veduta ex-novo, indipendentemente dai suoi precursori, conferendole un’impronta del tutto personale; come nota Martini, la veduta “è interpretata con una diversa espressione e con altri valori spaziali, i quali infondono alla rappresentazione un maggior respiro e una maggiore spiritualità”. L’opera è collocata dallo studioso intorno al 1745, cioè in un momento giovanile dell’attività del pittore che Morassi definì “paracanalettiano” perché, attraverso uno studio attento della prospettiva e l’osservazioni dal vero, Francesco persegue attentamente le conquiste del vedutismo di Antonio Canal. Ma le varie vedute veneziane eseguite da Francesco in questo periodo sono liberamente interpretate, sia nella distribuzione delle architetture (pur fedeli all’iconografia della città), sia nell’invenzione e disposizione delle figurine e delle imbarcazioni, e segnano un passo più avanzato nell’affrancamento dai moduli canalettiani che, tuttavia, non avviene parallelamente al progredire dell’arte del Canal, bensì quasi a rimorchio della sua arte giovanile e della sua vedutistica ‘drammatica’ del 1722-28. Evidenti sono le consonanze con opere coeve come la Piazzetta dell’Accademia di Vienna e la Riva degli Schiavoni di

collezione svizzera (tratte da incisioni di Canaletto) e, ancora, la Veduta con il Canale di Cannaregio e San Geremia della Pinacoteca di Monaco di Baviera (cfr. A. Morassi, Guardi, Venezia 1973, figg. 384, 413, 551); si tratta di tele “che fanno gruppo a sé e che, pur presentandosi con una forma più costruita del solito, rivelano una fantasia vivissima e uno stile del tutto libero e personale, in questo caso ottenuto con un tocco di pennellata freschissimo, quasi impressionistico. Il tutto poi è concepito entro un’aria trasparente e limpida che avvolge e compenetra ogni cosa”, comprese le bellissime “macchiette” poste sulle barche e sulle rive che ravvivano con i loro sgargianti colori i toni prevalenti del verde profondo dell’acqua e dell’azzurro tenue e luminoso del cielo. Dello stesso soggetto esistono altre varianti più tarde di mano del pittore, tra cui quella in collezione Thyssen a Lugano e quella della Galleria dell’Accademia di Vienna (olio su tela, rispettivamente cm 48x78 e cm 63x90; riprodotte in A. Morassi, Guardi, Venezia 1993, I, cat. nn. 580, 584, II, figg. 553-554, 557), entrambe eseguite in pendant con due vedute del Canal Grande con Santa Lucia e gli Scalzi (conservate nelle stesse collezioni). Sia in queste vedute catalogate come opere del periodo maturo, tra il 1770 e il 1780, sia in altre simili (si veda, ad esempio, l’esemplare della Johson Collection di Filadelfia riprodotto in A. Morassi, op. cit., I, cat. 579, II, fig. 552) manca però, a destra, la chiesa degli Scalzi; questo significa che lo scorcio qui in esame rappresenta un prezioso ‘unicum’ assai raro nella produzione di Francesco. Come è noto, infatti, Guardi aveva diverse volte ‘ritrattato’ la chiesa degli Scalzi ma riprendendo la sola riva destra del Canale, come nella tremula veduta della Galleria Agnew di Londra che comprende anche gli edifici del Canale dietro ai quali si addentra la Lista di Spagna ed è costituita da una quinta all’estrema destra, formata da una fetta verticale sottilissima di casa in ombra e dalla pavimentazione delle fondamenta della riva di San Simeone. Esiste un disegno in collezione Bührle a Zurigo (penna, acquerellato in seppia, mm 375x625; riprodotto in: A. Morassi, op. cit., III, cat. 385, figg. 386-387) che, per il punto di vista leggermente più distanziato rispetto alla tela in esame, così da abbracciare oltre alla chiesa degli Scalzi anche altri brevi tratti delle fondamenta, costituisce un interessante parallelo per il nostro dipinto. Si tratta di un disegno preparatorio per una incisione, come si evince dalla resa minuziosa e particolareggiata della veduta, e fa parte della serie di fogli che comprende la Piazza San Marco con Basilica e Campanile (New York, collezione privata), il Ponte di Rialto con la Riva del Vin (Epinal, Musée Départemental del Vosges) e San Giorgio Maggiore con la Giudecca e la chiesa delle Zitelle (Venezia, Fondazione Cini), tutti ugualmente destinati ad essere incisi.





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GIUSEPPE BERNARDINO BISON Palmanova 1762 - Milano 1844

PAESAGGIO FLUVIALE CON ALBERI, PIRAMIDE E FIGURE olio su tela, cm 86x114 € 100.000-120.000

Come confermato da Dario Succi (comunicazione scritta), quello presentato è un dipinto tipico di Giuseppe Bernardino Bison, pittore allievo a Brescia di Gerolamo Romani e del prospettico Saverio Gandini e certamente più noto per l’intensa attività di decoratore svolta a Venezia sotto la guida del maestro Antonio Mauro, a Padova, nel Trevigiano, ma soprattutto a Trieste e a Milano, città nelle quali trascorse gli ultimi quarantacinque anni della sua vita, occupandosi intensamente anche di scenografia teatrale. Nonostante sia vissuto per la maggior parte nell’Ottocento, sia per formazione che per spirito Bison è da considerarsi un artista pienamente settecentesco perché se nel campo della grande decorazione d’interni egli guarda, attraverso l’insegnamento di Costantino Cedini, a Giambattista Tiepolo, in quello della veduta e del paesaggio i suoi modelli restano essenzialmente i grandi maestri del Settecento, da Canaletto, a Marco Ricci, allo Zais e a Zuccarelli. Proprio i temi tipici del modo bucolico e pastorale di quest’ultimo vengono riecheggiati dal Bison nel dipinto che qui si presenta: la fresca sponda del fiume, gli alberi frondosi che fanno da quinta scenica, sulla destra, le lavandaie, gli armenti al guado. Secondo Succi, questa particolare adesione ai repertori dell’artista toscano, filtrata attraverso una compostezza di gusto neoclassico percettibile nel gruppo in primo piano, consente di collocare la tela nella fase veneziana del pittore, e più precisamente nell’ultimo decennio del Settecento, quando più forte era la suggestione dei modelli sopracitati. La disinvolta impostazione prospettica e il senso della spazialità atmosferica conferito dal graduale attenuarsi dei colori giocati, come era solito fare, sulle tipiche tonalità rosate, verdi e azzurrine, conferiscono alla tela un fascino tutto particolare, esaltato anche dal paesaggio trascolorante sul fondo, dal “tessuto materico nervoso e liquido” e dalla “morbidezza cromatica che ne rappresenta la sigla stilistica peculiare ed inconfondibile”. Bibliografia: Il Moncello, n. 63, pp. 155-157, fig. 18



INDICE ARTISTI

N

A ALBANI FRANCESCO AMIGONI JACOPO

30 45

NOGARI GIUSEPPE

48, 49, 50

P B BARBAGELATA GIOVANNI BAZZANI GIUSEPPE BELVEDERE ANDREA BEMBO BONIFACIO (bottega) BICCI DI LORENZO (attr.) BISON BERNARDINO GIUSEPPE BISSOLO FRANCESCO

21 46 16 25 18 56 22

C CALZA ANTONIO CARLEVARIJS LUCA CASTELLI GIOVANNI PAOLO DETTO SPADINO CERVELLI FEDERICO CICOGNARA ANTONIO CIGNAROLI GIAMBETTINO COLKETT SUSANNA VICTORIA CRESPI GIUSEPPE MARIA

40 54 14 43 24 51 1 47

32 23 52

E EISMANN JOHANN ANTON

53

F FRANCESCO RIZZO DA SANTACROCE FRANCESO DI ANTONIO DA ANCONA

29 19

G GESSI GIOVANNI FRANCESCO GIROLAMO GALIZZI DA SANTACROCE GUARDI FRANCESCO

31 28 55

J JACOPO DI ARCANGELO DI JACOPO DETTO JACOPO DEL SELLAIO

20

L LOTH JOHANN CARL

35, 36

M MARCHIONI ELISABETTA MELONI MARCO MULIER PIETRO DETTO IL CAVALIER TEMPESTA

13 27 38

44 9 19A 2, 3 15 7 33 26 39 8 12 4 10 5 11 6 42

S SPOLVERINI PIER ILARIO

D DANDINI CESARE (attr.) DEL PACCHIA GIROLAMO DIZIANI ANTONIO

PELLEGRINI GIOVANNI ANTONIO PITTORE CARAVAGGESCO ATTIVO NEL XVII SECOLO PITTORE CASTIGLIANO DELLA FINE DEL XV SECOLO PITTORE DEGLI INIZI DEL XIX SECOLO PITTORE DELLA CERCHIA DI BARTOLOMEO ARBOTORI PITTORE DELLA CERCHIA DI CLAUDE-JOSEPH VERNET PITTORE DELLA CERCHIA DI CLAUDIO RIDOLFI PITTORE DELLA CERCHIA DI GIOVANNI CANAVESIO PITTORE DELLA CERCHIA DI JAN DE MOMPER PITTORE DELLA CERCHIA DI NICOLAS POUSSIN PITTORE DELLA SCUOLA DI GIUSEPPE ARCIMBOLDO PITTORE GENOVESE DEL XVII SECOLO PITTORE LOMBARDO DEL XVIII SECOLO PITTORE TOSCANO DEL XVII SECOLO PITTORE TOSCANO DEL XVIII SECOLO PITTORE VENETO DEL XVIII SECOLO PORTA TOMMASO

41

V VAN DER HAMEN Y LEON VECCHIA PIETRO VOLPATO GIAMBATTISTA

17 34 37


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I hareby confirm to have received, read and approved the information of article 13 of tha Italian Legislative Decree 196/03 on Data Protection, I hereby also consent to the use and disclosure of my personal data, for the purposes of articles 23 and 43 of the Italian Legislative Decree 196/2003, by San Marco Casa d’Aste S.p.a. including abroad, on the terms set out in the above-mentioned information.

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I hereby expressly approve for the purposes af article 1341, II comma of the Italian Civil Code, the following clauses of the General conditions of sale: 2, 4, 6, 7, 8, 9,10, 11, 12, 13, 14, 15, 16. I hereby also expressly approve, for the purposes of the above mentioned article 1341, II comma of the Italian Civil Code, the terms and conditions of the General informations for prospective buyers and for sellers.

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